...

Rassegna stampa 23 febbraio 2016

by user

on
Category: Documents
21

views

Report

Comments

Transcript

Rassegna stampa 23 febbraio 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 23 febbraio 2016
SOMMARIO
“Avete mai notato - riflette Anna Foa sull’Osservatore Romano di oggi - come tutto
quello che appartiene al campo della credenza in Dio, delle pratiche religiose, della
fede sia divenuto nel tempo una questione quanto mai privata? Come mai è
considerata un’intrusione nella sfera del personale, dell’intimo, chiedere a un amico,
a un amante, a un familiare se crede in Dio o se va a messa o in sinagoga o in moschea
nei giorni di festa? Gli unici che possono ancora porre legittimamente queste domande
sono i bambini, che infatti ti rivolgono tranquillamente le domande “proibite”: Sei
ebrea? Credi in Dio? Festeggi il Natale? Ancora innocenti, presto scopriranno che
domande del genere sono giudicate sconvenienti, che non si debbono porre, che chi è
interrogato arrossirà o tossirà con imbarazzo o cercherà di far scivolare la domanda,
dalla sua persona a un generico “ebreo”, un generico “cattolico” e fin un generico
non credente. Anche interrogare sulla mancanza di fede, sulla militanza ateistica, è
considerato infatti intrusivo, imbarazzante. Avete mai sentito qualcuno chiedere a un
altro: «Scusa, ma tu sei ateo?», a meno proprio che non ti trovi in piazza con i seguaci
dell’Associazione del Libero Pensiero a commemorare Giordano Bruno? Insomma, sono
domande che si possono fare solo se sai già la risposta. Chi sta commemorando
Giordano Bruno in quel contesto non può essere religioso, chi prende la comunione in
chiesa non può non essere cattolico. Insomma, sono domande che non possono essere
rivolte all’altro, ma solo al tuo simile. Che non ampliano la tua conoscenza ma si
limitano a confermarla. La sfera della sessualità, fino a non molti decenni fa del tutto
proibita, intima, riservata, è stata sostituita da quella religiosa. Si può fare outing
sulla propria omosessualità ma non sulla propria fede religiosa, o almeno sulla qualità
della propria fede religiosa. La frase “ebreo” è stata sostituita, senza quasi
accorgersene, da “di origine ebraica”, quasi ad attenuare un’attribuzione di identità
che potrebbe imbarazzare. È di famiglia ebraica, ma che creda o non creda, che
pratichi o non pratichi, sono questioni coperte dalla privacy. Altrimenti si rischia di
passare per un ficcanaso, per un inquisitore, per un intollerante. Si può perfino
chiedere a qualcuno se crede alle streghe, al malocchio, ai fantasmi, ma guai a
chiedergli se crede in Dio. Il fenomeno è stato accompagnato da una crescente
disinformazione sul fatto religioso, sui testi basilari delle religioni, sulla storia stessa
delle religioni. I bambini non sanno nulla di Dio. Recentemente, un bambino di una
scuola elementare davanti a cui presentavo un libro, incuriosito dal mio essere ebrea
(lo avevo detto perché me lo avevano chiesto i bambini!) mi ha domandato «Ma il
diavolo è il fratello di Dio?». Ho negato, parlando di angeli ribelli, ma un altro
bambino ha interloquito: «Stupido, Dio è figlio unico!». E un altro: «Ma Dio, di che
religione è?». Domande intelligenti, acute, che crescono però sulla totale mancanza di
una qualsiasi cultura religiosa, in qualunque senso sia declinata, cattolico,
multiculturale, tollerante, catechistico. Viene da rimpiangere il catechismo che
almeno ti dava qualche informazione di base, che poi si poteva accettare come
criticare o respingere. Ma sull’ignoranza totale può crescere solo la curiosità e la
stessa intelligenza innata non è sufficiente. Naturalmente, leggere i testi basilari delle
religioni, la Bibbia, i Vangeli, il Corano non è nemmeno ipotizzabile, anzi non si sa
nemmeno quali siano e a chi appartengano. Ma - potremmo domandarci - che rapporto
ha questa mancanza di cultura religiosa con la crescente privatizzazione della fede
religiosa? I due fenomeni vanno nella stessa direzione, sono frutto dello stesso
processo? Il fatto di non saper nulla di religione ha davvero come corollario quello di
non poter fare nessuna domanda all’altro sulla sua fede senza rischiare
un’imbarazzante interferenza personale? Certo, in origine c’è la secolarizzazione, la
diminuzione del valore della religione, la crescente tolleranza fra le religioni, la
rinuncia all’imposizione all’altro del proprio credo. Tutto questo è all’origine, non c’è
dubbio. Nessuna società intollerante, sia essa quella cattolica del Cinque-Seicento o
quella islamica di oggi, considera con imbarazzo la sfera religiosa. Può al massimo
darla per scontata. All’epoca di Giordano Bruno, chiedere a qualcuno se faceva la
comunione nei tempi prescritti era una domanda che comportava conseguenze penali
o penitenziali, era una domanda che rivolgevano gli inquisitori nella sfera del pubblico
e i confessori in quella del privato. Così, nel mondo islamico di oggi, o almeno in
quello in cui l’Islam è la religione dello Stato, chi si converte al cattolicesimo non
racconterà in pubblico la storia della sua conversione, si guarderà bene anzi dal
rivelarla per non essere accusato di apostasia. Innanzi tutto, quindi, c’è la tolleranza
religiosa e la perdita di importanza della religione almeno nella sfera pubblica. Ma
queste sono precondizioni che spiegano forse la carenza di conoscenza ma non questo
strano fenomeno dell’imbarazzo, dell’inserzione della religione nella sfera
dell’intimità individuale più rigorosa. E se provassimo a ipotizzare che questo
imbarazzo non nasce dal rifiuto, non è un fenomeno attribuibile al fatto che la
religione non è importante, ma si origina invece da una carica nascosta o meglio
rimossa di interesse? Nessuno può pensare che all’epoca, in realtà molto vicina, in cui
il sesso apparteneva rigorosamente alla sfera del privato e del non detto, non fosse
per questo importante. Anzi, tanto più era rimosso tanto più era importante. E non
può essere lo stesso per la religione? Non ne parliamo, non vogliamo uscire allo
scoperto se non dinnanzi ai nostri simili, perché sentiamo che è qualcosa di nostro, di
fondamentale, un pezzo dominante della nostra identità sia che si tratti di aderire a
una fede, che di passare a un’altra che di confermare o contestare quella in cui si è
cresciuti. Perché, infatti, non crediamo che questo rinchiudere nella sfera delle
emozioni private, delle credenze personali la domanda su Dio, sia un fenomeno che va
nella stessa direzione dell’incultura religiosa, del fatto che di Dio nulla si sa, che delle
forme assunte dalle religioni positive nulla si vuole sapere, che i testi della fede, di
qualunque fede, sono relegati nelle soffitte della nostra mente. Anzi, forse è proprio
questo vuoto che è dietro di noi a farci affrontare con curiosità e al tempo stesso con
ritegno tutto quello che ci appare pertinente alla sfera religiosa. Divenuto un mistero,
di cui nessuno parla se non per sussurri, Dio ci interpella, fosse anche per negarne o
porne in dubbio l’esistenza. Nessuno più fa la famosa scommessa di Pascal,
scommettere sull’esistenza di Dio. Semplicemente, facciamo finta che non esista. O
che non esista la domanda, che solo i bambini ormai sono più in grado di fare” (a.p.)
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Domande proibite di Anna Foa
Solo i bambini non provano imbarazzo a parlare di Dio
Pag 7 Esperienza di trasfigurazione
All’Angelus il Papa parla del viaggio in Messico. E chiede di sospendere le esecuzioni
capitali durante il giubileo
Pag 8 Comunità di servizio
Alla Curia romana il Papa ricorda la necessità di coniugare fedeltà e misericordia e
chiede che nessuno si senta trascurato o maltrattato
AVVENIRE
Pag 1 Smontare i patiboli di Marco Impagliazzo
L’appello del Papa e l’impegno di tanti
Pag 2 I bisogni dei poveri non sono da meno di Maurizio Patriciello
Il pensiero e i desideri interrogano tutti
LA REPUBBLICA
Pag 19 Radio Vaticana, l’addio dopo 25 anni di padre Lombardi di Paolo Rodari
La decisione per l’accorpamento dei media vaticani. Manterrà l’incarico di portavoce
della Santa Sede affiancato da due laici
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 17 Il diritto dei cattolici a non lavorare di domenica di Flavio Haver
Pag 21 I diritti dei nonni di Elena Tebano
In 12 milioni si occupano dei nipoti. Ma quando i genitori litigano e ci sono separazioni
conflittuali spariscono dalla vita dei bimbi. La condanna della Corte europea
LA NUOVA
Pag 1 Il “bail in” è un rischio da togliere di Maurizio Mistri
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Cisl, Gottardello lascia: “Più iscritti della Cgil” di Raffaele Rosa
Dopo 12 anni il segretario passa la guida a Paolo Bizzotto
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XIV Il vescovo “scomunica” i 5 Stelle
Tessarollo difende le private e attacca: “Il loro è pensiero ideologico stravecchio”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Il vescovo di Chioggia (ri)scende in campo e ora attacca i grillini:
“Integralisti stravecchi” di Angela Pederiva
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La strana guerra all’Isis di Paolo Mieli
Amnesie europee
Pag 25 Da Berlusconi a Renzi l’incredibile autostima dei nostri premier di Gian
Antonio Stella
Politici allo specchio
AVVENIRE
Pag 2 Ancora sulla coscienza “ben formata” e sulla sostenibilità della legge che
verrà (lettere al direttore)
Pag 3 Eurozona sostenibile, crederci è un dovere di Leonardo Becchetti
I piani di Renzi per salvare l’unione monetaria
Pag 3 Clima che cambia e siccità, una questione settentrionale di Paolo Viana
Nell’Italia a secco il Nord si scopre povero di alternative
Pag 3 Le tasche vuote di Alì, laterale sinistro che sogna la Juve di Mauro
Armanino
Pag 6 Adozioni gay, il rischio sentenza creativa di Luciano Moia
Domani la Corte costituzionale si pronuncia su una “doppia stepchild” ottenuta negli Usa
Pag 6 Non tentare fughe in avanti, esiti difficilmente valutabili di Lorenza Violini
Pag 9 Le donne “crocifisse”. In 120mila sulle strade di Lucia Bellaspiga
La Giovanni XXIII: così le liberiamo. Helene e e 20 vite salvate della “casa di Gesù”. Una
Via Crucis di luce che illumina Roma
Pag 21 Quale Medio Oriente oltre gli stereotipi? di Chiara Zappa
Lo sguardo antropologico di Ugo fabietti per superare i luoghi comuni
IL GAZZETTINO
Pag 1 La vittoria del realismo e del Parlamento di Alessandro Campi
LA NUOVA
Pag 1 Biennio Renzi, l’incubo del debito di Roberta Carlini
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Domande proibite di Anna Foa
Solo i bambini non provano imbarazzo a parlare di Dio
Avete mai notato come tutto quello che appartiene al campo della credenza in Dio, delle
pratiche religiose, della fede sia divenuto nel tempo una questione quanto mai privata?
Come mai è considerata un’intrusione nella sfera del personale, dell’intimo, chiedere a
un amico, a un amante, a un familiare se crede in Dio o se va a messa o in sinagoga o in
moschea nei giorni di festa? Gli unici che possono ancora porre legittimamente queste
domande sono i bambini, che infatti ti rivolgono tranquillamente le domande “proibite”:
Sei ebrea? Credi in Dio? Festeggi il Natale? Ancora innocenti, presto scopriranno che
domande del genere sono giudicate sconvenienti, che non si debbono porre, che chi è
interrogato arrossirà o tossirà con imbarazzo o cercherà di far scivolare la domanda,
dalla sua persona a un generico “ebreo”, un generico “cattolico” e fin un generico non
credente. Anche interrogare sulla mancanza di fede, sulla militanza ateistica, è
considerato infatti intrusivo, imbarazzante. Avete mai sentito qualcuno chiedere a un
altro: «Scusa, ma tu sei ateo?», a meno proprio che non ti trovi in piazza con i seguaci
dell’Associazione del Libero Pensiero a commemorare Giordano Bruno? Insomma, sono
domande che si possono fare solo se sai già la risposta. Chi sta commemorando
Giordano Bruno in quel contesto non può essere religioso, chi prende la comunione in
chiesa non può non essere cattolico. Insomma, sono domande che non possono essere
rivolte all’altro, ma solo al tuo simile. Che non ampliano la tua conoscenza ma si limitano
a confermarla. La sfera della sessualità, fino a non molti decenni fa del tutto proibita,
intima, riservata, è stata sostituita da quella religiosa. Si può fare outing sulla propria
omosessualità ma non sulla propria fede religiosa, o almeno sulla qualità della propria
fede religiosa. La frase “ebreo” è stata sostituita, senza quasi accorgersene, da “di
origine ebraica”, quasi ad attenuare un’attribuzione di identità che potrebbe
imbarazzare. È di famiglia ebraica, ma che creda o non creda, che pratichi o non
pratichi, sono questioni coperte dalla privacy. Altrimenti si rischia di passare per un
ficcanaso, per un inquisitore, per un intollerante. Si può perfino chiedere a qualcuno se
crede alle streghe, al malocchio, ai fantasmi, ma guai a chiedergli se crede in Dio. Il
fenomeno è stato accompagnato da una crescente disinformazione sul fatto religioso, sui
testi basilari delle religioni, sulla storia stessa delle religioni. I bambini non sanno nulla
di Dio. Recentemente, un bambino di una scuola elementare davanti a cui presentavo un
libro, incuriosito dal mio essere ebrea (lo avevo detto perché me lo avevano chiesto i
bambini!) mi ha domandato «Ma il diavolo è il fratello di Dio?». Ho negato, parlando di
angeli ribelli, ma un altro bambino ha interloquito: «Stupido, Dio è figlio unico!». E un
altro: «Ma Dio, di che religione è?». Domande intelligenti, acute, che crescono però sulla
totale mancanza di una qualsiasi cultura religiosa, in qualunque senso sia declinata,
cattolico, multiculturale, tollerante, catechistico. Viene da rimpiangere il catechismo che
almeno ti dava qualche informazione di base, che poi si poteva accettare come criticare
o respingere. Ma sull’ignoranza totale può crescere solo la curiosità e la stessa
intelligenza innata non è sufficiente. Naturalmente, leggere i testi basilari delle religioni,
la Bibbia, i Vangeli, il Corano non è nemmeno ipotizzabile, anzi non si sa nemmeno quali
siano e a chi appartengano. Ma - potremmo domandarci - che rapporto ha questa
mancanza di cultura religiosa con la crescente privatizzazione della fede religiosa? I due
fenomeni vanno nella stessa direzione, sono frutto dello stesso processo? Il fatto di non
saper nulla di religione ha davvero come corollario quello di non poter fare nessuna
domanda all’altro sulla sua fede senza rischiare un’imbarazzante interferenza personale?
Certo, in origine c’è la secolarizzazione, la diminuzione del valore della religione, la
crescente tolleranza fra le religioni, la rinuncia all’imposizione all’altro del proprio credo.
Tutto questo è all’origine, non c’è dubbio. Nessuna società intollerante, sia essa quella
cattolica del Cinque-Seicento o quella islamica di oggi, considera con imbarazzo la sfera
religiosa. Può al massimo darla per scontata. All’epoca di Giordano Bruno, chiedere a
qualcuno se faceva la comunione nei tempi prescritti era una domanda che comportava
conseguenze penali o penitenziali, era una domanda che rivolgevano gli inquisitori nella
sfera del pubblico e i confessori in quella del privato. Così, nel mondo islamico di oggi, o
almeno in quello in cui l’Islam è la religione dello Stato, chi si converte al cattolicesimo
non racconterà in pubblico la storia della sua conversione, si guarderà bene anzi dal
rivelarla per non essere accusato di apostasia. Innanzi tutto, quindi, c’è la tolleranza
religiosa e la perdita di importanza della religione almeno nella sfera pubblica. Ma queste
sono precondizioni che spiegano forse la carenza di conoscenza ma non questo strano
fenomeno dell’imbarazzo, dell’inserzione della religione nella sfera dell’intimità
individuale più rigorosa. E se provassimo a ipotizzare che questo imbarazzo non nasce
dal rifiuto, non è un fenomeno attribuibile al fatto che la religione non è importante, ma
si origina invece da una carica nascosta o meglio rimossa di interesse? Nessuno può
pensare che all’epoca, in realtà molto vicina, in cui il sesso apparteneva rigorosamente
alla sfera del privato e del non detto, non fosse per questo importante. Anzi, tanto più
era rimosso tanto più era importante. E non può essere lo stesso per la religione? Non
ne parliamo, non vogliamo uscire allo scoperto se non dinnanzi ai nostri simili, perché
sentiamo che è qualcosa di nostro, di fondamentale, un pezzo dominante della nostra
identità sia che si tratti di aderire a una fede, che di passare a un’altra che di confermare
o contestare quella in cui si è cresciuti. Perché, infatti, non crediamo che questo
rinchiudere nella sfera delle emozioni private, delle credenze personali la domanda su
Dio, sia un fenomeno che va nella stessa direzione dell’incultura religiosa, del fatto che
di Dio nulla si sa, che delle forme assunte dalle religioni positive nulla si vuole sapere,
che i testi della fede, di qualunque fede, sono relegati nelle soffitte della nostra mente.
Anzi, forse è proprio questo vuoto che è dietro di noi a farci affrontare con curiosità e al
tempo stesso con ritegno tutto quello che ci appare pertinente alla sfera religiosa.
Divenuto un mistero, di cui nessuno parla se non per sussurri, Dio ci interpella, fosse
anche per negarne o porne in dubbio l’esistenza. Nessuno più fa la famosa scommessa
di Pascal, scommettere sull’esistenza di Dio. Semplicemente, facciamo finta che non
esista. O che non esista la domanda, che solo i bambini ormai sono più in grado di fare.
Scriveva oltre cent’anni fa Rainer Maria Rilke proprio a proposito delle domande su Dio
dei bambini: «E chiedessero soltanto: “Dove va quel tram a cavalli? Quante sono le
stelle? E diecimila è più o meno di molto?” Ben altre cose vogliono sapere! Per esempio:
“Il buon Dio parla anche cinese? Com’è fatto il buon Dio? Il buon Dio, sempre il buon
Dio! Quando di lui si sa davvero così poco!”».
