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Dignità umana e diritti umani A cura di Antonio
Dignità umana e diritti umani A cura di Antonio Papisca1 I. Il riconoscimento giuridico internazionale, zoccolo duro del Sapere dei diritti umani ...................................................................................................2 1. Diritti umani, cuore delle Costituzioni..................................................2 2. Diritti umani: genitori, non figli del Diritto ...........................................4 3. La centralità della persona nel Sapere dei diritti umani ..........................5 4. I diritti umani, codice transculturale ...................................................6 5. Diritti umani, legittimazione a linguaggio nuovo ...................................7 II. Dignità umana = Vita = Diritto sopranazionale ..................................... 10 1. La carsicità del riconoscimento giuridico dei diritti umani ..................... 10 2. Dignità proclamata, dignità agita ..................................................... 12 3. Ne cives populique ad arma veniant / ut cives ac populi vivant: sicurezza umana e sviluppo umano.................................................................... 13 III. Diritti umani, supercostituzione ......................................................... 14 1. Alfa e omega della legalità .............................................................. 14 2. La compenetrazione Diritto internazionale/Diritto interno..................... 16 IV Cosa significa tutelare i diritti umani ................................................... 18 1. Soddisfare bisogni vitali, materiali e spirituali..................................... 18 2. Educare e formare, garanzia primaria ............................................... 22 3. Educare e formare ai diritti umani: obbligo giuridico, non optional ........ 23 4. Diritti umani = + società civile + istituzioni pubbliche ......................... 25 Bibliografia essenziale ........................................................................... 27 1 Cattedra UNESCO in Diritti umani, Democrazia e Pace, Università di Padova I. Il riconoscimento giuridico internazionale, zoccolo duro del Sapere dei diritti umani 1. Diritti umani, cuore delle Costituzioni Se le Costituzioni hanno un cuore, non possono non averlo, esso è costituito dai diritti umani. Anche il vigente Diritto internazionale ha questo cuore. Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, articolo 1: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata” I diritti umani sono ciò che comportano in termini di pratica realizzazione. “Diritti umani” senza “garanzie” suonano offesa, oltre che alla logica giuridica, anche al buon senso comune. Negli anni dal 1946 al 1948, i padri e le madri della Costituzione della Repubblica Italiana conoscevano certamente la Carta delle Nazioni Unite, erano al corrente che stava per essere adottata la Dichiarazione Universale dei diritti umani, operavano quindi con il necessario, lungimirante spirito costituente in quell’ampio contesto progettuale definito da Giuseppe Dossetti “crogiuolo ardente universale”. La prima parte della nostra Costituzione è in perfetta sintonia con le fonti giuridiche primarie del nuovo Diritto internazionale che pone la persona umana al centro di qualsiasi ordinamento come proclama la Dichiarazione Universale: 2 “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustzia e della pace nel mondo”. La Costituzione va quindi letta in sinossi con le norme e i principi del Diritto internazionale dei diritti umani fatto di Convenzioni, Protocolli, Dichiarazioni che, come spiegherò più avanti, portano linfa nuova alle norme costituzionali interne, arricchendole e consolidandole. Nella seconda metà del XX secolo, a conclusione di un millennio segnato dalla frammentazione dell’organizzazione politica della famiglia umana, si è avviato un processo di ricomposizione della convivenza civile nel segno di valori universali riassunti nella dignità della persona e nell’imperativo etico-giuridico: humana dignitas servanda est, la dignità umana deve essere rispettata, ovunque nel mondo e in qualsiasi situazione. Processi di globalizzazione e di de-territorializzazione della politica, oggi contestualmente in atto, convergono nello spingere la governance a declinarsi con riferimento ad un comune paradigma assiologico e nella prospettiva di una architettura di distribuzione di processi politici e di funzioni di governo su più livelli: dall’ente di governo locale fino all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Il “nuovo” Diritto internazionale, che ha radice nella Carta delle Nazioni Unite (1945) e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948) e che a giusto titolo può denominarsi “Diritto universale della dignità umana”, è la bussola in corretto rapporto di scala con la magnitudine delle sfide di buona governance globale. Se si considerano i tempi lunghi dei mutamenti strutturali avveratisi nel corso dei millenni su scala mondiale, non si può non esprimere ammirato stupore per il fatto che in poco più di sessant’anni il processo di trasformazione umanocentrica del Diritto internazionale abbia assunto una così organica e consistente forma grazie ad una codificazione sempre più puntuale, presidiata da organismi intergovernativi e sopranazionali con funzioni specializzate di garanzia, sostenuta e monitorata da una miriade di organizzazioni non governative e movimenti sociali transnazionali. Nota bene (inserire quì le tabelle allegate) Attingendo alla sorgente dell’etica umana universale, con la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei diritti umani il Diritto ha intrapreso la via del superamento di quella barriera all’umano nei rapporti internazionali che per lunghi secoli è stata alimentata dalla cultura della iper-personificazione giuridica degli stati nazionali e del mito della sovranità di ciascuno di essi superiorem non recognoscens. Con ricadute a cascata negli ordinamenti interni, in seno all’ordinamento internazionale è cominciata la liberazione di soggettività giuridica autenticamente originaria perché inerente alla persona umana. La Carta delle Nazioni Unite si apre nel segno di questo progetto di liberazione, con una solenne affermazione di soggettualità democratica fino ad allora estranea al linguaggio degli accordi giuridici fra stati: 3 “Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili sofferenze all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano esserema ntenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà”. 2. Diritti umani: genitori, non figli del Diritto I lettori non faticheranno a capire che l’approccio che seguo nell’illustrare ciò che è e comporta l’avvenuto riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani, è marcato da una esplicita “relazione al valore”, che così riassumo. I diritti umani sono cosa buona e giusta, altrettanto è il Diritto internazionale che li riconosce formalmente e impone l’obbligo erga omnes di rispettarli e garantirli. Il loro fondamento sta nella persona umana in quanto tale, la loro intrinseca valenza precettiva è pertanto di ascendenza metagiuridica. Alla tesi di Jeremy Bentham, il quale sosteneva (Anarchical Fallacies, 17911792) che “i diritti naturali sono semplicemente un non senso, un retorico non senso, un non senso sui trampoli) e che un diritto, per essere reale, deve essere ‘legislated’, essere cioè figlio del Diritto (son of law), Amartya Sen (The Power of a Declaration, in “The New Republic, A Journal of Politics and Arts”, 4 February 2009) risponde che i diritti umani sono “parents of law”, i genitori del Diritto, trovando conferma anche in quanto esplicitamente proclama l’articolo 1 della Dichiarazione universale: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (corsivo aggiunto). Il senso di questa norma è chiaro, non c’è posto per approcci di tipo ‘contrattualistico’, i diritti sono innati, ineriscono alla dignità della persona: sono appunto ‘inherent rights and fundamental freedoms” secondo il linguaggio dei documenti ufficiali. Il vigente Diritto internazionale assume dunque esplicitamente che i diritti umani, in quanto diritti ‘fondamentali’, preesistono alla legge scritta e sono ius positum in virtù del loro ‘riconoscimento’ formale, non della loro ‘attribuzione’ come avviene invece per i diritti meramente ‘soggettivi’. Altrimenti detto, i diritti umani siamo noi, ciascuno di noi, “membri della famiglia umana”, tutti su un piano di eguaglianza che è ontica, prima ancora che formale. Ci fu chi, in epoca di assolutismo, disse ‘L’Etat c’est moi’. Oggi, in virtù del vigente Diritto universale, ciascuno di noi può, a giusto titolo, dire: “La Loi c’est moi”: beninteso, la legge fondamentale, non il privilegio o il capriccio o il lusso o l’arroganza o la legge del più forte. E’, questo, un argomentare di particolare efficacia nel contesto dell’educazione civica, perché 4 rinvia all’altissima responsabilità sociale di cui ci si deve rendere consapevoli in quanto soggetti originari di diritti e libertà fondamentali, quindi depositari di sovranità e protagonisti di democrazia. 