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Dignità umana e diritti umani A cura di Antonio

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Dignità umana e diritti umani A cura di Antonio
Dignità umana e diritti umani
A cura di Antonio Papisca1
I. Il riconoscimento giuridico internazionale, zoccolo duro del Sapere dei diritti
umani ...................................................................................................2
1. Diritti umani, cuore delle Costituzioni..................................................2
2. Diritti umani: genitori, non figli del Diritto ...........................................4
3. La centralità della persona nel Sapere dei diritti umani ..........................5
4. I diritti umani, codice transculturale ...................................................6
5. Diritti umani, legittimazione a linguaggio nuovo ...................................7
II. Dignità umana = Vita = Diritto sopranazionale ..................................... 10
1. La carsicità del riconoscimento giuridico dei diritti umani ..................... 10
2. Dignità proclamata, dignità agita ..................................................... 12
3. Ne cives populique ad arma veniant / ut cives ac populi vivant: sicurezza
umana e sviluppo umano.................................................................... 13
III. Diritti umani, supercostituzione ......................................................... 14
1. Alfa e omega della legalità .............................................................. 14
2. La compenetrazione Diritto internazionale/Diritto interno..................... 16
IV Cosa significa tutelare i diritti umani ................................................... 18
1. Soddisfare bisogni vitali, materiali e spirituali..................................... 18
2. Educare e formare, garanzia primaria ............................................... 22
3. Educare e formare ai diritti umani: obbligo giuridico, non optional ........ 23
4. Diritti umani = + società civile + istituzioni pubbliche ......................... 25
Bibliografia essenziale ........................................................................... 27
1
Cattedra UNESCO in Diritti umani, Democrazia e Pace, Università di Padova
I. Il riconoscimento giuridico internazionale, zoccolo duro del
Sapere dei diritti umani
1. Diritti umani, cuore delle Costituzioni
Se le Costituzioni hanno un cuore,
non possono non averlo,
esso è costituito dai diritti umani.
Anche il vigente Diritto internazionale ha questo cuore.
Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 2:
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale”
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 1:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi
sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli
altri in spirito di fratellanza”
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, articolo 1:
“La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e
tutelata”
I diritti umani sono ciò che comportano in termini di pratica
realizzazione.
“Diritti umani” senza “garanzie” suonano offesa, oltre che alla
logica giuridica, anche al buon senso comune.
Negli anni dal 1946 al 1948, i padri e le madri della Costituzione della
Repubblica Italiana conoscevano certamente la Carta delle Nazioni Unite,
erano al corrente che stava per essere adottata la Dichiarazione Universale
dei diritti umani, operavano quindi con il necessario, lungimirante spirito
costituente in quell’ampio contesto progettuale definito da Giuseppe Dossetti
“crogiuolo ardente universale”. La prima parte della nostra Costituzione è in
perfetta sintonia con le fonti giuridiche primarie del nuovo Diritto internazionale
che pone la persona umana al centro di qualsiasi ordinamento come proclama
la Dichiarazione Universale:
2
“il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della
famiglia umana, e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il
fondamento della libertà, della giustzia e della pace nel mondo”.
La Costituzione va quindi letta in sinossi con le norme e i principi del
Diritto internazionale dei diritti umani fatto di Convenzioni, Protocolli,
Dichiarazioni che, come spiegherò più avanti, portano linfa nuova alle norme
costituzionali interne, arricchendole e consolidandole.
Nella seconda metà del XX secolo, a conclusione di un millennio segnato dalla
frammentazione dell’organizzazione politica della famiglia umana, si è avviato
un processo di ricomposizione della convivenza civile nel segno di valori
universali riassunti nella dignità della persona e nell’imperativo etico-giuridico:
humana dignitas servanda est, la dignità umana deve essere rispettata,
ovunque nel mondo e in qualsiasi situazione.
Processi di globalizzazione e di de-territorializzazione della politica, oggi
contestualmente in atto, convergono nello spingere la governance a declinarsi
con riferimento ad un comune paradigma assiologico e nella prospettiva di una
architettura di distribuzione di processi politici e di funzioni di governo su più
livelli: dall’ente di governo locale fino all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Il
“nuovo” Diritto internazionale, che ha radice nella Carta delle Nazioni Unite
(1945) e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948) e che a
giusto titolo può denominarsi “Diritto universale della dignità umana”, è la
bussola in corretto rapporto di scala con la magnitudine delle sfide di buona
governance globale.
Se si considerano i tempi lunghi dei mutamenti strutturali avveratisi nel corso
dei millenni su scala mondiale, non si può non esprimere ammirato stupore per
il fatto che in poco più di sessant’anni il processo di trasformazione
umanocentrica del Diritto internazionale abbia assunto una così organica e
consistente forma grazie ad una codificazione sempre più puntuale, presidiata
da organismi intergovernativi e sopranazionali con funzioni specializzate di
garanzia, sostenuta e monitorata da una miriade di organizzazioni non
governative e movimenti sociali transnazionali.
Nota bene (inserire quì le tabelle allegate)
Attingendo alla sorgente dell’etica umana universale, con la Carta delle Nazioni
Unite e la Dichiarazione Universale dei diritti umani il Diritto ha intrapreso la
via del superamento di quella barriera all’umano nei rapporti internazionali che
per lunghi secoli è stata alimentata dalla cultura della iper-personificazione
giuridica degli stati nazionali e del mito della sovranità di ciascuno di essi
superiorem non recognoscens. Con ricadute a cascata negli ordinamenti
interni, in seno all’ordinamento internazionale è cominciata la liberazione di
soggettività giuridica autenticamente originaria perché inerente alla persona
umana. La Carta delle Nazioni Unite si apre nel segno di questo progetto di
liberazione, con una solenne affermazione di soggettualità democratica fino ad
allora estranea al linguaggio degli accordi giuridici fra stati:
3
“Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni
dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa
generazione ha portato indicibili sofferenze all’umanità, a riaffermare
la fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nel valore della persona
umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle
nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia e il
rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del
diritto internazionale possano esserema ntenuti, a promuovere il
progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia
libertà”.
2. Diritti umani: genitori, non figli del Diritto
I lettori non faticheranno a capire che l’approccio che seguo nell’illustrare ciò
che è e comporta l’avvenuto riconoscimento giuridico internazionale dei diritti
umani, è marcato da una esplicita “relazione al valore”, che così riassumo.
I diritti umani sono cosa buona e giusta, altrettanto è il Diritto internazionale
che li riconosce formalmente e impone l’obbligo erga omnes di rispettarli e
garantirli. Il loro fondamento sta nella persona umana in quanto tale, la loro
intrinseca valenza precettiva è pertanto di ascendenza metagiuridica.
Alla tesi di Jeremy Bentham, il quale sosteneva (Anarchical Fallacies, 17911792) che “i diritti naturali sono semplicemente un non senso, un retorico non
senso, un non senso sui trampoli) e che un diritto, per essere reale, deve
essere ‘legislated’, essere cioè figlio del Diritto (son of law), Amartya Sen (The
Power of a Declaration, in “The New Republic, A Journal of Politics and Arts”, 4
February 2009) risponde che i diritti umani sono “parents of law”, i
genitori del Diritto, trovando conferma anche in quanto esplicitamente
proclama l’articolo 1 della Dichiarazione universale: “Tutti gli esseri umani
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e
di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di
fratellanza” (corsivo aggiunto).
Il senso di questa norma è chiaro, non c’è posto per approcci di tipo
‘contrattualistico’, i diritti sono innati, ineriscono alla dignità della
persona: sono appunto ‘inherent rights and fundamental freedoms” secondo il
linguaggio dei documenti ufficiali. Il vigente Diritto internazionale assume
dunque esplicitamente che i diritti umani, in quanto diritti ‘fondamentali’,
preesistono alla legge scritta e sono ius positum in virtù del loro
‘riconoscimento’ formale, non della loro ‘attribuzione’ come avviene invece per
i diritti meramente ‘soggettivi’.
Altrimenti detto, i diritti umani siamo noi, ciascuno di noi, “membri della
famiglia umana”, tutti su un piano di eguaglianza che è ontica, prima ancora
che formale. Ci fu chi, in epoca di assolutismo, disse ‘L’Etat c’est moi’. Oggi, in
virtù del vigente Diritto universale, ciascuno di noi può, a giusto titolo, dire:
“La Loi c’est moi”: beninteso, la legge fondamentale, non il privilegio o il
capriccio o il lusso o l’arroganza o la legge del più forte. E’, questo, un
argomentare di particolare efficacia nel contesto dell’educazione civica, perché
4
rinvia all’altissima responsabilità sociale di cui ci si deve rendere consapevoli in
quanto soggetti originari di diritti e libertà fondamentali, quindi depositari di
sovranità e protagonisti di democrazia.
