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Chiaramonte Salvatore - IL CONFLITTO D`INTERESSI

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Chiaramonte Salvatore - IL CONFLITTO D`INTERESSI
VIII CONGRESSO GIURIDICO-FORENSE PER
L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE
ROMA 14-16 MARZO 2013
SESSIONE DI DEONTOLOGIA
IL CONFLITTO D'INTERESSI
L’espressione “conflitto d’interessi” riportata nel nostro codice deontologico, è
mutuata dal diritto privato, nel quale il concetto di conflitto si identifica in una
situazione di netto contrasto tra due distinti interessi, nella quale la tutela di una
delle posizioni contrapposte, rischia di compromettere le ragioni dell''altra o,
comunque, diventa incompatibile con la tutela di quest'ultime.
In altri termini, la locuzione vale ad indicare la contitolarità di posizioni giuridiche
perseguenti interessi in contrasto tra loro, inevitabilmente destinate a suscitare
situazioni di conflitto, la cui prevenzione integra un obiettivo generale
dell’ordinamento, cui non si può sottrarre nemmeno la professione forense.
E nell’ambito dell’ordinamento professionale italiano, il “conflitto di interessi”
trova la sua più specifica regolamentazione nell’art. 37 del Codice Deontologico
Forense, il quale enunciando un principio immanente nell’ambito dell’esercizio
di qualsiasi attività professionale fondata su rapporti di fiducia e riservatezza,
così recita:
“L’avvocato ha l’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando
questa determini un conflitto con gli interessi di un proprio assistito o interferisca
con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale.
I.Sussiste conflitto di interessi anche nel caso in cui l’espletamento di un nuovo
mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altro
assistito, ovvero quando la conoscenza degli affari di una parte possa
avvantaggiare ingiustamente un altro assistito, ovvero quando lo svolgimento di
un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento di
un nuovo incarico.
II.L’obbligo di astensione opera altresì se le parti aventi interessi confliggenti si
rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o
associazione professionale o che esercitino negli stessi locali”.
1
La norma deontologica considerata mira, dunque, a tutelare l’indipendenza e
l’imparzialità della funzione difensiva e, quindi, ad assicurare che il mandato
professionale sia svolto in assoluta libertà ed indipendenza da ogni vincolo,
nonché a garantire che il rapporto fiduciario, che deve sussistere tra il cliente e
l’avvocato ed il connesso vincolo di riservatezza che concerne le notizie
apprese dal cliente nell’espletamento del mandato, non siano in alcun modo
incrinati da altri incarichi assunti dal professionista (cfr., per tutte: C.N.F. 21
settembre 2007, n. 111).
Da una prima lettura della disposizione, si percepisce come in effetti la
disciplina del conflitto di interessi valorizzi principi deontologici disciplinati dallo
stesso corpus normativo.
Ci si riferisce, in particolare, ai più generali doveri di lealtà e correttezza (art. 6),
di fedeltà (art. 7) di segretezza e riservatezza (art. 9), nonché al fondamento dei
rapporti che devono sussistere con la parte assistita e con controparte
improntati sulla fiducia (art. 35) e sul divieto di assumere incarichi contro ex
clienti (art. 51). Mette appena conto segnalare a tal uopo come il contenuto del
canone
I
dell’art.
51
(secondo
cui:
“L’avvocato
che
abbia
assistito
congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve astenersi dal prestare, in
favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i
medesimi”), prima della delibera del Consiglio nazionale forense del
27.01.2006, fosse riportato all'interno del canone II dell’art. 37, nella sua
originaria formulazione.
E tale richiamata compenetrazione di regole e principi che contraddistinguono
l’art. 37, refluisce di certo sulla difficoltà di delimitare la portata della norma.
L'approccio con la citata disposizione deontologica, non può assolutamente
prescindere, intanto, da un approfondimento esegetico sulla natura del conflitto
medesimo.
Se, infatti, appare scontata la violazione dell’art. 37 nell’ipotesi dell’avvocato che
assuma la difesa di due soggetti portatori di interessi confliggenti, non
altrettanto può dirsi qualora il conflitto di interessi rilevi, non già in concreto, ma
soltanto potenzialmente.
Sul punto, merita segnalazione l’originario orientamento giurisprudenziale
fissato dal Supremo Collegio, secondo cui, per dare luogo a responsabilità
disciplinare, il conflitto di interessi doveva rivelarsi categoricamente effettivo, di
2
guisa che, l’assunzione da parte dello stesso avvocato del patrocinio, in
procedimenti connessi, di due soggetti in conflitto di interessi solo potenziale,
non integrava di per sé responsabilità suscettibile di sanzione disciplinare
occorrendo, invece, che fosse stata accertata ed adeguatamente motivata,
l'esistenza e la verificazione, in concreto, di un conflitto tra le parti (Cass. Sez.
