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Rassegna stampa 23 febbraio 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 23 febbraio 2016 SOMMARIO “Avete mai notato - riflette Anna Foa sull’Osservatore Romano di oggi - come tutto quello che appartiene al campo della credenza in Dio, delle pratiche religiose, della fede sia divenuto nel tempo una questione quanto mai privata? Come mai è considerata un’intrusione nella sfera del personale, dell’intimo, chiedere a un amico, a un amante, a un familiare se crede in Dio o se va a messa o in sinagoga o in moschea nei giorni di festa? Gli unici che possono ancora porre legittimamente queste domande sono i bambini, che infatti ti rivolgono tranquillamente le domande “proibite”: Sei ebrea? Credi in Dio? Festeggi il Natale? Ancora innocenti, presto scopriranno che domande del genere sono giudicate sconvenienti, che non si debbono porre, che chi è interrogato arrossirà o tossirà con imbarazzo o cercherà di far scivolare la domanda, dalla sua persona a un generico “ebreo”, un generico “cattolico” e fin un generico non credente. Anche interrogare sulla mancanza di fede, sulla militanza ateistica, è considerato infatti intrusivo, imbarazzante. Avete mai sentito qualcuno chiedere a un altro: «Scusa, ma tu sei ateo?», a meno proprio che non ti trovi in piazza con i seguaci dell’Associazione del Libero Pensiero a commemorare Giordano Bruno? Insomma, sono domande che si possono fare solo se sai già la risposta. Chi sta commemorando Giordano Bruno in quel contesto non può essere religioso, chi prende la comunione in chiesa non può non essere cattolico. Insomma, sono domande che non possono essere rivolte all’altro, ma solo al tuo simile. Che non ampliano la tua conoscenza ma si limitano a confermarla. La sfera della sessualità, fino a non molti decenni fa del tutto proibita, intima, riservata, è stata sostituita da quella religiosa. Si può fare outing sulla propria omosessualità ma non sulla propria fede religiosa, o almeno sulla qualità della propria fede religiosa. La frase “ebreo” è stata sostituita, senza quasi accorgersene, da “di origine ebraica”, quasi ad attenuare un’attribuzione di identità che potrebbe imbarazzare. È di famiglia ebraica, ma che creda o non creda, che pratichi o non pratichi, sono questioni coperte dalla privacy. Altrimenti si rischia di passare per un ficcanaso, per un inquisitore, per un intollerante. Si può perfino chiedere a qualcuno se crede alle streghe, al malocchio, ai fantasmi, ma guai a chiedergli se crede in Dio. Il fenomeno è stato accompagnato da una crescente disinformazione sul fatto religioso, sui testi basilari delle religioni, sulla storia stessa delle religioni. I bambini non sanno nulla di Dio. Recentemente, un bambino di una scuola elementare davanti a cui presentavo un libro, incuriosito dal mio essere ebrea (lo avevo detto perché me lo avevano chiesto i bambini!) mi ha domandato «Ma il diavolo è il fratello di Dio?». Ho negato, parlando di angeli ribelli, ma un altro bambino ha interloquito: «Stupido, Dio è figlio unico!». E un altro: «Ma Dio, di che religione è?». Domande intelligenti, acute, che crescono però sulla totale mancanza di una qualsiasi cultura religiosa, in qualunque senso sia declinata, cattolico, multiculturale, tollerante, catechistico. Viene da rimpiangere il catechismo che almeno ti dava qualche informazione di base, che poi si poteva accettare come criticare o respingere. Ma sull’ignoranza totale può crescere solo la curiosità e la stessa intelligenza innata non è sufficiente. Naturalmente, leggere i testi basilari delle religioni, la Bibbia, i Vangeli, il Corano non è nemmeno ipotizzabile, anzi non si sa nemmeno quali siano e a chi appartengano. Ma - potremmo domandarci - che rapporto ha questa mancanza di cultura religiosa con la crescente privatizzazione della fede religiosa? I due fenomeni vanno nella stessa direzione, sono frutto dello stesso processo? Il fatto di non saper nulla di religione ha davvero come corollario quello di non poter fare nessuna domanda all’altro sulla sua fede senza rischiare un’imbarazzante interferenza personale? Certo, in origine c’è la secolarizzazione, la diminuzione del valore della religione, la crescente tolleranza fra le religioni, la rinuncia all’imposizione all’altro del proprio credo. Tutto questo è all’origine, non c’è dubbio. Nessuna società intollerante, sia essa quella cattolica del Cinque-Seicento o quella islamica di oggi, considera con imbarazzo la sfera religiosa. Può al massimo darla per scontata. All’epoca di Giordano Bruno, chiedere a qualcuno se faceva la comunione nei tempi prescritti era una domanda che comportava conseguenze penali o penitenziali, era una domanda che rivolgevano gli inquisitori nella sfera del pubblico e i confessori in quella del privato. Così, nel mondo islamico di oggi, o almeno in quello in cui l’Islam è la religione dello Stato, chi si converte al cattolicesimo non racconterà in pubblico la storia della sua conversione, si guarderà bene anzi dal rivelarla per non essere accusato di apostasia. Innanzi tutto, quindi, c’è la tolleranza religiosa e la perdita di importanza della religione almeno nella sfera pubblica. Ma queste sono precondizioni che spiegano forse la carenza di conoscenza ma non questo strano fenomeno dell’imbarazzo, dell’inserzione della religione nella sfera dell’intimità individuale più rigorosa. E se provassimo a ipotizzare che questo imbarazzo non nasce dal rifiuto, non è un fenomeno attribuibile al fatto che la religione non è importante, ma si origina invece da una carica nascosta o meglio rimossa di interesse? Nessuno può pensare che all’epoca, in realtà molto vicina, in cui il sesso apparteneva rigorosamente alla sfera del privato e del non detto, non fosse per questo importante. Anzi, tanto più era rimosso tanto più era importante. E non può essere lo stesso per la religione? Non ne parliamo, non vogliamo uscire allo scoperto se non dinnanzi ai nostri simili, perché sentiamo che è qualcosa di nostro, di fondamentale, un pezzo dominante della nostra identità sia che si tratti di aderire a una fede, che di passare a un’altra che di confermare o contestare quella in cui si è cresciuti. Perché, infatti, non crediamo che questo rinchiudere nella sfera delle emozioni private, delle credenze personali la domanda su Dio, sia un fenomeno che va nella stessa direzione dell’incultura religiosa, del fatto che di Dio nulla si sa, che delle forme assunte dalle religioni positive nulla si vuole sapere, che i testi della fede, di qualunque fede, sono relegati nelle soffitte della nostra mente. Anzi, forse è proprio questo vuoto che è dietro di noi a farci affrontare con curiosità e al tempo stesso con ritegno tutto quello che ci appare pertinente alla sfera religiosa. Divenuto un mistero, di cui nessuno parla se non per sussurri, Dio ci interpella, fosse anche per negarne o porne in dubbio l’esistenza. Nessuno più fa la famosa scommessa di Pascal, scommettere sull’esistenza di Dio. Semplicemente, facciamo finta che non esista. O che non esista la domanda, che solo i bambini ormai sono più in grado di fare” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Domande proibite di Anna Foa Solo i bambini non provano imbarazzo a parlare di Dio Pag 7 Esperienza di trasfigurazione All’Angelus il Papa parla del viaggio in Messico. E chiede di sospendere le esecuzioni capitali durante il giubileo Pag 8 Comunità di servizio Alla Curia romana il Papa ricorda la necessità di coniugare fedeltà e misericordia e chiede che nessuno si senta trascurato o maltrattato AVVENIRE Pag 1 Smontare i patiboli di Marco Impagliazzo L’appello del Papa e l’impegno di tanti Pag 2 I bisogni dei poveri non sono da meno di Maurizio Patriciello Il pensiero e i desideri interrogano tutti LA REPUBBLICA Pag 19 Radio Vaticana, l’addio dopo 25 anni di padre Lombardi di Paolo Rodari La decisione per l’accorpamento dei media vaticani. Manterrà l’incarico di portavoce della Santa Sede affiancato da due laici 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il diritto dei cattolici a non lavorare di domenica di Flavio Haver Pag 21 I diritti dei nonni di Elena Tebano In 12 milioni si occupano dei nipoti. Ma quando i genitori litigano e ci sono separazioni conflittuali spariscono dalla vita dei bimbi. La condanna della Corte europea LA NUOVA Pag 1 Il “bail in” è un rischio da togliere di Maurizio Mistri 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Cisl, Gottardello lascia: “Più iscritti della Cgil” di Raffaele Rosa Dopo 12 anni il segretario passa la guida a Paolo Bizzotto 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Il vescovo “scomunica” i 5 Stelle Tessarollo difende le private e attacca: “Il loro è pensiero ideologico stravecchio” CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il vescovo di Chioggia (ri)scende in campo e ora attacca i grillini: “Integralisti stravecchi” di Angela Pederiva … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La strana guerra all’Isis di Paolo Mieli Amnesie europee Pag 25 Da Berlusconi a Renzi l’incredibile autostima dei nostri premier di Gian Antonio Stella Politici allo specchio AVVENIRE Pag 2 Ancora sulla coscienza “ben formata” e sulla sostenibilità della legge che verrà (lettere al direttore) Pag 3 Eurozona sostenibile, crederci è un dovere di Leonardo Becchetti I piani di Renzi per salvare l’unione monetaria Pag 3 Clima che cambia e siccità, una questione settentrionale di Paolo Viana Nell’Italia a secco il Nord si scopre povero di alternative Pag 3 Le tasche vuote di Alì, laterale sinistro che sogna la Juve di Mauro Armanino Pag 6 Adozioni gay, il rischio sentenza creativa di Luciano Moia Domani la Corte costituzionale si pronuncia su una “doppia stepchild” ottenuta negli Usa Pag 6 Non tentare fughe in avanti, esiti difficilmente valutabili di Lorenza Violini Pag 9 Le donne “crocifisse”. In 120mila sulle strade di Lucia Bellaspiga La Giovanni XXIII: così le liberiamo. Helene e e 20 vite salvate della “casa di Gesù”. Una Via Crucis di luce che illumina Roma Pag 21 Quale Medio Oriente oltre gli stereotipi? di Chiara Zappa Lo sguardo antropologico di Ugo fabietti per superare i luoghi comuni IL GAZZETTINO Pag 1 La vittoria del realismo e del Parlamento di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Biennio Renzi, l’incubo del debito di Roberta Carlini Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Domande proibite di Anna Foa Solo i bambini non provano imbarazzo a parlare di Dio Avete mai notato come tutto quello che appartiene al campo della credenza in Dio, delle pratiche religiose, della fede sia divenuto nel tempo una questione quanto mai privata? Come mai è considerata un’intrusione nella sfera del personale, dell’intimo, chiedere a un amico, a un amante, a un familiare se crede in Dio o se va a messa o in sinagoga o in moschea nei giorni di festa? Gli unici che possono ancora porre legittimamente queste domande sono i bambini, che infatti ti rivolgono tranquillamente le domande “proibite”: Sei ebrea? Credi in Dio? Festeggi il Natale? Ancora innocenti, presto scopriranno che domande del genere sono giudicate sconvenienti, che non si debbono porre, che chi è interrogato arrossirà o tossirà con imbarazzo o cercherà di far scivolare la domanda, dalla sua persona a un generico “ebreo”, un generico “cattolico” e fin un generico non credente. Anche interrogare sulla mancanza di fede, sulla militanza ateistica, è considerato infatti intrusivo, imbarazzante. Avete mai sentito qualcuno chiedere a un altro: «Scusa, ma tu sei ateo?», a meno proprio che non ti trovi in piazza con i seguaci dell’Associazione del Libero Pensiero a commemorare Giordano Bruno? Insomma, sono domande che si possono fare solo se sai già la risposta. Chi sta commemorando Giordano Bruno in quel contesto non può essere religioso, chi prende la comunione in chiesa non può non essere cattolico. Insomma, sono domande che non possono essere rivolte all’altro, ma solo al tuo simile. Che non ampliano la tua conoscenza ma si limitano a confermarla. La sfera della sessualità, fino a non molti decenni fa del tutto proibita, intima, riservata, è stata sostituita da quella religiosa. Si può fare outing sulla propria omosessualità ma non sulla propria fede religiosa, o almeno sulla qualità della propria fede religiosa. La frase “ebreo” è stata sostituita, senza quasi accorgersene, da “di origine ebraica”, quasi ad attenuare un’attribuzione di identità che potrebbe imbarazzare. È di famiglia ebraica, ma che creda o non creda, che pratichi o non pratichi, sono questioni coperte dalla privacy. Altrimenti si rischia di passare per un ficcanaso, per un inquisitore, per un intollerante. Si può perfino chiedere a qualcuno se crede alle streghe, al malocchio, ai fantasmi, ma guai a chiedergli se crede in Dio. Il fenomeno è stato accompagnato da una crescente disinformazione sul fatto religioso, sui testi basilari delle religioni, sulla storia stessa delle religioni. I bambini non sanno nulla di Dio. Recentemente, un bambino di una scuola elementare davanti a cui presentavo un libro, incuriosito dal mio essere ebrea (lo avevo detto perché me lo avevano chiesto i bambini!) mi ha domandato «Ma il diavolo è il fratello di Dio?». Ho negato, parlando di angeli ribelli, ma un altro bambino ha interloquito: «Stupido, Dio è figlio unico!». E un altro: «Ma Dio, di che religione è?». Domande intelligenti, acute, che crescono però sulla totale mancanza di una qualsiasi cultura religiosa, in qualunque senso sia declinata, cattolico, multiculturale, tollerante, catechistico. Viene da rimpiangere il catechismo che almeno ti dava qualche informazione di base, che poi si poteva accettare come criticare o respingere. Ma sull’ignoranza totale può crescere solo la curiosità e la stessa intelligenza innata non è sufficiente. Naturalmente, leggere i testi basilari delle religioni, la Bibbia, i Vangeli, il Corano non è nemmeno ipotizzabile, anzi non si sa nemmeno quali siano e a chi appartengano. Ma - potremmo domandarci - che rapporto ha questa mancanza di cultura religiosa con la crescente privatizzazione della fede religiosa? I due fenomeni vanno nella stessa direzione, sono frutto dello stesso processo? Il fatto di non saper nulla di religione ha davvero come corollario quello di non poter fare nessuna domanda all’altro sulla sua fede senza rischiare un’imbarazzante interferenza personale? Certo, in origine c’è la secolarizzazione, la diminuzione del valore della religione, la crescente tolleranza fra le religioni, la rinuncia all’imposizione all’altro del proprio credo. Tutto questo è all’origine, non c’è dubbio. Nessuna società intollerante, sia essa quella cattolica del Cinque-Seicento o quella islamica di oggi, considera con imbarazzo la sfera religiosa. Può al massimo darla per scontata. All’epoca di Giordano Bruno, chiedere a qualcuno se faceva la comunione nei tempi prescritti era una domanda che comportava conseguenze penali o penitenziali, era una domanda che rivolgevano gli inquisitori nella sfera del pubblico e i confessori in quella del privato. Così, nel mondo islamico di oggi, o almeno in quello in cui l’Islam è la religione dello Stato, chi si converte al cattolicesimo non racconterà in pubblico la storia della sua conversione, si guarderà bene anzi dal rivelarla per non essere accusato di apostasia. Innanzi tutto, quindi, c’è la tolleranza religiosa e la perdita di importanza della religione almeno nella sfera pubblica. Ma queste sono precondizioni che spiegano forse la carenza di conoscenza ma non questo strano fenomeno dell’imbarazzo, dell’inserzione della religione nella sfera dell’intimità individuale più rigorosa. E se provassimo a ipotizzare che questo imbarazzo non nasce dal rifiuto, non è un fenomeno attribuibile al fatto che la religione non è importante, ma si origina invece da una carica nascosta o meglio rimossa di interesse? Nessuno può pensare che all’epoca, in realtà molto vicina, in cui il sesso apparteneva rigorosamente alla sfera del privato e del non detto, non fosse per questo importante. Anzi, tanto più era rimosso tanto più era importante. E non può essere lo stesso per la religione? Non ne parliamo, non vogliamo uscire allo scoperto se non dinnanzi ai nostri simili, perché sentiamo che è qualcosa di nostro, di fondamentale, un pezzo dominante della nostra identità sia che si tratti di aderire a una fede, che di passare a un’altra che di confermare o contestare quella in cui si è cresciuti. Perché, infatti, non crediamo che questo rinchiudere nella sfera delle emozioni private, delle credenze personali la domanda su Dio, sia un fenomeno che va nella stessa direzione dell’incultura religiosa, del fatto che di Dio nulla si sa, che delle forme assunte dalle religioni positive nulla si vuole sapere, che i testi della fede, di qualunque fede, sono relegati nelle soffitte della nostra mente. Anzi, forse è proprio questo vuoto che è dietro di noi a farci affrontare con curiosità e al tempo stesso con ritegno tutto quello che ci appare pertinente alla sfera religiosa. Divenuto un mistero, di cui nessuno parla se non per sussurri, Dio ci interpella, fosse anche per negarne o porne in dubbio l’esistenza. Nessuno più fa la famosa scommessa di Pascal, scommettere sull’esistenza di Dio. Semplicemente, facciamo finta che non esista. O che non esista la domanda, che solo i bambini ormai sono più in grado di fare. Scriveva oltre cent’anni fa Rainer Maria Rilke proprio a proposito delle domande su Dio dei bambini: «E chiedessero soltanto: “Dove va quel tram a cavalli? Quante sono le stelle? E diecimila è più o meno di molto?” Ben altre cose vogliono sapere! Per esempio: “Il buon Dio parla anche cinese? Com’è fatto il buon Dio? Il buon Dio, sempre il buon Dio! Quando di lui si sa davvero così poco!”». Pag 7 Esperienza di trasfigurazione All’Angelus il Papa parla del viaggio in Messico. E chiede di sospendere le esecuzioni capitali durante il giubileo «Il viaggio apostolico in Messico è stata un’esperienza di trasfigurazione»: lo ha detto il Papa all’Angelus recitato in piazza San Pietro nella mattina del 21 febbraio, collegando le letture del Vangelo domenicale con la recente esperienza vissuta nel grande Paese latinoamericano. Ecco la sua meditazione, durante la quale Francesco ha ricordato anche l’incontro all’Avana con il Patriarca Cirillo. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La seconda domenica di Quaresima ci presenta il Vangelo della Trasfigurazione di Gesù. Il viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni scorsi in Messico è stata un’esperienza di trasfigurazione. Come mai? Perché il Signore ci ha mostrato la luce della sua gloria attraverso il corpo della sua Chiesa, del suo Popolo santo che vive in quella terra. Un corpo tante volte ferito, un Popolo tante volte oppresso, disprezzato, violato nella sua dignità. In effetti, i diversi incontri vissuti in Messico sono stati pieni di luce: la luce della fede che trasfigura i volti e rischiara il cammino. Il “baricentro” spirituale del pellegrinaggio è stato il Santuario della Madonna di Guadalupe. Rimanere in silenzio davanti all’immagine della Madre era ciò che prima di tutto mi proponevo. E ringrazio Dio che me lo ha concesso. Ho contemplato, e mi sono lasciato guardare da Colei che porta impressi nei suoi occhi gli sguardi di tutti i suoi figli, e raccoglie i dolori per le violenze, i rapimenti, le uccisioni, i soprusi a danno di tanta povera gente, di tante donne. Guadalupe è il Santuario mariano più frequentato al mondo. Da tutta l’America vanno a pregare là dove la Virgen Morenita si mostrò all’indio san Juan Diego, dando inizio all’evangelizzazione del continente e alla sua nuova civiltà, frutto dell’incontro tra diverse culture. E questa è proprio l’eredità che il Signore ha consegnato al Messico: custodire la ricchezza della diversità e, nello stesso tempo, manifestare l’armonia della fede comune, una fede schietta e robusta, accompagnata da una grande carica di vitalità e di umanità. Come i miei Predecessori, anch’io sono andato a confermare la fede del popolo messicano, ma contemporaneamente ad esserne confermato; ho raccolto a piene mani questo dono perché vada a beneficio della Chiesa universale. Un esempio luminoso di quanto sto dicendo è dato dalle famiglie: le famiglie messicane mi hanno accolto con gioia come messaggero di Cristo, Pastore della Chiesa; ma a loro volta mi hanno donato delle testimonianze limpide e forti, testimonianze di fede vissuta, di fede che trasfigura la vita, e questo a edificazione di tutte le famiglie cristiane del mondo. E lo stesso si può dire per i giovani, per i consacrati, per i sacerdoti, per i lavoratori, per i carcerati. Perciò rendo grazie al Signore e alla Vergine di Guadalupe per il dono di questo pellegrinaggio. Inoltre, ringrazio il Presidente del Messico e le altre Autorità civili per la calorosa accoglienza; ringrazio vivamente i miei fratelli nell’Episcopato, e tutte le persone che in tanti modi hanno collaborato. Una lode speciale eleviamo alla Santissima Trinità per aver voluto che, in questa occasione, avvenisse a Cuba l’incontro tra il Papa e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, il caro fratello Kirill; un incontro tanto desiderato pure dai miei Predecessori. Anche questo evento è una luce profetica di Risurrezione, di cui oggi il mondo ha più che mai bisogno. La Santa Madre di Dio continui a guidarci nel cammino dell’unità. Preghiamo la Madonna di Kazan’, di cui il Patriarca Kirill mi ha regalato un’icona. Al termine della preghiera mariana il Pontefice ha lanciato un appello contro la pena di morte e salutato i gruppi di fedeli presenti, ai quali è stata donata una scatolina contenente la corona del rosario e l’immaginetta di Gesù misericordioso. Cari fratelli e sorelle, domani avrà luogo a Roma un convegno internazionale dal titolo “Per un mondo senza la pena di morte”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Auspico che il simposio possa dare rinnovato impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale. Un segno di speranza è costituito dallo sviluppo, nell’opinione pubblica, di una sempre più diffusa contrarietà alla pena di morte anche solo come strumento di legittima difesa sociale. In effetti, le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi. Il problema va inquadrato nell’ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell’uomo e al disegno di Dio sull’uomo e sulla società e anche a una giustizia penale aperta alla speranza del reinserimento nella società. Il comandamento «non uccidere» ha valore assoluto e riguarda sia l’innocente che il colpevole. Il Giubileo straordinario della Misericordia è un’occasione propizia per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di ogni persona. Anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio. Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. Rivolgo un cordiale saluto alle famiglie, ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e a tutti i pellegrini di Roma, dell’Italia e di diversi Paesi. Saluto i fedeli di Sevilla, Cádiz, Ceuta (Spagna) e quelli di Trieste, Corato, Torino. Un pensiero particolare rivolgo alla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal Servo di Dio Don Oreste Benzi, che venerdì prossimo promuoverà per le strade del centro di Roma una “Via crucis” di solidarietà e di preghiera per le donne vittime della tratta. La Quaresima è un tempo propizio per compiere un cammino di conversione che ha come centro la misericordia. Perciò, oggi, ho pensato di regalare a voi che siete qui in piazza una “medicina spirituale” chiamata Misericordina. Già una volta l’abbiamo fatto, ma questa è di migliore qualità: è la Misericordina plus. Una scatolina che contiene la corona del Rosario e l’immaginetta di Gesù Misericordioso. Ora la distribuiranno i volontari, tra i quali ci sono poveri, senzatetto, profughi e anche religiosi. Accogliete questo dono come un aiuto spirituale per diffondere, specialmente in questo Anno della Misericordia, l’amore, il perdono e la fraternità. Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! Pag 8 Comunità di servizio Alla Curia romana il Papa ricorda la necessità di coniugare fedeltà e misericordia e chiede che nessuno si senta trascurato o maltrattato La Curia romana, il Governatorato e le istituzioni collegate con la Santa Sede costituiscono una «comunità di servizio» in cui vanno coniugate «fedeltà e misericordia» e dove nessuno dovrebbe mai sentirsi «trascurato o maltrattato». È quanto ha sottolineato Francesco durante la messa celebrata nella basilica di San Pietro, lunedì mattina 22 febbraio, festa liturgica della Cattedra dell’Apostolo, in occasione del giubileo dei dipendenti vaticani. La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti per celebrare il Giubileo della Misericordia come comunità di servizio della Curia Romana, del Governatorato e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede. Abbiamo attraversato la Porta Santa e siamo giunti alla tomba dell’Apostolo Pietro per fare la nostra professione di fede; e oggi la Parola di Dio illumina in modo speciale i nostri gesti. In questo momento, ad ognuno di noi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15). Una domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di inquisitorio, anzi, è piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi ci chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della nostra vita. E il primo chiamato a rinnovare la sua professione di fede è il Successore di Pietro, che porta con sé la responsabilità di confermare i fratelli (cfr. Lc 22, 32). Lasciamo che la grazia plasmi di nuovo il nostro cuore per credere, e apra la nostra bocca per compiere la professione di fede e ottenere la salvezza (cfr. Rm 10, 10). Facciamo nostre, dunque, le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). Il nostro pensiero e il nostro sguardo siano fissi su Gesù Cristo, inizio e fine di ogni azione della Chiesa. Lui è il fondamento e nessuno ne può porre uno diverso (1 Cor 3, 11). Lui è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive sant’Agostino quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. [...] La pietra è Cristo, sul fondamento del quale anche Pietro è stato edificato» (In Joh 124, 5: PL 35, 1972). Da questa professione di fede deriva per ciascuno di noi il compito di corrispondere alla chiamata di Dio. Ai Pastori, anzitutto, viene richiesto di avere come modello Dio stesso che si prende cura del suo gregge. Il profeta Ezechiele ha descritto il modo di agire di Dio: Egli va in cerca della pecora perduta, riconduce all’ovile quella smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata (34, 16). Un comportamento che è segno dell’amore che non conosce confini. È una dedizione fedele, costante, incondizionata, perché a tutti i più deboli possa giungere la sua misericordia. E, tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la profezia di Ezechiele prende le mosse dalla constatazione delle mancanze dei pastori d’Israele. Pertanto fa bene anche a noi, chiamati ad essere Pastori nella Chiesa, lasciare che il volto di Dio Buon Pastore ci illumini, ci purifichi, ci trasformi e ci restituisca pienamente rinnovati alla nostra missione. Che anche nei nostri ambienti di lavoro possiamo sentire, coltivare e praticare un forte senso pastorale, anzitutto verso le persone che incontriamo tutti i giorni. Che nessuno si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore. Siamo chiamati ad essere i collaboratori di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova. Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza. Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile. Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarità si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella di agire secondo il cuore di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Pietro, dobbiamo pascere il gregge con “animo generoso” e diventare un “modello” per tutti. In questo modo, «quando apparirà il Pastore supremo» potremo ricevere la «corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5, 14). AVVENIRE Pag 1 Smontare i patiboli di Marco Impagliazzo L’appello del Papa e l’impegno di tanti Il Papa ha lanciato un nuovo e importante appello. Non è la prima volta che Francesco parla della necessità di giungere all’abolizione della pena di morte nel mondo, ma quello di ieri all’Angelus suona come un programma per tutti coloro che desiderano un mondo più vivibile e umano. A partire dai cristiani. Non a caso, proponendo la moratoria per le pene capitali, si è rivolto prima di tutto ai governanti cattolici e ha inserito il suo appello all’interno del Giubileo della Misericordia. Il discorso del Papa, però, ha un carattere universale e riguarda l’intera umanità. Ha parlato di «segni di speranza» in un’opinione pubblica sempre più contraria, nel mondo, alla pratica della pena di morte e ha ricordato che «le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi». Si tratta di parole che fanno pensare a come si possa giungere, in un giorno che speriamo vicino, all’abolizione della pena capitale nel mondo, a livello legale, così come si giunse nell’Ottocento a quella della schiavitù. Oggi l’Europa vanta, de iure e de facto, il primato di avere archiviato la pena capitale, e molti segnali positivi giungono anche dall’Africa, che potrebbe a breve diventare il secondo continente a essere liberato da questa odiosa pratica. Ma anche, più in generale, si registra la diminuzione, anno dopo anno, del numero dei Paesi mantenitori e di quello dei condannati a morte al termine di una procedura ufficialmente legale. L’ultimo voto, nel 2014, alla III Commissione delle Nazioni Unite, sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un successo, con 117 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto al voto precedente. Il convegno internazionale 'Per un mondo senza pena di morte' promosso dalla Comunità di Sant’Egidio – che il Papa ha salutato domenica durante l’Angelus, augurandosi che «possa dare un nuovo impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale» – si inserisce in questa campagna: ministri della Giustizia e rappresentanti di 30 Paesi in una conferenza che vede raccolti, in modo inedito, in una stessa riflessione, Paesi abolizionisti e Paesi mantenitori: la strada per difendere la vita si può cercare e trovare insieme se ci si apre al dialogo. Ministri ricevuti poi dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha rilanciato l’appello per un mondo senza pena capitale. Sono campagne preziose per tutti perché sentono, e diffondono, il dovere morale di non retrocedere mai di fronte alla paura che è sempre cattiva consigliera. Se la crescita di un sentimento di allarme è giustificato da tanti episodi violenti cui abbiamo assistito in Europa, in Medio Oriente e in Africa, siamo però convinti che non possa e non debba riaprire la strada a pericolose marce indietro: fare il male per ricavarne il bene può sembrare un pensiero proporzionato, ma non è né giusto né efficace. Fa solo il gioco di chi semina violenza. Perché è proprio la paura la principale arma del terrore. Il sogno di giungere al superamento della pena di morte nel mondo è realizzabile e si fa sempre più concreto. Allo stesso tempo occorre non abbassare mai la guardia. In Asia e negli Stati Uniti, ma non solo, c’è da conquistare molte istituzioni alle ragioni della vita e dell’umanità. E occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono ancora, in alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi, soprattutto in America Latina e in Africa. Lottare contro la pena di morte è anche lottare per una società in cui il livello di violenza diffusa sia il più basso possibile. Uno dei risultati dell’abolizione della pena capitale è infatti quella di inviare a tutti un potente messaggio: aggiungere violenza a violenza – anche se istituzionalizzata – non solo non risolve, ma soprattutto avvelena il clima generale, genera sentimenti deleteri tra le persone, ingabbia in una forma di 'retribuzione' feroce. La campagna mondiale fa compiere un salto di qualità nella cultura generale del mondo: la vita è la cosa più importante. Pag 2 I bisogni dei poveri non sono da meno di Maurizio Patriciello Il pensiero e i desideri interrogano tutti Capisco perché Gesù ha voluto farsi povero coi poveri. Capisco perché saranno i poveri che salveranno il mondo dalle sue stupide follie. Comprendo il motivo del divario sempre più acuto tra ricchi e poveri. Perché i poveri fanno comodo a certi ingiusti equilibri mondiali. «I poveri li avrete sempre con voi», disse Gesù. Eugenio Scalfari, parlando a Tv 2000 ha detto: «Gli uomini hanno bisogni primari come gli animali… Ma i poveri, salvo pochissimi, non hanno bisogni secondari». Davvero? Sui bisogni primari degli uomini, non possiamo che essere d’accordo. Fame e sete, freddo e caldo si fanno sentire da tutti. Sui bisogni secondari, che solo i ricchi avrebbero la fortuna, o la sfortuna, di avvertire, si rimane basiti a sentire una tale sentenza. Intanto, occorrerebbe stabilire la soglia di povertà oltre la quale sarebbe vietato l’accesso di tanta parte di umanità ai bisogni secondari. E occorrerebbe stabilire chi sono i poveri. Parliamo di povertà solo in senso economico o anche morale e spirituale? Che cosa intende dire Scalfari? Che i poveri non sentono il bisogno di comunicare, di leggere e di scrivere? Che non riescono a meditare, riflettere, pregare? Che non si pongono le domande sul fine ultimo dell’esistenza? Che restano indifferenti davanti al mistero della vita e della morte? Chi lo pensa non ha mai frequentato i poveri. Eppure basta dare uno sguardo alla storia dell’umanità per rendersi conto che santi e filosofi dalle umilissime origini non si contano. E così artisti, scrittori e poeti. E preti. San Giovanni XXIII era figlio di semplici contadini. Don Giuseppe De Luca, nacque da una povera famiglia della poverissima Lucania. I genitori di don Primo Mazzolari non navigavano nell’oro. Non mi pare che Grazia Deledda e Gavino Ledda fossero nati in una reggia. Il nostro grande Totò era del rione Sanità. I fratelli De Filippo nacquero da una ragazza madre. Certo, quando lo stomaco è pieno è facile mettersi a filosofare. Nei campi di concentramento, però, ricchi e poveri impazzivano per una patata, un tozzo di pane, una mela. Il ricordo di una tavola imbandita li faceva impazzire. Una volta messo a tacere lo stomaco l’uomo si pone domande. Si chiede chi è. Che cosa è la vita, che cosa è la morte. In fondo la vita è illogica. Si nasce per morire. 