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Puntata n°1 - Carlo Cocconi

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Puntata n°1 - Carlo Cocconi
Storie di sport
Carlo Cocconi
UN ANNO DI JUDO
1° PUNTATA
1
Con infinita gratitudine
dedico questo racconto
al mio Maestro
Sebastiano “Billi” Billardello
e a tutti i tecnici e gli atleti
del mio club,
il DLF Yama Arashi Judo - Udine:
Milena, Enzo, Raffaele, Mirko,
Roberto, Flaviano, Sandro, Andrea
Alessandro, Aldo ... e a tutti gli altri,
ma proprio tutti.
Praticare con voi è un onore
oltre che un immenso piacere.
2
“E se qualcuno volesse addentrarsi
nella ricerca del segreto più recondito del
Judo, dovrà, da un lato, accedendo
all’addestramento
delle
tecniche,
raggiungere quel grado definito magistrale
fino a penetrare nel mistero della mente e
del cuore, e dall’altro, immergendosi nella
ricerca teorica fino a discernere il
misterioso significato della vita e della
morte, dovrà impegnare l’ingegno e lo
sforzo per diventare un conduttore esperto
della vita propria e dei rapporti sociali.”
Jigoro Kano Shi-han
3
Un giorno il Maestro mi disse: - “Il Judo è la ricerca
dell'ippon perfetto. L'ippon perfetto è il raggiungimento
dell'estasi”.
Il Judo, dunque, è la ricerca, e l'auspicabile
raggiungimento, dell'estasi.
Il presidente non era cambiato.
Sempre lo stesso viso squadrato, l'espressione arcigna,
lo sguardo che non riusciva a nascondere del tutto, sotto
l'apparente severità, una singolare comprensione per le
debolezze umane. Lui che di debolezze ne aveva avute sempre
poche, riusciva a capire alla perfezione quelle degli
altri, anche le mie. Soprattutto le mie. Le debolezze del
campione che deve essere compreso, coccolato, aiutato,
valorizzato, portato a esempio per i giovanissimi.
Mi hanno portato a esempio ma, negli ultimi anni, come
di colui di cui non si deve, pena la rapida fine umana e
sportiva, seguire le orme.
Confesso che rivederlo dopo tanto tempo mi ha
rincuorato e la sua affabilità, la sincera gioia che ha
dimostrato nel rivedermi, mi hanno aiutato a vuotare il
sacco fino in fondo. Questo la mattina del 29 luglio
scorso, ero appena tornato a casa dopo un’assenza di sette
anni. La sera di quello stesso giorno, durante la cena a
casa sua, gli ho aperto il mio cuore e la mia mente come
mai avevo fatto prima. Io, abituato a tenermi sempre tutto
dentro, ho capito che la strada dell’estrema riservatezza,
oltre l’apparente fascino che suscita nel prossimo, è
un’arma insidiosa che presto o tardi si rivolge fatalmente
contro noi stessi.
Quel giorno mi ha accolto nel suo ufficio al primo
piano della segheria. Tiene sempre la porta aperta perché
gli piace ascoltare il rumore degli enormi cerchi d’acciaio
dentati che tagliano i tronchi rendendoli tavole da vendere
4
sul fiorente mercato del legno, attività principe nella
nostra cittadina di montagna, attività che dà da mangiare a
un terzo della popolazione adulta.
Ho capito che era contento che fossi lì perché si è
alzato per chiudere la porta, fatto eccezionale per un
evento che non capita tutti i giorni. Mi sono sentito
lusingato, lo stato d’animo del figliol prodigo che torna
dal padre dopo anni di errori, scialacqui, dissipatezze.
Anni bui.
- Ti vedo bene – ha detto facendomi cenno di sedere
nella poltrona per gli ospiti di fronte la scrivania. Ha
tirato fuori il sigaro, l’ha acceso per sé ma non me lo ha
offerto pensando che non fumassi, come ai tempi della mia
attività agonistica. Si è messo in ascolto. Non sapeva, non
poteva sapere, che in quei sette anni non solo avevo
fumato, ma ero andato molto oltre con l'alcol, le donne, il
cibo. Una vita dissoluta. Solo la droga non l’ho mai
avvicinata, almeno davanti a quel baratro mi sono sempre
fermato, consapevole, oggi, di quanto debba essere grato al
mio angelo custode per avermi ben consigliato.
- Sì, Mario, sto bene … abbastanza … non posso
lamentarmi.
- Così sei tornato … Mi fa piacere. Pensi di fermarti
molto?