Pag 7 Esperienza di trasfigurazione
All’Angelus il Papa parla del viaggio in Messico. E chiede di sospendere le esecuzioni
capitali durante il giubileo
«Il viaggio apostolico in Messico è stata un’esperienza di trasfigurazione»: lo ha detto il
Papa all’Angelus recitato in piazza San Pietro nella mattina del 21 febbraio, collegando le
letture del Vangelo domenicale con la recente esperienza vissuta nel grande Paese
latinoamericano. Ecco la sua meditazione, durante la quale Francesco ha ricordato anche
l’incontro all’Avana con il Patriarca Cirillo.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La seconda domenica di Quaresima ci presenta il
Vangelo della Trasfigurazione di Gesù. Il viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni
scorsi in Messico è stata un’esperienza di trasfigurazione. Come mai? Perché il Signore ci
ha mostrato la luce della sua gloria attraverso il corpo della sua Chiesa, del suo Popolo
santo che vive in quella terra. Un corpo tante volte ferito, un Popolo tante volte
oppresso, disprezzato, violato nella sua dignità. In effetti, i diversi incontri vissuti in
Messico sono stati pieni di luce: la luce della fede che trasfigura i volti e rischiara il
cammino. Il “baricentro” spirituale del pellegrinaggio è stato il Santuario della Madonna
di Guadalupe. Rimanere in silenzio davanti all’immagine della Madre era ciò che prima di
tutto mi proponevo. E ringrazio Dio che me lo ha concesso. Ho contemplato, e mi sono
lasciato guardare da Colei che porta impressi nei suoi occhi gli sguardi di tutti i suoi figli,
e raccoglie i dolori per le violenze, i rapimenti, le uccisioni, i soprusi a danno di tanta
povera gente, di tante donne. Guadalupe è il Santuario mariano più frequentato al
mondo. Da tutta l’America vanno a pregare là dove la Virgen Morenita si mostrò all’indio
san Juan Diego, dando inizio all’evangelizzazione del continente e alla sua nuova civiltà,
frutto dell’incontro tra diverse culture. E questa è proprio l’eredità che il Signore ha
consegnato al Messico: custodire la ricchezza della diversità e, nello stesso tempo,
manifestare l’armonia della fede comune, una fede schietta e robusta, accompagnata da
una grande carica di vitalità e di umanità. Come i miei Predecessori, anch’io sono andato
a confermare la fede del popolo messicano, ma contemporaneamente ad esserne
confermato; ho raccolto a piene mani questo dono perché vada a beneficio della Chiesa
universale. Un esempio luminoso di quanto sto dicendo è dato dalle famiglie: le famiglie
messicane mi hanno accolto con gioia come messaggero di Cristo, Pastore della Chiesa;
ma a loro volta mi hanno donato delle testimonianze limpide e forti, testimonianze di
fede vissuta, di fede che trasfigura la vita, e questo a edificazione di tutte le famiglie
cristiane del mondo. E lo stesso si può dire per i giovani, per i consacrati, per i sacerdoti,
per i lavoratori, per i carcerati. Perciò rendo grazie al Signore e alla Vergine di
Guadalupe per il dono di questo pellegrinaggio. Inoltre, ringrazio il Presidente del
Messico e le altre Autorità civili per la calorosa accoglienza; ringrazio vivamente i miei
fratelli nell’Episcopato, e tutte le persone che in tanti modi hanno collaborato. Una lode
speciale eleviamo alla Santissima Trinità per aver voluto che, in questa occasione,
avvenisse a Cuba l’incontro tra il Papa e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, il caro
fratello Kirill; un incontro tanto desiderato pure dai miei Predecessori. Anche questo
evento è una luce profetica di Risurrezione, di cui oggi il mondo ha più che mai bisogno.
La Santa Madre di Dio continui a guidarci nel cammino dell’unità. Preghiamo la Madonna
di Kazan’, di cui il Patriarca Kirill mi ha regalato un’icona.
Al termine della preghiera mariana il Pontefice ha lanciato un appello contro la pena di
morte e salutato i gruppi di fedeli presenti, ai quali è stata donata una scatolina
contenente la corona del rosario e l’immaginetta di Gesù misericordioso.
Cari fratelli e sorelle, domani avrà luogo a Roma un convegno internazionale dal titolo
“Per un mondo senza la pena di morte”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio.
Auspico che il simposio possa dare rinnovato impulso all’impegno per l’abolizione della
pena capitale. Un segno di speranza è costituito dallo sviluppo, nell’opinione pubblica, di
una sempre più diffusa contrarietà alla pena di morte anche solo come strumento di
legittima difesa sociale. In effetti, le società moderne hanno la possibilità di reprimere
efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la
possibilità di redimersi. Il problema va inquadrato nell’ottica di una giustizia penale che
sia sempre più conforme alla dignità dell’uomo e al disegno di Dio sull’uomo e sulla
società e anche a una giustizia penale aperta alla speranza del reinserimento nella
società. Il comandamento «non uccidere» ha valore assoluto e riguarda sia l’innocente
che il colpevole. Il Giubileo straordinario della Misericordia è un’occasione propizia per
promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di
ogni persona. Anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio.
Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso
internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono
cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga
eseguita in questo Anno Santo della Misericordia. Tutti i cristiani e gli uomini di buona
volontà sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma
anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle
persone private della libertà. Rivolgo un cordiale saluto alle famiglie, ai gruppi
parrocchiali, alle associazioni e a tutti i pellegrini di Roma, dell’Italia e di diversi Paesi.
Saluto i fedeli di Sevilla, Cádiz, Ceuta (Spagna) e quelli di Trieste, Corato, Torino. Un
pensiero particolare rivolgo alla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal Servo di Dio
Don Oreste Benzi, che venerdì prossimo promuoverà per le strade del centro di Roma
una “Via crucis” di solidarietà e di preghiera per le donne vittime della tratta. La
Quaresima è un tempo propizio per compiere un cammino di conversione che ha come
centro la misericordia. Perciò, oggi, ho pensato di regalare a voi che siete qui in piazza
una “medicina spirituale” chiamata Misericordina. Già una volta l’abbiamo fatto, ma
questa è di migliore qualità: è la Misericordina plus. Una scatolina che contiene la corona
del Rosario e l’immaginetta di Gesù Misericordioso. Ora la distribuiranno i volontari, tra i
quali ci sono poveri, senzatetto, profughi e anche religiosi. Accogliete questo dono come
un aiuto spirituale per diffondere, specialmente in questo Anno della Misericordia,
l’amore, il perdono e la fraternità. Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non
dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!
Pag 8 Comunità di servizio
Alla Curia romana il Papa ricorda la necessità di coniugare fedeltà e misericordia e
chiede che nessuno si senta trascurato o maltrattato
La Curia romana, il Governatorato e le istituzioni collegate con la Santa Sede
costituiscono una «comunità di servizio» in cui vanno coniugate «fedeltà e misericordia»
e dove nessuno dovrebbe mai sentirsi «trascurato o maltrattato». È quanto ha
sottolineato Francesco durante la messa celebrata nella basilica di San Pietro, lunedì
mattina 22 febbraio, festa liturgica della Cattedra dell’Apostolo, in occasione del giubileo
dei dipendenti vaticani.
La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti per celebrare il Giubileo
della Misericordia come comunità di servizio della Curia Romana, del Governatorato e
delle Istituzioni collegate con la Santa Sede. Abbiamo attraversato la Porta Santa e
siamo giunti alla tomba dell’Apostolo Pietro per fare la nostra professione di fede; e oggi
la Parola di Dio illumina in modo speciale i nostri gesti. In questo momento, ad ognuno
di noi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15). Una
domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere
neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di
inquisitorio, anzi, è piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi ci
chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della
nostra vita. E il primo chiamato a rinnovare la sua professione di fede è il Successore di
Pietro, che porta con sé la responsabilità di confermare i fratelli (cfr. Lc 22, 32).
Lasciamo che la grazia plasmi di nuovo il nostro cuore per credere, e apra la nostra
bocca per compiere la professione di fede e ottenere la salvezza (cfr. Rm 10, 10).
Facciamo nostre, dunque, le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente»
(Mt 16, 16). Il nostro pensiero e il nostro sguardo siano fissi su Gesù Cristo, inizio e fine
di ogni azione della Chiesa. Lui è il fondamento e nessuno ne può porre uno diverso (1
Cor 3, 11). Lui è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive
sant’Agostino quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della
storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è
la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come
non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo.
[...] La pietra è Cristo, sul fondamento del quale anche Pietro è stato edificato» (In Joh
124, 5: PL 35, 1972). Da questa professione di fede deriva per ciascuno di noi il compito
di corrispondere alla chiamata di Dio. Ai Pastori, anzitutto, viene richiesto di avere come
modello Dio stesso che si prende cura del suo gregge. Il profeta Ezechiele ha descritto il
modo di agire di Dio: Egli va in cerca della pecora perduta, riconduce all’ovile quella
smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata (34, 16). Un comportamento che è
segno dell’amore che non conosce confini. È una dedizione fedele, costante,
incondizionata, perché a tutti i più deboli possa giungere la sua misericordia. E, tuttavia,
non dobbiamo dimenticare che la profezia di Ezechiele prende le mosse dalla
constatazione delle mancanze dei pastori d’Israele. Pertanto fa bene anche a noi,
chiamati ad essere Pastori nella Chiesa, lasciare che il volto di Dio Buon Pastore ci
illumini, ci purifichi, ci trasformi e ci restituisca pienamente rinnovati alla nostra
missione. Che anche nei nostri ambienti di lavoro possiamo sentire, coltivare e praticare
un forte senso pastorale, anzitutto verso le persone che incontriamo tutti i giorni. Che
nessuno si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di
tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore. Siamo chiamati ad essere i collaboratori
di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra
esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova.
Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della
nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La
fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza.
Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile.
Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarità
si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella
di agire secondo il cuore di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo
Pietro, dobbiamo pascere il gregge con “animo generoso” e diventare un “modello” per
tutti. In questo modo, «quando apparirà il Pastore supremo» potremo ricevere la
«corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5, 14).
AVVENIRE
Pag 1 Smontare i patiboli di Marco Impagliazzo
L’appello del Papa e l’impegno di tanti
Il Papa ha lanciato un nuovo e importante appello. Non è la prima volta che Francesco
parla della necessità di giungere all’abolizione della pena di morte nel mondo, ma quello
di ieri all’Angelus suona come un programma per tutti coloro che desiderano un mondo
più vivibile e umano. A partire dai cristiani. Non a caso, proponendo la moratoria per le
pene capitali, si è rivolto prima di tutto ai governanti cattolici e ha inserito il suo appello
all’interno del Giubileo della Misericordia. Il discorso del Papa, però, ha un carattere
universale e riguarda l’intera umanità. Ha parlato di «segni di speranza» in un’opinione
pubblica sempre più contraria, nel mondo, alla pratica della pena di morte e ha ricordato
che «le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza
togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi». Si tratta
di parole che fanno pensare a come si possa giungere, in un giorno che speriamo vicino,
all’abolizione della pena capitale nel mondo, a livello legale, così come si giunse
nell’Ottocento a quella della schiavitù. Oggi l’Europa vanta, de iure e de facto, il primato
di avere archiviato la pena capitale, e molti segnali positivi giungono anche dall’Africa,
che potrebbe a breve diventare il secondo continente a essere liberato da questa odiosa
pratica. Ma anche, più in generale, si registra la diminuzione, anno dopo anno, del
numero dei Paesi mantenitori e di quello dei condannati a morte al termine di una
procedura ufficialmente legale. L’ultimo voto, nel 2014, alla III Commissione delle
Nazioni Unite, sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un
successo, con 117 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto al voto precedente. Il
convegno internazionale 'Per un mondo senza pena di morte' promosso dalla Comunità
di Sant’Egidio – che il Papa ha salutato domenica durante l’Angelus, augurandosi che
«possa dare un nuovo impulso all’impegno per l’abolizione della pena capitale» – si
inserisce in questa campagna: ministri della Giustizia e rappresentanti di 30 Paesi in una
conferenza che vede raccolti, in modo inedito, in una stessa riflessione, Paesi
abolizionisti e Paesi mantenitori: la strada per difendere la vita si può cercare e trovare
insieme se ci si apre al dialogo. Ministri ricevuti poi dal presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella, che ha rilanciato l’appello per un mondo senza pena capitale. Sono
campagne preziose per tutti perché sentono, e diffondono, il dovere morale di non
retrocedere mai di fronte alla paura che è sempre cattiva consigliera. Se la crescita di un
sentimento di allarme è giustificato da tanti episodi violenti cui abbiamo assistito in
Europa, in Medio Oriente e in Africa, siamo però convinti che non possa e non debba
riaprire la strada a pericolose marce indietro: fare il male per ricavarne il bene può
sembrare un pensiero proporzionato, ma non è né giusto né efficace. Fa solo il gioco di
chi semina violenza. Perché è proprio la paura la principale arma del terrore. Il sogno di
giungere al superamento della pena di morte nel mondo è realizzabile e si fa sempre più
concreto. Allo stesso tempo occorre non abbassare mai la guardia. In Asia e negli Stati
Uniti, ma non solo, c’è da conquistare molte istituzioni alle ragioni della vita e
dell’umanità. E occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è
vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono ancora, in
alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi, soprattutto in America
Latina e in Africa. Lottare contro la pena di morte è anche lottare per una società in cui il
livello di violenza diffusa sia il più basso possibile. Uno dei risultati dell’abolizione della
pena capitale è infatti quella di inviare a tutti un potente messaggio: aggiungere
violenza a violenza – anche se istituzionalizzata – non solo non risolve, ma soprattutto
avvelena il clima generale, genera sentimenti deleteri tra le persone, ingabbia in una
forma di 'retribuzione' feroce. La campagna mondiale fa compiere un salto di qualità
nella cultura generale del mondo: la vita è la cosa più importante.
Pag 2 I bisogni dei poveri non sono da meno di Maurizio Patriciello
Il pensiero e i desideri interrogano tutti
Capisco perché Gesù ha voluto farsi povero coi poveri. Capisco perché saranno i poveri
che salveranno il mondo dalle sue stupide follie. Comprendo il motivo del divario sempre
più acuto tra ricchi e poveri. Perché i poveri fanno comodo a certi ingiusti equilibri
mondiali. «I poveri li avrete sempre con voi», disse Gesù. Eugenio Scalfari, parlando a
Tv 2000 ha detto: «Gli uomini hanno bisogni primari come gli animali… Ma i poveri,
salvo pochissimi, non hanno bisogni secondari». Davvero? Sui bisogni primari degli
uomini, non possiamo che essere d’accordo. Fame e sete, freddo e caldo si fanno sentire
da tutti. Sui bisogni secondari, che solo i ricchi avrebbero la fortuna, o la sfortuna, di
avvertire, si rimane basiti a sentire una tale sentenza. Intanto, occorrerebbe stabilire la
soglia di povertà oltre la quale sarebbe vietato l’accesso di tanta parte di umanità ai
bisogni secondari. E occorrerebbe stabilire chi sono i poveri. Parliamo di povertà solo in
senso economico o anche morale e spirituale? Che cosa intende dire Scalfari? Che i
poveri non sentono il bisogno di comunicare, di leggere e di scrivere? Che non riescono a
meditare, riflettere, pregare? Che non si pongono le domande sul fine ultimo
dell’esistenza? Che restano indifferenti davanti al mistero della vita e della morte? Chi lo
pensa non ha mai frequentato i poveri. Eppure basta dare uno sguardo alla storia
dell’umanità per rendersi conto che santi e filosofi dalle umilissime origini non si
contano. E così artisti, scrittori e poeti. E preti. San Giovanni XXIII era figlio di semplici
contadini. Don Giuseppe De Luca, nacque da una povera famiglia della poverissima
Lucania. I genitori di don Primo Mazzolari non navigavano nell’oro. Non mi pare che
Grazia Deledda e Gavino Ledda fossero nati in una reggia. Il nostro grande Totò era del
rione Sanità. I fratelli De Filippo nacquero da una ragazza madre. Certo, quando lo
stomaco è pieno è facile mettersi a filosofare. Nei campi di concentramento, però, ricchi
e poveri impazzivano per una patata, un tozzo di pane, una mela. Il ricordo di una
tavola imbandita li faceva impazzire. Una volta messo a tacere lo stomaco l’uomo si
pone domande. Si chiede chi è. Che cosa è la vita, che cosa è la morte. In fondo la vita
è illogica. Si nasce per morire. 'La vita è un pacco che il ginecologo lancia al becchino',
ha detto qualcuno. Liberi di pensarlo. Se così fosse vivere sarebbe veramente
deprimente. Riflette, dunque, solo il ricco? Ma che dice, Scalfari? Si è mai fermato a
parlare con un contadino analfabeta? Io ho avuto la fortuna di averli in casa. Sono nato
in una casa dove non era mai entrato un libro. Per il semplice motivo che i miei non
sapevano leggere. Eppure quanta onestà. Quanto timor di Dio. Quanto desiderio di non
far male al prossimo. Quanta capacità di amare. I miei riflettevano? Gioivano? Soffrivano
per le ingiustizie altrui? Glielo assicuro. Certo ai poveri non è consentito fare le ore
piccole. È un lusso che non possono permettersi. «Su a letto – diceva la mamma –
domani il gallo canterà che è ancora buio». Il sudore e il sangue dei poveri ha fatto da
concime per le terre altrui. Hanno permesso ai ricchi di gozzovigliare nel lusso e nei vizi.
Che fosse terribilmente ingiusto, i poveri lo hanno sempre saputo. Certi canti dei
braccianti agricoli del nostro maltrattato e umiliato Meridione sono dei lamenti
struggenti. I poveri hanno dovuto abbassare la testa tante volte solo perché quei ricchi
che «avevano bisogni secondari» li avrebbero massacrati alla prima ribellione. Lasciamo
stare. Si riaprono ferite mai sanate. Il grido dei poveri assorda le orecchie della storia,
degli uomini e di Dio. I poveri sono sempre stati e sono tuttora funzionali alle comodità
di chi controlla l’economia e detiene il potere. Ma i poveri sono persone che sanno
riflettere e decidere. Sanno leggere i segni dei tempi e della natura. Del patrimonio
comune che ci è stato dato essi consumano pochissimo lasciando ai ricchi di fare razzie a
danno delle future generazioni. I poveri sanno cantare ed essere felici con poco. Sanno
dipingere e gioire. I poveri sanno amare. Un amore che sa donarsi fino all’ultimo
spasimo. «Mostra delle noci a un bambino – scrive sant’Agostino – e te lo tirerai dietro».
Ma fagliele vedere quelle benedette noci. Fagliele toccare. Non arraffarle tutte. Non
mangiarle da solo. Non accumularne tante da farle marcire. «Il cibo che gettiamo nella
spazzatura – ha detto il Papa – lo stiamo rubando ai poveri». Vero. Verissimo. Quanti
libri potrebbero essere comprati se i ricchi di tutto il mondo rinunciassero a tre soli giorni
di vacanza? «Chi è sazio non crede a chi sta digiuno», dice un vecchio proverbio. È
proprio così. Chi ha ricevuto di più, invece, deve sentire il dovere di donare di più.
Perché i poveri abbiano gli stessi diritti dei ricchi. Perché la giustizia possa farsi strada.
Perché le armi possano essere messe a tacere. Anziché dire parole senza senso,
pericolose e dolorose, proviamo a riflettere e legiferare per fare uscire i poveri dalle
secche nelle quali sono stati relegati.