3. La centralità della persona nel Sapere dei diritti umani
Nella chiave di lettura che propongo, il ‘nuovo’ Diritto internazionale è lo
zoccolo duro di un più ampio Sapere che, per sua natura, costruisce
ponti fra i saperi particolari, fra il sapere umanistico e il sapere scientificotecnico, fra culture e fra religioni, spingendoli tutti ad abbeverarsi alla
sorgente dell’universale per purificarsi dai contenuti negativi delle rispettive
storie (scorie) - pregiudizi, intolleranze, violenze - e a convergere, anzi a
ricapitolarsi nel valore supremo della eguale dignità di tutti i membri della
famiglia umana. Siamo evidentemente nel campo di un pensiero forte che,
lungi dal totalizzare, apre a sempre nuove sfide e a sempre nuovi orizzonti di
libertà i quali, lungi dall’espropriare o omologare le identità singolari, aiuta
queste a declinarsi al plurale, in ottica di complementarietà rispetto alla
originaria identità di persona umana.
La forza intrinseca di questo Sapere che coniuga valori e azione, teoria e prassi
- Sapere assiopratico, dunque -, e che è per sua essenza transdisciplinare,
sta nell’assumere la persona umana nel suo originario status di “essere puro”,
non in quanto ‘cittadino’ di questo quello stato o ‘attore di ricorsi giudiziari’ o in
altri status e ruoli. Luigi Lombardi Vallauri, insigne filosofo del diritto, ha scritto
pagine bellissime sulla “originaria e inammissibile infinità di ogni uomo”,
infinità “da riconoscere, cioè che deve essere considerata come un fine e mai
come un mezzo”, concludendo che “nessuno sviluppo della persona può in
fondo conferirle più di quanto essa – fondativamente, originariamente,
inammissibilmente – già è”. Il nostro Autore sottolinea che la dignità che
inerisce all’essere umano in quanto ‘puro essere’ rifulge in grado eccelso nel
bambino e cita quanto ha detto Gesù Cristo al riguardo (solo chi sarà come un
bambino entrerà nel Regno dei Cieli) e quanto la tradizione attribuisce a
Maometto (che peccato che tanti bambini diventino dei grandi), aggiungendo:
“Le ‘importanze’ dell’adulto sono tanto più piccole del puro essere del bambino”
(Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam,1981). Viene qui spontaneo citare
da “Il Profeta” di Khalil Gibran: “I vostri bambini non sono vostri. Sono figli e
figlie del desiderio di vivere. Essi arrivano attraverso voi, ma non da voi. E
sebbene stiano con voi, egualmente non vi appartengono” (in A. Papisca, Nel
nome dei bambini, Milano, Giuffrè, 1989). E’ il caso di sottolineare che la
Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989,
facendosi eco di queste lezioni sapienziali, riconosce il bambino quale soggetto
originario di diritti fondamentali, dotato quindi di una soggettività liberata dai
profili patrimonialistici e assistenzialistici di un plurisecolare pensiero giuridico.
I diritti umani ineriscono, egualmente, sia a chi ne è consapevole, diciamo pure
alfabetizzato ed è per ciò stesso in grado di farli valere, sia a chi non lo è. Il
titolare dei diritti umani è un soggetto di cui non si discute la ragion
d’essere, è “colui/colei che è”, “sistema personale originario” che non deriva
da nessun altro se non, in un’ottica di fede religiosa, da un Creatore il quale
5
peraltro lo plasma a sua immagine e somiglianza e lo sussume a dignità di
figlio. Il riferimento è qui ad una ‘verità’ condivisa dalle tre grandi religioni
monoteiste.
Il “riconoscimento” dei diritti - non la “concessione” di essi, giova
sottolinearlo - operato dal legislatore quale agente di formale positivizzazione
giuridica, prende atto della grandezza e unicità della persona, assumendola
quale fonte originaria di sovranità, quindi di democrazia.
Usando una metafora religiosa, potremmo anche vedere in quei legislatori
illuminati che nella prima parte delle Costituzioni democratiche riconoscono i
diritti fondamentali, altrettanti Re Magi che ‘scoprono’ la luce della dignità della
persona umana e si genuflettono davanti al suo valore.
Come il riconoscimento dei diritti fondamentali operato dalle Costituzioni
nazionali è l’epifania della dignità somma della persona nell’ordinamento
giuridico interno di uno stato, così il loro riconoscimento internazionale estende
la stessa epifania nello spazio dilatato dell’ordinamento mondiale: è epifania
giuridica universale.
4. I diritti umani, codice transculturale
Il Sapere dei diritti umani aiuta tra l’altro a definire la laicità di istitutioni e
di comportamenti assumendo, correttamente, che essa non è omologazione o
avalutatività, non tabula rasa di valori, non espropriazione di identità e
neppure negazione di trascedenza religiosa. Essa significa invece spazio
aperto alla conoscenza e alla fruizione innanzitutto di valori universali - la
libertà è un valore -, spazio garantito dalle pubbliche istituzioni a tutti credenti, non credenti, professanti ateismo -, su un piede di eguaglianza e in
ottica di responsabilità condivise per il bene comune.
Il termometro per misurare la genuina, legittima laicità di ordinamenti,
politiche e comportamenti è fornito dai 30 articoli della Dichiarazione
Universale, in particolare dall’articolo 18 che così recita:
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di
religione, diritto che include la libertà di cambiare di religione o di
credo e la libertà di manifestare, solatamente o in comune, e sia in
pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo
nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”.
In questo articolo è racchiusa la triade sacrale dell’intero Codice universale
dei diritti umani, come dire la sua radice identitaria più marcata. Che tale sia è
comprovato anche dal fatto che il contenuto dell’articolo 18 della Dichiarazione
è recepito, pressochè letteralmente, dagli analoghi articoli 18 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici, 9 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 12
della Convenzione interamericana sui diritti umani, 8 della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, 30 della Carta araba sui diritti
umani, 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
6
Pertiene a questo contesto di sacralità giuridica universale anche la norma
dell’articolo 16 della Dichiarazione Universale che proclama la famiglia
“nucleo naturale e fondamentale della società”, dotata di un proprio
“diritto ad essere protetta dalla società e dallo stato”. E‘ il caso di segnalare
che anche il contenuto di questo articolo, analogamente a quanto avvenuto per
l’articolo 18, è riprodotto nell’articolo 15 della Convenzione interamericana sui
diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (1969), nell’articolo 18 della Carta
africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981) e nell’articolo 33 della Carta
araba dei diritti umani (2004).
Le religioni, parimenti alle grandi culture che esse hanno marcato
identitariamente, sono sollecitate, appunto in virtù del diritto umano
fondamentale alla loro esistenza e pratica, a confrontarsi col paradigma
universale dei diritti umani: il risultato di questa prova, se affrontata con
coerenza e coraggio, non potrà che tornare utile e ridare vigore alle stesse
religioni, specie a quelle con forte connotazione trascendente-universalista. La
storia attesta che in particolare le tre grandi religioni monoteiste non sono
estranee alla “scoperta” del valore universale della persona e dei diritti che
ineriscono alla sua dignità. Non a caso - ma io direi, molto accortamente - in
campo cattolico l’Enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII (1963)
annovera la Dichiarazione Universale, insieme con le Nazioni Unite, tra i segni
dei tempi, cioè tra quelle occasioni che la provvidenza divina offre alla buona
volontà delle persone perché si impegnino sempre di più sul cammino del
perfezionamento morale, sociale e politico. Si pensi anche al buddismo e al
messaggio di pace e tolleranza di cui si fa interprete l’attuale Dalai Lama:
questi incarna l’identikit ortodosso degli human rights defenders.
Laicamente, possiamo parlare di talenti della storia, da far fruttare al
massimo.
Oggi, il paradigma dei diritti umani riconosciuti dal vigente Diritto
internazionale torna indietro come un boomerang salutare sulle grandi
religioni e su tutte le culture, provocandole alla coerenza con le loro radici
profonde.
5. Diritti umani, legittimazione a linguaggio nuovo
Nel costruire una chiave di lettura che comporta l’uso di categorie concettuali
inusuali per il vocabolario giuridico di tradizionale ascendenza positivista, mi
avvalgo anche dell’esplicita legittimazione che discende da quella che è
comunemente considerata la Magna Charta degli human rights defenders,
cioè la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1998 portante su
“il diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della
società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani
universalmente riconosciuti”. Ne cito di seguito due articoli, che considero
emblematici di legittimazione universale ad bonum faciendum anche nel campo
del docere e della ricerca scientifica:
Articolo 1: “Ognuno ha il diritto, individualmente e in
associazione con altri, di promuovere e lottare per la
7
protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali ai livelli nazionale e internazionale” (corsivo
aggiunto).
Articolo 7: “Tutti hanno il diritto, individualmente e in
associazione con altri, di sviluppare e discutere nuove idee e
principi sui diritti umani e di promuovere la loro accettazione”
(corsivo aggiunto).
Dalla lettura di questo importante strumento giuridico apprendiamo che i diritti
umani, in quanto universali, non hanno confini, che si è tutti legittimati ad
agire per la loro difesa dentro e fuori del proprio stato, che tutti siamo
chiamati ad alimentare con nuove idee la cultura dei diritti umani, fatta di
diritto e politica, teoria e prassi, educazione, militanza (advocacy,
commitment, engagement, servizio): la sola condizione è quella più volte
espressa nel documento delle Nazioni Unite con l’avverbio ‘pacificamente’.
Non a caso quanti operano per la causa dei diritti umani, della pace e della
solidarietà si sono subito appropriati di questo importantissimo documento
facendone la loro carta d’identità transnazionale di pionieri di cittadinanza
universale: un’identità assiopratica, testimoniale, progettuale, di servizio, di
accoglienza, di condivisione, che non conosce, appunto, le chiusure del
‘dominio riservato’degli stati.