3. La centralità della persona nel Sapere dei diritti umani Nella chiave di lettura che propongo, il ‘nuovo’ Diritto internazionale è lo zoccolo duro di un più ampio Sapere che, per sua natura, costruisce ponti fra i saperi particolari, fra il sapere umanistico e il sapere scientificotecnico, fra culture e fra religioni, spingendoli tutti ad abbeverarsi alla sorgente dell’universale per purificarsi dai contenuti negativi delle rispettive storie (scorie) - pregiudizi, intolleranze, violenze - e a convergere, anzi a ricapitolarsi nel valore supremo della eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana. Siamo evidentemente nel campo di un pensiero forte che, lungi dal totalizzare, apre a sempre nuove sfide e a sempre nuovi orizzonti di libertà i quali, lungi dall’espropriare o omologare le identità singolari, aiuta queste a declinarsi al plurale, in ottica di complementarietà rispetto alla originaria identità di persona umana. La forza intrinseca di questo Sapere che coniuga valori e azione, teoria e prassi - Sapere assiopratico, dunque -, e che è per sua essenza transdisciplinare, sta nell’assumere la persona umana nel suo originario status di “essere puro”, non in quanto ‘cittadino’ di questo quello stato o ‘attore di ricorsi giudiziari’ o in altri status e ruoli. Luigi Lombardi Vallauri, insigne filosofo del diritto, ha scritto pagine bellissime sulla “originaria e inammissibile infinità di ogni uomo”, infinità “da riconoscere, cioè che deve essere considerata come un fine e mai come un mezzo”, concludendo che “nessuno sviluppo della persona può in fondo conferirle più di quanto essa – fondativamente, originariamente, inammissibilmente – già è”. Il nostro Autore sottolinea che la dignità che inerisce all’essere umano in quanto ‘puro essere’ rifulge in grado eccelso nel bambino e cita quanto ha detto Gesù Cristo al riguardo (solo chi sarà come un bambino entrerà nel Regno dei Cieli) e quanto la tradizione attribuisce a Maometto (che peccato che tanti bambini diventino dei grandi), aggiungendo: “Le ‘importanze’ dell’adulto sono tanto più piccole del puro essere del bambino” (Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam,1981). Viene qui spontaneo citare da “Il Profeta” di Khalil Gibran: “I vostri bambini non sono vostri. Sono figli e figlie del desiderio di vivere. Essi arrivano attraverso voi, ma non da voi. E sebbene stiano con voi, egualmente non vi appartengono” (in A. Papisca, Nel nome dei bambini, Milano, Giuffrè, 1989). E’ il caso di sottolineare che la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, facendosi eco di queste lezioni sapienziali, riconosce il bambino quale soggetto originario di diritti fondamentali, dotato quindi di una soggettività liberata dai profili patrimonialistici e assistenzialistici di un plurisecolare pensiero giuridico. I diritti umani ineriscono, egualmente, sia a chi ne è consapevole, diciamo pure alfabetizzato ed è per ciò stesso in grado di farli valere, sia a chi non lo è. Il titolare dei diritti umani è un soggetto di cui non si discute la ragion d’essere, è “colui/colei che è”, “sistema personale originario” che non deriva da nessun altro se non, in un’ottica di fede religiosa, da un Creatore il quale 5 peraltro lo plasma a sua immagine e somiglianza e lo sussume a dignità di figlio. Il riferimento è qui ad una ‘verità’ condivisa dalle tre grandi religioni monoteiste. Il “riconoscimento” dei diritti - non la “concessione” di essi, giova sottolinearlo - operato dal legislatore quale agente di formale positivizzazione giuridica, prende atto della grandezza e unicità della persona, assumendola quale fonte originaria di sovranità, quindi di democrazia. Usando una metafora religiosa, potremmo anche vedere in quei legislatori illuminati che nella prima parte delle Costituzioni democratiche riconoscono i diritti fondamentali, altrettanti Re Magi che ‘scoprono’ la luce della dignità della persona umana e si genuflettono davanti al suo valore. Come il riconoscimento dei diritti fondamentali operato dalle Costituzioni nazionali è l’epifania della dignità somma della persona nell’ordinamento giuridico interno di uno stato, così il loro riconoscimento internazionale estende la stessa epifania nello spazio dilatato dell’ordinamento mondiale: è epifania giuridica universale. 4. I diritti umani, codice transculturale Il Sapere dei diritti umani aiuta tra l’altro a definire la laicità di istitutioni e di comportamenti assumendo, correttamente, che essa non è omologazione o avalutatività, non tabula rasa di valori, non espropriazione di identità e neppure negazione di trascedenza religiosa. Essa significa invece spazio aperto alla conoscenza e alla fruizione innanzitutto di valori universali - la libertà è un valore -, spazio garantito dalle pubbliche istituzioni a tutti credenti, non credenti, professanti ateismo -, su un piede di eguaglianza e in ottica di responsabilità condivise per il bene comune. Il termometro per misurare la genuina, legittima laicità di ordinamenti, politiche e comportamenti è fornito dai 30 articoli della Dichiarazione Universale, in particolare dall’articolo 18 che così recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, diritto che include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare, solatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. In questo articolo è racchiusa la triade sacrale dell’intero Codice universale dei diritti umani, come dire la sua radice identitaria più marcata. Che tale sia è comprovato anche dal fatto che il contenuto dell’articolo 18 della Dichiarazione è recepito, pressochè letteralmente, dagli analoghi articoli 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 12 della Convenzione interamericana sui diritti umani, 8 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, 30 della Carta araba sui diritti umani, 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 6 Pertiene a questo contesto di sacralità giuridica universale anche la norma dell’articolo 16 della Dichiarazione Universale che proclama la famiglia “nucleo naturale e fondamentale della società”, dotata di un proprio “diritto ad essere protetta dalla società e dallo stato”. E‘ il caso di segnalare che anche il contenuto di questo articolo, analogamente a quanto avvenuto per l’articolo 18, è riprodotto nell’articolo 15 della Convenzione interamericana sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (1969), nell’articolo 18 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981) e nell’articolo 33 della Carta araba dei diritti umani (2004). Le religioni, parimenti alle grandi culture che esse hanno marcato identitariamente, sono sollecitate, appunto in virtù del diritto umano fondamentale alla loro esistenza e pratica, a confrontarsi col paradigma universale dei diritti umani: il risultato di questa prova, se affrontata con coerenza e coraggio, non potrà che tornare utile e ridare vigore alle stesse religioni, specie a quelle con forte connotazione trascendente-universalista. La storia attesta che in particolare le tre grandi religioni monoteiste non sono estranee alla “scoperta” del valore universale della persona e dei diritti che ineriscono alla sua dignità. Non a caso - ma io direi, molto accortamente - in campo cattolico l’Enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII (1963) annovera la Dichiarazione Universale, insieme con le Nazioni Unite, tra i segni dei tempi, cioè tra quelle occasioni che la provvidenza divina offre alla buona volontà delle persone perché si impegnino sempre di più sul cammino del perfezionamento morale, sociale e politico. Si pensi anche al buddismo e al messaggio di pace e tolleranza di cui si fa interprete l’attuale Dalai Lama: questi incarna l’identikit ortodosso degli human rights defenders. Laicamente, possiamo parlare di talenti della storia, da far fruttare al massimo. Oggi, il paradigma dei diritti umani riconosciuti dal vigente Diritto internazionale torna indietro come un boomerang salutare sulle grandi religioni e su tutte le culture, provocandole alla coerenza con le loro radici profonde. 5. Diritti umani, legittimazione a linguaggio nuovo Nel costruire una chiave di lettura che comporta l’uso di categorie concettuali inusuali per il vocabolario giuridico di tradizionale ascendenza positivista, mi avvalgo anche dell’esplicita legittimazione che discende da quella che è comunemente considerata la Magna Charta degli human rights defenders, cioè la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1998 portante su “il diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”. Ne cito di seguito due articoli, che considero emblematici di legittimazione universale ad bonum faciendum anche nel campo del docere e della ricerca scientifica: Articolo 1: “Ognuno ha il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la 7 protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali ai livelli nazionale e internazionale” (corsivo aggiunto). Articolo 7: “Tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di sviluppare e discutere nuove idee e principi sui diritti umani e di promuovere la loro accettazione” (corsivo aggiunto). Dalla lettura di questo importante strumento giuridico apprendiamo che i diritti umani, in quanto universali, non hanno confini, che si è tutti legittimati ad agire per la loro difesa dentro e fuori del proprio stato, che tutti siamo chiamati ad alimentare con nuove idee la cultura dei diritti umani, fatta di diritto e politica, teoria e prassi, educazione, militanza (advocacy, commitment, engagement, servizio): la sola condizione è quella più volte espressa nel documento delle Nazioni Unite con l’avverbio ‘pacificamente’. Non a caso quanti operano per la causa dei diritti umani, della pace e della solidarietà si sono subito appropriati di questo importantissimo documento facendone la loro carta d’identità transnazionale di pionieri di