LA REPUBBLICA
Pag 19 Radio Vaticana, l’addio dopo 25 anni di padre Lombardi di Paolo Rodari
La decisione per l’accorpamento dei media vaticani. Manterrà l’incarico di portavoce della
Santa Sede affiancato da due laici
Dopo ottantaquattro anni di vita la Radio Vaticana non avrà più un direttore
appartenente ai gesuiti. L'ultimo, padre Federico Lombardi, 73 anni, direttore dei
programmi dal 1991 e direttore generale dal 2005, lascerà a fine febbraio e non sarà
sostituito. Nel piano di accorpamento in un'unica struttura di Radio Vaticana e Centro
Televisivo Vaticano (Ctv), infatti, (è per la contingenza di questo accorpamento che
Lombardi lascia) l'ordinaria amministrazione verrà affidata al vicedirettore generale della
Segreteria per la comunicazione, Giacomo Ghisani, mentre rimane al suo posto come
direttore dei programmi il gesuita polacco Andrej Majewski. Padre Lombardi, in ogni
caso, manterrà il delicato incarico di direttore della sala stampa della Santa Sede,
incarico che è suo dall'11 luglio del 2006 quando Benedetto XVI lo nominò in
sostituzione di Joaquín Navarro-Valls. La fiducia del Papa in lui è totale e potrebbe anche
andare oltre il compimento dei suoi 75 anni. Insieme a Lombardi, in sala stampa,
lavorano due laici: Angelo Scelzo, responsabile degli accrediti, e Greg Burke, già
corrispondente di Fox News, e dall'estate 2012 - nel pieno della bufera del primo
Vatileaks - consulente per la comunicazione della Sezione per gli Affari Generali della
Segreteria di Stato. Tanti i gesuiti illustri che hanno fatto grande l'emittente pontificia.
Tra di loro, come ricorda il sito Il Sismografo, il cardinale Roberto Tucci, padre Pasquale
Borgomeo e padre Sesto Quercetti, tutti e tre deceduti. Era il 12 febbraio del 1931
quando Papa Pio XI, attraverso il radio messaggio "Qui arcano Dei", inaugurò la radio
affidandola alla responsabilità dei gesuiti i quali, da sempre, hanno fra le proprie
peculiarità, oltre alla formazione dei sacerdoti, all' istruzione e alla ricerca scientifica,
anche la comunicazione. Del resto, uno zio di padre Lombardi, Riccardo, anch' egli
gesuita, fu predicatore radiofonico di grande successo, diventando noto presso il grande
pubblico come "il microfono di Dio". L'accorpamento di Radio Vaticana e Ctv fa parte
della più grande opera di ristrutturazione dei media vaticani che la commissione di nove
cardinali che aiutano il Papa nella riforma della curia romana sta attuando. Come aveva
spiegato monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la
Comunicazione della Santa Sede, nella riforma sono implicate le persone e bisogna
tenerne conto. In sostanza, non ci saranno drastici tagli. «Auspico che anche nei nostri
ambienti di lavoro» nessuno «si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa
sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore», ha detto
recentemente Francesco.
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Sui divorziati risposati il papa frena, i suoi consiglieri no di Sandro Magister
Dopo il gesuita Spadaro anche il vescovo Semeraro spinge perché sia data loro la
comunione. Ma con argomenti molto discutibili. Qui confutati da un esperto di pastorale
familiare, Juan José Pérez-Soba
La pubblicazione dell'attesissima esortazione postsinodale è ormai vicina. "Forse prima di
Pasqua", ha detto Francesco. Sale quindi la febbre su ciò che il papa dirà sul punto più
controverso, la comunione ai divorziati risposati. In Messico, a Tuxtla, il papa è rimasto
molto colpito dalla testimonianza di una di queste coppie "irregolari". Humberto e
Claudia – questi i nomi – non hanno affatto preteso la comunione sacramentale, che
ritengono giustamente a loro preclusa. Ma hanno invece raccontato che la "comunione"
la fanno con opere di carità. Francesco, ascoltandoli, annuiva convinto. Al termine li ha
additati alla folla come esempio positivo. E poi si è rivolto a loro così: "Voi vi siete fatti
coraggio, e voi pregate, voi state con Gesù, voi siete inseriti nella vita della Chiesa.
Avete usato una bella espressione: 'Noi facciamo comunione con il fratello debole, il
malato, il bisognoso, il carcerato'. Grazie, grazie!". Ma non è tutto. L'esempio di questa
coppia deve aver talmente impressionato Francesco che egli vi ha fatto di nuovo
riferimento durante la conferenza stampa sul volo di ritorno dal Messico a Roma. Con
queste parole testuali: "Nell’incontro con le famiglie, a Tuxtla. c’era una coppia di
risposati in seconda unione, integrati nella pastorale della Chiesa. E la parola chiave che
ha usato il sinodo – e io la riprenderò – è 'integrare' nella vita della Chiesa le famiglie
ferite, le famiglie di risposati". Anne Thompson, di NBC News, chiese a questo punto al
papa: "Significa che potranno fare la comunione?". E Francesco: "Questo è il punto di
arrivo. Integrare nella Chiesa non significa 'fare la comunione', perché io conosco
cattolici risposati che vanno in chiesa una volta l’anno, due volte, [e dicono]: 'Ma, io
voglio fare la comunione!', come se la comunione fosse un’onorificenza. È un lavoro di
integrazione, tutte le porte sono aperte, ma non si può dire: da ora in poi possono fare
la comunione. Questo sarebbe una ferita anche ai coniugi, alla coppia, perché non farà
compiere loro quella strada di integrazione. E questi due [di Tuxtla] erano felici! E hanno
usato un’espressione molto bella: 'Noi non facciamo la comunione eucaristica, ma
facciamo comunione nella visita all’ospedale, in questo servizio, in quello…'. La loro
integrazione è rimasta lì. Se c’è qualcosa di più, il Signore lo dirà a loro, ma… è un
cammino, è una strada". Se il sentire di papa Francesco è questo, c'è quindi da
presumere che, nell'esortazione postsinodale, egli non identificherà necessariamente con
la comunione eucaristica quella "più piena partecipazione alla vita della Chiesa" che i
padri sinodali hanno auspicato per i divorziati risposati. Resta tuttavia il fatto che alcune
delle persone che sono più vicine a Jorge Mario Bergoglio e più si fanno interpreti del suo
pensiero hanno fatto presagire da parte del papa una diversa soluzione, più "aperta".
Uno di questi è il gesuita Antonio Spadaro, direttore de "La Civiltà Cattolica", il quale ha
dato per certo che "circa l’accesso ai sacramenti il sinodo ordinario ne ha effettivamente
posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa", e
il papa ne trarrà le conseguenze. Un altro è il vescovo di Albano Marcello Semeraro, che
Bergoglio ha chiamato vicino a sé come segretario del consiglio dei nove cardinali che
assistono il papa nel governo della Chiesa e come membro del sinodo sulla famiglia, tra
gli incaricati della scrittura della relazione finale. Nello spiegare ai suoi diocesani i
risultati del sinodo, in una conferenza raccolta poi in un libretto, Semeraro ha anzitutto
insistito sul "primato della grazia, che è come dire della misericordia", e sulla "novità"
del "passaggio dalla morale della legge alla morale della persona". E poi, per quanto
riguarda la comunione ai divorziati risposati, ha rimandato a due lettere del 1973 e del
1975 della congregazione per la dottrina della fede, per mostrare che già allora la Chiesa
incoraggiava "una particolare sollecitudine verso coloro che vivono in una unione
irregolare, applicando nella soluzione di tali casi, oltre ad altri giusti mezzi, l’approvata
prassi della Chiesa in foro interno". A giudizio di Semeraro quella "approvata prassi"
consentiva in quegli anni anche la comunione, che solo successivamente fu proibita da
Giovanni Paolo II a tutti i divorziati risposati, salvo che a quelli che si impegnavano a
vivere "in piena astinenza". Si tratterebbe quindi di tornare alla disciplina precedente.
Cosa che il sinodo avrebbe già reso possibile, tacendo sulle restrizioni introdotte di
Giovanni Paolo II e quindi "lasciando 'aperto' un testo che ha voluto affidare a un nuovo
discernimento del sommo pontefice". A sostegno delle sue tesi, Semeraro ha citato
anche un celebre teologo moralista di quegli anni, Bernhard Häring, secondo il quale
l'obbligo della "totale astinenza", per accedere alla comunione, valeva allora non per i
divorziati risposati in genere, ma solo per i sacerdoti che avevano avuto dei figli da una
donna sposata civilmente. Ma ora, a confutare le tesi di Semeraro, interviene con
ampiezza di argomenti uno specialista della materia, Juan José Pérez-Soba Diez del
Corral, sacerdote della diocesi di Madrid e professore di pastorale familiare nel Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Pontificia
Università del Laterano. Qui di seguito ne è riprodotto un ampio estratto, la cui lettura è
quanto mai d'attualità, nell'imminenza della pubblicazione da parte di papa Francesco
dell'esortazione postsinodale.
Interpretare a partire dal cuore del Vangelo di Juan José Pérez-Soba
La fine dei Sinodi sulla famiglia ha lasciato, nella Chiesa, l'impressione di una sorta di
delusione. […] Dopo due anni carichi di lavoro, di consultazioni e di dialogo, le grandi
aspettative che si erano create non hanno trovato una valida risposta. La Chiesa attende
dunque l'autorevole voce di papa Francesco affinché colmi le carenze emerse in
quest'ultima assemblea, relativamente a una conversione pastorale nell'ambito della
famiglia. […] È proprio la vita delle famiglie alla luce del Vangelo a dover essere il
criterio pastorale fondamentale. […] Questo significa andare sempre all'essenziale, per
poi chiarire le molteplici circostanze mutevoli che necessitano di questa luce. È quanto
intendiamo fare qui, ricorrendo a sei punti chiave.
1. Esiste il Vangelo della famiglia
È l'affermazione fondamentale che emana dal Sinodo. […] Questa convinzione essenziale
è la luce primigenia necessaria per discernere il cammino che ogni famiglia concreta
deve percorrere nella propria esistenza, ricca di molteplici realtà e varietà, che trovano
unità partendo dal disegno divino nell'unica missione di Cristo, nella comunione della
Chiesa. […]
2. È necessaria un’interpretazione morale dei numeri 85-86 della "Relatio"
Dopo i dibattiti che ci sono stati, è facile comprendere l'importanza decisiva racchiusa
nella parte che tratta dell'attenzione alle persone in "situazioni complesse" e, in
particolare, ai divorziati che hanno contratto una nuova unione. Nelle diverse spiegazioni
che sono state date – ad esempio quella del vescovo Marcello Semeraro nella conferenza
tenuta nella sua diocesi di Albano – emerge sempre più l'importanza che il
discernimento, spesse volte menzionato dal Sinodo, sia, in realtà, morale. […] Il
rinnovamento morale è del tutto necessario per il tema in questione. Devono essere dei
principi chiari della morale cristiana a spiegare come accompagnare le persone in queste
situazioni. Sorprende quindi che, come grande "novità", si dica che bisogna passare
"dalla morale della legge alla morale della persona". Presa in questi termini,
l'espressione appare come la scoperta del Mediterraneo. La stragrande maggioranza dei
moralisti, da cinquant’anni ormai, ha adottato questo compito come missione propria
fornendo grandi contributi in merito. Non si parte da zero, né si può considerare questa
una novità richiesta da papa Francesco. […] Dopo il Concilio, è praticamente unanime
l'idea di fondare la morale sull’uomo, ribadendo che la legge è fatta per tutelare il bene
della persona. […] La legge di Dio è interna al cuore dell'uomo e riflette una sapienza
circa la verità del bene che unisce gli uomini in un unico cammino. Per questa ragione
fondamentale, il Sinodo ha negato con decisione qualsivoglia gradualità della legge (n.
86) ossia l'intento di misurare la legge a partire dalle possibilità soggettive della persona
in ogni situazione. […] Da qui deriva un modo sbagliato di comprendere questa "morale
della persona": come possibilità di prevedere un'eccezione alla legge nel caso di atti
intrinsecamente cattivi. […] Lo si è visto nel passo dell’"Instrumentum laboris" circa la
"Humanae vitae" (n. 137) che seguiva questa interpretazione e che è poi stato eliminato
nella "Relatio" finale (cfr. n. 63). Quest'ultima ha voluto citare esplicitamente l'enciclica
"Veritatis splendor" (nn. 54-64) che si pone dunque come quadro di comprensione del
rapporto tra legge e coscienza, a cui il Sinodo fa riferimento. […] Ecco perché non è
possibile prevedere un'eccezione per quanto riguarda i comandamenti del decalogo. Non
esiste un adulterio permesso o un aborto valido, così come non esiste nessun atto
possibile di pedofilia: tutti questi atti offendono sempre e comunque la dignità della
persona, in primo luogo di colui che li commette. Certo, tutto questo appare difficilmente
comprensibile in una società relativista, giacché oggi gran parte degli uomini giudica la
bontà degli atti emotivamente, ovvero mediante l'emozione positiva o negativa che
questi suscitano in loro. È quello che la teoria morale chiama: soggetto emotivo. Di
conseguenza, per un’autentica evangelizzazione non basta ricordare i comandamenti,
ma è necessario accompagnare le persone affinché si affranchino da questo emotivismo.
Tale principio, così importante al giorno d'oggi, è ancora praticamente ignorato dalla
stragrande maggioranza dei pastori, sebbene sia così fondamentale per
l'evangelizzazione della famiglia. […]
3. Imputabilità e irresponsabilità
Adottando questa visione rinnovata, è facile vedere quanto sia limitata la menzione
dell'imputabilità delle azioni nella "Relatio" (n. 85). Si tratta dell’imputabilità morale, che
non ha nulla a che vedere con la questione giuridica alla quale si riferisce invece il testo
ivi citato del pontificio consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000. Sorprende che
in uno stesso paragrafo si mescolino due diverse considerazioni di imputabilità. Questo
accade spesso nei documenti redatti velocemente, inducendo molta confusione. […] Si
allude a un atto non pienamente umano e, di conseguenza, non imputabile alla persona.
[…] In realtà, applicare questo principio al caso dei divorziati risposati equivale, ai miei
occhi, a considerarli persone irresponsabili, incapaci di compiere un atto pienamente
umano, come se fossero persone piene di paure, pressioni o inconsapevoli, tanto da
portare a considerare che i loro atti non sono imputabili. Una visione così negativa della
loro situazione non corrisponde veramente alla realtà pastorale, che è invece molto
diversa. Vanno viste come persone in difficoltà, bisognose di aiuto e soprattutto di una
guarigione interiore, ma non le si può considerare irresponsabili affinché una legge non li
colpisca. […] In ogni caso, qualsiasi azione pastorale dovrebbe far sì che queste persone
escano quanto prima da questa povera situazione di irresponsabilità e di non
imputabilità che non porta loro nessun beneficio, sempre tenendo in considerazione la
legge della gradualità circa la conoscenza del bene.
4. Il fondamento della grazia
La morale della persona ha il proprio culmine nella nuova legge di Cristo. […] Papa
Francesco la riconosce con grande fermezza, poiché la cita esplicitamente in "Evangelii
gaudium" come base per la nuova evangelizzazione: "L’elemento principale della nuova
legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo
dell’amore” (EG 37). La novità della grazia è, in realtà, la guida dello Spirito Santo che,
mediante la sua azione, modifica le nostre disposizioni interiori. […] Ecco il riferimento
fondamentale di Cristo quando parla di se stesso come di Colui che permette di superare
la durezza del cuore che impedisce all'uomo di vivere il disegno di Dio. È importante
osservare che questo lo fa in riferimento al divorzio (cfr. Mt 19,8) attribuendogli dunque
un'importanza decisiva fortemente legata al cuore del Vangelo. Vediamo, infatti, come la
liberazione da questa terribile schiavitù dell'uomo che si manifesta soprattutto
nell'impossibilità di vivere un amore che permane per sempre, che "non avrà mai fine”
(1 Cor 13,8). Ecco perché è assolutamente assurdo l'estremo di coloro (si è addirittura
alzata una voce in questo senso nel Sinodo) che, opponendosi alla logica del testo e alla
verità teologica più elementare, hanno sostenuto che Cristo volesse giustificare la
durezza del cuore. Questo equivale a negare l'instaurazione della nuova legge promessa.
[…] Per avvicinare le persone alle fonti della grazia mediante un accompagnamento
personale, bisogna avere la sensibilità di vedere mediante la fede il modo in cui la grazia
le trasforma interiormente. Già la prima comunità cristiana era molto sensibile a questo
punto e, di conseguenza, era molto attenta ad accompagnare i catecumeni nel processo
di iniziazione per il battesimo. […] Erano convinti della necessità di un sostegno in
questo mutamento così radicale ed impegnativo in un ambiente pagano molto lontano
dal cristianesimo. Basandosi su questa tradizione, il Concilio di Trento conclude che
l’osservanza dei comandamenti è un segno necessario della conversione cristiana. […] Il
riferimento alla grazia, ben lungi dal giustificare un’eccezione ai comandamenti, si fonda
proprio su questa osservanza, come manifestazione reale della trasformazione in Cristo.