Il Diritto internazionale della dignità umana è lo Ius positum universale che
completa e perfeziona l’antico duplice imperativo etico-giuridico neminem
laedere (non nuocere a nessuno) e unicuique suum tribuere (dare a
ciascuno il suo), con bonum facere, fare il bene: evidentemente, il bene
comune e, in armonia con questo, il bene personale. E’ un Diritto in
costante progressione, sotto la tensione che informa, come già sottolineato,
il cammino del perfezionamento umano. Come dire: de lege semper
perficienda, ovvero la legge che legittima ad operare per il suo costante
superamento-perfezionamento.
Tra i più recenti e significativi punti d’arrivo/punti di partenza, pur con
differente portata giuridico-formale, sono da segnalare la Convenzione
internazionale sui diritti delle persone con disabilità, la Dichiarazione
universale dell’Unesco su bioetica e diritti umani, la Convenzione
Unesco sulla protezione della diversità delle espressioni culturali, la
Carta Araba dei diritti umani, i ‘Principi-guida su diritti umani e povertà
estrema: i diritti del Povero’, documento del Consiglio Diritti Umani delle
Nazioni Unite, le ‘Linee-guida sui difensori dei diritti umani’, decise dal
Consiglio dell’Unione Europea.
Insomma, il Diritto internazionale dei diritti umani è un Diritto-lievito,
contiene cioè potenzialità che urgono perché siano identificate e sviluppate:
soprattutto insegnanti-educatori e magistrati sono sollecitati a questa opera.
A mò di esempio, segue qualche indicazione su come fare ‘rendere’, cioè su
come tradurre in atto il potenziale insito nello Ius positum universale.
Il principio del ‘superiore e migliore interesse del fanciullo’ (the best
interest of children), proclamato dall’articolo 3 della Convenzione
8
internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989), viene
ordinariamente evocato quando ci si riferisce a esigenze e problemi che sono
specifici di queste fasce d’età. Esso si candida invece ad essere annoverato tra
i principi generali dell’ordinamento giuridico internazionale, non limitato quindi
(sindacalmente…) alle tradizionali materie riguardanti forme di assistenza a
infanzia e maternità. Intendo dire che esso va incluso nell’elenco dei principi
contenuti nella Dichiarazione di Vienna adottata nel 1993 a conclusione della
Conferenza mondiale sui diritti umani: universalità, eguaglianza,
interdipendenza e indivisibilità, indissocianilità dei diritti umani delle
donne e delle bambine dai diritti umani universalmente riconosciuti.
La Corte Costituzionale italiana ha già trovato il modo, con la sua
giurisprudenza, di definire “costituzionale” il principio in discorso.
Si è soliti definire la ‘Comunità internazionale’ come una entità evanescente
dal punto di vista giuridico, una sorta di club esclusivo costituito
essenzialmente dagli stati e dalle agenzie multilaterali da essi create. Con il
linguaggio dei diritti umani e in perfetta aderenza alla realtà quale va
evolvendosi, per ‘Comunità internazionale’ deve intendersi un contenitore
istituzionale molto più ampio, comprendente soggetti umani, persone e
popoli, oltre che istituzioni e segnato dall’etica dell’abitare la terra quale
casa comune di “tutti i membri della famiglia umana”. L’espressione
‘famiglia umana’, ricorrente nei testi giuridici internazionali a partire dalla
Dichiarazione Universale, è portatrice di un significato morale, sociale e politico
molto più pregnante e impegnativo dell’astratto termine ‘umanità’ o ‘genere
umano’. Dire famiglia umana significa infatti evocare ascendenza comune,
fratellanza, appartenenza comune, vocazione all’unità nella diversità, impegno
di cooperare per il bene comune. Non c’è bisogno di sottolineare che
l’istituzione più rappresentativa della casa comune mondiale è
l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Ancora,
occorre
innovare
nel
linguaggio
relativo
all’istituto
della
‘cittadinanza’, utilizzando appropriate categorie concettuali. In virtù del
Diritto internazionale dei diritti umani, ha infatti preso visibilità una
‘cittadinanza universale’ che postula primazìa sulle cittadinanze nazionali: è
quella della persona umana in quanto tale, col corredo dei diritti fondamentali
che le sono riconosciuti come inerenti anche dal vigente Diritto internazionale.
Le cittadinanze nazionali (di ben più antica storia, de iure posito) stanno alla
cittadinanza universale (di più recente storia, argomentando sempre de iure
posito) come i rami al tronco dell’albero. Perchè diano foglie e frutti, i rami
devono devono essere uniti al tronco e, insieme con questo, ovviamente, alle
radici. Le radici sono i diritti fondamentali, con il tronco costituiscono lo
statuto giuridico di persona umana internazionalmente riconosciuto:
statuto di cittadinanza universale, appunto. Alla luce di questa novità giuridica, non poetica, non utopistica -, occorre prendere atto che, con
l’avvenuto
ingresso
dell’ordinamento
internazionale
nella
pienezza
umanocentrica del diritto, plenitudo iuris, i tradizionali parametri dello ius
sanguinis e dello ius soli devono fare i conti col superiore ius humanae
dignitatis. La plenitudo iuris postula infatti la plenitudo civitatis, la pienezza
9
della cittadinanza, che non può che essere universale e plurale allo stesso
tempo, nell’ottica dell’inclusione: “ad omnes includendos”.
II. Dignità umana = Vita = Diritto sopranazionale
1. La carsicità del riconoscimento giuridico dei diritti umani
Riproponiamo l’incipit della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, fonte
delle fonti del Diritto della dignità umana: “Il riconoscimento della dignità
inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e
inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della
pace nel mondo”.
“Dignità umana” o “dignità della persona” è
valore supremo l’universale degli universali, se possibile – nel quale si innerva l’intero
Sapere transdisciplinare dei diritti umani e nella cui garanzia sta la ragion
d’essere di tutti gli ordinamenti giuridici, da quello internazionale a quelli
municipali.
La nostra materia presenta omologie strutturali coi fenomeni carsici: ciò che
emerge in superfice è frutto della confluenza di rivoli e fiumi sotterranei che
condividono la stessa sostanza e trovano dilatata identità olistica per così dire
alla luce del sole, che nel nostro caso significa positivizzazione giuridica
nella forma di un Diritto genuinamente universale. I fiumi sotterranei sono le
diverse storie costituzionali degli stati, che emergono confluendo in un dilatato
alveo normativo.
A seguire, qualche esempio della multiforme tipologia con cui si manifesta
questa ‘carsicità’ normativa sul valore della dignità umana, cominciando
dalla ‘emersione’ internazionale. Proponiamo questo approccio top-down,
dal mondo alla città, tenuto conto del fatto che l’internazionalizzazione dei
diritti umani ha accresciuto l’attenzione e la sensibilità per il paradigma dei
diritti umani già incluso nelle Costituzioni interne ma spesso, come nel caso
dell’Italia, ignorato oppure considerato un’icona tanto bella quanto distante.
Nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite leggiamo: “Noi popoli delle
Nazioni Unite, decisi (…) a riaffermare la fede nei diritti fondamentali
dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana”.
Il “Principio VII” dell’Atto Finale di Helsinki (1975) proclama che tutti i diritti
umani e le libertà fondamentali “derivano dalla intrinseca dignità della
persona umana”.
L’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
(Nizza, 2000) recita: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere
rispettata e tutelata”.
L’articolo 2 del Trattato di Lisbona sull’Unione Europea (2007, entrato in
vigore il primo dicembre 2009), che sostituisce il dismesso progetto di
“Trattatto costituzionale”, proclama:
“L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della
libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, dello Stato di diritto e del
10
rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti
a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una
società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione,
dalla tolleranza, dalla giustizia, della solidarietà e dalla parità
tra donne e uomini”.
E’ il caso di ricordare che l’articolo 6 dello stesso Trattato stabilisce che
“l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000,
confermata a Strasburgo dal Parlamento Europeo il 12 dicembre 2007, che ha
lo stesso valore giuridico dei trattati”.
La “Carta europea dei diritti umani nella città”, adottata nel 2000 a St.
Denis dalla Seconda Conferenza Europea delle “Città per i Diritti Umani”,
richiamandosi alla Dichiarazione Universale e ad altre fonti del Diritto
internazionale dei diritti umani, proclama che “i diritti umani sono
universali, indivisibili e interdipendenti, e tutti i pubblici poteri sono
responsabili della loro garanzia".
In Italia, oltre che nella Costituzione republicana a cominciare dagli articoli 2 e
3, il valore della dignità umana e dei diritti che le ineriscono è proclamato in
numerosi Statuti comunali, provinciali e regionali. Per esempio, l’articolo 2
dello Statuto del Comune di Padova afferma che “nell’esercizio delle proprie
funzioni il Comune, nel riconoscere la centralità della persona e della sua
dignità, la valorizza…”.