cittadinanza universale: un’identità assiopratica, testimoniale, progettuale, di servizio, di accoglienza, di condivisione, che non conosce, appunto, le chiusure del ‘dominio riservato’degli stati. Il Diritto internazionale della dignità umana è lo Ius positum universale che completa e perfeziona l’antico duplice imperativo etico-giuridico neminem laedere (non nuocere a nessuno) e unicuique suum tribuere (dare a ciascuno il suo), con bonum facere, fare il bene: evidentemente, il bene comune e, in armonia con questo, il bene personale. E’ un Diritto in costante progressione, sotto la tensione che informa, come già sottolineato, il cammino del perfezionamento umano. Come dire: de lege semper perficienda, ovvero la legge che legittima ad operare per il suo costante superamento-perfezionamento. Tra i più recenti e significativi punti d’arrivo/punti di partenza, pur con differente portata giuridico-formale, sono da segnalare la Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, la Dichiarazione universale dell’Unesco su bioetica e diritti umani, la Convenzione Unesco sulla protezione della diversità delle espressioni culturali, la Carta Araba dei diritti umani, i ‘Principi-guida su diritti umani e povertà estrema: i diritti del Povero’, documento del Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, le ‘Linee-guida sui difensori dei diritti umani’, decise dal Consiglio dell’Unione Europea. Insomma, il Diritto internazionale dei diritti umani è un Diritto-lievito, contiene cioè potenzialità che urgono perché siano identificate e sviluppate: soprattutto insegnanti-educatori e magistrati sono sollecitati a questa opera. A mò di esempio, segue qualche indicazione su come fare ‘rendere’, cioè su come tradurre in atto il potenziale insito nello Ius positum universale. Il principio del ‘superiore e migliore interesse del fanciullo’ (the best interest of children), proclamato dall’articolo 3 della Convenzione 8 internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989), viene ordinariamente evocato quando ci si riferisce a esigenze e problemi che sono specifici di queste fasce d’età. Esso si candida invece ad essere annoverato tra i principi generali dell’ordinamento giuridico internazionale, non limitato quindi (sindacalmente…) alle tradizionali materie riguardanti forme di assistenza a infanzia e maternità. Intendo dire che esso va incluso nell’elenco dei principi contenuti nella Dichiarazione di Vienna adottata nel 1993 a conclusione della Conferenza mondiale sui diritti umani: universalità, eguaglianza, interdipendenza e indivisibilità, indissocianilità dei diritti umani delle donne e delle bambine dai diritti umani universalmente riconosciuti. La Corte Costituzionale italiana ha già trovato il modo, con la sua giurisprudenza, di definire “costituzionale” il principio in discorso. Si è soliti definire la ‘Comunità internazionale’ come una entità evanescente dal punto di vista giuridico, una sorta di club esclusivo costituito essenzialmente dagli stati e dalle agenzie multilaterali da essi create. Con il linguaggio dei diritti umani e in perfetta aderenza alla realtà quale va evolvendosi, per ‘Comunità internazionale’ deve intendersi un contenitore istituzionale molto più ampio, comprendente soggetti umani, persone e popoli, oltre che istituzioni e segnato dall’etica dell’abitare la terra quale casa comune di “tutti i membri della famiglia umana”. L’espressione ‘famiglia umana’, ricorrente nei testi giuridici internazionali a partire dalla Dichiarazione Universale, è portatrice di un significato morale, sociale e politico molto più pregnante e impegnativo dell’astratto termine ‘umanità’ o ‘genere umano’. Dire famiglia umana significa infatti evocare ascendenza comune, fratellanza, appartenenza comune, vocazione all’unità nella diversità, impegno di cooperare per il bene comune. Non c’è bisogno di sottolineare che l’istituzione più rappresentativa della casa comune mondiale è l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ancora, occorre innovare nel linguaggio relativo all’istituto della ‘cittadinanza’, utilizzando appropriate categorie concettuali. In virtù del Diritto internazionale dei diritti umani, ha infatti preso visibilità una ‘cittadinanza universale’ che postula primazìa sulle cittadinanze nazionali: è quella della persona umana in quanto tale, col corredo dei diritti fondamentali che le sono riconosciuti come inerenti anche dal vigente Diritto internazionale. Le cittadinanze nazionali (di ben più antica storia, de iure posito) stanno alla cittadinanza universale (di più recente storia, argomentando sempre de iure posito) come i rami al tronco dell’albero. Perchè diano foglie e frutti, i rami devono devono essere uniti al tronco e, insieme con questo, ovviamente, alle radici. Le radici sono i diritti fondamentali, con il tronco costituiscono lo statuto giuridico di persona umana internazionalmente riconosciuto: statuto di cittadinanza universale, appunto. Alla luce di questa novità giuridica, non poetica, non utopistica -, occorre prendere atto che, con l’avvenuto ingresso dell’ordinamento internazionale nella pienezza umanocentrica del diritto, plenitudo iuris, i tradizionali parametri dello ius sanguinis e dello ius soli devono fare i conti col superiore ius humanae dignitatis. La plenitudo iuris postula infatti la plenitudo civitatis, la pienezza 9 della cittadinanza, che non può che essere universale e plurale allo stesso tempo, nell’ottica dell’inclusione: “ad omnes includendos”. II. Dignità umana = Vita = Diritto sopranazionale 1. La carsicità del riconoscimento giuridico dei diritti umani Riproponiamo l’incipit della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, fonte delle fonti del Diritto della dignità umana: “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. “Dignità umana” o “dignità della persona” è valore supremo l’universale degli universali, se possibile – nel quale si innerva l’intero Sapere transdisciplinare dei diritti umani e nella cui garanzia sta la ragion d’essere di tutti gli ordinamenti giuridici, da quello internazionale a quelli municipali. La nostra materia presenta omologie strutturali coi fenomeni carsici: ciò che emerge in superfice è frutto della confluenza di rivoli e fiumi sotterranei che condividono la stessa sostanza e trovano dilatata identità olistica per così dire alla luce del sole, che nel nostro caso significa positivizzazione giuridica nella forma di un Diritto genuinamente universale. I fiumi sotterranei sono le diverse storie costituzionali degli stati, che emergono confluendo in un dilatato alveo normativo. A seguire, qualche esempio della multiforme tipologia con cui si manifesta questa ‘carsicità’ normativa sul valore della dignità umana, cominciando dalla ‘emersione’ internazionale. Proponiamo questo approccio top-down, dal mondo alla città, tenuto conto del fatto che l’internazionalizzazione dei diritti umani ha accresciuto l’attenzione e la sensibilità per il paradigma dei diritti umani già incluso nelle Costituzioni interne ma spesso, come nel caso dell’Italia, ignorato oppure considerato un’icona tanto bella quanto distante. Nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite leggiamo: “Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi (…) a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana”. Il “Principio VII” dell’Atto Finale di Helsinki (1975) proclama che tutti i diritti umani e le libertà fondamentali “derivano dalla intrinseca dignità della persona umana”. L’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 2000) recita: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. L’articolo 2 del Trattato di Lisbona sull’Unione Europea (2007, entrato in vigore il primo dicembre 2009), che sostituisce il dismesso progetto di “Trattatto costituzionale”, proclama: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, dello Stato di diritto e del 10 rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, della solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. E’ il caso di ricordare che l’articolo 6 dello stesso Trattato stabilisce che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, confermata a Strasburgo dal Parlamento Europeo il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. La “Carta europea dei diritti umani nella città”, adottata nel 2000 a St. Denis dalla Seconda Conferenza Europea delle “Città per i Diritti Umani”, richiamandosi alla Dichiarazione Universale e ad altre fonti del Diritto internazionale dei diritti umani, proclama che “i diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti, e tutti i pubblici poteri sono responsabili della loro garanzia". In Italia, oltre che nella Costituzione republicana a cominciare dagli articoli 2 e 3, il valore della dignità umana e dei diritti che le ineriscono è proclamato in numerosi Statuti comunali, provinciali e regionali. Per esempio, l’articolo 2 dello Statuto del Comune di Padova afferma che “nell’esercizio delle proprie funzioni il Comune, nel riconoscere la centralità della persona e della sua dignità, la valorizza…”. E’ interessante notare che in molti Statuti di enti di governo locale nonché in specifiche Leggi regionali dedicate ai diritti umani e alla pace, tra gli altri negli Statuti dei Comuni di Genova, Bolzano, Piacenza, Reggio Emilia, la proclamazione della dignità umana è espressa dalla cosiddetta ‘norma pace diritti umani’ con contestuale, esplicito riferimento alla Costituzione nazionale e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in alcuni casi addirittura all’intero Diritto internazionale dei diritti umani. (v. articolo 1 della Legge Regionale del Veneto 55/1999). Il risultato di questa vicenda, assolutamente innovata per la prassi legislativa e tuttora unica al mondo per estensione e capillarità, è che in Italia la prima parte della Costituzione risulta per così dire blindata: dall’alto, per l’ancoraggio al Diritto internazionale, dal basso, per l’esistenza della norma ‘pace diritti umani’ negli statuti degli enti di governo locale e regionale. Sempre a livello di ordinamenti subnazionali, è interessante in Canada il caso della Municipalità di Montréal che, nel 2005, ha solennemente adottato la “Carta di Montréal dei diritti e delle responsabilità”. Nel suo preambolo c’è il richiamo della Dichiarazione Universale e di altre fonti del Diritto internazionale dei diritti umani. In particolare l’articolo 1 proclama che “la città è uno spazio territoriale e vitale nel quale i valori della dignità umana, della tolleranza, della pace, dell’inclusione e dell’eguaglianza devono essere promossi fra tutti i cittadini”. L’articolo 2 recita: “La dignità umana può essere integralmente preservata soltanto se si realizza una forte lotta contro la povertà e tutte le forme di discriminazione…”. Su questo tema torneremo più avanti con maggiori dettagli. 