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Sintesi del Dossier “IL DIALOGO SOCIALE IN ITALIA E

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Sintesi del Dossier “IL DIALOGO SOCIALE IN ITALIA E
Estratto del Dossier
Il Dialogo Sociale in Italia e in Europa
Sintesi del Dossier “IL DIALOGO SOCIALE IN ITALIA E IN
EUROPA”
MATERIALI DI APPROFONDIMENTO
WORKSHOP TERRITORIALE SICILIA
PALERMO – 21.04.2015
SPESlab è un progetto realizzato nell’ambito del PON GAS FSE 2007-2013
www.speslab.it
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Estratto del Dossier
Il Dialogo Sociale in Italia e in Europa
LA “FORMULA APERTA” DEL DIALOGO SOCIALE
Da tempo l’attenzione dei giuslavoristi è sollecitata dall’importanza del confronto tra le organizzazioni sindacali e
datoriali e dal riconoscimento progressivo degli attori collettivi nell’ambito dei meccanismi istituzionali di produzione
normativa, in particolare, a livello comunitario, in campo sociale.
Con la locuzione “dialogo sociale”, nella sua caratterizzazione vaga, si tende storicamente ad individuare uno
strumento partecipativo che prevede una forma di consultazione tra sindacati, organizzazioni degli imprenditori ed
istituzioni pubbliche nella definizione delle politiche socio/economiche. Ciò costituisce uno dei pilastri del modello
sociale dell'Unione Europea, ricoprendo un ruolo fondamentale nella programmazione dei Fondi strutturali, la quale si
basa - coerentemente con il principio di sussidiarietà – sul confronto tra i diversi attori tra parti sociali e istituzionali.
Mediante questa azione di partenariato e la valorizzazione dell’autonomia negoziale, vengono quindi delineate le
politiche di coesione affinché venga garantita un'efficace sorveglianza degli interventi comunitari.
Questa diversità dei contenuti, tale da poter definire il dialogo sociale come una “formula aperta”, induce a ritenere
ancora valida la configurazione proposta in passato da una dottrina che suggeriva di immaginare il dialogo sociale nel
suo complesso come costituito da due cerchi concentrici, di cui quello esterno, con raggio più ampio, rappresentante il
dialogo sociale inteso in “senso lato”, comprendente le diverse tipologie di relazioni tra parti sociali ed istituzioni
comunitarie, mentre quello interno raffigurerebbe il dialogo sociale inteso nell’accezione rilevante della volontà e
responsabilità autonoma delle parti sociali. Tale teoria contempla quindi una diversità di modelli non determinata
esclusivamente dalla presenza di attori terzi (in primis la Commissione) rispetto alle organizzazioni datoriali e dei
lavoratori, ma da una differente gradualità in termini di autonomia e responsabilità, del ruolo giocato da quest’ultime
sia come destinatarie dirette di un potere di iniziativa riconducibile ad un terzo soggetto (la Commissione), sia come
protagoniste di un diretto rapporto con le proprie controparti.
Le interpretazioni c.d. “minimaliste”, tendenti a ricondurre il dialogo sociale ad una semplice prassi di consultazione e
di concertazione, come attività preparatoria a quella normativa comunitaria, rappresentano non solo un’espressione
di resistenza al cambiamento, ma anche una volontà di riconoscere un limitato ruolo promozionale alla stessa
Commissione.
Tale approccio minimalista ha dovuto confrontarsi con una dinamica evoluzione della materia, le cui tappe verranno di
seguito esaminate, a cui è riconducibile il progredire della prassi del dialogo sociale attraverso interventi che hanno
segnato il passaggio dalla fase legata alla realizzazione di un “Gruppo di Pilotaggio” (1989) incaricato di conciliare le
relazioni collettive tra i partner sociali a livello europeo, a quella riconducibile alle Conferenze intergovernative del
1990-1991, per arrivare all’accordo concluso il 31 ottobre 1991 tra la CES (Confederazione Europea dei Sindacati) e le
organizzazioni datoriali UNICE (Unione delle confederazioni europee dell'industria e dei datori di lavoro) e CEEP
(Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica), il quale ha posto le basi normative di un sistema di
contrattazione a livello europeo, consentendo alle parti sociali di inserirsi nei processi decisionali comunitari e di avere
un ruolo tutt’altro che secondario, in quelli legislativi.
L’Accordo sulla politica sociale (ASP), venne incluso nel protocollo sociale del Trattato di Maastricht, fornendo,
successivamente, le linee-guida per la determinazione degli attuali art.139 e seguenti del Trattato di Amsterdam.
In particolare, l’art.139 dispone al comma 1: “Il dialogo delle parti sociali a livello comunitario può condurre, se queste
lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi”, al comma 2, inoltre, prevede: “Gli accordi conclusi a
livello comunitario sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle Parti sociali e degli Stati membri o,
nell’ambito dei settori contemplati dall’art.137, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione
del Consiglio su proposta della Commissione” .
Nei documenti ufficiali delle istituzioni europee, il dialogo sociale è storicamente assunto come base per l’adozione, a
livello comunitario, di un “modello inclusivo di policy making”, da promuovere altresì negli Stati Membri. La
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Il Dialogo Sociale in Italia e in Europa
partecipazione di una pluralità di attori istituzionali pubblici, ma anche di organizzazioni di rappresentanza degli
interessi delle parti sociali, ne costituisce un elemento essenziale. Le istituzioni comunitarie, infatti, ritengono
necessario coinvolgere la società organizzata nei processi decisionali, nella definizione degli obiettivi da perseguire e
nella realizzazione concreta delle politiche.
Le radici della gestione di questo modello a livello europeo affondano nello stesso spirito che ha portato alla nascita
della Comunità, fin dal Trattato di Roma del 1957. A partire dagli Anni Ottanta ha però ricevuto una nuova spinta per
far fronte alle sfide poste dallo sviluppo economico, dalla competitività e dall’occupazione. L’avvio della Strategia
Europea per l’Occupazione (EES- European Employment Strategy) nel 1998 ha costituito la prima sperimentazione
concreta del modello.
DAGLI INCONTRI DI VAL DUCHESSE: L’EVOLUZIONE STORICA DEL
DIALOGO SOCIALE
La Comunità Europea ha da sempre incoraggiato la costituzione di comitati e gruppi di lavoro paritetici, più o meno
formali, in cui le organizzazioni di rappresentanza degli interessi potessero avere un confronto reciproco e con le
istituzioni comunitarie. Il Trattato istitutivo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) prevedeva, sin
dal 1952, un Comitato Consultivo per l’assistenza tecnica dell’Alta Autorità. Ad aprirne i lavori fu Jean Monnet, con un
discorso in grado di sintetizzare adeguatamente il significato del dialogo sociale dell’epoca, il quale estendeva già il
concetto di parti sociali anche alle organizzazioni di rappresentanza dei consumatori:
«Il Comitato Consultivo, composto da produttori, lavoratori e consumatori, porta all’Autorità, non tanto le opinioni e
le preoccupazioni degli interessi nazionali, ma quelle dei produttori, lavoratori e consumatori della Comunità. Questo
è il valore del tutto nuovo del vostro Comitato. Voi non siete vincolati da mandati o istruzioni delle vostre
organizzazioni di appartenenza. Potete parlare liberamente, essere la voce di migliaia di produttori, di un milione e
750 mila lavoratori e di un imponente numero di consumatori della Comunità. Attraverso voi, l’Alta autorità potrà
conoscere le reazioni dei manager nei loro uffici, dei minatori nelle loro miniere, del lavoratori dell’acciaio nelle loro
fabbriche e di una moltitudine di consumatori dispersi ovunque».