Me lo ha chiesto con il tono di chi sa che fra poco
ripartirai, che la tua irrequietezza è un male atavico,
genetico, strutturale, che nulla riesce a fermarti in un
luogo per lungo tempo, e sottintende un dispiacere per tale
spreco. Come dicesse, quello sguardo penetrante, paterno:
ecco, eri il migliore, un re, ma il carattere e la saldezza
della mente non ti sono stati donati da Madre Natura in
misura sufficiente.
Eppure ero lì per dimostrare, prima di tutto a me
stesso, il contrario. Che dopo un lungo periodo di
vagabondaggi, di “errori e deviazioni”, volevo realizzare
qualcosa di buono. Per me, innanzitutto e per chi, tanti
anni prima, aveva creduto nel mio eccezionale talento,
nella stella del firmamento judoistico nazionale. Non da
ultimo per la memoria dei miei genitori, per Mario che mi
stava seduto di fronte con il suo sguardo buono e,
soprattutto, per il Maestro.
Il Maestro.
Forse sono tornato soprattutto per lui, per riprendere
un discorso interrotto.
- Sì, Mario, sono qui per restare.
Mi ha guardato sorpreso, come non credesse alle mie
5
parole. Non ci ha creduto, sul momento. Poi ha sorriso.
Deve essergli passato per la mente che uno tanto matto come
me da lasciare tutto, città, affetti, carriera sportiva,
alla vigilia delle olimpiadi (dove, reduce dall’oro
mondiale, avevo la possibilità concreta di fare podio), per
andare lontano mille chilometri a “vivere esperienze
nuove”, be', uno così poteva anche tornare per rimanere.
Si è alzato, mi ha teso la sua mano possente, gliel’ho
stretta.
Ha detto: - Adesso non posso dedicarti altro tempo, mi
aspettano fuori città per concludere dei contratti, sai
come sono i fornitori … ma vieni da me stasera. Ceneremo
insieme, parleremo. Di tutto. Miriam sarà contenta di
vederti, anche i ragazzi.
- Certo, Mario, verrò senz’altro. Anch’io sono felice
di rivederli – ho risposto, consapevole che non sarebbe
stata soltanto una serata di ricordi e chiacchiere. Avrei
dovuto dimostrare, a parole, con i fatti, che ero cambiato
sul serio.
Che di me, finalmente, ci si poteva fidare.
In principio c’era il judo. Solo il judo.
Poi è venuto il resto, una serie di multicolori
attrazioni,
una
vertiginosa
cavalcata
su
giostre
pericolose.
Poi è tornato il judo, assieme a qualcos’altro di poco
importante.
Ora, alla fine, dopo un anno trascorso dal mio ritorno,
a trentaquattro anni, c’è di nuovo solo il judo.
Grazie al Cielo.
Perché
il
Judo
è
la
ricerca,
e
l'auspicabile
raggiungimento, dell'estasi.
Niente di più, niente di meno.
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In cerca di lavoro e abitazione.
Arrivai alle sette e un quarto del mattino dopo aver viaggiato tutta la
notte. Colazione al bar della stazione e alle otto e mezza stavo seduto di
fronte a Mario. Prima di andarmene mi chiese se mi ero già sistemato, se
sapevo dove andare. Avrà pensato che non volevo farmi vedere da mio
fratello e da mia sorella. Aveva ragione, visto che non sapevo neanche
dove vivessero, se fossero ancora in città. Dissi che sì, avevo un paio di
indirizzi, che non si preoccupasse, me la sarei cavata.
- Parliamo di tutto stasera, con calma. Vieni per le sette e mezza –
disse.
Uscito dalla segheria mi guardai attorno poggiando lo sguardo sulla
via, gli edifici industriali della periferia della nostra cittadina di
montagna, le cime coperte da distese di conifere alternate a prati adibiti
a pascoli. Da lì si possono vedere in lontananza, lassù in alto, gli armenti
brucare
l’erba
saporita
dell’estate.
Respirai
profondamente,
m’incamminai verso il centro della città.
Non registrai molti cambiamenti, sette anni non sono tanti per un
borgo di montagna come il nostro, abituato a trasformazioni che si
contano in ere geologiche, eppure tutto ciò che osservavo mi pareva di
vederlo per la prima volta. Ne fui in un certo modo rallegrato,
evidentemente ero cambiato sul serio. Anche questo mi preoccupava
perché non riuscivo a capire come ero cambiato, fino a che livello di
profondità. Soprattutto ignoravo cosa ciò avrebbe comportato. Percepivo
nettamente la sfasatura fra quello che sentivo dentro di me e la vaghezza
del futuro. Ero tornato perché volevo ricominciare. Ma da dove? Come?
Per fare cosa? Per diventare chi?