Unite, 15 ottobre 2002 n. 14619).
A distanza di qualche anno, tuttavia, le stesse Sezioni Unite lasciavano
trapelare un barlume di controtendenza, se è vero che, seppure sino ad allora
orientate, con riferimento al precetto base di cui all’art. 37 c.d.f., a dare rilievo al
conflitto di interessi solo se effettivo e non potenziale, con sentenza del 10
gennaio 2006, n. 134, evidenziavano come dal secondo canone dello stesso
articolo (versione ante modifica 27-1-2006) emergesse in modo chiaro che,
nell’ambito del diritto di famiglia, che costituisce “un settore particolare e
sensibile dell’ordinamento”, la norma “pone per l’avvocato un obbligo assoluto
di astensione, a prescindere se il conflitto è reale o solo potenziale”. Infatti –
soggiungeva - “in subiecta materia sono in gioco interessi alti, collegati alla
dignità della persona, che meritano il massimo della tutela possibile”, i quali
giustificano la conclusione che “nel contesto dell’art. 37, il principio contenente
l’obbligo assoluto di astensione” con riferimento alle controversie che attengono
al diritto di famiglia “si pone come speciale e prevalente rispetto a quello
contenuto nel comma 1, che non può trovare quindi applicazione. La
valutazione, nella materia del diritto di famiglia, è stata fatta una volta per tutte
dalla norma, per cui all’interprete compete solo l’accertamento del fatto che
costituisce il presupposto per quell’effetto”.
A distanza di cinque anni, poi la svolta e la consacrazione di una evidente
inversione di tendenza, allorchè le stesse Sezioni Unite, hanno affermato che
“l'art.37 mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza
dell'avvocato e, quindi, perchè si verifichi l'evento, è sufficiente che,
potenzialmente, l'opera del professionista possa essere condizionata da
rapporti d'interesse con la controparte” (Cass. Civ. SS.UU. 4-11-2011 n.2282).
Tale indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mostra così di
allinearsi finalmente a quello costantemente adottato dal Consiglio Nazionale
Forense, che da tempo aveva mostrato di optare per una interpretazione più
rigorosa della norma.
3
In particolare, il Consiglio Nazionale Forense, con la decisione n. 245 del 29
dicembre 2005, aveva affrontato una fattispecie nella quale le due parti
contrapposte erano assistite da avvocati coniugi. Il Consiglio, in tale occasione,
aveva avuto modo di manifestare l’ambito di applicabilità della norma,
specificando come la deontologia forense richieda all’avvocato di astenersi dal
prestare attività professionale allorché questa determini un conflitto,anche solo
potenziale, che possa ingenerare anche solo il sospetto per il cliente di non aver
avuta assicurata un’adeguata difesa.
Di più. Secondo il Consiglio Nazionale Forense, l’obbligo di astensione neppure
viene meno, ai fini della responsabilità disciplinare, nell’eventualità che l’incarico
sia stato affidato all’avvocato d’ufficio e che l’assistito abbia o meno contezza
della esistenza della situazione di conflitto.
D'altra parte, s’è detto che la funzione della regola deontologica di cui all’articolo
37 c.d.f. , che impone al professionista di non assumere l’assistenza di parti
portatrici di interessi contrastanti, è quella di evitare che un comportamento
contrario risulti lesivo del prestigio della professione.
Discende da ciò che, allorquando la lesione del prestigio consegue alla
valutazione sfavorevole che gli altri possano avere del comportamento tenuto
dal professionista, pare preferibile ricondurre all’ambito di applicazione della
regola, tutte quelle situazioni in cui, secondo un criterio di normalità, l’ambiente
in cui il professionista opera e le parti cui presta assistenza siano portati a
ritenere - secondo una valutazione “esteriore” della vicenda, risultando
contraddittorio richiedere ai terzi una valutazione penetrante della stessa, che
non possono avere - ch’egli versi in una situazione tale da apparire, e
legittimare il sospetto, che possa essere potenzialmente influenzato da interessi
contrastanti.
Principio questo recentemente ribadito dal CNF (cfr. sentenza del 15 dicembre
2011, n. 199), laddove si è affermato che realizza l’ipotesi prevista dall’art. 37
c.d.f., in materia di conflitto d’interessi il comportamento dell’avvocato che, al di
là dell’effettività o potenzialità del conflitto, si presenti agli occhi della collettività
come colui che accetta un mandato da un soggetto che sia suo avversario in
altro processo.