A confermare lo spirito di tale discorso fu l’istituzione del Comitato Economico e Sociale art.193-198 del Fondo Sociale
Europeo e, con l’art.118, l’organizzazione di consultazione con le parti sociali. Di conseguenza dagli anni Sessanta a
metà degli anni Ottanta nacquero numerosi comitati permanenti, consultivi, paritari e gruppi di lavoro più o meno
formali.
Gli attori del dialogo sociale dell’epoca erano prevalentemente di natura intersettoriale, come dimostrato dalla nascita
delle tre grandi confederazioni rappresentanti rispettivamente le associazioni dei datori di lavoro privati (UNICE,
costituita nel 1958), pubblici (CEEP, costituita nel 1961) e dei lavoratori (CES-ETUC, del 1972).
Di certo vi era una pluralità di associazioni che rivestivano un ruolo significativo sulla scena europea quali
EUROCHAMBERS, l’associazione europea delle Camere di Commercio, UEPAME, rappresentante gli interessi
dell’artigianato e delle piccole e medie imprese; CEC e EUROCRADES, Confederazioni europee delle associazioni di
rappresentanza, rispettivamente, dei dirigenti e dei quadri.
A donare una spinta di dinamicità fu il Memorandum francese, illustrato da François Mitterrand durante la sua prima
partecipazione al Consiglio europeo nella veste di Presidente della Repubblica francese, sul progetto di un Espace
Social Européen, presentato come condizione necessaria al rilancio dell’integrazione sociale europea e prefigurante
tre obiettivi principali: l’occupazione come assoluta priorità della politica sociale comunitaria; il dialogo sociale
rafforzato da un’incisiva partecipazione degli attori sociali alle politiche comunitarie; il coordinamento della sicurezza
sociale come garanzia di una parità di condizioni dei lavoratori migranti nei vari Stati Membri. Tale progetto si sarebbe
dovuto basare su pochi atti normativi ed alcune azioni incisive come la riorganizzazione concordata dei tempi di
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lavoro, il sostegno alla formazione, lo sviluppo della sicurezza sociale, l’adozione di una Carta dei diritti dei lavoratori
europei.
Il 1985 rappresentò un anno di svolta, definita la fase di “operazione congiunta”: a Valduchesse, nei pressi di Bruxelles,
si tenne il primo incontro tra le parti sociali, le quali poterono dare inizio ad un reciproco dialogo che da allora è
proseguito senza interruzioni. Il Presidente della Commissione Europea in carica, Jacques Delors, lanciò un appello agli
ambienti economici e sociali affinché si mobilitassero e appoggiassero in modo convincente il rilancio della
costruzione comunitaria. Il dialogo sociale europeo da quel momento venne promosso come strumento principale di
questa mobilitazione, favorito dalla creazione di un clima favorevole allo scambio e alla discussione tra le parti. Sono
cresciuti numericamente i comitati ed i gruppi di lavoro, così come i settori interessati .
Il confronto tra i partner sociali si espresse principalmente attraverso i c.d. pareri comuni, indicanti i principi, gli
obiettivi o le raccomandazioni congiunte rivolte a Parti sociali e a pubblici poteri in merito alla situazione della
Comunità, alla formazione, all’istruzione e all’ascolto dei lavoratori. Tra i principali pareri formulati a partire dal 1986
si possono citare quelli riguardanti la formazione generale e professionale degli adulti, il passaggio dalla scuola alla vita
lavorativa, la creazione di uno spazio europeo della mobilità professionale e spaziale, il miglioramento della modalità
di funzionamento del mercato del lavoro in Europa, le nuove tecnologie, l’organizzazione del lavoro.
L’Atto Unico Europeo (Revisione dell’accordo che è entrato in vigore il 1° luglio 1987) richiese alla Commissione di
sviluppare il Dialogo Sociale. Difatti, all’articolo 118 B disponeva che la Commissione si dovesse impegnare a sviluppare
il dialogo tra le parti sociali, con la possibilità di definire contrattualmente dei legami, qualora ciò fosse richiesto dalle
parti stesse.
Dal 1985 al 1992 le parti sociali si sono incontrati più volte per elaborare delle considerazioni comuni (i sopracitati
“pareri comuni”), soprattutto in merito alla situazione della Comunità (1986 e 1987), alla formazione e alla
motivazione, e riguardo l’istruzione e l’ascolto dei lavoratori (1987).
Con l’Atto unico europeo, ma più concretamente nel 1991, con l’Accordo sulla politica sociale, si gettarono le basi
normative di un sistema di contrattazione a livello europeo, consentendo alle parti sociali di inserirsi nei processi
decisionali comunitari e di avere un ruolo, tutt’altro che marginale, in quelli legislativi. L’ASP, venne incluso nel
protocollo sociale del Trattato di Maastricht, fornendo, successivamente, le linee guida per la determinazione degli
attuali art.139 e seguenti del Trattato di Amsterdam. In sostanza, rendendo esplicito sul piano normativo il dialogo
sociale, si riconosceva definitivamente alle Parti sociali, non più solo in via di fatto, la possibilità di diventare i principali
operatori nella costruzione dell’Europa sociale e del sistema delle relazioni industriali.
Nel concreto, al fine di affrontare positivamente il cambiamento e le diverse esigenze imposte dal mercato del lavoro,
vale a dire, diritti e garanzie ai lavoratori e flessibilità alle imprese, si è data la possibilità alle Parti sociali di affrontare
le sfide fondamentali riguardo l’occupazione, la modernizzazione del mercato del lavoro, il miglioramento delle
competenze e delle qualifiche dei lavoratori, la promozione delle pari opportunità, e così via.
Questo percorso ha portato a far sì che le Parti sociali (oggi i sindacati associati nell’ETUC o Confederazione Europea
dei Sindacati e nella federazione europea delle forze dirigenti, mentre le associazioni di imprenditori appartengono
all’UNICE, al CEEP e all’UEAPME) sono state ascoltate ogniqualvolta la Commissione doveva presentare al Consiglio
europeo una proposta per una direttiva comunitaria in ambito sociale. Inoltre poterono essere avviate trattative
autonomamente sulla base di propri interessi, i cui conseguenti testi vennero poi presentati dalla Commissione al
Consiglio, così come formulati, per la trasformazione da accordi-quadro in direttive.