Sapevo di aver deluso molte persone e sapevo che molti speravano
non tornassi più. Dalle mie parti la gente ha la memoria lunga di chi parla
poco e nulla ha da salvare se non l'essenziale. Qui sono tre le cose che
contano: il legname (con tutto ciò che ne consegue fra cui la severa
salvaguardia del patrimonio arboreo e faunistico delle montagne),
l’hockey, il judo.
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Curioso, vero? che il judo sia considerato un’icona della vita
cittadina. Un must, come si dice oggi. Eppure è così. Che si giochi a
hockey su ghiaccio è comprensibile, stiamo in alto, a mille metri sul
livello del mare. La neve a volte arriva già a ottobre e gli ultimi spruzzi si
possono avere anche a fine aprile e oltre. Ricordo che, ero bambino, un
anno mi svegliai il sei maggio che c’erano venti centimetri di coltre
bianca. Io, mio padre e mia madre ci armammo di pale e fuori a spalare,
quando pensavamo di andare a fare il primo picnic nella spianata di San
Domenico, patrono della città di cui il sei maggio ricorre la festività,
celebrata da secoli con una grande sagra che dura dall’alba a notte fonda
nella spianata che si apre a ventaglio ai pedi dei tre monti che
sovrastano la città, poco oltre le ultime case della periferia nord.
Come mai il judo sia sport principe da noi è un mistero. Io non me
ne sono mai interessato, come poco, finora, mi ha interessato ciò che
succedeva al di fuori della mia persona. Ma questo è inutile lo ripeta, lo
avete già capito bene, credo …
Posso dirvi che ricordo con nitidezza le lotte accanite fra i
sostenitori dell’hockey e del judo, la città divisa in due per dare priorità a
uno o all’altro sport durante i tornei che si dovevano disputare in un
periodo dell’anno in cui non c’era neve, quindi da aprile a ottobre, per
permettere a chi veniva da fuori di non dover impazzire per raggiungere
i nostri due palazzetti. Sì, perché qui da noi tutto si divide in due, i
sostenitori dell’hockey contro quelli del judo, i palazzetti dello sport (uno
solo per l’hockey, l’altro usufruito prevalentemente dal judo ma anche
dalle poche altre discipline sportive che si svolgono in città), le risorse
finanziarie, la programmazione dei tornei nazionali e internazionali e così
via discorrendo.
Da che ho memoria, il judo è sempre stata una presenza costante in
città, ma quando abbia preso piede non so. E quel giorno, fuori dalla
segheria di Mario, guardando gli armenti pascere le vallate, mi chiesi
perché ero così ignorante di ciò che avrebbe dovuto invece riguardarmi
da vicino. Il judo, pensai, è stata la cosa più importante della mia vita, mi
ha permesso di raggiungere risultati impensati per molti altri atleti,
eppure io non sapevo nemmeno da quando esisteva la mia società, come
era nata, grazie agli sforzi di chi e, soprattutto, come mai fu possibile
che uno sport tanto particolare fosse riuscito a farsi strada in un paese
di montanari in mezzo al dominio assoluto dell’hockey.
M’incamminai verso il centro della città, volevo dare un’occhiata alle
vie che mi erano tanto familiari, respirare un po’ l’aria dei bei tempi,
curioso di chi avrei incontrato, salutato.
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Ma dopo aver imboccato la via a tre corsie che conduce al centro mi
fermai, ritornai sui miei passi. Pensai che, tutto sommato, non era una
grande idea. Sentii che non ero pronto. E poi chi avrebbe dovuto
riconoscermi? In sette anni ero cambiato fisicamente. Oltre al naturale
invecchiamento, rispetto al momento in cui me ne andai avevo lasciato
crescere i capelli che ora tenevo raccolti dietro la nuca, avevo una
perenne barba di quattro giorni che mi contornava il mento e, da due
anni, portavo gli occhiali da vista, segno inequivocabile del tempo che
passa.
A Parigi andai da un medico perché non ci vedevo bene, faticavo a
leggere, le righe delle pagine si accavallavano, non mettevo a fuoco le
parole. Quello disse: - Nessun problema particolare, lei ha perso due
diottrie da vicino. Capita con l’età, anche se a lei è successo un po’ prima
del solito.
Avevo avuto sempre una vista perfetta, questo fatto mi disturbò
parecchio. Non mi vedevo con gli occhiali.
- Dottore, dovrò portare gli occhiali? – chiesi con un minimo di
speranza.
- Solo per leggere – disse il medico. Poi, per rincuorarmi, aggiunse:
- Da lontano ha comunque dieci decimi.