E’ interessante notare che in molti Statuti di enti di governo locale nonché in
specifiche Leggi regionali dedicate ai diritti umani e alla pace, tra gli altri
negli Statuti dei Comuni di Genova, Bolzano, Piacenza, Reggio Emilia, la
proclamazione della dignità umana è espressa dalla cosiddetta ‘norma pace
diritti umani’ con contestuale, esplicito riferimento alla Costituzione
nazionale e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in alcuni casi
addirittura all’intero Diritto internazionale dei diritti umani. (v. articolo 1 della
Legge Regionale del Veneto 55/1999). Il risultato di questa vicenda,
assolutamente innovata per la prassi legislativa e tuttora unica al mondo per
estensione e capillarità, è che in Italia la prima parte della Costituzione
risulta per così dire blindata: dall’alto, per l’ancoraggio al Diritto
internazionale, dal basso, per l’esistenza della norma ‘pace diritti
umani’ negli statuti degli enti di governo locale e regionale.
Sempre a livello di ordinamenti subnazionali, è interessante in Canada il caso
della Municipalità di Montréal che, nel 2005, ha solennemente adottato la
“Carta di Montréal dei diritti e delle responsabilità”. Nel suo preambolo
c’è il richiamo della Dichiarazione Universale e di altre fonti del Diritto
internazionale dei diritti umani. In particolare l’articolo 1 proclama che “la città
è uno spazio territoriale e vitale nel quale i valori della dignità umana, della
tolleranza, della pace, dell’inclusione e dell’eguaglianza devono essere
promossi fra tutti i cittadini”. L’articolo 2 recita: “La dignità umana può
essere integralmente preservata soltanto se si realizza una forte lotta contro la
povertà e tutte le forme di discriminazione…”. Su questo tema torneremo più
avanti con maggiori dettagli.
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2. Dignità proclamata, dignità agita
Accompagnando “dignità umana” con l’aggettivo “innata” (inherent) e con il
verbo “rispettare” o “tutelare”, gli strumenti giuridici ne danno per scontata la
definizione, preoccupandosi invece di specificare ciò che deve esserne la
conseguenza operativa: a suo tempo, è stato lucidamente fatto notare che “il
suo intrinseco significato è stato lasciato alla comprensione intuitiva,
condizionata in larga misura da fattori culturali” (Oscar Schachter). Alla ricerca
di un ancoraggio quanto più obiettivo possibile - operazione indispensabile se
assumiamo che ci troviamo di fronte, come prima sottolineato, all’universale
degli universali -, occorre passare dal sostantivo al verbo, nel senso di
definire il concetto di dignità umana per così dire sul campo, cioè sul terreno
concreto della garanzia e della realizzazione dei diritti e dei doveri che le
ineriscono. Per il Diritto internazionale dei diritti umani, la dignità
umana è un “assunto”, come tale non la si discute, ma si è obbligati a
ricercare e mettere in opera le modalità del suo concreto rispetto.
Altrimento detto, il vigente Diritto internazionale fa uscire il concetto di dignità
umana dalla sfera dell’astratto per incarnarlo nella vita dell’essere umano, fatto
di anima e di corpo, di spirito e di materia.
La vita in quanto tale è inclusa nell’elenco dei diritti fondamentali fornito dalla
Dichiarazione universale e dalle Convenzioni giuridiche internazionali (v. in
particolare l’articolo.3 della Dichiarazione Universale e l’articolo 6 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici) - non potrebbe essere altrimenti -, ma a
ben considerare, oltre e più che un “diritto” fra i diritti, essa è il tempio della
dignità umana, come tale ne condivide il carattere di valore fondativo
dell’intero ordinamento giuridico internazionale. Le sue ascendenze
metagiuridiche postulano che si assegni alla vita individuale, in tutto l’arco del
suo svolgimento naturale, il valore più alto, anzi assoluto. Se questo viene
relativizzato, si pregiudica l’intera costruzione multi- e trans-disciplinare del
Sapere dei diritti umani, non soltanto il suo zoccolo duro giuridico.
Dunque, per il vigente Diritto universale, dignità umana e vita sono
inscindibili. Ciò spiega come, sul piano normativo e giurisprudenziale, tutti i
diritti fondamentali - civili, politici, economici, sociali, culturali - siano
considerati in stretta relazione con il principio della loro interdipendenza e
indivisibilità. Questo principio è ribadito da importanti documenti
internazionali, tra i quali si segnala in modo particolare la già citata
Dichiarazione di Vienna del 1993.
Nella concreta applicazione del principio di interdipendenza e
indivisibilità di tutti i diritti umani sta il sicuro indicatore del rispetto
della dignità umana. In altre parole, questa è rispettata quando la persona è
nella condizione di acquisire la reale possibilità di esercitare “le” libertà da
(dal bisogno, dalla paura, dal potere assoluto), di (pensiero, religione,
associazione…) e per (la piena realizzazione della persona nella comunità, la
pace positiva, la salvaguardia dell’ambiente naturale,…) secondo la tipologia
del capacity building e dello empowerment, ovvero di costruzione di capacità e
potere per l’esercizio di ruoli di cittadinanza attiva. (v.Amartya Sen). L’ottica
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capacitaria consente di distinguere tra dignità umana ‘proclamata’ e
dignità umana ‘agìta’. Va per esempio nella direzione della seconda il
documento, prima citato, “Principi-guida su diritti umani e povertà estrema: i
diritti del Povero”, promosso nel 2008 dal Consiglio Diritti Umani delle Nazioni
Unite con l’obiettivo di dar voce e offrire spazi di inclusione e
partecipazione ai più deboli fra i soggetti originari dei diritti umani.
Rispettare la vita significa non soltanto salvaguardare l’integrità fisica e
psichica della persona, assicurarle insomma la “sopravvivenza” e tenerla al
riparo da uccisioni e torture (approccio per così dire sicuritario di ‘ordine
pubblico’), ma anche, contemporaneamente, porre in essere condizioni sociali,
economiche e politiche atte a consentire alla persona di sviluppare
integralmente la propria personalità. Il diritto alla vita così inteso lancia la
sfida” per una governance umanamente sostenibile, frutto del coniugio
di ”stato sociale” e “stato di diritto”.
3. Ne cives populique ad arma veniant / ut cives ac populi vivant:
sicurezza umana e sviluppo umano
Il Diritto internazionale per la vita è pertanto il diritto per la sicurezza umana
(human security) intesa nella sua accezione multidimensionale (economica,
sociale, ambientale, di ordine pubblico), che ha come soggetto primario la
‘gente’ - people security - non più lo stato - state security -: le funzioni e le
capacità di questo diventa strumentale primariamente al perseguimento degli
obiettivi che concorrono a garantire tutti i diritti umani delle persone, delle
famiglie, dei popoli.
Così intesa, la sicurezza interpella oggi molteplici livelli di governance, da
quelli locali e nazionali a quello internazionale e mondiale, indicando che i
relativi obiettivi vanno perseguiti in base al principio di sussidiarietà. Nelle
sue finalità ultime, la sicurezza umana coincide con lo sviluppo umano,
secondo la concezione, anche questa multidimensionale, elaborata e
costantemente aggiornata dal Programma delle Nazioni Unite per lo
Sviluppo, Undp, nei suoi Rapporti annuali dedicati appunto allo sviluppo
umano. Per questa concezione, si risale facilmente al dato ontologico
dell’integralità dell’essere umano, cioè alle sue esigenze vitali di ordine
materiale e spirituale, quindi ancora una volta al principio dell’interdipendenza
e indivisibilità di tutti i suoi diritti fondamentali. E’ il caso di ricordare che, nel
1986, l’Assemblea Generale delle Nazioni ha adottato la Dichiarazione sul
diritto allo sviluppo, la quale esalta la centralità della persona umana nei
processi e nelle politiche dello sviluppo. La sicurezza umana va pertanto intesa
come la capacità delle istituzioni di governo, operanti ai vari livelli territoriali, di
costruire la pace positiva, secondo quanto proclama l’articolo 28 della
Dichiarazione Universale:
“Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel
quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella Dichiarazione possono
essere pienamente realizzati”.
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Ne discende che ordine pubblico ed economia di giustizia, così come pace
sociale e pace internazionale, stato di diritto e stato sociale, sono fra
loro indissociabili, elementi essenziali di statualità sostenibile.
Proprio partendo dalla vita come valore fondativo dell’ordinamento e diritto
innato della persona, è dato di sostenere che i diritti degli stati, sistemi
‘derivati’, vengono dopo i diritti della persona nel senso che il loro esercizio
deve essere strumentale al perseguimento del bene comune delle persone e
delle comunità umane, soggetti giuridici ‘originari’. Il Diritto internazionale dei
diritti umani sottrae infatti agli stati e a qualsiasi altra istituzione lo ius necis,
il diritto di morte sulle persone, imponendo l’officium vitae, il dovere di
promuovere e salvaguardare la loro vita. Con la precettività forte, giova
ribadirlo, che è propria delle norme e dei principi di natura costituzionale,
questo nuovo Diritto internazionale oltre a proibire e sanzionare i crimini di
tortura e i trattamenti inumani, e degradanti, nonché la schiavitù e la
discriminazione nelle sue varie forme, è pervenuto, mediante Protocolli
aggiunti alle Convenzioni internazionali, ad attrarre nella medesima logica di
assoluta precettività il divieto della pena di morte. Ne discende che la
fondamentale ragion d’essere dello stato moderno “ne cives ad arma veniant”,
affinchè i cittadini non si facciano giustizia da sé (ricorrendo anche alla
violenza) deve essere oggi completata al positivo con “ut cives vivant”,
affinchè i cittadini vivano.