Le direttive che hanno inglobato tali accordi-quadro riguardano i congedi parentali, il lavoro part-time e i contratti a
tempo determinato. In circostanze più recenti, il dialogo sociale ha consentito la ratifica di accordi applicabili dalle
stesse parti sociali: i c.d. Accordi-quadro autonomi. I temi trattati in proposito riguardano il telelavoro, lo stress da
lavoro correlato, le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro.
Andiamo dunque a specificare gli Accordi siglati dalle parti sociali ed inseriti nell’iter legislativo comunitario
diventando quindi direttive adottate dal Consiglio:
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Il Dialogo Sociale in Italia e in Europa
a) L’Accordo quadro sul congedo parentale
b) L’Accordo quadro sul lavoro part-time
c) Accordo-quadro sul contratto a tempo determinato
d) Accordo quadro autonomo sul telelavoro
e) Accordo quadro autonomo sullo stress da lavoro
f) Accordo quadro autonomo sulle violenze e molestie nei luoghi di lavoro
Possiamo individuare una seconda fase di implementazione dell’azione di concertazione delle parti sociali attraverso
l’adozione dei c.d. “quadri d’azione”, sviluppati dalle PES stesse sotto diversi profili, rivolgendo particolare attenzione
verso lo “sviluppo continuo di competenze e qualifiche” o “la parità di sessi”.
In particolare, quello sullo “sviluppo continuo di competenze e qualifiche lungo l’arco della vita” , ha consentito alle
PES di affiancarsi alle istituzioni comunitarie al fine di determinare le politiche occupazionali, di formazione, istruzione,
protezione sociale promosse dalla Strategia di Lisbona (2000) ; a tal fine, gli attori coinvolti hanno proposto di
realizzare i loro obiettivi all’interno delle quattro Aree di Intervento, abbracciando quindi non solo il livello europeo,
ma anche quello settoriale, nazionale e aziendale.
Gli anni Novanta sono stati cruciali per una sorta di “rilancio del dialogo sociale”.
Al Trattato di Maastricht è seguito il Vertice di Egmont III nel 1992, il quale ha consentito di tracciare un bilancio del
dialogo sociale e precisarne gli obiettivi secondo le linee guida fornite nel 1991. Tale quadro di riferimento includeva
l’approvazione di pareri riguardanti: le qualifiche professionali e la loro convalida, una nuova strategia di
collaborazione per la crescita e l’occupazione, il futuro del dialogo sociale.
Al Vertice Egmont III seguì l’Egmont IV, in cui le parti sociali hanno convenuto per un rafforzamento della coesione
economica e sociale, attraverso il perseguimento dell’integrazione europea, al fine di far fronte ai problemi derivanti
dalla disoccupazione. A tale scopo le PES, richiedendo la collaborazione della Commissione, hanno invitato il Comitato
del Dialogo Sociale a fornire contributi per il Libro Bianco su Crescita competitività e occupazione, in cui si è potuto
assistere ad uno scambio di opinioni sugli orientamenti delle politiche economiche degli Stati membri e sul ruolo delle
PES nell’applicazione dell’accordo a undici sulla politica sociale.
Le basi per un vero confronto erano pronte, così a metà degli anni Novanta si è potuto dare inizio ad un approccio
concertativo delle PES. Nel 1996, esse prestarono il loro sostegno al Patto di fiducia, adottato dalla Commissione il 5
giugno, esprimendo la volontà di partecipare con il proprio supporto alle iniziative pro-occupazione, attraverso una
Dichiarazione congiunta: Azione per l’occupazione in Europa, un Patto di fiducia; inviata al Consiglio europeo di
Dublino. Tale dichiarazione riguardava il quadro macro-economico, l’occupazione (in particolare quella giovanile) il
tema della formazione costante e i Fondi strutturali.
Come vedremo, il Trattato di Amsterdam del 1997 e iniziative successive hanno di certo permesso di potenziare il
ruolo delle PES in questi ambiti. Con l’Accordo sulla politica sociale il dialogo sociale ha assunto notevoli responsabilità
all’interno del sistema delle relazioni industriali. Le parti sociali nel tempo sono state incoraggiate a concludere accordi
a favore dell’inserimento occupazionale e della modernizzazione del mercato del lavoro, così come dimostrato dal
Vertice di primavera, ricorrente nel marzo di ogni anno a Bruxelles, in cui nel 1997 hanno apportato un Contributo
comune per il Vertice sull’ Occupazione di Lussemburgo. Fondamentale, sempre nello stesso anno, l’ Accordo quadro
sull’occupazione in agricoltura nei Paesi dell’Unione europea, il quale ha segnato una vera tappa fondamentale per
l’evoluzione storica del dialogo sociale a livello settoriale. Gli ultimi quattro anni precedenti la Strategia di Lisbona
(2000) sono stati caratterizzati da un importante impegno diretto all’azione congiunta e all’integrazione, divenute
priorità per le PES sia a livello interprofessionale, con l’adozione della Dichiarazione comune di Varsavia
sull’ampliamento (1999) che settoriale, con ad esempio l’organizzazione di tavole rotonde in Estonia, Repubblica Ceca
Polonia e Ungheria riguardanti il settore commerciale.
Il dialogo sociale europeo ha inoltre ricevuto particolare impulso dalla Carta dei diritti fondamentali, approvata dal
Consiglio Europeo a Nizza nel dicembre 2000, la quale include alcuni articoli di grande importanza per lo sviluppo delle
relazioni industriali e della contrattazione collettiva nell’Unione europea (incorporati successivamente nel trattato
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relativo alla Costituzione europea), tra cui l’art. 12 sulla “libertà di assemblea e di associazione” che stabilisce per ogni
lavoratore il diritto di libertà di assemblea e di associazione ad ogni livello, con la possibilità di formare e iscriversi ai
sindacati per la tutela dei propri interessi; è citato inoltre l’art. 27 sui “diritti di informazione e di consultazione dei
lavoratori nelle imprese” il quale prevede la garanzia ai lavoratori o ai loro rappresentanti debba includere il diritto di
informazione e consultazione preventiva sulle condizioni di lavoro nei termini e condizioni previste dalla normativa
dalla legge comunitaria e dalle leggi (e prassi) nazionali. Infine bisogna tener conto dell’art.28 sul “diritto di azione e di
contrattazione collettiva”, il quale stabilisce che i lavoratori e gli imprenditori, o le loro rispettive organizzazioni,
abbiano il diritto, nel rispetto della legge comunitaria e delle leggi e prassi nazionali, di negoziare e concludere accordi
collettivi; in caso di conflitto, essi possono intraprendere forme di azione collettiva per tutelare i propri interessi,
incluso lo sciopero. Tali diritti però non hanno posto le basi per un omogeneo sistema europeo di relazioni industriali i
cui sviluppi in ogni caso sono soggetti a diverse posizioni.