Ringraziai e andai da un ottico. Scoprii che gli occhiali da vista
costavano parecchio e io in quel periodo stavo a corto di soldi, per non
dire che ero proprio col culo per terra. Non facevo niente, non lavoravo,
non cercavo un’occupazione. La mia attività principale era la
frequentazione di un night vicino al nuovo Opéra. Potete immaginare in
che condizione fossi. Mi manteneva la fidanzata di turno, una cara
ragazza a cui volevo un tiepido bene e che era, chissà perché,
perdutamente innamorata di me.
Le dissi che avrei dovuto mettere gli occhiali. Mi guardò con un
sorriso dolce, disse che sarei stato ancora più affascinante. Poi frugò
nella borsa e mi diede una manciata di banconote per acquistarli.
Quel gesto di bontà mi fece sentire un fallito. Mi arrabbiai con lei,
gridai che non accettavo la carità da nessuno, le chiesi cosa le fosse
saltato in mente, chi si credesse di essere a trattarmi così …
Una scena disdicevole, potete capirlo. La mia amica si sentì
talmente mortificata che mi chiese scusa. Pensate un po’, la mia
benefattrice mi chiedeva scusa. Scusa a un imbecille come me.
Per farla breve uscii di casa sbattendo la porta, scesi di corsa le
scale fino a raggiungere il marciapiede, mi immersi nella folla, nel
rumore della città fino allo stordimento. Ritornato in me capii che dovevo
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trovare uno straccio di lavoro. Non potevo andare avanti in quel modo. A
tutto c’è un limite, mi dissi, ora tutto cambierà.
Ahimè, non fu così. Il momento non era ancora arrivato. Il lavoro lo
trovai, se si può chiamare lavoro fare il buttafuori senza contratto nel
night che frequentavo ogni sera. Dissi al barman, di cui ero diventato
amico, che ero un campione di judo e se questo mi dava la possibilità di
sfruttare le mia “abilità”.
- Cazzo, amico, sei una cintura nera? Potevi dirmelo subito, qui
abbiamo sempre bisogno di gente che sappia mantenere l’ordine.
Iniziai la sera stessa. Una settimana dopo avevo i soldi per gli
occhiali.
Troncai la relazione con la mia amica che pianse amare lacrime e io
pensai, in un raro momento di lucidità, che lasciarla era la più grande
fortuna della sua vita, altro che tragedia …
Il gestore del night rimase talmente soddisfatto dei miei servigi che
mi offrì una stanza nel retro del locale. Il lavoro iniziava alle sei del
pomeriggio e andava avanti fino all’alba, poi stramazzavo sul letto e mi
svegliavo nel pomeriggio. Posso dire che la mia vita si svolgeva nel
night. Giorno libero lunedì.
Credevo che la nuova sistemazione mi avrebbe portato benefici, che
sarei uscito dal circolo vizioso in cui arrancavo da cinque anni. Ma non fu
così. Non perché fossi particolarmente occupato durante le ore di lavoro.
Mi toccava soprattutto tenere a bada quei quattro cialtroni di clienti
abituali che avevano il vizio di diventare irascibili quando alzavano il
gomito. Allora mi avvicinavo, mostravo il pugno e la cosa finiva lì. Solo
un paio di volte dovetti far ricorso alla mia esperienza di judoka e tirare
fuori dal mio repertorio un kata-guruma per scaraventare a terra un tizio
che importunava la ragazza del capo. Una lezione che costò un tavolino
sfasciato, ma servì da esempio per gli altri avventori. Un’altra volta feci
ricorso a un o-soto-gari con leva articolare al braccio per stendere un
motociclista che aveva attaccato briga col barman. Stesso danno, stesso
risultato.
Le cose, tuttavia, continuavano ad andare male. L’ambiente malsano,
falso e senza prospettive dei locali notturni mi portò, in breve, a uno
stato di prostrazione mentale grave.
Dopo essere tornato nella mia città e aver iniziato a documentarmi
sulla storia del judo, mi venne da pensare che il mio destino in quel
periodo era simile a quello dei samurai che alla fine del periodo feudale
del Giappone furono costretti a trovarsi o inventarsi nuovi lavori, tanto
che molti di essi finirono miseramente a esibirsi per pochi soldi, buttando
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alle ortiche un patrimonio culturale e marziale prezioso, di infinita
ricchezza. La differenza fra i samurai e me, però, era notevole. Loro
furono costretti a reinventarsi una vita a causa degli eventi storici io,
invece, mi ero rovinato da solo. Così bravo ero stato a distruggermi da
non aver avuto bisogno dell’aiuto di nessuno.
