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La mia “educazione sentimentale”
La mia “educazione sentimentale” Autobiografia resistenziale di Cesco Chinello A metà degli anni, novanta una giovane laureanda in storia, Vera Costantini, militante di Rifondazione, discutendo di politica se ne è uscita all’improvviso – una espressione quasi invidiosa – con un “fortunato te che hai fatto la Resistenza”1. Ho rimuginato nel tempo questa frase per una certa sua ambiguità – è proprio “fortuna” partecipare ad una lotta armata, per quanto la scelta sia volontaria? – ma insieme anche per la voglia che esprime di essere partecipe di processi storici fondanti, in critica aperta al tronfio pret-à-porter politico attuale. E alla fine anch’io debbo riconoscere di essere stato “fortunato” per aver partecipato alla Resistenza. Il primo salto, o passaggio, esistenziale e formativo è stato per me nella scuola, ma quello decisivo – ha dato il senso ai miei anni giovanili – si è attuato proprio nella Resistenza a cui è seguta naturaliter la “scelta di vita” nella militanza a tempo pieno nel Pci che poi ha dato significato a tutta la mia esistenza, anche quando ho partecipato, sin dagli anni sessanta e da sinistra, alla ricerca critica interna. Mi sono deciso a scrivere ora queste note strettamente autobiografiche – cronaca2 più che storia – perché alcuni amici, in particolare Mario Isnenghi, mi hanno fatto una certa pressione e anche perché, di questi tempi in cui la memoria fa troppo difetto per i miei gusti, mi pare giusto testimoniare su quello che, negli anni giovanili, mi ha animato e indotto ad agire. Rammento bene che una volta – a Turcato che mi mostrava una ennesima versione di uno dei suoi scritti memorialistici sulla Resistenza veneziana – ho chiesto se non gli sembrasse finalmente giunto il momento di por fine a tale tipo di scrittura per cominciare ad occuparsi invece di ricerca storica più approfondita e che mi ha risposto che anche la sua era ricerca storica, che anzi tale ricerca cominciava proprio da lì: non aveva tutti i torti e la mia tardiva ammenda, almeno in parte, s’invera in questo testo autobiografico. L’ho scritto poi anche perché i miei nipoti Federico e Uso Resistenza (al fascismo e al nazismo) con la R maiuscola per distinguerla dalla resistenza – per fare un esempio – del ferro da stiro. Del pari, uso Liberazione con la L maiuscola per indicare specificamente il giorno della liberazione dai fascisti e tedeschi. 2 Per tracciare un quadro autobiografico più contestualizzato, nel presente testo ho citato alcuni episodi già raccontati nella mia Introduzione a G. TURCATO, Frammenti autobiografici, in “Venetica”, a. XIV, terza serie, n. 3, Cierre, Verona 2000, pp. 143-187 o ricordati nel mio intervento in occasione dell’”Omaggio a Francesco Semi” all’Ateneo Veneto (18 dicembre 2000), ma non pubblicati. Chiedo venia per tali inevitabili ripetizioni. 1 2 Donata, quando avranno qualche anno di più, possano leggere pagine dirette del loro nonno di quando era studente e partigiano. L’arresto Il 10 aprile 1944 – un lunedì di Pasqua – sono stato arrestato dalla Guardia nazionale repubblicana (Gnr): nel pomeriggio un milite in borghese è venuto a casa mia, a S. Elena, invitandomi ad andare subito con lui in caserma per “chiarimenti”. Non si atteggiava a duro: non ha risposto negativamente alla mia richiesta di passare da un amico per ragioni di scuola: volevo informare Eugenio Pignatti – facevamo insieme attività propagandistica – della cosa capitatami per metterlo in guardia. Ma a casa sua mi hanno detto che era stato prelevato la mattina (ma nessuna della famiglia era venuto ad avvisarmi) e la stessa sorte, saprò dopo, era capitata anche a Cesare Dal Palù e ad Alberto Capisani, sempre del nostro giro di studenti. Era così evidente che non si trattava tanto di un “chiarimento”, ma di un problema ben più serio. Abbiamo attraversato tutta la città a piedi sino ad una caserma all’Angelo Raffaele, il milite sempre bonaccione. La Riva degli Schiavoni era inondata di sole, c’era molta gente per il giorno di festa. Ho pensato di fuggire nella confusione – vi era più di una possibilità – ma ho riflettuto anche che non avrei saputo dove andare: eravamo senza piani di fuga, anche per andare in montagna (erano saltati i contatti dell’autunno precedente attraverso cui avevamo mandato gente nelle formazioni, fra cui anche un mio amico). La clandestinità totale – al momento e in città – mi sarebbe stata praticamente impossibile per mancanza di un rifugio e di collegamenti per cui la prospettiva avrebbe potuto essere anche peggiore. Ero in un momento di passaggio nella mia partecipazione alla Resistenza: dal gruppo di studenti con cui avevo operato sinora, ma con il limite dell’improvvisazione e della faciloneria, all’organizzazione comunista, con Giuseppe Turcato. Un mese prima, ai primi di marzo, gli avevo chiesto infatti di aderire al Pci: se ci dovevano anche essere tempi d’attesa per via della candidatura che tutti i nuovi dovevano fare – così erano le regole –, limitato era stato pure il periodo per inserirmi nel nuovo contesto. Non mi sembravano possibili, dunque, vie di fuga in queste condizioni. Tuttora resto convinto di non aver ragionato male, anche col senno di poi. All’Angelo Raffaele – senza chiedermi o dirmi nulla – mi hanno messo in una cella non molto grande, con un tavolaccio che occupava metà dello spazio: avevo freddo e facevo fatica a deglutire, ho dormito poco. Alla mattina presto – ma non avevo orologio – è venuto uno in borghese a prendermi. Saprò dopo che si trattava di Ernani Cafiero - scherano di Waifro Zani, l’ufficiale della Gnr addetto agli interrogatori degli antifascisti, entrambi condannati a morte, dopo la Liberazione, dalla Corte d’assise straordinaria di Venezia3 -: aveva una rivoltella in mano (se ricordo bene una P 38 tedesca), allo scoperto, e mi ha detto freddamente “attento che sparo, senz’avviso”4. Mi ha M. BORGHI – A. REBERSCHEGG, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia (1945/47), Comune di Venezia, 1999, pp. 108-110. 4 Solo più tardi capirò quanto questo avvertimento fosse per niente astratto: infatti Cafiero, in gioventù era stato uno squadrista dei “Cavalieri della morte”, comandati da Gino Covre, arrestato e accusato, insieme ad un suo ‘collega’, per l’assassino del portuale Bernardo Borile in fondamenta dei Carmini nel maggio 1922 (cfr. G. ALBANESE, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001, p. 192) e difeso “sulla stampa oltre che in tribunale” (ib., p. 194) niente meno che da Piero Marsich; sarà poi anche l’esecutore del colpo alla nuca, oltre che di altri, di G. Tramontin, sfuggito per miracolo alla morte e, 3 3 condotto, sempre a piedi, a Ca’ Giustinian, sede della Gnr dove Zani aveva il suo ufficio. Ho il preciso ricordo di aver visto, durante il tragitto, sui muri, i manifesti di Ossessione di Luchino Visconti al San Marco (o al Rossini): ne avevo sentito parlare da alcuni miei amici come di un film assolutamente da vedere. Intanto, di passaggio, in una stanza avevo intravisto Pignatti, ma non ho potuto parlargli. Al mio turno, Zani – una rivoltella sul tavolo – ha cominciato l’interrogatorio. Durante la notte avevo pensato a questa evenienza e al come dovevo o potevo farvi fronte. Saprò solo dopo che nell’organizzazione comunista il metodo era quello – per principio – di negare tutto, anche l’evidenza: ma allora nessuno me l’aveva detto e io non avevo la minima idea di cosa significasse la militanza comunista, il tribunale speciale, le condanne a vent’anni o trenta, il confino, la domanda di grazia come resa. Mi sono arrangiato come ho potuto, senza esperienza alcuna che si congiungeva ad una certa qual fierezza giovanile per l’attività svolta nella mia scuola – al ‘Benedetti’, il liceo scientifico veneziano – dove tutti sapevano come la pensavo. Ero stato uno dei promotori – improvvisatomi sul momento, come gli altri – subito dopo l’8 settembre, all’arrivo dei tedeschi a Venezia, di una manifestazione studentesca in campo S. Giustina, nel primo pomeriggio, durante la quale abbiamo cantato a squarciagola “Va fuori stranier” e gridato slogan contro nazisti e fascisti. Verso sera, in piazza S. Marco, abbiamo visto un gruppetto di ufficiali tedeschi in divisa che ammiravano la Torre dell’orologio: senza premeditazione – sospinto irrazionalmente al gesto – ho sputato sulla punta degli stivali di uno di loro. L’ufficiale ha avuto come un gesto di stupore ed io, subito, riconquistata la ragione, me la sono data a gambe nel dedalo di calli e callette. A scuola, reagivo d’istinto ai predicozzi fascisti del professore di disegno: spaccavo la matita, tossivo forte o guardavo per aria. Ero cioè consapevole dei miei comportamenti: non li potevo negare e qualcosa loro certamente sapevano, se mi avevano arrestato. Anche perché, a fare il mio nome e quello degli altri, come saprò subito dopo, era stato Pignatti: i suoi poi hanno tenuto a spiegarmi che lo aveva fatto, su loro insistenza, perché era molto ammalato e non poteva assolutamente passare neanche un giorno in carcere e infatti è morto qualche anno dopo la Liberazione, credo proprio di tubercolosi. Eugenio era un giovane disponibile e colto, amante della musica: a casa sua ho ascoltato i primi dischi di musica classica. Aveva una particolare passione per un pezzo suonato da Menuhin che abbiamo ascoltato molte volte ma di cui poi non ricordavo più né autore né titolo. Qualche anno fa – verso la fine degli anni novanta – una mattina a Radio3, inopinatamente ho risentito e immediatamente riconosciuto con qualche emozione quel pezzo – un concerto di Max Bruch – di cui mi sono subito procurato il CD5 per poterlo riascoltare per la musica, per il violino superbo ma anche per un ripercorso di memoria. A Pignatti non gliene abbiamo mai voluto: anche lui era alle sue prime prove, senza esperienza e in una condizione di gran lunga peggiore delle nostre. Non era del nostro gruppo originario, ma inserito più tardi con altri che poi hanno anche subito l’intrusione di una spia di Zani – Sudessi, per finire, membro del plotone di esecuzione dei 13 a Ca’ Giustinian, come si dirà più avanti e come risulta dalla citata sentenza della Corte d’assise straordinaria di Venezia. Sinistro e a suo modo coerente itinerario di un ‘fascista della “prima ora”. 5 M. BRUCH, Violin Concerto No. 1 in G minor, Op. 26†, violino Yehudi Menuhin, Emi Records Ltd, 1993. 4 un giovane di cui non ricordo il nome e che abitava dietro la Toletta, fra l’Accademia e S. Barnaba – che, poco furbescamente dal suo punto di vista, li aveva subito denunciati senza tentare di scoprire di più sulla rete. Questo Sudessi l’ho poi ritrovato in carcere, dove si era fatto rinchiudere per continuare a fare la spia sperando di giocare sull’ingenuità e inesperienza dei giovani, ma senza concludere nulla, ché tutti comunque erano stati messi subito sull’avviso. In questa condizione ho cominciato con lo spiegare a Zani – del resto con molta ingenuità, un po’ finta e un po’ no – che non tutti la potevano pensare allo stesso modo, che molti studenti erano contro i tedeschi per tradizione e, in breve, che avevo solo distribuito dei volantini con due persone (che sapevo già essere al sicuro). Naturalmente quel poco non l’ho detto di colpo, ma nel corso di tre interrogatori, ogni volta aggiungendo qualche particolare, più o meno inventato o adattato sul momento: hanno fatto i controlli, hanno riscontrato che queste due persone esistevano ma non erano a Venezia. La loro spia non aveva poi saputo portare nulla di significativo anche perché, in definitiva, non avevano grandi mezzi d’indagine né le tecniche adatte. Zani voleva farmi dire qualcos’altro, ma io avevo detto tutto quello che potevo dire senza danneggiare altri e non insistette molto, ché probabilmente pensava – non a torto in quel momento - che non saremmo stati in grado di fare di più. Mi hanno così portato a S. Maria Maggiore, cella n. 91 dove, dopo qualche settimana, mi hanno consegnato una carta in cui mi si comunicava che ero stato condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello stato a due anni di carcere per “propaganda e associazione sovversiva” insieme a Dal Palù e Capisani6. Cominciava così la mia vita di carcerato, dopo le formalità dell’entrata: le impronte digitali, la consegna della cintura dei pantaloni e delle lacci della scarpe e l’assegnazione di gavetta e cucchiaio, oltre che di una coperta e di due lenzuola. Quando mi hanno chiuso in cella, sbattendo violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci – il senso fisico della separazione – rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso: era solo un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura e la situazione nuova. Avevo diciannove anni e non ero mai rimasto fuori di casa: non tanto paradossalmente, alla fine, questo sfogo ha funzionato come superamento del momento di crisi aiutandomi ad affrontare la situazione con la dovuta fermezza. Ne ho passate molte, in carcere, ma non ho più pianto se non quando, dopo la Liberazione, ho assistito, nel cimitero di S. Michele, alla riesumazione dei corpi dei 13 di Ca’ Giustinian per essere ricomposti, trasportati e sepolti con una grande cerimonia popolare nel cimitero di S. Donà di Piave, in una apposita tomba collettiva. Anzi, per molti versi, in carcere mi sono indurito. Addirittura ho fatto un passo per me importante: sono entrato cattolico e praticante e ne sono uscito ateo. Il cappellano di S. Maria Maggiore, don Marcello Dell’Andrea, era una amabilissima persona, antifascista convinto, ci aiutava in tutto, comprese le comunicazioni con l’esterno rischiando grosso e senza mai chiederci nulla in cambio, tanto meno sul piano religioso, e il parroco di S. Elena mi mandava i mozziconi delle candele della sua chiesa perché potessi leggere la sera, visto che chiudevano presto la luce, anche lui senza chiedermi nulla, ed io ho avuto sempre molta riconoscenza per questa loro 5 solidarietà concreta. Ma a dio non credevo più: per me non aveva proprio più senso, per come andava il mondo e soprattutto per bisogno di razionalità. Non è stata un’abiura, ma un abbandono tranquillo, quasi scontato. Me ne è rimasto anche un ricordo materiale: in una delle prime celle ho trovato un crocefisso – quelli soliti di legno e in lega di una volta, sui venti centimetri – che poi mi sono portato dietro e nel cui rovescio scrivevo man mano, a penna con inchiostro, il numero della cella: Alla fine la scritta è risultata così: W L’Italia / Arrestato politico 10/4/44 / celle 91 – 66 – 60 – 62 – 110 – 101 – T 13 – 130 – 163 – 13 – 165 – 158 / S. Maria Maggiore – Carcere di Venezia – Trovato nella cella n. 66 / Portato nelle celle n. 66 – 60 – 62 – 140 – 101 – T 13 – 130 – 163 –73 – 165 – 158 – 47. Quando sono uscito me lo sono portato a casa e l’ho riposto per poi dimenticarmene completamente. Due anni fa, sgomberando la casa dopo la morte di mia madre, l’ho ritrovato nel fondo di un cassetto della mia vecchia scrivania di studente, e ho provato una certa emozione rivedere quella fila di numeri di celle praticate a S. Maria Maggiore. Non l’ho buttato via, come per istinto stavo per fare, e lo conservo tuttora come una doppia memoria, del carcere e della ex fede. Sono arrivato a S. Maria Maggiore nel primo pomeriggio: non avevo fame, anche se erano quattro giorni che non avevo praticamente toccato cibo (mi avevano dato qualche pezzo di pane in un passaggio che mi avevano fatto fare nella caserma ai Gesuiti). Solo la mattina dopo un bicchiere di brodaglia nerastra come caffè e verso mezzogiorno pane e una specie di minestra di rape. I primi giorni li ho passati in isolamento – solo in una cella, cinque passi per tre – senza neanche un libro o un giornale e senza un pezzo di carta e una matita: in pura contemplazione dei muri, delle inferriate e della bocca di lupo, dal di sotto per poter vedere una sottilissima striscia di cielo. Con la sola compagnia delle cimici. Alla mattina – unica forma di socializzazione carceraria e di movimento fisico – c’era un’ora di aria nei cortiletti insieme a gruppi di altri detenuti, frammischiati fra comuni e politici (allora non era fatta distinzione: per l’autorità si trattava in ogni caso di criminalità comune). Ė stato in una di queste prime mattine di aria che ho incontrato Francesco Biancotto – un operaio diciottenne – in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato – probabilmente mi avrà visto un po’ stordito – e mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello. Sono stato impressionato ma anche rallegrato: non mi sentivo più solo e ho fumato così la mia prima sigaretta e non ho più smesso per vent’anni, con più di qualche conseguenza nefasta. Poi anche da casa me ne hanno portato senza farmi tante prediche, ma anche il Cln – attraverso il cappellano – ci ha fatto pervenire del tabacco (immagino sia stato per iniziativa di Turcato), ma poi sono arrivato anche a fumare la paglia del materasso avvolta in carta da giornale (come, del resto molti altri) diventando un esperto arrotolatore di sigarette con le dita. Qualche settimana dopo, finito l’isolamento e non ISTITUTO VENEZIANO PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA (IVESER), Fondo C. Chinello, 6/10/1944, Tribunale speciale per la difesa dello stato, "Estratto di condanna", manoscritto su modulo, B. 1, fasc. 1 7 Non so ora spiegare la differenza delle due serie di numeri. 6 6 ricordo proprio come, mi sono ritrovato in cella con Biancotto e con Gianfranco Gramola, uno studente di Schio all’Accademia delle belle arti, allievo di Elena Bassi, arrestato per le stesse mie ragioni. Un piccolo sodalizio che ricordo ancora con suggestione. Ma quell’isolamento non mi pesava: a distanza di tanti anni non ricordo come avvenne, ma nel tempo ho interiorizzato che mi è servito a fare un po’ di conti con me stesso. Mi trovavo molto cambiato, per certi aspetti non mi riconoscevo quasi più rispetto a solo qualche anno prima. Praticamente ero in carcere quasi per mia scelta: non che lo avessi cercato, ovviamente, ma avevo messo in conto che mi poteva capitare qualcosa, anche se certe efferatezze di repubblichini e nazisti dovevamo ancora conoscerle. Stavo facendo l’ultimo anno di liceo scientifico, al Benedetti di Venezia: avevo imparato a leggere e a studiare piuttosto seriamente. Stimavo moltissimo alcuni professori che mi avevano aperto gli occhi in tutti i sensi. Guardavo ora gli avvenimenti terribili del fascismo/nazismo e della guerra sentendomi fortemente coinvolto e in dovere di fare qualcosa per la “libertà”. Avevo imparato ad assaporare questa parola, a declinarla nei vari significati, ne cominciavo a capire gli aspetti concreti nei diritti inalienabili che ci erano stati strappati a forza e di cui bisognava riappropriarci: un “noi” collettivo di cui non mi chiedevo come e da cosa potesse originarsi, ma che avvertivo necessario come l’aria e di cui percepivo in qualche modo il suo farsi in atto. Avevo avuto anch’io la mia passioncella per Croce e il “liberalismo” come traslazione politica della libertà, come “fondamento morale di tutti i programmi”, ché ne avevo potuto leggerne qualcosa alla Marciana o alla Querini (La teoria della libertà del 1939 e il classico La storia come pensiero e come azione del 1938): soprattutto ai tanti giovani di scarse letture storiche e politiche come ero io, nel deserto del fascismo, in quei primi anni quaranta Croce appariva come “il faro della libertà”. Appunto, fantasticherie giovanili in mancanza d’altro in grado di fare i conti con la complessità sociale e storica, come comincerà ad apparirmi il problema solo pochi mesi dopo: il passaggio da “La storia come storia della libertà”8 a “La storia […] è storia di lotte di classi”9 mi è stato naturale, tutt’altro che difficile. Ripercorsi di vita Mio padre era un impiegato statale, postelegrafonico. Aveva fatto la grande guerra – prima infermiere in un ospedale da campo a Tai di Cadore e poi, dal gennaio 1917, soldato di un reparto del 52° reggimento di fanteria sulla Marmolada – ed era stato ferito a un piede nell’agosto 1917 sul Col di Lana. Proveniva dalle campagne del Piovese, in provincia di Padova, da numerosa famiglia contadina fittavola di un non grande appezzamento di terra. Negli ospedali di guerra e poi nella “Casa di rieducazione” di Padova aveva frequentato i corsi, prima, “elementari” e poi “Postelegrafonico – Sezione Telegrafonica” per mutilati e invalidi di guerra ricavandone le relative idoneità e successivamente assunto in servizio e sistemato in ruolo a Rovigo nel maggio 1922 e trasferito a Venezia nel novembre 1923, giusto un mese prima di sposarsi con mia madre e acquisire la cittadinanza veneziana nel luglio 1924. Iscritto più tardi per obbligo al Pnf, come 8 9 B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, p. 46. K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1948, p. 94. 