'La vita è un pacco che il ginecologo lancia al becchino', ha detto qualcuno. Liberi di pensarlo. Se così fosse vivere sarebbe veramente deprimente. Riflette, dunque, solo il ricco? Ma che dice, Scalfari? Si è mai fermato a parlare con un contadino analfabeta? Io ho avuto la fortuna di averli in casa. Sono nato in una casa dove non era mai entrato un libro. Per il semplice motivo che i miei non sapevano leggere. Eppure quanta onestà. Quanto timor di Dio. Quanto desiderio di non far male al prossimo. Quanta capacità di amare. I miei riflettevano? Gioivano? Soffrivano per le ingiustizie altrui? Glielo assicuro. Certo ai poveri non è consentito fare le ore piccole. È un lusso che non possono permettersi. «Su a letto – diceva la mamma – domani il gallo canterà che è ancora buio». Il sudore e il sangue dei poveri ha fatto da concime per le terre altrui. Hanno permesso ai ricchi di gozzovigliare nel lusso e nei vizi. Che fosse terribilmente ingiusto, i poveri lo hanno sempre saputo. Certi canti dei braccianti agricoli del nostro maltrattato e umiliato Meridione sono dei lamenti struggenti. I poveri hanno dovuto abbassare la testa tante volte solo perché quei ricchi che «avevano bisogni secondari» li avrebbero massacrati alla prima ribellione. Lasciamo stare. Si riaprono ferite mai sanate. Il grido dei poveri assorda le orecchie della storia, degli uomini e di Dio. I poveri sono sempre stati e sono tuttora funzionali alle comodità di chi controlla l’economia e detiene il potere. Ma i poveri sono persone che sanno riflettere e decidere. Sanno leggere i segni dei tempi e della natura. Del patrimonio comune che ci è stato dato essi consumano pochissimo lasciando ai ricchi di fare razzie a danno delle future generazioni. I poveri sanno cantare ed essere felici con poco. Sanno dipingere e gioire. I poveri sanno amare. Un amore che sa donarsi fino all’ultimo spasimo. «Mostra delle noci a un bambino – scrive sant’Agostino – e te lo tirerai dietro». Ma fagliele vedere quelle benedette noci. Fagliele toccare. Non arraffarle tutte. Non mangiarle da solo. Non accumularne tante da farle marcire. «Il cibo che gettiamo nella spazzatura – ha detto il Papa – lo stiamo rubando ai poveri». Vero. Verissimo. Quanti libri potrebbero essere comprati se i ricchi di tutto il mondo rinunciassero a tre soli giorni di vacanza? «Chi è sazio non crede a chi sta digiuno», dice un vecchio proverbio. È proprio così. Chi ha ricevuto di più, invece, deve sentire il dovere di donare di più. Perché i poveri abbiano gli stessi diritti dei ricchi. Perché la giustizia possa farsi strada. Perché le armi possano essere messe a tacere. Anziché dire parole senza senso, pericolose e dolorose, proviamo a riflettere e legiferare per fare uscire i poveri dalle secche nelle quali sono stati relegati. LA REPUBBLICA Pag 19 Radio Vaticana, l’addio dopo 25 anni di padre Lombardi di Paolo Rodari La decisione per l’accorpamento dei media vaticani. Manterrà l’incarico di portavoce della Santa Sede affiancato da due laici Dopo ottantaquattro anni di vita la Radio Vaticana non avrà più un direttore appartenente ai gesuiti. L'ultimo, padre Federico Lombardi, 73 anni, direttore dei programmi dal 1991 e direttore generale dal 2005, lascerà a fine febbraio e non sarà sostituito. Nel piano di accorpamento in un'unica struttura di Radio Vaticana e Centro Televisivo Vaticano (Ctv), infatti, (è per la contingenza di questo accorpamento che Lombardi lascia) l'ordinaria amministrazione verrà affidata al vicedirettore generale della Segreteria per la comunicazione, Giacomo Ghisani, mentre rimane al suo posto come direttore dei programmi il gesuita polacco Andrej Majewski. Padre Lombardi, in ogni caso, manterrà il delicato incarico di direttore della sala stampa della Santa Sede, incarico che è suo dall'11 luglio del 2006 quando Benedetto XVI lo nominò in sostituzione di Joaquín Navarro-Valls. La fiducia del Papa in lui è totale e potrebbe anche andare oltre il compimento dei suoi 75 anni. Insieme a Lombardi, in sala stampa, lavorano due laici: Angelo Scelzo, responsabile degli accrediti, e Greg Burke, già corrispondente di Fox News, e dall'estate 2012 - nel pieno della bufera del primo Vatileaks - consulente per la comunicazione della Sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato. Tanti i gesuiti illustri che hanno fatto grande l'emittente pontificia. Tra di loro, come ricorda il sito Il Sismografo, il cardinale Roberto Tucci, padre Pasquale Borgomeo e padre Sesto Quercetti, tutti e tre deceduti. Era il 12 febbraio del 1931 quando Papa Pio XI, attraverso il radio messaggio "Qui arcano Dei", inaugurò la radio affidandola alla responsabilità dei gesuiti i quali, da sempre, hanno fra le proprie peculiarità, oltre alla formazione dei sacerdoti, all' istruzione e alla ricerca scientifica, anche la comunicazione. Del resto, uno zio di padre Lombardi, Riccardo, anch' egli gesuita, fu predicatore radiofonico di grande successo, diventando noto presso il grande pubblico come "il microfono di Dio". L'accorpamento di Radio Vaticana e Ctv fa parte della più grande opera di ristrutturazione dei media vaticani che la commissione di nove cardinali che aiutano il Papa nella riforma della curia romana sta attuando. Come aveva spiegato monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, nella riforma sono implicate le persone e bisogna tenerne conto. In sostanza, non ci saranno drastici tagli. «Auspico che anche nei nostri ambienti di lavoro» nessuno «si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore», ha detto recentemente Francesco. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Sui divorziati risposati il papa frena, i suoi consiglieri no di Sandro Magister Dopo il gesuita Spadaro anche il vescovo Semeraro spinge perché sia data loro la comunione. Ma con argomenti molto discutibili. Qui confutati da un esperto di pastorale familiare, Juan José Pérez-Soba La pubblicazione dell'attesissima esortazione postsinodale è ormai vicina. "Forse prima di Pasqua", ha detto Francesco. Sale quindi la febbre su ciò che il papa dirà sul punto più controverso, la comunione ai divorziati risposati. In Messico, a Tuxtla, il papa è rimasto molto colpito dalla testimonianza di una di queste coppie "irregolari". Humberto e Claudia – questi i nomi – non hanno affatto preteso la comunione sacramentale, che ritengono giustamente a loro preclusa. Ma hanno invece raccontato che la "comunione" la fanno con opere di carità. Francesco, ascoltandoli, annuiva convinto. Al termine li ha additati alla folla come esempio positivo. E poi si è rivolto a loro così: "Voi vi siete fatti coraggio, e voi pregate, voi state con Gesù, voi siete inseriti nella vita della Chiesa. Avete usato una bella espressione: 'Noi facciamo comunione con il fratello debole, il malato, il bisognoso, il carcerato'. Grazie, grazie!". Ma non è tutto. L'esempio di questa coppia deve aver talmente impressionato Francesco che egli vi ha fatto di nuovo riferimento durante la conferenza stampa sul volo di ritorno dal Messico a Roma. Con queste parole testuali: "Nell’incontro con le famiglie, a Tuxtla. c’era una coppia di risposati in seconda unione, integrati nella pastorale della Chiesa. E la parola chiave che ha usato il sinodo – e io la riprenderò – è 'integrare' nella vita della Chiesa le famiglie ferite, le famiglie di risposati". Anne Thompson, di NBC News, chiese a questo punto al papa: "Significa che potranno fare la comunione?". E Francesco: "Questo è il punto di arrivo. Integrare nella Chiesa non significa 'fare la comunione', perché io conosco cattolici risposati che vanno in chiesa una volta l’anno, due volte, [e dicono]: 'Ma, io voglio fare la comunione!', come se la comunione fosse un’onorificenza. È un lavoro di integrazione, tutte le porte sono aperte, ma non si può dire: da ora in poi possono fare la comunione. Questo sarebbe una ferita anche ai coniugi, alla coppia, perché non farà compiere loro quella strada di integrazione. E questi due [di Tuxtla] erano felici! E hanno usato un’espressione molto bella: 'Noi non facciamo la comunione eucaristica, ma facciamo comunione nella visita all’ospedale, in questo servizio, in quello…'. La loro integrazione è rimasta lì. Se c’è qualcosa di più, il Signore lo dirà a loro, ma… è un cammino, è una strada". Se il sentire di papa Francesco è questo, c'è quindi da presumere che, nell'esortazione postsinodale, egli non identificherà necessariamente con la comunione eucaristica quella "più piena partecipazione alla vita della Chiesa" che i padri sinodali hanno auspicato per i divorziati risposati. Resta tuttavia il fatto che alcune delle persone che sono più vicine a Jorge Mario Bergoglio e più si fanno interpreti del suo pensiero hanno fatto presagire da parte del papa una diversa soluzione, più "aperta". Uno di questi è il gesuita Antonio Spadaro, direttore de "La Civiltà Cattolica", il quale ha dato per certo che "circa l’accesso ai sacramenti il sinodo ordinario ne ha effettivamente posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa", e il papa ne trarrà le conseguenze. Un altro è il vescovo di Albano Marcello Semeraro, che Bergoglio ha chiamato vicino a sé come segretario del consiglio dei nove cardinali che assistono il papa nel governo della Chiesa e come membro del sinodo sulla famiglia, tra gli incaricati della scrittura della relazione finale. Nello spiegare ai suoi diocesani i risultati del sinodo, in una conferenza raccolta poi in un libretto, Semeraro ha anzitutto insistito sul "primato della grazia, che è come dire della misericordia", e sulla "novità" del "passaggio dalla morale della legge alla morale della persona". E poi, per quanto riguarda la comunione ai divorziati risposati, ha rimandato a due lettere del 1973 e del 1975 della congregazione per la dottrina della fede, per mostrare che già allora la Chiesa incoraggiava "una particolare sollecitudine verso coloro che vivono in una unione irregolare, applicando nella soluzione di tali casi, oltre ad altri giusti mezzi, l’approvata prassi della Chiesa in foro interno". A giudizio di Semeraro quella "approvata prassi" consentiva in quegli anni anche la comunione, che solo successivamente fu proibita da Giovanni Paolo II a tutti i divorziati risposati, salvo che a quelli che si impegnavano a vivere "in piena astinenza". Si tratterebbe quindi di tornare alla disciplina precedente. Cosa che il sinodo avrebbe già reso possibile, tacendo sulle restrizioni introdotte di Giovanni Paolo II e quindi "lasciando 'aperto' un testo che ha voluto affidare a un nuovo discernimento del sommo pontefice". A sostegno delle sue tesi, Semeraro ha citato anche un celebre teologo moralista di quegli anni, Bernhard Häring, secondo il quale l'obbligo della "totale astinenza", per accedere alla comunione, valeva allora non per i divorziati risposati in genere, ma solo per i sacerdoti che avevano avuto dei figli da una donna sposata civilmente. Ma ora, a confutare le tesi di Semeraro, interviene con ampiezza di argomenti uno specialista della materia, Juan José Pérez-Soba Diez del Corral, sacerdote della diocesi di Madrid e professore di pastorale familiare nel Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Pontificia Università del Laterano. Qui di seguito ne è riprodotto un ampio estratto, la cui lettura è quanto mai d'attualità, nell'imminenza della pubblicazione da parte di papa Francesco dell'esortazione postsinodale. Interpretare a partire dal cuore del Vangelo di Juan José Pérez-Soba La fine dei Sinodi sulla famiglia ha lasciato, nella Chiesa, l'impressione di una sorta di delusione. […] Dopo due anni carichi di lavoro, di consultazioni e di dialogo, le grandi aspettative che si erano create non hanno trovato una valida risposta. La Chiesa attende dunque l'autorevole voce di papa Francesco affinché colmi le carenze emerse in quest'ultima assemblea, relativamente a una conversione pastorale nell'ambito della famiglia. […] È proprio la vita delle famiglie alla luce del Vangelo a dover essere il criterio pastorale fondamentale. […] Questo significa andare sempre all'essenziale, per poi chiarire le molteplici circostanze mutevoli che necessitano di questa luce. È quanto intendiamo fare qui, ricorrendo a sei punti chiave. 1. Esiste il Vangelo della famiglia È l'affermazione fondamentale che emana dal Sinodo. […] Questa convinzione essenziale è la luce primigenia necessaria per discernere il cammino che ogni famiglia concreta deve percorrere nella propria esistenza, ricca di molteplici realtà e varietà, che trovano unità partendo dal disegno divino nell'unica missione di Cristo, nella comunione della Chiesa. […] 2. È necessaria un’interpretazione morale dei numeri 85-86 della "Relatio" Dopo i dibattiti che ci sono stati, è facile comprendere l'importanza decisiva racchiusa nella parte che tratta dell'attenzione alle persone in "situazioni complesse" e, in particolare, ai divorziati che hanno contratto una nuova unione. Nelle diverse spiegazioni che sono state date – ad esempio quella del vescovo Marcello Semeraro nella conferenza tenuta nella sua diocesi di Albano – emerge sempre più l'importanza che il discernimento, spesse volte menzionato dal Sinodo, sia, in realtà, morale. […] Il rinnovamento morale è del tutto necessario per il tema in questione. Devono essere dei principi chiari della morale cristiana a spiegare come accompagnare le persone in queste situazioni. Sorprende quindi che, come grande "novità", si dica che bisogna passare "dalla morale della legge alla morale della persona". Presa in questi termini, l'espressione appare come la scoperta del Mediterraneo. La stragrande maggioranza dei moralisti, da cinquant’anni ormai, ha adottato questo compito come missione propria fornendo grandi contributi in merito. Non si parte da zero, né si può considerare questa una novità richiesta da papa Francesco. […] Dopo il Concilio, è praticamente unanime l'idea di fondare la morale sull’uomo, ribadendo che la legge è fatta per tutelare il bene della persona. […] La legge di Dio è interna al cuore dell'uomo e riflette una sapienza circa la verità del bene che unisce gli uomini in un unico cammino. Per questa ragione fondamentale, il Sinodo ha negato con decisione qualsivoglia gradualità della legge (n. 86) ossia l'intento di misurare la legge a partire dalle possibilità soggettive della persona in ogni situazione. […] Da qui deriva un modo sbagliato di comprendere questa "morale della persona": come possibilità di prevedere un'eccezione alla legge nel caso di atti intrinsecamente cattivi. […] Lo si è visto nel passo dell’"Instrumentum laboris" circa la "Humanae vitae" (n. 137) che seguiva questa interpretazione e che è poi stato eliminato nella "Relatio" finale (cfr. n. 63). Quest'ultima ha voluto citare esplicitamente l'enciclica "Veritatis splendor" (nn. 54-64) che si pone dunque come quadro di comprensione del rapporto tra legge e coscienza, a cui il Sinodo fa riferimento. […] Ecco perché non è possibile prevedere un'eccezione per quanto riguarda i comandamenti del decalogo. Non esiste un adulterio permesso o un aborto valido, così come non esiste nessun atto possibile di pedofilia: tutti questi atti offendono sempre e comunque la dignità della persona, in primo luogo di colui che li commette. Certo, tutto questo appare difficilmente comprensibile in una società relativista, giacché oggi gran parte degli uomini giudica la bontà degli atti emotivamente, ovvero mediante l'emozione positiva o negativa che questi suscitano in loro. È quello che la teoria morale chiama: soggetto emotivo. Di conseguenza, per un’autentica evangelizzazione non basta ricordare i comandamenti, ma è necessario accompagnare le persone affinché si affranchino da questo emotivismo. Tale principio, così importante al giorno d'oggi, è ancora praticamente ignorato dalla stragrande maggioranza dei pastori, sebbene sia così fondamentale per l'evangelizzazione della famiglia. […] 3. Imputabilità e irresponsabilità Adottando questa visione rinnovata, è facile vedere quanto sia limitata la menzione dell'imputabilità delle azioni nella "Relatio" (n. 85). Si tratta dell’imputabilità morale, che non ha nulla a che vedere con la questione giuridica alla quale si riferisce invece il testo ivi citato del pontificio consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000. Sorprende che in uno stesso paragrafo si mescolino due diverse considerazioni di imputabilità. Questo accade spesso nei documenti redatti velocemente, inducendo molta confusione. […] Si allude a un atto non pienamente umano e, di conseguenza, non imputabile alla persona. […] In realtà, applicare questo principio al caso dei divorziati risposati equivale, ai miei occhi, a considerarli persone irresponsabili, incapaci di compiere un atto pienamente umano, come se fossero persone piene di paure, pressioni o inconsapevoli, tanto da portare a considerare che i loro atti non sono imputabili. Una visione così negativa della loro situazione non corrisponde veramente alla realtà pastorale, che è invece molto diversa. Vanno viste come persone in difficoltà, bisognose di aiuto e soprattutto di una guarigione interiore, ma non le si può considerare irresponsabili affinché una legge non li colpisca. […] In ogni caso, qualsiasi azione pastorale dovrebbe far sì che queste persone escano quanto prima da questa povera situazione di irresponsabilità e di non imputabilità che non porta loro nessun beneficio, sempre tenendo in considerazione la legge della gradualità circa la conoscenza del bene. 4. Il fondamento della grazia La morale della persona ha il proprio culmine nella nuova legge di Cristo. […] Papa Francesco la riconosce con grande fermezza, poiché la cita esplicitamente in "Evangelii gaudium" come base per la nuova evangelizzazione: "L’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore” (EG 37). La novità della grazia è, in realtà, la guida dello Spirito Santo che, mediante la sua azione, modifica le nostre disposizioni interiori. […] Ecco il riferimento fondamentale di Cristo quando parla di se stesso come di Colui che permette di superare la durezza del cuore che impedisce all'uomo di vivere il disegno di Dio. È importante osservare che questo lo fa in riferimento al divorzio (cfr. Mt 19,8) attribuendogli dunque un'importanza decisiva fortemente legata al cuore del Vangelo. Vediamo, infatti, come la liberazione da questa terribile schiavitù dell'uomo che si manifesta soprattutto nell'impossibilità di vivere un amore che permane per sempre, che "non avrà mai fine” (1 Cor 13,8). Ecco perché è assolutamente assurdo l'estremo di coloro (si è addirittura alzata una voce in questo senso nel Sinodo) che, opponendosi alla logica del testo e alla verità teologica più elementare, hanno sostenuto che Cristo volesse giustificare la durezza del cuore. Questo equivale a negare l'instaurazione della nuova legge promessa. […] Per avvicinare le persone alle fonti della grazia mediante un accompagnamento personale, bisogna avere la sensibilità di vedere mediante la fede il modo in cui la grazia le trasforma interiormente. Già la prima comunità cristiana era molto sensibile a questo punto e, di conseguenza, era molto attenta ad accompagnare i catecumeni nel processo di iniziazione per il battesimo. […] Erano convinti della necessità di un sostegno in questo mutamento così radicale ed impegnativo in un ambiente pagano molto lontano dal cristianesimo. Basandosi su questa tradizione, il Concilio di Trento conclude che l’osservanza dei comandamenti è un segno necessario della conversione cristiana. […] Il riferimento alla grazia, ben lungi dal giustificare un’eccezione ai comandamenti, si fonda proprio su questa osservanza, come manifestazione reale della trasformazione in Cristo. […] 5. L’accompagnamento, in foro interno Quel luogo speciale nel quale l'uomo apre la propria coscienza ad un'altra persona per poter essere consigliato e sostenuto è ciò che la Chiesa chiama il foro interno e che, in quanto legato all'intimità della coscienza, esige un rispetto molto speciale. Nella "Relatio" si parla del foro interno al numero 86, in continuità con quanto precedentemente affermato circa l'attenzione pastorale ai divorziati risposati. […] Ma ancora una volta, osserviamo che per quanto riguarda le "esigenze di verità e di carità" che debbono guidare questo discernimento, è stata fornita un'interpretazione molto lontana dalla verità dei fatti. Sorprendentemente, è stata tirata fuori la spiegazione che Bernhard Häring offre in merito, ripresa poi da Alberto Bonandi nel libro promosso dal pontificio consiglio per la famiglia: "Famiglia e Chiesa: un legame indissolubile". Il professore tedesco […[ afferma che il fatto di vivere "come fratello e sorella" non era tradizionale, ma da considerare soltanto nei casi di concubinato dei sacerdoti secolarizzati. Sostiene, inoltre, che ai tempi di Paolo VI sarebbe stata permessa una prassi diversa priva di tale requisito e che, pertanto, la sua l'inclusione da parte di Giovanni Paolo II sarebbe stata un'esigenza innovativa. Come prova, egli adduce la nota della congregazione per la dottrina della fede del 1973 in cui si intima di seguire la "approvata prassi della Chiesa in foro interno” e la successiva lettera del suo segretario Hamer che spiega tale indicazione dicendo: "La frase va intesa nel contesto della teologia morale tradizionale". A dire il vero, quello che realmente spaventa è la parzialità assoluta con la quale ha operato questo noto moralista, occultando