III. Diritti umani, supercostituzione
1. Alfa e omega della legalità
Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani ha aperto orizzonti
che non possono non entusiasmare i cultori della legalità forte, i
costituzionalisti in primis, specie se si considera che, per quanto attiene agli
sviluppi per così dire architetturali della governance, il Diritto internazionale dei
diritti umani si pone quale bussola che indica con chiarezza la via di un
federalismo mondiale, con conseguente dilatazione di orizzonte per
l’applicazione del principio di sussidiarietà nella sua diplice dimensione,
territoriale e funzionale.
Le norme internazionali sui diritti della persona sono dotate in quanto tali del
massimo grado di precettività giuridica, quindi al vertice della gerarchia delle
fonti dell’ordinamento internazionale generale, a prescindere dalla loro veste
formale: il loro rango è intrinsecamente costituzionale. E’ appena il caso
di far notare che il contenuto delle Convenzioni giuridiche in materia di diritti
umani è sostanzialmente diverso da quello di altri trattati internazionali quali,
per esempio, i trattati di commercio o di estradizione.
Reputata dottrina giuridica argomenta che ci troviamo in presenza di un nucleo
normativo di “super-costituzione” mondiale, contenente principi di ius
cogens, comportanti obblighi erga omnes (C. Zanghì, La protezione
internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, Giappichelli, 2006) L’esistenza di
questa innovativa realtà giuridica avalla la tesi, espressa in autorevoli
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documenti internazionali e recepita anche in esemplari Costituzioni nazionali,
secondo cui il Diritto internazionale dei diritti umani ha il primato non soltanto
rispetto alle norme internazionali per così dire ordinarie, ma anche su qualsiasi
altro ordinamento, nazionale o subnazionale che sia.
L’introduzione nell’ordinamento internazionale del ‘nuovo’ principio “humana
dignitas servanda est” comporta che i classici principi “pacta sunt
servanda”, i patti devono essere rispettati, e “consuetudo servanda est”,
la consuetudine deve essere rispettata, debbano operare strumentalmente
rispetto al perseguimento in via primaria del bene comune dei membri della
famiglia umana riassunto in “tutti i diritti umani per tutti”. Altrimenti detto,
ambedue sono posti sotto costante scrutinio teleologico: oggi, de iure posito,
nel sistema delle relazioni internazionali non c’è posto per il cosiddetto
pactum sceleris (ad esempio, per aggredire e occupare stati, colonizzare
popoli, costruire armi di distruzione di massa), cioè per una prassi che era
invece ‘normale’ nel vecchio ordinamento, fondato sulla sovranità degli stati e
segnato dalle convenienze e dagli arbitrii della Realpolitik.
Il Diritto internazionale dei diritti umani è pertanto la Costituzione prima e
ultima – naturalmente, nello spirito de lege semper perficienda -, l’alfa e
l’omega della legalità costituzionale nello spazio “glocale” che le è
connaturale, cioè nel continuum di norme e garanzie che dalla politeia locale
giunge fino al livello istituzionale apicale delle Nazioni Unite. A definire questa
ipervalenza giuridica contribuisce, storicamente, la funzione che il Diritto dei
diritti umani assolve nel ricapitolare in chiave mondiale gli stessi valori che si
trovano enunciati nelle Carte costituzionali ai vari livelli territoriali.
Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti della persona fornisce la
risposta a chi è alla ricerca della cosiddetta “norma-base” o “norma
fondamentale” dell’ordinamento. È lo stesso ius positum universale dei diritti
umani che rende esplicito ciò che lo trascende e al tempo stesso lo valida nella
sua altissima precettività. In presenza di esso è oggi difficile argomentare a
sostegno delle dottrine cosiddette dualistiche, di quelle cioè che assumono che
il diritto interno e il diritto internazionale sarebbero l’un l’altro estranei,
contenendo ciascuno in sé la propria ragion d’essere, appunto la norma
fondamentale. E’ invece sostenibile, perché validata dalla storia in atto, la
teoria cosiddetta monista, che argomenta che la norma fondamentale è la
stessa sia per l’ordinamento internazionale sia per gli ordinamenti
interni. Intendo dire che la situazione è oggi mutata de iure e de facto: de
iure, perchè gli ordinamenti costituzionali di gran parte degli stati (compresi,
per esempio in Italia, quelli sub-nazionali, come già anticipato) si incrociano
col Diritto internazionale sul medesimo terreno assiologico, condividendo cioè
la medesima radice fondativa; de facto, perchè i processi di interdipendenza e
globalizzazione operanti su scala planetaria costringono i sistemi politici
nazionali a trovare forme di raccordo nell’architettura della multi-level
governance e per far questo, come gà accennato, devono condividere l’uso di
una medesima bussola.
E’ la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti umani, richiamata
espressamente da tutte le Convenzioni giuridiche che l’hanno seguita, a fornire
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la norma-base di un ordinamento universale che si articola su più livelli
territoriali.
2. La compenetrazione Diritto internazionale/Diritto interno
Le Convenzioni giuridiche internazionali riguardanti i diritti umani sono in via
ordinaria preparate all’interno del processo decisionale dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite e di altre istituzioni multilaterali, sia universali (per
esempio, Unesco, Organizzazione Internazionale del Lavoro) sia regionali (per
esempio Consiglio d’Europa, Unione Africana, Organizzazione degli Stati
Americani). Sono gli organi di queste istituzioni, composti di stati, a decidere di
elaborare il testo degli strumenti giuridici e, una volta “adottati” (nel caso
dell’Onu, dalla sua Assemblea Generale), a immetterli nel circuito delle ratifiche
nazionali in conformità coi vari ordinamenti costituzionali. Intendo dire che il
ruolo degli stati, pur sempre essenziale, si esercita in un contesto istituzionale
che è profondamente diverso da quello che caratterizza la tradizionale via della
negoziazione diplomatica, dove si procede all’unanimità e non per votazioni.
Le Convenzioni internazionali, pur avendo tutte la medesima natura di
“accordi giuridici fra stati”, non sono eguali quanto a contenuti
sostanziali né, come sopra ricordato, quanto a modalità di produzione
formale.
Anche in seno all’ordinamento giuridico internazionale c’è una
gerarchia delle fonti, non riducibile alla sola distinzione tra norme
consuetudinarie e norme pattizie. Andando per analogia con (ragionevoli)
tipologie di diritto interno, distinguiamo fra trattati che hanno contenuto
sostanzialmente costituzionale, quelli appunto sui diritti umani, e trattati con
contenuto per così dire ordinario. La funzione delle norme contenute nei primi
è di aggiornare, completare, integrare, in alcuni casi addirittura fondare (com’è
avvenuto nel 1995 per l’ordinamento della Bosnia e Erzegovina), la prima parte
delle Costituzioni degli stati sulla base di comuni standards internazionali.
Poiché la sostanza dei trattati sui diritti umani è pregna di valori che
ritroviamo, con lo stesso rilievo e portata, nella prima parte delle buone
Costituzioni, quanto contenuto nelle Convenzioni internazionali è
destinato naturaliter a entrare in consonanza immediata con le prime
parti appunto delle Costituzioni, integrandole e aggiornandole sulla comune
via della civiltà del diritto universale. Si produce insomma qualcosa che
somiglia a un effetto calamita o se si vuole, poeticamente, all’effetto di
risonanza-consonanza che si produce tra le quattordici ‘corde’ della viola
d’amore, più precisamente tra le sette sollecitate dall’archetto e le sette di
risonanza che si trovano sotto le prime. Ma perché gli obblighi che le
Convenzioni comportano siano formalmente assunti dagli stati, occorre che
questi le ratifichino o comunque vi accedano con atto formale: c’è per così dire,
tra l’ambito internazionale e quello interno, tra le corde superiori e quelle
sotostanti, un cancello d’ingresso che non si apre automaticamente. La
metafora del cancello è la realtà giuridica che si esprime in termini di dominio
riservato, giurisdizione domestica, autosufficienza dell’ordinamento interno, in
breve: sovranità degli stati.
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L’ordinamento costituzionale italiano distingue tra “norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute” e norme pattizie, cioè tra diritto
internazionale consuetudinario e diritto internazionale convenzionale. Le norme
del primo tipo hanno per così dire libero e diretto accesso nel nostro
ordinamento: l’articolo 10 della Costituzione dispone infatti che l’Italia vi si
“conforma”, cioè le recepisce automaticamente. Le norme internazionali del
secondo tipo necessitano invece di una sorta di lascia-passare costituito da
leggi che autorizzano a ratificare e a dare esecuzione: leggi ordinarie. Siamo in
presenza di una paradossale contraddizione: le norme internazionali sui diritti
umani, che sono costituzionali per loro essenza e si articolano attorno ad un
nucleo di principi di diritto consuetudinario - dunque, “norme generalmente
riconosciute” -, entrano nel nostro ordinamento non automaticamente e
neppure con il sigillo della legge costituzionale, ma col subordinato rango
formale di leggi ordinarie che, come tali, potrebbero essere abrogate da leggi
ordinarie successive. La dottrina sta dimostrando di essere consapevole di
questo paradosso e, per sottrarre la sorte delle Convenzioni internazionali in re
diritti umani a possibile sindrome di ‘abrogazione facile’, ha inventato il
marchingegno semantico delle ‘leggi rafforzate’: tali sarebbero appunto le
leggi ‘ordinarie’ che traghettano i trattati internazionali nel diritto interno e le
cui norme avrebbero natura per così dire ‘sub-costituzionale’, tale da
sottrarne la vigenza al principio secondo cui lex posterior derogat priori.