7 d’uso, mugugnava contro, soprattutto quando, a metà degli anni trenta, gli avevano ridotto lo stipendio, come del resto il regime aveva decretato per tutti i dipendenti pubblici e privati10. Mugugnava, ma senza commenti, ed io non li capivo se non come brontolamenti contro la durezza dei tempi. Aveva anche aderito per tempo ad una cooperativa edilizia per mutilati di guerra (credo le uniche cooperative permesse dal fascismo), aveva resistito come socio in certi momenti difficili e alla fine erano riusciti a portare a termine il progetto e, con la concessione di un mutuo, a costruirsi un gruppo di belle – almeno per i tempi – case a S. Elena, dove siamo andati ad abitare nel 1930, lasciando quella in affitto a S. Stae di cui ricordo solo una terrazza dove mi hanno fatto una foto che ancora conservo. Avevo cinque anni e i miei mi hanno fatto subito fare, in anticipo per non “perdere l’anno” (ero nato in gennaio), la prima elementare dalle suore – la prima vicinanza alla chiesa: la scuola contigua ai muri della chiesa attraverso un chiostro – per poi passare, in seconda, alla scuola pubblica, alla Gaspare Gozzi in via Garibaldi: il ricordo vivido di questa prima elementare è l’infinita serie di aste che quelle buone suore mi obbligavano a fare. Ho una fotografia della mia classe alla Gozzi: mi si vede un po’ grassottello e un po’ stranito in mezzo ad altri straniti. Ho avuto una maestra in seconda e in terza - si chiamava Leandro – di cui ricordo ancora i tratti del viso, sempre gentile e premurosa con noi. Nei due anni successivi ho avuto un maestro, Galvani, piuttosto burbero, padre di una signora che abitava al pianterreno della mia stessa casa: una volta mi ha incolpato ingiustamente di aver fatto una bricconata in classe – non ricordo cosa, forse un dispetto ad un compagno – ma che proprio non avevo compiuto, anche perché ero molto timido e arrossivo per niente. E nonostante le molte spiegazioni, anche successive, è rimasto sempre cocciutamente convinto che ero stato io. La ricordo tuttora come la prima ingiustizia patita. Forse per ingraziarselo, i miei mi hanno mandato a ripetizione per qualche tempo da sua figlia, pure maestra, dalle parti di Campo Ruga ma non mi ricordo grandi risultati. Non ho grandi reminiscenze di questi primi anni a S. Elena: i giochi e le corse sottocasa, in campo – allora campo Vittorio Emanuele, campo Indipendenza durante la repubblica di Salò e campo Marco Stringari dopo la Liberazione - o in riviera e le amicizie con gli altri ragazzi, piuttosto occasionali. Frequentavo in parrocchia la dottrina per la prima comunione che ricordo ancora in una giornata di pioggia, nel maggio del ’32 o ’33, con la tazza di cioccolata calda offerta dal parroco, insieme alla cresima nella basilica di S. Marco e l’orologio da taschino Omega con la catenella d’oro regalatomi dal padrino. Per qualche tempo ho gironzolato intorno a quel chiostro di frati, forse perché non riuscivo a legare troppo con gli altri ragazzi. Mio padre non andava in chiesa: diceva che da piccolo aveva servito tante messe, e consumato così le ginocchia, da aver saldato il conto per tutta la vita. Mia madre invece andava a messa, normalmente religiosa, ma era soprattutto paga di avere una casa a riscatto, che sarebbe diventata poi nostra, come infatti è avvenuto con non molti soldi subito dopo la guerra, grazie – in questo caso – all’inflazione. In casa tutto era misurato, al centesimo: ho una distinta memoria dei lunghi pensamenti e dei conti prima di comprare anche un paio di scarpe o la legna e il carbone per l’inverno. Amministrava, appunto, mia madre con 10 G. TONIOLO, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 189. 8 grande parsimonia uno stipendio fisso – come risulta dalle carte di mio padre, pari nel 1933 a 667 lire mensili lorde (8.008 annuali, sempre lorde: 6.424 di “stipendio annuo” più 1.584 di supplemento di “servizio attivo”) – appena sufficiente, e con non pochi stratagemmi, per lo strettamente necessario: era impossibile fare risparmio (fra le carte di mio padre è anche segnato più di qualche prestito o “cessione del quinto” fatta dall’Amministrazione). Mia madre era nata all’alba del Novecento, il 31 gennaio, ed è morta nei primi giorni del 1997, esausta dai molti acciacchi di una lunghissima vecchiaia, anche se lucida e relativamente attiva negli ultimi anni: ma faceva tre piani di scale quasi ogni giorno. Era sopravissuta alla spagnola verso la fine della prima guerra mondiale e forse anche questo l’avrà in qualche modo immunizzata, se ha vissuto tanto a lungo. Ha patito come una tragedia la morte improvvisa di mio padre nel 1953 e ha passato una lunga vita senza grandi relazioni. Una sola volta, dal modo come me lo ha raccontato, l’ho sentita molto eccitata: quando fu lei a rispondere al telefono a Sandro Pertini, allora Presidente della Camera, che chiedeva mie notizie – ero deputato – dopo le manganellate prese sulla testa dalla Celere a Marghera, una mattina dei primi di luglio del 1970 durante la lotta delle imprese. Della mia attività resistenziale, ovviamente, in casa non raccontavo niente: mia madre aveva capito perfettamente, tanto che non è stata sorpresa del mio arresto e mai mi ha detto una qualche parola di rimprovero per gli affanni che avevo portato in famiglia. Mi aiuterà anche dopo il carcere in tutti i modi possibili e continuerà a non chiedermi nulla e senza mai raccomandarmi qualcosa: penso si fidasse del mio senso della misura. Così anche mio padre, diventato presto decisamente antifascista. Faceva i turni al telegrafo, all’ultimo piano del palazzo delle Poste a S. Bortolomeo, comprese le notti: si portava una valigetta con il pranzo o la cena. Lo sentivo talvolta di notte, quando tornava, sbattere il bastone salendo pesantemente le scale, il piede ferito facendogli sempre male. Come hobby, gli piaceva aggiustare le scarpe – aveva tutti gli attrezzi del calzolaio – e vi dedicava molto del tempo libero, oltre che curare l’orto per la verdura e l’uva da tavola. Tra le sue carte che ho trovato in un cassetto, c’è persino un permesso del Comune, rilasciato subito dopo la Liberazione, per “tenere non più di N. 6 galline” nell’orto. Non era molto ciarliero e non dava troppe confidenze ai figli, come era d’uso nelle campagne. Non aveva molti amici a Venezia, solo colleghi di ufficio e aveva nostalgia del suo paese dove andava appena poteva: a lui, e a queste sue conoscenze e amicizie in campagna, dobbiamo se non abbiamo mai patito veramente la fame durante la guerra. D’estate, sin da bambini, sempre ci portava per un mese o due dai parenti suoi o, il più delle volte, da quelli di mia madre e poi veniva a trovarci ogni settimana, si faceva prestare una carrozza con cavallo da un suo amico e ci portava a fare lunghi giri per le strade interne, fra i campi, o a visitare parenti. Una solo volta - nella seconda metà degli anni trenta – siamo andati in montagna, ‘in villeggiatura’ per quindici giorni a Montagnaga di Pinè, in Trentino: si scendeva dal treno a Pergine e poi ‘in automobile’ – per usare l’idioma del tempo - si saliva sino al paese. Un avvenimento dovuto a non so più che cosa e che mia madre mitizzava sempre nei racconti famigliari: credo il viaggio più lungo della sua vita. Ho ancora memoria di quella vecchia casa in cui i miei avevano presa una stanza in affitto con comodo di cucina: sulla facciata c’era una lapide 9 in marmo in cui era inciso che Cesare Battisti vi era passato, o vi aveva dormito. Ricordo ancora i bagni fatti nel vicino lago di Baselga un po’ melmoso e, più in particolare, il viaggio, sempre ‘in automobile’, a Trento con relativa visita al castello del Buon Consiglio dove appunto Cesare Battisti era stato impiccato dagli austriaci. Anche per me è stato il primo vero viaggio, la prima volta che vedevo le montagne. Qualche tempo prima, con una gita organizzata dal dopolavoro dei postelegrafonici, eravamo stati a Torreglia, sui colli Euganei che mi erano apparsi enormi e ignoti come le Ande di cui leggevo con molta trepidazione su Cuore, ma neanche a confronto poi con queste vere montagne. Ma io conservo soprattutto il ricordo piacevole e nostalgico di quei mesi estivi in campagna: il verde, gli alberi, la frutta abbondante, i fichi dolcissimi presi sull’albero, le ‘sante rose’ d’un sapore che poi non sono più riuscito a ritrovare, i pomodori succulenti del “brolo” di mio nonno, le lunghe distese dei campi di grano, la terra tiepida sui piedi appena dopo l’aratura. Le lunghe corse in bicicletta e alla sera il bagno nella tinozza con l’acqua riscaldata al sole durante tutta la giornata. A casa di mia nonna materna – a Celeseo – dormivamo in un letto che aveva come materasso un grande ‘pagiaro’ – così, se non ricordo male, lo chiamavano – fatto con le foglie secche delle pannocchie con relativo scricchiolio quando ci si rigirava. Mia nonna, piccola di statura e mingherlina, la domenica si alzava prima dell’alba, si vestiva tutta di nero, con lo scialle, e la ciabatte pure nere e tutte lustre, a si avviava a piedi – più o meno due chilometri di stradone bianco – per andare alla “messa prima”, nell’Arcipretale in piazza, a S. Angelo di Piove di Sacco, per poi ritornare sempre a piedi e fare colazione – polenta e latte che forniva una famiglia con la stalla dall’altro lato della strada – quando noi ci alzavamo. Ricordo ancora come faceva la polenta sopra il fuoco di legna, lo scalare degli anelli della catena, il ritmo lento e misurato dei colpi del mescolamento, il ribaltamento sul grande tagliere, persino le ‘croste’ bruciacchiate e calde strappate col cucchiaio dal fondo della ‘caldiera’ di rame. Una mia zia – la portalettere del paese – pure abitava in questa casa, aveva una figlia ma non era sposata: era la mia delizia. Alla mattina, sino al primo pomeriggio, si macinava non so quanti chilometri di bicicletta – con sole, pioggia o vento – per distribuire la posta per tutte le ‘contrà’. Alle sera, sempre giovanile, fascinosa, spesso ci raccontava delle storie inventate, talvolta cantava con passione Una notte a Madera e fumava qualche sigaretta, allegra e piena di vita. Ogni tanto si vestiva a festa, si profumava, e in bicicletta – misteriosa – andava a Padova chissà per quali incontri segreti, o almeno così si sussurra in casa. Una volta – avrò avuto sei o sette anni e pesavo non poco – mi ha portato, seduto sul manubrio della bicicletta, a Padova, pedalando per 12 km e più, per farmi visitare la basilica di S. Antonio. Ė morta due anni fa, a 93 anni, piena di acciacchi e di dolori per tutti i reumatismi e le artriti prese nei lunghissimi anni del suo lavoro di postina. Mio nonno paterno – diventato mezzadro - abitava con due dei suoi numerosi figli, non sposati, in una grande casa padronale a Campagnola di Brugine: aveva da curare un grande orto, alcuni campi con le colture tradizionali e il vigneto e tenere in sesto appunto la casa, grandissima a due piani e con un grande salone dove facevo le corse in bicicletta, come in una pista. Al pianterreno c’era una saletta, credo del figlio del padrone – ma non ho mai visto qualcuno di loro – ben ammobiliata dove c’era un pianoforte su cui mi divertivo spesso a strimpellare a casaccio. 10 Sopra il pianoforte, e in un armadio vicino, era accatastata un’enorme quantità di partiture stampate di ogni sorta di canzoni (credo fossero spartiti per orchestrine) la cui prima pagina era stampata con volti, rami di foglie e fiori e grandi caratteri liberty. La sera, un ‘moroso’ veniva a trovare mia zia e noi assistevamo alle chiacchiere e ai convenevoli, nello spazio davanti alla porta di casa, nell’orto. Mio zio, prima aiutava mio nonno nei campi, poi è diventato operaio nelle cave dei colli Euganei, addetto ai trasporti e alla macinatura: un lavoro pendolare duro e faticoso. È finita che si è preso la silicosi morendone, alcuni anni dopo la guerra. Mia zia ha fatto le pratiche della pensione negli anni cinquanta con la Cisl o le Acli, con mio grande dispetto. I miei giochi infantili e i ricordi sono soprattutto di questi mesi di campagna, lungo gli anni trenta: non vedevo l’ora che arrivasse il giorno della partenza ai primi di luglio. Da Riva degli Schiavoni con il battello della Veneta sino a Fusina e poi con la tramvia sino a Stra, lungo la sinuosa riviera del Brenta del tutto libera dal traffico infernale di oggi. Qui ci veniva a prendere qualche amico con la carrozza e il cavallo e finalmente, passando per Vigonovo, si arrivava nella casetta di Celeseo, a due piani e con il pavimento/soffitto di mezzo in tavole di legno poggiate sulle travi, per cui si poteva vedere di sotto attraverso le fessure. Ed era subito una corsa con la bicicletta di mia zia postina. Ho fatto amicizia con i ragazzi del posto: in principio, quando passavo, mi guardavano imbambolati come fossi un marziano, poi a poco a poco cominciò la frequentazione e la confidenza. Mi colpiva che fossero sempre a piedi scalzi, non solo loro ma anche i grandi, e solo più tardi ho realizzato che si trattava di miseria, miseria nera: scalzi d’estate e con le “sgalmare” d’inverno. E i calzoni e la camicia tutti rattoppati. E il pane mai era in tavola, solo la polenta e spesso i fagioli erano il primo e anche il secondo: solo poco più di mezzo secolo fa e nessuno poteva fiatare, pena il carcere o il confino. Ho un ricordo vivido di questa miseria in un episodio che mi ha fortemente impressionato, tanto da averlo presente tuttora: avrò avuto dieci-dodici anni, quando una mattina sento urlare che avevano preso il ladro, mentre tutta la gente accorreva. Sono corso anch’io e, in una casa non lontana, vicino al pollaio ho visto un uomo seduto per terra, con le mani legate dietro la schiena e due galline a penzoloni sul collo – erano quelle rubate – e più di qualcuno gli sputava sul viso e tutti lo insultavano violentemente, finché sono giunti i carabinieri che se lo sono portati via. Era la guerra fra poveri: tra il povero che aveva qualche gallina e uno più povero ancora che per vivere sarà stato costretto a rubare galline, ché allora la disoccupazione nelle campagne era di massa. Non è che avesse rapinato una banca o svaligiato una casa: aveva rubato solo due galline ed era finito in carcere e tra gli insulti. La cosa proprio non mi andava giù e l’ho vissuta come un accaduto odioso. Dietro la casa di mia nonna c’era una specie di bottega artigiana, in gestione famigliare, per la fabbricazione a mano di sedie grezze, con una specie di roncola lunga a due impugnature e molto tagliente, poi intinte in una vasca con un colore giallognolo e successivamente impagliate dalle ragazze durante tutta la giornata. Il figlio del padrone – Stefano Baschierato – studiava a Padova all’Istituto d’arte ed era alle sue prime prove di scultore. Il suo studio era sopra il laboratorio, su per una scala di legno: lì dentro passavo intere mattinate o pomeriggi a guardarlo a modellare grandi blocchi di creta e a sfogliare i molti libri d’arte che aveva. Sono stato il suo primo ‘critico’: 11 ho scritto il mio primo (pessimo) articolo su di lui su “L’Avvenire d’Italia”11 che è stato pubblicato – guarda la combinazione astrale – il 25 luglio 1943, il giorno della caduta di Mussolini. Emozione da primo articolo travolta però da quella voce cavernosa che annunciava alla radio le fin’allora impensabili dimissioni del “cavalier Benito Mussolini”. Avevo diciotto anni e con la guerra era già cominciato a mutare radicalmente il clima del paese e lo si percepiva ogni giorno di più, tuttavia mi pareva ancora impossibile una fine così repentina del regime: di colpo sono scomparsi i distintivi dall’occhiello delle giacche. A suo tempo, per le inferiori, i miei avevano deciso per l’Istituto Magistrale con la prospettiva di farmi fare il maestro, così come hanno poi fatto con mia sorella che maestra è diventata veramente. Come scuola e come professori ho un pessimo ricordo del Tommaseo: non voglio generalizzare, ma – per quanto mi riguarda – sono proprio capitato male. Con un allampanato professore di matematica, sempre vestito di nero, severissimo, che gioiva quando poteva dare un brutto voto e che ci faceva fare difficili compiti scritti all’improvviso e in tempi strettissimi, su fogli protocollo che distribuiva lui stesso e siglava con un timbretto che levava dal taschino del gilè o che faceva interrogazioni/trabocchetto; con le varie insegnanti di italiano che si succedevano di continuo e che dicevano le loro cose, indifferenti alla nostra attenzione e capacità di comprensione; con un insegnante di musica che mi aveva messo al bando perché ero stonato, non parlava con me e poi mi dava l’insufficienza. Per cercare di rimediare, i miei mi hanno mandato a ripetizione dalle suore per il solfeggio – una noia mortale – e ho persino tentato di imparare a suonare il violino, per due anni, in un corso pomeridiano. Fallimento totale. In definitiva, una scuola che si faceva odiare, che non mi aiutava e non destava in me un qualche interesse: il suono del campanello era una specie di liberazione. Superfluo dire che ero uno studente – praticamente come tutti della mia classe – svogliato, passivo e senza senso: tanto che l’ultimo anno sono stato bocciato e ho dovuto ripetere, con relativo sconforto dei miei. Bocciatura che invece si è rivelata una felice opportunità: ho ripetuto l’anno e poi, per le superiori, mi sono iscritto per l’anno 1939-40 al Liceo scientifico Benedetti. Non ci vorrà molto tempo per diventare – da svogliato e passivo – interessato e coinvolto. E in un modo, appunto, quasi da non riconoscermi più e a farmi pensare sempre a quegli anni – all’incirca fra i dieci e i quindici – come anni rovinati o perduti proprio in quella scuola. Finivo il primo anno di liceo che l’Italia entrava in guerra, nel giugno 1940: durante l’anno gli studenti di tutte le scuole veneziane, evidentemente su ordine dall’alto e più di una volta, come in tutto il paese – per alcune mattinate, durante l’orario di lezione – avevano fatto alcune ‘dimostrazioni’, come si chiamavano allora, inneggiando all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania. Vi avevo partecipato anch’io: tutt’ora provo un senso di repulsione e di vergogna, anche se avevo solo 15 anni e anche se poi mi sono sempre detto di essermi riscattato con la Resistenza. Ma, per la verità, quel senso di repulsione lo provo anche per il prima: per quando, da ragazzino, il fascismo appariva a me, come a tutti i miei compagni di scuola e agli altri ragazzi, il volto ‘naturale’ dell’Italia essendoci stato istillato il virus della “grande patria” che costruiva il suo “grande” destino. Era l’unico punto di riferimento materialmente presente in ogni momento e a cui 11 I. CHINELLO, Giovani scultori nostri, "L'Avvenire d'Italia", 25 lug. 1943. 12 era impossibile sottrarsi se non alla condizione, il più delle volte casuale, che qualcuno squarciasse il velo. Ed è quello che per mia grande fortuna è accaduto. Appunto, quella mattina della dimostrazione, rientrati a scuola per l’ultima ora, siamo stati letteralmente investiti dal giovane professore di storia e filosofia – ricordo ancora nel dettaglio quelle parole, talmente mi si sono incise nella mente per la loro travolgente novità e rottura – che così ci apostrofò: “Voi giovani impacchettati di civiltà moderna di re imperatori e di duci, fate le dimostrazioni per la guerra e io vi frego”. Interrogò tutti e a tutti diede un 3 o un 4 e anch’io presi il mio 4. Fu per me una prova eclatante, di rottura, inimmaginabile allora, che mi ha sconvolto totalmente: non avevo mai sentito parlare così, mi pareva impossibile di aver sentito quelle parole. Certamente è stata una protesta forte – dati i tempi – da parte di un professore decisamente antifascista, ma è stata soprattutto una frustata in piena faccia a noi studenti, una vera e propria lezione di vita, una didattica d’assalto per incidere nelle coscienze e infatti ha condizionato fortemente la mia: ho cominciato effettivamente, proprio da quel momento, a guardare le cose in modo diverso. Erano state parole così incisive moralmente ed emotivamente, talmente shockanti, che nessuno lo denunciò: immagino cosa rarissima e sorprendente in quei tempi, forse più unica che rara, ma proprio per ciò tanto più significativa. Questo mio professore era Sandro Gallo: solo dopo saprò essere già militante comunista e morirà da partigiano, comandante della “Calvi”, combattendo contro i tedeschi a Lozzo di Cadore, in una curva della strada per Calalzo, il 20 settembre 1944, poche ore prima di assumere il comando della “Nannetti” in Cansiglio. Oggi non ricordo che vagamente i contenuti delle sue lezioni, ma ricordo perfettamente di averlo ascoltato sin dall’inizio, e prima della sua ultima sfuriata, con una crescente ed insolita attenzione soprattutto in quelle di storia: in principio neanche me ne rendevo conto, ma è così che ho cominciato a cambiare il mio rapporto con la scuola e a mettere insieme, certamente in forma ancora rudimentale, cultura e politica. L’ho avuto come professore per due anni e mezzo sino alle vacanze di Natale del ’41, quando alla ripresa – nei primi giorni del ’42 – non ritornò a scuola e fu sostituito da una insegnante, Giovanna Pratilli, senza che ci fosse data alcuna spiegazione. Ho saputo solo dopo che era stato arrestato nella notte di capodanno in piazza S. Marco con Renzo Sullam e Renato Maestro per un alterco con un fascista e poi condannato al confino per un anno. Non l’ho più visto da quei giorni di scuola e non avrà mai saputo che anch’io partecipavo alla Resistenza e che la prima spinta me l’aveva data proprio lui: ho sempre avvertito come un debito morale nei suoi confronti, un dovergli qualcosa. Spero, almeno in parte, di averlo saldato quando mi è venuta l’occasione di parlare e di scrivere più in dettaglio sulla sua breve vita e sulla sua intensa attività12. Quando passo, mi fermo sempre alla chiesetta degli alpini, tra Pieve e Calalzo, dove è sepolto con i partigiani dell’ultimo combattimento. Al Benedetti, nei primi due anni, avevo poi come professore d’italiano Giuliano Pradella che – se non era così dichiaratamente antifascista come Gallo – tuttavia insegnava con impegno e al di fuori di ogni conformismo e di retorica propagandistica, il che per i tempi non era poco. Ci ha fatto anche conoscere certi film francesi in mattinate cinematografiche organizzate dal Guf al cinema S. 12 C. CHINELLO, Sandro Gallo ’Garbin, “Protagonisti”, n. 61, ott.