alcuni dati fondamentali che ben conosce. Di fatto, quegli interventi della congregazione per la dottrina della fede sono dovuti a una richiesta proveniente dalla conferenza episcopale degli Stati Uniti. […] Dal 1866, infatti, negli Stati Uniti vigeva la pena della scomunica per i divorziati risposati civilmente, situazione vigente fino al cambiamento di disciplina giuridica sulla convivenza avvenuto nel 1977. In questo contesto di cambiamento, si era osservata la necessità di far sì che, oltre alle disposizioni giuridiche, vi fosse un consiglio rivolto ai fedeli in foro interno, con particolare insistenza sull'eventualità di richiedere, se del caso, il riconoscimento di nullità del proprio matrimonio. Nel 1969, la Canon Law Society of America organizzò un congresso proprio su questo tema nel quale, tra gli altri, intervenne lo stesso Häring. In quell'occasione, furono trattati approfonditamente tutti i temi. Riguardo all'aspetto storico della questione, appare esplicitamente un riferimento documentato alla prassi di esigere un comportamento da "fratello e sorella", definito già allora come la "soluzione cattolica". Si ricorda inoltre una discussione tra Rossino e McCormick ai tempi del Concilio. È evidente che, in un certo qual modo, questi termini erano già ritenuti "tradizionali", ben noti e considerati come i referenti normali rispetto al foro interno. Quello che tale congresso valuta invece come del tutto "innovativo”, è la pratica contraria. […] E la ragione sulla quale si basavano i sostenitori di tale novità è innanzitutto un cambiamento profondo nella considerazione dell'indissolubilità. Lo stesso Häring si colloca in questa linea mediante il riferimento alla "morte morale" del matrimonio, sulla scia della prassi ortodossa. Di conseguenza, risulta impossibile l'interpretazione secondo cui le espressioni "approvata prassi" e "morale tradizionale" emanati dalla congregazione per la dottrina della fede possano far riferimento a queste evidenti "novità". Häring, presente a quel congresso, ne era profondamente consapevole, ma nel suo libro mantiene in proposito un assoluto silenzio e, addirittura, lascia volutamente sottintendere un'interpretazione del tutto diversa. È davvero triste dover ricorrere a fantasmi di questo genere, senza verificare seppur minimamente le fonti di quanto affermato. L'interpretazione che si impone è piuttosto quella secondo cui è stata fatta dalla congregazione per la dottrina della fede una prima affermazione temporanea, al fine di lasciare la pratica tradizionale in attesa di un chiarimento successivo, divenuto sempre più necessario a causa delle critiche radicali opposte alla prassi tradizionale. La risposta arrivò con Giovanni Paolo II e la "Familiaris consortio", in una perfetta continuità magisteriale. L'interpretazione definitiva del foro interno deve dunque seguire la spiegazione data da Josef Ratzinger nell'introduzione al libro di commenti sulla lettera della congregazione per la dottrina della fede circa l’accostarsi alla comunione eucaristica da parte dei divorziati risposati. Secondo la sua perfetta analisi, questa va intesa come l'aiuto di cui tali persone hanno bisogno per poter rispettare l'esigenza di vivere "in piena continenza". Si tratta di qualcosa che può essere verificato soltanto in questo foro interno e in modo squisitamente pastorale. 6. La verità pastorale come difesa dinanzi all’ideologia arbitraria In virtù di quanto appena detto, la richiesta di Semeraro circa i "criteri per il discernimento" è particolarmente opportuna, come sostiene lo stesso cardinale Walter Kasper nella sua relazione: "Anche se una casistica non è possibile e neppure auspicabile, dovrebbero valere ed essere pubblicamente dichiarati dei criteri vincolanti”. […] Il problema però rimane, poiché nella "Relatio", dopo due anni di dibattiti, non si è esplicitata nessuna ragione in virtù della quale si possa dare la comunione ai divorziati risposati che non rispettano le esigenze presentate in "Familiaris consortio", n. 84, che è il documento da considerare a tutti gli effetti come l'interpretazione tradizionale della prassi ecclesiale. In assenza di tali ragioni, il campo rimane aperto a una totale arbitrarietà, che non spiega perché ad alcune persone sia consentito di accostarsi alla comunione e ad altre no, suscitando sconcerto generalizzato. Si tratta di qualcosa di ancor più grave poiché riguarda una questione così delicata come il divorzio, minacciata da numerose ideologie e da una fortissima pressione esercitata dai mezzi di comunicazione. La "colonizzazione ideologica" è una realtà innegabile a cui bisogna rispondere con il Vangelo della famiglia, come afferma papa Francesco. […] Il compito dei teologi è proprio quello di aiutare ad interpretare correttamente le indicazioni che papa Francesco ci propone come insegnamento, seguendo la continuità del magistero, per poter portare a termine la "conversione pastorale" nella famiglia che egli auspica. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il diritto dei cattolici a non lavorare di domenica di Flavio Haver L’ultimo richiamo di un Pontefice al rispetto delle festività è stato di papa Francesco nell’udienza generale del mercoledì prima di Ferragosto scorso. «L’ossessione del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita. Il tempo di riposo, soprattutto quello domenicale - è stato il monito - è destinato a noi perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende». Un’esortazione non caduta nel vuoto, almeno da parte della Cassazione, che ha dato definitivamente ragione a un dipendente sessantenne di fede cattolica delle Poste sanzionato con la sospensione dal lavoro per un giorno (e privato della relativa retribuzione) per non essersi presentato in azienda per due domeniche. I Supremi giudici hanno confermato la sentenza della Corte d’appello di Milano del 17 settembre del 2010 e, respingendo il ricorso delle Poste, hanno sottolineato come il datore di lavoro, in base al diritto alla libertà di impresa, può organizzare turni domenicali ma non può infliggere fino al raggiungimento di un’intesa sindacale - provvedimenti ai dipendenti che, per motivi di culto, non intendono lavorare. Nel 1999 le Poste, in via sperimentale, avevano introdotto il turno domenicale nel centro meccanizzato di Peschiera Borromeo e poi lo avevano esteso ad altri reparti senza però raggiungere un accordo con i sindacati. La situazione - è stato ricordato nel verdetto - aveva generato proteste da parte dei lavoratori cattolici, che intendevano la domenica «come momento religioso e di pratica di fede». Alcuni sindacati avevano contestato l’imposizione del turno domenicale e Luigi L., nel 2004, aveva aderito all’iniziativa comunicando di non voler lavorare nelle giornate festive domenicali e cristiane. Per due domeniche si era assentato dal lavoro, dando però la disponibilità a recuperare. Ma dall’azienda era arrivata la sanzione e lui l’aveva ritenuto sproporzionata. Già i giudici di merito avevano dato atto del fatto che «esisteva una iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale di non assegnazione a turni domenicali per motivi di religiosi, circostanza di cui le Poste erano a piena conoscenza, e che portarono, nel periodo immediatamente successivo alla soppressione del turno domenicale». E ora la Cassazione ha dato ragione alla loro impostazione. Pag 21 I diritti dei nonni di Elena Tebano In 12 milioni si occupano dei nipoti. Ma quando i genitori litigano e ci sono separazioni conflittuali spariscono dalla vita dei bimbi. La condanna della Corte europea Sono 15 mesi che la signora Maria, 55 anni, di Roma, non vede i due nipotini. «Mia figlia ha un nuovo compagno: ogni volta che inizia una relazione, mi impedisce di incontrare i bambini - spiega la donna, che ha chiesto di rimanere anonima -. Per me e per loro è un supplizio. Poi, di solito, quando torna single e ha bisogno del mio aiuto, ricomincia a portarmeli». I 12 milioni di nonni italiani sono tra quelli che in Europa, anche per la scarsità dei servizi all’infanzia, passano più tempo con i loro nipoti: secondo quanto emerge dallo studio Share (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe del 2011) il 22% di loro se ne occupa regolarmente, contro l’8% di inglesi e tedeschi, il 7% dei francesi e il 2% di svedesi e olandesi. Ma basta uno scontro in famiglia a mettere a rischio questo legame così importante. Spesso succede nelle separazioni conflittuali, quando la rottura delle coppia si allarga a tutta la famiglia e penalizza anche i nonni, che magari fino a quel momento erano una presenza costante nella vita dei bimbi. Per una vicenda di questo tipo l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani il 20 gennaio dell’anno scorso per aver violato il diritto al rispetto della vita familiare di due nonni di Torino, Franca Manuello e Paolo Nevi, che per 12 anni non hanno potuto vedere la nipote. In quel caso il padre della bimba era stato falsamente accusato di abusi dalla ex, ma nonostante fosse stato prosciolto, i rapporti con lui e con la sua famiglia erano stati interrotti. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che nonostante «la grande prudenza necessaria in questi casi» e il fatto che «le misure prese per proteggere il minore possono porre dei limiti ai contatti con i membri della famiglia», le autorità competenti «non hanno fatto tutti gli sforzi necessari a salvaguardare il legame familiare». «Purtroppo i matrimoni che finiscono in separazioni sono tanti e in molti casi la relazione affettiva dei minori con la famiglia dell’ex coniuge viene troncata e il bambino viene utilizzato come arma impropria - dice la presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia Michela Vittoria Brambilla -. I nonni finiscono così per subire una situazione che non hanno contribuito a creare. Eppure il loro diritto di visita è stato riconosciuto per legge due anni fa». Lo ha fatto una norma che mira a rendere reale il diritto a conservare rapporti significativi con i nipoti già riconosciuto con la legge del 2006 sull’affidamento condiviso. «Questa però non dava ai nonni la possibilità di agire in giudizio - spiega l’avvocata Anna Galizia Danovi, che presiede il Centro per il diritto di famiglia, a Milano - e quindi è rimasta lettera morta». Possibilità introdotta invece dalla legge 154 del 2013, entrata in vigore nel febbraio successivo. «In base ad essa i nonni possono ricorrere al Tribunale per i minorenni e chiedere di poter visitare i nipoti - dice Danovi -. Anche se ovviamente la legge sottolinea che il giudice deve adottare “i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore”, perché sono i minori a dover essere tutelati, non gli adulti». Rimangono ancora pochi, però, i nonni che ricorrono a questa norma: «È un’innovazione importante, ma troppo poco conosciuta denuncia Michela Vittoria Brambilla -. Invece i nonni devono essere messi in condizione di far valere questo diritto, quando ne ricorrono le circostanze, perché hanno un ruolo determinante nell’educazione di bambini e ragazzi». Con l’intenzione di «metterli al centro della tutela degli interessi dei bambini» Brambilla ha firmato anche una nuova proposta di legge che modifica le norme del codice civile sull’allontanamento del minore dalla casa familiare nei casi di emergenza: cioè l’affido d’urgenza. «La mia proposta, consolidando la prassi, definisce “prioritario” il collocamento del minore allontanato “presso parenti entro il quarto grado ritenuti idonei e disponibili e con i quali il minore abbia rapporti”. Si riconosce esplicitamente, insomma, che il “luogo sicuro” dove collocare il minore, di cui parla il vigente articolo 403, può essere benissimo la casa dei nonni - spiega Brambilla -. Anzi, questa soluzione, se non contrasta con l’interesse del minore, deve avere la precedenza». Oggi invece su questo le regioni vanno in ordine sparso: sono affidati a parenti l’84,7% dei minori allontanati dai genitori in Basilicata, contro il 31,3% della Liguria, e il 25,7% dell’Emilia-Romagna. «Al momento - spiega Brambilla - è difficile anche capire da cosa dipendano queste grandi differenze: per questo stiamo cercando di fare luce sui meccanismi dell’affido extrafamiliare. Ma è fondamentale permettere ai minori di mantenere le relazioni affettive ed evitare di aggiungere altri traumi a quello di essere allontanati dal genitore. Sostenere i nonni con una proposta come questa vuol dire cominciare a mettere ordine su una materia così delicata». LA NUOVA Pag 1 Il “bail in” è un rischio da togliere di Maurizio Mistri Ho l’impressione che nel tentativo di rafforzare i sistemi bancari nazionali l’Unione Europea (Ue) finisca per creare le condizioni per un futuro dissesto di tali sistemi. La strategia dell’Ue è tesa da un lato a rafforzare la struttura finanziaria delle banche e, dall’altro, ad aumentare le responsabilità dei diversi soggetti che hanno a che fare con le banche. Al di là della ormai consolidata responsabilità delle dirigenze delle banche (consigli di amministrazione e managers con elevati ruoli) nell’Ue si manifesta la tendenza ad assegnare una qualche responsabilità, in primo luogo agli azionisti e agli obbligazionisti, e in secondo luogo agli stessi correntisti. Questo ultimo caso è quello che passa sotto il termine di bail in e proprio verso il bail in si è recentemente manifestata una forte perplessità della Banca d’Italia, tanto che lo stesso governatore, Ignazio Visco, ha chiesto che si vada verso una revisione di tale istituto. A mio avviso la preoccupata sollecitazione di Visco è pienamente condivisibile, perché il bail in rischia di produrre effetti devastanti proprio sui sistemi bancari europei. Con il termine bail in si indica una “garanzia interna” o, in altri termini, una garanzia offerta dai capitali depositati dai risparmiatori al di sopra dei 100mila euro. Questo tipo di garanzia è entrata in vigore dal primo gennaio di quest’anno a seguito di una normativa votata dal Parlamento europeo e applicata dai governi dei paesi dell’Ue. Le mie osservazioni critiche si appuntano su due aspetti del bail in. Uno di questi affonda le sue radici in una analisi cognitiva del comportamento dei risparmiatori. Ho l’impressione che i sostenitori del bail in ritengano che i risparmiatori siano soggetti razionali capaci di leggere correttamente i dati di bilancio delle rispettive banche di riferimento. Io temo che il risparmiatore reale non sia del tutto razionale e operi in condizioni di razionalità limitata. Così, i risparmiatori, come conseguenza del bail in, potrebbero diventare particolarmente sensibili a ogni notizia relativa alla banca presso la quale hanno depositato i loro risparmi, a volte con reazioni spropositate. Di fatto, tutto il sistema bancario europeo potrebbe diventare iper sensibile più che ai dati effettivi circa la solidità delle banche alle voci, ai rumors, che circolano sulle banche. La ragione mi sembra molto semplice. Un risparmiatore non si limiterà ad attendere che si manifestino effettive situazioni di difficoltà nella gestione della banca di cui è cliente. Cercherà di anticipare tali difficoltà, più o meno ipotetiche, facendo attenzione alle voci, ai rumors che dal mercato emergono per cui cercherà di spostare i propri capitali prima che si manifestino situazioni di pericolo effettivo. Paradossalmente, in una tale situazione, più che i dati reali di bilancio delle banche finirebbero per avere effetti reali delle informazioni a debole contenuto di verità, con conseguente destabilizzazione di alcune banche. Un altro aspetto, che andrebbe valutato attentamente, è proprio quello del coinvolgimento, al di sopra dei 100mila euro, delle risorse finanziarie poste in conti correnti bancari. Il problema sta nel fatto che a depositare risorse finanziarie non sono solo piccoli o grandi risparmiatori; sono anche imprese le quali possono trovarsi nell’esigenza di depositare risorse finanziarie per pagare i fornitori e, a fine mese, i propri dipendenti. Una media impresa, poniamo con 500 dipendenti, dovrebbe essere nella condizione di pagare un milione e mezzo di euro a fine mese sia per gli stipendi che per far fronte a impegni con fornitori. Cosa accadrebbe se il bail per una banca in venisse invocato proprio nel periodo in cui tale impresa fosse chiamata a far fronte ai suoi normali impegni di esercizio? Le imprese dovrebbero essere esentate dal rischio di dover far fronte alla richiesta di consegnare praticamente tutte le loro riserve monetarie ai creditori di una banca in default. Non dimentichiamo che chi deposita capitali in banca è e rimane un creditore della banca e non un socio della stessa e come creditore andrebbe tutelato. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Cisl, Gottardello lascia: “Più iscritti della Cgil” di Raffaele Rosa Dopo 12 anni il segretario passa la guida a Paolo Bizzotto Dodici anni e qualche mese. Tanto è passato dal novembre del 2003 ad oggi quando Lino Gottardello, 62 anni a marzo, originario di Camposampiero, montò sulla sella della Cisl veneziana. Domani nel corso del Congresso generale verranno formalizzate le sue dimissioni per lasciare il posto a Paolo Bizzotto già a capo della Filca Cisl, la Federazione delle Costruzioni. Un addio che si affianca a quello di Franca Porto, quest’ultima dopo 9 anni al vertice della segreteria regionale. Dodici anni alla guida di un sindacato in un periodo storico complesso. «La crisi non è stato l'unico problema, ma solo la punta di un iceberg dei problemi. Io al primo posto ci metto la questione irrisolta di Porto Marghera. È mancata la possibilità di reindustrializzazione e non si è riusciti a tradurre questa vocazione in una opportunità di sviluppo per il territorio. La politica ha le sue colpe ed ancora adesso c'è una difficoltà di saper guardare al domani. Bisognerebbe, invece, imparare a saper scorgere quali potrebbero gli scenari e le opportunità. A dire la verità c'è stato un periodo, quando Paolo Costa era sindaco, che si era parlato di piano strategico e le parti sociali erano state coinvolte. Poi, ahimè, sia Cacciari che Orsoni hanno lasciato cadere questa concertazione senza interessarsi delle aree in cui creare occupazione per il futuro di Venezia». Oggi alla guida della città c'è un imprenditore. Qualcosa le pare stia cambiando? «Brugnaro ha trovato una situazione pesantissima. Non è un politico e non necessariamente governare una città è come gestire un'azienda. Il confronto e il dialogo con gli altri sono passaggi ineludibili. Vedremo se saprà davvero non solo farsi dare più soldi dal Governo per Venezia, ma se riuscirà a mettere in moto la macchina dello sviluppo che passa inevitabilmente per il Porto e l’aeroporto, riuscendo ad attrarre per Marghera attività produttive di qualità». Come è cambiato in questi anni il sindacato e il suo ruolo con il territorio? «Stiamo pagando le conseguenze della crisi e della divisione delle sigle. Dal canto suo anche l'industria non ha scommesso su una contrattazione innovativa, puntando più sulla forza lavoro e su vecchi schemi. Imprenditori chiusi, dunque, ma anche nel sindacato sono prevalsi i particolarismi e i distinguo rispetto allo sforzo di trovare una sintesi». E la Cisl? «Gode di ottima salute e lascio un sindacato che per la prima volta, se i dati in mio possesso verranno confermati, supererà la Cgil come iscritti attivi dopo aver superato quota 73mila risultando il primo patronato per attività». Cosa farà dopo 12 anni in prima linea? «Sono appena andato in pensione. Ora mi prendo un periodo di riflessione, ma sarò disponibile nel momento in cui ce ne fosse bisogno. Lascio la presidenza in mani solide e competenti. Per me, operaio per 10 anni e poi per 35 sindacalista, quella alla guida della Cisl di Venezia è stata la più bella esperienza della mia vita». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Il vescovo “scomunica” i 5 Stelle Tessarollo difende le private e attacca: “Il loro è pensiero ideologico stravecchio” Chioggia - Nuovo intervento "pubblico" del vescovo di Chioggia Adriano Tessarollo. Dopo le critiche al giudice in relazione alla condanna del tabaccaio che uccise un ladro, nel mirino è finita la posizione del Movimento 5 Stelle sul taglio di 500mila euro deciso dalla Regione alla scuola professionale. «La polemica sul taglio nel bilancio alla formazione professionale non sia la scusa per dare il colpo di grazia agli istituti pubblici», hanno detto i consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle Erika Baldin e Simone Scarabel. «L'assessore Donazzan - scrivono i due consiglieri - si preoccupa più della formazione privata che di quella pubblica e questa vicenda non deve trasformarsi nell'occasione per togliere fondi alla seconda in favore della prima. Con questo non vogliamo criminalizzare gli istituti privati, ma questi non possono avere l'esclusiva della formazione professionale», chiudono Baldin e Scarabel. Dichiarazioni che non sono piaciute al vescovo di Chioggia, Adriano Tessarollo, che sul sito internet della Diocesi ha controbattuto: «Ma sanno che per ogni utente di un nido privato o paritario lo Stato risparmia oltre 5mila euro, rispetto al corrispondente servizio offerto da una struttura pubblica? E sanno che oggi sono stati 24.484 i bambini veneti da zero a 3 anni accolti nei 793 nidi, micronidi e nidi aziendali?». Il vescovo, delegato della Conferenza episcopale triveneta per la scuola, aggiunge: «Benevolmente penso che parlino per disinformazione e per pensiero ideologico stravecchio, proprio di laici integralisti, che ancora non conoscono le leggi in vigore da 15 anni: c'è la scuola pubblica gestita dallo Stato e c'è la scuola pubblica paritaria gestita da associazioni varie di cittadini (genitori, istituti, fondazioni, parrocchie e altro). La società non coincide con lo Stato!». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il vescovo di Chioggia (ri)scende in campo e ora attacca i grillini: “Integralisti stravecchi” di Angela Pederiva Venezia. Dopo la legittima difesa, adesso tocca alle scuole paritarie. Ancora un editoriale di fuoco e di nuovo polemiche roventi per monsignor Adriano Tessarollo. Già protagonista un paio di settimane fa di un acceso scontro con l’Associazione nazionale magistrati, per la condanna del tabaccaio padovano che uccise un ladro, il vescovo di Chioggia è impegnato questa volta in uno scoppiettante botta e risposta con il Movimento 5 Stelle, per i fondi regionali destinati alla formazione professionale. La vicenda si riferisce all’ormai noto storno di mezzo milione di euro, durante la maratona di bilancio, dal capitolo dell’assessore Elena Donazzan a quello della caccia. «Le doppiette e il loro votato sostenitore sparano in alto e tuonano forte», scrive monsignor Tessarollo nell’ultimo numero del settimanale diocesano, con una non troppo velata allusione al consigliere regionale Sergio Berlato, augurandosi comunque che il governatore Luca Zaia tenga fede alla promessa di ristorare le «scuole che preparano al lavoro i nostri ragazzi». Ma i toni si scaldano soprattutto coi pentastellati Erika Baldin e Simone Scarabel, sostenitori nei giorni scorsi della tesi secondo cui «gli istituti privati non possono avere l’esclusiva della formazione professionale» e «il monopolio del privato è già avvenuto con gli asili nido». Dalle colonne della N uova Scintilla , il presule esterna tutto il suo sconcerto: «Ma dove vive questa gente? Ma sanno che per ogni utente di un nido privato o paritario lo Stato risparmia oltre 5 mila euro rispetto al corrispondente servizio offerto da una struttura pubblica? E sanno che oggi sono stati 24.484 i bambini veneti da zero a 3 anni accolti nei 793 nidi, micronidi e nidi aziendali?». Questi i numeri. E questo l’affondo: «Benevolmente penso che parlino per disinformazione e per pensiero ideologico stravecchio, proprio di laici integralisti, che ancora non conoscono le leggi in vigore da 15 anni: c’è la scuola pubblica gestita dallo Stato e c’è la scuola pubblica paritaria gestita da associazioni varie di cittadini (genitori, istituti, fondazioni, parrocchie e altro). La società non coincide con lo Stato!». Divulgato anche attraverso il sito web della diocesi, l’attacco del vescovo viene così parato e rilanciato da Scarabel e Baldin: «Ognuno faccia il proprio lavoro. Il vescovo di Chioggia si occupi di questioni di fede e si limiti a quelle. Se vuole entrare a pieno titolo nel dibattito politico, monsignor Tessarollo si candidi magari alle prossime comunali di Chioggia e allora ci confronteremo volentieri con lui». Baldin precisa che il M5S non intendeva accusare le scuole paritarie: «In quanto rappresentanti di una istituzione, dobbiamo avere un occhio di riguardo per la formazione impartita dal pubblico». Scarabel rinfocola la protesta: «Non voglio certo mancare di rispetto al vescovo di Chioggia, ma come io non mi permetto di commentare le sue prediche della domenica, lui si dovrebbe attenere al suo ruolo». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La strana guerra all’Isis di Paolo Mieli Amnesie europee Ha dell’incredibile quanto l’Europa, nel tempo che intercorre tra un attentato islamista e quello successivo, sia incapace di essere all’altezza della situazione. Due giorni fa l’Isis ha compiuto stragi a Homs e Damasco provocando almeno centottanta morti e venti giorni prima ne aveva causati una settantina. Ma qui da noi è tempo di relax, al più di tranquille discussioni tra specialisti sulle prospettive militari in Siria o in Libia. L’Europa ama questo genere di pause ristoratrici. Dziwna wojna, (strano conflitto) fu la definizione che per primi diedero i polacchi del curioso clima sul fronte occidentale dopo che nel settembre del 1939 il loro Paese era stato occupato da tedeschi e sovietici, Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania nazista, ma poi fino al maggio del 1940 le armi sulla linea Maginot avevano taciuto. Komischer Krieg fu lo sbeffeggiamento che giunse da Berlino. Finché il giornalista francese Roland Dorgelès, collaboratore del settimanale di estrema destra Gringoire , coniò un’espressione destinata a entrare nei libri di storia: drôle de guerre. Una strana guerra, effettivamente: per settimane e settimane nei caffè di Parigi si continuò a fare la vita di sempre e sui giornali se ne discuteva come se la conflagrazione non fosse già avvenuta. Persino al fronte fu come se si trattasse di una messa in scena. Poi nel maggio del ’40 le truppe hitleriane invasero la Francia che crollò su sé stessa e fu l’inizio di un catastrofico quinquennio che avrebbe prodotto decine di milioni di morti. Ripete Niall Ferguson che ci ricordiamo delle nostre libertà soltanto quando siamo in presenza di atrocità come quelle di Parigi. Poi, dopo qualche mese, «l’oltraggio svanisce e torna l’illusione che si possa convivere tranquillamente con la crescita della popolazione islamica in Europa e che l’islamismo non cresca di pari passo». Sicché diventiamo insensibili ai destini di coloro che, prendendoci in parola, continuano a battersi sul campo. In un’intervista a ridosso della strage del Bataclan, il deputato pd di origini marocchine Khalid Chaouki disse: «L’integrazione è fallita, il buonismo di una certa sinistra fa il nostro male e ai musulmani servirebbe un Papa come Francesco». Le reazioni furono davvero fuori misura. Davide Piccardo coordinatore del Caim di Milano e Brianza: «Chiunque pensi che Chaouki possa essere un interlocutore politico per la nostra comunità si sbaglia di grosso, preferisco parlare con Salvini». Poi uragano su Internet: «I parassiti come Chaouki sono la malattia dell’umanità», «Se non fosse per i musulmani che si sono dati da fare per fargli prendere qualche voto, adesso sarebbe ai semafori a vendere fiori», «Sfigato e opportunista», «È un kebabbaro e un beduino», «È un cancro». Reazioni fuori misura, dicevamo, che avevano l’evidente obiettivo di zittirlo soprattutto nel suo meritorio intento di svegliare le coscienze islamiche non integraliste. Senza che nessuno, al di là di qualche suo compagno di partito, se ne desse per inteso. E ancora. Kamel Daoud, un importante scrittore algerino, dopo i fatti di Colonia ha scritto un editoriale per Le Monde per denunciare la «miseria sessuale» del mondo arabo musulmano. Sullo stesso giornale è stato pubblicato un appello di una ventina di sociologi, storici e antropologi in cui lo si accusa di «riciclaggio dei più triti cliché orientalisti» e di «islamofobia». L’autore de Il caso Meursault ha risposto con una lettera sul Quotidien d’Oran in cui protesta contro coloro che gli «comminano una sentenza di islamofobia dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dai suoi caffè». E sostiene di considerare immorale che con quel verdetto lo si «offra in pasto all’odio locale». Da questo momento, annuncia, si occuperà di letteratura e abbandonerà il giornalismo. Comprensibile, anche perché con quel genere di accuse non si scherza dalle parti di Orano. Imputare a qualcuno di odiare gli islamici in quanto tali, equivale a condannarlo a morte. Ha scritto Alain Finkielkraut che l’islamofobia è un ricatto: il concetto di islamofobia ricalca quello di antisemitismo, e facendo ciò non aiuta «a capire la specificità della situazione». Peggio: «Questa analogia in nome della lotta contro l’islamofobia, occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista». Discorso, quello sul ricatto e le minacciose implicazioni derivate dall’uso del termine «islamofobia», che non vale solo per le discussioni tra intellettuali. Un vicino di casa di Syed Farook e Tashfeen Malik (autori della recente strage di San Bernardino) ha riferito di aver notato, giorni prima, qualcosa di strano nel comportamento dei due, ma di non averlo riferito alla polizia per non passare per «islamofobo discriminazionista». Mentre una parte della discussione pubblica si impantana sull’islamofobia, il resto prende il largo. Giusto il tempo di far sbollire l’ira dei giorni successivi a un attentato ed ecco che riemergono tesi sostanzialmente assolutorie nei confronti dei terroristi islamici. C’è chi si dice preoccupato più che dall’universo islamista «dalla nostra vera religione che è il neoliberismo, il fondamentalismo finanziario» (Hanif Kureishi). Chi denuncia essere il terrorismo «solo uno dei tanti pericoli esistenti al mondo» e suggerisce di «non farci distrarre». In che senso? Nel senso che «il cambiamento climatico è la più grande minaccia che dobbiamo affrontare»; e che, «mentre il terrorismo non può distruggere la nostra civiltà, il riscaldamento globale invece può farlo» (Paul Krugman). Chi dice che «è stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie» e che «solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio» (Thomas Piketty). Discorsi che, a ogni evidenza, ci allontanano dall’epicentro del fenomeno di cui si sta discutendo. Ai quali, per parte nostra, aggiungiamo un tocco di colore italiano. Con il governatore della Sicilia Rosario Crocetta che si paragona al «moderno principe» di Antonio Gramsci e si propone nel ruolo di mediatore per la crisi libica («Conosco l’islam, ho letto e studiato il Corano, parlo l’arabo: insomma qualcosa ne so»). Nonché il filosofo Gianni Vattimo il quale ricorda che durante il periodo del khomeinismo più repressivo in Iran, assieme ad altri aveva proposto di «bombardare Teheran con videocassette porno e confezioni di profilattici». E suggerisce per oggi analoghi sforzi di fantasia. Strana guerra, davvero, quella in cui ci diciamo impegnati contro il califfato islamico. Pag 25 Da Berlusconi a Renzi l’incredibile autostima dei nostri premier di Gian Antonio Stella Politici allo specchio Anche Matteo Renzi, da qualche parte, deve avere una zia Marina. Ricordate Silvio Berlusconi? A chi gli faceva notare un eccesso di vanità rispose: «Faccio come mia zia Marina che ha ottant’anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: “Marina, cume te se bela”». Insomma, se ti senti assediato da stormi di gufi («al gufo! al gufo!) che sarà mai indulgere nella cipria? Per carità, il premier è ancora lontano dalle vette dell’ex Cavaliere. Basti ricordare certi passaggi del suo training autogeno: «Lo ammetto, la mattina quando mi guardo allo specchio ho un’alta considerazione di me. Ma non per narcisismo: perché so di aver fatto cose importanti». «Da quando siamo al governo è successo di tutto, dall’11 settembre, alla stagnazione, ad alluvioni e terremoti, dunque mi sta venendo un complesso di superiorità: meno male che ci sono io, perché un altro che avrebbe fatto?» «La destra è un’Arca e io sono Noè». «Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, la stessa storia che ho io. (...) La mia bravura è fuori discussione: la mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano. Sono loro che devono dimostrare a me di essere bravi». E non parliamo di riforme! A un certo punto, in vista di una nuova campagna elettorale, ne elencò non due o tre ma trentasei! Dalla «riforma della disciplina del lavoro (Legge Biagi), la più importante dal 1970» a quella «della scuola, la prima grande riforma dal 1923», dalla «legge obiettivo per le grandi opere» all’«abolizione del servizio militare obbligatorio dopo 143 anni», dalla «riforma della seconda parte della costituzione, l’unica dal 1947» (poi spazzata via dal referendum) al «codice della nautica da diporto»… Quanto bastava per darsi una volta, con José Luis Zapatero che lo guardava incuriosito, una impomatata immortale: «Credo, sinceramente, di essere stato e di essere, di gran lunga, il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia potuto avere nei 150 anni della sua storia. Lo dico sulla base di ciò che ho fatto e faccio, ed è per questo, credo, che mi attribuiscono il 68,4% di fiducia e di ammirazione». Ennesimo ricorso agli amatissimi sondaggi che un bel dì spinse Mino Martinazzoli a commentare con una risata l’ultima sparata: «I più recenti sondaggi ci dicono che l’87% dei cinesi vorrebbero Berlusconi imperatore della Cina». Renzi no, non ha mai teorizzato l’autoterapia («Chi sono i migliori? Nooooi! Chi vincerà? Nooooi!») berlusconiana. Ma si è tenuto lontano anche dal mitico dottor Ciccarelli che in un carosello interrompeva l’entusiasmo eccessivo dell’attrice Giorgia Moll: «Non esageriamo! La “Pasta del Capitano” è un buon dentifricio, anzi ottimo, ma non miracoloso!». Ieri, per dire, ha rivendicato di essere intervenuto con il suo governo e la sua maggioranza per segnare una svolta «perché di legge elettorale si discute da 20 anni e di riforme istituzionali da 70». Prima ancora che la Carta costituzionale fosse varata. Non male. Il tutto nella scia di una costante insofferenza per il passato: «Siamo qui per cambiare il Paese che quelli prima di noi non sono riusciti a cambiare». «I problemi sono nati dall’incapacità dei politici italiani a gestire le sfide e prendere decisioni». «Per anni in Italia si sono cambiati i governi ma non si sono cambiate le cose: sessantatré governi e non si sono realizzate le riforme». «Il 2015 ha visto l’approvazione di leggi attese da molto tempo. E spesso passate sotto silenzio. Dall’art. 18 alla legge elettorale, dalla tassa sulla prima casa all’Expo, dalla flessibilità al bicameralismo paritario, ci sono alcuni argomenti di cui i politici prima di noi hanno parlato per anni senza realizzare granché». Uffa, le chiacchiere! Di qui l’idea che fosse necessaria un’opera quotidiana «ottimista e di sinistra» di incoraggiamento. Ed ecco che «bisogna essere consapevoli che «l’Italia tra venti anni sarà leader in Europa. E non lo dico come training autogeno. Se facciamo quel che va fatto torneremo a essere un Paese guida». E poi: «Per anni avremo un impegno di riduzione delle tasse che non ha paragoni nella storia repubblicana. Una rivoluzione copernicana, senza aumentare il debito». E ancora: «Se ci rivediamo tra cinque anni con la legge elettorale provata e sperimentata vedrete che l’Italicum sarà copiato da mezza Europa». «Sulla banda larga saremo leader in Europa nel giro di un triennio». Evviva: abbiamo bisogno di farci coraggio. Ieri, però, è andato forse un po’ in là: «Ciò che pareva impossibile, il cambiamento in Italia, è realtà». Sicuro? «Il dato di fatto inequivocabile e oggettivo è che mai, in nessun Paese d’Europa, tante riforme sono state fatte in così poco tempo». Mai! In tutta Europa! L’avesse detto un altro, ci consenta, avrebbero tirato in ballo Capitan Trinchetto… AVVENIRE Pag 2 Ancora sulla coscienza “ben formata” e sulla sostenibilità della legge che verrà (lettere al direttore) Caro direttore, vorrei riprendere un passaggio dell’intervista di papa Francesco durante il rientro dal Messico e fare un paio di considerazioni. «Un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata: questo, direi soltanto questo. Credo che sia sufficiente. E dico “ben formata”, perché non è la coscienza del “quello che mi pare”. Io mi ricordo quando è stato votato il matrimonio delle persone dello stesso sesso a Buenos Aires, che c’era un pareggio di voti, e alla fine uno ha detto all’altro: “Ma tu vedi chiaro?” – “No”– “Neppure io” – “Andiamocene” – “Se ce ne andiamo, non raggiungiamo il quorum”. E l’altro ha detto: “Ma se raggiungiamo il quorum, diamo il voto a Kirchner!”, e l’altro: “Preferisco darlo a Kirchner e non a Bergoglio!”