Nel 2000, con la Strategia di Lisbona, le parti sociali hanno dovuto far fronte alle sfide che la globalizzazione aveva
posto all’Europa: lo sviluppo delle competenze, la modernizzazione del mercato del lavoro, l’ invecchiamento attivo
della popolazione europea. In tale quadro di riferimento, le PES hanno proposto la costituzione di una Commissione di
consulenza trilaterale sulla crescita occupazionale, al fine di venire maggiormente coinvolte nello sviluppo della
Strategia che si stava configurando, dando via inoltre ad un percorso che avrebbe potuto portare ad una dimensione
autonoma del Dialogo sociale.
Nel 2001, a seguito del Vertice di Laeken, le parti sociali hanno stabilito dei procedimenti attraverso cui poter
intervenire a livello comunitario:



consulenza trilaterale: consistente nella consultazione tra UNICE, ETUC, CEEP con le istituzioni comunitarie .
audizione tra le parti sociali: con riferimento alla consultazione all’interno delle PES stesse (avente basi
normative negli artt. 13, 138 e 139 del Trattato di Amsterdam).
Dialogo sociale: dialogo dell’ ETUC con UNICE, UEAPME e CEEP al fine di definire un programma che preveda
accordi quadro, consigli, scambio di buone pratiche, che potrebbe assicurare lo sviluppo di un Dialogo sociale
autonomo nei settori riguardanti la Strategia Europea per l’Occupazione (EES)
I COMITATI DI SORVEGLIANZA DI DIALOGO SOCIALE A LIVELLO
EUROPEO
I Comitati di Sorveglianza, istituiti, con regolamento CE n.1260 del 1999 art.35 , da ogni Stato Membro in accordo con
la relativa Autorità di gestione e previa consultazione delle parti sociali, sono responsabili di garantire la realizzazione
dei contenuti di tutti i documenti di programmazione dei fondi strutturali: Quadro comunitario di sostegno (QCS),
Piano Operativo Nazionale (PON), Piano Operativo Regionale (POR).
Le attività dei Comitati di Sorveglianza sono dettate dal proprio regolamento interno, adottato nel corso della prima
riunione; le decisioni prese sono consultabili sul sito di riferimento di ciascuno Stato. È inoltre disponibile una
Segreteria Tecnica apposita per l’elaborazione della documentazione e della collaborazione dei diversi Gruppi di
lavoro tematici.
Riguardo all’andamento dei programmi operativi, il Comitato di Sorveglianza
 conferma o modifica il complemento di programmazione, compresi gli indicatori da impiegare nella
sorveglianza
 esamina e approva i criteri di selezione di ogni operazione finanziata
 valuta i progressi in relazione agli obiettivi dell'intervento
 esamina i risultati della valutazione intermedia
 vaglia e approva le proposte di modifica dei fondi
 propone all'autorità di gestione eventuali correzioni o modifiche dell'intervento per il miglior raggiungimento
degli obiettivi, anche in riferimento alla gestione finanziaria.
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Fonte: Ministero dello Sviluppo Economico- Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica
Nell’arco temporale 2000-2006, le parti sociali erano membri effettivi all’interno di numerosi Comitati di Sorveglianza
dei programmi operativi.
Durante la programmazione 2007-2013, conformemente all’art.11 – riguardante il partenariato- del regolamento (CE)
n.1083/2006, ogni Stato membro predispone in base al proprio sistema normativo, un partenariato con proprie
autorità pubbliche, parti economiche e sociali, e altri appropriati enti (soprattutto della società civile, non profit,
ambientali, operanti nel sociale). Inoltre, secondo i principi dell’art. 5.2 del regolamento FSE (buona governance e
partenariato), gli Stati membri assicurano il coinvolgimento delle parti sociali e l’adeguata partecipazione di altri
stakeholders all’interno delle fasi di preparazione, attuazione e sorveglianza del sostegno del fondo.
Avendo la possibilità di assumere ulteriormente il ruolo di beneficiari, le parti sociali sono attivamente coinvolte
nell’attuazione del Fondo Sociale Europeo a diversi livelli e svolgendo diversi ruoli, tenendo conto delle disposizioni
degli artt. 64 e 65 che identificano in maniera univoca la composizione e i compiti del Comitato di sorveglianza, in
aggiunta agli artt. 59, 60 e 61 sulla designazione e funzioni delle relative autorità. Dal momento che risultano essere
membri dei Comitati di sorveglianza, le parti sociali si accerteranno dell’efficacia e qualità dell’attuazione del
programma operativo, comprendente la fase di valutazione e di approvazione dei criteri per la selezione delle
operazioni finanziate, agendo secondo il principio di trasparenza, in modo da garantire la rappresentatività delle parti
sociali nel singolo Stato o Regione.
L’Autorità di gestione è inoltre obbligata a pubblicare una descrizione delle procedure per l’esame delle richieste di
finanziamento e delle richieste previste. Ai sensi dell’art. 7d, il regolamento obbliga le Autorità di gestione a rendere
noti gli elenchi dei beneficiari e degli importi di finanziamenti pubblici assegnati alle singole operazioni.
LE POLITICHE SOCIALI NELLA STRATEGIA EUROPA 2020
Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, è il frutto dei lavori della
Conferenza intergovernativa (CIG) , su mandato del Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007, per l’elaborazione di un
Trattato di Riforma diretto a modificare i trattati esistenti, allo scopo di “rafforzare l’efficienza e la legittimità
democratica dell’Unione allargata, nonché la coerenza della sua azione esterna”. Il nuovo Trattato è diretto a
potenziare la capacità d’azione dell’Unione Europea, consolidando l’efficienza delle sue istituzioni e dei meccanismi
decisionali.
All’interno del Trattato vi sono considerevoli disposizioni riguardanti le politiche sociali; prima fra tutte l’inserimento
della Carta dei diritti fondamentali che viene inclusa nel Trattato stesso. Ciò riserva quindi la possibilità ai cittadini di
utilizzare il testo per investire la Corte europea di giustizia del potere di vigilanza sul rispetto dei diritti e delle libertà
fondamentali. Il Trattato di Lisbona inoltre, conferma il ruolo delle parti sociali incoraggiando l’importanza del dialogo
tra le stesse.
A supportare la valenza delle politiche sociali vi è l’aggiunta nel Trattato di nuovi obiettivi , oltre chiaramente a quello
della piena occupazione, come il progresso sociale, la lotta all’esclusione sociale, alla povertà e alle discriminazioni,
promozione della giustizia, nonché l’inserimento di una nuova clausola sociale, social mainstreaming, che promuove
l’integrazione di questi obiettivi all’interno delle politiche europee.
A livello comunitario, l’azione delle politiche sociali si realizza nell’ambito della Strategia Europa 2020, adottata il 17
giugno 2010 dal Consiglio, che si propone di rispondere alle sfide di lungo periodo attraverso tre priorità:


Crescita intelligente: attraverso lo sviluppo di una politica economica basata sull’innovazione e la conoscenza.
Crescita sostenibile: promozione di un’economia più efficiente dal punto di vista delle risorse, ricercando un
equilibrio ambientale e più competitiva.