-dic. 1995, pp. 39-56. 13 Marco – conservo tuttora un opuscolo di recensioni, anche sue, non allineate13 – che erano in netto contrasto con i telefoni bianchi in voga nei film del regime. Avevo inoltre una professoressa di scienze che ci educava al positivismo scientifico e persino l’insegnante di religione - un pretescienziato, direttore dell’osservatorio astronomico del seminario – che, invece di farci le lezioni/prediche religiose, parlava di scienza. Ė evidente dunque che il mio orizzonte era sollecitato da più parti ad allargarsi sempre più. Ė a questo punto – e in questo contesto – che è venuto ad insegnare al Benedetti Francesco Semi: doveva essere, se ricordo bene, nell’autunno del ’42, che in classe – IV B – è entrato Semi e, come si usava allora, il capoclasse ha dato l’attenti. Lui ci ha guardati stupito e ha detto “non sono mica un generale, mi basta il buongiorno”. Anche questo è stato un altro colpo di frusta: la scuola è la scuola, non l’esercito o il premilitare. Ancora una lezione civile e insieme anche morale e politica. Ricordo invece chiaramente le lezioni di Semi, almeno nel metodo: sia quelle di italiano che di latino. Semi era un rigoroso filologo e che si considerava allievo – come saprò dopo – di Giorgio Pasquali, uno dei più noti filologi del primo dopoguerra, che vedeva la filologia non come “scienza esatta, né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica”14 come scriveva lui stesso in un libretto del 1920 che a suo tempo mi sono comprato, proprio su indicazione di Semi, e che conservo tuttora. Dell’italiano ricordo le sue letture di Dante, di Petrarca e di tanti altri autori: era una lettura del tutto particolare non formalistica o ampollosa o anche solo letteraria, ma – appunto – storica. Prima di tutto scomponeva la singola parola, ne mostrava la radice linguistica, le possibili varianti, i diversi significati – appunto il passaggio dalla filologia alla storia – da cui veniva un Dante che andava letto criticamente, cioè interpretato nella struttura della parola, nelle variabili dei significati e nella relazione tra loro, per cui ci dovevi mettere del tuo: una vera partecipazione intellettuale che si ripeteva per ogni verso e poi per la terzina su cui, per qualcuna, talvolta Semi si soffermava più a lungo. Risultato: per noi – a leggerla prima e a leggerla dopo – la terzina cambiava totalmente di prospettiva per cui Dante non risultava più un obbligo, ma un piacere. Così per Petrarca e gli altri autori, forse in numero inferiore di quelli prescritti dai programmi scolastici, ma certamente in modo molto più approfondito. Per il latino mi pare che proprio in quell’anno – o in quello successivo – ci fece il De Agricola di Tacito, la biografia del generale che aveva conquistato la Britannia. Già la scelta di Cornelio Tacito come autore era coraggiosa: significava studiare “il massimo storico del principato” che – come ha detto Concetto Marchesi – è stato “l’implacabile accusatore” di Tiberio, uno dei “più grandi e infamati imperatori di Roma”15 perché crudele persecutore delle libertà. In altri termini studiare 13 VENEZIA, Iveser, Fondo C. Chinello 2, s.d. [1942], Le nostre mattinate, Edito a cura dell’Ufficio stampa del Guf, Venezia, stampato, pp. 30, B. 4, fasc. 2. Le recensioni sono le seguenti: M. ORSONI, Registi del cinema francese 1930-1939, pp. 6-8 e Rene Clair. Vogliamo la celebrità, pp. 28-30; G. PRADELLA, Pierre Chenal. Il fu Mattia Pascal, pp. 9-10; Julien Duvivier, Il bandito della Casbah, pp. 17-19 e Rene Clair. Il milione, pp. 23-25; G.M. VIANELLO, Julien Duvivier. Pel di Carota, pp. 12-16 e Julien Duvivier, Carnet du bal, pp. 20-22; A. ZORZI, René Clair. Il fantasma galante, pp. 26-27. 14 G. PASQUALI, Filologia e storia, Le Monnier, Firenze 1920, p. 45. 15 Così Marchesi qualifica Cornelio Tacito all’8° congresso del Pci - nel 1956, dopo il 20° congresso del Pcus e la condanna di Stalin – per sottolineare polemicamente che “a Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita 14 Tacito significava incentivare quell’“odium adversus dominantis” che, come scriveva lo stesso Tacito, era “lo spirito chiarificatore e animatore della verità storica”. Non a caso, in quegli anni, al Liviano di Padova, anche Marchesi faceva i suoi corsi su Tacito e aveva l’aula sempre strapiena, ché andavano anche dalle altre facoltà. In particolare, Tacito sintetizza i tempi di Agricola – vittima di Domiziano, l’”insidiosissimus princeps” che quasi di sicuro lo aveva avvelenato – in quel fulminante ed incisivo passaggio, praticamente all’inizio del testo: “tam saeva et infesta virtutibus tempora”. Sul suo significato Semi si era soffermato a lungo, riferendolo specificamente alla tirannide, il che mi ha colpito fortemente per i suoi forti ed immediati riflessi politici. Con Semi sono rimasto due anni o poco più ma mi sembra tuttora di averlo avuto per lungo tempo, talmente la sua presenza è stata densa e illuminante. Ricordo le interrogazioni come un colloquio o una discussione a due: il problema non era l’interrogazione come controllo dello studio scolastico ma come approfondimento di un argomento. Come non impegnarsi in queste condizioni? Infatti, raramente dava una insufficienza perché ragionando ricavava sempre qualcosa dall’interrogato. Una volta, in un compito d’italiano, mi ha dato dieci più e, al di là del voto, ero felice per la stima che mi ha dimostrato e per le parole che mi ha rivolto. Era inevitabile che in queste condizioni cominciassi a orientarmi verso scelte di tipo storico/letterario e umanistico. Se pensavo alle magistrali mi sembrava di essere entrato in un altro mondo: mi si era inaspettatamente aperta una nuova prospettiva e non è certo un caso che proprio in quell’anno, insieme ad altri studenti di S. Elena – Livio Maitan, Mario Marcé, Mario Ferrari Bravo, Marco Stringari e altri – cominciavamo a distribuire a S. Elena e a Castello i primi manifestini antifascisti. In classe – con una sola eccezione fra gli studenti – eravamo diventati tutti antifascisti, compresi quasi tutti i professori: non a caso il Benedetti diventerà uno dei centri anche organizzativi della Resistenza veneziana e alcuni dei suoi professori, come Semi, fra i suoi capi. Persino la professoressa di tedesco mai, in nessuna occasione, neanche dopo l’8 settembre, ha detto una sola parola a favore dei tedeschi: era tedesca, si chiamava Freund, mi ha difeso dopo l’arresto nel consiglio dei professori e quando l’ho incontrata dopo la Liberazione mi ha abbracciato piangendo e ogni volta che la vedevo mi faceva grandi feste. In quel fine 1943, tra settembre e ottobre e nei mesi successivi, vivevo in uno stato di tensione continuo: l’impegno a scuola, studiavo e leggevo non poco, per mio conto soprattutto Leopardi – ho ancora il libro con i suoi Canti, il primo classico16 che mi sono comprato, con tutte le mie note e commenti a matita sui bordi delle pagine che non ho più riletto per non riscoprirmi fuori del tempo – cui si aggiungeva, ogni giorno sempre di più, l’attività antifascista del gruppo di studenti di S. Elena a cui mi ero aggregato: dalla diffusione dei volantini ciclostilati di soppiatto nelle sede dal fascio a quella, qualche mese dopo, dei “Fratelli d’Italia”, il giornaletto del Cln. Avevamo anche dei contatti per cui abbiamo mandato alcuni giovani in montagna. Krusciov” (PCI, VIII Congresso del Partito comunista Italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 138). 16 G. LEOPARDI, Canti commentati da lui stesso, a cura di F. Moroncini, Edizioni Sandron, Palermo-Milano 1936. Nella prima pagina interna ho anche segnato la data dell’acquisto: 27 febbraio 1943. 15 Era un momento in cui anche gli studenti repubblichini stavano riorganizzandosi: una volta abbiamo avuto persino una accesa discussione con loro. Era fra metà e la fine di settembre: nella sede del Guf, in campo della Guerra, qualcuno aveva combinato questo incontro fra studenti. Entrati, ne ho visto uno in divisa, con una pistola al cinturone, e subito ho detto “non discutiamo in presenza di armi”, e quello si è levato il cinturone e lo ha portato in un’altra stanza: da non crederci. Ce ne siamo detti di tutti i colori e non ci è successo niente. Molti anni dopo, nella mie ricerche per il saggio sulla Resistenza a Marghera17, ho trovato all’Archivio centrale dello stato il verbale della riunione tenuta il 29 settembre 1943 in Municipio a Venezia18 con i rappresentanti di quasi tutte le forze politiche antifasciste – Gianquinto per i comunisti, Boldi per i socialisti, Linassi per i repubblicani, Pietriboni, Cisco, Tessier, Zironda e Bianchini per i liberali e la Democrazia cristiana – a cui si era rivolto il federale fascista Eugenio Montesi in nome del “sentimento d’italianità” con l’invito a collaborare sulla base dell’”osservanza delle norme emanate dall’autorità italiana e dalla autorità occupante” di cui si è discusso criticamente in più sedi e che costituisce uno dei due buchi neri dell’avvio e della conclusione della Resistenza a Venezia, l’altro essendo la resa non incondizionata pattuita con i tedeschi il 28 aprile 1945. Ė allora che con qualche probabilità ho creduto di capire perché non ci è successo niente nella sede del Guf: anche nei nostri confronti evidentemente c’era stato un tentativo di dialogo e di coinvolgimento ma, a differenza dei personaggi della riunione in Municipio, noi d’istinto avevamo reagito per le rime. Anche se con il senno di poi bisogna aggiungere che la stessa partecipazione all’incontro è stata ambigua, sbagliata e impolitica. Per fortuna che non ha lasciato strascichi. Più avanti – su sollecitazione del Cln veneziano – abbiamo organizzato un’altra iniziativa, ben più importante e significativa: la partecipazione – il 9 novembre 1943 – all’inaugurazione dell’anno accademico a Padova fatta dal rettore Concetto Marchesi. Un’esperienza incancellabile: siamo partiti per tempo con la Veneta, arrivati a Padova siamo andati subito al Bo’ e siamo entrati in quell’aula magna decisi a far valere il nostro antifascismo militante. Quando è entrato il ministro Biggini con il codazzo di fascisti in divisa si è levata una potente fischiata e un urlo assordante di “fuori, fuori”. Non stavamo nella pelle a fischiare e urlare, a lungo. Eravamo troppi e scatenati perché i fascisti, per quanto numerosi dentro e fuori, potessero arginarci in maniera significativa e, di fatto, non hanno potuto che subire: solo uno di loro si è alzato, è andato al microfono del podio al centro dell’aula e ha iniziato con un “andate ad arruolarvi”, subito interrotto e subissato dai fischi. Si è alzato allora Marchesi – addosso la toga con l’ermellino – si è avvicinato al podio, ha tirato giù il fascista per un braccio gridandogli nell’improvviso silenzio abbattutosi nell’aula: “Questo è il mio posto”. Una tempesta di applausi e grida. E ha cominciato il suo discorso che si concludeva con quella del tutto inusuale – e perciò tanto più eclatante – dichiarazione di inaugurazione del 722° anno accademico “in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli C. CHINELLO, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività sociale e politica, in G. PALADINI – M. REBERSCHAK, La Resistenza nel veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, Comune di Venezia, 1985, I, pp. 235-293. 18 Archivio centrale dello Stato, Rsi. Spd. Cr., b. 61, fasc. 64. Pfr, sottofasc. 11), riportato in IB., II, pp. 169195. 17 16 scienziati”19. A rileggere quel discorso avanti negli anni – a confronto del ricordo che ne avevo introiettato – ne sono rimasto deluso per il suo tono troppo classicheggiante ormai fuori moda e per quella ridondanza magniloquente con cui invocava “lo spirito della salvazione”, anche se erano accenti confacenti al tempo e allo spirito dell’Università e del personaggio. Ma resta tuttora di lui, incancellabile, quell’appello agli studenti “traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa” a “rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano” insieme alla “gioventù operaia e contadina”, quando a fine novembre ha rassegnato le dimissioni da rettore per passare in clandestinità. Appello che, stampato in volantino anche a Venezia dal Cln – ne conservo nel mio archivio una copia autentica20 – abbiamo poi diffuso per tutta la città. Sono ritornato a Padova nelle settimane successive altre due volte. In entrambi i casi come inviato del nostro gruppo di studenti: la prima all’Istituto di farmacologia, a prendere dal professor Egidio Meneghetti, preventivamente contattato, un bottiglietta con dentro del fosforo giallo che nei nostri piani doveva servire per incendiare certe liste in alcuni uffici del distretto militare, ma che, rovesciatone per prova una particella nel lavandino a casa di Marcé, non ha fatto la fiammata prevista mandando così all’aria il nostro progetto (forse Meneghetti non si era fidato o avevamo per sbaglio fatto filtrare aria nella bottiglietta o chissà cos’altro): ricordo tuttora quel viaggio clandestino, sempre con la Veneta, con la bottiglietta nella mano in tasca, ché mi pareva tutti mi scrutassero sospettosi. La seconda volta per andare a casa di Ugo Perinelli, allora uno dei capi del partito d’Azione in Veneto – non ricordo se fosse già medico – per consegnargli o farmi dare delle carte. Un compito di secondaria importanza, ma che mi è rimasto impresso per un’altra ragione. Era inverno, faceva un freddo cane, anche nelle nostre case vivevamo nel gelo, pieni di geloni alle mani e ai piedi: entrare e sentire quel tepore di casa riscaldata – ad un certo momento persino insopportabile – mi fece venire un fortissimo mal di denti. Perinelli mi ha accolto a letto – era influenzato – gli ho consegnato o ricevuto le carte e scambiato qualche parola, mi ha offerto qualcosa di caldo: ma ero arrabbiatissimo, quella casa calda mi pareva un insulto personale e me ne sono andato appena possibile. Rimuginavo già la voglia di diventare comunista e in quella casa riscaldata mi è parso di cogliere di colpo la differenza di classe, tra il privilegio della ricchezza e la norma degli stenti e delle privazioni. Erano mie ingenuità giovanili del tempo: Perinelli è stato una forte figura della Resistenza veneziana tanto da ispirare uno dei personaggi principali de Il terrorista, il bel film di Gianni De Bosio21, ed è diventato poi un militante socialista e successivamente del Psiup, sempre schierato a sinistra e sempre combattivo e partecipe dei movimenti di lotta. Come pediatra era bravo e solidale con tutti noi che gli abbiamo sempre portato i nostri figli. È scomparso all’improvviso, ancora troppo giovane, pagando di colpo il suo forte impegno politico e professionale. Se penso a quell’incontro di Padova con Ugo mi viene ancora da ironizzare su me 19 C. MARCHESI, Discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-44, in ID., Scritti politici, a cura di M. TodaroFaranda, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 109. 20 VENEZIA, Iveser, Fondo C. Chinello, 1/12/1943, "Studenti dell'Università di Padova! Sono rimasto a capo della vostra Università...", a firma "Il Rettore Concetto Marchesi", stampato, B. 1, fasc. 1. 21 Il regista me lo ha confermato personalmente in una rapida conversazione telefonica in occasione di una mia presentazione del suo film a Venezia in un anniversario della Liberazione. 17 stesso e ne ha sorriso anche lui – non so se proprio divertito – una volta che gli ho raccontato il fatto di cui fortunatamente non conservava memoria. Erano di questo tipo le attività intraprese da questo gruppo di studenti di S. Elena – liceali o universitari – con cui mi ero legato ancora nel ’42, e forse anche prima, per discutere fra di noi proprio sulla guerra, sulle crepe che si aprivano nel regime, sul bisogno comune e vitale della libertà e contro la dittatura che avvertivamo anche nelle piccole cose o nelle vessazioni quotidiane. Come, per esempio, lo stacco ordinato dal regime di tutte le antenne degli apparecchi radio – che allora si stendevano fra una casa e l’altra – per tentare di impedire l’ascolto di radio Londra. Un altro caso: una sera, in vaporino – fine ’41 o inizio ’42 – io e Livio Maitan discutevamo, a voce alta e molto criticamente, sui commenti che Mario Appelius faceva alla sera alla radio sulle vicende della guerra e sugli inserimenti a viva voce di Radio Londra per cui ne nascevano delle situazioni paradossali in cui i due ‘nemici’ si controbattevano e in cui, di solito l’Appellius soccombeva, oltre che per i fatti incontrevertibili, anche perché senza verve. Scendendo dal vaporino a S. Elena un tizio – ho saputo dopo che si chiamava Zinoni, un fascista di antica data che abitava vicino a casa mia – ci si è avvicinato invitandoci per le spicce a seguirlo nella vicina sede del fascio. Lì ci ha chiesto le generalità, ci ha contestato duramente le nostre critiche all’Appellius dandoci dei “disfattisti” e minacciando severissime punizioni. Poi gli hanno detto che eravamo figli di mutilati di guerra, che il padre di Maitan era stato volontario in Abissinia e non so che altro e alla fine ci ha lasciati andare solo perché – ha commentato – eravamo figli, anche se indegni, di gente che aveva dato tutto alla patria. Piccole storie ma che segnano le esperienze individuali e incentivano la critica e l’iniziativa contrapposta. Con questi giovani di S. Elena ci conoscevamo sin da bambini, talvolta abbiamo anche giocato insieme – dipendeva dalla differenza di età che contava molto, anche se era solo di qualche anno – e ci eravamo ritrovati obbligatoriamente nel premilitare che ci facevano fare marciando su e giù per il viale di S. Elena: una cosa insopportabile, penosa, goffa e che ci infastidiva molto per la perdita di tempo e per il modo d’essere pagliaccesco, con quella divisa addosso che puzzava di lana straccia e il finto pugnale di latta. Sono avvenuti proprio in questi sabato pomeriggio del premilitare i nostri primi incontri, i primi ammiccamenti, l’avvio di una discussione che ci avrebbe portato lontano, qualcuno anche a morire combattendo da partigiano sull’altipiano di Asiago, come Marco Stringari. E discutendo ci siamo ritrovati presto antifascisti – e antimonarchici – con la voglia e l’urgenza di agire: sono nati così i nostri primi manifestini contro la guerra. Ma prima ancora – in una sorta di pre-littoriali di italiano, organizzati all’Istituto Nautico, nel ’41 o ’42, e per i quali erano stati scelti alcuni di noi – avevamo predisposto una sorta di ostruzionismo: ci hanno dato un tema da sviluppare – “Se tu parlassi con il duce cosa gli diresti?” – che si prestava perfettamente al nostro intendimento di presentare dopo un certo tempo il foglio in bianco, come segnale di disobbedienza. E così è avvenuto: dopo mezz’ora passata facendo finta di pensare, mi sono alzato e ho consegnato il foglio in bianco ad un tipo in divisa che ci controllava. Mi ha chiesto “perché è bianco?”, e io di rimando “non saprei cosa dirgli” e sono uscito dall’aula. Dopo poco un altro (Franco Grienti) ha fatto lo stesso tiro e, se ricordo bene, 18 anche un terzo. L’iniziativa ha suscitato sul momento un certo scalpore, ma poi hanno preferito far finta di niente. O forse, nella loro ottusità, potrebbero avere anche pensato che effettivamente ci sentivamo timidi di dire al duce qualcosa. Si distribuivano i manifestini a S. Elena e a Castello, in Paludo e in Secco Marina sino in via Garibaldi. Li avevamo girati al ciclostile dentro la sede del fascio di cui era segretario un