Mette conto, altresì, osservare che il principio generale enunciato dall’art. 37 del
Codice Deontologico, secondo cui: “l’avvocato ha l’obbligo di astenersi dal
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prestare attività professionale quando questa determini un conflitto con gli
interessi di un proprio assistito o interferisca con lo svolgimento di altro incarico
anche non professionale”, trova collocazione nel Titolo III, espressamente
dedicato alla regolamentazione dei “Rapporti con la parte assistita”.
La ratio sottesa alla disposizione in esame, dunque, è quella di assicurare che il
mandato professionale venga svolto in assoluta libertà ed indipendenza da ogni
vincolo, così da “garantire che il rapporto fiduciario che deve sussistere tra il
cliente e l'avvocato, con il correlativo vincolo di riservatezza, che concerne le
notizie apprese dal cliente, non possa essere in alcun modo incrinato, o posto in
dubbio, dai successivi incarichi professionali assunti dal professionista”(come
chiarito nel recente parere del CNF n. 48 del 20.4.2011).
E’, dunque, anche la “parte assistita” che l’art. 37 intende tutelare, ravvisando il
conflito d'interessi – come reiteratamente affermato da CNF (ex plurimis
25/10/2010 n.142) – in tutti quei comportamenti nei quali la mancanza di
linearità e trasparenza della condotta professionale, possa implicare, anche
solo in via potenziale, il venir meno del rapporto fiduciario tra professionista e
cliente.
Abbiamo visto che il principio di portata generale della citata norma,contempla
due distinte ipotesi.
La prima prescrive l’obbligo in capo all’avvocato di astenersi dall’accettare un
incarico quando la prestazione professionale richiesta risulti incompatibile con la
tutela degli interessi di altro cliente, sotto comminatoria di incorrere in un illecito
disciplinare.
Illecito dalle implicazioni notevoli, non soltanto sotto il profilo deontologico, ma
anche dal punto di vista processuale, atteso che – come recentemente
affermato dal Supremo Collegio - l'attività processuale posta in essere da un
difensore in conflitto di interesse col proprio assistito, è nulla ed il relativo vizio è
rilevabile d'ufficio, investendo la validità della procura e, quindi, il diritto di difesa
ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente tutelati (Cass.Civ.III
26/7/2012 n.13204).
Senza trascurare di evidenziare, poi, che la violazione delle norme sul conflitto
di interessi può originare anche una responsabilità per danno di tipo
professionale.
In tale prospettiva, l’individuazione delle norme applicabili per l’esercizio
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dell’azione finalizzata ad ottenere il risarcimento del danno subito dal cliente,
non potrà prescindere dagli articoli 1176 c.c. (Diligenza nell’adempimento) e
2236 c.c.(Responsabilità del prestatore d’opera).
La seconda ipotesi disciplina invece il caso di prestazione di attività
professionale, che interferisca con lo svolgimento di un incarico estraneo alla
professione forense.
L’elemento da esaminare, dunque, non è tanto la ricorrenza dell’interesse
confliggente di un altro assistito, investendo, invece, direttamente la persona
dell’avvocato, non solo nella sua veste di professionista, ma come cittadino
portatore e depositario di interessi, diritti e doveri che vanno oltre la sfera
strettamente professionale.
Si è posta ad esempio, la questione se l’avvocato che ricopra una carica
istituzionale o elettiva (dando per scontata l'operatività della sospensione
necessaria
dall'esercizio
professionale
prevista
dall'art.20
del
nuovo
Ordinamento Forense per le cariche istituzionali apicali), possa o meno
assistere in giudizio un cittadino che intenda promuovere (o resistere in)
giudizio, nei confronti dell’Ente presso cui il legale svolge il proprio ufficio.
Merita segnalazione in merito il parere n. 16 del 3.10.2001 reso dal C.N.F., con
cui si è data risposta ad un quesito avanzato dal Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Grosseto, concernente l’eventuale incompatibilità tra il munus di
consigliere comunale e l'assunzione del patrocinio in controversie promosse
contro l'amministrazione comunale, nell'ambito dell'esercizio della professione
forense, reso nei seguenti termini:
“non sembra che possa ravvisarsi una causa di incompatibilità tra quelle
tassativamente previste per la professione di avvocato nell'ordinamento
professionale vigente. Deve, tuttavia, rilevarsi che il contegno concreto del
professionista potrebbe assumere rilievo sul piano disciplinare per violazione
dell'art. 37 c.d.f. (conflitto di interessi). Sul piano dell'opportunità è, poi, fuor di
dubbio che il corretto esercizio del mandato professionale e il pieno
assolvimento degli obblighi connessi all'assunzione di un mandato politico
rappresentativo sconsiglino l'assunzione del patrocinio in cause promosse
contro l'ente locale nel cui Consiglio siede l'avvocato in questione”.