... e avanti. Questa non è coscienza ben formata! E sulle persone dello stesso sesso, ripeto quello che ho detto nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro e che è nel Catechismo della Chiesa Cattolica». La prima considerazione riguarda l’esempio dei due politici: le parole fanno intuire che il Papa, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, era intervenuto chiaramente nel dibattito pubblico, forse semplicemente ricordando il buon senso che dovrebbe guidare chi è chiamato alla formulazione delle leggi. Oggi potremmo dire che ci sono politici – anche cattolici – che pur di non “darla vinta” alla Chiesa o al cardinal Bagnasco, votano il contrario, senza sapere neanche ciò di cui si parla. Questa, riprendendo il Papa, non è «coscienza ben formata». La seconda considerazione nasce da quanto potrebbe accadere in Parlamento. Ammettiamo che la legge sulle «unioni civili» passi così com’è. Sarebbe legge dello Stato. E questo la farebbe diventare materia di studio a scuola, e non voglio neanche immaginare con quanta enfasi verrebbe proposta. Di questo risvolto educativo ne siamo consapevoli? E ne sono consapevoli quanti si apprestano a votare? (lettera di don Andrea Vena – Bibione) Risponde il direttore Marco Tarquinio: Di questi tempi arriva sul mio tavolo un gran numero di lettere sulla questione delle unioni gay e della stepchild adoption. Tutte (o quasi) sono molto acute e interessanti, e reclamerebbero risposta. Le considero un segnale ulteriore e importante di una grande volontà di civile partecipazione a un dibattito che interpella profondamente la nostra umanità e che sarebbe assurdo (e impossibile, oltre che ingiusto) tentare di limitare alle stanze della politica di vertice e con modalità ammazza-confronto. Un dibattito al quale tutti – nessuno escluso – hanno pieno titolo per partecipare. Vengo a questa lettera, caro don Andrea, e alla rilettura “sottolineata”, diciamo così, delle parole del Papa che contiene. Francesco, senza rinunciare a richiamare i princìpi “cattolici” (ma validi ovunque e comunque, pure per chi cattolico non è), ha voluto evitare valutazioni che – ha ripetuto ancora una volta – spettano ai vescovi italiani (in quanto cittadini a pieno titolo e pastori a piena voce): valutazioni, del resto già espresse, con amore per la verità e senso della misura e della responsabilità. Per seguire il filo di ragionamento proposto, spero anche che nessun parlamentare voti sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e in materia di adozione “per dispetto”, anche se ho la sensazione che qualcuno sia davvero incline a farlo e che si rifiuti di valutare le conseguenze (sulle quali abbiamo molte volte ragionato) di possibili decisioni avventate. Detto questo, mi soffermo sull’ultima considerazione proposta nella lettera. Beh, se tutte le leggi – per il solo fatto di essere tali – fossero automaticamente oggetto di studio a scuola, il tasso di legalità nel nostro Paese sarebbe ben più alto! La realtà dice purtroppo qualcosa di diverso: ne è prova il fatto che non si è neanche riusciti, nonostante le generose battaglie del professor Luciano Corradini e splendide iniziative come quella contro le mafie di “Libera”, a riportare nella scuola italiana uno strutturato insegnamento di Educazione civica! Vero è, però, che in questo caso, ci sarebbe effettivamente il rischio ideologico di un uso propagandistico di una normativa che, allo stato delle cose, è assai mal congegnata. Tuttavia – confortato dal parere di giuristi di sicura scienza, diversa scuola e stessa onestà intellettuale: da Cesare Mirabelli a Sabino Cassese – oso pensare che se alla fine il brutto testo predisposto dalla senatrice Cirinnà dovesse diventare legge così com’è, non supererebbe il vaglio della Corte costituzionale. Ovviamente mi auguro che si arrivi a tutt’altro esito. E cioè a una legge sulle unioni civili “sostenibile”, ovvero rispettosa di tutti, utile ad aumentare il tasso di solidarietà nel nostro Paese e a diminuire il livello tossico di confusione in tema matrimoniale, perché fedele alla norma e allo spirito della nostra Costituzione. Per la quale la famiglia fondata sul matrimonio è una, e in Italia non c’è diritto al “matrimonio gay”. Pag 3 Eurozona sostenibile, crederci è un dovere di Leonardo Becchetti I piani di Renzi per salvare l’unione monetaria La navigazione di Matteo Renzi nei prossimi mesi non è affatto facile. La riduzione delle previsioni delle stime Ocse per il 2016 a una crescita dell’1% è una doccia gelata per i piani del governo e rende ancora più difficilmente conciliabile il sentiero della flessibilità con quello del rispetto delle regole europee. Eppure è fondamentale continuare su questa strada perché la vera posta in gioco è la sopravvivenza dell’Eurozona. Consapevole di questo Renzi ha presentato ieri in Europa un progetto vasto di rilancio che include un sussidio europeo di disoccupazione, assicurazione europea dei depositi bancari ed eurobond, affinché l’Europa inizi a essere percepita come la soluzione e non come il problema. La storia è nota: il 2007 è stato un nuovo 1929, ma allora dopo le ricette insufficienti di Hoover arrivò il new deal di Roosevelt. La beffa per noi è che questa volta Roosevelt è arrivato sull’altra sponda dell’Atlantico, mentre noi abbiamo avuto soltanto il Fiscal Compact e la spending review( e, con sette anni di ritardo, il quantitative easing, cioè l’acquisto da parte della Banca centrale dei titoli del debito pubblico). La dottrina dell’austerità ha prodotto risultati paradossalmente controproducenti. Spagna e Portogallo hanno diligentemente applicato la politica dei tagli di spesa e hanno visto aumentare drammaticamente (non ridurre) il rapporto debito/Pil (che in Portogallo è raddoppiato superando il 130% e in Spagna è quasi triplicato passando dal 36,3% a quasi il 100% dal 2007 ad oggi). Quanto alla Grecia non esiste Paese che non abbia applicato più di Atene la dottrina dei tagli. Eppure potrebbe essere definito come quel Paese di cui si dice sempre, tra una calo e l’altro, che l’anno prossimo il Pil aumenterà (è ancora questa la storia che le previsioni Ue 2016-2017 ci raccontano per il prossimo biennio). L’errore di chi sostiene quelle politiche è quello di avere una visione troppo elementare del funzionamento dell’economia: riduciamo la spesa pubblica con la spending review il debito scenderà. Ma ciò che conta non è il valore assoluto del debito, bensì il rapporto debito/Pil. E i tagli della spesa possono paralizzare la domanda interna, incidendo negativamente sul denominatore facendo paradossalmente aumentare e non diminuire il rapporto e con esso la sostenibilità del debito. Il problema non è tagliare la spesa in valore assoluto, ma migliorarne la qualità spostando risorse, come ha indicato anche il presidente della Bce Draghi nel discorso di Jackson Hole, da spesa a basso moltiplicatore a spesa ad alto moltiplicatore (cioè da sprechi a investimenti pubblici che hanno un effetto più che proporzionale in termini di creazione di Pil). E, con un costo del denaro così basso, investimenti pubblici con alto moltiplicatore non possono non esistere. La richiesta di flessibilità italiana e la più generale proposta di riforma sono giustificate anche da ragioni di principio visto che nell’Eurozona sono in molti a violare le regole e sono venute meno le condizioni che rendevano forse quelle regole lontanamente praticabili. La Francia ha candidamente annunciato che sotto il 3% del rapporto deficit/Pil ci scenderà solo nel 2017. La Germania continua ad avere un surplus commerciale al di sopra del consentito (6% del Pil). E le condizioni internazionali, come ha ricordato Draghi, 'cospirano' contro l’obiettivo della Bce di lottare contro la deflazione e ci portano lontano da quel 2% d’inflazione che sarebbe un sollievo per il nostro debito. Per non violare il Fiscal Compact sfruttando le flessibilità consentite basterebbe all’Italia circa un 3% come somma tra crescita del Pil e inflazione. La pur bassa crescita del Pil prevista dall’Ocse dunque basterebbe se l’inflazione fosse quella promessa dalla Bce. La polemica sulla flessibilità è in realtà parte di un problema più vasto: nella vicenda Brexit e in molte altre l’Europa è sempre sulla difensiva. L’ideale di unità tra Paesi non affascina e non scalda i cuori anche perché le regole la cui applicazione abbiamo affidato ai burocrati hanno dimostrato di non funzionare. Quasi tutti gli indicatori (occupazione, crescita, debito, bilancia pagamenti) confermano che le asimmetrie tra Nord e Sud dell’Eurozona non si vanno affatto riducendo. La questione vera che il conflitto sulla flessibilità pone è dunque se l’Eurozona è sostenibile. Può esserlo se – prendendo sul serio le proposte che con l’appello dei 360 economisti pubblicato a fine 2014 avevamo lanciato e che ora sono state ampliate e rilanciate dal governo – arriveremo a una vera politica comune fiscale, bancaria e monetaria dove i prossimi tasselli dovrebbero necessariamente essere quelli dell’armonizzazione fiscale, della chiusura dei paradisi fiscali interni, dell’assicurazione europea dei depositi e della condivisione del debito. L’alternativa a questo sentiero è la rottura dell’equilibrio e la creazione di due aree valutarie a Nord e a Sud. Una divisione dell’Unione che potrebbero essere gli stessi tedeschi a proporre dopo aver già fatto in passato un primo tentativo con la Grecia. Tertium non datur. Pag 3 Clima che cambia e siccità, una questione settentrionale di Paolo Viana Nell’Italia a secco il Nord si scopre povero di alternative L’agricoltura è come l’industria, nel senso che entrambe vivono di programmazione. Da qualche migliaio di anni la produzione agricola è il frutto di una complessa equazione che allinea analisi del suolo, metodi di lavorazione, tempi e dosi di concimazioni e diserbo. Basta che 'impazzisca' uno solo di questi fattori e l’algoritmo del contadino, l’unica chance che abbiamo di sfamare sette miliardi di esseri umani, va in tilt. È quello che sta avvenendo da che la siccità attanaglia il nostro Paese. L’erraticità delle piogge, indotta dall’effetto serra, sospinge il deserto dove non c’era e costringe intere popolazioni di piante e animali a emigrare: è già capitato al pomodoro, al mais, alla vite e all’olivo. Per fermare quest’esodo c’è chi s’industria ad escogitare nuove tecniche di coltivazione sostenibili. Nel Piacentino, ad esempio, il professor Vincenzo Tabaglio, della facoltà di scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università del Sacro Cuore, sta sperimentando degli innovativi sistemi di irrigazione sotterranea e coltivazioni 'no till', che cioè escludono l’aratura: tra l’altro, questa opzione dell’agricoltura conservativa che in Italia è chiamata anche agricoltura blu - evita l’ossidazione della sostanza organica, riduce l’emissione di anidride carbonica e abbatte i costi energetici senza incidere - sostengono i suoi fautori - sulla produttività. G li italiani hanno una grande tradizione nelle scienze agrarie ma, nell’attesa che gli studi del professor Tabaglio e dei suoi colleghi indichino una soluzione praticabile, bisognerà pur continuare a irrigare i campi e, a detta degli esperti, le piogge degli ultimi giorni non hanno modificato minimamente lo scenario creato da mesi e mesi di siccità. Attualmente la disponibilità media dei grandi laghi alpini è sotto del 60% e la copertura nevosa delle montagne lombarde è talmente esigua che lo Snow Water Equivalent, l’indice che definisce la quantità di acqua che si otterrebbe sciogliendo gli accumuli nevosi, si è azzerato. L’Associazione Nazionale Consorzi Gestione Tutela Territorio ed Acque Irrigue (Anbi) parla apertamente di una «situazione di grave criticità soprattutto nell’Italia Occidentale», dove le riserve idriche dei grandi bacini sono inferiori di oltre il 40% a quelle registrate nel 2007: il lago Maggiore è al 16,5% della capacità e quello di Como è sceso sotto il 10%. A conferma del fatto che il danno dipende dalla varianza, gli effetti del cambiamento climatico al Centro- Sud (se si esclude la Sardegna) sono meno devastanti, vuoi perché si coltivano specie e cultivar che hanno sviluppato nel tempo una maggiore tolleranza all’aridità, vuoi perché in quelle regioni sono stati realizzati da settant’anni numerosi invasi a riempimento pluriennale e impianti in pressione. L’ultimo a Zagarise, in Calabria. L’Anbi chiede di fare lo stesso al Nord e lo fa con toni sempre più accorati: «L’acqua, indispensabile per l’84% del made in Italy agroalimentare, è un fattore profondamente economico» ha ammonito il presidente Francesco Vincenzi alla recente Fieragricola di Verona, chiedendo di sbloccare i 300 milioni del Piano Irriguo Nazionale. La fretta dell’associazione che riunisce i consorzi degli utenti delle opere di bonifica e delle acque irrigue, in gran parte agricoltori, deriva dal fatto che la siccità sta creando una questione settentrionale. Non solo perché al Sud si è investito di più e non solo perché la diminuzione delle precipitazioni è più marcata al Nord – in Veneto nel 2015 si è registrato il valore medio annuo più basso con 815 millimetri, mentre da settembre a novembre, cioè quando si rimpinguano i nevai, le piogge sono state praticamente assenti e nei mesi di dicembre e a gennaio non è nevicato sull’arco alpino – ma perché dal Piemonte all’Emilia-Romagna è concentrato il 49% della produzione lorda vendibile dell’agricoltura nazionale. In altre parole, che non piova sui boschi abruzzesi rattrista tutti, ma che inaridiscano i campi di mais del Bresciano allarma ben di più. L’allarme, quest’anno, è davvero rosso, perché le precipitazioni nevose sulle Alpi non sono mai state così basse dal 1930. A fine gennaio gli spessori di neve al suolo erano inferiori al 20% rispetto alla media degli ultimi 25 anni. La carenza di piogge nei mesi freddi comporta che i grandi laghi alpini (Garda, Iseo, Maggiore e Como) e le dighe di laminazione e per la produzione di energia elettrica si trovino a livelli molto inferiori a quelli medi del passato e siano carenti i volumi di acqua disponibili per affrontare l’estate. Non c’è abbastanza acqua neanche per l’uso potabile: tra Piemonte e Lombardia il livello delle falde è nettamente più basso del 2015, con valori che oscillano tra -0,75 e -1,20 metri, e si spera che gli operatori del settore inizino a collaborare, per quanto, mentre in pianura si parla di rivedere il deflusso minimo vitale dei fiumi che garantisce la sopravvivenza dell’ecosistema fluviale ma limita le captazioni, sulle montagne i produttori di energia idroelettrica abbiano già provveduto a riempire gli invasi artificiali per non rischiare il blocco delle turbine. Infatti, nel bel mezzo dell’allarme siccità è aumentato del 38% il volume d’acqua presente nell’Adda rispetto alla media 2006-2014 e del 12,4% nel bacino dell’Oglio… L e piogge di queste ore determinano solo degli accumuli di neve non 'consolidati', destinati a un rapido scioglimento: «Già oggi si possono prevedere significativi deficit di risorsa idrica a partire dal mese di giugno, fino al termine della stagione irrigua estiva» dichiara Anbi Piemonte. È facile prevedere che se non si troverà un accordo sul livello del Lago Maggiore – regolato da una convenzione italo-svizzera che gli elvetici interpretano solitamente in modo restrittivo – il Ticino lascerà a secco le risaie piemontesi e lombarde. Proseguendo lungo il Po scopriamo che le portate di Pontelagoscuro oscillano da mesi tra 640 e 800 metri cubi al secondo: troppo pochi per affrontare serenamente l’estate, quando le derivazioni irrigue valgono 1.000 metri cubi al secondo, senza contare le captazioni per l’uso idropotabile, visto che l’acqua del fiume, potabilizzata a Ponte Molo, disseta gli abitanti di Porto Tolle, Ariano nel Polesine e Taglio di Po. Con l’attenuarsi della portata minima, non funzionano più neppure le barriere che fermano il cuneo salino, cioè l’acqua salmastra dell’Adriatico che dal Delta padano risale ormai il grande fiume per una trentina di chilometri, rendendone inutilizzabile l’acqua. Nell’attesa di realizzare tra le isole di Pila e Polesine Camerini una barriera mobile che impedisca fisicamente il contatto tra l’acqua dolce e l’acqua salata, progetto predisposto dal Consorzio di bonifica del Delta, ci si augura che quest’estate piova ogni dieci giorni: solo a questa condizione ci sarà acqua per tutti. Pag 3 Le tasche vuote di Alì, laterale sinistro che sogna la Juve di Mauro Armanino Nemmeno una borsa di plastica. Ciabatte di gomma arrostita, pantaloni consumati dal viaggio e una maglietta rossa sportiva. È tutto quello che Alì si porta a casa. Aiutante tipografo e soprattutto laterale sinistro. Sfornato dalle centinaia di scuole calcistiche di Abidjan, in Costa d’Avorio. Dice di abitare ai «220 logements» , nella capitale economica del Paese in crescita a due cifre. Troverà fatto il terzo ponte sulla laguna e il presidente riconfermato per un secondo mandato. Tutti contenti a parte lui che era partito a 16 anni per pagare la scuola ai fratelli lasciati a casa. Il solito mediatore di giovani talenti lo aiuta per il viaggio in Tunisia e, poi, sparisce nel nulla. Nessuna squadra lo prova perché minorenne. Invece per i cantieri edili l’età di Alì va bene. Decide poi di partire per la Libia con 800 euro. Il guadagno di un anno di lavoro. Alì è arrestato per mancanza di documenti e, dopo essere stato derubato, con altri 30 migranti è deportato e poi abbandonato nel deserto al confine con l’Algeria. Voleva andare in Italia perché tifa per la Juventus, squadra che adora e che afferma trovarsi nella città di 'Juve'. Una volta in Algeria non gli rimane che tornare al Paese di origine e ricominciare a giocare da laterale. Proprio come nella storia, c’è il centro, la periferia e i 'laterali', che vivono ai margini di tutto. Alì, dopo la separazione dei genitori, ha vissuto con la madre fino all’età di sette anni. Lei si è risposata e lui e i suoi fratelli sono tornati alla casa del padre. Anch’egli, risposatosi, è pensionato dopo aver lavorato per anni nel Porto Autonomo di Abidjan. Ormai anziano non riesce a occuparsi dei figli e per questo Alì ha fatto l’ala. Così si trasformavano i laterali migranti di una volta. Il viaggio di ritorno da Algeri dura più del previsto perché Alì ha dovuto vendere tutto. Altri come lui lo aiutano per raggiungere Agadez, dove la missione cattolica gli paga il viaggio fino a Niamey. Una volta arrivato in stazione non sa come rintracciare la cattedrale del quartiere Zongo. I taxisti e altra gente fingono di non sapere dove si trova il noto edificio di culto dei cristiani. Cammina, chiede, supplica e infine trova ciò che cerca. Ha indosso un paio di occhiali a lenti verdi che un migrante gli ha regalato ad Arlit, non lontano