alto funzionario del Comune, mutilato di guerra che ci conosceva benissimo perché abitava nell’appartamento sotto Maitan e delle cui figlie alcuni di noi erano anche amici: mai avrebbe potuto supporre un tale raggiro. Può sembrare, oggi, niente di straordinario diffondere dei volantini, ma allora era una sorta di avventura. Prima di tutto presupponeva – in quel contesto di regime imperante, di guerra in corso e di giovani non certo iniziati alla lotta politica – una scelta soggettiva di azione controcorrente e autocontrollo nell’esecuzione – la prima volta mi tremavano le mani nell’infilare i volantini sotto le porte, per la novità assoluta del gesto – e anche un segreto da mantenere con gli altri, in casa e con i compagni di scuola e gli amici, contro la voglia immediata di condividere tutte le esperienze così presente nei giovani. Inoltre bisognava risolvere i problemi pratici del reperimento della carta, della scrittura dei testi, dell’inchiostro e della stampa con il ciclostile. Avevamo raggiunto persino una certa efficienza nell’organizzazione della rete che abbiamo messo a punto – qualche mese dopo l’8 settembre – con la diffusione del clandestino “Fratelli d’Italia”, il giornalino del Cln. Era composto ancora a mano, con i caratteri presi dai cassettini, in una tipografia in Campiello del Sol, a S. Polo e poi si andava a casa dello stampatore, in campo S. Cassian – quella col ponte che dà direttamente sulla porta del caseggiato, al primo o secondo piano – a ritirare le bozze che correggevamo (ricordo – perché colpito dall’avvenimento – di aver partecipato alla correzione del numero che annunciava in prima pagina la morte di Silvio Trentin). Poi stampavano il giornaletto, durante il giorno, frammisto all’altro lavoro. Quando era pronto lo si divideva in pacchi legati e incartati, non molto grandi per non dare troppo nell’occhio, e verso sera – quando aumentava il passaggio nelle calli – lo si portava fuori a singhiozzo a una prima rete fatta da tre giovani – uno di questi, ricordo bene, era Emanuele Battain, poi combattivo legale dei militanti sindacali e politici di sinistra – ai tre angoli del campo, i quali, a loro volta lo portavano a una rete più larga, e così via sino a destinazione nei luoghi convenuti e nella sera tarda, prima del coprifuoco, o nei giorni successivi veniva diffuso in tutta la città. Ero diventato uno specialista nell’infilare o depositare ovunque – giornaletti o volantini che fossero, accuratamente piegati in più parti per ridurne la visibilità – nelle cassette delle lettere come nei tavolini dei bar, nelle sedie dei cinema come nei banchi dei negozi o nelle scuole e biblioteche (alla Marciana o alla Querini non c’era nessun problema con tutti quei cassetti colmi di schede). Una volta in vaporino, tra S. Zaccaria e l’Arsenale – dopo che avevo gettato il giornaletto fra il carbone, nel locale macchine sottostante aperto verso l’alto, mentre il fuochista lo spalava nella caldaia per cui non si era accorto di nulla – me la sono vista un po’ brutta: dando le spalle alla cabina del capitano che allora era aperta in alto e di lato, ho infilato con le mani all’indietro il giornaletto. Il capitano si è accorto della manovra, ha preso in mano il foglio, lo ha spiegato, letto i titoli, ha capito subito di che si trattava, mi ha guardato, se lo è infilato in tasca e si è voltato 19 dall’altra parte attraccando all’Arsenale. Non sono neanche sceso. Era andata bene: per Renzo De Felice questo capitano non sarebbe un resistente, mentre di fatto lo era, o lo diventava in quel momento, come sa bene chi ci è stato di mezzo. Il primissimo passo di ciascuno è stato più o meno analogo. Vita, dunque, in continua tensione ma piena: alla mattina a scuola, fra pomeriggio e sera studiare e fare attività. Noi non avevamo responsabilità politiche o organizzative, non dovevamo decidere qualcosa, ma fare tutto quello che ci dicevano di fare e se qualche giorno non ci arrivava niente, ce lo inventavamo noi di nostra iniziativa: magari una frase col gessetto su un muro, o una scritta con qualcosa di più consistente – quante ne abbiamo fatte nel muro del sottoportico dietro la Fenice e nelle calli verso campo S. Angelo e altrove – oltre che diffondere gli ormai soliti volantini. Non eravamo mai stanchi, anche perché avevamo sì e no vent’anni: volontariato puro che diventava ragione di vita, interiorizzata senza enfasi. Anzi sembrava spesso di fare troppo poco rispetto ai bisogni e alla rabbia che ci ribolliva dentro, il che ci rendeva qualche volta persino incoscienti. Come mi è capitato in una delle prime attività svolte: portare una tanica di benzina (sui dieci litri) al Lido, non ricordo a chi e perché. Sta di fatto che si sentiva un forte odore di benzina, quando sono andato a prelevarla in una casa dalle parti del campo S. Maria Nova – se ricordo bene, era presente anche Battain – e per cercare di attenuarlo ho acceso una candela e ho fatto colare la cera sul tappo di sughero della tanica per sigillarla. Poi l’ho portata al Lido, in prua della motonave per far sentire meno la puzza di benzina. Solo qualche tempo dopo ho realizzato quale sorte benigna ho avuto per non essere investito da una fiammata che avrebbe potuto magari incendiare la stessa casa, con quali conseguenze è facile immaginare. Debbo dire che nella Resistenza, questa fortuna – di non essere leso personalmente - l’ho riavuta in più occasioni. Ed è in questo contesto che stavo per saldare un rapporto particolare, politico e di fraternità, con Giuseppe Turcato. L’avevo conosciuto una sera dell’autunno 1943 a S. Elena, in casa di Mario Marcé, studente di medicina, durante uno dei nostri caotici incontri in cui si discuteva di tutto e ci si organizzava. Come ho raccontato altrove, finito l’incontro, siamo usciti insieme, probabilmente non in modo casuale. Ormai sapevo che era antifascista e saprò presto anche della sua militanza comunista. Nello scambiarci i primi commenti mi ha squadrato in modo penetrante e nel contempo fulminante, anche indagatore – come farà sempre con le persone che per una qualche ragione lo interessavano, talvolta persino in un modo tale da creare un filo di imbarazzo per l’interlocutore – per cui ho avuta netta e immediata l’impressione che poco poteva sfuggirgli e che il rapporto con lui doveva essere a tutto campo e trasparente. Credo che deliberatamente non mi ha chiesto di fare qualcosa con lui nei giorni successivi: aveva le sue regole di comportamento. Come risulta anche dai suoi Frammenti di autobiografia22 Turcato era un autentico autodidatta – “irregolare, frammentario, da correggere”23 – che aveva letto di tutto e annotato, con la sua grafia grande e segmentata, un’infinità di pagine dei suoi libri segnandovi gli errori di stampa o del testo, il commento personale o il rimando a qualche altri libro e infilando tra le pagine i ritagli di giornale 22 23 G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit. IB, p. 164. 20 sull’argomento. Eclettismo ma filtrato – come saprò più tardi – da letture storiche e filosofiche e dalla preparazione, per esempio, di recensioni (pubblicate) di libri importanti che, se lo impegnavano molto, scrupoloso com’era, lo maturavano, tanto da farne un intellettuale sui generis, senza titoli e riconoscimenti formali. Tutti passaggi ed esperienze che lo preparavano moralmente e razionalmente ai venti mesi di lotta – nella Resistenza e nella militanza comunista clandestina – che, per molte ragioni, sono stati per lui durissimi. Naturalmente in quel primo incontro con Turcato – come nei successivi – io nulla sapevo di tutto questo ma intuivo lo spessore del personaggio anche dal modo con cui mi trapassava con gli occhi socchiusi: abbiamo cominciato col parlare di fascismo/antifascismo ma in modo concreto, sul cosa e sul come bisognava fare e agire, della guerra, ha voluto che gli raccontassi della mia scuola. Non è passato molto tempo che si è cominciato a parlare del comunismo mentre avevo già cominciavo a fare attività con lui, staccandomi lentamente dal gruppo degli studenti, ciascuno dei quali, a sua volta, viveva processi analoghi di contatti ed esperienze diverse, ma sempre mantenendo tra noi relazioni più che amicali. Ė così che il 6 marzo 1944 gli ho chiesto di entrare nel Pci. Mi aveva spinto a questo anche la lettura del Manifesto dei comunisti di Marx-Engels che avevo fatto alla Marciana, non ricordo più indicatomi da chi: si trattava di un volume di una collana di economia diretta da Bottai, con tutte le pagine stropicciate e segnate proprio là dove c’era appunto il Manifesto, chissà come tradotto e censurato. Comunque fosse, quel testo così com’era – o appariva a me – bastava a decidermi al passo: quel “proletari di tutto il mondo unitevi” era la rivoluzione. Era in quei giorni che venivo arrestato, per ritrovarmi solo in cella a rimuginare su questi passaggi esistenziali. A S. Maria Maggiore nell’estate del ‘44 In quei frangenti, la vita in carcere era dura, difficile: per l’ambiente nuovo, per le regole spaesanti (il martellamento delle sbarre della cella durante la notte, il bugliolo puzzolente, le cimici) e per l’inconsapevolezza di quanto accadeva fuori. E soprattutto per la perdita di identità: bisognava rivolgersi al “superiore” che altri non era che il secondino sempre con la faccia feroce, evidentemente per ragioni professionali, anche quelli che segretamente erano amici, come Leonardo Cotugno24 che poi ho ritrovato militante del Pci. Si doveva fare il letto alla mattina, subito dopo la sveglia e prima di ricevere quel bicchiere di acqua tiepida scura che si denominava caffè: con l’esperienza ho imparato a stendere senza una piega – con i quattro nodi agli angoli - quelle lenzuola ruvide e scure che cambiavano assai raramente Si mangiava una solo volta al giorno, fra le undici e mezzogiorno: una pagnotta all’incirca di mezzo chilo (non saprei proprio con cosa fatta, ché non sapeva certo di pane) e una scodella di sbobba tiepida con qualche pezzo di rapa galleggiante. Era tutto per 24 ore: l’alternativa stava tra razionare il ‘pane’ nella giornata e masticarlo lentamente per farlo durare più a lungo o mangiarlo in fretta e tutto in una volta per sentirsi pieno almeno per qualche istante. La domenica, in aggiunta, due centimetri cubi di carne coriacea e altrettanti di Turcato lo qualifica come “persona di fiducia del Comando Piazza” (G. TURCATO. “Stratagemma contro la X Mas. 30 aprile: ore 1.20, in G. TURCATO – A. ZANON DAL BO (A cura di), 1943-1945 Venezia nella Resistenza. Testimonianze, Venezia, Comune di Venezia 1975-1976, p. 260. 24 21 castagnaccio. Le prime cucchiaiate non sono riuscito a mandarle giù e neanche il pane che sapeva di segatura bagnata. Solo dopo qualche giorno per forza di cose ho cominciato a mangiare, ma sempre con sforzo. Dovrà passare qualche settimana perché quel castagnaccio cominciasse a sembrarmi quasi una leccornia. Per fortuna che i miei sono riusciti poi a farmi avere sempre qualcosa da mangiare, il che mi ha aiutato molto a tener duro. Dopo l’isolamento, in cella – peraltro sempre chiusa - si era in tre (mai in due, per non favorire l’omosessualità, come i ‘vecchi’ del carcere mi hanno spiegato) con tutto lo spazio materialmente occupato dalle brande, per cui non ci si poteva muovere e vi si doveva stare accovacciati. Solo nei cameroni, all’ultimo piano, si stava in sei o in nove, ma almeno ci si poteva rigirare, a parte il fatto che non era semplice la convivenza quando capitava qualche ‘comune’ aggressivo (anche se, in generale, i comuni avevano molto rispetto per i politici). Per imperscrutabili ragioni i cambiamenti di cella e di compagni di cella erano numerosi e anche questo era motivo di tensione, come ogni cambiamento in carcere, anche piccolo. Salvo eccezioni: una volta ci siamo trovati in sei in un camerone – il 163 – tutti comunisti o simpatizzanti: il periodo meno tirato della mia detenzione e in cui abbiamo discusso di più di politica e di cosa sarebbe accaduto dopo la Liberazione, quando avremmo avuto la nostra “libertà” e senza fascisti e tedeschi, cose che sembravano un sogno. Gramola, in quel camerone, ha fatto degli acquarelli – usando inchiostro diluito – uno dei quali lo conservo appeso al muro dello studio e che ho ritrovato fra le carte riordinando il mio archivio: un tavolo in mezzo, le brande, un paravento per il bugliolo, una finestra con sbarre e bocca di lupo e noi colti in lettura. Quando si andava all’aria, la mattina, trovavamo anche un prete di un paese del Piave che canticchiava sottovoce Bandiera rossa (chissà se poi lo avranno spretato quando i comunisti sono stati scomunicati). Eravamo anche riusciti a farci una piccola biblioteca con libri da casa o che ci procurava il cappellano: io avevo una “edizione minuscola” della Divina commedia25, la Storia della letteratura latina26 di Concetto Marchesi, la Storia della filosofia27 di Lamanna che era un libro di scuola in due volumoni, il mio Leopardi e titoli di letteratura italiana e russa. Bibliotecario del carcere in quel momento era Vittorio Ghidetti – saprò dopo essere vecchio militante comunista – che, capito perfettamente con chi aveva a che fare, ci forniva quello che si potrebbe chiamare il ‘meglio’ di una bibliotecaccia dove erano finiti tutti gli avanzi scartati di chissà chi. Ciononostante mi è capitato di leggere un brano di Diego Valeri sui colli Euganei – non ricordo assolutamente il titolo, mi pare in una rivista – scritto in un modo tale che mi sono perso nelle fantasticherie e nel profumo dei fiori. Non mi era mai capitata una cosa del genere e probabilmente solo in un luogo di restrizione può verificarsi: tuttora sono grato allo scrittore per quel tempo che mi ha fatto passare in dimenticanza delle sbarre. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Edizione minuscola, Hoepli, Milano, 1941, con il visto della censura del carcere. 26 C. MARCHESI,Storia della letteratura latina, 2 voll., Principato, Milano 1943. Nella prima pagina interna ho anche segnato “Letto a S. Maria Maggiore maggio 1944 cella n. 60 – 66 – 62”. 27 P. LAMANNA, Storia della filosofia, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1943. 25 22 Per un periodo della mia detenzione ho fatto anche il postino – deve essere stato il cappellano a propormi alla direzione – che è un lavoro assolutamente privilegiato: si ha una cella solo per sé, con la porta chiusa solo di notte e, soprattutto, con una lampadina a muro sopra il tavolo che si poteva accendere o spegnere quando si voleva. Ci si poteva muovere durante il giorno e leggere anche per l’intera nottata: una pacchia, sempre relativamente al carcere. Si trattava di recapitare, ogni mattina, la posta nelle celle mentre nel pomeriggio la si ordinava (non era che fosse molta e il lavoro era perciò rapido) e si aveva molto tempo per leggere e girare. E anche questo era un percorso tra un’umanità estremamente variegata. Aprire, dal di fuori e senza preavviso, lo spioncino della porta – quando era aperto per una qualche ragione i carcerati ci infilavano la testa per gettare uno sguardo su quello che per loro, in quel momento, era tutto il mondo esterno – poteva essere una violazione di intimità, ma non così nella realtà: al contrario, era occasione di parlare, di dare o ricevere qualcosa di caro (appunto, la posta), comunque di uno scambio di sguardo o di parola o di sigaretta che serviva a tirare avanti. Era anche un modo per tenere i collegamenti tra i politici ed è così che praticamente ho conosciuti tutti quelli che erano lì, salvo quelli in isolamento o nel raggio a disposizione dei tedeschi. Una volta – doveva essere a fine giugno o i primi di luglio – mi hanno fatto perfino uscire da S. Maria Maggiore per fare l’esame di ginnastica in una palestra vicina, nella sede dell’ex Gioventù italiana del littorio, dove ora c’è un asilo dove sono andati anche i miei nipotini. A scuola, a fine anno scolastico, a metà giugno, erano stati fatti gli scrutini per la maturità28: tutti i professori e il preside mi avevano protetto salvo quello di ginnastica, fascista, che si è rifiutato di darmi la sufficienza. La maturità me la meritavo ma quei professori – Semi e il preside Borriero in testa – hanno dovuto difendermi lo stesso per salvarmi l’anno, pur sapendo di correre dei rischi. Il compromesso raggiunto era stato, appunto, quello di farmi fare l’esame di ginnastica, ma con una carta di riserva da parte del preside. Era metà pomeriggio quando sono uscito dalla porta principale del carcere, dopo l’apertura e la chiusura di non so quanti cancelli e vari ordini gridati, accompagnato da un agente della questura, ma non ammanettato: ho assaporato la tiepidezza del sole, ho visto una bambina giocare in un piccolo squero sul canale vicino e la gente passare. Uno scorcio improvviso e rapido sulla vita normale e mi si è posto per la seconda volta lo stesso problema: passata Fondamenta Cereri, in Fondamenta Rossa, con uno spintone improvviso avrei potuto scaraventare in canale la mia guardia e darmela a gambe. Ma dopo, dove andare? Continuavo a non avere alcun recapito e ho concluso – il tutto in pochi attimi, come nel caso precedente – che il rischio era troppo forte rispetto alle possibilità di riuscita. In questo caso però, anche se poi nel complesso – come già detto – è andata bene, mi sono venuti dubbi maggiori su tale decisione: non è che si trovano le soluzioni sul momento, quando le si vogliono effettivamente trovare? Comunque, percorsa la Fondamenta Rossa, fatto il ponte e un piccolo tratto di quella Briati – allora si accedeva da questa parte – sono entrato nella palestra, piena di fascisti in divisa (non credo fossero lì per me, ma bastava la loro presenza per complicare la situazione). Mi sono 28 Negli anni di guerra gli esami di maturità con le commissioni esterne sono stati sostituiti dagli scrutini annuali. 23 presentato, sempre scortato, al tavolo e ho detto “buongiorno”. Il professore – che non era quello di scuola – di rimando: “perché non fai il saluto romano?” Ed io cosa potevo fare o dire?: “Come faccio a fare il saluto romano se sono un detenuto politico?”. Non avevo immaginato una simile richiesta e la risposta mi era venuta spontanea. Tutti mi hanno guardato fra lo stupito e il meravigliato cominciando a gridare insulti. Allora il professore, tagliando corto, mi ha mandato alla fune e mi ha detto di salire. Io ho provato: in ginnastica non sono mai stato bravo e dopo tre mesi di carcere ancora meno, non sono riuscito a fare neanche mezzo metro. Allora mi ha mandato alle pertiche e si è ripetuta la stessa scena. Mi ha chiesto un’altra cosa (mi pare il salto del cavallo) ed io di rimando: “sono tre mesi che sono in carcere, come posso fare queste cose?”