Proseguendo nell’esame dell’art. 37, successivamente alla enunciazione del
principio di carattere generale, esso distingue due canoni di comportamento,
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che l’avvocato deve seguire nell’espletamento della sua funzione.
Il canone I° opera, in verità, una sorta di tipizzazione legale del conflitto di
interessi (che perciò si sottrae alla valutazione della sua sussistenza in
concreto) esplicitando che esso sussiste ogniqualvolta il nuovo mandato
determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altro assistito,
ovvero quando la conoscenza degli affari di una parte può avvantaggiare
ingiustamente un altro assistito ovvero, ancora, quando lo svolgimento di un
precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento di un
nuovo incarico.
Alla luce delle prescrizioni contenute in questo primo canone, dunque,
l’elemento in ordine al quale cui deve essere verificata l’esistenza del conflitto di
interessi, diventa l’attività professionale concretamente esercitata dall’Avvocato.
Nell’esercizio della propria attività l’Avvocato viene necessariamente a
conoscenza di fatti e circostanze che debbono rimanere segrete, se queste sue
conoscenze dovessero essere utilizzate per promuovere azioni richieste da un
nuovo Cliente o per avvantaggiare altro assistito
nell’ambito delle proprie
pretese , si configura l’ipotesi del conflitto di interessi. Si segnala sul punto la
decisione del C.N.F. n.107 del 18/7/2011, secondo cui deve ritenersi lesivo del
dovere di fedeltà e correttezza e, comunque, contrario a buona norma di
comportamento, il contegno del professionista che assuma un incarico difensivo
contro un ex cliente del quale si siano curati gli interessi, con la possibilità di far
uso di informazioni acquisite nello svolgimento del precedente mandato.
Il canone II° enuncia, invece, la regola secondo cui l’obbligo di astensione
sussiste se le parti aventi interessi in conflitto si rivolgano ad avvocati che siano
partecipi della stessa società di avvocati o della medesima associazione
professionale, ovvero che esercitino negli stessi locali.
Mette conto rilevare in merito che l'esigenza di apprestare adeguata tutela
all’immagine, al decoro ed alla dignità della professione forense ha indotto il
C.N.F. Ad ipotizzare una presunzione assoluta di conflitto di interessi, quando il
collegamento fra i due Avvocati che tutelino due parti aventi interessi
configgenti, sia riconducibile ad un vincolo associativo e, addirittura, anche solo
all’utilizzo dei medesimi locali.
Proprio l’ultima parte del canone II (“…che esercitino negli stessi locali”) è,
infatti, il risultato di un intervento additivo del CNF, introdotto con delibera del 27
7
gennaio 2006,.
L'obbligo di astensione, pertanto, sussiste a prescindere dei rapporti
professionali tra gli avvocati “avversari” (società o associazione), rivelandosi
idonea a tal fine la mera condivisione dello stesso studio.
In tal senso ritengo utile segnalare una decisione del Consiglio dell’Ordine degli
avvocati di Vicenza dell’11.10.2006, con cui si è statuito che:
“Viola i doveri di probità, dignità, decoro e correttezza, nonché quello di non
accettare incarichi determinanti conflitto di interessi l’avvocato che assume
l’incarico di difendere una persona nel procedimento per il risarcimento dei
danni dalla stessa patiti in un incidente stradale, nonostante sia il legale
fiduciario
della
controparte
società
assicuratrice,
facendo
formalmente
sottoscrivere gli atti dal collega di Studio; né in ipotesi, rileva l’eventuale
consenso degli interessati, dal momento che il detto legale viola chiaramente
quell’obbligo di trasparenza e correttezza che costituisce regola fondamentale
cui deve ispirarsi l’esercizio della attività professionale”.
La previsione del II° canone risponde, dunque, all’esigenza di conferire
protezione e garanzia, non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e
dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza. E ciò dal momento
che l’apparire indipendenti è tanto importante, nella lettura data dal CNF,
quanto esserlo effettivamente, dovendosi proteggere, tra gli altri, anche la
dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità
degli avvocati di far fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone.