Crescita inclusiva: implementazione di un’economia basata sulla crescita dell’occupazione e attiva sotto il profilo della
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coesione sociale e territoriale. L’obiettivo prevede il raggiungimento del tasso di occupazione per parità di sessi
al 75%, incoraggiando l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani, anziani, immigrati e lavoratori poco
qualificati.
LE FUTURE SFIDE DEL DIALOGO SOCIALE EUROPEO
Il modello sociale sostenuto dall’Unione Europea promuove valori condivisi dai suoi cittadini, quali i diritti dell’uomo,
la solidarietà sociale, le pari opportunità, la lotta ad ogni forma di discriminazione e di povertà, la libertà d’impresa.
Sulla base di questi principi si configura la politica di coesione sociale ed economica comunitaria, che attraverso una
forma di solidarietà finanziaria, è incentrata allo sviluppo delle regioni arretrate, all’inserimento professionale dei
disoccupati di lungo periodo e dei giovani. Dal punto di vista operativo, per ciò che concerne le politiche di coesione,
lo sviluppo del modello delle partnership ha coinvolto diversi livelli governativi, sindacali e della società civile. Dal
punto di vista delle politiche del lavoro, il modello utilizzato è stato quello del Metodo Aperto di Coordinamento, che
ha tenuto conto delle peculiarità dei singoli Stati membri.
Nonostante significativi successi riportati dalla pratica del dialogo sociale, è chiaro che essa incontrerà nel suo
percorso delle sfide rilevanti, derivanti in particolar modo dal mercato globalizzato.
Bisogna tener conto in primo luogo del processo di allargamento dell’Unione Europea: infatti nei recenti Stati
aderenti, dall’Europa centrale e Orientale, il dialogo sociale non presenta una lunga tradizione radicata a livello
politico e territoriale; le strutture dei Paesi in questione si rivelano più deboli, soprattutto per quanto riguarda
l’organizzazione delle parti sociali a livello settoriale.
Durante gli ultimi anni lo sforzo fatto a livello comunitario per incoraggiare il dialogo sociale dei nuovi Stati membri è
stato notevole attraverso il finanziamento di programmi miranti ad incrementare le competenze delle parti sociali.
Sono state inoltre attivate significative iniziative realizzate dalla Fondazione Europea per il Miglioramento della Vita e
delle Condizioni di Lavoro, nonché dall’OSHA (Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza sul Lavoro). Nonostante ciò, lo
squilibrio evidenziato ancora oggi tra i diversi membri UE resta tale, vi è quindi la necessità di affrontare il problema in
questione. Il già citato Metodo Aperto di Coordinamento, ha avuto il merito di aver inciso sugli ordinamenti giuridici
degli Stati membri con la diffusione delle migliori pratiche nazionali nel campo delle politiche dell’occupazione: è
auspicabile che ciò possa estendersi anche ad altri settori delle politiche sociali, rendendo più concreta l’ipotesi di un
omogeneo sistema di Welfare europeo.
SEZIONE II - « IL DIALOGO SOCIALE NELL’IMPLEMENTAZIONE DEL FONDO SOCIALE EUROPEO»
IL FONDO SOCIALE NELLA CRISI
Il 15 Settembre 2008 verrà ricordata come una data miliare nella storia dell'economia moderna. E' il giorno della
dichiarazione di bancarotta da parte di Lehman Brothers. Di colpo, tutto il mondo realizza che sta accadendo qualcosa
di assolutamente inedito ed imprevisto. Quella che sembrava l'esplosione di una delle tante bolle speculative degli
ultimi decenni, appare improvvisamente come un evento senza precedenti, sia per quanto riguarda la dimensione
economico-finanziaria del fenomeno, sia per la planetarizzazione dei suoi effetti. Improvvisamente, l'opinione
pubblica mondiale, e quella europea in particolare, realizzano di essere strettamente connessi ed interdipendenti con
quanto sta accadendo al di là dell'oceano ed iniziano a temere per le sorti dei propri paesi e delle propri ricchezze
personali. L'Unione Europea tenta di reagire immediatamente e, nel Novembre 2008, pubblica la Comunicazione “Un
piano europeo di ripresa economica”, nella quale si sottolinea la necessità di utilizzare gli strumenti finanziari della
politica di Coesione ed, in particolare, i Fondi Strutturali, per rendere più efficace il sostegno ai territori in difficoltà, in
una chiave prospettica di rilancio dell'economia. Il Piano evocato dalla comunicazione (COM 2008 – n.800 del
26/11/2008) viene assunto quale quadro generale di riferimento per le Politiche del Consiglio Europeo del Dicembre
2008. Il tono della Comunicazione appare comunque ancora velato da un eccesso di ottimismo, soprattutto se riletto
col senno di poi: “Il contributo specifico dell'Unione europea consiste nella sua capacità di aiutare i partner a lavorare
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insieme. La gestione coordinata dell'azione degli Stati membri e della Comunità costituirà un potente strumento di
cambiamento, spianerà la via a un uso ottimale dei punti di forza di ogni parte dell'Europa e ci consentirà di definire la
risposta globale a questa crisi globale.”
Contemporaneamente la Commissione interviene per rendere più semplice ed immediato l'utilizzo dei Fondi
Strutturali, puntando ad una maggiore mobilitazione delle risorse provenienti dai Fondi stessi, attraverso un aumento
della quota di pre-finanziamento richiesto agli Stati Membri, che passa dal 7,5 al 15%. Si ampliano inoltre i termini per
la chiusura della rendicontazione delle spese sostenute nel periodo di programmazione 2000-2006, la cui data finale
viene spostata al 30 Giugno 2009 e con ciò concedendo ulteriori 6 mesi, alla possibilità di utilizzare fino in fondo le
risorse ancora disponibili.
Si apre quindi uno scenario nel quale, per la prima volta in modo così strutturale e programmato, le risorse
provenienti dai Fondi Strutturali assumono un ruolo diretto e di primo piano nel fronteggiamento di una crisi
sistemica. Fra i vari Fondi, quello che, per la sua natura e specificità, risultava più idoneo, più duttile e più versatile, nel
combattere contro gli effetti pervasivi e mortiferi della crisi che diventava di giorno in giorno più aggressiva e
preoccupante era, ed è, il Fondo Sociale Europeo.
Fermare, o quanto meno rallentare lo sviluppo della crisi, una volta finanziaria, ma via via sempre più economica,
diveniva necessità urgente e primaria, anche perché, nel frattempo, gli effetti in termini di incremento dei tassi di
disoccupazione, aumento dei licenziamenti, ridimensionamento o chiusura o fallimento di molte aziende, erano
sempre più evidenti e macroscopici.
I primi Enti a mobilitarsi in Italia sono state le Regioni e le Province autonome, i cui territori erano sempre più in
difficoltà, con situazione spesso di assoluta gravità, sociale ed economica. E' quindi partita un'azione molto tenace ed
efficace per utilizzare le risorse finanziarie della programmazione 2007-2013 (in realtà avviata effettivamente solo nel
2008) in funzione anti-crisi.