[…]
5. L’accompagnamento, in foro interno
Quel luogo speciale nel quale l'uomo apre la propria coscienza ad un'altra persona per
poter essere consigliato e sostenuto è ciò che la Chiesa chiama il foro interno e che, in
quanto legato all'intimità della coscienza, esige un rispetto molto speciale. Nella
"Relatio" si parla del foro interno al numero 86, in continuità con quanto
precedentemente affermato circa l'attenzione pastorale ai divorziati risposati. […] Ma
ancora una volta, osserviamo che per quanto riguarda le "esigenze di verità e di carità"
che debbono guidare questo discernimento, è stata fornita un'interpretazione molto
lontana dalla verità dei fatti. Sorprendentemente, è stata tirata fuori la spiegazione che
Bernhard Häring offre in merito, ripresa poi da Alberto Bonandi nel libro promosso dal
pontificio consiglio per la famiglia: "Famiglia e Chiesa: un legame indissolubile". Il
professore tedesco […[ afferma che il fatto di vivere "come fratello e sorella" non era
tradizionale, ma da considerare soltanto nei casi di concubinato dei sacerdoti
secolarizzati. Sostiene, inoltre, che ai tempi di Paolo VI sarebbe stata permessa una
prassi diversa priva di tale requisito e che, pertanto, la sua l'inclusione da parte di
Giovanni Paolo II sarebbe stata un'esigenza innovativa. Come prova, egli adduce la nota
della congregazione per la dottrina della fede del 1973 in cui si intima di seguire la
"approvata prassi della Chiesa in foro interno” e la successiva lettera del suo segretario
Hamer che spiega tale indicazione dicendo: "La frase va intesa nel contesto della
teologia morale tradizionale". A dire il vero, quello che realmente spaventa è la parzialità
assoluta con la quale ha operato questo noto moralista, occultando alcuni dati
fondamentali che ben conosce. Di fatto, quegli interventi della congregazione per la
dottrina della fede sono dovuti a una richiesta proveniente dalla conferenza episcopale
degli Stati Uniti. […] Dal 1866, infatti, negli Stati Uniti vigeva la pena della scomunica
per i divorziati risposati civilmente, situazione vigente fino al cambiamento di disciplina
giuridica sulla convivenza avvenuto nel 1977. In questo contesto di cambiamento, si era
osservata la necessità di far sì che, oltre alle disposizioni giuridiche, vi fosse un consiglio
rivolto ai fedeli in foro interno, con particolare insistenza sull'eventualità di richiedere, se
del caso, il riconoscimento di nullità del proprio matrimonio. Nel 1969, la Canon Law
Society of America organizzò un congresso proprio su questo tema nel quale, tra gli altri,
intervenne lo stesso Häring. In quell'occasione, furono trattati approfonditamente tutti i
temi. Riguardo all'aspetto storico della questione, appare esplicitamente un riferimento
documentato alla prassi di esigere un comportamento da "fratello e sorella", definito già
allora come la "soluzione cattolica". Si ricorda inoltre una discussione tra Rossino e
McCormick ai tempi del Concilio. È evidente che, in un certo qual modo, questi termini
erano già ritenuti "tradizionali", ben noti e considerati come i referenti normali rispetto al
foro interno. Quello che tale congresso valuta invece come del tutto "innovativo”, è la
pratica contraria. […] E la ragione sulla quale si basavano i sostenitori di tale novità è
innanzitutto un cambiamento profondo nella considerazione dell'indissolubilità. Lo stesso
Häring si colloca in questa linea mediante il riferimento alla "morte morale" del
matrimonio, sulla scia della prassi ortodossa. Di conseguenza, risulta impossibile
l'interpretazione secondo cui le espressioni "approvata prassi" e "morale tradizionale"
emanati dalla congregazione per la dottrina della fede possano far riferimento a queste
evidenti "novità". Häring, presente a quel congresso, ne era profondamente
consapevole, ma nel suo libro mantiene in proposito un assoluto silenzio e, addirittura,
lascia volutamente sottintendere un'interpretazione del tutto diversa. È davvero triste
dover ricorrere a fantasmi di questo genere, senza verificare seppur minimamente le
fonti di quanto affermato. L'interpretazione che si impone è piuttosto quella secondo cui
è stata fatta dalla congregazione per la dottrina della fede una prima affermazione
temporanea, al fine di lasciare la pratica tradizionale in attesa di un chiarimento
successivo, divenuto sempre più necessario a causa delle critiche radicali opposte alla
prassi tradizionale. La risposta arrivò con Giovanni Paolo II e la "Familiaris consortio", in
una perfetta continuità magisteriale. L'interpretazione definitiva del foro interno deve
dunque seguire la spiegazione data da Josef Ratzinger nell'introduzione al libro di
commenti sulla lettera della congregazione per la dottrina della fede circa l’accostarsi
alla comunione eucaristica da parte dei divorziati risposati. Secondo la sua perfetta
analisi, questa va intesa come l'aiuto di cui tali persone hanno bisogno per poter
rispettare l'esigenza di vivere "in piena continenza". Si tratta di qualcosa che può essere
verificato soltanto in questo foro interno e in modo squisitamente pastorale.
6. La verità pastorale come difesa dinanzi all’ideologia arbitraria
In virtù di quanto appena detto, la richiesta di Semeraro circa i "criteri per il
discernimento" è particolarmente opportuna, come sostiene lo stesso cardinale Walter
Kasper nella sua relazione: "Anche se una casistica non è possibile e neppure
auspicabile, dovrebbero valere ed essere pubblicamente dichiarati dei criteri vincolanti”.
[…] Il problema però rimane, poiché nella "Relatio", dopo due anni di dibattiti, non si è
esplicitata nessuna ragione in virtù della quale si possa dare la comunione ai divorziati
risposati che non rispettano le esigenze presentate in "Familiaris consortio", n. 84, che è
il documento da considerare a tutti gli effetti come l'interpretazione tradizionale della
prassi ecclesiale. In assenza di tali ragioni, il campo rimane aperto a una totale
arbitrarietà, che non spiega perché ad alcune persone sia consentito di accostarsi alla
comunione e ad altre no, suscitando sconcerto generalizzato. Si tratta di qualcosa di
ancor più grave poiché riguarda una questione così delicata come il divorzio, minacciata
da numerose ideologie e da una fortissima pressione esercitata dai mezzi di
comunicazione. La "colonizzazione ideologica" è una realtà innegabile a cui bisogna
rispondere con il Vangelo della famiglia, come afferma papa Francesco. […] Il compito
dei teologi è proprio quello di aiutare ad interpretare correttamente le indicazioni che
papa Francesco ci propone come insegnamento, seguendo la continuità del magistero,
per poter portare a termine la "conversione pastorale" nella famiglia che egli auspica.
Torna al sommario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 17 Il diritto dei cattolici a non lavorare di domenica di Flavio Haver
L’ultimo richiamo di un Pontefice al rispetto delle festività è stato di papa Francesco
nell’udienza generale del mercoledì prima di Ferragosto scorso. «L’ossessione del profitto
economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita. Il
tempo di riposo, soprattutto quello domenicale - è stato il monito - è destinato a noi
perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e
non si vende». Un’esortazione non caduta nel vuoto, almeno da parte della Cassazione,
che ha dato definitivamente ragione a un dipendente sessantenne di fede cattolica delle
Poste sanzionato con la sospensione dal lavoro per un giorno (e privato della relativa
retribuzione) per non essersi presentato in azienda per due domeniche. I Supremi giudici
hanno confermato la sentenza della Corte d’appello di Milano del 17 settembre del 2010
e, respingendo il ricorso delle Poste, hanno sottolineato come il datore di lavoro, in base
al diritto alla libertà di impresa, può organizzare turni domenicali ma non può infliggere fino al raggiungimento di un’intesa sindacale - provvedimenti ai dipendenti che, per
motivi di culto, non intendono lavorare. Nel 1999 le Poste, in via sperimentale, avevano
introdotto il turno domenicale nel centro meccanizzato di Peschiera Borromeo e poi lo
avevano esteso ad altri reparti senza però raggiungere un accordo con i sindacati. La
situazione - è stato ricordato nel verdetto - aveva generato proteste da parte dei
lavoratori cattolici, che intendevano la domenica «come momento religioso e di pratica
di fede». Alcuni sindacati avevano contestato l’imposizione del turno domenicale e Luigi
L., nel 2004, aveva aderito all’iniziativa comunicando di non voler lavorare nelle giornate
festive domenicali e cristiane. Per due domeniche si era assentato dal lavoro, dando
però la disponibilità a recuperare. Ma dall’azienda era arrivata la sanzione e lui l’aveva
ritenuto sproporzionata. Già i giudici di merito avevano dato atto del fatto che «esisteva
una iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale di non assegnazione a turni
domenicali per motivi di religiosi, circostanza di cui le Poste erano a piena conoscenza, e
che portarono, nel periodo immediatamente successivo alla soppressione del turno
domenicale». E ora la Cassazione ha dato ragione alla loro impostazione.
Pag 21 I diritti dei nonni di Elena Tebano
In 12 milioni si occupano dei nipoti. Ma quando i genitori litigano e ci sono separazioni
conflittuali spariscono dalla vita dei bimbi. La condanna della Corte europea
Sono 15 mesi che la signora Maria, 55 anni, di Roma, non vede i due nipotini. «Mia figlia
ha un nuovo compagno: ogni volta che inizia una relazione, mi impedisce di incontrare i
bambini - spiega la donna, che ha chiesto di rimanere anonima -. Per me e per loro è un
supplizio. Poi, di solito, quando torna single e ha bisogno del mio aiuto, ricomincia a
portarmeli». I 12 milioni di nonni italiani sono tra quelli che in Europa, anche per la
scarsità dei servizi all’infanzia, passano più tempo con i loro nipoti: secondo quanto
emerge dallo studio Share (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe del
2011) il 22% di loro se ne occupa regolarmente, contro l’8% di inglesi e tedeschi, il 7%
dei francesi e il 2% di svedesi e olandesi. Ma basta uno scontro in famiglia a mettere a
rischio questo legame così importante. Spesso succede nelle separazioni conflittuali,
quando la rottura delle coppia si allarga a tutta la famiglia e penalizza anche i nonni, che
magari fino a quel momento erano una presenza costante nella vita dei bimbi. Per una
vicenda di questo tipo l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani il
20 gennaio dell’anno scorso per aver violato il diritto al rispetto della vita familiare di
due nonni di Torino, Franca Manuello e Paolo Nevi, che per 12 anni non hanno potuto
vedere la nipote. In quel caso il padre della bimba era stato falsamente accusato di
abusi dalla ex, ma nonostante fosse stato prosciolto, i rapporti con lui e con la sua
famiglia erano stati interrotti. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che nonostante «la
grande prudenza necessaria in questi casi» e il fatto che «le misure prese per
proteggere il minore possono porre dei limiti ai contatti con i membri della famiglia», le
autorità competenti «non hanno fatto tutti gli sforzi necessari a salvaguardare il legame
familiare». «Purtroppo i matrimoni che finiscono in separazioni sono tanti e in molti casi
la relazione affettiva dei minori con la famiglia dell’ex coniuge viene troncata e il
bambino viene utilizzato come arma impropria - dice la presidente della Commissione
parlamentare per l’infanzia Michela Vittoria Brambilla -. I nonni finiscono così per subire
una situazione che non hanno contribuito a creare. Eppure il loro diritto di visita è stato
riconosciuto per legge due anni fa». Lo ha fatto una norma che mira a rendere reale il
diritto a conservare rapporti significativi con i nipoti già riconosciuto con la legge del
2006 sull’affidamento condiviso. «Questa però non dava ai nonni la possibilità di agire in
giudizio - spiega l’avvocata Anna Galizia Danovi, che presiede il Centro per il diritto di
famiglia, a Milano - e quindi è rimasta lettera morta». Possibilità introdotta invece dalla
legge 154 del 2013, entrata in vigore nel febbraio successivo. «In base ad essa i nonni
possono ricorrere al Tribunale per i minorenni e chiedere di poter visitare i nipoti - dice
Danovi -. Anche se ovviamente la legge sottolinea che il giudice deve adottare “i
provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore”, perché sono i minori a
dover essere tutelati, non gli adulti». Rimangono ancora pochi, però, i nonni che
ricorrono a questa norma: «È un’innovazione importante, ma troppo poco conosciuta denuncia Michela Vittoria Brambilla -. Invece i nonni devono essere messi in condizione
di far valere questo diritto, quando ne ricorrono le circostanze, perché hanno un ruolo
determinante nell’educazione di bambini e ragazzi». Con l’intenzione di «metterli al
centro della tutela degli interessi dei bambini» Brambilla ha firmato anche una nuova
proposta di legge che modifica le norme del codice civile sull’allontanamento del minore
dalla casa familiare nei casi di emergenza: cioè l’affido d’urgenza. «La mia proposta,
consolidando la prassi, definisce “prioritario” il collocamento del minore allontanato
“presso parenti entro il quarto grado ritenuti idonei e disponibili e con i quali il minore
abbia rapporti”. Si riconosce esplicitamente, insomma, che il “luogo sicuro” dove
collocare il minore, di cui parla il vigente articolo 403, può essere benissimo la casa dei
nonni - spiega Brambilla -. Anzi, questa soluzione, se non contrasta con l’interesse del
minore, deve avere la precedenza». Oggi invece su questo le regioni vanno in ordine
sparso: sono affidati a parenti l’84,7% dei minori allontanati dai genitori in Basilicata,
contro il 31,3% della Liguria, e il 25,7% dell’Emilia-Romagna. «Al momento - spiega
Brambilla - è difficile anche capire da cosa dipendano queste grandi differenze: per
questo stiamo cercando di fare luce sui meccanismi dell’affido extrafamiliare. Ma è
fondamentale permettere ai minori di mantenere le relazioni affettive ed evitare di
aggiungere altri traumi a quello di essere allontanati dal genitore. Sostenere i nonni con
una proposta come questa vuol dire cominciare a mettere ordine su una materia così
delicata».
LA NUOVA
Pag 1 Il “bail in” è un rischio da togliere di Maurizio Mistri
Ho l’impressione che nel tentativo di rafforzare i sistemi bancari nazionali l’Unione
Europea (Ue) finisca per creare le condizioni per un futuro dissesto di tali sistemi. La
strategia dell’Ue è tesa da un lato a rafforzare la struttura finanziaria delle banche e,
dall’altro, ad aumentare le responsabilità dei diversi soggetti che hanno a che fare con le
banche. Al di là della ormai consolidata responsabilità delle dirigenze delle banche
(consigli di amministrazione e managers con elevati ruoli) nell’Ue si manifesta la
tendenza ad assegnare una qualche responsabilità, in primo luogo agli azionisti e agli
obbligazionisti, e in secondo luogo agli stessi correntisti. Questo ultimo caso è quello che
passa sotto il termine di bail in e proprio verso il bail in si è recentemente manifestata
una forte perplessità della Banca d’Italia, tanto che lo stesso governatore, Ignazio Visco,
ha chiesto che si vada verso una revisione di tale istituto. A mio avviso la preoccupata
sollecitazione di Visco è pienamente condivisibile, perché il bail in rischia di produrre
effetti devastanti proprio sui sistemi bancari europei. Con il termine bail in si indica una
“garanzia interna” o, in altri termini, una garanzia offerta dai capitali depositati dai
risparmiatori al di sopra dei 100mila euro. Questo tipo di garanzia è entrata in vigore dal
primo gennaio di quest’anno a seguito di una normativa votata dal Parlamento europeo
e applicata dai governi dei paesi dell’Ue. Le mie osservazioni critiche si appuntano su
due aspetti del bail in. Uno di questi affonda le sue radici in una analisi cognitiva del
comportamento dei risparmiatori. Ho l’impressione che i sostenitori del bail in ritengano
che i risparmiatori siano soggetti razionali capaci di leggere correttamente i dati di
bilancio delle rispettive banche di riferimento. Io temo che il risparmiatore reale non sia
del tutto razionale e operi in condizioni di razionalità limitata. Così, i risparmiatori, come
conseguenza del bail in, potrebbero diventare particolarmente sensibili a ogni notizia
relativa alla banca presso la quale hanno depositato i loro risparmi, a volte con reazioni
spropositate. Di fatto, tutto il sistema bancario europeo potrebbe diventare iper sensibile
più che ai dati effettivi circa la solidità delle banche alle voci, ai rumors, che circolano
sulle banche. La ragione mi sembra molto semplice. Un risparmiatore non si limiterà ad
attendere che si manifestino effettive situazioni di difficoltà nella gestione della banca di
cui è cliente. Cercherà di anticipare tali difficoltà, più o meno ipotetiche, facendo
attenzione alle voci, ai rumors che dal mercato emergono per cui cercherà di spostare i
propri capitali prima che si manifestino situazioni di pericolo effettivo. Paradossalmente,
in una tale situazione, più che i dati reali di bilancio delle banche finirebbero per avere
effetti reali delle informazioni a debole contenuto di verità, con conseguente
destabilizzazione di alcune banche. Un altro aspetto, che andrebbe valutato
attentamente, è proprio quello del coinvolgimento, al di sopra dei 100mila euro, delle
risorse finanziarie poste in conti correnti bancari. Il problema sta nel fatto che a
depositare risorse finanziarie non sono solo piccoli o grandi risparmiatori; sono anche
imprese le quali possono trovarsi nell’esigenza di depositare risorse finanziarie per
pagare i fornitori e, a fine mese, i propri dipendenti. Una media impresa, poniamo con
500 dipendenti, dovrebbe essere nella condizione di pagare un milione e mezzo di euro a
fine mese sia per gli stipendi che per far fronte a impegni con fornitori. Cosa accadrebbe
se il bail per una banca in venisse invocato proprio nel periodo in cui tale impresa fosse
chiamata a far fronte ai suoi normali impegni di esercizio? Le imprese dovrebbero essere
esentate dal rischio di dover far fronte alla richiesta di consegnare praticamente tutte le
loro riserve monetarie ai creditori di una banca in default. Non dimentichiamo che chi
deposita capitali in banca è e rimane un creditore della banca e non un socio della stessa
e come creditore andrebbe tutelato.
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Cisl, Gottardello lascia: “Più iscritti della Cgil” di Raffaele Rosa
Dopo 12 anni il segretario passa la guida a Paolo Bizzotto
Dodici anni e qualche mese. Tanto è passato dal novembre del 2003 ad oggi quando
Lino Gottardello, 62 anni a marzo, originario di Camposampiero, montò sulla sella della
Cisl veneziana. Domani nel corso del Congresso generale verranno formalizzate le sue
dimissioni per lasciare il posto a Paolo Bizzotto già a capo della Filca Cisl, la Federazione
delle Costruzioni. Un addio che si affianca a quello di Franca Porto, quest’ultima dopo 9
anni al vertice della segreteria regionale.
Dodici anni alla guida di un sindacato in un periodo storico complesso.
«La crisi non è stato l'unico problema, ma solo la punta di un iceberg dei problemi. Io al
primo posto ci metto la questione irrisolta di Porto Marghera. È mancata la possibilità di
reindustrializzazione e non si è riusciti a tradurre questa vocazione in una opportunità di
sviluppo per il territorio. La politica ha le sue colpe ed ancora adesso c'è una difficoltà di
saper guardare al domani. Bisognerebbe, invece, imparare a saper scorgere quali
potrebbero gli scenari e le opportunità. A dire la verità c'è stato un periodo, quando
Paolo Costa era sindaco, che si era parlato di piano strategico e le parti sociali erano
state coinvolte. Poi, ahimè, sia Cacciari che Orsoni hanno lasciato cadere questa
concertazione senza interessarsi delle aree in cui creare occupazione per il futuro di
Venezia».
Oggi alla guida della città c'è un imprenditore. Qualcosa le pare stia cambiando?
«Brugnaro ha trovato una situazione pesantissima. Non è un politico e non
necessariamente governare una città è come gestire un'azienda. Il confronto e il dialogo
con gli altri sono passaggi ineludibili. Vedremo se saprà davvero non solo farsi dare più
soldi dal Governo per Venezia, ma se riuscirà a mettere in moto la macchina dello
sviluppo che passa inevitabilmente per il Porto e l’aeroporto, riuscendo ad attrarre per
Marghera attività produttive di qualità».
Come è cambiato in questi anni il sindacato e il suo ruolo con il territorio?
«Stiamo pagando le conseguenze della crisi e della divisione delle sigle. Dal canto suo
anche l'industria non ha scommesso su una contrattazione innovativa, puntando più
sulla forza lavoro e su vecchi schemi. Imprenditori chiusi, dunque, ma anche nel
sindacato sono prevalsi i particolarismi e i distinguo rispetto allo sforzo di trovare una
sintesi».
E la Cisl?
«Gode di ottima salute e lascio un sindacato che per la prima volta, se i dati in mio
possesso verranno confermati, supererà la Cgil come iscritti attivi dopo aver superato
quota 73mila risultando il primo patronato per attività».
Cosa farà dopo 12 anni in prima linea?
«Sono appena andato in pensione. Ora mi prendo un periodo di riflessione, ma sarò
disponibile nel momento in cui ce ne fosse bisogno. Lascio la presidenza in mani solide e
competenti. Per me, operaio per 10 anni e poi per 35 sindacalista, quella alla guida della
Cisl di Venezia è stata la più bella esperienza della mia vita».