. Mi ha bocciato e mandato via. Così sono ritornato in carcere, convinto di aver perso l’anno anche se non ne pativo più di tanto, visto poi che la situazione in cui ero ingrovigliato mi destava ben maggiore preoccupazione. Invece il preside, valendosi di una disposizione di non so quale legge, ha cassato quella bocciatura e mi ha dato la maturità per cui mio padre, poi, in autunno ha potuto iscrivermi a Scienze politiche a Padova. Non credo siano stati molti i presidi o i professori che hanno saputo comportarsi in un modo così risoluto in difesa di un loro studente. Ma alla calma relativa di questi miei primi tre mesi – da aprile a giugno – è seguita poi la tragedia con una sequenza di giorni terribili in cui nel carcere dominava il terrore e il silenzio assoluto, irreale: poteva capitare a chiunque qualunque cosa e tutti ne avevano consapevolezza, anche i detenuti comuni. Del primo avvenimento – la rappresaglia a Cannaregio nella notte fra il 7 e l’8 luglio – non abbiamo avuto che una eco ridotta, immagino perché il carcere non era stato coinvolto, ma è stato il primo segnale che le cose erano destinate a precipitare. Una mattina ci è giunta la notizia che erano stati “rinvenuti in città” 5 cadaveri, prima versione dagli stessi fascisti, e solo più tardi abbiamo saputo che si trattava invece di una rappresaglia, ma niente di più. Chi fossero e perché assassinati l’ho saputo dopo la mia liberazione. Era accaduto che la mattina presto del 6 luglio, nei pressi dell’allora cinema Italia, un gruppo di tre partigiani aveva giustiziato Bartolomeo Asara, maresciallo di marina collaboratore della Gnr. Era la prima volta che a Venezia si verificava un fatto del genere, segno che la Resistenza cresceva. La rappresaglia fascista è seguita, senza preavviso, appunto fra il 7 e 8 luglio quando, nella notte, sono stati prelevati sei antifascisti dalle loro case, a Cannaregio, ed è stato loro sparato un colpo alla nuca in strada, davanti alla loro porta. Si è salvato solo Giuseppe Tramontin, evidentemente colpito di striscio: è stato subito soccorso dai vicini, portato in ospedale, curato e nascosto dai medici riuscendo a sopravvivere e a raccontare poi la sua incredibile storia. Saprò dopo la Liberazione che a sparare a Tramontin era stato quello stesso Cafiero che mi aveva accompagnato a Ca’ Giustinian, il giorno successivo all’arresto. Ma il dramma – per noi – è esploso venti giorni dopo. La mattina del 27 luglio abbiamo sentito un grande boato: abbiamo saputo dopo che si trattava dell’attentato di Ca’ Giustinian con morti e feriti. Un’azione partigiana che mostrava a tutto campo la vitalità, la forza e anche la capacità organizzativa della Resistenza veneziana. Le notizie che riuscivamo ad avere erano frammentarie, qualcosa ci dicevano i secondini ma, sul momento, non ci eravamo resi conto – quelli con cui ero 24 insieme – di quello che stava per accadere. Nella notte abbiamo sentito un gran trambusto, un aprire e sbattere di porte e cancelli con violenza inusitata, comandi urlati, uno sferragliamento di catene, un tramestio di passi in movimento. Brigate nere e guardia repubblicana erano venuti a prelevare i tredici del gruppo di S. Donà di Piave, fra cui anche Biancotto: li hanno portati sulle macerie di Ca’ Giustinian e un plotone di esecuzione, comandato da Zani e di cui facevano parte Cafiero29 e Sudessi, li ha fucilati all’alba. Abbiamo intuito immediatamente che era la rappresaglia, ma la certezza l’abbiamo avuta durante la giornata: angoscia e terrore avvinghiavano tutto il carcere, un silenzio di tomba impressionante. Nessuno dei mille rumori e delle voci usuali di ogni giorno. Quella notte me la sono portata dietro per lunghissimi anni: Biancotto era per me più che un fratello, siamo stati per due-tre mesi nella stessa cella dividendo tutto quello che avevamo, poi comunque ci vedevamo all’aria ogni giorno, si parlava continuamente ovviamente di politica e di comunismo ma anche della vita e del futuro. Ė stato un colpo così atroce e diretto che ho cominciato a credere – interiorizzandolo nel tempo – che l’avessero strappato dalla mia cella. Oggi – detta così – può apparire come una forma di sentimentalismo giovanile, ma in quei giorni ho giurato a me stesso con assoluta determinazione che, se e quando fossi uscito, lo avrei vendicato. Ho realizzato solo dopo che quella notte non abbiamo sentito niente che potesse somigliare a lamento o disperazione, anche se certamente avranno intuito cosa li attendeva e avranno provato l’orrore della morte. E ho realizzato solo molto più tardi – quando ho letto il libro di Sandro Portelli30 sulle Fosse Ardeatine – che nessuno di noi in carcere ha rinnegato o si è posto anche solo un interrogativo su quell’azione partigiana, anche se capivamo di essere in pericolo, tanto ci pareva legittima e necessaria in una guerra di liberazione come la nostra. La Resistenza non poteva che essere armata – ovviamente secondo piani pensati, calibrati e realistici – e quando si usavano le armi bisognava mettere in conto le reazioni, tanto più quando si trattava di nazisti e fascisti che avevano già insanguinato e soggiogato l’Europa, anche se allora non sapevamo tutto della loro ferocia. 29 Sentenza n. 2 (1945) della Corte d’Assisi Straordinaria di Venezia in M. BORGHI – A. REBERSCHEGG, Fascisti alla sbarra cit., pp. 109. 30 A. PORTELLI, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999. Come è noto, Portelli dimostra – carte alla mano – come sia fuori luogo il senso comune, tuttora presente, secondo cui i tedeschi hanno attuato la strage perché i partigiani non avevano risposto all’appello di “presentarsi”. Anche a me è capitato un caso a suo modo analogo, di gran lunga minore in quanto riguarda una sola persona, ma parimenti significativo. L’attentato di Ca’ Giustinian è stato organizzato da un gruppo capeggiato da Giovanni Tonetti e Aldo Varisco ed eseguito materialmente da Kim (Franco Arcalli) e da un suo compagno che, in divisa tedesca, hanno portato in barca a remi il baule con l’esplosivo che poi hanno depositato nell’atrio. Quando ho pubblicato la biografia di Tonetti (Giovanni Tonetti il “conte rosso”. Contrasti di una vita e di una militanza (1888-1970), Supernova, Venezia 1997) la figlia Francesca mi ha contestato non la paternità dell’attentato di Ca’ Giustinian (ne aveva parlato lei stessa nel suo libro), ma il fatto che ci siano stati morti e feriti e che poi ci sia stata la rappresaglia. È stato in questa occasione che, su mia domanda, ha negato appunto la legittimità dell’attentato di via Rasella, che secondo lei non avrebbe dovuto essere compiuto per evitare le rappresaglie, mentre per Ca’ Giustinian il caso era diverso, appunto perché senza vittime e senza rappresaglie. Un discorso visionario, fuori della realtà: al mio invito di leggersi i giornali, ha risposto che erano giornali fascisti e quindi falsi. Ha insistito tanto su queste sue fantasticherie - all’inizio le avevo prese appunto per tali – che una mattina, senza preavviso, l’ho portata direttamente nella calle a fianco del Bauer, davanti alla lapide con i nomi dei 13 martiri di Ca’ Giustinian, lapide di cui mi aveva negato persino l’esistenza. Di fronte alla evidenza materiale della lunga lista scolpita nel marmo, è ammutolita e non è più tornata sull’argomento. 25 Passata una settimana, la tragedia si è ripetuta. All’alba del 3 agosto altri sette ostaggi sono stati fucilati sulla riva che poi prenderà il nome dei “Sette martiri”, di fronte alla popolazione di via Garibaldi a Castello, rastrellata poco prima con i noti metodi da fascisti e tedeschi. Era la rappresaglia per l’”uccisione” di una sentinella tedesca, di guardia ad un mezzo navale attraccato alla stessa riva, che solo più tardi si scoprirà essere stata ubriaca, caduta in acqua e annegata. Su richiesta dei tedeschi, sei nominativi di persone – arrestate il 31 luglio “perché fondamentalmente ritenute partecipi di organizzazione partigiana” – sono stati forniti dalla Questura, il settimo – Alfredo Viviani, vecchio militante comunista anche se di soli 36 anni – “veniva scelto” e prelevato in carcere direttamente dai tedeschi, come risulta da un documento che ho ritrovato all’Archivio centrale dello Stato e di cui conservo fotocopia31. Noi abbiamo saputo subito di Viviani e un vero e proprio orrore e il timore forte per la nostra stessa vita si incuneavano in ogni cella. Ognuno di noi taceva, non sapeva come esprimere la propria angoscia: le parole di ogni giorno non servivano più, contava solo il fatto di stare insieme e vivere il giorno per giorno. Io mi sono domandato allora – ma anche altri si sono posti lo stesso problema – se mi ero sbagliato nella settimana appena trascorsa a tentare di sfuggire alla deportazione in Germania. Perché è anche successo che nello stesso periodo i tedeschi hanno fatto le visite mediche a molti detenuti, comuni e politici, per inviarli – deportarli – in Germania per “lavorare”. A me è capitata la visita proprio in uno di quei giorni tra le due rappresaglie. La voce era corsa veloce in carcere e c’è stata una discussione tra noi su cosa convenisse tentare: se lasciarsi deportare per sfuggire alle possibili rappresaglie, come per esempio sostenevano Bordin di Padova (il fratello dell’antiquario comunista) e altri, oppure sfidare la sorte rimanendo a Venezia nella speranza di una rapida fine della guerra: le voci che arrivavano dalla Germania parlavano di bombardamenti continui, di fame e di molte sofferenze (dei lager non si sapeva ancora nulla). Era questa anche la mia scelta. Ma c’era la visita da superare, ché se fosse stata dichiarata l’idoneità non c’era nulla da fare. E allora ognuno a inventarsi qualcosa e al modo come gestirla: ma era più facile escogitarla che giocarla di fronte ai tedeschi. Io ho avuto una combinazione assolutamente fortuita, ché se non l’avessi vissuta direttamente stenterei tuttora a crederla, e ho avuto la prontezza di rischiarla all’istante. Dunque, nel momento in cui sono entrato nella saletta della visita medica, sono usciti i due ufficiali tedeschi e sono rimasto solo con il medico italiano. Di fronte alla porta c’era un ritratto di Mussolini: dalla parete ho abbassato gli occhi sul medico, l’ho fissato dritto e gli ho detto “Lei è italiano? … e manda i prigionieri politici in Germania?”. Quello mi ha guardato stupito, è restato un attimo interdetto e mi ha ribattuto “cos’ha?”. Ed io: “sifilide di terza generazione la cui manifestazione esterna è l’occhio destro con cui non vedo”. Ė stata l’unica volta che ho sfruttato il mio difetto all’occhio su cui, per le verità, da quando me ne ero reso conto, un poco ci pativo. Sconcertato, il medico mi fissava mentre in quel preciso momento rientravano i due ufficiali 31 IVESER, Fondo C. Chinello, 12/9/1944, Questura repubblicana di Venezia, “Restituzione segnalazione”, a firma “Il questore Larice Secondo”, fotocopia, pp. 2, B, 1, fasc. 2. 26 tedeschi: “untauglich”32 [inabile], ha risposto alla loro domanda. Sono uscito dalla saletta, quasi incredulo su quello che avevo fatto e alla immediatezza di riflessi di quel medico. Se i tedeschi l’avevano scelto, significava che avevano fiducia in lui ma la situazione improvvisa in cui inopinatamente l’avevo stretto l’aveva anche in qualche modo scosso e messo di fronte a sé stesso: almeno nel mio caso ha reagito positivamente. Io non ho più visto quel medico né ho saputo come si chiamava ma posso dire che anche altri, che si sono inventati lì per lì un proprio limite fisico o una malattia, sono stati pure scartati. Mi sarebbe piaciuto sapere dopo, magari dalla sua viva voce, quali percorsi interni aveva seguito e come si è comportato successivamente: magari in quel momento era stato obbligato a fare quel lavoro e poteva anche essere dalla nostra parte. Problemi e interrogativi cui mai potrò avere una risposta ma che mostrano di per sé le rotture in tutti i campi e a tutti i livelli che la Resistenza riusciva a moltiplicare. Alla tempesta di quei giorni spietati è seguita una sorta di bonaccia e i rumori e i brusii del carcere pian piano sono tornati nella norma, anche le nostalgiche cantate dei detenuti comuni: “Mamma, il capitan Trestelle mi vuol portare all’isola di Pantelleria / Pantelleria scoglio crudele della vita mia…” (o pressappoco) e qualche altra di cui avevo imparato le parole a memoria e che ora non ricordo più. Ma, ovviamente, si era sempre sul ‘chi vive’, con i nervi a fior di pelle. Non potevamo sapere che “dopo le rappresaglie tutti d’accordo, compagni e Comitato di liberazione, hanno deciso di sospendere azioni per evitare nuove reazioni”, come ha scritto Giorgio Amendola nel suo famoso Rapporto dal Veneto33 con linguaggio crudo, ma veritiero. Per noi poteva accadere di tutto in ogni momento, non avevamo alcun potere di controllo e di decisione se non quello di autodisciplinarci. E così facevamo, anche per forza di cose, nelle letture e nelle discussioni. Nel contempo tornavano i piccoli ma tormentosi problemi della vita carceraria. Una notte, in piena estate, ho sentito un forte prurito: ho acceso un mozzo di candela e mi sono visto tutto il corpo e la branda rosso-cupi, letteralmente ricoperti di cimici dall’odore sgradevole e in continuo movimento (avevamo persino messo i piedini delle brande dentro delle scatolette piene d’acqua per impedire che le cimici salissero dal pavimento, come ci avevano insegnato gli ‘esperti’). Sono saltato in piedi, ho cercato di scrollarmi di dosso quelle viscide bestioline, ma è stata una lotta impari sino al mattino. Un’altra volta mi sono preso le piattole e ho potuto combatterle solo quando da casa mi hanno portato il Mom. Da quei pavimenti scrostati e da quelle pareti piene di fessure arrivava ogni sorta di insetti e di parassiti, compresi gli scarafaggi. E non era che ci potessimo lavare molto: sul catino, con poca acqua e a pezzi. I ‘colloqui’ con la famiglia – per cui occorreva farsi dare un permesso – sono stati quattro o cinque in sei mesi: in genere veniva mio padre, mi dava le notizie di casa, non mi ha detto mai una parola che potesse neanche lontanamente suonare come un rimprovero e mi nascondeva – nel senso che non ne parlava – le fortissime preoccupazioni che avevano e che tuttavia erano visibili nel suo atteggiamento e nel suo modo di parlare. Ed anch’io gli fingevo sicurezza, come se tutto fosse normale. 32 Nella mia memoria era rimasto “untaurlich” che non esiste nel vocabolario e Daniele Ceschin mi ha aiutato a trovare il termine esatto. 33 G. AMENDOLA, Rapporto dal Veneto, in ID., Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 442. 27 L’unico colloquio non di famiglia è stato quando mi è venuto a trovare un mio vecchio compagno delle magistrali, Ezio Rossi, con cui ero stato anche amico fin quando ero passato al liceo: era in divisa avendo aderito all’esercito repubblichino. La chiamata per il colloquio era straordinaria e non avevo idea di chi si trattava, anzi mi ha preso un certo timore per qualcosa di imprevisto: al vederlo – e in divisa – mi è venuta la rabbia, ho pensato a una sfida di pessimo gusto. Gli ho detto delle parolacce e me ne sono tornato indietro all’istante. Come potevo fare diversamente? I pensieri di quei lunghi mesi interminabili mi rimuginavano continuamente in testa – così vedevo essere anche per gli altri – e si focalizzavano in due punti che poi diventavano uno solo: la sofferenza del carcere, della clausura, della porta chiusa, delle sbarre, tanto più acuta quanto più si anelava a partecipare alla lotta contro fascisti e tedeschi. L’inazione obbligata in una cella contro l’urgenza e la voglia di azione in campo aperto esaltavano ancor più questa aspirazione. Ė allora che ho pensato che se mai fossi uscito sarei andato subito nelle formazioni in montagna, perché lì mi sembrava che si combattesse di più. Improvvisamente si è aperto un varco, grazie alla forte volontà della madre di Cesare Dal Palù. Nell’anniversario della marcia su Roma – il 28 ottobre – il governo di Mussolini aveva decretato un’amnistia che comprendeva anche il ‘reato’ di propaganda sovversiva. Sono riuscito a leggere il testo del decreto e ho subito riscontrato che non ci riguardava in quanto la nostra condanna era stata emessa in base ai due articoli 271 e 272 del codice penale mentre il decreto riguardava i reati di uno solo, mi pare il 271 (la propaganda ma non l’associazione sovversiva). Una speranza bruciata in un momento. Ma non così per la mamma di Dal Palù che tanto ha fatto e brigato – ho sempre ignorato come vi sia riuscita, ma immagino che abbia usato anche l’arma della corruzione – che improvvisamente siamo stati amnistiati e liberati. Era la mattina del 6 novembre: mi hanno chiamato e mi hanno detto “fuori con tutta la roba”, espressione classica per dire che si andava fuori. All’ufficio matricola mi confermano che ero stato amnistiato, mi hanno restituito i miei oggetti e mi hanno imbarcato in un motoscafo con altri detenuti ammanettati. Non mi pareva vero ma nello stesso tempo temevo qualche trucco: mi pareva impossibile che mi liberassero così facilmente. Il motoscafo ha girato per il Canal grande e poi ha preso il rio di Cannaregio per sbucare in laguna e mi è sembrato che la prua puntasse al cimitero di S. Michele: mi è preso un tuffo al cuore e letteralmente ho pensato che stavano per attuare una rappresaglia su di me. Mi si è strizzato lo stomaco, come terrorizzato: sono stati attimi terribili ma il motoscafo ha poi imbucato il canale dell’ospedale dove ha fatto sosta e sbarcato i detenuti che vi si dovevano recare. Poi in questura, nel vicino rio di S. Lorenzo. Qui, dopo una qualche attesa, mi hanno fatto firmare un verbale e mi hanno rilasciato. Tutto in pochi minuti. Scendevo le scale che ancora non ci credevo. Ero senza documenti – d’identità e di riforma alla leva – e di colpo ho pensato che mi aspettassero fuori della porta per chiedermeli e ricondurmi subito in carcere. Mi sono fermato e mi sono fatto un piccolo piano: se alla porta non trovavo nessuno – come in fondo speravo – di corsa al Benedetti, poco distante, per telefonare di lì a casa e farmi venire a prendere con i documenti. Così ho fatto: alla porta non ho trovato nessuno e di 28 corsa in pochi minuti sono giunto a scuola. Il preside e alcuni professori erano stupiti di vedermi comparire all’improvviso e mi hanno fatto festa. Ho telefonato a casa di un vicino – i telefoni allora erano rari – che ha avvisato i miei che non sapevano della mia liberazione, anche se erano al corrente dell’attivismo della Dal Palù. E mio padre è venuto a prendermi per ritornare a casa, esattamente sei mesi meno quattro giorni dopo l’arresto. Non è stato semplice riprendere il ritmo della normalità, mangiare quando si voleva, farsi il bagno e dormire in un letto con un vero materasso e, soprattutto, senza cimici. Sono andato dal barbiere che mi ha tagliato i capelli, me li ha lavati e fatto anche la frizione. Ma alla sera stessa ho suonato il campanello di Turcato: non volevo perdere tempo. Nella Resistenza e nell’organizzazione comunista Con Turcato, nella sua stanza piena di libri, ci siamo abbracciati e di colpo mi sono ritrovato nella Resistenza: le sue prime parole sono state per dirmi che ero membro effettivo del partito comunista – me lo ero guadagnato in carcere, ha ribadito – e poi, alla mia domanda, ha risposto che della montagna non se ne parlava, che il mio “posto di lotta” era a Venezia, che dovevamo mettere subito in piedi il Fronte della Gioventù e i Gap e mi ha dato subito una commissione da fare per l’indomani. Saprò solo dopo che a giorni – il 10 novembre34 – Turcato sarebbe stato nominato segretario della federazione comunista veneziana clandestina in sostituzione di “Aurelio” (Giorgio Trevisan), ma a me appariva già come un dirigente di primo piano. È stato proprio nel salutarmi alla fine dell’incontro che mi ha regalato L’educazione sentimentale di Flaubert, in una edizione della Longanesi del 1942, forse come viatico per la nuova attività, oppure anche come codificazione dell’esperienza del carcere: al momento non gli ho chiesto niente, ché non avevo letto il libro e poi altre cose ci hanno preso. Ma nel riordinare in questi ultimi tempi i miei libri, quando ho preso in mano questo, nel rivedere la mia scritta “dono di Renzo” sulla prima pagina interna, mi sono ricordato nitidamente di quella sera e dell’evidente valore simbolico del libro: fra una cosa e l’altra, ormai l’avevo fatta anch’io la mia “educazione sentimentale”. Così ho ripreso subito la mia attività non più fra gli studenti, ma nell’organizzazione comunista e sempre in funzione del Cln e della lotta antifascista unitaria. Infatti era difficile allora, se non impossibile, distinguere fra le due attività tanto erano intrecciate. Ora non andavo più a scuola e avevo a disposizione tutta la giornata che dedicavo interamente a questa attività, quasi senza respiro: me lo ero ripetuto infinite volte in carcere che, se ne fossi uscito, ogni mia energia sarebbe stata spesa nella lotta. Agli studi – per preparare l’esame di maturità classica da fare quando sarebbe stato possibile – o a qualche lettura dedicavo i ritagli di tempo. Come già detto, mi ero iscritto a Scienze politiche ma il mio obiettivo era di passare a Lettere, per cui allora occorreva la maturità classica, cioè fare completamente gli esami su tutte le materie del Liceo classico. Il vero problema da risolvere per me era il greco che non si faceva al Liceo scientifico e che, quindi, dovevo studiare interamente. C. CHINELLO e al., Per una documentazione. L’organizzazione comunista veneziana nel “lavoro illegale”, in G. TURCATO – A. ZANON DAL BO (A cura di), 1943-1945 Venezia nella Resistenza cit., p. 140. Questo incarico durerà sin verso la fine del gennaio 1945, quando cioè giunge a Venezia “Spino (Luciano Marchi) inviato dal Centro. 