I Programmi Operativi Regionali, principalmente quelli finanziati attraverso il FSE, apparivano come gli strumenti più
flessibili ed immediatamente utilizzabili per combattere la situazione di grave difficoltà.
Si è quindi aperta una complessa, e per certi versi, almeno nei tempi, compressa, fase di negoziazione istituzionale, fra
le Regioni prima, fra Regioni e Governo successivamente ed infine fra Regioni, Governo e Commissione Europea.
Obiettivo era quello di trovare una strumentazione, all'interno del Fondo Sociale Europeo, che contemplasse e
contemperasse la necessità di intervenire efficacemente con azioni integrate, all'interno dei meccanismi e dei
regolamenti comunitari che normano il FSE, senza alterare le programmazioni regionali (pena la perdita di un tempo
che non era disponibile, e che sarebbe occorso per ottenere le necessarie approvazioni a livello nazionale e
comunitario) e nel rispetto della coerenza con le finalità del Fondo Sociale stesso.
La fase di definizione programmatica che ne è seguita ha prodotto la necessità di dipanare alcuni aspetti delicati e
problematici legati principalmente all'ammontare delle risorse da rendere disponibili ed alla regionalizzazione degli
interventi con la necessità di rispettare i vincoli di destinazione territoriale delle risorse finanziarie programmate.
La chiave di volta dell'intervento, l'arco portante dell'intera straordinaria azione di contrasto alla crisi, era dato
principalmente nell'utilizzo del Fondo Sociale Europeo a sostegno degli ammortizzatori sociali in deroga.
Era però necessario rispettare la ripartizione del FSE fra le singole Regioni o Province autonome per non ledere uno
dei pilastri fondamentali della programmazione europea.
Si è quindi pervenuti ad una fase di negoziazione fra Regioni e Governo per definire l'entità dei rispettivi conferimenti
e trovare l'equilibrio di una ripartizione condivisa a tutti i livelli. Il riparto è stato costruito su due indicatori: il numero
dei potenziali beneficiari e la capacità di reinserimento nel mondo del lavoro.
Il risultato finale ha visto la definizione di un accordo, del valore complessivo di 8 miliardi di euro, dei quali poco meno
del 30% (circa 2.150 milioni di euro) provenienti dai Programmi Operativi Regionali FSE. La restante quota nazionale è
stata prelevata dal FAS (circa 4 miliardi) e da leggi nazionali per il residuo. Il 12 Febbraio 2009 veniva sottoscritto, da
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Governo e Regioni, “l'Accordo per la gestione di interventi di sostegno al reddito e di politiche attive mediante risorse
nazionali e Fondo Sociale Europeo”. Tale accordo è stato poi al centro di una lunga fase di confronto con la
Commissione Europea, che ha esaminato, emendato ed infine accettato la proposta sull'impianto generale
dell'intervento da porre in atto, da parte del Ministero del Lavoro e dalle Regioni stesse.
La Commissione ha infine dato il placet sull'accordo che è stato definitivamente e formalmente ufficializzato con il
Decreto Interministeriale n. 46449 del 7 Luglio 2009 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 1° Agosto 2009.
USO E RIPROGRAMMAZIONE DEL FONDO SOCIALE EUROPEO
Alla data del 31 Dicembre 2003, i pagamenti effettuati dalle amministrazioni italiane che gestivano i fondi strutturali
erano pari al 16,06% delle somme complessive. Alla data del 31 Dicembre 2010, per quanto riguarda la
programmazione 2007-2013, i pagamenti effettuati sui PON e sui POR, erano invece pari al 7,4%. Un crollo, di quasi 9
punti percentuali, che vedeva ridurre a meno del 50% del corrispondente periodo precedente le spese realmente
effettuate.
La situazione, all'inizio del 2011, era estremamente preoccupante e si profilava all'orizzonte la minaccia di un pesante
disimpegno dei fondi strutturali disponibili per l'Italia, in forza dei meccanismi europei che regolano l'utilizzo del
Fondo Sociale e degli altri fondi strutturali.
Per fronteggiare le conseguenze di questo imminente smobilizzo di una parte consistente delle risorse disponibili per
la programmazione regionale, interregionale e nazionale è stata avviata una lunga e complessa fase di negoziazioni e
di predisposizione di atti formali relativi, dei quali ripercorreremo velocemente origine ed evoluzione.
Il primo passo operativo è stato avviato con la delibera CIPE 1/2011, dell'11 Gennaio 2011, nella quale si stabiliscono
“indirizzi ed orientamenti per l'accelerazione degli interventi cofinanziati dai Fondi Strutturali 2007-2013, e la
conseguente eventuale riprogrammazione dei Programmi Operativi, anche al fine di evitare il disimpegno
automatico.”
La delibera CIPE prende atto del grave ritardo con cui sta procedendo l'avanzamento di gran parte dei Programmi
Operativi ed interviene per favorire la riprogrammazione dei fondi, la ridefinizione delle priorità strategiche ed
introduce, per gli interventi prioritari e/o di maggiore complessità, lo strumento del “Contratto istituzionale di
sviluppo”. La delibera CIPE 1/2011 recepisce, inoltre, le priorità strategiche del Piano Nazionale per il Sud.
Nei mesi successivi, l'allora Ministro agli Affari Regionali ed alla Coesione Sociale, Raffaele Fitto, ha portato avanti con
le Regioni il processo di definizione e condivisione delle modalità operative di quanto previsto dalla citata delibera
CIPE. Il risultato finale è stata la prima versione del Piano di Azione Coesione, inviato il 15 novembre dello scorso anno
al Commissario Europeo per la Politica Regionale, che prevedeva il seguente obiettivo: “Definire e attuare la revisione
strategica dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013, al fine di accelerarne l’attuazione e migliorarne
l’efficacia. Tale revisione risponde alle Raccomandazioni del Consiglio del 12 luglio 2011 sul Programma Nazionale di
Riforma dell’Italia (punto 6). Essa si basa su una più forte concentrazione dei Programmi sugli investimenti
maggiormente in grado di rilanciare la competitività e la crescita del Paese, segnatamente intervenendo sul potenziale
non utilizzato nel Sud, e su un più stringente orientamento delle azioni ai risultati.”
Il Piano di Azione, a quella data, individuava obiettivi, contenuti e modalità operative per la revisione dei programmi
cofinanziati dai fondi strutturali nel ciclo 2007-2013, definendo come settori prioritari strategici: l'Istruzione, la Banda
Larga, l'Occupazione, i Trasporti ed infine Reti e Ferrovie. Veniva inoltre istituito un Gruppo di Azione, al quale
partecipavano rappresentanti del DPS del Ministero dell’Economia e della Commissione Europea ed al quale venivano
chiamati ad intervenire, su tematiche puntuali, rappresentanti dei soggetti titolari delle singole linee di azione
individuate nel documento.