Torna al sommario
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XIV Il vescovo “scomunica” i 5 Stelle
Tessarollo difende le private e attacca: “Il loro è pensiero ideologico stravecchio”
Chioggia - Nuovo intervento "pubblico" del vescovo di Chioggia Adriano Tessarollo. Dopo
le critiche al giudice in relazione alla condanna del tabaccaio che uccise un ladro, nel
mirino è finita la posizione del Movimento 5 Stelle sul taglio di 500mila euro deciso dalla
Regione alla scuola professionale. «La polemica sul taglio nel bilancio alla formazione
professionale non sia la scusa per dare il colpo di grazia agli istituti pubblici», hanno
detto i consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle Erika Baldin e Simone Scarabel.
«L'assessore Donazzan - scrivono i due consiglieri - si preoccupa più della formazione
privata che di quella pubblica e questa vicenda non deve trasformarsi nell'occasione per
togliere fondi alla seconda in favore della prima. Con questo non vogliamo criminalizzare
gli istituti privati, ma questi non possono avere l'esclusiva della formazione
professionale», chiudono Baldin e Scarabel. Dichiarazioni che non sono piaciute al
vescovo di Chioggia, Adriano Tessarollo, che sul sito internet della Diocesi ha
controbattuto: «Ma sanno che per ogni utente di un nido privato o paritario lo Stato
risparmia oltre 5mila euro, rispetto al corrispondente servizio offerto da una struttura
pubblica? E sanno che oggi sono stati 24.484 i bambini veneti da zero a 3 anni accolti
nei 793 nidi, micronidi e nidi aziendali?». Il vescovo, delegato della Conferenza
episcopale triveneta per la scuola, aggiunge: «Benevolmente penso che parlino per
disinformazione e per pensiero ideologico stravecchio, proprio di laici integralisti, che
ancora non conoscono le leggi in vigore da 15 anni: c'è la scuola pubblica gestita dallo
Stato e c'è la scuola pubblica paritaria gestita da associazioni varie di cittadini (genitori,
istituti, fondazioni, parrocchie e altro). La società non coincide con lo Stato!».
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Il vescovo di Chioggia (ri)scende in campo e ora attacca i grillini:
“Integralisti stravecchi” di Angela Pederiva
Venezia. Dopo la legittima difesa, adesso tocca alle scuole paritarie. Ancora un editoriale
di fuoco e di nuovo polemiche roventi per monsignor Adriano Tessarollo. Già
protagonista un paio di settimane fa di un acceso scontro con l’Associazione nazionale
magistrati, per la condanna del tabaccaio padovano che uccise un ladro, il vescovo di
Chioggia è impegnato questa volta in uno scoppiettante botta e risposta con il
Movimento 5 Stelle, per i fondi regionali destinati alla formazione professionale. La
vicenda si riferisce all’ormai noto storno di mezzo milione di euro, durante la maratona
di bilancio, dal capitolo dell’assessore Elena Donazzan a quello della caccia. «Le
doppiette e il loro votato sostenitore sparano in alto e tuonano forte», scrive monsignor
Tessarollo nell’ultimo numero del settimanale diocesano, con una non troppo velata
allusione al consigliere regionale Sergio Berlato, augurandosi comunque che il
governatore Luca Zaia tenga fede alla promessa di ristorare le «scuole che preparano al
lavoro i nostri ragazzi». Ma i toni si scaldano soprattutto coi pentastellati Erika Baldin e
Simone Scarabel, sostenitori nei giorni scorsi della tesi secondo cui «gli istituti privati
non possono avere l’esclusiva della formazione professionale» e «il monopolio del
privato è già avvenuto con gli asili nido». Dalle colonne della N uova Scintilla , il presule
esterna tutto il suo sconcerto: «Ma dove vive questa gente? Ma sanno che per ogni
utente di un nido privato o paritario lo Stato risparmia oltre 5 mila euro rispetto al
corrispondente servizio offerto da una struttura pubblica? E sanno che oggi sono stati
24.484 i bambini veneti da zero a 3 anni accolti nei 793 nidi, micronidi e nidi
aziendali?». Questi i numeri. E questo l’affondo: «Benevolmente penso che parlino per
disinformazione e per pensiero ideologico stravecchio, proprio di laici integralisti, che
ancora non conoscono le leggi in vigore da 15 anni: c’è la scuola pubblica gestita dallo
Stato e c’è la scuola pubblica paritaria gestita da associazioni varie di cittadini (genitori,
istituti, fondazioni, parrocchie e altro). La società non coincide con lo Stato!». Divulgato
anche attraverso il sito web della diocesi, l’attacco del vescovo viene così parato e
rilanciato da Scarabel e Baldin: «Ognuno faccia il proprio lavoro. Il vescovo di Chioggia
si occupi di questioni di fede e si limiti a quelle. Se vuole entrare a pieno titolo nel
dibattito politico, monsignor Tessarollo si candidi magari alle prossime comunali di
Chioggia e allora ci confronteremo volentieri con lui». Baldin precisa che il M5S non
intendeva accusare le scuole paritarie: «In quanto rappresentanti di una istituzione,
dobbiamo avere un occhio di riguardo per la formazione impartita dal pubblico».
Scarabel rinfocola la protesta: «Non voglio certo mancare di rispetto al vescovo di
Chioggia, ma come io non mi permetto di commentare le sue prediche della domenica,
lui si dovrebbe attenere al suo ruolo».
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La strana guerra all’Isis di Paolo Mieli
Amnesie europee
Ha dell’incredibile quanto l’Europa, nel tempo che intercorre tra un attentato islamista e
quello successivo, sia incapace di essere all’altezza della situazione. Due giorni fa l’Isis
ha compiuto stragi a Homs e Damasco provocando almeno centottanta morti e venti
giorni prima ne aveva causati una settantina. Ma qui da noi è tempo di relax, al più di
tranquille discussioni tra specialisti sulle prospettive militari in Siria o in Libia. L’Europa
ama questo genere di pause ristoratrici. Dziwna wojna, (strano conflitto) fu la
definizione che per primi diedero i polacchi del curioso clima sul fronte occidentale dopo
che nel settembre del 1939 il loro Paese era stato occupato da tedeschi e sovietici,
Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania nazista, ma poi fino al
maggio del 1940 le armi sulla linea Maginot avevano taciuto. Komischer Krieg fu lo
sbeffeggiamento che giunse da Berlino. Finché il giornalista francese Roland Dorgelès,
collaboratore del settimanale di estrema destra Gringoire , coniò un’espressione
destinata a entrare nei libri di storia: drôle de guerre. Una strana guerra,
effettivamente: per settimane e settimane nei caffè di Parigi si continuò a fare la vita di
sempre e sui giornali se ne discuteva come se la conflagrazione non fosse già avvenuta.
Persino al fronte fu come se si trattasse di una messa in scena. Poi nel maggio del ’40 le
truppe hitleriane invasero la Francia che crollò su sé stessa e fu l’inizio di un catastrofico
quinquennio che avrebbe prodotto decine di milioni di morti. Ripete Niall Ferguson che ci
ricordiamo delle nostre libertà soltanto quando siamo in presenza di atrocità come quelle
di Parigi. Poi, dopo qualche mese, «l’oltraggio svanisce e torna l’illusione che si possa
convivere tranquillamente con la crescita della popolazione islamica in Europa e che
l’islamismo non cresca di pari passo». Sicché diventiamo insensibili ai destini di coloro
che, prendendoci in parola, continuano a battersi sul campo. In un’intervista a ridosso
della strage del Bataclan, il deputato pd di origini marocchine Khalid Chaouki disse:
«L’integrazione è fallita, il buonismo di una certa sinistra fa il nostro male e ai
musulmani servirebbe un Papa come Francesco». Le reazioni furono davvero fuori
misura. Davide Piccardo coordinatore del Caim di Milano e Brianza: «Chiunque pensi che
Chaouki possa essere un interlocutore politico per la nostra comunità si sbaglia di
grosso, preferisco parlare con Salvini». Poi uragano su Internet: «I parassiti come
Chaouki sono la malattia dell’umanità», «Se non fosse per i musulmani che si sono dati
da fare per fargli prendere qualche voto, adesso sarebbe ai semafori a vendere fiori»,
«Sfigato e opportunista», «È un kebabbaro e un beduino», «È un cancro». Reazioni fuori
misura, dicevamo, che avevano l’evidente obiettivo di zittirlo soprattutto nel suo
meritorio intento di svegliare le coscienze islamiche non integraliste. Senza che nessuno,
al di là di qualche suo compagno di partito, se ne desse per inteso. E ancora. Kamel
Daoud, un importante scrittore algerino, dopo i fatti di Colonia ha scritto un editoriale
per Le Monde per denunciare la «miseria sessuale» del mondo arabo musulmano. Sullo
stesso giornale è stato pubblicato un appello di una ventina di sociologi, storici e
antropologi in cui lo si accusa di «riciclaggio dei più triti cliché orientalisti» e di
«islamofobia». L’autore de Il caso Meursault ha risposto con una lettera sul Quotidien
d’Oran in cui protesta contro coloro che gli «comminano una sentenza di islamofobia
dalla sicurezza e dalle comodità delle capitali d’Occidente e dai suoi caffè». E sostiene di
considerare immorale che con quel verdetto lo si «offra in pasto all’odio locale». Da
questo momento, annuncia, si occuperà di letteratura e abbandonerà il giornalismo.
Comprensibile, anche perché con quel genere di accuse non si scherza dalle parti di
Orano. Imputare a qualcuno di odiare gli islamici in quanto tali, equivale a condannarlo a
morte. Ha scritto Alain Finkielkraut che l’islamofobia è un ricatto: il concetto di
islamofobia ricalca quello di antisemitismo, e facendo ciò non aiuta «a capire la
specificità della situazione». Peggio: «Questa analogia in nome della lotta contro
l’islamofobia, occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista». Discorso, quello
sul ricatto e le minacciose implicazioni derivate dall’uso del termine «islamofobia», che
non vale solo per le discussioni tra intellettuali. Un vicino di casa di Syed Farook e
Tashfeen Malik (autori della recente strage di San Bernardino) ha riferito di aver notato,
giorni prima, qualcosa di strano nel comportamento dei due, ma di non averlo riferito
alla polizia per non passare per «islamofobo discriminazionista». Mentre una parte della
discussione pubblica si impantana sull’islamofobia, il resto prende il largo. Giusto il
tempo di far sbollire l’ira dei giorni successivi a un attentato ed ecco che riemergono tesi
sostanzialmente assolutorie nei confronti dei terroristi islamici. C’è chi si dice
preoccupato più che dall’universo islamista «dalla nostra vera religione che è il
neoliberismo, il fondamentalismo finanziario» (Hanif Kureishi). Chi denuncia essere il
terrorismo «solo uno dei tanti pericoli esistenti al mondo» e suggerisce di «non farci
distrarre». In che senso? Nel senso che «il cambiamento climatico è la più grande
minaccia che dobbiamo affrontare»; e che, «mentre il terrorismo non può distruggere la
nostra civiltà, il riscaldamento globale invece può farlo» (Paul Krugman). Chi dice che «è
stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie» e che «solo
con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio» (Thomas Piketty). Discorsi
che, a ogni evidenza, ci allontanano dall’epicentro del fenomeno di cui si sta discutendo.
Ai quali, per parte nostra, aggiungiamo un tocco di colore italiano. Con il governatore
della Sicilia Rosario Crocetta che si paragona al «moderno principe» di Antonio Gramsci
e si propone nel ruolo di mediatore per la crisi libica («Conosco l’islam, ho letto e
studiato il Corano, parlo l’arabo: insomma qualcosa ne so»). Nonché il filosofo Gianni
Vattimo il quale ricorda che durante il periodo del khomeinismo più repressivo in Iran,
assieme ad altri aveva proposto di «bombardare Teheran con videocassette porno e
confezioni di profilattici». E suggerisce per oggi analoghi sforzi di fantasia. Strana
guerra, davvero, quella in cui ci diciamo impegnati contro il califfato islamico.
Pag 25 Da Berlusconi a Renzi l’incredibile autostima dei nostri premier di Gian
Antonio Stella
Politici allo specchio
Anche Matteo Renzi, da qualche parte, deve avere una zia Marina. Ricordate Silvio
Berlusconi? A chi gli faceva notare un eccesso di vanità rispose: «Faccio come mia zia
Marina che ha ottant’anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa allo
specchio con un vestito a fiori e si diceva: “Marina, cume te se bela”». Insomma, se ti
senti assediato da stormi di gufi («al gufo! al gufo!) che sarà mai indulgere nella cipria?
Per carità, il premier è ancora lontano dalle vette dell’ex Cavaliere. Basti ricordare certi
passaggi del suo training autogeno: «Lo ammetto, la mattina quando mi guardo allo
specchio ho un’alta considerazione di me. Ma non per narcisismo: perché so di aver fatto
cose importanti». «Da quando siamo al governo è successo di tutto, dall’11 settembre,
alla stagnazione, ad alluvioni e terremoti, dunque mi sta venendo un complesso di
superiorità: meno male che ci sono io, perché un altro che avrebbe fatto?» «La destra è
un’Arca e io sono Noè». «Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di
confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, la
stessa storia che ho io. (...) La mia bravura è fuori discussione: la mia sostanza umana,
la mia storia, gli altri se la sognano. Sono loro che devono dimostrare a me di essere
bravi». E non parliamo di riforme! A un certo punto, in vista di una nuova campagna
elettorale, ne elencò non due o tre ma trentasei! Dalla «riforma della disciplina del
lavoro (Legge Biagi), la più importante dal 1970» a quella «della scuola, la prima grande
riforma dal 1923», dalla «legge obiettivo per le grandi opere» all’«abolizione del servizio
militare obbligatorio dopo 143 anni», dalla «riforma della seconda parte della
costituzione, l’unica dal 1947» (poi spazzata via dal referendum) al «codice della nautica
da diporto»… Quanto bastava per darsi una volta, con José Luis Zapatero che lo
guardava incuriosito, una impomatata immortale: «Credo, sinceramente, di essere stato
e di essere, di gran lunga, il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia potuto
avere nei 150 anni della sua storia. Lo dico sulla base di ciò che ho fatto e faccio, ed è
per questo, credo, che mi attribuiscono il 68,4% di fiducia e di ammirazione». Ennesimo
ricorso agli amatissimi sondaggi che un bel dì spinse Mino Martinazzoli a commentare
con una risata l’ultima sparata: «I più recenti sondaggi ci dicono che l’87% dei cinesi
vorrebbero Berlusconi imperatore della Cina». Renzi no, non ha mai teorizzato l’autoterapia («Chi sono i migliori? Nooooi! Chi vincerà? Nooooi!») berlusconiana. Ma si è
tenuto lontano anche dal mitico dottor Ciccarelli che in un carosello interrompeva
l’entusiasmo eccessivo dell’attrice Giorgia Moll: «Non esageriamo! La “Pasta del
Capitano” è un buon dentifricio, anzi ottimo, ma non miracoloso!». Ieri, per dire, ha
rivendicato di essere intervenuto con il suo governo e la sua maggioranza per segnare
una svolta «perché di legge elettorale si discute da 20 anni e di riforme istituzionali da
70». Prima ancora che la Carta costituzionale fosse varata. Non male. Il tutto nella scia
di una costante insofferenza per il passato: «Siamo qui per cambiare il Paese che quelli
prima di noi non sono riusciti a cambiare». «I problemi sono nati dall’incapacità dei
politici italiani a gestire le sfide e prendere decisioni». «Per anni in Italia si sono cambiati
i governi ma non si sono cambiate le cose: sessantatré governi e non si sono realizzate
le riforme». «Il 2015 ha visto l’approvazione di leggi attese da molto tempo. E spesso
passate sotto silenzio. Dall’art. 18 alla legge elettorale, dalla tassa sulla prima casa
all’Expo, dalla flessibilità al bicameralismo paritario, ci sono alcuni argomenti di cui i
politici prima di noi hanno parlato per anni senza realizzare granché». Uffa, le
chiacchiere! Di qui l’idea che fosse necessaria un’opera quotidiana «ottimista e di
sinistra» di incoraggiamento. Ed ecco che «bisogna essere consapevoli che «l’Italia tra
venti anni sarà leader in Europa. E non lo dico come training autogeno. Se facciamo quel
che va fatto torneremo a essere un Paese guida». E poi: «Per anni avremo un impegno
di riduzione delle tasse che non ha paragoni nella storia repubblicana. Una rivoluzione
copernicana, senza aumentare il debito». E ancora: «Se ci rivediamo tra cinque anni con
la legge elettorale provata e sperimentata vedrete che l’Italicum sarà copiato da mezza
Europa». «Sulla banda larga saremo leader in Europa nel giro di un triennio». Evviva:
abbiamo bisogno di farci coraggio. Ieri, però, è andato forse un po’ in là: «Ciò che
pareva impossibile, il cambiamento in Italia, è realtà». Sicuro? «Il dato di fatto
inequivocabile e oggettivo è che mai, in nessun Paese d’Europa, tante riforme sono state
fatte in così poco tempo». Mai! In tutta Europa! L’avesse detto un altro, ci consenta,
avrebbero tirato in ballo Capitan Trinchetto…
AVVENIRE
Pag 2 Ancora sulla coscienza “ben formata” e sulla sostenibilità della legge che
verrà (lettere al direttore)
Caro direttore, vorrei riprendere un passaggio dell’intervista di papa Francesco durante il
rientro dal Messico e fare un paio di considerazioni. «Un parlamentare cattolico deve
votare secondo la propria coscienza ben formata: questo, direi soltanto questo. Credo
che sia sufficiente. E dico “ben formata”, perché non è la coscienza del “quello che mi
pare”. Io mi ricordo quando è stato votato il matrimonio delle persone dello stesso sesso
a Buenos Aires, che c’era un pareggio di voti, e alla fine uno ha detto all’altro: “Ma tu
vedi chiaro?” – “No”– “Neppure io” – “Andiamocene” – “Se ce ne andiamo, non
raggiungiamo il quorum”. E l’altro ha detto: “Ma se raggiungiamo il quorum, diamo il
voto a Kirchner!”, e l’altro: “Preferisco darlo a Kirchner e non a Bergoglio!”... e avanti.
Questa non è coscienza ben formata! E sulle persone dello stesso sesso, ripeto quello
che ho detto nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro e che è nel Catechismo della Chiesa
Cattolica». La prima considerazione riguarda l’esempio dei due politici: le parole fanno
intuire che il Papa, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, era intervenuto chiaramente
nel dibattito pubblico, forse semplicemente ricordando il buon senso che dovrebbe
guidare chi è chiamato alla formulazione delle leggi. Oggi potremmo dire che ci sono
politici – anche cattolici – che pur di non “darla vinta” alla Chiesa o al cardinal Bagnasco,
votano il contrario, senza sapere neanche ciò di cui si parla. Questa, riprendendo il Papa,
non è «coscienza ben formata». La seconda considerazione nasce da quanto potrebbe
accadere in Parlamento. Ammettiamo che la legge sulle «unioni civili» passi così com’è.