La dottrina dispone di autorevoli riferimenti per argomentare a favore della
suddetta tesi in virtù del nuovo articolo 117 della Costituzione (2001) e
della Legge del 5 giugno 2003 “Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001
n.3”. L’articolo 1 di quest’ulima dispone che
“costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione,
quelli derivanti dal diritto internazionale generalmente riconosciute di
cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca
limitazione di sovranità di cui all’articolo 11 della Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”.
E’ certamente lodevole la volontà di sottrarre la sorte di norme importanti
come quelle che riguardano i diritti umani ad eventuali umori abrogatori di
questa o quella forza politica di turno al governo, ma occorre che il legislatore
riconosca esplicitamente il primato del Diritto internazionale dei diritti umani
sul diritto interno. E’ oggi pacifico che il Diritto comunitario europeo abbia
primato sul diritto interno: anche un Regolamento che fissi il prezzo di un
prodotto agricolo vincola direttamente i cittadini degli stati membri. E’ ben vero
che ciò è previsto dai Trattati istitutivi che dispongono in favore di questo
potere sopranazionale e che l’Italia ne accetta le conseguenze ai sensi
dell’articolo 11 della Costituzione che appunto prevede limitazioni della
sovranità nazionale a condizioni di reciprocità. Nel caso segnalato entra
automaticamente nell’ordinamento interno la norma di un atto che fissa il
17
prezzo, per esempio, dei ravanelli, non una norma di ius cogens qual è invece
quella resa esplicita dalle Convenzioni internazionali sui diritti umani.
Volendo una volta per tutte uscire dagli impressionismi semantici,
occorrerebbe inserire nella Carta costituzionale, a specificazione della
norma dell’articolo 10, un comma che faccia esplicito, letterale
riferimento al Diritto internazionale dei diritti umani e ne sancisca la
posizione di supremazia sul diritto interno. La forma rispecchierebbe così
la sostanza. Risulterebbe chiaro una volta per tutte che le norme internazionali
sui diritti umani hanno, in quanto tali, rilevanza costituzionale benchè
confezionate in forma pattizia.
Anche per resistere a eventuali tentazioni di regredire sul cammino
della civiltà del diritto, è utile riferirsi alla clausola che possiamo definire del
non-arretramento,
contenuta
nell’articolo
30
della
Dichiarazione
Universale:
“Nulla della presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso
di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di
esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di
alcuno dei diritti e della libertà in essa enunciati”.
Questo divieto, sostanzialmente ripreso anche dagli articoli 5 e 46 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici, stabilisce un obbligo erga omnes non
soltanto di ne varietur, cioè che non si abroghi quanto già ‘riconosciuto’, ma
anche, e soprattuttto, per andare avanti nell’acquisizione di traguardi sempre
più avanzati a tutela dei diritti della persona.
IV Cosa significa tutelare i diritti umani
1. Soddisfare bisogni vitali, materiali e spirituali
“Tutela” dei diritti fondamentali è sinonimo di “garanzia” dei medesimi, e
comprende i momenti, fra loro interconnessi e sinergici, della “promozione” e
della “protezione”. Garantire i diritti umani significa soddisfare quei
bisogni vitali della persona che il legislatore chiama - ‘riconosce’ - col
nome di diritti fondamentali o diritti della persona, assunti come innati
(inherent) quindi inviolabili, inalienabili, imprescrittibili. Anche per
evitare dannosi relativismi, occorre ricordare opportune et inopportune che è lo
stesso Diritto internazionale, non questo o quello studioso, a indicare qual è il
fondamento dei diritti umani. La lettera dell’articolo 1 della Dichiarazione
Universale è infatti esplicita al riguardo: tutti gli esseri umani “nascono”
con il corredo dei diritti fondamentali. I filosofi saranno naturalmente
sempre liberi di continuare a disquisire sul fondamento dei diritti umani, ma lo
ius positum internazionale li ha per così dire presi in contropie, li ha anzi messi
di fronte al fatto compiuto. Gli artefici della Dichiarazione Universale furono
abili nel fare accettare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la tesi dei
diritti umani quali “verità pratiche”, come bene argomentato da Jacques
18
Maritain, esplicitandone allo stesso tempo il fondamento metagiuridico: un
successo di abilità politico-giuridica.
Il riconoscimento giuridico-formale di ciò che preesiste alla legge scritta
assolve alla funzione di imporre l’obbligo generale di soddisfare esigenze vitali
della persona appunto garantendo i diritti che le ineriscono. Poiché questi sono
sia civili e politici - diritti negativi (l’Autorità pubblica deve astenersi) -, sia
economici, sociali e culturali - diritti positivi (l’Autorità pubblica deve
intervenire) -, la loro garanzia opera non soltanto attraverso le leggi e le
sentenze, ma anche, io direi soprattutto, in virtù di politiche sociali e azioni
positive. La garanzia deve pertanto, necessariamente, fare riferimento al
principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani la cui
ragione profonda sta, come più volte sottolineato, nel dato ontico
dell’integralità dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di
materia.
Quella dei diritti umani è una ‘giustiziabilità’ che opera in due
momenti, fra loro complementari: post factum, cioè successivamente
alla violazione dei diritti, con finalità sanzionatorie e riparatorie; ante
factum, per prevenire la violazione. Le pubbliche istituzioni sono
obbligate ad operare, contemporaneamente, sul duplice piano
dell’accertamento giudiziario, con eventuale sanzione, e della messa in
opera di politiche pubbliche e misure positive.
Il diritto al lavoro è “garantito” nella misura in cui è “soddisfatto” il
sottostante bisogno vitale di lavorare per guadagnare un salario per sè e per la
propria famiglia, quindi se è realmente disponibile il posto di lavoro, un
obiettivo da perseguire mediante politiche di piena occupazione più che
mediante la sentenza di un tribunale, peraltro sempre necessaria, utile e
irrinunciabile strumento di ‘giustiziabilità’. Così dicasi del diritto alla salute:
non può essere soddisfatto il bisogno vitale di godere di uno stato di benessere
fisico, mentale e sociale come definito dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità, in assenza di politiche e sistemi sanitari che garantiscano ai meno
abbienti l’accesso gratuito alle cure. Le strutture deputate ai servizi sociali
e ai servizi alla persona non sono meno necessarie dei tribunali.
Insomma, la ‘giustiziabilità’ dei diritti umani ha ragion d’essere e modalità che
vanno ben al di là dell’orizzonte meramente giudiziario. Come prima
sottolineato, per la realizzazione dei diritti umani occorrono leggi e politiche
che rispondano, allo stesso tempo, ai dettami dello “stato di diritto” e dello
“stato sociale”, le due facce di una stessa medaglia che si chiama statualità
umanamente sostenibile.
Sostenere, come continuano a fare dottrine vischiosamente positiviste, che i
diritti civili e politici pertengono all’area della precettività, e quindi verrebbero
prima dei diritti economici, sociali e culturali - tra I quali il diritto
all’alimentazione e il diritto alla casa -, declassati all’area della
programmaticità, significa squartare in due l’essere umano, come dire
qualcosa di innaturale e di barbarico. Enfatizzando la giustiziabilità che passa
attraverso i tribunali e le sentenze come l’unica vera garanzia dei diritti umani,
da un lato si avalla implicitamente un’arbitraria gerarchia dei diritti
fondamentali - come dire, per esempio, che il diritto all’alimentazione viene
19
dopo il diritto a libere elezioni -, dall’altro si depotenzia il ruolo della politica
(l’iniziativa e l’intervento pubblico) costringendola a funzioni di ancillarità
rispetto all’economia. Il risultato, surrettiziamente ammantato di rigoroso
positivismo giuridico e di ortodossia del culto della libertà, si traduce nel
favorire il persistere di un’antinomia tra etica e politica proprio nel momento in
cui il Diritto internazionale dei diritti umani si fa traghettatore di etica
universale nei campi appunto della politica e dell’economia, conferendo
alla prima la responsabilità di governare la seconda, non viceversa, per fini che
dovranno essere coerenti con i principi della giustizia sociale.
E’ certamente realistico constatare che per il soddisfacimento di certi diritti si
richiedono scelte, mezzi e risorse particolarmente onerosi, che è quindi più
facile emettere una sentenza giudiziaria che adottare una politica per la piena
occupazione e la cura sanitaria gratuita per tutti coloro che non possono
permettersela a pagamento. Ma l’onerosità dell’implementazione nulla toglie
alla originaria eguale intrinseca valenza giuridica di tutti i diritti proclamati
dalla Dichiarazione Universale. Non è colpa dei diritti umani se anche quelli
economici e sociali sono ‘fondamentali’ e quindi interdipendenti e indivisibili
rispetto ai diritti civili e politici, e viceversa: paradossalmente occorrerebbe
prendersela con la stessa ontologia dell’essere umano…Prima ancora della
volontà del legislatore è appunto l’ontologia della persona a rendere i
diritti umani tutti egualmente fondamentali. Non sono i diritti umani che
devono ridursi numericamente, la sfida è per la politica a mettersi in regola con
essi per applicarli. Al di là del fin troppo facile e trito appello al realismo e al
calcolo economicistico costi-benefici, Il minimalismo in materia, che mira a
stabilire una gerarchia fra i diritti proclamati dalla Dichiarazione Universale, è
di per sé palesemente illogico, in quanto tale insostenibile. Quanto contenuto
nella Dichiarazione è immanentemente coeso: altro è a dirsi per le modalità
della sua applicazione, la quale passa, necessariamente, attraverso processi di
graduale inculturazione.