La trattazione dell'argomento, non può prescindere, infine, dal riferimento alla
disciplina del conflitto d'interessi in ambito europeo, con particolare riferimento
alle disposizioni contenute nel Codice Deontologico Europeo elaborato dal
CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi Europei), approvato nel 1988,
successivamente modificato nel 2002 e, da ultimo, nel maggio 2006 che, al
paragrafo 3.2, così recita:
3.2.1. L’avvocato non può fornire consulenza, rappresentare o difendere più di
un cliente per la medesima controversia qualora vi sia un conflitto, o il serio
rischio di un conflitto, tra gli interessi di tali clienti.
3.2.2. L’avvocato non può occuparsi degli affari di due o di tutti i clienti coinvolti
qualora intervenga tra loro un conflitto di interessi o vi sia il rischio di violazione
del segreto professionale o di compromissione della propria indipendenza.
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3.2.3. L’avvocato non può accettare un incarico da un nuovo cliente qualora vi
sia il rischio di violazione del segreto sulle informazioni comunicate da un
precedente cliente o se a conoscenza degli affari del precedente cliente da
parte dell’avvocato fornirebbe al nuovo cliente un ingiusto vantaggio.
3.2.4. Qualora degli avvocati esercitino la professione in forma associata, le
disposizioni di cui ai paragrafi da 3.2.1. a 3.2.3. si applicheranno all’ente nel suo
complesso e a tutti i suoi componenti.
Codice questo che, pur avendo un’applicazione piuttosto limitata (rapporti
transfrontalieri), ha il pregio di dettare regole uniformi in materia di conflitto
d’interessi e di costituire la base per armonizzare le regole interne degli
Ordinamenti professionali dei singoli Stati appartenenti all’Unione.
Va a tal uopo segnalato che, in occasione della Sessione Plenaria del 25-52008, il CCBE ha approvato il programma di lavoro per l'elaborazione di un
Codice Deontologico Uniforme, finalizzato a raggiungere un livello di
integrazione ancora più avanzato rispetto a quello conseguito in seno allo
stesso CCBE.
Nell'ambito di tale attività programmatica, si è pervenuti alla elaborazione di un
articolo, in materia di conflitto di interessi che, rispetto, a quello fissato dal
codice europeo soprarichiamato, rafforzi la garanzia del rapporto fiduciario tra
avvocato e cliente, con il correlativo vincolo di riservatezza, attraverso la
previsione, tra l'altro, del divieto di assistenza di due o più clienti, nel caso di
conflitto tra gli stessi, tra quelli di un cliente e l'avvocato o nell'ipotesi in cui
l'avvocato abbia intrattenuto rapporti col cliente medesimo “ancorchè in veste di
funzionario pubblico, giudice, arbitro o mediatore” e, ancora, della previsione
dell'obbligo, per l'avvocato, nel caso in cui il conflitto sorga nel corso della sua
attività professionale nei confronti di due o più clienti, di rimettere
immediatamente il mandato.
Di contro, non si ritengono condivisibili tali lavori preparatori, sul punto in cui tale
progetto - in modo palesemente difforme dall'articolazione del vigente codice
forense italiano - non prevede il decorso di un limite temporale per l’assunzione
di un incarico professionale contro un ex cliente, atteso che la correlata
disposizione del codice deontologico italiano (preambolo dell’art. 51) indica,
invece, il limite del biennio dalla cessazione del rapporto professionale, laddove
, altresì, la previsione europea consentirebbe di agire nei confronti di un ex
9
cliente,
anche
in
controversie
di
natura
familiare,
mentre
il
canone
complementare dell’articolo 51 del codice deontologico forense, esclude
assolutamente tale possibilità e, ancora, sul punto in cui viene prevista per
l'avvocato la possibilità di agire contro un cliente attualmente da lui assistito,
circostanza questa pure esclusa, in modo assoluto, e senza possibili deroghe
(neanche col consenso del Cliente, di contro ipotizzato in tale sede europea),
dall’art. 37 dell’attuale codice deontologico forense e, unanimamente, dalla
giurisprudenza.
La conclusione di questo intervento, dunque, trova sintesi e compendio
nell'auspicio di una sistematica valorizzazione, da parte di tutti gli avvocati e
degli Organi diciplinari preposti alla verifica della sua osservanza, di una norma
deontologica finalizzata a tutelare l’indipendenza e l’imparzialità della funzione
difensiva e, quindi, ad assicurare che il mandato professionale sia svolto in
assoluta libertà ed indipendenza da ogni vincolo e perchè, attraverso la sua
scrupolosa osservanza, la specificità della funzione difensiva e la primaria
rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta (concetti
questi richiamati dall'art.1 del nuovo Ordinamento Forense), ricevino il dovuto
riconoscimento.
- avv. Salvatore Chiaramonte -
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