Sarebbe legge dello Stato. E questo la farebbe diventare materia di studio a scuola, e
non voglio neanche immaginare con quanta enfasi verrebbe proposta. Di questo risvolto
educativo ne siamo consapevoli? E ne sono consapevoli quanti si apprestano a votare?
(lettera di don Andrea Vena – Bibione)
Risponde il direttore Marco Tarquinio: Di questi tempi arriva sul mio tavolo un gran
numero di lettere sulla questione delle unioni gay e della stepchild adoption. Tutte (o
quasi) sono molto acute e interessanti, e reclamerebbero risposta. Le considero un
segnale ulteriore e importante di una grande volontà di civile partecipazione a un
dibattito che interpella profondamente la nostra umanità e che sarebbe assurdo (e
impossibile, oltre che ingiusto) tentare di limitare alle stanze della politica di vertice e
con modalità ammazza-confronto. Un dibattito al quale tutti – nessuno escluso – hanno
pieno titolo per partecipare. Vengo a questa lettera, caro don Andrea, e alla rilettura
“sottolineata”, diciamo così, delle parole del Papa che contiene. Francesco, senza
rinunciare a richiamare i princìpi “cattolici” (ma validi ovunque e comunque, pure per chi
cattolico non è), ha voluto evitare valutazioni che – ha ripetuto ancora una volta –
spettano ai vescovi italiani (in quanto cittadini a pieno titolo e pastori a piena voce):
valutazioni, del resto già espresse, con amore per la verità e senso della misura e della
responsabilità. Per seguire il filo di ragionamento proposto, spero anche che nessun
parlamentare voti sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e in materia di
adozione “per dispetto”, anche se ho la sensazione che qualcuno sia davvero incline a
farlo e che si rifiuti di valutare le conseguenze (sulle quali abbiamo molte volte
ragionato) di possibili decisioni avventate. Detto questo, mi soffermo sull’ultima
considerazione proposta nella lettera. Beh, se tutte le leggi – per il solo fatto di essere
tali – fossero automaticamente oggetto di studio a scuola, il tasso di legalità nel nostro
Paese sarebbe ben più alto! La realtà dice purtroppo qualcosa di diverso: ne è prova il
fatto che non si è neanche riusciti, nonostante le generose battaglie del professor
Luciano Corradini e splendide iniziative come quella contro le mafie di “Libera”, a
riportare nella scuola italiana uno strutturato insegnamento di Educazione civica! Vero è,
però, che in questo caso, ci sarebbe effettivamente il rischio ideologico di un uso
propagandistico di una normativa che, allo stato delle cose, è assai mal congegnata.
Tuttavia – confortato dal parere di giuristi di sicura scienza, diversa scuola e stessa
onestà intellettuale: da Cesare Mirabelli a Sabino Cassese – oso pensare che se alla fine
il brutto testo predisposto dalla senatrice Cirinnà dovesse diventare legge così com’è,
non supererebbe il vaglio della Corte costituzionale. Ovviamente mi auguro che si arrivi
a tutt’altro esito. E cioè a una legge sulle unioni civili “sostenibile”, ovvero rispettosa di
tutti, utile ad aumentare il tasso di solidarietà nel nostro Paese e a diminuire il livello
tossico di confusione in tema matrimoniale, perché fedele alla norma e allo spirito della
nostra Costituzione. Per la quale la famiglia fondata sul matrimonio è una, e in Italia non
c’è diritto al “matrimonio gay”.
Pag 3 Eurozona sostenibile, crederci è un dovere di Leonardo Becchetti
I piani di Renzi per salvare l’unione monetaria
La navigazione di Matteo Renzi nei prossimi mesi non è affatto facile. La riduzione delle
previsioni delle stime Ocse per il 2016 a una crescita dell’1% è una doccia gelata per i
piani del governo e rende ancora più difficilmente conciliabile il sentiero della flessibilità
con quello del rispetto delle regole europee. Eppure è fondamentale continuare su
questa strada perché la vera posta in gioco è la sopravvivenza dell’Eurozona.
Consapevole di questo Renzi ha presentato ieri in Europa un progetto vasto di rilancio
che include un sussidio europeo di disoccupazione, assicurazione europea dei depositi
bancari ed eurobond, affinché l’Europa inizi a essere percepita come la soluzione e non
come il problema. La storia è nota: il 2007 è stato un nuovo 1929, ma allora dopo le
ricette insufficienti di Hoover arrivò il new deal di Roosevelt. La beffa per noi è che
questa volta Roosevelt è arrivato sull’altra sponda dell’Atlantico, mentre noi abbiamo
avuto soltanto il Fiscal Compact e la spending review( e, con sette anni di ritardo, il
quantitative easing, cioè l’acquisto da parte della Banca centrale dei titoli del debito
pubblico).
La
dottrina
dell’austerità
ha prodotto
risultati
paradossalmente
controproducenti. Spagna e Portogallo hanno diligentemente applicato la politica dei
tagli di spesa e hanno visto aumentare drammaticamente (non ridurre) il rapporto
debito/Pil (che in Portogallo è raddoppiato superando il 130% e in Spagna è quasi
triplicato passando dal 36,3% a quasi il 100% dal 2007 ad oggi). Quanto alla Grecia non
esiste Paese che non abbia applicato più di Atene la dottrina dei tagli. Eppure potrebbe
essere definito come quel Paese di cui si dice sempre, tra una calo e l’altro, che l’anno
prossimo il Pil aumenterà (è ancora questa la storia che le previsioni Ue 2016-2017 ci
raccontano per il prossimo biennio). L’errore di chi sostiene quelle politiche è quello di
avere una visione troppo elementare del funzionamento dell’economia: riduciamo la
spesa pubblica con la spending review il debito scenderà. Ma ciò che conta non è il
valore assoluto del debito, bensì il rapporto debito/Pil. E i tagli della spesa possono
paralizzare la domanda interna, incidendo negativamente sul denominatore facendo
paradossalmente aumentare e non diminuire il rapporto e con esso la sostenibilità del
debito. Il problema non è tagliare la spesa in valore assoluto, ma migliorarne la qualità
spostando risorse, come ha indicato anche il presidente della Bce Draghi nel discorso di
Jackson Hole, da spesa a basso moltiplicatore a spesa ad alto moltiplicatore (cioè da
sprechi a investimenti pubblici che hanno un effetto più che proporzionale in termini di
creazione di Pil). E, con un costo del denaro così basso, investimenti pubblici con alto
moltiplicatore non possono non esistere. La richiesta di flessibilità italiana e la più
generale proposta di riforma sono giustificate anche da ragioni di principio visto che
nell’Eurozona sono in molti a violare le regole e sono venute meno le condizioni che
rendevano forse quelle regole lontanamente praticabili. La Francia ha candidamente
annunciato che sotto il 3% del rapporto deficit/Pil ci scenderà solo nel 2017. La
Germania continua ad avere un surplus commerciale al di sopra del consentito (6% del
Pil). E le condizioni internazionali, come ha ricordato Draghi, 'cospirano' contro l’obiettivo
della Bce di lottare contro la deflazione e ci portano lontano da quel 2% d’inflazione che
sarebbe un sollievo per il nostro debito. Per non violare il Fiscal Compact sfruttando le
flessibilità consentite basterebbe all’Italia circa un 3% come somma tra crescita del Pil e
inflazione. La pur bassa crescita del Pil prevista dall’Ocse dunque basterebbe se
l’inflazione fosse quella promessa dalla Bce. La polemica sulla flessibilità è in realtà parte
di un problema più vasto: nella vicenda Brexit e in molte altre l’Europa è sempre sulla
difensiva. L’ideale di unità tra Paesi non affascina e non scalda i cuori anche perché le
regole la cui applicazione abbiamo affidato ai burocrati hanno dimostrato di non
funzionare. Quasi tutti gli indicatori (occupazione, crescita, debito, bilancia pagamenti)
confermano che le asimmetrie tra Nord e Sud dell’Eurozona non si vanno affatto
riducendo. La questione vera che il conflitto sulla flessibilità pone è dunque se l’Eurozona
è sostenibile. Può esserlo se – prendendo sul serio le proposte che con l’appello dei 360
economisti pubblicato a fine 2014 avevamo lanciato e che ora sono state ampliate e
rilanciate dal governo – arriveremo a una vera politica comune fiscale, bancaria e
monetaria dove i prossimi tasselli dovrebbero necessariamente essere quelli
dell’armonizzazione fiscale, della chiusura dei paradisi fiscali interni, dell’assicurazione
europea dei depositi e della condivisione del debito. L’alternativa a questo sentiero è la
rottura dell’equilibrio e la creazione di due aree valutarie a Nord e a Sud. Una divisione
dell’Unione che potrebbero essere gli stessi tedeschi a proporre dopo aver già fatto in
passato un primo tentativo con la Grecia. Tertium non datur.
Pag 3 Clima che cambia e siccità, una questione settentrionale di Paolo Viana
Nell’Italia a secco il Nord si scopre povero di alternative
L’agricoltura è come l’industria, nel senso che entrambe vivono di programmazione. Da
qualche migliaio di anni la produzione agricola è il frutto di una complessa equazione che
allinea analisi del suolo, metodi di lavorazione, tempi e dosi di concimazioni e diserbo.
Basta che 'impazzisca' uno solo di questi fattori e l’algoritmo del contadino, l’unica
chance che abbiamo di sfamare sette miliardi di esseri umani, va in tilt. È quello che sta
avvenendo da che la siccità attanaglia il nostro Paese. L’erraticità delle piogge, indotta
dall’effetto serra, sospinge il deserto dove non c’era e costringe intere popolazioni di
piante e animali a emigrare: è già capitato al pomodoro, al mais, alla vite e all’olivo. Per
fermare quest’esodo c’è chi s’industria ad escogitare nuove tecniche di coltivazione
sostenibili. Nel Piacentino, ad esempio, il professor Vincenzo Tabaglio, della facoltà di
scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università del Sacro Cuore, sta
sperimentando degli innovativi sistemi di irrigazione sotterranea e coltivazioni 'no till',
che cioè escludono l’aratura: tra l’altro, questa opzione dell’agricoltura conservativa che in Italia è chiamata anche agricoltura blu - evita l’ossidazione della sostanza
organica, riduce l’emissione di anidride carbonica e abbatte i costi energetici senza
incidere - sostengono i suoi fautori - sulla produttività. G li italiani hanno una grande
tradizione nelle scienze agrarie ma, nell’attesa che gli studi del professor Tabaglio e dei
suoi colleghi indichino una soluzione praticabile, bisognerà pur continuare a irrigare i
campi e, a detta degli esperti, le piogge degli ultimi giorni non hanno modificato
minimamente lo scenario creato da mesi e mesi di siccità. Attualmente la disponibilità
media dei grandi laghi alpini è sotto del 60% e la copertura nevosa delle montagne
lombarde è talmente esigua che lo Snow Water Equivalent, l’indice che definisce la
quantità di acqua che si otterrebbe sciogliendo gli accumuli nevosi, si è azzerato.
L’Associazione Nazionale Consorzi Gestione Tutela Territorio ed Acque Irrigue (Anbi)
parla apertamente di una «situazione di grave criticità soprattutto nell’Italia
Occidentale», dove le riserve idriche dei grandi bacini sono inferiori di oltre il 40% a
quelle registrate nel 2007: il lago Maggiore è al 16,5% della capacità e quello di Como è
sceso sotto il 10%. A conferma del fatto che il danno dipende dalla varianza, gli effetti
del cambiamento climatico al Centro- Sud (se si esclude la Sardegna) sono meno
devastanti, vuoi perché si coltivano specie e cultivar che hanno sviluppato nel tempo una
maggiore tolleranza all’aridità, vuoi perché in quelle regioni sono stati realizzati da
settant’anni numerosi invasi a riempimento pluriennale e impianti in pressione. L’ultimo
a Zagarise, in Calabria. L’Anbi chiede di fare lo stesso al Nord e lo fa con toni sempre più
accorati: «L’acqua, indispensabile per l’84% del made in Italy agroalimentare, è un
fattore profondamente economico» ha ammonito il presidente Francesco Vincenzi alla
recente Fieragricola di Verona, chiedendo di sbloccare i 300 milioni del Piano Irriguo
Nazionale. La fretta dell’associazione che riunisce i consorzi degli utenti delle opere di
bonifica e delle acque irrigue, in gran parte agricoltori, deriva dal fatto che la siccità sta
creando una questione settentrionale. Non solo perché al Sud si è investito di più e non
solo perché la diminuzione delle precipitazioni è più marcata al Nord – in Veneto nel
2015 si è registrato il valore medio annuo più basso con 815 millimetri, mentre da
settembre a novembre, cioè quando si rimpinguano i nevai, le piogge sono state
praticamente assenti e nei mesi di dicembre e a gennaio non è nevicato sull’arco alpino
– ma perché dal Piemonte all’Emilia-Romagna è concentrato il 49% della produzione
lorda vendibile dell’agricoltura nazionale. In altre parole, che non piova sui boschi
abruzzesi rattrista tutti, ma che inaridiscano i campi di mais del Bresciano allarma ben di
più. L’allarme, quest’anno, è davvero rosso, perché le precipitazioni nevose sulle Alpi
non sono mai state così basse dal 1930. A fine gennaio gli spessori di neve al suolo
erano inferiori al 20% rispetto alla media degli ultimi 25 anni. La carenza di piogge nei
mesi freddi comporta che i grandi laghi alpini (Garda, Iseo, Maggiore e Como) e le dighe
di laminazione e per la produzione di energia elettrica si trovino a livelli molto inferiori a
quelli medi del passato e siano carenti i volumi di acqua disponibili per affrontare
l’estate. Non c’è abbastanza acqua neanche per l’uso potabile: tra Piemonte e Lombardia
il livello delle falde è nettamente più basso del 2015, con valori che oscillano tra -0,75 e
-1,20 metri, e si spera che gli operatori del settore inizino a collaborare, per quanto,
mentre in pianura si parla di rivedere il deflusso minimo vitale dei fiumi che garantisce la
sopravvivenza dell’ecosistema fluviale ma limita le captazioni, sulle montagne i
produttori di energia idroelettrica abbiano già provveduto a riempire gli invasi artificiali
per non rischiare il blocco delle turbine. Infatti, nel bel mezzo dell’allarme siccità è
aumentato del 38% il volume d’acqua presente nell’Adda rispetto alla media 2006-2014
e del 12,4% nel bacino dell’Oglio… L e piogge di queste ore determinano solo degli
accumuli di neve non 'consolidati', destinati a un rapido scioglimento: «Già oggi si
possono prevedere significativi deficit di risorsa idrica a partire dal mese di giugno, fino
al termine della stagione irrigua estiva» dichiara Anbi Piemonte. È facile prevedere che
se non si troverà un accordo sul livello del Lago Maggiore – regolato da una convenzione
italo-svizzera che gli elvetici interpretano solitamente in modo restrittivo – il Ticino
lascerà a secco le risaie piemontesi e lombarde. Proseguendo lungo il Po scopriamo che
le portate di Pontelagoscuro oscillano da mesi tra 640 e 800 metri cubi al secondo:
troppo pochi per affrontare serenamente l’estate, quando le derivazioni irrigue valgono
1.000 metri cubi al secondo, senza contare le captazioni per l’uso idropotabile, visto che
l’acqua del fiume, potabilizzata a Ponte Molo, disseta gli abitanti di Porto Tolle, Ariano
nel Polesine e Taglio di Po. Con l’attenuarsi della portata minima, non funzionano più
neppure le barriere che fermano il cuneo salino, cioè l’acqua salmastra dell’Adriatico che
dal Delta padano risale ormai il grande fiume per una trentina di chilometri, rendendone
inutilizzabile l’acqua. Nell’attesa di realizzare tra le isole di Pila e Polesine Camerini una
barriera mobile che impedisca fisicamente il contatto tra l’acqua dolce e l’acqua salata,
progetto predisposto dal Consorzio di bonifica del Delta, ci si augura che quest’estate
piova ogni dieci giorni: solo a questa condizione ci sarà acqua per tutti.
Pag 3 Le tasche vuote di Alì, laterale sinistro che sogna la Juve di Mauro Armanino
Nemmeno una borsa di plastica. Ciabatte di gomma arrostita, pantaloni consumati dal
viaggio e una maglietta rossa sportiva. È tutto quello che Alì si porta a casa. Aiutante
tipografo e soprattutto laterale sinistro. Sfornato dalle centinaia di scuole calcistiche di
Abidjan, in Costa d’Avorio. Dice di abitare ai «220 logements» , nella capitale economica
del Paese in crescita a due cifre. Troverà fatto il terzo ponte sulla laguna e il presidente
riconfermato per un secondo mandato. Tutti contenti a parte lui che era partito a 16
anni per pagare la scuola ai fratelli lasciati a casa. Il solito mediatore di giovani talenti lo
aiuta per il viaggio in Tunisia e, poi, sparisce nel nulla. Nessuna squadra lo prova perché
minorenne. Invece per i cantieri edili l’età di Alì va bene. Decide poi di partire per la
Libia con 800 euro. Il guadagno di un anno di lavoro. Alì è arrestato per mancanza di
documenti e, dopo essere stato derubato, con altri 30 migranti è deportato e poi
abbandonato nel deserto al confine con l’Algeria. Voleva andare in Italia perché tifa per
la Juventus, squadra che adora e che afferma trovarsi nella città di 'Juve'. Una volta in
Algeria non gli rimane che tornare al Paese di origine e ricominciare a giocare da
laterale. Proprio come nella storia, c’è il centro, la periferia e i 'laterali', che vivono ai
margini di tutto. Alì, dopo la separazione dei genitori, ha vissuto con la madre fino all’età
di sette anni. Lei si è risposata e lui e i suoi fratelli sono tornati alla casa del padre.
Anch’egli, risposatosi, è pensionato dopo aver lavorato per anni nel Porto Autonomo di
Abidjan. Ormai anziano non riesce a occuparsi dei figli e per questo Alì ha fatto l’ala.
Così si trasformavano i laterali migranti di una volta. Il viaggio di ritorno da Algeri dura
più del previsto perché Alì ha dovuto vendere tutto. Altri come lui lo aiutano per
raggiungere Agadez, dove la missione cattolica gli paga il viaggio fino a Niamey. Una
volta arrivato in stazione non sa come rintracciare la cattedrale del quartiere Zongo. I
taxisti e altra gente fingono di non sapere dove si trova il noto edificio di culto dei
cristiani. Cammina, chiede, supplica e infine trova ciò che cerca. Ha indosso un paio di
occhiali a lenti verdi che un migrante gli ha regalato ad Arlit, non lontano dalla frontiera
con l’Algeria. Li porta per dare un altro colore a questa tappa della sua vita. Nella
seconda tasca c’è un cellulare irregolare sfuggito al controllo della dogana. Regalo di un
altro migrante, senza credito, giusto per fare compagnia al viaggio di ritorno. Alì ora ha
19 anni. Vuole ancora giocare al calcio e tifa sempre la Juve degli innumerevoli scudetti.