Constatare che in molte parti del mondo, a partire da quello cosiddetto
sviluppato, i diritti economici e sociali sono ampiamente violati e per nulla
sanzionati (ma cosa dire dei diritti civili e politici?) nulla toglie alla loro
intrinseca precettività: siamo in presenza di una realtà giuridica, ius positum,
che può essere certamente ferita, ma non uccisa, che resiste alle violazioni. E’
ben vero che non tutti gli stati, sui quali incombe primariamente l’obbligo
internazionale di proteggere tutti i diritti umani per tutti, dispongono delle
stesse risorse. Ma è appunto per questo che il vigente Diritto internazionale
sancisce il dovere della cooperazione e della solidarietà tra i suoi principi
fondamentali e tra i fini primari delle Nazioni Unite, come recita l’articolo 1,
terzo comma, della Carta:
“Conseguire la coooperazione internazionale nella soluzione dei
problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale e
umanitario, e nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti
umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di
razza, di sesso, di lingua o di religione”.
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Il principio del dovere di cooperazione e solidarietà figura espressamente in
tutti i principali strumenti giuridici internazionali, in particolare in quelli
riguardanti i diritti sociali ed economici. Si veda, paradigmaticamente, quanto
dispone il primo comma dell’articolo 2 del Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali:
“Ciascuno degli Stati Parti del presente Patto si impegna ad operare,
sia individualmente sia attraverso l’assistenza e la coopoerazione
internazionale, aspecialmente nel campo economico e tecnico, con il
massimo delle risorse di cui dispone al fione di assicurare
prograssivamente con tutti i mezzi appropriati, compresa in
particolare l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei
diritti riconosciuti nel presente Patto”.
Si fa notare che l’avverbio “progressivamente” attiene a modalità di attuazione,
non alla valenza giuridicamente vincolante dei diritti in questione, avverbio da
interpretarsi quindi alla luce di quanto affermato nel Preambolo dello stesso
Patto e cioè che
“in conformità alla Dichiarazione Universale, l’ideale dell’essere
umano libero, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può
essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali
permettano ad ognuno di goidere dei propri diritti economici, sociali
e culturali, nonché dei propori diritti civili e politici”.
A supportare la tesi che qui sosteniamo, nel 2009 è stato aperto alla ratifica
degli stati il Protocollo opzionale al Patto sui diritti economici, sociali e
culturali che, richiamando nel suo Preambolo “l’universalità, l’indivisibilità,
linterdipendenza e l’interconnesione di tutti i diritti umani e le libertà
fondamentali”, istitutisce, analogamente a quanto già avviene per i diritti civili
e politici, la procedura di garanzia cosiddetta della comunicazione individuale,
che consente agli individui e ai gruppi di deferire gli stati inadempienti di fronte
all’apposito Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e
culturali. E’ il caso di ricordare che, in sede di sistema regionale europeo dei
diritti umani, nel 1961 il Consiglio d’Europa ha adottato la la Carta sociale
europea (successivamente perfezionata), allo scopo di riconoscere e garantire
i diritti sociali ed economici, ignorati dalla Convenzione del 1950.
Il campo dell’ante factum, cioè della garanzia preventiva dei diritti umani, è
praticamente sconfinato e si presta alle fertili coltivazioni da parte anche di
soggetti diversi da quelli governativi: individui, gruppi, organi della società,
secondo la tipologia legittimata dalla citata Carta degli human rights defenders,
i quali agiscono non soltanto per denunciare violazioni e monitorare
comportamenti, ma anche per fornire servizi alla persona, cooperare allo
sviluppo, controllare democraticamente e coadiuvare le pubbliche istituzioni ad
bonum faciendum. Si parla al riguardo di una advocacy per i diritti umani che è
trasversale a tutte le fasce sociali, a tutti gli schieramenti politici, a tutti gli
stati: è il nuovo civismo di società civile globale, espressione di una transcend
21
civic identity, identità civica trascendente, che consiste in un superiore
grado di consapevolezza sociale e politica nella città inclusiva.
2. Educare e formare, garanzia primaria
Nel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato la
Dichiarazione Universale come
“ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al
fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo
costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere,
con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di
queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere
nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento”.
Per garantire i diritti umani, la via che passa attraverso l’educazione e
l’insegnamento è dunque autorevolmente indicata dal vigente Diritto
internazionale come la più efficace e consona alla ratio dei diritti e delle libertà
fondamentali, che è la stessa del disegno autenticamente educativo:
ambedue condividono il riferimento ad un paradigma valoriale costituito
dall’intreccio tra etica e diritto con al centro la persona umana, alla
quale deve essere garantita la possibilità reale di realizzarsi - liberamente,
integralmente - nel rispetto degli altrui diritti e responsabilità.
L’avvenuta “giuridificazione” internazionale del valore della eguale dignità di
tutti i membri della famiglia umana è fondamentale per il disegno educativo
poiché gli fornisce un paradigma valoriale che è intrinsecamente obiettivo o, se
si vuole, meno arbitrario di altri, ed è tale perché suggellato appunto da norme
di ius positum universale in risposta ad elementari, basilari esigenze di vita
individuale e di convivenza umanamente sostenibile.
L’approccio educativo ai diritti umani è assio-pratico, collega cioè valori,
conoscenze e competenze al contestuale impegno per la loro realizzazione:
come dire valori non ‘contemplati’ ma ‘agìti’ o, anche, legalità ‘agìta’,
non ‘subìta’. E’ qui evidente la funzione di una educazione che sia allo
stesso tempo interdisciplinare e orientata all’azione, secondo quanto
magistralmente
indicato
nella
sempre
attuale
Raccomandazione
dell’UNESCO “sull’educazione per la comprensione, la cooperazione e
la pace internazionali e sull’educazione ai diritti umani e alle libertà
fondamentali”. Questo porta ad affermare, senza tema di retorica, che coloro
che insegnano, educano, formano e addestrano per la promozione e la difesa
dei diritti umani (la pace, la solidarietà, il dialogo interculturale, la
cooperazione allo sviluppo, la salvaguardia del creato) sono ancora più
importanti, se possibile, dei capi di stato e dei giudici. La loro collocazione si
pone, deve essere posta, al vertice della scala sociale e civica se non anche,
purtroppo, in quella economica. A sottolineare la rilevanza dell’educazione
quale funzione di garanzia primaria dei diritti fondamentali, torna utile
richiamare il testo dell’articolo 13, primo comma, del Patto internazionale
sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 che precisa qual è il
contenuto che il vigente Diritto internazionale assegna al diritto all’educazione
e al corrispettivo obbligo degli stati:
22
“Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni
individuo all’educazione. Essi convengono sul fatto che l’istruzione
deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso
della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti umani e le libertà
fondamentali. Essi convengono inoltre che l’istruzione deve porre
tutti gli individui in grado di partecipare in modo effettivo alla vita di
una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e
l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi
ed incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il
mantenimento della pace”.
Analogo contenuto è nell’articolo 26 della Dichiarazione Universale e
nell’articolo 29 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia
e dell’adolescenza.
3. Educare e formare ai diritti umani: obbligo giuridico, non optional
Alla chiamata di leva educativa permanente sancita dalla Dichiarazione
Universale, l’Università di Padova, prima in Italia e in Europa, ha risposto
con
•
nel 1982 l’istituzione del Centro interdipartimentale di ricerca e
servizi sui diritti della persona e dei popoli e l’attivazione di Corsi
di perfezionamento post-universitario in diritti umani,
•
nel 1995 l’articolo 1, secondo comma, del suo nuovo Statuto che recita
“L’Università degli studi di Padova, in conformità ai principi della
Costituzione della Repubblica Italiana e della propria tradizione
che data dal 1222 ed è riassunta nel motto ‘Universa Universis
Patavina Libertas’, afferma il proprio carattere pluralistico e la
propria indipendenza da ogni condizionamento e discriminazione
di carattere ideoligico, religioso, politico o economico. Essa
promuove l’elaborazione di una cultura fondata su valori
universali quali i diritti umani, la pace, la salvaguardia
dell’ambiente e la solidarietà internazionale”,
•
nel 1997 l’istituzione dello “European Master in Human Rights and
Democratisation” cui partecipano 42 prestigiose Università dei paesi
membri dell’Unione Europea,
•
nel 2000 l’istituzione della Cattedra UNESCO in Diritti Umani,
Democrazia e Pace,
23
•
nel 2001 l’attivazione del Corso di laurea triennale in “Scienze
politiche, relazioni internazionali, diritti umani” e del Corso di
laurea magistrale (biennale) in “Istituzioni e politiche dei diritti
umani e della pace”.