11 2. Dignità proclamata, dignità agita Accompagnando “dignità umana” con l’aggettivo “innata” (inherent) e con il verbo “rispettare” o “tutelare”, gli strumenti giuridici ne danno per scontata la definizione, preoccupandosi invece di specificare ciò che deve esserne la conseguenza operativa: a suo tempo, è stato lucidamente fatto notare che “il suo intrinseco significato è stato lasciato alla comprensione intuitiva, condizionata in larga misura da fattori culturali” (Oscar Schachter). Alla ricerca di un ancoraggio quanto più obiettivo possibile - operazione indispensabile se assumiamo che ci troviamo di fronte, come prima sottolineato, all’universale degli universali -, occorre passare dal sostantivo al verbo, nel senso di definire il concetto di dignità umana per così dire sul campo, cioè sul terreno concreto della garanzia e della realizzazione dei diritti e dei doveri che le ineriscono. Per il Diritto internazionale dei diritti umani, la dignità umana è un “assunto”, come tale non la si discute, ma si è obbligati a ricercare e mettere in opera le modalità del suo concreto rispetto. Altrimento detto, il vigente Diritto internazionale fa uscire il concetto di dignità umana dalla sfera dell’astratto per incarnarlo nella vita dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia. La vita in quanto tale è inclusa nell’elenco dei diritti fondamentali fornito dalla Dichiarazione universale e dalle Convenzioni giuridiche internazionali (v. in particolare l’articolo.3 della Dichiarazione Universale e l’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici) - non potrebbe essere altrimenti -, ma a ben considerare, oltre e più che un “diritto” fra i diritti, essa è il tempio della dignità umana, come tale ne condivide il carattere di valore fondativo dell’intero ordinamento giuridico internazionale. Le sue ascendenze metagiuridiche postulano che si assegni alla vita individuale, in tutto l’arco del suo svolgimento naturale, il valore più alto, anzi assoluto. Se questo viene relativizzato, si pregiudica l’intera costruzione multi- e trans-disciplinare del Sapere dei diritti umani, non soltanto il suo zoccolo duro giuridico. Dunque, per il vigente Diritto universale, dignità umana e vita sono inscindibili. Ciò spiega come, sul piano normativo e giurisprudenziale, tutti i diritti fondamentali - civili, politici, economici, sociali, culturali - siano considerati in stretta relazione con il principio della loro interdipendenza e indivisibilità. Questo principio è ribadito da importanti documenti internazionali, tra i quali si segnala in modo particolare la già citata Dichiarazione di Vienna del 1993. Nella concreta applicazione del principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani sta il sicuro indicatore del rispetto della dignità umana. In altre parole, questa è rispettata quando la persona è nella condizione di acquisire la reale possibilità di esercitare “le” libertà da (dal bisogno, dalla paura, dal potere assoluto), di (pensiero, religione, associazione…) e per (la piena realizzazione della persona nella comunità, la pace positiva, la salvaguardia dell’ambiente naturale,…) secondo la tipologia del capacity building e dello empowerment, ovvero di costruzione di capacità e potere per l’esercizio di ruoli di cittadinanza attiva. (v.Amartya Sen). L’ottica 12 capacitaria consente di distinguere tra dignità umana ‘proclamata’ e dignità umana ‘agìta’. Va per esempio nella direzione della seconda il documento, prima citato, “Principi-guida su diritti umani e povertà estrema: i diritti del Povero”, promosso nel 2008 dal Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite con l’obiettivo di dar voce e offrire spazi di inclusione e partecipazione ai più deboli fra i soggetti originari dei diritti umani. Rispettare la vita significa non soltanto salvaguardare l’integrità fisica e psichica della persona, assicurarle insomma la “sopravvivenza” e tenerla al riparo da uccisioni e torture (approccio per così dire sicuritario di ‘ordine pubblico’), ma anche, contemporaneamente, porre in essere condizioni sociali, economiche e politiche atte a consentire alla persona di sviluppare integralmente la propria personalità. Il diritto alla vita così inteso lancia la sfida” per una governance umanamente sostenibile, frutto del coniugio di ”stato sociale” e “stato di diritto”. 3. Ne cives populique ad arma veniant / ut cives ac populi vivant: sicurezza umana e sviluppo umano Il Diritto internazionale per la vita è pertanto il diritto per la sicurezza umana (human security) intesa nella sua accezione multidimensionale (economica, sociale, ambientale, di ordine pubblico), che ha come soggetto primario la ‘gente’ - people security - non più lo stato - state security -: le funzioni e le capacità di questo diventa strumentale primariamente al perseguimento degli obiettivi che concorrono a garantire tutti i diritti umani delle persone, delle famiglie, dei popoli. Così intesa, la sicurezza interpella oggi molteplici livelli di governance, da quelli locali e nazionali a quello internazionale e mondiale, indicando che i relativi obiettivi vanno perseguiti in base al principio di sussidiarietà. Nelle sue finalità ultime, la sicurezza umana coincide con lo sviluppo umano, secondo la concezione, anche questa multidimensionale, elaborata e costantemente aggiornata dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, Undp, nei suoi Rapporti annuali dedicati appunto allo sviluppo umano. Per questa concezione, si risale facilmente al dato ontologico dell’integralità dell’essere umano, cioè alle sue esigenze vitali di ordine materiale e spirituale, quindi ancora una volta al principio dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i suoi diritti fondamentali. E’ il caso di ricordare che, nel 1986, l’Assemblea Generale delle Nazioni ha adottato la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, la quale esalta la centralità della persona umana nei processi e nelle politiche dello sviluppo. La sicurezza umana va pertanto intesa come la capacità delle istituzioni di governo, operanti ai vari livelli territoriali, di costruire la pace positiva, secondo quanto proclama l’articolo 28 della Dichiarazione Universale: “Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”. 13 Ne discende che ordine pubblico ed economia di giustizia, così come pace sociale e pace internazionale, stato di diritto e stato sociale, sono fra loro indissociabili, elementi essenziali di statualità sostenibile. Proprio partendo dalla vita come valore fondativo dell’ordinamento e diritto innato della persona, è dato di sostenere che i diritti degli stati, sistemi ‘derivati’, vengono dopo i diritti della persona nel senso che il loro esercizio deve essere strumentale al perseguimento del bene comune delle persone e delle comunità umane, soggetti giuridici ‘originari’. Il Diritto internazionale dei diritti umani sottrae infatti agli stati e a qualsiasi altra istituzione lo ius necis, il diritto di morte sulle persone, imponendo l’officium vitae, il dovere di promuovere e salvaguardare la loro vita. Con la precettività forte, giova ribadirlo, che è propria delle norme e dei principi di natura costituzionale, questo nuovo Diritto internazionale oltre a proibire e sanzionare i crimini di tortura e i trattamenti inumani, e degradanti, nonché la schiavitù e la discriminazione nelle sue varie forme, è pervenuto, mediante Protocolli aggiunti alle Convenzioni internazionali, ad attrarre nella medesima logica di assoluta precettività il divieto della pena di morte. Ne discende che la fondamentale ragion d’essere dello stato moderno “ne cives ad arma veniant”, affinchè i cittadini non si facciano giustizia da sé (ricorrendo anche alla violenza) deve essere oggi completata al positivo con “ut cives vivant”, affinchè i cittadini vivano. III. Diritti umani, supercostituzione 1. Alfa e omega della legalità Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani ha aperto orizzonti che non possono non entusiasmare i cultori della legalità forte, i costituzionalisti in primis, specie se si considera che, per quanto attiene agli sviluppi per così dire architetturali della governance, il Diritto internazionale dei diritti umani