Nelle settimane successive, con il subentro del Governo Monti e la nomina di Fabrizio Barca quale Ministro per la
Coesione Territoriale, l'azione è continuata in maniera molto sostenuta. In particolare, il 6 Dicembre 2011, il Ministro
Barca, in un'audizione parlamentare, ha presentato una Relazione denominata: “La Coesione Territoriale in Italia alla
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fine del 2011”. La Relazione, con toni niente affatto rassicuranti, poneva in evidenza lo stato di difficoltà in cui
versava la capacità degli Enti preposti, di utilizzare adeguatamente le ingenti risorse messe loro a disposizione.
L'incipit dell'intervento del Ministro metteva subito in evidenza la chiave della problematica strutturale da affrontare:
il Sud: “Il ritardo strutturale del Sud condiziona in modo evidente anche la congiuntura. Al divario col Centro Nord in
termini di reddito, stazionario da un cinquantennio, si accompagnano divari in tutti i servizi pubblici fondamentali per
la qualità della vita dei cittadini. L’insieme di questi servizi – da cui dipendono, ad un tempo, crescita e inclusione
sociale – configura l’agenda della politica per la coesione territoriale.”
Il 15 dicembre scorso il Governo e le Regioni meridionali hanno adottato la seconda versione del Piano d'Azione
Coesione, con il quale sono state individuate le azioni a favore delle quali vengono trasferite e concentrate le risorse
derivanti dalla revisione dei programmi cofinanziati, ovvero dalla riduzione mirata del cofinanziamento nazionale e
che assume il seguente nome “Piano di Azione Coesione per il miglioramento dei Servizi pubblici collettivi al sud”. Il
Piano viene quindi finalizzato all'accelerazione ed alla riprogrammazione dei fondi strutturali per il Mezzogiorno, per
un valore complessivo di circa 3,1 miliardi di euro, comprendendo la riprogrammazione e la riduzione del tasso di
cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali.
L’intervento si concentra in quattro delle cinque Regioni dell’Obiettivo Convergenza dove si registrano (con forti
differenze interne) i maggiori ritardi di attuazione. Partecipano alla realizzazione del Piano anche la Regione Sardegna
e la Regione Basilicata, con interventi relativi all’Agenda digitale, all’Occupazione e alle Reti. La possibilità di utilizzo
del Piano di Azione da parte di altre Regioni italiane è colta anche dalle Regioni Molise, limitatamente all’Agenda
Digitale e alla priorità “Occupazione”, ed Abruzzo per la sola priorità “Occupazione”.
Più recentemente, il 3 Febbraio 2012, viene presentato il primo aggiornamento del Piano di Azione Coesione che
delinea i primi progressi nell’avanzamento dell’attuazione e nel quale si dà quindi conto dei risultati fin qui ottenuti,
in particolare per le priorità istruzione, agenda digitale, occupazione e ferrovie. Nell’aggiornamento di Febbraio si
comunica che sono state anche avviate le analisi preliminari per l’estensione del Piano di Azione ad altri ambiti di
intervento affidati alla responsabilità delle amministrazioni centrali per i quali lo stato di attuazione e la stessa
necessità di rivedere priorità e linee di intervento alla luce dell’evoluzione del contesto economico e sociale
segnalano l’esigenza di una revisione della programmazione originariamente definita: assistenza tecnica e azioni di
sistema; innovazione e competitività; programmi operativi interregionali.
Nel documento del 15 dicembre era peraltro previsto, quale intervento in grado di rimuovere alcuni dei maggiori
ostacoli allo sviluppo e alla crescita regionale, un Programma straordinario di riforma della formazione
professionale in Sicilia, per il quale lo stesso Piano di azione prevede criteri di attuazione definiti e stringenti. Questo
intervento trova la sua piena definizione ed esplicazione nell’aggiornamento di Febbraio nel quale viene definito
“Programma straordinario per il lavoro in Sicilia: Opportunità Giovani”.
IL NUOVO CICLO DI PROGRAMMAZIONE
Il quadro relativo alla programmazione 2014-2020 è fortemente in evoluzione nel periodo nel quale questo rapporto
viene scritto e, nel corso del programma Spes-LAB, che accompagna la conclusione della precedente programmazione
e l’apertura della nuova, verrà debitamente monitorato in uno stretto rapporto con le Parti Economiche e Sociali.
Punto chiave nella costruzione del complesso della programmazione dei Fondi Strutturali per la nuova fase è la già
citata strategia “Europa 2020”, adottata il 3 marzo 2010.
Si possono identificare due documenti chiave per capire gli orientamenti della Commissione oltre alla Strategia Europa
2020: il nuovo Quadro Strategico Comune, che è il documento da cui successivamente discenderanno i Contratti di
Partenariato con gli Stati membri e a cascata i Programmi Operativi Nazionali e Regionali e il Regolamento Generale
dei Fondi (REG COM(2011) 615), a cui si integrano Regolamenti Specifici per FSE, FESR e Fondo di Coesione.
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Tali due documenti non trattano solo dei Fondi Strutturali (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, Fondo sociale
europeo, Fondo di Coesione), ma anche il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) e il Fondo Europeo
per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP).
Gli undici obiettivi dei Fondi, contenuti nell’allegato al documento di lavoro citato, ciascuno dotato di specifiche azioni
chiave, sono:
1. Rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione;
2. Migliorare l’accesso, l’utilizzo e la Qualità delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione;
3. Migliorare la competitività delle PMI, il settore dell’agricoltura (per il FEASR) e il settore della pesca e
dell'acquacoltura (per il FEAMP);
4. Supportare la transizione ad una economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori;
5. Promuovere l’adattamento al cambiamento climatico e la gestione e prevenzione dei rischi;
6. Proteggere l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse;
7. Promuovere il trasporto sostenibile e rimuovere le limitazioni nelle infrastrutture di rete chiave;
8. Promuovere l’occupazione e supportare la mobilità dei lavoratori;
9. Promuovere l’inclusione sociale e combattere la povertà
10. Investire in educazione, competenze e formazione lungo il corso della vita;
11. Rafforzare la capacità istituzionale e assicurare una pubblica amministrazione efficiente;
Budget:
La Commissione ha proposto un budget per la politica di coesione di 336 miliardi di euro, circa un terzo delle risorse.
La Commissione ha però modificato i precedenti obiettivi (Convergenza, Cooperazione Territoriale, Competitività
regionale ed Occupazione), in due nuovi obiettivi (Investimenti in favore della crescita e dell'occupazione,
Cooperazione territoriale europea) comuni a tutte le regioni e non più legati al territorio. Permane invece la divisione
geografica delle regioni in considerazione del rapporto percentuale delle stesse con la media del PIL europeo. In
particolare le regioni si divideranno in tre macrocategorie:
 meno sviluppate (PIL<75% della media UE);
 più sviluppate (PIL >90% della media UE);
 in transizione (con modalità semplificate rispetto all’attuale phasing in e phasing out e che le riassorbe)
Per ciascuna categoria di regione verranno stabilite quote minime di bilancio per l’FSE dalle quali risulta una quota
complessiva minima a favore dell’FSE pari al 25% del bilancio destinato alla politica di coesione, ossia 84 miliardi di
euro.