34 29 Qualche tempo dopo la mia uscita dal carcere ho discusso di questo mio progetto con il professor Semi che non solo l’approvò ma – con grande generosità – offrì di insegnarmelo e così ho cominciato ad andare a casa sua, dietro S. Filippo e Giacomo, dove pazientemente e con metodo concentrato me lo insegnò tanto bene che, quando feci l’esame in settembre, dopo la Liberazione, presi la sufficienza. Cinque anni di greco in pochi mesi: come avrei potuto fare senza Semi? Le prime lezioni me le aveva fatte Livio Maitan che ha dovuto interromperle – come ho dovuto interromperle io - per causa di forza maggiore: appunto, senza Semi35 non avrei mai potuto, così rapidamente e positivamente, risolvere questo mio problema che allora consideravo vitale. Per l’intanto, prioritario restava il mio impegno di attività con Turcato, il cui ‘nome di battaglia’ – come si diceva allora per indicare il nome da clandestino o da partigiano – era ‘Renzo’. Anch’io me lo sono dato subito: ho scelto impulsivamente quello di ‘Cesco’ in memoria di Francesco Biancotto che in carcere chiamavamo, appunto, con questo diminutivo. Sarà poi il nome che mi porterò dietro per tutta la vita non per mia decisione o insistenza particolare, anche se mi piaceva molto, ma perché tutti hanno continuato spontaneamente a chiamarmi così (forse anche perché il mio nome anagrafico non è granché e bisogna sempre spiegare che va scritto con una ‘n’ sola, per non confonderlo con il femminile). Di quei mesi dopo il carcere la memoria immediata che ho impressa nella mente è quella del continuo, lungo, spossante andare a piedi. Ė da allora, infatti, che da S. Elena ero obbligato ad arrivare “in centro”, come allora chiamavamo S. Marco o S. Luca o S. Bortolomeo, a piedi – i vaporetti non funzionavano più per mancanza di carbone e al Lido o alla Giudecca o a Murano si andava in barca – da cui poi mi recavo agli appuntamenti nei punti più svariati e lontani della città. Un’interminabile marcia quotidiana per me, per Turcato e per tutti gli altri. Non ho mai calcolato quanta strada a piedi ho fatto in quei sei mesi, ma non sarebbe difficile: quattro volte al giorno, senza mai saltarne uno, da novembre ad aprile, sino alla Liberazione. Ma il peggio era passare davanti ai pontoni armati o al naviglio tedesco – e alle loro bandiere con le croci uncinate – attraccati alla riva che allora si chiamava pomposamente dell’impero, vigilati da sentinelle armate che sempre scrutavano sospettosamente i passanti: non poche volte ho fatto il giro per via Garibaldi per non sorbirmi questa vista così poco gradevole. Per la verità, di quei mesi, non ho presente il dettaglio come nel periodo precedente al carcere: ricordo prima di tutto il documento falsificato di impiegato del Cellina, rilasciato dal comando tedesco (che tuttora conservo in archivio36), che mi ha fornito Turcato per coprire quelle lunghe camminate di ogni giorno, e tutti i giorni, e che si concludevano in una serie incessante e fitta di appuntamenti, incontri, piccole riunioni, diffusione di volantini, commissioni da eseguire, girate di ciclostile e così via, con un gran numero di persone di tutte le età, che non conoscevo se non per il nome di battaglia, e tutto subordinato alle severe regole della clandestinità che Turcato ci instillava ogni giorno con grande pazienza e tenacia e con quel modo tutto suo di guardar dritto 35 Su “la figura e l’opera” di F. Semi ho dato testimonianza nell’”Omaggio a Francesco Semi” tenuto all’Ateneo Veneto il 18 dicembre 2000, assieme a M. Cortellazzo e G. Paladini (IVESER, Fondo C. Chinello, 18/12/2000, Intervento CC per la commemorazione di F. Semi, dattiloscritto, pp. 4, B. 79, fasc. 2). 36 IVESER, Fondo C. Chinello, 8/11/1944, "Tessera di lavoro" di CC come impiegato della Cellina, rilasciata dal comando tedesco [tessera falsificata da G. Velluti e G. Turcato], B. 1, fasc. 1. 30 negli occhi. Il tutto frammisto e difficilmente distinguibile – va ribadito - tra attività per il partito e attività per il Cln. Come esito particolare di uno di quei giri – fatti per l’organizzazione comunista, verso la fine dell’anno o all’inizio del ’45 – sta il ricordo della mia prima “ombra” (di rosso), al “Bottegon”, ai piedi del ponte di S. Trovaso: mi iniziò, offrendomela con una certa insistenza, “Aurelio” (Giorgio Trevisan), estroso docente di matematica a Padova e rappresentante del partito nel Cln, che mi manifestò una sorta di compatimento per questa mia arretratezza ‘culturale’ e mi decantò, appunto, le seduzioni dell’”ombra”. A dire la verità, non è che quel bicchiere di rosso mi abbia particolarmente colpito – dovranno passare molti anni perché imparassi a centellinare un buon bicchiere di vino – ma lo ricordo solo perché è per me associato a quello straordinario personaggio, e di così forte spessore, che è stato Trevisan, veramente “drastico e razionale”37 come lo descrive Turcato. Una delle prime iniziative politiche prese da Turcato cui ho partecipato direttamente è stata la costituzione del Fronte della gioventù: con Kim (Franco Arcalli), Davide (Oddone Padoan) Moro (Giovanni Citton) e altri abbiamo dato vita a questa organizzazione giovanile che poi costituirà la struttura portante della formazione gappista, il cui comandante è diventato Kim, e che abbiamo denominato “Battaglione F. Biancotto”, come ricamato in una bandiera rossa che presto ci confezionerà la madre di Diana (Nella Coppola), una delle nostre staffette, e che conservavamo nel buco/deposito di armi nella officina da fabbro di Giacomo Tenderini, un locale abbastanza ampio in campiello S. Tomà. Giacomo era un giovane fabbro artigiano, bravissimo nel lavorare il ferro battuto – suo fratello Carlo era in montagna, in una formazione partigiana, militante comunista, non avrà una lunga vita e il suo funerale sarà raccontato in modo struggente da Tinto Brass nel pezzo a colori di quel suo primo bellissimo film in bianco e nero che è Chi lavora è perduto. In capo al mondo – e la sua officina praticamente ha funzionato come la nostra sede di incontro e di deposito, ma anche di rifugio durante certi rastrellamenti (oggi vi si vendono carabattole turistiche). Ė appunto attorno a questa officina che pian piano si è formata questa nostra organizzazione, diventando praticamente il luogo a cui faceva capo la nostra rete che, a sua volta, si imperniava su Turcato nelle sue molteplici funzioni esercitate con una volontà di ferro tanto da fargli annotare nei Frammenti autobiografici che per questi venti mesi non conoscemmo soste e riposo. Di giorno e di notte ogni ora era buona per fare qualcosa per l’organizzazione. Ogni giorno, tutti i giorni. Pericoli, angosce, fame. La morte per alcuni. Alla fine della guerra eravamo stremati di forze e non pochi di noi erano giunti al limite della nevrosi. Anni disperati, ma di grandi speranze di libertà e di giustizia38. Come si vede, è una scrittura asciutta, sofferta, che comunica perfettamente l’estrema tensione nervosa e la fatica fisica e, alla fine, anche la gratificazione di un uomo che si è impegnato allo spasimo – tutti quelli che l’hanno conosciuto ne sono testimoni – in una lotta che segnerà in tutto la sua vita, fino alla fine dei suoi giorni, come ho cercato di dire nella Introduzione ai suoi Frammenti e a cui rimando per non dover ripetere quelle stesse parole, ché difficilmente 37 G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni, Marsilio, Venezia 1980, p. 166. 31 potrei trovarne altre. Si trova traccia di questa nostra attività in una relazione di Turcato “per il periodo 4-17 febbraio ‘45”, sia per quanto mi riguarda – “12/2/45 – Presentazione di Cesco (elemento dirigente del FdG) a Piero per aiuto del suo lavoro. Cesco può rendersi utile in entrambi i casi” – sia di quella dei miei compagni: “15-16/2/45 – Disposizioni a Kim per occultamento armi. Disposizioni per buco stampa – Fronte della Gioventù”39. Noi allora non conoscevamo altri responsabili – ce lo vietavano le regole della clandestinità – e il nostro punto di riferimento era appunto Turcato e attraverso di lui sentivamo la forza e l’organizzazione del partito nelle direttive, come si diceva allora, e nelle cose che ci davano continuamente da fare: quando finalmente vedrò in faccia i dirigenti comunisti, nella notte dell’insurrezione, mi pareva di averli sempre conosciuti, tanto Turcato aveva saputo renderceli familiari nei modi di pensare e nei comportamenti decisi e combattivi in ogni situazione. Ė allora che io ho visto il partito comunista come la forza più decisa, organizzata e aggressiva nella lotta antifascista proprio come io pensavo dovesse essere: così allora tessevo il doppio filo nel mio rapporto con il Pci nell’esservi portato, da un lato, per acceso antifascismo e addirittura, dall’altro, nell’incrementarlo – questo antifascismo – per essere nel partito. Ancora prima dei temi della giustizia sociale e dell’uguaglianza che pure erano punti di forte attrazione per i giovani. Ė un’esperienza che ha fortemente segnato quella parte della mia generazione che è cresciuta e diventata comunista nella Resistenza. Di quei mesi ricordo anche un tiro un po’ mancino - ma per noi (Kim, Davide, io e altri) voleva essere solo scherzoso - che abbiamo fatto a Turcato e da lui, nei racconti sulla Resistenza, poi ribaltato – per giustificare in qualche modo quello che ha indicato come “il bisogno di sfogarsi” dei più giovani – nei confronti del responsabile del Pci veneziano (“Gianni”). La realtà era che noi, allora, tendevamo molto confusamente a vedere la politica unitaria del Pci come una sorta di ingabbiamento, di condizionamento di quello che pensavamo fosse lo spirito rivoluzionario, anche se non mettevamo assolutamente in discussione la linea politica: è stato allora che abbiamo preparato e ciclostilato un foglio con il titolo di Barricata rossa40 che di per sé era una contraddizione politica. Non so come, ma ho ancora in archivio una copia autentica della prima facciata di quel foglio41: a rivederlo, oggi, e a rileggerlo nel testo non è però chiaro in che consistesse il “tiro”, visto che è ortodosso – salvo il finale piuttosto retorico dell’editorialino con quelle “divisioni di Stalin che premono ai confini del Reich, decise ‘a rompere’ le ultime resistenze e piantare nel cuore dell’Europa la rossa Bandiera dell’avvenire”, ma non più di tanto –, con l’eccezione del titolo non proprio ciellenistico. Può anche essere letto come un segno giovanile e speranzoso dei tempi. Nel complesso, va però sottolineato che in tutti questi mesi seguiti alle rappresaglie estive, anche a seguito dei successivi arresti di esponenti del Cln e dei partiti, l’attività resistenziale G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit., p. 168 C. CHINELLO e al., Per una documentazione cit., p. 145. 40 G. TURCATO, Barricata rossa, in ID. (A cura di), Kim e i suoi compagni, Marsilio, Venezia 1980, pp. 51-53. 41 IVESER, Fondo C. Chinello, - s.d. [inizio 1945], "Barricata rossa", Foglio di battaglia dei soldati, degli operai e dei contadini, edito dalla Federazione comunista veneziana, ciclostilato, pp. 2, B. 1, fasc. 2. 38 39 32 veneziana ha vissuto una difficile crisi per le conseguenti ragioni organizzative, ma anzitutto per motivazioni politiche. Era una fase in cui tendevano a prevalere – per dirla francamente e analogamente a quanto era accaduto dopo l’8 settembre - forme insidiose di “attesismo”42, di limitazione a forme di attività solo di propaganda, di rinuncia cioè ad azioni di lotta concreta contro fascisti e tedeschi per la loro multiforme presenza che faceva di Venezia una città ministeriale “per molti versi anomala”43, da cui le possibili più gravi rappresaglie. Forme a cui comunisti e azionisti cercavano di opporsi in ogni modo ma con scarsi risultati, se non si voleva proprio rompere l’unità delle forze antifasciste in un momento così delicato, anche se poi alcune di queste perseguivano con assoluta determinazione i propri interessi, senza scrupoli e in violazione degli accordi, come nel caso de “Il Gazzettino” le cui azioni sono state regalate da Volpi alla Democrazia cristiana44, non certo senza un prezzo politico come risulterà chiaro nei mesi successivi alla Liberazione. È un tema complicato, questo dell’attendismo nei suoi vari aspetti, che spesso è stato lasciato a margine nella memorialistica, ma cruciale nella storia della Resistenza e nei rapporti tra le forze che vi parteciparono: a Venezia, in quel “duro”45 e freddo inverno ‘44-’45 ne emergevano forme piuttosto critiche, almeno questa è l’impressione che è rimasta fortemente impressa nella mia esperienza. Tanto è vero che è in questo contesto che è nato il progetto dell’azione del Goldoni: nel momento in cui la Liberazione appariva non troppo lontana, sembrava necessaria un’iniziativa per smuovere le acque, per sospingere alla lotta, per rompere una stagnazione che cominciava a diventare deprimente ed anche preoccupante sul piano politico. In definitiva, bisognava - come dice Turcato - “rialzare il morale del nostro popolo”46 e, aggiungo io, dei suoi rappresentanti. Naturalmente, nei suoi numerosi racconti della “beffa”, egli non l’ha mai posta in termini così crudi per ovvie ragioni politiche, ma non è stato certo un caso se i partecipanti all’azione erano tutti comunisti e ben consapevoli delle possibili conseguenze47: ma bisognava affrontarle e rischiare. Per fortuna, è andata bene. L’azione del Goldoni Nei primi mesi del 2001, alla Celestia, scartabellando insieme a Marco Borghi un fascicoletto di carte del Fondo G. Turcato nell’archivio dell’Iveser, ci è capitato fra le mani un foglio protocollo, manoscritto sulle quattro facciate, intitolato “Rapporto sull’azione del Goldoni”. Incuriosito l’ho guardato meglio e ho scoperto con molta sorpresa che quella scrittura era la mia: non ho Cfr. voce “Attesismo (o attendismo)” in M. RENDINA, Dizionario della Resistenza italiana, Editori Riuniti, Roma 1995, pp. 19-20. 43 C. FUMIAN, Venezia “città ministeriale” (1943-1945 in G. PALADINI – M. REBERSCHAK, La Resistenza nel veneziano cit., I, p. 365. 44 M. REBERSCHAK, Il Comitato di liberazione nazionale regionale veneto e il caso Volpi, in Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Stamperia di Venezia, Venezia 1993, pp. 319-361. 45 G. TURCATO, La beffa del Teatro Goldoni. 12 marzo 1945, in G. TURCATO -A. ZANON DAL BO (a cura di), 19431945. Venezia nella Resistenza cit., p. 249. 46 Ibidem. 47 In occasione della morte di Turcato, N. L. De Franchi, che si trovava in platea, ha criticato l’azione in una lettera a “Il Gazzettino” che così si concludeva: “Se qualcuno avesse reagito alla ‘beffa’, la platea del Goldoni si sarebbe tramutata in un carnaio, degno delle più atroci stragi dell’epoca. Con conseguente rappresaglia germanica, aprendo nella pacifica Venezia una ferita che difficilmente si sarebbe rimarginata. Come il caso Priebke insegna”, meritandosi l’appropriato commento redazionale “Ma è anche grazie ad azioni ardite, come quella di Turcato, che oggi chi vuole può dissentire liberamente” (“Ero presente alla Beffa del Goldoni”, “Il Gazzettino”, 28 ottobre 1996). 42 33 assolutamente ricordo, neanche il più vago, di aver mai scritto questo “rapporto”. L’ho letto prima d’un fiato e poi riletto con più calma: Battaglione S.A.P48. ‘F. Biancotto’ Venezia Rapporto sull’azione del Goldoni La sera del 5 marzo nella riunione settimanale del Comitato direttivo del Fronte della Gioventù il responsabile Renzo propose di tenere un comizio volante in qualche locale pubblico. L’esecutivo accettò e immediatamente si mise all’opera. La sera dopo andò al teatro Goldoni per un sopral[l]uogo e gli riuscì di esaminare superficialmente il palcoscenico. Il colpo si presentava oltremodo difficile. In una serie di appuntamenti susseguentisi si fissò il piano dettagliato. Il nucleo operante doveva a nostro avviso essere composto di 11 elementi del FdG così disposti: 1° squadra 1 uomo 2° squadra 3 uomini 3° squadra 4 uomini 4° squadra 3 uomini La 1° doveva chiudere la porta della platea con catena e lucchetto all’ora fissata. La 2° doveva fermarsi nell’entrata degli attori e osservare il sottopalco. La 3° sul palcoscenico dietro le quinte ai quattro angoli, alle porte, alla cabina dell’operatore, all’uscita di sicurezza. La 4° in scena. Gli accordi erano di non sparare per primi, ma solamente se provocati, e il primo colpo in aria. Molti ostacoli si presentarono nella scelta degli uomini ai quali non si poteva spiegare il piano per ragioni di carattere cospirativo e militare. Aderì in massa la sezione FdG di S. Polo, alcuni elementi di S. Marco. Castello e Cannaregio si rifiutarono. Altro ostacolo erano le armi che mancavano completamente. A Renzo, che ci fu prodigo di aiuti materiali e morali, ci rivolgemmo. E riuscì a procurarci 8 rivoltelle e 4 bombe a mano. Qualcuno di noi aveva la sua personale che, naturalmente, fu adoperata. Il colpo era fissato per la sera dell’11 marzo, domenica. All’ora fissata, si dovevano spegnere le luci in sala e in scena, e da due palchi occupati da compagni e compagne si doveva fare un lancio di manifestini. Indi si doveva entrare in scena e tenere il comizio. Domenica mattina Cesco e Kim ispezionarono le armi. Mentre si parlava a Nino (Silv.) partì un colpo di rivoltella che colpì Massimo al braccio sinistro. Si restò in silenzio. Nessun fascista aveva udito il colpo e fummo salvi. Massimo fu medicato alla meglio e Cesco e Kim lo accompagnarono da Renzo che lo condusse da un medico. Alle 15,30 in vari posti i ragazzi attendevano. Si spiegò loro l’azione e s’illustrò il piano e il posto rispettivo di ciascuno mediante una piantina del teatro preparata da Davide. Furono soddisfatti. Frattanto Kim e Davide dovettero allontanarsi per servizio di Partito e Cesco restò solo e passando continuamente da un gruppo all’altro teneva i ragazzi raccolti onde evitare qualsiasi indiscrezione. Verso sera (ore 17,30) ci si diresse verso il luogo. Frattanto Renzo aveva fatto preparare sulla riva del Carbon un sandalo con due rematori e un medico in un posto fissato per qualsiasi cosa potesse accadere. Mentre si discutevano gli ultimi dettagli suonò l’allarme. I due di S. Marco vollero andar via. Li lasciammo liberi con l’avviso che se qualcosa fosse da loro trapelato sarebbero stati liquidati. Cessato l’allarme dopo più di un’ora, si era indecisi. Kim propose di agire. Cesco e Davide lo sostennero. Tutti accettarono. Si era in procinto di entrare e il compagno della platea avvisò che la rappresentazione era terminata. Da notare che i due rematori avev[an]o aderito di partecipare all’azione. Si rimanda al giorno dopo, lunedì 12 marzo 1945. Renzo propone la semplificazione del piano. Niente lancio dai palchi ma dal palcoscenico. Il giorno dopo ancora una lunga serie di appuntamenti perché alcuni non volevano più venire, e vennero inclusi dei nuovi. Alla sera (ore 20,30) ci si trovò in riva del Carbon. Un compagno anziano propose di andare al telefono del teatro e di vigilare. La proposta fu accettata. Fu eliminato il dettaglio di chiusura della porta con la catena. Si distribuirono le armi. Ultimo incoraggiamento di Renzo e Kim entrò per primo seguito dagli altri. Uno scappò vilmente, Nino (Silv.), e si restò in 9. 48 Non saprei perché ho scritto “Sap”, dal momento che ci siamo sempre considerati e denominati “Gap”. 34 Un custode, due questurini e un tizio furono sopraf[f]atti. Mirko e Andrea II° si disposero a guardia dell’entrata e del sottopalco dopo aver chiusa la porta. Gli altri salirono sul palcoscenico con gli uomini catturati. Mentre i ragazzi si disponevano secondo il piano prestabilito un questurino tentava la fuga. Kim lo fermò. In pochi secondi tutti erano sotto la mira delle nostre rivoltelle. Tutti rimasero ter[r]orizzati. Furono accese le luci in sala. Gli attori sortirono dalla scena e immediatamente Kim Cesco e Davide entrarono nella scena e per pochi secondi osservarono il teatro. Silenzio perfetto e nessun movimento. Cesco tenne comizio49. Nella sala nessuno osò fare il minimo movimento. Mentre Cesco parlava, Davide e Kim fecero il lancio di manifestini. Si restò in scena 1 minuto e 10 secondi. Poi ci si ritirò. Ultimo avvertimento agli attori. Il Moro chiese scusa, augurò la buona notte inchinandosi. Gli attori sorrisero. Si uscì e nessuno disturbò. Il comportamento fu ottimo da parte di tutti. Elogio speciale al Comandante Militare Kim. Tutti rimasero ai loro posti sino all’ultimo momento senza paura e decisi. Tutti i partecipanti all’azione erano comunisti. Armi e denaro forniti dal compagno Renzo responsabile del Fdg in seno alla federazione del P.C. Parteciparono all’azione Kim (Com. Milit.) Cesco (tenne comizio) Davide (sulla scena) Moro – Totò – Oca – Giov. (palcoscenico dietro le quinte) Mirco - Andrea II° (entrata degli attori) Il giovane M. presidiò la barca. L’esecutivo Fdg L’esecutivo del Batt. ‘F. Biancotto’ 22 marzo 1945 Morte ai Nazifascisti!50 Ė una relazione dettagliata51 che spiega anche nei particolari, con nettezza e senza enfasi, lo svolgimento degli avvenimenti, con i problemi e i mutamenti dettati dalle circostanze e persino con l’abbandono, non proprio bello, all’ultimo momento di Nino (Silv.52). Quello che mi ha colpito subito e un po’ stupito – lo confesso, con una certa difficoltà – è che Turcato non abbia pubblicato questo documento e neanche citato nei suoi infiniti racconti e relazioni sulla “beffa”, anche se esso si profila con un carattere netto di documento storico per cosa e per come è raccontato e per la stringata essenzialità. In qualche modo credo di capire le ragioni del silenzio di Turcato. Ho gia detto nell’Introduzione ai suoi Frammenti come egli avesse una “visione patriottica”53 della Resistenza e come sentisse fortemente il bisogno di mitizzarla per sottolinearne valore e incidenza nella storia d’Italia, per allacciarla alla vicenda del Risorgimento, mentre la mia scrittura è molti 49 Il testo imparato a memoria, e ripetuto le mille volte e che ancora ricordo quasi integralmente, era il seguente: “Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per la causa della liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è vicina! Stringetevi attorno Al Comitato di liberazione nazionale e alle bandiere degli eroici partigiani che combattono per la libertà d’Italia dal giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l’unità di tutti i partiti antifascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della gioventù!”