Con i capelli lunghi, la barba incolta, i segni di sette anni di vita
dissoluta scavati sulle guance e sulla fronte, con gli occhiali che nel
frattempo dovevo portare sempre perché la vista negli ultimi tempi era
peggiorata anche da lontano, non correvo il rischio di essere
riconosciuto tanto facilmente.
Decisi, in ogni caso, di evitare le vie del centro e quelle più
frequentate. Mi diressi ancora di più in periferia, verso la parte della
città a ridosso delle montagne dove si trovano la maggior parte delle
fattorie.
A Mario avevo mentito. Non avevo indirizzi e nomi di possibili datori
di lavoro. Non avevo nulla, solo la mia logora borsa da viaggio dove
stavano stipate le poche cose rimaste.
Arrivai fino al limite del territorio comunale, prima che la strada si
trasformasse in una carreggiata di sassi. Vidi una costruzione nuova, due
piani con giardino sul davanti e un’insegna: “Ai Tre Pini”. Era un albergo
e i tre pini campeggiavano proprio al centro del grande spiazzo davanti
l’edificio, dove c’era tanto spazio da poterci parcheggiare una trentina di
macchine. Ai lati dell’albergo zone verdi attrezzate per giochi di bambini
e relax dei genitori. Non ricordavo di aver mai visto quell’hotel.
Entrai.
Dietro il bancone della reception un uomo sulla cinquantina
ciondolava la testa sopra una rivista. Si riscosse solo quando gli fui di
fronte.
- Buongiorno, signore – esordì tendendomi la mano – ha bisogno di
una camera? Al momento abbiamo parecchie stanze libere. Le migliori
stanno all’ultimo piano, quelle con le finestre sul retro. Hanno una vista
spettacolare sulle montagne …
- Buongiorno … a dire la verità, non so …
L’uomo mi guardò perplesso. Mi fermai a metà frase perché, in
effetti, non sapevo perché mai fossi entrato in quell’hotel.
Non avevo soldi per potermelo permettere e ho sempre detestato
gli alberghi, fin dai tempi delle trasferte durante la mia attività
agonistica, per non parlare dei tempi in cui ero in nazionale. Stavo bene
solo durante i ritiri, quando ci ospitavano nelle foresterie delle strutture
sportive. Lì era un'altra cosa.
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Dissi: - A essere sincero sto cercando lavoro.
Cercai di sorridere per dare alla mia frase un senso meno idiota di
quello che in realtà aveva.
L’uomo mi guardò con un misto di stupore e trattenuta irritazione.
La sua cordialità scomparve immediatamente dalle pieghe del volto.
- E crede di trovarlo qui? – disse facendo con gli occhi una
panoramica della reception.
- No, certo, anzi mi scuso per i miei modi. Solo che sono appena
arrivato in città, ho intenzione di fermarmi per un po’ e questo è il primo
posto dove sono capitato. Tutto qui. Se ha un’indicazione da darmi bene,
altrimenti grazie comunque.
L’uomo si grattò la pelata. Si mise a riflettere.
- Be’, giovanotto, questo è un posto bastardo per starci e ancora di
più per cercare lavoro. Io sono arrivato qui tre anni fa con mia moglie
che era di queste parti. Voleva tornare a respirare l’aria dei monti dopo
aver vissuto trent’anni nella capitale e io, scemo, le ho dato retta. Con i
pochi risparmi che avevamo abbiamo messo in piedi questa baracca e
adesso mia moglie è morta e a me tocca tirare la carretta per pagare i
debiti. Capito che roba?
- Mi dispiace, non sapevo …
- Che vuoi farci, è andata così. Comunque qui ci sono solo fottute
segherie e fottute fattorie. Quindi se vuoi fare qualcosa devi scegliere
fra queste due alternative. Altro non c'è. Nicht, niente, nada. Puoi
sempre riprendere il treno e tornartene da dove sei venuto. Questa
sarebbe la soluzione migliore.
- La fattoria andrà benone.
- Be' ragazzo, io il consiglio te l'ho dato, fa come vuoi. Qui vicino ce
n’è una, so che cercano spesso manovalanza. Forse qualcosa trovi.
Mi dette l’indirizzo. Era un posto che conoscevo, il figlio del
proprietario, sempre ammesso che fosse ancora lì e vivo, era stato un
mio compagno di classe.
Decisi di tentare. Anche se mi avessero riconosciuto non era poi
così grave, con quella gente non avevo mai legato molto.
Salutai l’uomo, m’incamminai per la strada bianca che porta fuori
città verso le montagne. La fattoria era l’ultimo caseggiato prima dei
boschi, proprio ai piedi delle montagne.
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(2013)
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