Tipografo quanto basta per scrivere la sua vita sull’inchiostro dopo averla cancellata
sulla sabbia. Le tasche di Alì sono vuote e non porta con sé neanche una maglietta di
ricambio. Quanto ai soldi ha conservato solo il resto della colazione offerta dalla ditta
Migranti Anonimi. Una Società per Azioni volta a destabilizzare il sistema di controllo
globale della mobilità. Sfacciatamente libero di tornare al paese e di ricominciare da
diciannove: anni che ha messo insieme con fatica. Una maglietta sportiva e pantaloni
clandestini almeno quanto lui. Tipografo, laterale sinistro, figlio e fratello di mezzo,
partito in attacco da tre anni. L’avvenire e il passato di Alì stanno nelle sue tasche vuote.
Per ricordo mi ha scritto sulla mano il suo indirizzo di posta elettronica e giura di
rispondere appena arrivato al paese.
Niamey, febbraio 016
Pag 6 Adozioni gay, il rischio sentenza creativa di Luciano Moia
Domani la Corte costituzionale si pronuncia su una “doppia stepchild” ottenuta negli Usa
Lo spettro del decisionismo interventista dei giudici sull’attendismo ondivago del
legislatore. È già capitato molte volte in questi ultimi anni sui temi della vita e della
famiglia. Potrebbe capitare anche domani, quando la Corte costituzionale sarà chiamata
a pronunciarsi sulla richiesta dei giudici del Tribunale dei minorenni di Bologna che,
convinti della necessità di trascrivere in Italia una doppia, reciproca stepchild adoption
tra due mamme omosessuali 'sposate' nell’Oregon, hanno avanzato il «sospetto di
illegittimità costituzionale » per due articoli della legge 184 del 1983 sulle adozioni che
impediscono il riconoscimento della sentenza straniera. È evidente il peso politico che
avrebbe la sentenza della Consulta, proprio alla vigilia della ripresa del dibattito sul ddl
Cirinnà, come Avvenire ha già argomentato nell’edizione di domenica. Se venisse
raccolto l’appello del Tribunale di Bologna, il dibattito politico e mediatico di questi mesi
potrebbe essere vanificato, anzi polverizzato, in pochi istanti. Condizionale d’obbligo
perché rimane da capire sia quando verrà resa nota l’eventuale sentenza – saggezza
vorrebbe che l’eventuale pubblicazione avvenisse una volta concluso l’iter parlamentare
– sia il tipo di decisione che prenderanno i supremi giudici. Tra le ipotesi c’è infatti quella
secondo cui la Consulta potrebbe decidere di non entrare nel merito della vicenda,
rinviando tutto al Parlamento, come già capitato in due precedenti occasioni, nel 2010 e
nel 2014.
«EVVIVA LA COPPIA LESBICA» - Indubitabile in ogni caso che l’impianto dell’ordinanza
con cui, il 10 novembre 2014, i giudici di Bologna hanno sospeso il giudizio sulla vicenda
e trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale per verificare l’illegittimità costituzionale
degli articoli 35 e 36 della legge sulle adozioni, sia del tutto a favore della cosiddetta
'famiglia omogenitoriale'. Non è la prima volta che sul tema si registrano pronunciamenti
segnati da una creatività giuridica a senso unico. Già in una quindicina di casi, in questi
ultimi anni, il diritto sulle adozioni è stato piegato al politicamente corretto. Anche in
questa occasione il Tribunale di Bologna non fa eccezione. Può destare qualche stupore
che giudici minorili esperti e collaudati come quelli in servizio nel capoluogo emiliano
ravvedano, a 33 anni dall’entrata in vigore di una legge, possibili profili di
incostituzionalità. Sotto accusa in particolare gli ar- ticoli 35 e 36 della legge 184, che
pongono precise condizioni per la trascrizione in Italia della sentenza di adozione
pronunciata all’estero. In particolare l’articolo 35, comma 3, impone al tribunale di
accertare che l’adozione «non sia contraria ai principi fondamentali che regolano nello
Stato il diritto di famiglia e dei minori». E nel caso delle donne 'sposate' negli Usa nel
2013 – entrambe mamme grazie all’inseminazione artificiale da donatore anonimo – già
il pm il 23 settembre 2014, aveva respinto la richiesta di trascrizione che per la legge
italiana prevede «l’adozione del figlio del coniuge solo in presenza di un matrimonio
riconosciuto dalla legge italiana».
«MUTATO QUADRO SOCIALE»? - Questione chiusa? Niente affatto. I giudici del Tribunale
dei minorenni non si arrendono e, dopo aver messo in fila una lunga serie di riferimenti
giuridici – anche questi a senso unico – sia italiani che internazionali, arrivano ad
affermare che oggi l’articolo 6 della legge 184/1983 – cioè 'l’adozione è consentita solo
ai coniugi uniti in matrimonio' – «desta perplessità», tanto più di fronte a due mamme
lesbiche «con ventennale esperienza». Conseguenza inevitabile: il matrimonio celebrato
all’estero tra persone di sesso uguale, non solo «non è più considerabile come contrario
all’ordine pubblico», ma lo stesso presupposto naturalistico «non è più condivisibile, alla
luce del mutato quadro sociale ed europeo...», argomenta il giudice-sociologo sulla base
di ignote valutazioni culturali, visto che non è citato studio alcuno per suffragare
un’argomentazione così impegnativa a favore dell’adozione omogenitoriale. Che il
«quadro sociale» vada univocamente nella stessa direzione è per esempio smentito da
tutti i sondaggi di queste settimane, in cui 3 italiani su 4 hanno espresso contrarietà
all’ipotesi di stepchild adoption. E quando i giudici invocano «il principio di
ragionevolezza » sarebbe davvero il caso di capire se è più ragionevole aprire in modo
indiscriminato all’adozione gay o evitare di avventurarsi in una sperimentazione
antropologica in cui sembra davvero difficile cogliere «il supremo interesse del minore».
Pag 6 Non tentare fughe in avanti, esiti difficilmente valutabili di Lorenza Violini
È attesa ad horas la sentenza della Corte Costituzionale che dovrà pronunciarsi sulla
questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale dei Minori di Bologna contro
gli articoli 35 e 36 della legge italiana sull’adozione, ritenuti contrari alla Costituzione in
quanto ostativi al riconoscimento in Italia di una sentenza americana che ha
acconsentito alla adozione da parte di una donna, legata da matrimonio a un’altra
donna, della figlia naturale di quest’ultima avuta con sperma di donatore anonimo.
Essendo il matrimonio omosessuale non consentito nel nostro Paese ed essendo il
matrimonio stesso condizione per l’adozione del figlio del partner la richiesta presentava
palesi profili di illegittimità per l’ordinamento nazionale il quale, tra l’altro, consente al
riconoscimento di sentenze straniere a determinate condizioni procedurali e solo in
osservazione della condizione sostanziale di non dar luogo, in materia famigliare, a
situazioni contrarie all’ordine pubblico. E, tuttavia, in un clima culturale profondamente
imperniato da logiche rivolte alla estensione massima dei diritti, il giudice rimettente
evoca una serie molto lunga di norme nazionali, europee e internazionali che
sosterrebbero le ragioni di chi considera il mancato riconoscimento della sentenza
straniera come sostanzialmente ingiusto; inoltre, a sostegno delle proprie tesi il giudice
stesso non manca di richiamare affermazioni della dottrina e stralci di altre sentenze.
Come risultato di tali richiami, il giudice richiede alla Corte di pronunciarsi per
l’incostituzionalità della clausola di garanzia per l’ordine pubblico che introdurrebbe un
divieto discriminatorio e osterebbe a riconoscere alle parti il diritto ad avere un famiglia
a tutti gli effetti. Se la Corte, poi, si pronunciasse in questo senso, si avrebbe come
effetto di introdurre per quel singolo caso una serie di situazioni in palese contrasto con
il diritto vigente: alle due donne infatti sarebbe consentito di considerarsi – ai soli fini
dell’adozione – come legalmente sposate in Italia e capaci quindi di adottare la figlia
della partner, proprio mentre si assiste in sede parlamentare a un intenso dibattito circa
l’opportunità di introdurre per legge tale ultima fattispecie; per non parlare poi del
matrimonio omosessuale, espressamente escluso anche in sede di discussione delle
regole da applicare alle unioni tra persone dello stesso sesso. Difficile immaginare come
si possa giungere, per scelte singole (di singoli tribunali, di singoli giudici e di singole
corti) a contraddire un assetto normativo chiaro, tra l’altro già considerato
costituzionalmente legittimo dalla Consulta quando ha affermato che non è
incostituzionale riservare il matrimonio (e, di conseguenza, tutti i diritti e i doveri che ne
derivano) alle sole coppie di sesso diverso; qui si tenta la strada argomentativa del best
interest – il miglior interesse – del minore, il quale peraltro va valutato nell’ambito delle
regole sul diritto di famiglia nazionale e non a prescindere dalle stesse. La libertà si
esercita nell’ambito delle condizioni poste dall’ordinamento e non tentando fughe in
avanti le cui conseguenze sono difficilmente valutabili.
Pag 9 Le donne “crocifisse”. In 120mila sulle strade di Lucia Bellaspiga
La Giovanni XXIII: così le liberiamo. Helene e e 20 vite salvate della “casa di Gesù”. Una
Via Crucis di luce che illumina Roma
«Sono stata venduta da uno dei miei fratelli quando avevo 12 anni. Mi ha data a un suo
amico, che dalla Nigeria mi ha portata in Italia dicendomi che avrei lavorato da un
parrucchiere. Invece mi hanno messo una minigonna e mi hanno lasciata da sola sul
bordo di una strada a Torino. Ho pianto tanto che nessun cliente mi ha voluta e così al
mattino ho preso tante botte. Dopo qualche notte mi sono fatta coraggio e sono riuscita
a portare i soldi alla madame...». Eppure le chiamiamo prostitute. Sono le ragazze
crocifisse sulle nostre strade, le nuove schiave del XXI secolo, «le donne invisibili – le
definisce don Aldo Buonaiuto, del servizio antitratta della Comunità Papa Giovanni XXIII
– visibili solo a quei nove milioni di maschi italiani che credono sia un diritto pagare per
averle e poi gettarle via usate». Da 25 anni i volontari dell’associazione fondata da don
Oreste Benzi percorrono le notti italiane da Nord a Sud con le loro 21 unità di strada e
avvicinano le schiave, parlano loro di libertà, di alternative. E dopo aver parlato, fanno:
offrono accoglienza immediata, basta che le ragazze lascino la strada e li seguano
subito, senza aspettare domani. Lo hanno già fatto in settemila, finalmente libere dai
loro 'protettori', curate, mandate a scuola, avviate a un lavoro vero... «Sempre troppo
poche», precisa però don Aldo Buonaiuto, nuovi dati alla mano. Le schiave vere e
proprie sono infatti 120mila, secondo le stime più recenti, il 65% su strada, contro un
35% che è sfruttato nelle case chiuse e quindi paradossalmente ancora meno visibile.
Più di una ragazza su tre (37%) è minorenne, spesso poco più che bambina (dai 13 ai
17 anni), e la grande maggioranza di loro arriva da Nigeria (36%), Romania (22%),
Albania (10,5%), Bulgaria (9%), Moldavia (7%), e a seguire Ucraina e Cina. Il business
si aggira sui 90 milioni di euro ogni mese, che le mafie straniere si spartiscono in
connivenza con quelle italiane. E i clienti? Sono quei 9 milioni di schiavisti che
alimentano il mercato: senza la loro domanda, la tratta umana languirebbe. «È per
questo che ci appelliamo al governo e al Parlamento affinché recepiscano le direttive
della Comunità Europea e si adeguino al modello nordico, che punisce il cliente anziché
le schiave, unico modo per far cessare la domanda e così fermare il mercato». Il
parallelo è crudo, ma anche chiaro: se vuoi fermare il traffico di avorio punisci il turista
che compra le zanne, non l’elefante. Lo diceva sempre don Oreste, «nessuna donna
nasce prostituta. C’è sempre qualcuno che ce la fa diventare». E così in tempi non
sospetti proponeva il 'modello Benzi', lo stesso poi riscoperto dall’Europa, l’unico – lo
dimostrano i fatti – efficace contro il racket. La prima ad adottarlo è stata la
modernissima e liberale Svezia nel 1999, seguita da Islanda, Scozia, Norvegia e Francia,
ferme nel criminalizzare la domanda e non l’offerta. Lì la legge punisce i clienti con una
multa e il carcere fino a sei mesi la prima volta, con pene più severe se recidivi, ma nel
contempo sostiene le donne che si liberano, dando loro protezione, istruzione e lavoro,
esattamente come la Papa Giovanni XXIII. Nessun risultato, invece, hanno ottenuto i
Paesi che hanno provato ad abbattere il racket legalizzando la prostituzione. Lo ha
sottolineato chiaramente la risoluzione Honeyball, approvata a larga maggioranza dal
Parlamento europeo nel febbraio del 2014: «La regolarizzazione non sconfigge
assolutamente la crimina-lità, anzi, toglie alle forze dell’ordine strumenti per
intervenire».
Helene non si nasconde più. Ora che è libera ha voglia di alzare la testa e parlare a viso
aperto: «Scrivi pure il mio nome vero, non ho più paura». Non adesso, nella struttura
protetta della Papa Giovanni XXIII in cui vive da cinque mesi, nel meridione d’Italia.
Tutta la paura che si può avere l’ha già vissuta sulle strade della Verona notturna, dove
quella che chiama «la mia magnaccia» – nigeriana come lei – per oltre un anno l’ha
costretta a prostituirsi, tenendola sotto scacco con tormenti fisici e morali, botte e
minacce, fame e sevizie. Era stata lei, la madame, a prometterle un lavoro onesto in una
fabbrica italiana come operaia, in modo che Helene, la maggiore di sette figli, potesse
mandare a casa qualche soldo e aiutare i suoi genitori. «Sembrava gentile, pensava a
tutto lei, mi ha comprato il volo per Parigi e da lì il biglietto del treno per l’Italia –
racconta –, ed è partita con me. Arrivate nella sua casa di Verona, però, mi ha tenuta
chiusa per qualche giorno e mi ha spiegato che le dovevo 60mila euro, altrimenti mi
avrebbe fatto un rito woodoo. Poi una sera mi ha portata sulla strada...». Aveva solo 17
anni, Helene. Da sola, senza sapere la lingua, nella periferia nera di una notte veneta.
Lei che veniva dal cuore della Nigeria. «Mi sono rifiutata e lei mi ha fatto il rito. Così ho
dovuto obbedire, anche per proteggere la mia famiglia». Chiediamo a Helene se oggi che
di anni ne ha 19 e vive al sicuro ha capito che il woodoo non esiste e lei sorride con la
serenità di una donna matura, «ora lo so, ma ora vivo nella casa di Gesù»... La casa di
Gesù è un centro che accoglie una ventina di ragazze come lei, strappate alla strada dai
volontari di don Oreste Benzi. Sono ucraine e rumene, albanesi e nigeriane, tutte
giovanissime e distrutte dalla somma di torture che con troppa leggerezza chiamiamo
'prostituzione'. «In realtà non ero una prostituta, ero una schiava», precisa. Ogni notte
avrebbe dovuto portare a casa 600 euro, ma avrebbe significato «lavorare» con una
ventina di uomini per volta e lei non riusciva, così erano botte. «La magnaccia era
convinta che mi tenessi i soldi per mandarli a casa ma non era vero, non avevo
nemmeno modo di chiamare la mamma e il papà. Alla fine ruppe una bottiglia e mi
tagliò tutta... quella notte mi portò sulla strada così». E proprio le ferite diventano la
feritoia attraverso la quale si fa strada la luce: «Un cliente che ormai conoscevo bene
vide i tagli ed ebbe pietà, mi ha portata in stazione, ha telefonato alla sede centrale
della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui aveva sentito parlare, e da loro ha avuto
istruzioni di dove mandarmi. Mi ha anche comprato il biglietto del treno. Al mio arrivo
c’erano già i miei amici volontari». Oggi studia l’italiano e si sta preparando, questa volta
davvero, a poter mandare qualche aiuto ai suoi fratelli a Benin City. «Il mio sogno?
Voglio fare le pulizie, avere un lavoro normale! ». Per ora è presto, deve ancora
recuperare la sua sicurezza, ma poi andrà con i volontari su strada per salvare le
ragazze schiave come lo era lei. «Non posso dimenticare le altre quattro nigeriane che la
magnaccia teneva in casa a Verona... loro non avranno incontrato l’uomo che ha salvato
me». Per questo però ci vorranno mesi, sorride Marina, la volontaria che gestisce la
struttura protetta. «C’è ancora tanto lavoro da fare con le nostre ragazze, spesso sono
distrutte psichicamente e portano mutilazioni fisiche evidenti. La prima cosa è farle
sentire amate». Per molte di loro è una sensazione nuova, mai provata in tutta la vita.
Roma nell’anno del Giubileo si trasforma nel Golgota dell’anno 33. Attori in costume
faranno rivivere i momenti salienti della Via Crucis confrontando il calvario di Cristo con
quello delle donne schiavizzate a causa della prostituzione coatta. Il tutto accompagnato
dalle suggestive atmosfere dei luoghi storici della capitale, come i giardini di Castel
Sant’Angelo, dove passerà il corteo illuminato da numerose fiaccole. Tutto questo
accadrà la sera di venerdì 26 febbraio tra le 19.30 e le 23, quando il centro di Roma sarà
l’ambientazione di una singolare Via Crucis vivente animata da numerosi artisti
professionisti: vedremo in 'scena' attori molto amati dal pubblico televisivo e teatrale,
come Beatrice Fazi, Giusy Buscemi, Giovanni Scifoni, Simone Bobini, Cristina Odasso,
Claudio Morici, Caterina Silva, Giovanni Galati, Matteo Pelle, Fabio Chi e tanti altri. A
sottolineare le scene più suggestive ci sarà l’interpretazione del soprano Sarah Biacchi e
del maestro di violino Marco Santini, insieme al corpo di ballo della Holydance di Suor
Anna e della Star Rose Academy di Claudia Koll. Il canto aiuterà a entrare nei momenti
di preghiera grazie all’accompagnamento dei cori della Pastorale Vocazionale della
Diocesi di Roma e degli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
L’evento vedrà la partecipazione di molte personalità del mondo civile e religioso,
assieme a migliaia di cittadini. «Vogliamo scendere in strada con le donne che ogni
giorno subiscono la violenza di sfruttatori e clienti per elevare con loro un grido rivolto a
Dio, ma anche alle coscienze di tutti e in particolare di chi ha incarichi istituzionali –
dicono gli organizzatori –, perché questo mercato di esseri umani venga fermato».