. 50 IVESER, Fondo C. Chinello, 22/3/1945, Battaglione S.A.P. 'F. Biancotto', "Rapporto sull'azione del Goldoni", fotocopia/manoscritto, pp. 4 [l'originale nel Fondo G. Turcato], B. 1, fasc. 2. I nomi anagrafici sono i seguenti: Kim: Franco Arcalli; Cesco: Cesco Chinello; Davide: Ottone Padoan; Moro: Giovanni Citton; Totò: Otello Morosini; Oca: Renato De Faveri; Giov.: Giovanni Dinello; Mirco e Andrea II°: Delfino Pedrali e Giovanni Guadagnin (o viceversa: dato che Pedrali e Guadagnin parteciparono all’azione, come ricordo perfettamente, evidentemente avrò attribuito loro questi nomi al momento della stesura del rapporto); Giovane M: Mario Osetta. A questi va ovviamente aggiunto il gruppo che era in platea e quelli che hanno collaborato dall’esterno citati da Turcato nei vari resoconti. 51 Questo “Rapporto” è già stato pubblicato in una nota della mia introduzione ai Frammenti autobiografici di G. Turcato, inserita all’ultimo momento, quando già il n. della rivista era in bozza, e quando non avevo in mente questa mia autobiografia, per cui mi sembra ora opportuno ripubblicarla nel testo, con la dovuta evidenza, con i dati specifici e con commento più appropriato. 52 Silvano Panizzutti. 35 toni sotto, ma non per questo meno sentita. Se devo dire la verità – tento di guardarlo come se non fosse mio, questo “rapporto” – a suo modo esalta indirettamente l’avvenimento nel mostrare come sia nato e risolto affrontando problemi e contraddizioni per cui, in definitiva, appare forse più autentico delle molte versioni di Turcato che avendo inserito qualche tocco di fantasia – come quell’esclamazione messa in bocca all’ufficiale tedesco “questi italiani non cessano di sorprenderci”54 – assumono spesso più un sapore letterario che di resoconto di un’azione gappista. Quello che ricordo con nettezza di quell’azione – oltre ad una piccola papera (di cui forse nessuno si è accorto, ché nessuno me ne ha mai parlato) nelle mie primissime parole pronunciate sul proscenio, subito risolta con una voce più forte e chiara – è stata la decisione del Kim, da vero comandante anche se aveva 18 anni, due meno di me. Data un’occhiata alla squadra che aveva messo i fazzoletti rossi sul viso e caricate le armi dietro i muretti di una scala lì vicino, ha detto “andiamo” e senza aspettare è entrato, io e Davide l’abbiamo seguito seduta stante e gli altri dietro. Tutto si è svolto con regolarità cronometrica. Solo io ho avuto un piccolo inconveniente: nel far scendere un operatore da un’impalcatura, mi si è slegato il fazzoletto sul viso, scoprendolo, per cui ho dovuto in qualche modo riannodarlo più stretto con la pistola in mano (e la bomba a mano messa in tasca, il tutto anche un po’ comico). Noi eravamo senza dubbio caricatissimi – ci aveva pensato Turcato – ma avevamo anche i nostri sottofondi di paura che però sono emersi dopo, ma anche fascisti e tedeschi presi così alla sprovvista avranno avuto molta più paura di noi pensando certamente che per fare una tale azione bisognava essere in molti ed anche addestrati (non a caso noi avevamo subito annunciato che il teatro era circondato). Del resto lo si capisce anche dal rapporto molto stringato del “Capo della Provincia Barbera” subito inviato al Ministero dell’Interno e che ho ritrovato all’Archivio centrale dello Stato: 03925. Gab. Ore 21 circa ieri durante primo atto questo teatro Goldoni, gruppo dieci individui armati pistole et viso mascherato, penetrati attraverso accesso riservato artisti, dopo immobilizzato personale et vigili et chiuso accessi platea, portavansi tre dei predetti sul palcoscenico et uno parlava al pubblico, dichiarandosi inviato Comitato Liberazione per annunciare prossima fine Fascismo et Nazismo et caduta Duce et Fueher [sic], esortando presenti ad associarsi opera liberazione. At fine discorso venivano lanciati manifestini ciclostile riportanti invito popolazione ad associarsi movimento liberazione nazionale. Predetti, protetti minaccia armi et profittando stato emozione presenti, riuscivano ad allontanarsi indisturbati. Nessun incidente. Disposte attivissime indagini”55 Ma di quell’azione ricordo ancora tre dettagli, non inerenti all’azione stessa, ma in qualche nodo connessi, uno inerente al gruppo e due di carattere più personale. Quello collettivo è accaduto la mattina di domenica 11, il giorno deciso per l’azione. Come è detto nel “Rapporto”, eravamo nella bottega di fabbro e controllavamo le armi forniteci da Turcato per l’azione quando a “Nino (Silv.)” è sfuggito un colpo di rivoltella che ha colpito Giacomo Tenderini (Massimo) al braccio, per fortuna di striscio. Ricordo quel colpo in modo particolare G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit., p. 154. Ė la testimonianza di Turcato nel video – trasmesso dalla Rai nell’ottobre o novembre 1996 all’interno della rubrica “Videosapere” – che porta il titolo “La beffa del Goldoni” e che è stato girato dal regista A. Schneider. Per la verità nei resoconti precedenti Turcato non cita mai questo fatto ed io stesso mai ne ho sentito parlare. 55 IVESER, Fondo C. Chinello, 13/3/[1945], Ministero dell’Interno Sic. Div. Pol. (A.G.R. e Polizia), a firma “Capo Provincia Barbera”, fotocopia, B. 1, fasc. 2. 53 54 36 perché mi è passato a qualche millimetro (o centimetro, non saprei), ché ho intravisto un lampo e mi sono sentito bruciare gli occhi. Non ci voleva proprio in quel momento e poi non ci siamo mai detti cosa sarebbe successo se la ferita fosse stata più grave o peggio ancora. Comunque, con Turcato abbiamo trovato la soluzione in una medicazione fatta dal prof. Vecchi nella cui casa Giacomo è stato accompagnato da una nostra staffetta e prontamente medicato e rassicurato. Tutto si è così risolto in positivo, con un risvolto negativo per Giacomo, che non ha potuto partecipare all’azione. I due dettagli personali riguardano il dopo-azione. Del gruppo io ero quello che abitava più lontano, a S. Elena: avevo cioè il problema, riconsegnate le armi alla barca, di tornare subito a casa – a piedi – prima del coprifuoco. Eccitati com’eravamo, non era semplice separarmi dal gruppo che era per me protezione e sicurezza e andarmene a casa da solo senza perlomeno scaricare l’eccitazione. Ma Turcato, a ragione, era inflessibile: abbiamo scambiato il cappotto per sicurezza contro i possibili riconoscimenti, mi ha dato un paio di occhiali per la stessa ragione, ma non ci vedevo bene e per fare i ponti dovevo abbassarli sulla punta del naso. Alla Veneta Marina, infilando una mano in tasca mi sono accorto di avere un caricatore della rivoltella che nella fretta evidentemente non avevo riconsegnato: a qualche decina di metri c’erano i pontoni armati tedeschi con relative sentinelle che, se mi fermavano e mi trovavano quella roba in tasca, non sarebbero certo andati per il sottile. Non ho potuto far altro – secondo i riflessi di sicurezza istillatemi da Turcato – che avvicinarmi alla spalliera del ponte e gettare il caricatore in acqua, anche se mi dispiaceva moltissimo, ché in quel momento non avevamo molte armi e munizioni. Giunto a casa – tutt’altro che calmato – ho chiesto una sigaretta a mio padre che, ovviamente, nulla sapendo non poteva certo immaginare le ragioni della mia voglia. Non me l’ha data, o perché non l’aveva – fumava mezzi toscani – o chissà per quale altra ragione: ho provato un senso di ribellione antipaterno facilmente immaginabile. Non resistevo senza una sigaretta – unico modo immediato per scaricarmi della tensione – così sono ritornato fuori, nonostante il coprifuoco, e sono andato nella casa vicina di un compagno che mi ha dato finalmente la sigaretta che ho fumato con avidità, anche se non potevo parlare dell’azione appena compiuta. Sono poi ritornato a casa e finalmente mi sono coricato e sono riuscito persino a dormire profondamente. Il mattino dopo, verso le undici ci siamo ritrovati con Kim, Davide e qualche altro a girare tra campo S. Luca, S. Bortolomeo e piazza S. Marco. La voce del “colpo” si era diffusa come un lampo in tutta Venezia e non si parlava che di questo: noi camminavamo per la strada un po’ imbaldanziti, ma senza nulla rischiare per ovvie ragioni. Il caso ha voluto anche che incontrassimo per strada Elena Zareschi56: vista fuori della scena era tutt’altra cosa. Una magnifica giornata di sole che ricordo ancora con soddisfazione. Il giorno dopo abbiamo diffuso per tutta Venezia un volantino ciclostilato a firma del Fronte della Gioventù che oltre ad esaltare la beffa, usava l’arma dell’ironia contro i fascisti seduti in platea al Goldoni: 56 E. Zareschi era l’attrice di cui avevamo interrotto la presentazione di Vestire gli ignudi di L. Pirandello, la sera prima, sulla scena del Goldoni. 37 “Tra gli eroici fascisti presenti che non hanno fiatato sono stati notati il questore Cortese, il tenente Lino Bottacin, il giornalista Gastone Toschi, l’invincibile G.N.R., la terribile X Mas, le tremende brigate nere erano tutte degnamente rappresentate, ma pare non abbiano gradito il piatto freddo che i nostri valorosi partigiani hanno loro ammannito”57. Quel “piatto freddo” rivela la mano di Turcato che sicuramente ha scritto il volantino, ciclostilato, se ricordo bene, nel ‘buco stampa’ a casa di Armando Pizzicato o in qualche altra parte. Per concludere questo punto, Kim merita un cenno particolare. Turcato ci aveva assegnato gli incarichi nella formazione: Kim comandante e Moro vice, Davide commissario politico e io vice, ma non avevamo formalità alcuna tra noi, solo molta fiducia in Kim, perché aveva il senso innato del comando in azione, il coraggio del giovane neanche diciottenne ma consapevole e calcolato e in aggiunta aveva molta più esperienza di noi avendo partecipato a vere e proprie azioni di guerra fra Venezia e Padova (basta solo pensare all’attentato a Ca’ Giustinian). Kim era nipote di Giuseppe Stefani, detto “Bepi Carta” per via della cartoleria che gestiva, un vecchio militante comunista veneziano che aveva fatto i suoi anni di confino e che aveva dato al partito sempre e in qualunque situazione tutto quello che poteva dare. La sua cartoleria, in Salizzada S. Polo, era luogo di incontro e di deposito della rete comunista veneziana, lì facevano capo tutti: dalla carta per il ciclostile all’ultimo volantino, o a “l’Unità” clandestina da diffondere. Naturalmente Kim, in quell’ambiente, aveva assorbito politica sin da ragazzino ma anche il suo istinto era ribelle e la sua personalità molto complessa e versatile e, nel fondo, come si vedrà dopo, modernamente artistica. Credo non avesse alcuna inibizione, in nessun campo, anche in certo qual modo a sprecare la propria vita per viverla più intensamente. Dopo la Liberazione ha fatto più di qualche mestiere ma alla fine ha ritrovato la sua strada nel cinema. Aveva cominciato col partecipare all’elaborazione del progetto e poi alla realizzazione del film di Brass già citato, in cui ha fatto anche due bellissime parti di attore fortemente immedesimato e, in più, ha collaborato alla regia e alla sceneggiatura, come risulta dai titoli, ma che in realtà era qualcosa di più di una collaborazione - “di complicità” dice Brass - come risulta da tante testimonianze e come di lui raccontano tanti registi in quel bel libro che gli hanno dedicato Marco Giusti ed Enrico Ghezzi58. Ma Kim si è rivelato soprattutto come uno dei più affermati, capaci e 57 IVESER, Fondo C. Chinello, s.d. [mar./1945], "Verso l'insurrezione nazionale", a firma "La Federazione provinciale del Fronte della Gioventù", ciclostilato, B. 1, fasc. 2. Il testo integrale del volantino è il seguente: “Verso l’insurrezione nazionale. Fronte della Gioventù. Operazione insurrezionale. La sera del 12 marzo 9 giovani del battaglione S.A.P. ‘Biancotto’, martire di Ca’ Giustinian, appartenenti ed operanti nel fronte della Gioventù hanno tenuto comizio davanti al pubblico che affollava il Teatro Goldoni. / Dopo aver ridotto all’impotenza la polizia fascista un giovane dal palcoscenico rivolse a tutti i presenti un vibrante appello patriottico incitando alla lotta contro i tedeschi e i fascisti traditori. / Concludeva il suo dire con le seguenti parole: / ‘Stringetevi attorno al Comitato di Liberazione nazionale, alle bandiere degli eroici partigiani. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! W il Fronte della Gioventù!’./ Dopo aver lanciato manifestini ed un ironico ‘Buona sera ed arrivederci’, i 9 coraggiosi si ritirarono. L’eco pubblica dell’accaduto è stato tanto viva che la stampa neofascista non ha osato fare neppure cenno. / Tra gli eroici fascisti presenti che non hanno fiatato sono stati notati il questore Cortese, il tenente Lino Bottacin, il giornalista Gastone Toschi, l’invincibile G.N.R., la terribile X Mas, le tremende brigate nere erano tutte degnamente rappresentate, ma pare non abbiano gradito il piatto freddo che i nostri valorosi partigiani hanno loro ammannito. Contemporaneamente nei cinema S. Marco, Massimo, S. Margherita vennero effettuati lanci di manifestini. La Federazione Provinciale del Fronte della Gioventù”. 58 M. GIUSTI ed E. GHEZZI (a cura di, con la collaborazione di S. Grmek Germani), Kim Arcalli: montare il cinema, Marsilio, Venezia 1980. La citazione di A. Brass è a p. 64. 38 intuitivi montatori di film che nelle sue mani si trasformavano. Non aveva grande cultura e non credo neanche grandi letture ma aveva la capacità innata di scoprire il senso e la dinamica di una storia raccontata in un film che costruiva/montava in modo magistrale alla moviola, tanto da conquistare presto la fiducia di molti registi. Una delle ultime volte che ho visto Kim – in una cena ‘sociale’ (quelli del Goldoni) organizzata da Turcato al “Nono risorto” nel 1976 – è stata subito dopo l’uscita di Novecento di Bernardo Bertolucci di cui era uno degli sceneggiatori e aveva fatto il montaggio: ne abbiamo parlato a lungo e all’inizio, per farlo parlare, gli avevo detto che il film non mi era piaciuto molto. Manovra riuscita, ché a spada tratta ha difeso, e a ragione, il film e alla fine, spiegandogli la mia provocazione, gli ho riconosciuto che lungo tutto il bellissimo film si vedeva il suo tocco, o almeno quello che io immaginavo essere il suo tocco, il che lo ha rabbonito tanto da confermarmi quasi tutte quelle mie impressioni. Morirà solo due anni dopo, nel 1978, dopo aver fatto quello che, per quanto ne so, è stato l’ultimo suo lavoro: supervisore al montaggio – era ormai stremato nelle forze – di Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni (1977). Io stimavo moltissimo Kim come comandante partigiano per averlo provato in azione ma poi, dopo la Liberazione, i nostri rapporti si erano allentati anche perché mi appariva, diciamo così con un eufemismo, un po’ scapestrato. L’ho visto più di qualche volta a Roma, quando ero parlamentare – una volta anche con Gigi Nono che lo amava moltissimo – ma ci eravamo parlati come amici di un tempo passato. Ora, invece, confesso il mio grande rammarico di avere ‘scoperto’ e amato Kim59 – la sua grandezza e sensibilità di artista – solo dopo la sua morte e solo dopo che altri ne avevano parlato. Io avevo capito Kim partigiano, non l’ho capito poi nella sua ricerca attraverso itinerari spesso molto sommersi e contorti ma che l’hanno portato lontano e per cui si è anche realizzato, sebbene sia stato sempre inquieto per predisposizione innata. Fra rastrellamenti e disarmi. Il colpo mancato in campo S. Salvador Nei giorni seguenti l’azione del Goldoni le brigate nere hanno organizzato dei rastrellamenti in città alla caccia degli esecutori e per caso sono incappato in uno di questi: in fondamenta a S. Giuseppe, a Castello. Io ero andato in quella zona, non ricordo più per quale ragione, in compagnia della nostra staffetta Diana (Nella Coppola) quando all’improvviso – saranno state le dieci o le undici del mattino – gruppi di brigate nere e di militi della X Mas hanno circondato la zona di Secco Marina, l’hanno bloccata nel senso che non si poteva entrarvi o uscirne e hanno subito cominciato la perquisizione nelle case e l’identificazione delle persone. I modi erano spicci e violenti: sfondavano le porte delle case a scarpate o con i calci dei mitra, gridavano come forsennati per incutere terrore, spintonavano chiunque capitasse a tiro e senza riguardo alcuno per vecchi e bambini e raggruppavano a parte i giovani che trovavano. La zona era in subbuglio, praticamente tutti gli abitanti in strada, probabilmente la confusione aumentata ad arte dalle urla e dai movimenti delle donne per mettere sull’avviso chi fosse in pericolo (era questa la mia netta 59 C’è una bellissima foto – Kim, Turcato ed io – scattata (non ricordo da chi e comunque contro tutte le regole della clandestinità, anche se ormai si era alla vigilia della Liberazione) più o meno fra il Danieli e il Ponte della paglia qualche giorno dopo l’azione del Goldoni che conservo con molto affetto e che Turcato ha anche pubblicato (G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni cit., foto n. 2). 39 sensazione). Io con la staffetta, documenti alla mano, ho cercato di passare il ponte di S. Giuseppe, ma me lo hanno impedito. Dall’altra parte del canale, in campo S. Giuseppe, ho scorto il mio ex professore di religione al liceo – esercitava non so quale funzione nella parrocchia – che, a sua volta, mi ha visto e mi ha fatto segno di stare calmo (come ho già detto, era un gran bravo prete/scienziato che nulla aveva di clericale, se non la tonaca). Non ho potuto far altro che appoggiarmi al muretto della fondamenta e stringere tra le braccia la mia compagna, come se fossimo giovani innamorati e non ci interessasse quello che stava accadendo lì attorno, per un tempo che mi è parso lunghissimo. Dall’altra parte il professore sorrideva, in qualche modo rassicurato. Ma io, in quella situazione, mi sentivo in trappola e aspettavo ansioso il momento di poterne sgusciare fuori ma vedevo sempre più nero. Solo alla fine del rastrellamento – forse già stanchi e con la tensione caduta – sono venuti a chiedermi i documenti: io ho esibito quello tedesco falsificato fornitomi da Turcato e ci hanno fatti passare. Ce la siamo così filata quasi increduli di una sorte così benevola. Era la seconda volta che mi ritrovavo in una retata: la prima era stata in quello che in quel momento mi sembrava il lontanissimo fine settembre 1943, o inizio di ottobre, a S. Bortolomeo, quando, circondato il campo, i fascisti avevano richiesto a tutti i documenti. Allora andavano alla ricerca dei renitenti alla leva o di chi aveva abbandonato l’esercito. Io ho mostrato il mio foglio di riformato60 che portavo sempre con me e il milite mi ha ammonito con arroganza che potevo lo stesso andare volontario. Più o meno negli stessi giorni del rastrellamento avevamo studiato un altro colpo, forse anche più spettacolare di quello del Goldoni, da attuare il 23 marzo, nell’anniversario – come la chiamavano loro – della fondazione dei ‘fasci di combattimento’ con sfilata di brigate nere e Gnr in piazza S. Marco con relativi discorsi e cerimonie. Il machiavello stava nel fatto che alcuni punti della città – piazza S. Marco, campo S. Luca e campo S. Bortolomeo, i veri “luoghi” della città in tutti i sensi – erano collegati da un sistema di altoparlanti che faceva capo ad un unico centro da cui in certe ore del giorno i fascisti diffondevano a tutto volume le loro canzoni, i loro bollettini di guerra (sempre perdenti) e notiziari vari: non era un bel sentire per i veneziani. Quel centro era situato in un grande locale in campo S. Salvador – dove ora c’è un negozio di fiori, a fianco dell’allora cinema Massimo e a fronte della chiesa – al cui interno c’era l’apparato di microfoni e di riproduzione musicale: il nostro piano era di entrare in quel centro a mano armata – il terzetto che aveva agito sul palcoscenico del Goldoni – disarmare tutti i presenti e obbligarli a collaborare per lanciare dal microfono il nostro appello che sarebbe risuonato nei due campi e soprattutto in piazza S. Marco durante la sfilata con conseguenze facilmente immaginabili: tutta la città avrebbe risentito la viva voce dei partigiani, cioè la mia come si era deciso per la ormai provata esperienza. Avevamo consapevolezza dei punti deboli del piano: la non conoscenza della disposizione interna dei locali e del funzionamento degli apparati e dei collegamenti (soprattutto dei microfoni) e la vicinanza soprattutto con S. Bortolomeo da cui i fascisti potevano accorrere in pochi secondi. Ma potevamo puntare sulla sorpresa ed anche sull’aria di sfacelo che già si sentiva nell’aria, sulla collaborazione ‘forzata’ degli addetti del centro e sulla dislocazione delle nostre forze: i gappisti IVESER, Fondo C. Chinello, 6/7/1943, "Dichiarazione di riforma" (alla leva militare) di CC, manoscritto su modulo, B. 1, fasc. 1. 