dalla frontiera con l’Algeria. Li porta per dare un altro colore a questa tappa della sua vita. Nella seconda tasca c’è un cellulare irregolare sfuggito al controllo della dogana. Regalo di un altro migrante, senza credito, giusto per fare compagnia al viaggio di ritorno. Alì ora ha 19 anni. Vuole ancora giocare al calcio e tifa sempre la Juve degli innumerevoli scudetti. Tipografo quanto basta per scrivere la sua vita sull’inchiostro dopo averla cancellata sulla sabbia. Le tasche di Alì sono vuote e non porta con sé neanche una maglietta di ricambio. Quanto ai soldi ha conservato solo il resto della colazione offerta dalla ditta Migranti Anonimi. Una Società per Azioni volta a destabilizzare il sistema di controllo globale della mobilità. Sfacciatamente libero di tornare al paese e di ricominciare da diciannove: anni che ha messo insieme con fatica. Una maglietta sportiva e pantaloni clandestini almeno quanto lui. Tipografo, laterale sinistro, figlio e fratello di mezzo, partito in attacco da tre anni. L’avvenire e il passato di Alì stanno nelle sue tasche vuote. Per ricordo mi ha scritto sulla mano il suo indirizzo di posta elettronica e giura di rispondere appena arrivato al paese. Niamey, febbraio 016 Pag 6 Adozioni gay, il rischio sentenza creativa di Luciano Moia Domani la Corte costituzionale si pronuncia su una “doppia stepchild” ottenuta negli Usa Lo spettro del decisionismo interventista dei giudici sull’attendismo ondivago del legislatore. È già capitato molte volte in questi ultimi anni sui temi della vita e della famiglia. Potrebbe capitare anche domani, quando la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sulla richiesta dei giudici del Tribunale dei minorenni di Bologna che, convinti della necessità di trascrivere in Italia una doppia, reciproca stepchild adoption tra due mamme omosessuali 'sposate' nell’Oregon, hanno avanzato il «sospetto di illegittimità costituzionale » per due articoli della legge 184 del 1983 sulle adozioni che impediscono il riconoscimento della sentenza straniera. È evidente il peso politico che avrebbe la sentenza della Consulta, proprio alla vigilia della ripresa del dibattito sul ddl Cirinnà, come Avvenire ha già argomentato nell’edizione di domenica. Se venisse raccolto l’appello del Tribunale di Bologna, il dibattito politico e mediatico di questi mesi potrebbe essere vanificato, anzi polverizzato, in pochi istanti. Condizionale d’obbligo perché rimane da capire sia quando verrà resa nota l’eventuale sentenza – saggezza vorrebbe che l’eventuale pubblicazione avvenisse una volta concluso l’iter parlamentare – sia il tipo di decisione che prenderanno i supremi giudici. Tra le ipotesi c’è infatti quella secondo cui la Consulta potrebbe decidere di non entrare nel merito della vicenda, rinviando tutto al Parlamento, come già capitato in due precedenti occasioni, nel 2010 e nel 2014. «EVVIVA LA COPPIA LESBICA» - Indubitabile in ogni caso che l’impianto dell’ordinanza con cui, il 10 novembre 2014, i giudici di Bologna hanno sospeso il giudizio sulla vicenda e trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale per verificare l’illegittimità costituzionale degli articoli 35 e 36 della legge sulle adozioni, sia del tutto a favore della cosiddetta 'famiglia omogenitoriale'. Non è la prima volta che sul tema si registrano pronunciamenti segnati da una creatività giuridica a senso unico. Già in una quindicina di casi, in questi ultimi anni, il diritto sulle adozioni è stato piegato al politicamente corretto. Anche in questa occasione il Tribunale di Bologna non fa eccezione. Può destare qualche stupore che giudici minorili esperti e collaudati come quelli in servizio nel capoluogo emiliano ravvedano, a 33 anni dall’entrata in vigore di una legge, possibili profili di incostituzionalità. Sotto accusa in particolare gli ar- ticoli 35 e 36 della legge 184, che pongono precise condizioni per la trascrizione in Italia della sentenza di adozione pronunciata all’estero. In particolare l’articolo 35, comma 3, impone al tribunale di accertare che l’adozione «non sia contraria ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori». E nel caso delle donne 'sposate' negli Usa nel 2013 – entrambe mamme grazie all’inseminazione artificiale da donatore anonimo – già il pm il 23 settembre 2014, aveva respinto la richiesta di trascrizione che per la legge italiana prevede «l’adozione del figlio del coniuge solo in presenza di un matrimonio riconosciuto dalla legge italiana». «MUTATO QUADRO SOCIALE»? - Questione chiusa? Niente affatto. I giudici del Tribunale dei minorenni non si arrendono e, dopo aver messo in fila una lunga serie di riferimenti giuridici – anche questi a senso unico – sia italiani che internazionali, arrivano ad affermare che oggi l’articolo 6 della legge 184/1983 – cioè 'l’adozione è consentita solo ai coniugi uniti in matrimonio' – «desta perplessità», tanto più di fronte a due mamme lesbiche «con ventennale esperienza». Conseguenza inevitabile: il matrimonio celebrato all’estero tra persone di sesso uguale, non solo «non è più considerabile come contrario all’ordine pubblico», ma lo stesso presupposto naturalistico «non è più condivisibile, alla luce del mutato quadro sociale ed europeo...», argomenta il giudice-sociologo sulla base di ignote valutazioni culturali, visto che non è citato studio alcuno per suffragare un’argomentazione così impegnativa a favore dell’adozione omogenitoriale. Che il «quadro sociale» vada univocamente nella stessa direzione è per esempio smentito da tutti i sondaggi di queste settimane, in cui 3 italiani su 4 hanno espresso contrarietà all’ipotesi di stepchild adoption. E quando i giudici invocano «il principio di ragionevolezza » sarebbe davvero il caso di capire se è più ragionevole aprire in modo indiscriminato all’adozione gay o evitare di avventurarsi in una sperimentazione antropologica in cui sembra davvero difficile cogliere «il supremo interesse del minore». Pag 6 Non tentare fughe in avanti, esiti difficilmente valutabili di Lorenza Violini È attesa ad horas la sentenza della Corte Costituzionale che dovrà pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale dei Minori di Bologna contro gli articoli 35 e 36 della legge italiana sull’adozione, ritenuti contrari alla Costituzione in quanto ostativi al riconoscimento in Italia di una sentenza americana che ha acconsentito alla adozione da parte di una donna, legata da matrimonio a un’altra donna, della figlia naturale di quest’ultima avuta con sperma di donatore anonimo. Essendo il matrimonio omosessuale non consentito nel nostro Paese ed essendo il matrimonio stesso condizione per l’adozione del figlio del partner la richiesta presentava palesi profili di illegittimità per l’ordinamento nazionale il quale, tra l’altro, consente al riconoscimento di sentenze straniere a determinate condizioni procedurali e solo in osservazione della condizione sostanziale di non dar luogo, in materia famigliare, a situazioni contrarie all’ordine pubblico. E, tuttavia, in un clima culturale profondamente imperniato da logiche rivolte alla estensione massima dei diritti, il giudice rimettente evoca una serie molto lunga di norme nazionali, europee e internazionali che sosterrebbero le ragioni di chi considera il mancato riconoscimento della sentenza straniera come sostanzialmente ingiusto; inoltre, a sostegno delle proprie tesi il giudice stesso non manca di richiamare affermazioni della dottrina e stralci di altre sentenze. Come risultato di tali richiami, il giudice richiede alla Corte di pronunciarsi per l’incostituzionalità della clausola di garanzia per l’ordine pubblico che introdurrebbe un divieto discriminatorio e osterebbe a riconoscere alle parti il diritto ad avere un famiglia a tutti gli effetti. Se la Corte, poi, si pronunciasse in questo senso, si avrebbe come effetto di introdurre per quel singolo caso una serie di situazioni in palese contrasto con il diritto vigente: alle due donne infatti sarebbe consentito di considerarsi – ai soli fini dell’adozione – come legalmente sposate in Italia e capaci quindi di adottare la figlia della partner, proprio mentre si assiste in sede parlamentare a un intenso dibattito circa l’opportunità di introdurre per legge tale ultima fattispecie; per non parlare poi del matrimonio omosessuale, espressamente escluso anche in sede di discussione delle regole da applicare alle unioni tra persone dello stesso sesso. Difficile immaginare come si possa giungere, per scelte singole (di singoli tribunali, di singoli giudici e di singole corti) a contraddire un assetto normativo chiaro, tra l’altro già considerato costituzionalmente legittimo dalla Consulta quando ha affermato che non è incostituzionale riservare il matrimonio (e, di conseguenza, tutti i diritti e i doveri che ne derivano) alle sole coppie di sesso diverso; qui si tenta la strada argomentativa del best interest – il miglior interesse – del minore, il quale peraltro va valutato nell’ambito delle regole sul diritto di famiglia nazionale e non a prescindere dalle stesse. La libertà si esercita nell’ambito delle condizioni poste dall’ordinamento e non tentando fughe in avanti le cui conseguenze sono difficilmente valutabili. Pag 9 Le donne “crocifisse”. In 120mila sulle strade di Lucia Bellaspiga La Giovanni XXIII: così le liberiamo. Helene e e 20 vite salvate della “casa di Gesù”. Una Via Crucis di luce che illumina Roma «Sono stata venduta da uno dei miei fratelli quando avevo 12 anni. Mi ha data a un suo amico, che dalla Nigeria mi ha portata in Italia dicendomi che avrei lavorato da un parrucchiere. Invece mi hanno messo una minigonna e mi hanno lasciata da sola sul bordo di una strada a Torino. Ho pianto tanto che nessun cliente mi ha voluta e così al mattino ho preso tante botte. Dopo qualche notte mi sono fatta coraggio e sono riuscita a portare i soldi alla madame...». Eppure le chiamiamo prostitute. Sono le ragazze crocifisse sulle nostre strade, le nuove schiave del XXI secolo, «le donne invisibili – le definisce don Aldo Buonaiuto, del servizio antitratta della Comunità Papa Giovanni XXIII – visibili solo a quei nove milioni di maschi italiani che credono sia un diritto pagare per averle e poi gettarle via usate». Da 25 anni i volontari dell’associazione fondata da don Oreste Benzi percorrono le notti italiane da Nord a Sud con le loro 21 unità di strada e avvicinano le schiave, parlano loro di libertà, di alternative. E dopo aver parlato, fanno: offrono accoglienza immediata, basta che le ragazze lascino la strada e li seguano subito, senza aspettare domani. Lo hanno già fatto in settemila, finalmente libere dai loro 'protettori', curate, mandate a scuola, avviate a un lavoro vero... «Sempre troppo poche», precisa però don Aldo Buonaiuto, nuovi dati alla mano. Le schiave vere e proprie sono infatti 120mila, secondo le stime più recenti, il 65% su strada, contro un 35% che è sfruttato nelle case chiuse e quindi paradossalmente ancora meno visibile. Più di una ragazza su tre (37%) è minorenne, spesso poco più che bambina (dai 13 ai 17 anni), e la grande maggioranza di loro arriva da Nigeria (36%), Romania (22%), Albania (10,5%), Bulgaria (9%), Moldavia (7%), e a seguire Ucraina e Cina. Il business si aggira sui 90 milioni di euro ogni mese, che le mafie straniere si spartiscono in connivenza con quelle italiane. E i clienti? Sono quei 9 milioni di schiavisti che alimentano il mercato: senza la loro domanda, la tratta umana languirebbe. «È per questo che ci appelliamo al governo e al Parlamento affinché recepiscano le direttive della Comunità Europea e si adeguino al modello nordico, che punisce il cliente anziché le schiave, unico modo per far cessare la domanda e così fermare il mercato». Il parallelo è crudo, ma anche chiaro: se vuoi fermare il traffico di avorio punisci il turista che compra le zanne, non l’elefante. Lo diceva sempre don Oreste, «nessuna donna nasce prostituta. C’è sempre qualcuno che ce la fa diventare». E così in tempi non sospetti proponeva il 'modello Benzi', lo stesso poi riscoperto dall’Europa, l’unico – lo dimostrano i fatti – efficace contro il racket. La prima ad adottarlo è stata la modernissima e liberale Svezia nel 1999, seguita da Islanda, Scozia, Norvegia e Francia, ferme nel criminalizzare la domanda e non l’offerta. Lì la legge punisce i clienti con una multa e il carcere fino a sei mesi la prima volta, con pene più severe se recidivi, ma nel contempo sostiene le donne che si liberano, dando loro protezione, istruzione e lavoro, esattamente come la Papa Giovanni XXIII. Nessun risultato, invece, hanno ottenuto i Paesi che hanno provato ad abbattere il racket legalizzando la prostituzione. Lo ha sottolineato chiaramente la risoluzione Honeyball, approvata a larga maggioranza dal Parlamento europeo nel febbraio del 2014: «La regolarizzazione non sconfigge assolutamente la crimina-lità, anzi, toglie alle forze dell’ordine strumenti per intervenire». Helene non si nasconde più. Ora che è libera ha voglia di alzare la testa e parlare a viso aperto: «Scrivi pure il mio nome vero, non ho più paura». Non adesso, nella struttura protetta della Papa Giovanni XXIII in cui vive da cinque mesi, nel meridione d’Italia. Tutta la paura che si può avere l’ha già vissuta sulle strade della Verona notturna, dove quella che chiama «la mia magnaccia» – nigeriana come lei – per oltre un anno l’ha costretta a prostituirsi, tenendola sotto scacco con tormenti fisici e morali, botte e minacce, fame e sevizie. Era stata lei, la madame, a prometterle un lavoro onesto in una fabbrica italiana come operaia, in modo che Helene, la maggiore di sette figli, potesse mandare a casa qualche soldo e aiutare i suoi genitori. «Sembrava gentile, pensava a tutto lei, mi ha comprato il volo per Parigi e da lì il biglietto del treno per l’Italia – racconta –, ed è partita con me. Arrivate nella sua casa di Verona, però, mi ha tenuta chiusa per qualche giorno e mi ha spiegato che le dovevo 60mila euro, altrimenti mi avrebbe fatto un rito woodoo. Poi una sera mi ha portata sulla strada...». Aveva solo 17 anni, Helene. Da sola, senza sapere la lingua, nella periferia nera di una notte veneta. Lei che veniva dal cuore della Nigeria. «Mi sono rifiutata e lei mi ha fatto il rito. Così ho dovuto obbedire, anche per proteggere la mia famiglia». Chiediamo a Helene se oggi che di anni ne ha 19 e vive al sicuro ha capito che il woodoo non esiste e lei sorride con la serenità di una donna matura, «ora lo so, ma ora vivo nella casa di Gesù»... La casa di Gesù è un centro che accoglie una ventina di ragazze come lei, strappate alla strada dai volontari di don Oreste Benzi. Sono ucraine e rumene, albanesi e nigeriane, tutte giovanissime e distrutte dalla somma di torture che con troppa leggerezza chiamiamo 'prostituzione'. «In realtà non ero una prostituta, ero una schiava», precisa. Ogni notte avrebbe dovuto portare a casa 600 euro, ma avrebbe significato «lavorare» con una ventina di uomini per volta e lei non riusciva, così erano botte. «La magnaccia era convinta che mi tenessi i soldi per mandarli a casa ma non era vero, non avevo nemmeno modo di chiamare la mamma e il papà. Alla fine ruppe una bottiglia e mi tagliò tutta... quella notte mi portò sulla strada così». E proprio le ferite diventano la feritoia attraverso la quale si fa strada la luce: «Un cliente che ormai conoscevo bene vide i tagli ed ebbe pietà, mi ha portata in stazione, ha telefonato alla sede centrale della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui aveva sentito parlare, e da loro ha avuto istruzioni di dove mandarmi. Mi ha anche comprato il biglietto del treno. Al mio arrivo c’erano già i miei amici volontari». Oggi studia l’italiano e si sta preparando, questa volta davvero, a poter mandare qualche aiuto ai suoi fratelli a Benin City. «Il mio sogno? Voglio fare le pulizie, avere un lavoro normale! ». Per ora è presto, deve ancora recuperare la sua sicurezza, ma poi andrà con i volontari su strada per salvare le ragazze schiave come lo era lei. «Non posso dimenticare le altre quattro nigeriane che la magnaccia teneva in casa a Verona... loro non avranno incontrato l’uomo che ha salvato me». Per questo però ci vorranno mesi, sorride Marina, la volontaria che gestisce la struttura protetta. «C’è ancora tanto lavoro da fare con le nostre ragazze, spesso sono distrutte psichicamente e portano mutilazioni fisiche evidenti. La prima cosa è farle sentire amate». Per molte di loro è una sensazione nuova, mai provata in tutta la vita. Roma nell’anno del Giubileo si trasforma nel Golgota dell’anno 33. Attori in costume faranno rivivere i momenti salienti della Via Crucis confrontando il calvario di Cristo con quello delle donne schiavizzate a causa della prostituzione coatta. Il tutto accompagnato dalle suggestive atmosfere dei luoghi storici della capitale, come i giardini di Castel Sant’Angelo, dove passerà il corteo illuminato da numerose fiaccole. Tutto questo accadrà la sera di venerdì 26 febbraio tra le 19.30 e le 23, quando il centro di Roma sarà l’ambientazione di una singolare Via Crucis vivente animata da numerosi artisti professionisti: vedremo in 'scena' attori molto amati dal pubblico televisivo e teatrale, come Beatrice Fazi, Giusy Buscemi, Giovanni Scifoni, Simone Bobini, Cristina Odasso, Claudio Morici, Caterina Silva, Giovanni Galati, Matteo Pelle, Fabio Chi e tanti altri. A sottolineare le scene più suggestive ci sarà l’interpretazione del soprano Sarah Biacchi e del maestro di violino Marco Santini, insieme al corpo di ballo della Holydance di Suor Anna e della Star Rose Academy di Claudia Koll. Il canto aiuterà a entrare nei momenti di preghiera grazie all’accompagnamento dei cori della Pastorale Vocazionale della Diocesi di Roma e degli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. L’evento vedrà la partecipazione di molte personalità del mondo civile e religioso, assieme a migliaia di cittadini. «Vogliamo scendere in strada con le donne che ogni giorno subiscono la violenza di sfruttatori e clienti per elevare con loro un grido rivolto a Dio, ma anche alle coscienze di tutti e in particolare di chi ha incarichi istituzionali – dicono gli organizzatori –, perché questo mercato di esseri umani venga fermato». Coordinata da don Aldo Buonaiuto della Papa Giovanni XXIII, in collaborazione con la Pastorale Vocazionale della Diocesi di Roma diretta dal noto sacerdote don Fabio Rosini, che coinvolge migliaia di giovani attraverso l’esperienza dei 'Dieci Comandamenti', la Via Crucis di solidarietà alle donne crocifisse dalla tratta si snoderà attraverso sette 'stazioni' e sette figure del Vangelo interpretate da personaggi dello spettacolo. Si