Al momento di licenziare questa presentazione, è in fase di avanzata
elaborazione il testo di una Dichiarazione delle Nazioni Unite
“sull’educazione e la formazione ai diritti umani”. Con Risoluzione 6/10
del 28 settembre 2007, il Consiglio dei diritti umani ne ha affidato il compito al
suo Comitato Consultivo, organo di esperti indipendenti, incaricandolo anche di
raccogliere idee e proposte da parte degli stati, delle istituzioni nazionali dei
diritti umani e delle organizzazioni di società civile, comprese le università A
guidare questo processo, che dovrebbe concludersi nel 2011 con l’adozione
appunto della Dichiarazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite, si è attivata una “piattaforma” di stati di cui fa parte l’Italia insieme con
Costa Rica, Francia, Marocco, Filippine, Svizzera, Slovenia e Senegal. ll Centro
diritti umani dell’Università di Padova partecipa attivamente a questo processo
di codificazione.
Il senso dell’iniziativa che ha preso avvio nella seconda fase di attuazione del
Programma Mondiale delle Nazioni Unite per l’educazione ai diritti
umani lanciato nel 2004, è di affermare con un atto solenne che
l’educazione e la formazione ai diritti umani costituiscono parte
centrale del “diritto all’educazione” e che quindi agli stati incombe
l’obbligo
giuridico, non soltanto morale, di promuoverne e facilitarne
l’insegnamento.
E’ il caso di ricordare che il Programma Mondiale definisce l’educazione ai diritti
umani come quella che contribuisce a costruire una cultura universale
mediante la condivisione della conoscenza dei diritti umani, e persegue
obiettivi quali l’acquisizione di abilità e la costruzione di attitudini dirette
a rafforzare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali; il
pieno sviluppo della personalità umana e il senso della sua dignità; la
promozione della comprensione, della tolleranza, dell’eguaglianza di genere e
dell’amicizia fra tutte le nazioni, i popoli indigeni e i gruppi nazionali, etnici,
religiosi e linguistici; la messa in condizione di tutte le persone di partecipare
effettivamente in una società libera e democratica governata dai principi dello
stato di diritto; la costruzione e il mantenimento della pace; la promozione di
uno sviluppo sostenibile umanocentrico e la giustizia sociale.
Nel contesto di questa mobilitazione educativa su scala mondiale, la tendenza
in atto presso le competenti istanze internazionali - in particolare ONU,
UNESCO, Consiglio d’Europa - è a ricondurre i vari ‘rivoli’ in cui è andata
articolandosi (spesso frammentandosi…) l’educazione civica (allo sviluppo
sostenibile, all’ambiente, alla cittadinanza attiva, all’interculturalità, alla
democrazia, alla salute….) dentro un “Approccio Integrato” di Global
Education.
Sotto il profilo giuridico-formale, si ricorda che, finora, singoli articoli della
Dichiarazione Universale sono stati successivamente specificati e per così dire
24
promossi al rango formale di norma giuridicamente vincolanti (hard law)
mediante le varie convenzioni giuridiche di portata sia universale sia regionale.
Con l’iniziativa, prima ricordata, del Consiglio Diritti Umani, la parte della
Dichiarazione
Universale
che
esalta
il
valore
dell’educazione
e
dell’insegnamento, anche se non si tradurrà in una formale Convenzione,
risulterà comunque trasferita dal Preambolo della Dichiarazione del 1948 ad un
livello di più accentuata valenza giuridica in virtù appunto di una apposita
Dichiarazione delle Nazioni Unite. E’ il caso di ricordare che talune Dichiarazioni
preludono a successiva positivizzazione giuridica di hard law: per esempio, la
Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza è stata
preceduta dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1959 e questa,
addirittura, nel 1924 da una Dichiarazione della Società delle Nazioni.
L’educazione ai diritti umani è, come già precisato, educazione alla legalità
agìta, cioè prepara all’assunzione di responsabilità per lo svolgimento di
ruoli di cittadinanza attiva nelle comunità di appartenenza con la piena
legittimazione fornita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1998 sugli
human rights defenders. In questa luce, in particolare in Italia l’educazione
deve essere intesa non soltanto a combattere comportamenti mafiosi e
malavitosi (uccisioni, estorsioni, frodi, evasioni fiscali, depredamento e
distruzione del territorio, ecc.) e atti di bullismo, ma anche, contestualmente, a
costruire capacità di azione civica e politica democratica per esercitare e
condividere responsabilità di bene comune: insomma, l’ottica non è
quella
criminologica-sicuritaria,
bensì
del
capacity-building
democratico, progettuale, creativo nello spazio glocale che dalle micro
comunità locali si estende fino al sistema dell’Unione Europea, delle
Nazioni Unite e alle altre legittime organizzazioni internazionali, governative e
non governative.
Favorendo l’attuale tendenza a ‘ricapitolare’ i vari filoni educativi all’interno di
un approccio integrato, si aggiorna e si dà forza alla citata lungimirante
Raccomandazione dell’Unesco del 1974 sull’educazione a dimensione
internazionale. Il messaggio per tutti è che un’educazione civica così intesa è lo
strumento necessario per irradiare i diritti umani (mainstreaming) nei
vari settori disciplinari presenti nell’offerta formativa delle strutture di
educazione in ambito sia scolastico sia extra-scolastico, formale e informale,
pubblico e privato.
4. Diritti umani = + società civile + istituzioni pubbliche
Va sottolineato con forza che il Sapere dei diritti umani non si presta per
una cultura di tipo libertario o anarcoide. Al contrario, esso postula
l’esistenza di pubbliche istituzioni idonee a garantire i diritti che esse
riconoscono. Gli stessi diritti democratici di rappresentanza e partecipazione
non sarebbero realizzabili in assenza di idonee sedi e percorsi istituzionali ai
vari livelli della governance. Con una precisazione importante: nell’esaltare il
valore della democrazia, il sapere dei diritti umani ne mette in
discussione la traduzione meramente aritmetico-quantitativa. Se il
potere appartiene al popolo perchè questo è sovrano, e lo è perchè ciascuno
25
dei suoi membri è titolare del medesimo corredo di diritti innati, allora il gioco
maggioranza-minoranza non può produrre come risultato che chi appartiene
alla maggioranza abbia più diritti di chi è minoranza. Chi è minoranza ha,
mantiene gli stessi diritti fondamentali di chi è, provvisoriamente,
maggioranza. Partendo dall’assunto degli eguali diritti umani di tutti, chi è
maggioranza si prende a carico temporaneamente un superiore grado
di responsabilità con relativo potere-dovere di stabilire ordini di priorità nella
mobilitazione delle risorse che sono necessarie per soddisfare i bisogni vitali di
tutti. Il turnover, ovvero la pratica della cosiddetta alternanza nel
governare, risponde oltre che a sani criteri di razionalità in base al calcolo
costi-benefici, soprattutto a nobilissimi principi di etica per la politica.
Un’ulteriore sottolineatura si rende necessaria: premesso che, per la garanzia e
la realizzazione dei diritti umani, non c’è alternativa al metodo democratico,
può anche darsi il caso di una cattiva democrazia - rectius, di una cattiva
pratica della democrazia rappresentativa – che si verifica quando la
maggioranza aritmetica è frutto di omologazione culturale, manipolazione
dell’informazione, corruzione clientelare.
Torna utile ricordare che la radice “diritti umani” ci consegna un’articolazione
multidimensionale della democrazia, speculare al duplice principio della
interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani e della sussidiarietà:
democrazia,
dunque,
politica
ed
economica;
rappresentativa,
partecipativa, diretta; locale, nazionale, internazionale. A conclusione di
questi rapidi cenni in chiave di disegno educativo, è il caso di ricordare che la
cultura dei diritti umani, assumendo la vita della persona umana come valore
fondativo prima ancora che come diritto tra i diritti, è costitutivamente
nonviolenta. Ciò comporta che ci si educhi, e ci si abitui, a far uso in politica
di “potere leggero” (soft power), un potere particolarmente efficace, fatto di
dialogo, di persuasione, di cooperazione, di coerenza e di esempio. Come
prima segnalato, la Dichiarazione delle Nazioni del 1998 sui difensori dei diritti
umani usa più volte l’avverbio ‘pacificamente’ quale requisito di
legittimità.
Avvertenza
per il testo delle fonti giuridiche www.centrodirittiumani.unipd.it
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Bibliografia essenziale
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Per una rassegna aggiornata dei profili istituzionali dei diritti umani, elaborata
nel contesto dello “European Master in Human Rights and Democratisation”, v.
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Human Rights 2009, Antwerp-Vienna, European Academic Press, 2009
Per un puntuale aggiornamento sill’internazionalizzazione dei diritti umani, W.
Benedek, C. Gregory, J. Kosma, M. Nowak, Ch. Strohal, E. Theuermann (a cura
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L. Lombardi Vallauri, Il meritevole di tutela, Milano, Giuffrè, 1991
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Rivista quadrimestrale Pace Diritti Umani/Peace Human Rights, a cura del
Centro Interdipartimentale sui Diritti della Persona e dei Popoli dell’Università
di Padova, Venezia, Marsilio ed.
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