60 40 armati con rivoltelle e bombe a mano ai bordi del campo e all’incrocio delle calli, decisi a sparare se necessario (anche se non ne avevamo l’addestramento, ma neanche gli altri ne avevano molto), e una via di fuga per la limitrofa Salizzada S. Todaro, sulla cui riva c’era una barca che ci avrebbe fatto raggiungere in pochi minuti l’altra riva del Canal grande. Comandava l’azione, al solito, Kim. Se ricordo bene, l’ora era stata stabilita per il primo pomeriggio, fra le tre e le quattro, appunto durante la sfilata: abbiamo dislocato le nostre forze e controllato molte volte che tutti fossero ai loro posti. Al momento dell’azione Kim, Davide ed io andiamo alla porta della centrale: nel preciso istante dell’entrata Kim sussurra “No, non si fa” e noi, prontamente, torniamo indietro e diciamo a tutti di andar via. Nessuno si era accorto di niente. Per noi tre e per Turcato che Kim abbia detto “No” significava solo che l’azione era destinata al disastro: Kim aveva un ‘naso’ per queste cose che per noi era vangelo. Come già detto, avevamo in lui una fiducia assoluta e infatti nessuno ha recriminato e mai abbiamo considerato questa nostra ritirata come un atto rinunciatario o una fuga di fronte al nemico, ma solo un non buttarci allo sbaraglio e solo perché così aveva temuto Kim. Turcato poi non ha mai parlato di questa tentata azione nel diario storico della formazione e poi nei suoi scritti perché – immagino io – non voleva rendere pubblica una rinuncia di azione che poteva apparire come una nostra debolezza, soprattutto dopo l’azione riuscita del Goldoni. Ormai mancavano poche settimane alla Liberazione: la sentivamo nell’aria e diventavamo più spavaldi che mai. Non si vedevano tedeschi girare da soli, ma sempre in gruppo (sapevano ‘tecnicamente’ il fatto loro). Non così i fascisti: pochi giorni dopo la nostra tentata azione, eravamo in piccolo gruppo – armati e in caccia, si potrebbe dire – sulla riva di S. Simeon Piccolo, fra la scalinata della chiesa e il ponte degli Scalzi, quando si fa avanti uno della Decima Mas in divisa, con il mitra a tracolla, al braccio di una bella ragazza. Ci guardiamo e senza dirci una parola lo cogliamo alle spalle, gli facciamo alzare le mani, gli sfiliamo il mitra e qualcuno gli dà un calcio sul sedere e quello si mette a correre mollando la ragazza: la gente attorno a ridere e a battere le mani con evidente approvazione. Portiamo il mitra nelle nostra bottega di fabbro e non passa molto tempo che avvertiamo dalle grida un rastrellamento in corso (evidentemente quello si era precipitato a chiedere aiuto): stiamo in silenzio e con le armi pronte. Ma passano via schiamazzando. Qualche giorno dopo, sempre dalle stesse parti, in calle Bergami, passa un brigatista nero, in divisa e con la pistola al cinturone, una valigia in mano: ripetiamo la scena, gli facciamo aprire la valigia in cui ci sono bombe a mano e un’altra rivoltella. Sequestriamo tutto e altro calcio nel sedere. In quei giorni i disarmi erano all’ordine del giorno quasi senza rischio e, per di più, anche un divertimento: non era male vederli terrorizzati a chiedere grazia della vita, anche se non si aveva alcuna intenzione di ‘eliminarli’. In queste circostanze – come avverrà anche nei giorni dell’insurrezione – mi rimuginava sempre nella mente il “giuramento” fatto con me stesso di vendicare Biancotto, e ogni volta mi sentivo un po’ spergiuro ma non era proprio possibile agire casualmente sul primo passante, anche se nell’odiata divisa. Non era possibile, insomma, fare giustizia da sé: in seguito, ripensando a quei giorni, non mi sono mai pentito di questa decisione, ché sono tuttora convinto di aver del pari ‘vendicato’ Biancotto con la mia partecipazione totale alla Resistenza e, dopo, alle 41 lotte politiche e sociali. Ma intanto era accaduta una cosa piuttosto grave. È mancato poco che Turcato, come scrive lui stesso nei Frammenti, non cadesse in una trappola: ad un mese dalla Liberazione una persona, arrestata per cause imprevedibili, aveva rivelato la sua identità ai fascisti, ma era riuscito a salvarsi anche perché il suo istinto “sentiva il pericolo” e poi aveva “buone gambe”. Avvenimento imprevisto perché Turcato era bravissimo a muoversi nella clandestinità senza mai destare sospetti. Si era dato regole ferree che seguiva con scrupolosità rigorosa e così aveva insegnato anche a noi, tanto che nessuno del nostro gruppo fu mai individuato e qualcosa di allora è rimasta impressa in me: per esempio sono discreto al massimo, sono sempre puntuale anche con chi so a priori che viene in ritardo e altro del genere. Abbiamo perso i contatti all’improvviso ma, dal suo rifugio, Turcato ha fatto in modo di recuperali rapidamente attraverso l’organizzazione di partito e a farci sentire la sua presenza. E ha cambiato nome di battaglia: da “Renzo” a “Marco”. E sebbene non lo abbiamo visto per qualche giorno la nostra rete ha continuato a funzionare svolgendo i suoi compiti. Ma oramai la situazione stava precipitando. I giorni dell’insurrezione E così stava per giungere la notte dell’insurrezione e dello sciopero generale. Turcato – uscito dal suo rifugio, già da qualche giorno era tornato a fare regolarmente i suoi giri – ci ha messo in allerta sin dal mattino del 27 aprile e in pre-allerta anche da prima. Comunque la mattina del 27 ci siamo radunati nella bottega di Tenderini in attesa degli ordini. Avevamo pronte la nostra bandiera ricamata e le armi: i disarmi ci avevano dato un mitra quasi per ciascuno, e per tutti comunque moschetti e rivoltelle. A varie riprese si è fatto vedere Turcato e finalmente a sera inoltrata – alle 23, come stabilito dal Decreto n. 1 del Cln veneziano61 – ci ha detto che era giunto il momento. Nessuno si era sognato di dormire: come si sarebbe potuto? Anzi – non ricordo se su iniziativa mia o di qualcun altro – nel frattempo avevamo fatto l’”ora politica”, come si usava nelle formazioni garibaldine in montagna, e sono stato proprio io a sintetizzare Il manifesto del partito comunista, forte delle mie letture alla Marciana: le ombre di Marx ed Engels mi avranno perdonato per le castronerie che avrò detto, ma in quel momento i loro nomi e quel “Proletari di tutto il mondo unitevi!” ci davano coraggio e speranza per il momento ormai finale della lotta e, soprattutto, per dopo. Nell’attesa dell’uscita, verso le quattro, Kim ed io abbiamo fatto una rapida perlustrazione nei dintorni e ad un certo punto abbiamo visto, al di là del ponte che dà sulla Fondamenta della Donna onesta, che nel panificio – tuttora in attività – stavano lavorando. Abbiamo bussato, ci hanno aperto: hanno afferrato al volo e ci hanno dato del pane ancora caldo che abbiamo diviso fra tutti. Finalmente all’alba Turcato ci ha dato l’ordine di uscire in formazione armata e di andare all’Accademia delle Belle Arti, la sede insurrezionale del “Biancotto”, attraverso Rialto e campo S. Stefano e di reagire a ogni forma di attacco. IVESER, Fondo C. Chinello 2, 28/4/1945, "Fratelli d'Italia Il Gazzettino", Organo del Comitato regionale veneto di liberazione nazionale, n. 1, B. 10, fasc. 1. 61 42 Ci siamo messi in due file ai lati delle calli, tutti con i fazzoletti rossi al collo: Kim ed io – la bandiera rossa del Battaglione sulle spalle – eravamo in testa, con i mitra pronti. Per campo S. Polo e Ruga Rialto: si aprivano i balconi, la gente batteva le mani, qualcuno esponeva il tricolore. Più di qualcuno si accodava, di fascisti neanche l’ombra. Il ponte di Rialto, campo S. Bortolomeo giù per campo S. Luca. Oramai tutti avevano capito che era giunto il gran giorno: ma più che di lotta era – almeno per il momento – un giorno di festa, applausi, fiori e ringraziamenti. Giunti ai piedi del ponte dell’Accademia abbiamo visto improvvisamente giungere da destra un grande barcone a motore pieno di tedeschi. Ci siamo predisposti al riparo e in semicerchio ai due lati della testata del ponte: raffica di mitra in aria e segnali ai tedeschi di attraccare a riva. Sono scesi a terra a mani alzate – dalla divisa, erano solo soldati e qualche graduato – abbiamo sequestrato le armi (ricco bottino). Uno di noi ha ispezionato il barcone e nel vano motore ha scoperto un tedesco rannicchiato e gli ha ingiunto di scendere a terra e gli ha dato un calcio sul sedere: un atto liberatorio fatto da uno per tutti e la nostra tensione si è allentata di colpo. Ci sembrava inverosimile vedere i tedeschi a mani alzate davanti alle nostre armi e con il volto segnato dalla paura: ci ha fatto allegria, per contrasto. E così siamo giunti alla nostra sede, non ancora completamente approntata, con il drappello – saranno stati una ventina – di prigionieri, i primi, e le armi conquistate: li abbiamo messi in un’aula con un paio di partigiani di guardia alla porta. Neanche fiatavano. Ho subito sentito dire dell’auto-liberazione dei detenuti a S. Maria Maggiore dove ci hanno mandato per dare una mano, ma dove tutto era già finito da un pezzo. Ho sentito poi dello scontro a fuoco in Marittima in cui è stato colpito a morte Moro Turiddu e dello sciopero a Marghera con l’occupazione armata delle fabbriche. Intanto all’Accademia c’era una buona dose di confusione, anche festosa. Non era solo la sede della formazione ma anche, in quel momento, del partito. Così finalmente ho conosciuto Luciano Marchi (Spino), segretario della Federazione comunista veneziana, e Giuliano Lucchetta (Abe), comandante della brigata in quei giorni dell’insurrezione. Intanto nel canale della Giudecca un pontone armato tedesco andava su e giù sparando sino a sera raffiche di mitraglia pesante sulle Zattere – per più di qualche anno ne sono rimasti i segni sui muri della pensione Calcina - per cui bisognava stare attenti. Ci hanno poi dato incarichi da svolgere che abbiamo eseguito al volo. Nel pomeriggio è mancato poco che Kim mi prendesse d’infilata con una raffica della mitragliatrice che era sulla porta dell’Accademia protetta da sacchetti di sabbia che un altro gruppo di partigiani aveva procurato, credo, in Marittima. Era stata segnalata la presenza di cecchini fascisti sul tetto del Benedetto Marcello e il comando mi ha mandato con un piccolo gruppo di partigiani e con l’ordine di salire sul campanile di S. Vidal e da lì cercare di snidarli. Prima di uscire ho avvisato Kim – era sulla porta, alla mitragliatrice – del compito che stavo per svolgere. Abbiamo passato il ponte e siamo saliti sul campanile: non abbiamo fatto tempo a mettere il naso nella cella campanaria che una raffica ci faceva stendere a terra e un’altra ancora ci ha tenuto immobilizzati. Abbiamo cercato di capire da dove veniva, ché non veniva dal davanti, dal Conservatorio, ma dal lato destro, dall’altra sponda del Canal grande: era Kim che ci aveva scambiato per i cecchini. Ho mandato giù uno che – protetto dal ponte – ha gridato a squarciagola 43 e sventolato il fazzoletto rosso che aveva al collo finché Kim ha capito e smesso di sparare. Intanto, in tutto questo guazzabuglio, i cecchini erano spariti o avevano smesso la loro attività. Siamo ritornati in sede e Kim – io arrabbiatissimo – ha risposto tranquillo che non aveva capito bene e che alla fine non era successo niente: era fatto così. Certo che non sarebbe stato molto bello finire sotto le raffiche di Kim: anche in questo caso ho avuto fortuna. Dire cosa ho fatto di particolare per tutto il giorno – salvo l’episodio del campanile – mi è impossibile: non ricordo nulla tanto siamo stati sempre in movimento e in una grande confusione e agitazione, fumando in continuità delle sigarette leggere e profumate che prendevamo da barattoli di latta sequestrati ai tedeschi sul barcone. Ricordo invece nitidamente che a sera, verso le dieci o le undici, Spino mi ha detto di andare con lui nella nuova sede della Federazione comunista – una ex sede fascista, occupata dai Gap sin dalla mattina, al primo piano di un palazzo di proprietà delle Assicurazioni Generali, in calle del Doge a S. Maurizio – per la riunione del Comitato federale: Spino mi aveva nominato sul campo rappresentante dei giovani comunisti. Ė lì che ho incontrato gli altri dirigenti del partito che mi erano ignoti per ragioni di clandestinità, fra i quali Giobatta Gianquinto – avevo sempre sentito sussurrare il suo nome, persino in carcere – che mi ha abbracciato con grande effusione complimentandosi per il Goldoni. Desumo ora i loro nomi dal verbale62: Aldo Damo (Luciano), appunto Gianquinto, Paolo Vernì, Piero Martinelli a cui si aggiungono quelli che già conoscevo da poche ore – Spino e Abe – o quelli di più antica data come Turcato e Piero Franceschi. Nove persone in tutto, me compreso. Ricordo la grande stanza, un tavolo nel mezzo e noi attorno: io ho appoggiato il mio mitra sulla parete, mi sono seduto e … addormentato di colpo. Dal verbale risulta che ho anche parlato: non ricordo cosa ho detto e non ricordo cosa hanno detto gli altri, non rammento nulla di quella riunione del primo Comitato federale nella notte dell’insurrezione, se non di esserci andato. Se nel verbale sono riportate le mie risposte e i miei interventi, significa che effettivamente ho parlato, magari in una sorta di dormiveglia: il giorno dopo mi veniva da mordermi le mani per quel sonno traditore – non è che poi abbia perso molto, almeno dalla lettura del verbale – e oggi mi viene da sorridere di quella dormita giovanile e di quella pacca sulle spalle, comprensiva, che mi ha dato Gianquinto al risveglio. Come scrive Turcato alla fine del verbale, “ormai era mattino e ogni compagno presente doveva correre a precisi impegni…” e così anch’io sono tornato all’Accademia. Di questo secondo giorno insurrezionale ho impressa nella memoria la rabbia che ci ha preso di colpo quando abbiamo avuto la notizia della resa “condizionata” pattuita dai tedeschi in Patriarcato con il Cln “per salvaguardare Venezia”, come se i tedeschi – con gli alleati a distanza ravvicinata – potessero sul serio far qualcosa a Venezia, neanche per pura vendetta, avendo ben altro cui pensare. Ė stata una decisione che non ho mai capito e che sempre ho considerato sbagliata e degradante per la Resistenza veneziana e sono stato poi felice di apprendere che Carlo Olivero – rappresentante del Pci nel Cln – aveva votato almeno lui, unico, contro. Ricordo poi, in particolare, tre episodi. Il primo: sono andato a S. Maria Maggiore per rivedere il carcere da ‘libero’, ma soprattutto per guardare in faccia Zani – era stato il comandante del 44 plotone d’esecuzione a Ca’ Giustinian – che vi era rinchiuso. In quei giorni non c’erano formalità e poi il capo delle guardie mi ha riconosciuto e mi ha fatto accompagnare alla sua cella. Era accovacciato in un angolo: si è alzato e alla mia domanda se mi riconosceva – avevo il fazzoletto rosso al collo – mi ha risposto scrollando la testa e mi ha salutato con il pugno chiuso. Non ci ho visto più e ho fatto per saltargli alla gola, ma i secondini mi hanno subito afferrato per le braccia e mi hanno portato via. Il secondo, correlato al primo: sono andato a prelevare a casa sua, alla Toletta, quella spia Sudessi – quello che si era introdotto nel gruppo di studenti di Pignatti e poi in carcere e, soprattutto, aveva fatto parte del plotone di esecuzione dei 13 martiri di Ca’ Giustinian, come proprio in quei giorni insurrezionali avevo saputo – da dove però era fuggito per tempo. Facile immaginare come la cosa mi abbia fortemente indispettito: ma era segnato che dovevo rivederlo. Infatti, nei primi mesi del 1946, un pomeriggio – per puro caso – l’ho incontrato in campo S. Polo e immediatamente l’ho riconosciuto: mi è salita d’improvviso la rabbia e, senza rendermene conto, sul momento l’ho tempestato di pugni gridando alla gente fattasi attorno che era un spia fascista e uno dei fucilatori di Ca’ Giustinian. Quando mi sono un po’ calmato, se n’è andato tutto pesto e tra gli insulti dei presenti. L’ho incontrato una seconda volta, qualche mese dopo ancora, in campo Manin e la scena si è ripetuta nello stesso identico modo con la promessa di rifargliela nel futuro. Non l’ho più visto: molto probabilmente se ne sarà andato da Venezia: in fondo, se l’era cavata anche bene. Il terzo episodio consiste in un’osservazione che ho fatto a Spino. L’ho visto per buona parte del giorno interrogare, in modi piuttosto sbrigativi, alcuni fascisti che erano stati catturati: non mi sono trattenuto dal dirgli “perché ti occupi di queste cose e non scrivi invece un bel manifesto del partito da affiggere subito in città?”, il che mi sembrava una cosa molto più utile e sensata. Naturalmente mi rendevo perfettamente conto che uno che era passato per mano dei fascisti in molte occasioni, che si era fatto la galera e il confino per tanti anni, doveva pur – avendone qualcuno sottomano – potergli almeno chiedere direttamente spiegazioni delle sue malefatte, ma non mi pareva che questo dovesse essere il principale interesse del segretario del Pci veneziano. Spino mi ha guardato e ha continuato il suo interrogatorio. Non so ancora se il manifesto del Pci affisso sui muri di Venezia uno o due giorni dopo sia stato anche il risultato di questo mio intervento, so che non molto tempo dopo Spino ha smesso di invitarmi alle riunioni del Comitato federale. Erano tre giorni e due notti che non dormivo – fatta eccezione per la citata riunione – sia per le cose che mi davano da fare, sia anche perché volevo ‘vivere’ tutto quello che accadeva, minuto per minuto, non volevo perdermi niente di quei momenti in cui ci prendeva una vera e propria felicità di essere finalmente liberi: uno dei momenti – se non il momento – fra i più belli della mia vita. Liberi dalla dittatura e dall’arbitrio, liberi nel senso politico e sociale della parola, ma liberi nel senso fisico e psicologico anche del quotidiano. Nel non dover più trasalire, per esempio, come mi era capitato una sera verso l’imbrunire – qualche settimana dopo l’uscita dal carcere – in riva ai giardini, prima del monumento ad Oberdan, venendo da S. Elena, quando ho avvertito che uno 62 C. CHINELLO e al., Per una documentazione cit., p. 135. 45 stava camminando alle mie spalle a passi veloci e all’improvviso ho sentito come uno schiocco forte che a me è sembrato il caricamento di una rivoltella: mi sono voltato di colpo per reagire e ho visto invece che quello si stava accendendo la sigaretta con l’accendino (quelli di allora, appunto, schioccavano perché erano con il coperchio). Solo chi è vissuto in certe situazioni sa cosa pienamente significhi “libertà”, in tutti i sensi. Dunque, verso sera, nel mangiare un panino qualcuno mi ha offerto anche un mezzo bicchiere di vino bianco: berlo e sedermi, stremato, è stata la stessa cosa. Non mi reggevo più in piedi, avevo infatti bisogno vitale di dormire: mi hanno sorretto portandomi lì vicino, nella casa di una nostra compagna, Lina Basaldella, e ho dormito d’infilata sino al mattino successivo. Il giorno dopo è stato quello dell’arrivo degli Alleati. Nel primo pomeriggio, con altri del mio gruppo, sono andato in piazzale Roma: la gente era ovunque festante, liberata dall’incubo di nazisti e fascisti, ma anche per la fine della guerra ormai vicinissima. Ho visto arrivare le prime camionette – proprio quelle riprese dalle foto che poi sono rimaste – e ancora ho vivissima la percezione del compimento di quei pochi giorni insurrezionali – tre – così straordinari e intensi. Con l’arrivo degli alleati, arrivavano – con l’”Autorità” – anche tutti i problemi, a tutti i livelli: necessitati, se si vuole, ma non scontati per noi. Alla sera qualcuno aveva organizzato una cena del nostro gruppo, in una trattoria a S. Vio, e paradossalmente eravamo tutti un po’ giù di corda – anche se finalmente mangiavamo qualcosa di commestibile dopo tanti giorni, con un bicchiere di vino, le gambe stese sotto la tavola e senza l’ansia della clandestinità – perché capivamo che anche la nostra libertà totale, quella felicità di essere liberi di cui avevamo assaporato tutto il gusto sin quasi ad ebriarci, era finita, anche se non poteva che essere così. Il giorno successivo si è festeggiato il Primo maggio in una piazza S. Marco inondata di bandiere rosse. Il 5 maggio c’è stata la sfilata di tutte le formazioni partigiane, sempre in piazza S. Marco, davanti al comando alleato e al Cln. Noi siamo sfilati come “Battaglione F. Biancotto”, in testa Turcato – ne è rimasta anche una foto63 – con la nostra bandiera rossa, cantando a squarciagola La guardia rossa e abbiamo fatto in modo che, passando davanti al palco, il verso da cantare fosse proprio quello: “Son le armate di Stalìn, viva Lenìn”. Altri tempi, ma era il ricordo vivo di Stalingrado – il primo morso della sconfitta sul campo per il nazismo –, la manifestazione della nostra felicità per la libertà e la pace conquistate dopo il fascismo e la guerra, la nostra voglia del “sol dell’avvenir”. Venezia/S. Vigilio di Marebbe maggio/agosto 2001 63 G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni cit., foto n. 8.