si pone quale bussola che indica con chiarezza la via di un federalismo mondiale, con conseguente dilatazione di orizzonte per l’applicazione del principio di sussidiarietà nella sua diplice dimensione, territoriale e funzionale. Le norme internazionali sui diritti della persona sono dotate in quanto tali del massimo grado di precettività giuridica, quindi al vertice della gerarchia delle fonti dell’ordinamento internazionale generale, a prescindere dalla loro veste formale: il loro rango è intrinsecamente costituzionale. E’ appena il caso di far notare che il contenuto delle Convenzioni giuridiche in materia di diritti umani è sostanzialmente diverso da quello di altri trattati internazionali quali, per esempio, i trattati di commercio o di estradizione. Reputata dottrina giuridica argomenta che ci troviamo in presenza di un nucleo normativo di “super-costituzione” mondiale, contenente principi di ius cogens, comportanti obblighi erga omnes (C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, Giappichelli, 2006) L’esistenza di questa innovativa realtà giuridica avalla la tesi, espressa in autorevoli 14 documenti internazionali e recepita anche in esemplari Costituzioni nazionali, secondo cui il Diritto internazionale dei diritti umani ha il primato non soltanto rispetto alle norme internazionali per così dire ordinarie, ma anche su qualsiasi altro ordinamento, nazionale o subnazionale che sia. L’introduzione nell’ordinamento internazionale del ‘nuovo’ principio “humana dignitas servanda est” comporta che i classici principi “pacta sunt servanda”, i patti devono essere rispettati, e “consuetudo servanda est”, la consuetudine deve essere rispettata, debbano operare strumentalmente rispetto al perseguimento in via primaria del bene comune dei membri della famiglia umana riassunto in “tutti i diritti umani per tutti”. Altrimenti detto, ambedue sono posti sotto costante scrutinio teleologico: oggi, de iure posito, nel sistema delle relazioni internazionali non c’è posto per il cosiddetto pactum sceleris (ad esempio, per aggredire e occupare stati, colonizzare popoli, costruire armi di distruzione di massa), cioè per una prassi che era invece ‘normale’ nel vecchio ordinamento, fondato sulla sovranità degli stati e segnato dalle convenienze e dagli arbitrii della Realpolitik. Il Diritto internazionale dei diritti umani è pertanto la Costituzione prima e ultima – naturalmente, nello spirito de lege semper perficienda -, l’alfa e l’omega della legalità costituzionale nello spazio “glocale” che le è connaturale, cioè nel continuum di norme e garanzie che dalla politeia locale giunge fino al livello istituzionale apicale delle Nazioni Unite. A definire questa ipervalenza giuridica contribuisce, storicamente, la funzione che il Diritto dei diritti umani assolve nel ricapitolare in chiave mondiale gli stessi valori che si trovano enunciati nelle Carte costituzionali ai vari livelli territoriali. Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti della persona fornisce la risposta a chi è alla ricerca della cosiddetta “norma-base” o “norma fondamentale” dell’ordinamento. È lo stesso ius positum universale dei diritti umani che rende esplicito ciò che lo trascende e al tempo stesso lo valida nella sua altissima precettività. In presenza di esso è oggi difficile argomentare a sostegno delle dottrine cosiddette dualistiche, di quelle cioè che assumono che il diritto interno e il diritto internazionale sarebbero l’un l’altro estranei, contenendo ciascuno in sé la propria ragion d’essere, appunto la norma fondamentale. E’ invece sostenibile, perché validata dalla storia in atto, la teoria cosiddetta monista, che argomenta che la norma fondamentale è la stessa sia per l’ordinamento internazionale sia per gli ordinamenti interni. Intendo dire che la situazione è oggi mutata de iure e de facto: de iure, perchè gli ordinamenti costituzionali di gran parte degli stati (compresi, per esempio in Italia, quelli sub-nazionali, come già anticipato) si incrociano col Diritto internazionale sul medesimo terreno assiologico, condividendo cioè la medesima radice fondativa; de facto, perchè i processi di interdipendenza e globalizzazione operanti su scala planetaria costringono i sistemi politici nazionali a trovare forme di raccordo nell’architettura della multi-level governance e per far questo, come gà accennato, devono condividere l’uso di una medesima bussola. E’ la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti umani, richiamata espressamente da tutte le Convenzioni giuridiche che l’hanno seguita, a fornire 15 la norma-base di un ordinamento universale che si articola su più livelli territoriali. 2. La compenetrazione Diritto internazionale/Diritto interno Le Convenzioni giuridiche internazionali riguardanti i diritti umani sono in via ordinaria preparate all’interno del processo decisionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di altre istituzioni multilaterali, sia universali (per esempio, Unesco, Organizzazione Internazionale del Lavoro) sia regionali (per esempio Consiglio d’Europa, Unione Africana, Organizzazione degli Stati Americani). Sono gli organi di queste istituzioni, composti di stati, a decidere di elaborare il testo degli strumenti giuridici e, una volta “adottati” (nel caso dell’Onu, dalla sua Assemblea Generale), a immetterli nel circuito delle ratifiche nazionali in conformità coi vari ordinamenti costituzionali. Intendo dire che il ruolo degli stati, pur sempre essenziale, si esercita in un contesto istituzionale che è profondamente diverso da quello che caratterizza la tradizionale via della negoziazione diplomatica, dove si procede all’unanimità e non per votazioni. Le Convenzioni internazionali, pur avendo tutte la medesima natura di “accordi giuridici fra stati”, non sono eguali quanto a contenuti sostanziali né, come sopra ricordato, quanto a modalità di produzione formale. Anche in seno all’ordinamento giuridico internazionale c’è una gerarchia delle fonti, non riducibile alla sola distinzione tra norme consuetudinarie e norme pattizie. Andando per analogia con (ragionevoli) tipologie di diritto interno, distinguiamo fra trattati che hanno contenuto sostanzialmente costituzionale, quelli appunto sui diritti umani, e trattati con contenuto per così dire ordinario. La funzione delle norme contenute nei primi è di aggiornare, completare, integrare, in alcuni casi addirittura fondare (com’è avvenuto nel 1995 per l’ordinamento della Bosnia e Erzegovina), la prima parte delle Costituzioni degli stati sulla base di comuni standards internazionali. Poiché la sostanza dei trattati sui diritti umani è pregna di valori che ritroviamo, con lo stesso rilievo e portata, nella prima parte delle buone Costituzioni, quanto contenuto nelle Convenzioni internazionali è destinato naturaliter a entrare in consonanza immediata con le prime parti appunto delle Costituzioni, integrandole e aggiornandole sulla comune via della civiltà del diritto universale. Si produce insomma qualcosa che somiglia a un effetto calamita o se si vuole, poeticamente, all’effetto di risonanza-consonanza che si produce tra le quattordici ‘corde’ della viola d’amore, più precisamente tra le sette sollecitate dall’archetto e le sette di risonanza che si trovano sotto le prime. Ma perché gli obblighi che le Convenzioni comportano siano formalmente assunti dagli stati, occorre che questi le ratifichino o comunque vi accedano con atto formale: c’è per così dire, tra l’ambito internazionale e quello interno, tra le corde superiori e quelle sotostanti, un cancello d’ingresso che non si apre automaticamente. La metafora del cancello è la realtà giuridica che si esprime in termini di dominio riservato, giurisdizione domestica, autosufficienza dell’ordinamento interno, in breve: sovranità degli stati. 16 L’ordinamento costituzionale italiano distingue tra “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e norme pattizie, cioè tra diritto internazionale consuetudinario e diritto internazionale convenzionale. Le norme del primo tipo hanno per così dire libero e diretto accesso nel nostro ordinamento: l’articolo 10 della Costituzione dispone infatti che l’Italia vi si “conforma”, cioè le recepisce automaticamente. Le norme internazionali del secondo tipo necessitano invece di una sorta di lascia-passare costituito da leggi che autorizzano a ratificare e a dare esecuzione: leggi ordinarie. Siamo in presenza di una paradossale contraddizione: le norme internazionali sui diritti umani, che sono costituzionali per loro essenza e si articolano attorno ad un nucleo di principi di diritto consuetudinario - dunque, “norme generalmente riconosciute” -, entrano nel nostro ordinamento non automaticamente e neppure con il sigillo della legge costituzionale, ma col subordinato rango formale di leggi ordinarie che, come tali, potrebbero essere abrogate da leggi ordinarie successive. La dottrina sta dimostrando di essere consapevole di questo paradosso e, per sottrarre la sorte delle Convenzioni internazionali in re diritti umani a possibile sindrome di ‘abrogazione facile’, ha inventato il marchingegno semantico delle ‘leggi rafforzate’: tali sarebbero appunto le leggi ‘ordinarie’ che traghettano i trattati internazionali nel diritto interno e le cui norme avrebbero natura per così dire ‘sub-costituzionale’, tale da sottrarne la vigenza al principio secondo cui lex posterior derogat priori. La dottrina dispone di autorevoli riferimenti per argomentare a favore della suddetta tesi in virtù del