partirà dalla zona San Pietro davanti alla Chiesa di Santo Spirito in Sassia fino alla Chiesa Nuova, Santa Maria in Vallicella, passando per Ponte Sant’Angelo, con altrettanti momenti di preghiera e testimonianze delle vittime salvate. L’iniziativa patrocinata dal Comune di Roma Capitale e dalla Regione Lazio, vede le adesioni della Diocesi di Roma, Unitalsi, Azione Cattolica Italiana, Rinnovamento nello Spirito, Cammino Neocatecumenale, Comunità Gesù Ama, Nuovi Orizzonti, Forum delle famiglie, Oratorium di Padre Maurizio Botta, Cisl. Tra i testimonial che interverranno figurano il cardinal Agostino Vallini, vicario generale del Papa, Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio Vocazioni '10 comandamenti', Matteo Truffelli, presidente di Azione Cattolica, Salvatore Martinez, presidente di Rinnovamento nello Spirito, Raffaella De Marchis del Cammino Neocatecumenale, suor Eugenia Bonetti, responsabile dell’Ufficio nazionale tratta dell’Usmi, padre Maurizio Botta de 'I 5 passi'. Un vera 'sacra rappresentazione' per raccontare la passione di Cristo attraverso quella di tante donne disperate, ma anche la sua resurrezione. Perché, come dice Giovanni Paolo Ramonda, «l’unica via per liberare queste nostre sorelle è riconoscere in pienezza la dignità della donna. Per questo chiediamo a tutti di unirvi a noi, nel tempo della Quaresima e nell’anno straordinario della Misericordia ». Pag 21 Quale Medio Oriente oltre gli stereotipi? di Chiara Zappa Lo sguardo antropologico di Ugo fabietti per superare i luoghi comuni Il Medio Oriente? Una terra dai confini vaghi ostaggio di oscurantismo e arretratezza, dove è fatale imbattersi nella «mentalità araba» e in cui domina il «pensiero islamico», quando non, addirittura, il «fanatismo musulmano». L’immagine di massa di un’area del mondo complessa, sfaccettata e quanto mai strategica all’interno delle dinamiche globali è inficiata da un’infinita serie di stereotipi e luoghi comuni, che influenzano non solo l’opinione pubblica ma anche, non di rado, l’analisi dei media e lo sguardo della politica, inducendo spesso a clamorosi equivoci, a letture distorte della realtà e a conseguenti scelte strategiche inefficaci o controproducenti. L’incomprensione – reciproca, va detto – tra ciò che chiamiamo Occidente e il mondo mediorientale – un’area vastissima e variegata in cui si tende ad includere una fascia che va dal Nord Africa all’Afghanistan – ha le sue radici in una lunga storia di conflitti che, dai tempi delle Crociate all’era coloniale, hanno cristallizzato pesanti barriere ideologiche. Tanto resistenti che lo sguardo sull’altro è rimasto ingabbiato in letture superficiali, spesso di comodo e mistificatorie, basti pensare a una certa tradizione di studi orientalistici, impastata di stereotipi esotizzanti. Lo stesso Medio Oriente – a ben vedere – è un’invenzione dell’Occidente, se è vero che l’espressione nacque nel contesto degli interessi strategici delle potenze europee agli inizi del XX secolo. Se è evidente la necessità di rifondare su basi più solide la conoscenza di questo universo, geografico e ancor più semantico, interessante è il contributo proposto da Ugo Fabietti nel suo recente Medio Oriente. Uno sguardo antropologico (Raffaello Cortina, pagine 300, euro 24,00), in cui il docente di Antropologia culturale alle Università di Milano-Bicocca e Bocconi propone appunto «una lettura delle culture e delle società “mediorientali” che utilizza gli strumenti di una disciplina come l’antropologia, diversi da quelli della storiografia, della politologia o della geopolitica». Professore, lei sottolinea tuttavia come l’identità stessa dei popoli mediorientali sia stata influenzata dalla geopolitica: in che senso? «In Medio Oriente sono presenti molte comunità diffe- renti per cultura, lingua e religione. Con la nascita degli Stati nazionali, esse sono state territorialmente accorpate o separate, in maniera tale che gruppi omogenei si trovano oggi a far parte di nazioni diverse. Il quadro storico della formazione di certe entità politico amministrative aiuta a comprenderne i limiti di fronte a una serie di elementi emersi negli ultimi 60 anni, nel mondo arabo e non solo. Pensiamo alla nascita di Israele e alla questione palestinese, ma anche al fatto che il potere, in molti di questi Stati post coloniali, sia rimasto nelle mani di chi, più che fare gli interessi delle popolazioni locali, era in realtà connivente con gli ex colonizzatori». In passato in reazione a queste dinamiche ci si è rifugiati nel panarabismo o nella religione islamica. Oggi sta avvenendo qualcosa di simile? Una nuova identità su base religiosa sta sostituendo il tradizionale modello tribale? «Il fatto che oggi la reazione all’Occidente possa assumere una connotazione religiosa, invece che tribale, è coerente con la contemporaneità perché l’azione di fattori comunicativi nuovi, come la presenza ormai globale dei media, agevola chi è alla ricerca di un motivo identitario e oppositivo che possa essere percepito come comune (nonostante le molteplici divisioni settarie). Una scelta peraltro abbastanza ovvia, se pensiamo che, nell’ultimo secolo, sono ben poche le ideologie non religiose elaborate in quest’area: passato il panarabismo, spesso legato al socialismo, che cosa rimane?». Si può dire che, in un certo senso, alcuni fenomeni violenti a cui assistiamo derivino, più che da pura volontà di potere, dal desiderio di affermare un’identità? «Quando entrano in gioco manifestazioni violente penso che dovremmo essere cauti: se osserviamo il modello di reclutamento di molti jihadisti ci accorgiamo che il suo successo è legato non tanto all’adesione all’islam quanto all’infatuazione per certi “miti” mediatici. All’origine di questa fascinazione ci sono diversi elementi. Prima di tutto dovremmo tener conto del fatto che nei Paesi del cosiddetto Medio Oriente metà della popolazione è costituita da giovani, spesso grandi masse di disoccupati in cerca di riscatto. Un riscatto che si può trovare nell’adesione a un gruppo, una setta, una corrente islamica, che offre un senso di appartenenza e certezze, anche economiche. Ma non è tutto qui. In molti di questi Paesi, che ci piacciano o no i loro costumi, una parte della popolazione mal sopporta il fatto che l’Occidente abbia esportato modelli amministrativi e culturali che non possono essere recepiti d’emblée in società con una propria storia. Una reazione che, a parti inverse, metteremmo in atto anche noi». Tra i modelli tradizionali percepiti come minacciati c’è quello familiare: che ruolo ha oggi la famiglia nelle società mediorientali? «Premettendo che non possiamo proiettare una nostra idea di famiglia in contesti molto diversi da un’area all’altra, in generale parliamo di un’entità sociale molto più allargata e più introvertita di quanto non sia in Occidente oggi. Di fronte alla mancanza di sfere pubbliche particolarmente sviluppate – il mercato del lavoro, la dialettica po-litica, la libertà di informazione… – la famiglia diventa l’unico ambito di riferimento per un individuo che, al di fuori, si avventura in un mondo pericoloso. D’altra parte, visto che il contesto familiare è il campo d’azione principale dell’individuo, esso diventa anche un elemento di potente conflittualità. Questa doppia tendenza innesca un cortocircuito che oggi è evidente in alcune società mediorientali. Se in certi contesti le relazioni interne ai nuclei si sono trasformate, ne abbiamo molti altri – pensiamo all’Arabia Saudita – in cui gli avanzamenti economici e tecnologici convivono con una forte arretratezza in campo familiare, in particolare per la condizione femminile». A proposito di donne, è corretto dire che certe dinamiche hanno una base antropologica più che religiosa? «Senz’altro per comprenderle è opportuno spostarsi dal discorso religioso. Ciò che sta avvenendo è che molte donne, consapevoli della loro identità, cercano una via di emancipazione all’interno delle proprie società, anche in quelle islamiche. L’annosa questione del velo è in realtà un falso problema. Nel mondo rurale europeo, fino a non molti anni fa le contadine indossavano un fazzoletto in testa: lo facevano per un senso di auto-identificazione, e imporre loro di toglierlo sarebbe stato considerato quanto meno stravagante. Similmente molte femministe islamiche scelgono di portare l’hijab. Ovunque, vestirsi in un certo modo vuol dire incorporare un atteggiamento di relazione con gli altri: dobbiamo quindi comprenderlo, caso per caso, per distinguere tra autoaffermazione e situazioni di imposizione patriarcale». IL GAZZETTINO Pag 1 La vittoria del realismo e del Parlamento di Alessandro Campi In materia di unioni civili prevarrà dunque il realismo, ovvero quel pragmatismo o senso delle cose che è poi la regola migliore alla quale attenersi quando si governa a fare ciò che si vorrebbe senza eccessive mediazioni con alleati e avversari. Da una maggioranza parlamentare allargata e trasversale, quale si sperava di costruire su un provvedimento in materia di diritti civili, si passerà ad una maggioranza di governo ristretta ma sufficiente a licenziare, opportunamente alleggerito ed emendato della controversa parte sulle adozioni, il disegno di legge Cirinnà. E per non correre ulteriori e inutili rischi, oltre che per velocizzare l’approvazione della normativa, sembra anche certo che verrà utilizzato lo strumento del voto di fiducia. Sarà comunque un buon risultato. In fondo sulla regolamentazione giuridica delle coppie di fatto (incluse quelle omosessuali) è d’accordo persino la nomenclatura vaticana. Renzi potrà sempre dire, a chi già lo accusa di cedimento, di averci provato a fare una legge più innovativa e radicale, ma di non aver trovato interlocutori politici adeguatamente leali e sensibili. Per essere chiari, questa virata renziana nel segno dell’opportunismo – che a suo modo è una virtù politica e non sempre sinonimo di spregiudicatezza – non è stata una vittoria tattica dei cattolici o moderati, la cui forza di interdizione si tende in queste ore per loro euforiche a sopravvalutare. La vittoria, se così vogliamo chiamarla, è stata esclusivamente di Grillo. Senza il suo voltafaccia dell’ultima ora, che ha lasciato il Pd attonito e disorientato per un eccesso obiettivo di ingenuità tattica, avremmo oggi una legge esattamente come era nella sua stesura iniziale, comprensiva cioè del famoso (o famigerato) art. 5 sulla stepchild adoption. Ma stando così le cose davvero stupiscono quegli esponenti della sinistra del Pd – ad esempio l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza – che criticano Renzi per aver scelto la strada (divenuta necessaria e inevitabile) di un accordo al ribasso con i suoi alleati centristi piuttosto che insistere per un’intesa con il M5S secondo loro ancora a portata di mano e persino auspicabile in vista di chissà quali future collaborazioni. E dire che i bersaniani sono stati i primi ad aver fatto amara e diretta esperienza delle furbizie e delle ambiguità di cui Grillo e i suoi parlamentari, per convenienza politica abilmente spacciata per difesa dei valori costituzionali, sono capaci. Se Renzi, finito vittima anch’egli della spregiudicatezza grillina, ha scelto di eccedere in realismo pur di portare a casa un risultato politico comunque importante, per sé ma anche e soprattutto per il Paese, i suoi avversari interni davvero continuano a spiccare per velleitarismo e inconcludenza. Si ostinano a considerare il M5S un interlocutore credibile, financo un potenziale alleato, quando è chiaro che del Pd esso è il principale e più diretto avversario. A proposito di realismo, una lezione che sembra potersi ricavare da quanto è accaduto è che col Parlamento (e con le forze in esso presenti) Renzi dovrà probabilmente fare i conti, d’ora in poi, diversamente che nel recente passato. Per quasi due anni il Presidente del consiglio – che ieri, parlando con la stampa straniera, si è ben descritto con una personalità politicamente sempre affamata: di cambiamento, di successi, di riforme... – ha fatto quel che ha voluto con deputati e senatori. Questi ultimi, tanto per dire, li ha persino convinti a suicidarsi. Anche sulle leggi più controverse – da quella elettorale a quella sulla riforma del mercato del lavoro – è sempre riuscito a trovare i voti che gli servivano per farle approvare come lui le voleva. E lo ha fatto ogni volta alzando la posta e il limite della sfida, giocando sulle divisioni e sui contrasti delle opposizioni, ricorrendo ad ogni possibile espediente regolamentare, attraendo a sé fuoriusciti di ogni provenienza, minacciando velatamente crisi di governo e dunque possibili elezioni anticipate (con la fine anch’essa anticipata di non poche carriere), aggregando alla bisogna maggioranze variabili che dalla sinistra radicale di Sel si sono spinte sino ai dissidenti di Forza Italia guidati da Verdini. Pensava evidentemente di farcela, alle sue condizioni, anche con le unioni civili, materia più adatta di altre, almeno sulla carta, a crea intese e convergenze. E invece ha dovuto fare i conti con una inaspettata resistenza. I grillini, spregiatori sulla carta del Parlamento, hanno definitivamente capito – come i missini ai tempi della Prima Repubblica – che solo attraverso l’azione parlamentare possono sperare di incidere sulla vita politica: non si realizza la “democrazia della sorveglianza” affidandosi solo al web, agli insulti o alle sceneggiate in piazza. Diversamente che con la sinistra bersaniana, con la quale si è comportato come il gatto con i topi, Renzi ha poi dovuto prendere atto dell’inflessibile tenacia e della poca malleabilità della fazione cattolica del Pd, che senza minacciare scissioni o inscenare psicodrammi semplicemente non si è mossa di un millimetro dalle sue posizioni, qualunque cosa il loro segretario dicesse o minacciasse. Non che il Parlamento italiano si sia improvvisamente popolato di cuor di leone e di resistenti contro lo strapotere di Palazzo Chigi e dell’esecutivo. Ma forse si è aperta, proprio con l’incidente d’aula sulle unioni civili, una fase politica nella quale la dialettica ParlamentoGoverno, se anche l’opposizione di centrodestra dovesse infine risvegliarsi dal suo torpore, potrebbe risultare meno asimmetrica e meno sbilanciata di quanto non sia stata sinora. E di questo Renzi dovrà tenere conto. LA NUOVA Pag 1 Biennio Renzi, l’incubo del debito di Roberta Carlini Una ripresa più debole di quanto previsto o sperato. Un aumento dell’occupazione abbastanza anemico, e comunque non tale da incidere sul moloch del malessere sociale: 6 milioni di persone senza lavoro, tra gli ufficialmente disoccupati e gli scoraggiati. Uno scontro aperto con l’Unione europea, con il giudizio di primavera che incombe sulla manovra. E l’ombra del debito pubblico che continua a crescere, anche se contemporaneamente non cala la pressione del fisco sui redditi. A giudicare dai grandi dati, i due anni del governo Renzi non dovrebbero dare occasione a grandi feste né a previsioni di una tranquilla navigazione per i mesi futuri. Pure, il premier incassa il primato delle riforme fatte, e chiede ai cittadini, con un sondaggio Facebook, cosa gli resta da fare. È vero che molte riforme si giudicano su tempi un po’ più lunghi di due anni, ma chi vota ai sondaggi - e poi a quello più importante, il voto vero delle amministrative di primavera - non può non dare uno sguardo ai numeri e ai fatti già prodotti, per capire se c’è da correggere il tiro o solo da aspettare fiduciosi. Il lavoro è il tema più importante, sul quale non a caso Renzi è partito, con il primo consiglio dei ministri e la seguente parata di slide scoppiettanti. Era l’annuncio dei tre grandi interventi che avrebbero caratterizzato il 2014 e il 2015. In primo luogo, una liberalizzazione dei contratti a termine. Poi, una serie di incentivi alla stabilizzazione con la decontribuzione per i nuovi assunti - e, allo stesso tempo, un cambiamento del concetto di “lavoro stabile”, con la sostituzione del vecchio posto garantito a tempo indeterminato con il contratto a tutele crescenti. L’idea del governo era quella di accompagnare e sospingere quei piccoli venti di ripresa economica che si preannunciavano, dopo il grande crollo della produzione, dei consumi e dei redditi degli anni della crisi. I dati generali ci dicono che il tasso di occupazione è salito di mezzo punto percentuale: dal 55,5% del febbraio 2014 al 56% (ultimo dato disponibile, dicembre 2015). Nello stesso periodo, la disoccupazione è scesa dal 12,7 all’11,4%. Guardando all’interno dei dati, molti osservatori concordano sul fatto che più che il jobs act ha “funzionato” lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni: nel senso di portare alla trasformazione di molti rapporti di lavoro, in senso più stabile, non di creare nuovo lavoro. Rimane alta la quota dei contratti a termine, più flessibili e reversibili dalle imprese al cambiare del ciclo economico. Più che dividere tra gufi e ottimisti, il bilancio degli sgravi e del jobs act dovrebbe portare a una riflessione sull’uso dei soldi pubblici: per la decontribuzione sono stati stanziati 1,8 miliardi nel 2015 e 4,9 nel 2016, e secondo alcune stime non basteranno. Ne è valsa la pena? O queste risorse - in tempi così magri per la finanza pubblica - si potevano spendere in modo più mirato, su settori specifici? A queste domande Renzi e i suoi rispondono vantando la riduzione della precarietà: ma, come ha mostrato Luca Ricolfi, in realtà la percentuale di lavoratori a termine - dunque precari - nel 2015 è stata la più alta dall’anno 2004, ossia da quando la rilevazione esiste. Restando sul problema delle risorse di finanza pubblica: va detto che Renzi ha intercettato il sentimento diffuso contro la “stupidità” delle regole europee, invocando una maggiore flessibilità sul rapporto deficit/Pil e ottenendo anche qualche concessione. Tra pochissimo, al momento del giudizio sulla manovra, si vedrà se il credito è già finito. Ma mentre si limavano le percentuali del deficit (ossia il flusso annuale dell’indebitamento pubblico), si perdeva di vista il problema del debito (ossia lo stock complessivo): in due anni il rapporto tra debito e Pil è salito dal 128,5 al 132,5%. Colpa della bassa crescita, una tendenza non invertita dalla timida politica espansiva del governo. Infatti, nello stesso periodo le tasse non sono scese, ma la pressione fiscale è salita dal 43,4 al 44,1%. A sua discolpa, il premier può dire che ha agito nei ristretti margini di manovra consentiti dai rigidi vincoli europei. Ma a maggior ragione sarebbe stato utile usare il bisturi, sia per la scelta degli incentivi da dare che per quella delle spese da tagliare. Torna al sommario