Coordinata da don Aldo Buonaiuto della Papa Giovanni XXIII, in collaborazione con la
Pastorale Vocazionale della Diocesi di Roma diretta dal noto sacerdote don Fabio Rosini,
che coinvolge migliaia di giovani attraverso l’esperienza dei 'Dieci Comandamenti', la Via
Crucis di solidarietà alle donne crocifisse dalla tratta si snoderà attraverso sette 'stazioni'
e sette figure del Vangelo interpretate da personaggi dello spettacolo. Si partirà dalla
zona San Pietro davanti alla Chiesa di Santo Spirito in Sassia fino alla Chiesa Nuova,
Santa Maria in Vallicella, passando per Ponte Sant’Angelo, con altrettanti momenti di
preghiera e testimonianze delle vittime salvate. L’iniziativa patrocinata dal Comune di
Roma Capitale e dalla Regione Lazio, vede le adesioni della Diocesi di Roma, Unitalsi,
Azione Cattolica Italiana, Rinnovamento nello Spirito, Cammino Neocatecumenale,
Comunità Gesù Ama, Nuovi Orizzonti, Forum delle famiglie, Oratorium di Padre Maurizio
Botta, Cisl. Tra i testimonial che interverranno figurano il cardinal Agostino Vallini,
vicario generale del Papa, Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della
Comunità Papa Giovanni XXIII, don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio Vocazioni '10
comandamenti', Matteo Truffelli, presidente di Azione Cattolica, Salvatore Martinez,
presidente di Rinnovamento nello Spirito, Raffaella De Marchis del Cammino
Neocatecumenale, suor Eugenia Bonetti, responsabile dell’Ufficio nazionale tratta
dell’Usmi, padre Maurizio Botta de 'I 5 passi'. Un vera 'sacra rappresentazione' per
raccontare la passione di Cristo attraverso quella di tante donne disperate, ma anche la
sua resurrezione. Perché, come dice Giovanni Paolo Ramonda, «l’unica via per liberare
queste nostre sorelle è riconoscere in pienezza la dignità della donna. Per questo
chiediamo a tutti di unirvi a noi, nel tempo della Quaresima e nell’anno straordinario
della Misericordia ».
Pag 21 Quale Medio Oriente oltre gli stereotipi? di Chiara Zappa
Lo sguardo antropologico di Ugo fabietti per superare i luoghi comuni
Il Medio Oriente? Una terra dai confini vaghi ostaggio di oscurantismo e arretratezza,
dove è fatale imbattersi nella «mentalità araba» e in cui domina il «pensiero islamico»,
quando non, addirittura, il «fanatismo musulmano». L’immagine di massa di un’area del
mondo complessa, sfaccettata e quanto mai strategica all’interno delle dinamiche globali
è inficiata da un’infinita serie di stereotipi e luoghi comuni, che influenzano non solo
l’opinione pubblica ma anche, non di rado, l’analisi dei media e lo sguardo della politica,
inducendo spesso a clamorosi equivoci, a letture distorte della realtà e a conseguenti
scelte strategiche inefficaci o controproducenti. L’incomprensione – reciproca, va detto –
tra ciò che chiamiamo Occidente e il mondo mediorientale – un’area vastissima e
variegata in cui si tende ad includere una fascia che va dal Nord Africa all’Afghanistan –
ha le sue radici in una lunga storia di conflitti che, dai tempi delle Crociate all’era
coloniale, hanno cristallizzato pesanti barriere ideologiche. Tanto resistenti che lo
sguardo sull’altro è rimasto ingabbiato in letture superficiali, spesso di comodo e
mistificatorie, basti pensare a una certa tradizione di studi orientalistici, impastata di
stereotipi esotizzanti. Lo stesso Medio Oriente – a ben vedere – è un’invenzione
dell’Occidente, se è vero che l’espressione nacque nel contesto degli interessi strategici
delle potenze europee agli inizi del XX secolo. Se è evidente la necessità di rifondare su
basi più solide la conoscenza di questo universo, geografico e ancor più semantico,
interessante è il contributo proposto da Ugo Fabietti nel suo recente Medio Oriente. Uno
sguardo antropologico (Raffaello Cortina, pagine 300, euro 24,00), in cui il docente di
Antropologia culturale alle Università di Milano-Bicocca e Bocconi propone appunto «una
lettura delle culture e delle società “mediorientali” che utilizza gli strumenti di una
disciplina come l’antropologia, diversi da quelli della storiografia, della politologia o della
geopolitica».
Professore, lei sottolinea tuttavia come l’identità stessa dei popoli mediorientali sia stata
influenzata dalla geopolitica: in che senso?
«In Medio Oriente sono presenti molte comunità diffe- renti per cultura, lingua e
religione. Con la nascita degli Stati nazionali, esse sono state territorialmente accorpate
o separate, in maniera tale che gruppi omogenei si trovano oggi a far parte di nazioni
diverse. Il quadro storico della formazione di certe entità politico amministrative aiuta a
comprenderne i limiti di fronte a una serie di elementi emersi negli ultimi 60 anni, nel
mondo arabo e non solo. Pensiamo alla nascita di Israele e alla questione palestinese,
ma anche al fatto che il potere, in molti di questi Stati post coloniali, sia rimasto nelle
mani di chi, più che fare gli interessi delle popolazioni locali, era in realtà connivente con
gli ex colonizzatori».
In passato in reazione a queste dinamiche ci si è rifugiati nel panarabismo o nella
religione islamica. Oggi sta avvenendo qualcosa di simile? Una nuova identità su base
religiosa sta sostituendo il tradizionale modello tribale?
«Il fatto che oggi la reazione all’Occidente possa assumere una connotazione religiosa,
invece che tribale, è coerente con la contemporaneità perché l’azione di fattori
comunicativi nuovi, come la presenza ormai globale dei media, agevola chi è alla ricerca
di un motivo identitario e oppositivo che possa essere percepito come comune
(nonostante le molteplici divisioni settarie). Una scelta peraltro abbastanza ovvia, se
pensiamo che, nell’ultimo secolo, sono ben poche le ideologie non religiose elaborate in
quest’area: passato il panarabismo, spesso legato al socialismo, che cosa rimane?».
Si può dire che, in un certo senso, alcuni fenomeni violenti a cui assistiamo derivino, più
che da pura volontà di potere, dal desiderio di affermare un’identità?
«Quando entrano in gioco manifestazioni violente penso che dovremmo essere cauti: se
osserviamo il modello di reclutamento di molti jihadisti ci accorgiamo che il suo successo
è legato non tanto all’adesione all’islam quanto all’infatuazione per certi “miti” mediatici.
All’origine di questa fascinazione ci sono diversi elementi. Prima di tutto dovremmo tener
conto del fatto che nei Paesi del cosiddetto Medio Oriente metà della popolazione è
costituita da giovani, spesso grandi masse di disoccupati in cerca di riscatto. Un riscatto
che si può trovare nell’adesione a un gruppo, una setta, una corrente islamica, che offre
un senso di appartenenza e certezze, anche economiche. Ma non è tutto qui. In molti di
questi Paesi, che ci piacciano o no i loro costumi, una parte della popolazione mal
sopporta il fatto che l’Occidente abbia esportato modelli amministrativi e culturali che
non possono essere recepiti d’emblée in società con una propria storia. Una reazione
che, a parti inverse, metteremmo in atto anche noi».
Tra i modelli tradizionali percepiti come minacciati c’è quello familiare: che ruolo ha oggi
la famiglia nelle società mediorientali?
«Premettendo che non possiamo proiettare una nostra idea di famiglia in contesti molto
diversi da un’area all’altra, in generale parliamo di un’entità sociale molto più allargata e
più introvertita di quanto non sia in Occidente oggi. Di fronte alla mancanza di sfere
pubbliche particolarmente sviluppate – il mercato del lavoro, la dialettica po-litica, la
libertà di informazione… – la famiglia diventa l’unico ambito di riferimento per un
individuo che, al di fuori, si avventura in un mondo pericoloso. D’altra parte, visto che il
contesto familiare è il campo d’azione principale dell’individuo, esso diventa anche un
elemento di potente conflittualità. Questa doppia tendenza innesca un cortocircuito che
oggi è evidente in alcune società mediorientali. Se in certi contesti le relazioni interne ai
nuclei si sono trasformate, ne abbiamo molti altri – pensiamo all’Arabia Saudita – in cui
gli avanzamenti economici e tecnologici convivono con una forte arretratezza in campo
familiare, in particolare per la condizione femminile».
A proposito di donne, è corretto dire che certe dinamiche hanno una base antropologica
più che religiosa?
«Senz’altro per comprenderle è opportuno spostarsi dal discorso religioso. Ciò che sta
avvenendo è che molte donne, consapevoli della loro identità, cercano una via di
emancipazione all’interno delle proprie società, anche in quelle islamiche. L’annosa
questione del velo è in realtà un falso problema. Nel mondo rurale europeo, fino a non
molti anni fa le contadine indossavano un fazzoletto in testa: lo facevano per un senso di
auto-identificazione, e imporre loro di toglierlo sarebbe stato considerato quanto meno
stravagante. Similmente molte femministe islamiche scelgono di portare l’hijab.
Ovunque, vestirsi in un certo modo vuol dire incorporare un atteggiamento di relazione
con gli altri: dobbiamo quindi comprenderlo, caso per caso, per distinguere tra autoaffermazione e situazioni di imposizione patriarcale».
IL GAZZETTINO
Pag 1 La vittoria del realismo e del Parlamento di Alessandro Campi
In materia di unioni civili prevarrà dunque il realismo, ovvero quel pragmatismo o senso
delle cose che è poi la regola migliore alla quale attenersi quando si governa a fare ciò
che si vorrebbe senza eccessive mediazioni con alleati e avversari. Da una maggioranza
parlamentare allargata e trasversale, quale si sperava di costruire su un provvedimento
in materia di diritti civili, si passerà ad una maggioranza di governo ristretta ma
sufficiente a licenziare, opportunamente alleggerito ed emendato della controversa parte
sulle adozioni, il disegno di legge Cirinnà. E per non correre ulteriori e inutili rischi, oltre
che per velocizzare l’approvazione della normativa, sembra anche certo che verrà
utilizzato lo strumento del voto di fiducia. Sarà comunque un buon risultato. In fondo
sulla regolamentazione giuridica delle coppie di fatto (incluse quelle omosessuali) è
d’accordo persino la nomenclatura vaticana. Renzi potrà sempre dire, a chi già lo accusa
di cedimento, di averci provato a fare una legge più innovativa e radicale, ma di non
aver trovato interlocutori politici adeguatamente leali e sensibili. Per essere chiari,
questa virata renziana nel segno dell’opportunismo – che a suo modo è una virtù politica
e non sempre sinonimo di spregiudicatezza – non è stata una vittoria tattica dei cattolici
o moderati, la cui forza di interdizione si tende in queste ore per loro euforiche a
sopravvalutare. La vittoria, se così vogliamo chiamarla, è stata esclusivamente di Grillo.
Senza il suo voltafaccia dell’ultima ora, che ha lasciato il Pd attonito e disorientato per
un eccesso obiettivo di ingenuità tattica, avremmo oggi una legge esattamente come era
nella sua stesura iniziale, comprensiva cioè del famoso (o famigerato) art. 5 sulla
stepchild adoption. Ma stando così le cose davvero stupiscono quegli esponenti della
sinistra del Pd – ad esempio l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza – che
criticano Renzi per aver scelto la strada (divenuta necessaria e inevitabile) di un accordo
al ribasso con i suoi alleati centristi piuttosto che insistere per un’intesa con il M5S
secondo loro ancora a portata di mano e persino auspicabile in vista di chissà quali
future collaborazioni. E dire che i bersaniani sono stati i primi ad aver fatto amara e
diretta esperienza delle furbizie e delle ambiguità di cui Grillo e i suoi parlamentari, per
convenienza politica abilmente spacciata per difesa dei valori costituzionali, sono capaci.
Se Renzi, finito vittima anch’egli della spregiudicatezza grillina, ha scelto di eccedere in
realismo pur di portare a casa un risultato politico comunque importante, per sé ma
anche e soprattutto per il Paese, i suoi avversari interni davvero continuano a spiccare
per velleitarismo e inconcludenza. Si ostinano a considerare il M5S un interlocutore
credibile, financo un potenziale alleato, quando è chiaro che del Pd esso è il principale e
più diretto avversario. A proposito di realismo, una lezione che sembra potersi ricavare
da quanto è accaduto è che col Parlamento (e con le forze in esso presenti) Renzi dovrà
probabilmente fare i conti, d’ora in poi, diversamente che nel recente passato. Per quasi
due anni il Presidente del consiglio – che ieri, parlando con la stampa straniera, si è ben
descritto con una personalità politicamente sempre affamata: di cambiamento, di
successi, di riforme... – ha fatto quel che ha voluto con deputati e senatori. Questi
ultimi, tanto per dire, li ha persino convinti a suicidarsi. Anche sulle leggi più controverse
– da quella elettorale a quella sulla riforma del mercato del lavoro – è sempre riuscito a
trovare i voti che gli servivano per farle approvare come lui le voleva. E lo ha fatto ogni
volta alzando la posta e il limite della sfida, giocando sulle divisioni e sui contrasti delle
opposizioni, ricorrendo ad ogni possibile espediente regolamentare, attraendo a sé
fuoriusciti di ogni provenienza, minacciando velatamente crisi di governo e dunque
possibili elezioni anticipate (con la fine anch’essa anticipata di non poche carriere),
aggregando alla bisogna maggioranze variabili che dalla sinistra radicale di Sel si sono
spinte sino ai dissidenti di Forza Italia guidati da Verdini. Pensava evidentemente di
farcela, alle sue condizioni, anche con le unioni civili, materia più adatta di altre, almeno
sulla carta, a crea intese e convergenze. E invece ha dovuto fare i conti con una
inaspettata resistenza. I grillini, spregiatori sulla carta del Parlamento, hanno
definitivamente capito – come i missini ai tempi della Prima Repubblica – che solo
attraverso l’azione parlamentare possono sperare di incidere sulla vita politica: non si
realizza la “democrazia della sorveglianza” affidandosi solo al web, agli insulti o alle
sceneggiate in piazza. Diversamente che con la sinistra bersaniana, con la quale si è
comportato come il gatto con i topi, Renzi ha poi dovuto prendere atto dell’inflessibile
tenacia e della poca malleabilità della fazione cattolica del Pd, che senza minacciare
scissioni o inscenare psicodrammi semplicemente non si è mossa di un millimetro dalle
sue posizioni, qualunque cosa il loro segretario dicesse o minacciasse. Non che il
Parlamento italiano si sia improvvisamente popolato di cuor di leone e di resistenti
contro lo strapotere di Palazzo Chigi e dell’esecutivo. Ma forse si è aperta, proprio con
l’incidente d’aula sulle unioni civili, una fase politica nella quale la dialettica ParlamentoGoverno, se anche l’opposizione di centrodestra dovesse infine risvegliarsi dal suo
torpore, potrebbe risultare meno asimmetrica e meno sbilanciata di quanto non sia stata
sinora. E di questo Renzi dovrà tenere conto.
LA NUOVA
Pag 1 Biennio Renzi, l’incubo del debito di Roberta Carlini
Una ripresa più debole di quanto previsto o sperato. Un aumento dell’occupazione
abbastanza anemico, e comunque non tale da incidere sul moloch del malessere sociale:
6 milioni di persone senza lavoro, tra gli ufficialmente disoccupati e gli scoraggiati. Uno
scontro aperto con l’Unione europea, con il giudizio di primavera che incombe sulla
manovra. E l’ombra del debito pubblico che continua a crescere, anche se
contemporaneamente non cala la pressione del fisco sui redditi. A giudicare dai grandi
dati, i due anni del governo Renzi non dovrebbero dare occasione a grandi feste né a
previsioni di una tranquilla navigazione per i mesi futuri. Pure, il premier incassa il
primato delle riforme fatte, e chiede ai cittadini, con un sondaggio Facebook, cosa gli
resta da fare. È vero che molte riforme si giudicano su tempi un po’ più lunghi di due
anni, ma chi vota ai sondaggi - e poi a quello più importante, il voto vero delle
amministrative di primavera - non può non dare uno sguardo ai numeri e ai fatti già
prodotti, per capire se c’è da correggere il tiro o solo da aspettare fiduciosi. Il lavoro è il
tema più importante, sul quale non a caso Renzi è partito, con il primo consiglio dei
ministri e la seguente parata di slide scoppiettanti. Era l’annuncio dei tre grandi
interventi che avrebbero caratterizzato il 2014 e il 2015. In primo luogo, una
liberalizzazione dei contratti a termine. Poi, una serie di incentivi alla stabilizzazione con la decontribuzione per i nuovi assunti - e, allo stesso tempo, un cambiamento del
concetto di “lavoro stabile”, con la sostituzione del vecchio posto garantito a tempo
indeterminato con il contratto a tutele crescenti. L’idea del governo era quella di
accompagnare e sospingere quei piccoli venti di ripresa economica che si
preannunciavano, dopo il grande crollo della produzione, dei consumi e dei redditi degli
anni della crisi. I dati generali ci dicono che il tasso di occupazione è salito di mezzo
punto percentuale: dal 55,5% del febbraio 2014 al 56% (ultimo dato disponibile,
dicembre 2015). Nello stesso periodo, la disoccupazione è scesa dal 12,7 all’11,4%.
Guardando all’interno dei dati, molti osservatori concordano sul fatto che più che il jobs
act ha “funzionato” lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni: nel senso di portare
alla trasformazione di molti rapporti di lavoro, in senso più stabile, non di creare nuovo
lavoro. Rimane alta la quota dei contratti a termine, più flessibili e reversibili dalle
imprese al cambiare del ciclo economico. Più che dividere tra gufi e ottimisti, il bilancio
degli sgravi e del jobs act dovrebbe portare a una riflessione sull’uso dei soldi pubblici:
per la decontribuzione sono stati stanziati 1,8 miliardi nel 2015 e 4,9 nel 2016, e
secondo alcune stime non basteranno. Ne è valsa la pena? O queste risorse - in tempi
così magri per la finanza pubblica - si potevano spendere in modo più mirato, su settori
specifici? A queste domande Renzi e i suoi rispondono vantando la riduzione della
precarietà: ma, come ha mostrato Luca Ricolfi, in realtà la percentuale di lavoratori a
termine - dunque precari - nel 2015 è stata la più alta dall’anno 2004, ossia da quando
la rilevazione esiste. Restando sul problema delle risorse di finanza pubblica: va detto
che Renzi ha intercettato il sentimento diffuso contro la “stupidità” delle regole europee,
invocando una maggiore flessibilità sul rapporto deficit/Pil e ottenendo anche qualche
concessione. Tra pochissimo, al momento del giudizio sulla manovra, si vedrà se il
credito è già finito. Ma mentre si limavano le percentuali del deficit (ossia il flusso
annuale dell’indebitamento pubblico), si perdeva di vista il problema del debito (ossia lo
stock complessivo): in due anni il rapporto tra debito e Pil è salito dal 128,5 al 132,5%.
Colpa della bassa crescita, una tendenza non invertita dalla timida politica espansiva del
governo. Infatti, nello stesso periodo le tasse non sono scese, ma la pressione fiscale è
salita dal 43,4 al 44,1%. A sua discolpa, il premier può dire che ha agito nei ristretti
margini di manovra consentiti dai rigidi vincoli europei. Ma a maggior ragione sarebbe
stato utile usare il bisturi, sia per la scelta degli incentivi da dare che per quella delle
spese da tagliare.
Torna al sommario
Fly UP