nuovo articolo 117 della Costituzione (2001) e della Legge del 5 giugno 2003 “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3”. L’articolo 1 di quest’ulima dispone che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dal diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione di sovranità di cui all’articolo 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”. E’ certamente lodevole la volontà di sottrarre la sorte di norme importanti come quelle che riguardano i diritti umani ad eventuali umori abrogatori di questa o quella forza politica di turno al governo, ma occorre che il legislatore riconosca esplicitamente il primato del Diritto internazionale dei diritti umani sul diritto interno. E’ oggi pacifico che il Diritto comunitario europeo abbia primato sul diritto interno: anche un Regolamento che fissi il prezzo di un prodotto agricolo vincola direttamente i cittadini degli stati membri. E’ ben vero che ciò è previsto dai Trattati istitutivi che dispongono in favore di questo potere sopranazionale e che l’Italia ne accetta le conseguenze ai sensi dell’articolo 11 della Costituzione che appunto prevede limitazioni della sovranità nazionale a condizioni di reciprocità. Nel caso segnalato entra automaticamente nell’ordinamento interno la norma di un atto che fissa il 17 prezzo, per esempio, dei ravanelli, non una norma di ius cogens qual è invece quella resa esplicita dalle Convenzioni internazionali sui diritti umani. Volendo una volta per tutte uscire dagli impressionismi semantici, occorrerebbe inserire nella Carta costituzionale, a specificazione della norma dell’articolo 10, un comma che faccia esplicito, letterale riferimento al Diritto internazionale dei diritti umani e ne sancisca la posizione di supremazia sul diritto interno. La forma rispecchierebbe così la sostanza. Risulterebbe chiaro una volta per tutte che le norme internazionali sui diritti umani hanno, in quanto tali, rilevanza costituzionale benchè confezionate in forma pattizia. Anche per resistere a eventuali tentazioni di regredire sul cammino della civiltà del diritto, è utile riferirsi alla clausola che possiamo definire del non-arretramento, contenuta nell’articolo 30 della Dichiarazione Universale: “Nulla della presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e della libertà in essa enunciati”. Questo divieto, sostanzialmente ripreso anche dagli articoli 5 e 46 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, stabilisce un obbligo erga omnes non soltanto di ne varietur, cioè che non si abroghi quanto già ‘riconosciuto’, ma anche, e soprattuttto, per andare avanti nell’acquisizione di traguardi sempre più avanzati a tutela dei diritti della persona. IV Cosa significa tutelare i diritti umani 1. Soddisfare bisogni vitali, materiali e spirituali “Tutela” dei diritti fondamentali è sinonimo di “garanzia” dei medesimi, e comprende i momenti, fra loro interconnessi e sinergici, della “promozione” e della “protezione”. Garantire i diritti umani significa soddisfare quei bisogni vitali della persona che il legislatore chiama - ‘riconosce’ - col nome di diritti fondamentali o diritti della persona, assunti come innati (inherent) quindi inviolabili, inalienabili, imprescrittibili. Anche per evitare dannosi relativismi, occorre ricordare opportune et inopportune che è lo stesso Diritto internazionale, non questo o quello studioso, a indicare qual è il fondamento dei diritti umani. La lettera dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale è infatti esplicita al riguardo: tutti gli esseri umani “nascono” con il corredo dei diritti fondamentali. I filosofi saranno naturalmente sempre liberi di continuare a disquisire sul fondamento dei diritti umani, ma lo ius positum internazionale li ha per così dire presi in contropie, li ha anzi messi di fronte al fatto compiuto. Gli artefici della Dichiarazione Universale furono abili nel fare accettare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la tesi dei diritti umani quali “verità pratiche”, come bene argomentato da Jacques 18 Maritain, esplicitandone allo stesso tempo il fondamento metagiuridico: un successo di abilità politico-giuridica. Il riconoscimento giuridico-formale di ciò che preesiste alla legge scritta assolve alla funzione di imporre l’obbligo generale di soddisfare esigenze vitali della persona appunto garantendo i diritti che le ineriscono. Poiché questi sono sia civili e politici - diritti negativi (l’Autorità pubblica deve astenersi) -, sia economici, sociali e culturali - diritti positivi (l’Autorità pubblica deve intervenire) -, la loro garanzia opera non soltanto attraverso le leggi e le sentenze, ma anche, io direi soprattutto, in virtù di politiche sociali e azioni positive. La garanzia deve pertanto, necessariamente, fare riferimento al principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani la cui ragione profonda sta, come più volte sottolineato, nel dato ontico dell’integralità dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia. Quella dei diritti umani è una ‘giustiziabilità’ che opera in due momenti, fra loro complementari: post factum, cioè successivamente alla violazione dei diritti, con finalità sanzionatorie e riparatorie; ante factum, per prevenire la violazione. Le pubbliche istituzioni sono obbligate ad operare, contemporaneamente, sul duplice piano dell’accertamento giudiziario, con eventuale sanzione, e della messa in opera di politiche pubbliche e misure positive. Il diritto al lavoro è “garantito” nella misura in cui è “soddisfatto” il sottostante bisogno vitale di lavorare per guadagnare un salario per sè e per la propria famiglia, quindi se è realmente disponibile il posto di lavoro, un obiettivo da perseguire mediante politiche di piena occupazione più che mediante la sentenza di un tribunale, peraltro sempre necessaria, utile e irrinunciabile strumento di ‘giustiziabilità’. Così dicasi del diritto alla salute: non può essere soddisfatto il bisogno vitale di godere di uno stato di benessere fisico, mentale e sociale come definito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in assenza di politiche e sistemi sanitari che garantiscano ai meno abbienti l’accesso gratuito alle cure. Le strutture deputate ai servizi sociali e ai servizi alla persona non sono meno necessarie dei tribunali. Insomma, la ‘giustiziabilità’ dei diritti umani ha ragion d’essere e modalità che vanno ben al di là dell’orizzonte meramente giudiziario. Come prima sottolineato, per la realizzazione dei diritti umani occorrono leggi e politiche che rispondano, allo stesso tempo, ai dettami dello “stato di diritto” e dello “stato sociale”, le due facce di una stessa medaglia che si chiama statualità umanamente sostenibile. Sostenere, come continuano a fare dottrine vischiosamente positiviste, che i diritti civili e politici pertengono all’area della precettività, e quindi verrebbero prima dei diritti economici, sociali e culturali - tra I quali il diritto all’alimentazione e il diritto alla casa -, declassati all’area della programmaticità, significa squartare in due l’essere umano, come dire qualcosa di innaturale e di barbarico. Enfatizzando la giustiziabilità che passa attraverso i tribunali e le sentenze come l’unica vera garanzia dei diritti umani, da un lato si avalla implicitamente un’arbitraria gerarchia dei diritti fondamentali - come dire, per esempio, che il diritto all’alimentazione viene 19 dopo il diritto a libere elezioni -, dall’altro si depotenzia il ruolo della politica (l’iniziativa e l’intervento pubblico) costringendola a funzioni di ancillarità rispetto all’economia. Il risultato, surrettiziamente ammantato di rigoroso positivismo giuridico e di ortodossia del culto della libertà, si traduce nel favorire il persistere di un’antinomia tra etica e politica proprio nel momento in cui il Diritto internazionale dei diritti umani si fa traghettatore di etica universale nei campi appunto della politica e dell’economia, conferendo alla prima la responsabilità di governare la seconda, non viceversa, per fini che dovranno essere coerenti con i principi della giustizia sociale. E’ certamente realistico constatare che per il soddisfacimento di certi diritti si richiedono scelte, mezzi e risorse particolarmente onerosi, che è quindi più facile emettere una sentenza giudiziaria che adottare una politica per la piena occupazione e la cura sanitaria gratuita per tutti coloro che non possono permettersela a pagamento. Ma l’onerosità dell’implementazione nulla toglie alla originaria eguale intrinseca valenza giuridica di tutti i diritti proclamati dalla Dichiarazione Universale. Non è colpa dei diritti umani se anche quelli economici e sociali sono ‘fondamentali’ e quindi interdipendenti e indivisibili rispetto ai diritti civili e politici, e viceversa: paradossalmente occorrerebbe prendersela con la stessa ontologia dell’essere umano…Prima ancora della volontà del legislatore è appunto l’ontologia della persona a rendere i diritti umani tutti egualmente fondamentali. Non sono i diritti umani che devono ridursi numericamente, la sfida è per la politica a mettersi in regola con essi per applicarli. Al di là del fin troppo facile e trito appello al realismo e al calcolo economicistico costi-benefici, Il minimalismo in materia, che mira a stabilire una gerarchia fra i diritti proclamati dalla Dichiarazione Universale, è di per sé palesemente illogico, in quanto tale insostenibile. Quanto contenuto nella Dichiarazione è immanentemente coeso: altro è a dirsi per le modalità della sua applicazione, la quale passa, necessariamente, attraverso processi di graduale inculturazione. Constatare che in molte parti del mondo, a partire da quello cosiddetto sviluppato, i diritti economici e sociali sono ampiamente violati e per nulla sanzionati (ma cosa dire dei diritti civili e politici?) nulla toglie alla loro intrinseca precettività: siamo in presenza di una realtà giuridica, ius positum, che può essere certamente ferita, ma non uccisa, che resiste alle violazioni. E’ ben vero che non tutti gli stati, sui quali incombe primariamente l’obbligo internazionale di proteggere tutti i diritti umani per tutti, dispongono delle stesse risorse. Ma è appunto per questo che il vigente Diritto internazionale sancisce il dovere della cooperazione e della solidarietà tra i suoi principi fondamentali e tra i fini primari delle Nazioni Unite, come recita l’articolo 1, terzo comma, della Carta: “Conseguire la coooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale e umanitario, e nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione”. 