Simulando la situazione recente si evince che, in l’Italia, si collocheranno nella fascia delle Regioni meno sviluppate la
Calabria, la Campania, la Sicilia e la Puglia, mentre risulteranno appartenere alla fascia delle Regioni in Transizione, la
Sardegna, la Basilicata, l’Abruzzo e il Molise.
Considerando che la precedente programmazione, dotata di 347 miliardi di euro assegnava 283 mld. all’obiettivo
convergenza e 55 mld all’obiettivo competitività, si può desumere che, secondo la proposta della Commissione, le
Regioni meno sviluppate italiane assisteranno ad una riduzione della proprie risorse rispetto ai 21,6 miliardi della
precedente programmazione 2007-2013.
Le nuove procedure
In merito alle procedure è necessario rilevare il valore del concetto di condizionalità (artt 17, 18, 20, 22 del REG
COM(2011) 615) e di quello di flessibilità, i quali tenderanno a rendere maggiormente dinamico l’uso dei Fondi
Strutturali.
Dal punto di vista delle procedure, invece, il Regolamento si pone l’obiettivo di razionalizzare la gestione finanziaria e
il controllo, attraverso una maggiore responsabilizzazione degli Stati Membri. I programmi di modesta entità non
saranno soggetti alla valutazione della Commissione. L’approccio basato sul rischio riduce i costi amministrativi e
fornisce maggiore affidabilità, poiché le risorse della Commissione vengono impiegate in modo più efficiente e
indirizzate verso settori a più alto rischio. Inoltre la proposta prevede l’obbligo di chiusura annuale delle spese o degli
interventi completati nell’ambito della procedura annuale di liquidazione dei conti. In tal modo si riducono gli oneri a
carico dei singoli beneficiari derivanti da un lungo periodo di conservazione dei documenti e i rischi associati alla
perdita della pista di controllo.
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Per quanto attiene nello specifico il Fondo Sociale Europeo, il regolamento prevede quale priorità dello stesso il
raggiungimento di quattro obiettivi tematici degli undici complessivi:
1. Promuovere l’occupazione e sostenere la mobilità dei lavoratori;
2. Promuovere l’inclusione sociale e lottare contro la povertà;
3. Investire in istruzione, competenze e apprendimento permanente e
4. Migliorare la capacità istituzionale e garantire un’efficiente amministrazione pubblica.
Come la stessa Commissione afferma, per questi obiettivi è necessario:
 Rafforzare la concentrazione tematica
 Rafforzare il partenariato
 Rafforzare l’ innovazione sociale e la cooperazione transnazionale
 Rafforzare la concentrazione sui risultati
 Semplificare il sistema di esecuzione
 Aumentare l’utilizzo degli strumenti finanziari
L’APPROCCIO MULTI-FONDO NELLA NUOVA PROGRAMMAZIONE
Il tema di un approccio integrato tra le diverse azioni abilitate dai diversi Fondi Strutturali ha sempre accompagnato la
programmazione, con forme più o meno intense di flessibilità e possibilità di integrazione. A questo tema la già citata
proposta di regolamento per i fondi strutturali (FESR, FSE, Fondo di Coesione) e per il Fondo europeo agricolo per lo
sviluppo rurale e il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (REG COM(2011) 615) e lo stesso Documento di
Lavoro che sarà la base della discussione per il futuro Quadro Strategico Comune della nuova programmazione
dedicano ampio spazio.
Da rilevare innanzitutto la scelta di dotarsi di due strumenti di regolazione e programmazione unitari per i diversi
Fondi: il richiamato Regolamento e il Quadro Strategico Comune hanno infatti ad oggetto la totalità dei Fondi,
segnando una unità di gestione e approccio.
L’armonizzazione delle regole, è questo l’approccio della Commissione, abilita la programmazione integrata e la
costruzione di politiche multi-fondo. Se questo vale per tutti i Fondi, però, il Documento di Lavoro si concentra
sull’integrazione dei tre Fondi Strutturali.
Da tali disposizioni e dai vincoli e proposte di cui si discorrerà in seguito si evince con chiarezza che la sede di decisione
di un approccio integrato o multifondo è il Contratto di Partenariato siglato tra lo Stato Membro e la Commissione. La
responsabilità della scelta è quindi fortemente collocata nella sede nazionale e la sua operatività si esercita sul
territorio, a livello locale e subregionale, anche attraverso gli strumenti della Sviluppo locale realizzato dai soggetti
attivi a livello locale e degli Investimenti territoriali integrati per il FESR, il FSE e il Fondo di coesione.
Citando ancora il Documento di Lavoro, si coglie la centralità del ruolo nazionale da ciò che la Commissione, nel
Contratto di Partenariato, chiede agli Stati Membri per attuare politiche di integrazione, vale a dire




l'identificazione delle zone d'intervento nelle quali i Fondi del QSC possono collaborare in modo
complementare alla realizzazione degli obiettivi tematici enunciati nella proposta di regolamento recante
disposizioni comuni. Questo obiettivo può essere raggiunto mediante uno stretto coordinamento della
programmazione quadro di diversi programmi "monofondo". A titolo alternativo, gli Stati membri hanno la
facoltà di preparare e di attuare programmi "multifondo" che combinino il FESR, il FSE e il Fondo di
coesione in un programma unico;
il coinvolgimento delle autorità di gestione responsabili di uno dei Fondi, delle altre autorità di gestione e
ministeri interessati nello sviluppo di regimi di sostegno volti a favorire sinergie ed evitare i doppi impieghi;
l'eventuale creazione di comitati di monitoraggio congiunti per i programmi di esecuzione dei Fondi del QSC
e l'attuazione di altre misure di gestione e di controllo congiunte al fine di agevolare il coordinamento tra le
autorità incaricate dell'attuazione dei Fondi del QSC;
una maggiore utilizzazione di soluzioni comuni di governance online destinate ai richiedenti e ai beneficiari e
l’uso di "sportelli unici" in grado di fornire consigli sulle possibilità di sostegno da parte di tutti i Fondi del QSC;
ciò può contribuire in grande misura alla riduzione degli oneri amministrativi per i beneficiari.
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Come accennato il regolamento recante disposizioni comuni incorpora meccanismi volti a incoraggiare approcci di
programmazione integrati, ma sono sempre gli Stati membri e i contratti di partnership a definire come si ha
intenzione di utilizzare gli stessi per realizzare l'integrazione.
Due sono i meccanismi privilegiati per facilitare lo sviluppo degli approcci a livello locale e subregionale. Si tratta,
come detto, dello Sviluppo locale operato dagli attori locali e degli Investimenti territoriali integrati per il FESR, il FSE e
il Fondo di coesione.
La proposta di regolamento recante disposizioni comuni introduce inoltre nuovi meccanismi per incoraggiare lo
sviluppo di operazioni integrate. Ciò consente a un beneficiario unico di attuare congiuntamente un certo numero di
progetti a partire da diverse fonti dei Fondi del QSC e, in taluni casi, con altri strumenti dell'Unione.
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