20 Il principio del dovere di cooperazione e solidarietà figura espressamente in tutti i principali strumenti giuridici internazionali, in particolare in quelli riguardanti i diritti sociali ed economici. Si veda, paradigmaticamente, quanto dispone il primo comma dell’articolo 2 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali: “Ciascuno degli Stati Parti del presente Patto si impegna ad operare, sia individualmente sia attraverso l’assistenza e la coopoerazione internazionale, aspecialmente nel campo economico e tecnico, con il massimo delle risorse di cui dispone al fione di assicurare prograssivamente con tutti i mezzi appropriati, compresa in particolare l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti nel presente Patto”. Si fa notare che l’avverbio “progressivamente” attiene a modalità di attuazione, non alla valenza giuridicamente vincolante dei diritti in questione, avverbio da interpretarsi quindi alla luce di quanto affermato nel Preambolo dello stesso Patto e cioè che “in conformità alla Dichiarazione Universale, l’ideale dell’essere umano libero, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di goidere dei propri diritti economici, sociali e culturali, nonché dei propori diritti civili e politici”. A supportare la tesi che qui sosteniamo, nel 2009 è stato aperto alla ratifica degli stati il Protocollo opzionale al Patto sui diritti economici, sociali e culturali che, richiamando nel suo Preambolo “l’universalità, l’indivisibilità, linterdipendenza e l’interconnesione di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali”, istitutisce, analogamente a quanto già avviene per i diritti civili e politici, la procedura di garanzia cosiddetta della comunicazione individuale, che consente agli individui e ai gruppi di deferire gli stati inadempienti di fronte all’apposito Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali. E’ il caso di ricordare che, in sede di sistema regionale europeo dei diritti umani, nel 1961 il Consiglio d’Europa ha adottato la la Carta sociale europea (successivamente perfezionata), allo scopo di riconoscere e garantire i diritti sociali ed economici, ignorati dalla Convenzione del 1950. Il campo dell’ante factum, cioè della garanzia preventiva dei diritti umani, è praticamente sconfinato e si presta alle fertili coltivazioni da parte anche di soggetti diversi da quelli governativi: individui, gruppi, organi della società, secondo la tipologia legittimata dalla citata Carta degli human rights defenders, i quali agiscono non soltanto per denunciare violazioni e monitorare comportamenti, ma anche per fornire servizi alla persona, cooperare allo sviluppo, controllare democraticamente e coadiuvare le pubbliche istituzioni ad bonum faciendum. Si parla al riguardo di una advocacy per i diritti umani che è trasversale a tutte le fasce sociali, a tutti gli schieramenti politici, a tutti gli stati: è il nuovo civismo di società civile globale, espressione di una transcend 21 civic identity, identità civica trascendente, che consiste in un superiore grado di consapevolezza sociale e politica nella città inclusiva. 2. Educare e formare, garanzia primaria Nel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato la Dichiarazione Universale come “ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento”. Per garantire i diritti umani, la via che passa attraverso l’educazione e l’insegnamento è dunque autorevolmente indicata dal vigente Diritto internazionale come la più efficace e consona alla ratio dei diritti e delle libertà fondamentali, che è la stessa del disegno autenticamente educativo: ambedue condividono il riferimento ad un paradigma valoriale costituito dall’intreccio tra etica e diritto con al centro la persona umana, alla quale deve essere garantita la possibilità reale di realizzarsi - liberamente, integralmente - nel rispetto degli altrui diritti e responsabilità. L’avvenuta “giuridificazione” internazionale del valore della eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana è fondamentale per il disegno educativo poiché gli fornisce un paradigma valoriale che è intrinsecamente obiettivo o, se si vuole, meno arbitrario di altri, ed è tale perché suggellato appunto da norme di ius positum universale in risposta ad elementari, basilari esigenze di vita individuale e di convivenza umanamente sostenibile. L’approccio educativo ai diritti umani è assio-pratico, collega cioè valori, conoscenze e competenze al contestuale impegno per la loro realizzazione: come dire valori non ‘contemplati’ ma ‘agìti’ o, anche, legalità ‘agìta’, non ‘subìta’. E’ qui evidente la funzione di una educazione che sia allo stesso tempo interdisciplinare e orientata all’azione, secondo quanto magistralmente indicato nella sempre attuale Raccomandazione dell’UNESCO “sull’educazione per la comprensione, la cooperazione e la pace internazionali e sull’educazione ai diritti umani e alle libertà fondamentali”. Questo porta ad affermare, senza tema di retorica, che coloro che insegnano, educano, formano e addestrano per la promozione e la difesa dei diritti umani (la pace, la solidarietà, il dialogo interculturale, la cooperazione allo sviluppo, la salvaguardia del creato) sono ancora più importanti, se possibile, dei capi di stato e dei giudici. La loro collocazione si pone, deve essere posta, al vertice della scala sociale e civica se non anche, purtroppo, in quella economica. A sottolineare la rilevanza dell’educazione quale funzione di garanzia primaria dei diritti fondamentali, torna utile richiamare il testo dell’articolo 13, primo comma, del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 che precisa qual è il contenuto che il vigente Diritto internazionale assegna al diritto all’educazione e al corrispettivo obbligo degli stati: 22 “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’educazione. Essi convengono sul fatto che l’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali. Essi convengono inoltre che l’istruzione deve porre tutti gli individui in grado di partecipare in modo effettivo alla vita di una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi ed incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace”. Analogo contenuto è nell’articolo 26 della Dichiarazione Universale e nell’articolo 29 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. 3. Educare e formare ai diritti umani: obbligo giuridico, non optional Alla chiamata di leva educativa permanente sancita dalla Dichiarazione Universale, l’Università di Padova, prima in Italia e in Europa, ha risposto con • nel 1982 l’istituzione del Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli e l’attivazione di Corsi di perfezionamento post-universitario in diritti umani, • nel 1995 l’articolo 1, secondo comma, del suo nuovo Statuto che recita “L’Università degli studi di Padova, in conformità ai principi della Costituzione della Repubblica Italiana e della propria tradizione che data dal 1222 ed è riassunta nel motto ‘Universa Universis Patavina Libertas’, afferma il proprio carattere pluralistico e la propria indipendenza da ogni condizionamento e discriminazione di carattere ideoligico, religioso, politico o economico. Essa promuove l’elaborazione di una cultura fondata su valori universali quali i diritti umani, la pace, la salvaguardia dell’ambiente e la solidarietà internazionale”, • nel 1997 l’istituzione dello “European Master in Human Rights and Democratisation” cui partecipano 42 prestigiose Università dei paesi membri dell’Unione Europea, • nel 2000 l’istituzione della Cattedra UNESCO in Diritti Umani, Democrazia e Pace, 23 • nel 2001 l’attivazione del Corso di laurea triennale in “Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani” e del Corso di laurea magistrale (biennale) in “Istituzioni e politiche dei diritti umani e della pace”. Al momento di licenziare questa presentazione, è in fase di avanzata elaborazione il testo di una Dichiarazione delle Nazioni Unite “sull’educazione e la formazione ai diritti umani”. Con Risoluzione 6/10 del 28 settembre 2007, il Consiglio dei diritti umani ne ha affidato il compito al suo Comitato Consultivo, organo di esperti indipendenti, incaricandolo anche di raccogliere idee e proposte da parte degli stati, delle istituzioni nazionali dei diritti umani e delle organizzazioni di società civile, comprese le università A guidare questo processo, che dovrebbe concludersi nel 2011 con l’adozione appunto della Dichiarazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si è attivata una “piattaforma” di stati di cui fa parte l’Italia insieme con Costa Rica, Francia, Marocco, Filippine, Svizzera, Slovenia e Senegal. ll Centro diritti umani dell’Università di Padova partecipa attivamente a questo processo di codificazione. Il senso dell’iniziativa che ha preso avvio nella seconda fase di attuazione del Programma Mondiale delle Nazioni Unite per l’educazione ai diritti umani lanciato nel 2004, è di affermare con un atto solenne che l’educazione e la formazione ai diritti umani costituiscono parte centrale del “diritto all’educazione” e che quindi agli stati incombe l’obbligo giuridico, non soltanto morale, di promuoverne e facilitarne l’insegnamento. E’ il caso di ricordare che il Programma Mondiale definisce l’educazione ai diritti umani come quella che contribuisce a costruire una cultura universale mediante la condivisione della conoscenza dei diritti umani, e persegue obiettivi quali l’acquisizione di abilità e la costruzione di attitudini dirette a rafforzare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali; il pieno sviluppo della personalità umana e il senso della sua dignità; la promozione della comprensione, della tolleranza, dell’eguaglianza di genere e dell’amicizia fra tutte le nazioni, i popoli indigeni e i gruppi nazionali, etnici, religiosi e linguistici; la messa in condizione di tutte le persone di partecipare effettivamente in una società libera e democratica governata dai principi dello stato di diritto; la costruzione e il mantenimento della pace; la promozione di uno sviluppo sostenibile umanocentrico e la giustizia sociale. Nel contesto di questa mobilitazione educativa su scala mondiale, la tendenza in atto presso le competenti istanze internazionali - in particolare ONU, UNESCO, Consiglio d’Europa - è a ricondurre i vari ‘rivoli’ in cui è andata articolandosi (spesso frammentandosi…) l’educazione civica (allo sviluppo sostenibile, all’ambiente, alla cittadinanza attiva, all’interculturalità, alla democrazia, alla salute….) dentro un “Approccio Integrato” di Global Education. Sotto il profilo giuridico-formale, si ricorda che, finora, singoli articoli della Dichiarazione Universale sono stati successivamente specificati e per così dire 24 promossi al rango formale di norma giuridicamente vincolanti (hard law) mediante le varie convenzioni giuridiche di portata sia universale sia regionale. Con l’iniziativa, prima ricordata, del Consiglio Diritti Umani, la parte della Dichiarazione Universale che esalta il valore dell’educazione e dell’insegnamento, anche se non si tradurrà in una formale Convenzione, risulterà comunque trasferita dal Preambolo della Dichiarazione del 1948 ad un livello di più accentuata valenza giuridica in virtù appunto di una apposita Dichiarazione delle Nazioni Unite. E’ il caso di ricordare che talune Dichiarazioni preludono a successiva positivizzazione giuridica di hard law: per esempio, la Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza è stata preceduta dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1959 e questa, addirittura, nel 1924 da una Dichiarazione della Società delle Nazioni. L’educazione ai diritti umani è, come già precisato, educazione alla legalità agìta, cioè prepara all’assunzione di responsabilità per lo svolgimento di ruoli di cittadinanza attiva nelle comunità di appartenenza con la piena legittimazione fornita dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1998 sugli human rights defenders. In questa luce, in particolare in Italia l’educazione deve essere intesa non soltanto a combattere comportamenti mafiosi e malavitosi (uccisioni, estorsioni, frodi, evasioni fiscali, depredamento e distruzione del territorio, ecc.) e atti di bullismo, ma anche, contestualmente, a costruire capacità di azione civica e politica democratica per esercitare e condividere responsabilità di bene comune: insomma, l’ottica non è quella criminologica-sicuritaria, bensì del capacity-building democratico, progettuale, creativo nello spazio glocale che dalle micro comunità locali si estende fino al sistema dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite e alle altre legittime organizzazioni internazionali, governative e non governative. Favorendo l’attuale tendenza a ‘ricapitolare’ i vari filoni educativi all’interno di un approccio integrato, si aggiorna e si dà forza alla citata lungimirante Raccomandazione dell’Unesco del 1974 sull’educazione a dimensione internazionale. Il messaggio per tutti è che un’educazione civica così intesa è lo strumento necessario per irradiare i diritti umani (mainstreaming) nei vari settori disciplinari presenti nell’offerta formativa delle strutture di educazione in ambito sia scolastico sia extra-scolastico, formale e informale, pubblico e privato. 4. Diritti umani = + società civile + istituzioni pubbliche Va sottolineato con forza che il Sapere dei diritti umani non si presta per una cultura di tipo libertario o anarcoide. Al contrario, esso postula l’esistenza di pubbliche istituzioni idonee a garantire i diritti che esse riconoscono. Gli stessi diritti democratici di rappresentanza e partecipazione non sarebbero realizzabili in assenza di idonee sedi e percorsi istituzionali ai vari livelli della governance. Con una precisazione importante: nell’esaltare il valore della democrazia, il sapere dei diritti umani ne mette in discussione la traduzione meramente aritmetico-quantitativa. Se il potere appartiene al popolo perchè questo è sovrano, e lo è perchè ciascuno 25 dei suoi membri è titolare del medesimo corredo di diritti innati, allora il gioco maggioranza-minoranza non può produrre come risultato che chi appartiene alla maggioranza abbia più diritti di chi è minoranza. Chi è minoranza ha, mantiene gli stessi diritti fondamentali di chi è, provvisoriamente, maggioranza. Partendo dall’assunto degli eguali diritti umani di tutti, chi è maggioranza si prende a carico temporaneamente un superiore grado di responsabilità con relativo potere-dovere di stabilire ordini di priorità nella mobilitazione delle risorse che sono necessarie per soddisfare i bisogni vitali di tutti. Il turnover, ovvero la pratica della cosiddetta alternanza nel governare, risponde oltre che a sani criteri di razionalità in base al calcolo costi-benefici, soprattutto a nobilissimi principi di etica per la politica. Un’ulteriore sottolineatura si rende necessaria: premesso che, per la garanzia e la realizzazione dei diritti umani, non c’è alternativa al metodo democratico, può anche darsi il caso di una cattiva democrazia - rectius, di una cattiva pratica della democrazia rappresentativa – che si verifica quando la maggioranza aritmetica è frutto di omologazione culturale, manipolazione dell’informazione, corruzione clientelare. Torna utile ricordare che la radice “diritti umani” ci consegna un’articolazione multidimensionale della democrazia, speculare al duplice principio della interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani e della sussidiarietà: democrazia, dunque, politica ed economica; rappresentativa, partecipativa, diretta; locale, nazionale, internazionale. A conclusione di questi rapidi cenni in chiave di disegno educativo, è il caso di ricordare che la cultura dei diritti umani, assumendo la vita della persona umana come valore fondativo prima ancora che come diritto tra i diritti, è costitutivamente nonviolenta. Ciò comporta che ci si educhi, e ci si abitui, a far uso in politica di “potere leggero” (soft power), un potere particolarmente efficace, fatto di dialogo, di persuasione, di cooperazione, di coerenza e di esempio. Come prima segnalato, la Dichiarazione delle Nazioni del 1998 sui difensori dei diritti umani usa più volte l’avverbio ‘pacificamente’ quale requisito di legittimità. Avvertenza per il testo delle fonti giuridiche www.centrodirittiumani.unipd.it 26 Bibliografia essenziale C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, Giappichelli, 2006 P. De Stefani (a cura di), Codice internazionale dei diritti umani, Padova, Cleup, 2009 F. 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Mascia (a cura di), Dialogo interculturalem diritti umani, cittadinanza plurale, Venezia, Marsilio, 2007 Consiglio dell’Unione Europea, Linee guida sui difensori dei diritti umani, Bruxelles, 2004 Per una rassegna aggiornata dei profili istituzionali dei diritti umani, elaborata nel contesto dello “European Master in Human Rights and Democratisation”, v. W. Benedek, W. Karl, A. Mihr, M. Nowak (a cura di). European Yearbook on Human Rights 2009, Antwerp-Vienna, European Academic Press, 2009 Per un puntuale aggiornamento sill’internazionalizzazione dei diritti umani, W. Benedek, C. Gregory, J. Kosma, M. Nowak, Ch. Strohal, E. Theuermann (a cura di), Global Standards, Local Action. 15 Years after Vienna World Conference on Human Rights, Wien-Graz, Intersentia, 2009 J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Torino, Marietti, 2003 A. Pavan (a cura di), Enciclopedia della persona nel XX secolo, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009 N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990 L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981 L. Lombardi Vallauri, Il meritevole di tutela, Milano, Giuffrè, 1991 F. P. Casavola, I diritti umani, Padova, Cedam, 1997 Rivista quadrimestrale Pace Diritti Umani/Peace Human Rights, a cura del Centro Interdipartimentale sui Diritti della Persona e dei Popoli dell’Università di Padova, Venezia, Marsilio ed. 27