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La mia “educazione sentimentale”

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La mia “educazione sentimentale”
La mia “educazione sentimentale”
Autobiografia resistenziale
di Cesco Chinello
A metà degli anni, novanta una giovane laureanda in storia, Vera Costantini, militante di
Rifondazione, discutendo di politica se ne è uscita all’improvviso – una espressione quasi invidiosa
– con un “fortunato te che hai fatto la Resistenza”1. Ho rimuginato nel tempo questa frase per una
certa sua ambiguità – è proprio “fortuna” partecipare ad una lotta armata, per quanto la scelta sia
volontaria? – ma insieme anche per la voglia che esprime di essere partecipe di processi storici
fondanti, in critica aperta al tronfio pret-à-porter politico attuale. E alla fine anch’io debbo
riconoscere di essere stato “fortunato” per aver partecipato alla Resistenza. Il primo salto, o
passaggio, esistenziale e formativo è stato per me nella scuola, ma quello decisivo – ha dato il
senso ai miei anni giovanili – si è attuato proprio nella Resistenza a cui è seguta naturaliter la
“scelta di vita” nella militanza a tempo pieno nel Pci che poi ha dato significato a tutta la mia
esistenza, anche quando ho partecipato, sin dagli anni sessanta e da sinistra, alla ricerca critica
interna.
Mi sono deciso a scrivere ora queste note strettamente autobiografiche – cronaca2 più che
storia – perché alcuni amici, in particolare Mario Isnenghi, mi hanno fatto una certa pressione e
anche perché, di questi tempi in cui la memoria fa troppo difetto per i miei gusti, mi pare giusto
testimoniare su quello che, negli anni giovanili, mi ha animato e indotto ad agire. Rammento bene
che una volta – a Turcato che mi mostrava una ennesima versione di uno dei suoi scritti
memorialistici sulla Resistenza veneziana – ho chiesto se non gli sembrasse finalmente giunto il
momento di por fine a tale tipo di scrittura per cominciare ad occuparsi invece di ricerca storica
più approfondita e che mi ha risposto che anche la sua era ricerca storica, che anzi tale ricerca
cominciava proprio da lì: non aveva tutti i torti e la mia tardiva ammenda, almeno in parte,
s’invera in questo testo autobiografico. L’ho scritto poi anche perché i miei nipoti Federico e
Uso Resistenza (al fascismo e al nazismo) con la R maiuscola per distinguerla dalla resistenza – per fare un
esempio – del ferro da stiro. Del pari, uso Liberazione con la L maiuscola per indicare specificamente il giorno
della liberazione dai fascisti e tedeschi.
2 Per tracciare un quadro autobiografico più contestualizzato, nel presente testo ho citato alcuni episodi già
raccontati nella mia Introduzione a G. TURCATO, Frammenti autobiografici, in “Venetica”, a. XIV, terza serie, n.
3, Cierre, Verona 2000, pp. 143-187 o ricordati nel mio intervento in occasione dell’”Omaggio a Francesco
Semi” all’Ateneo Veneto (18 dicembre 2000), ma non pubblicati. Chiedo venia per tali inevitabili ripetizioni.
1
2
Donata, quando avranno qualche anno di più, possano leggere pagine dirette del loro nonno di
quando era studente e partigiano.
L’arresto
Il 10 aprile 1944 – un lunedì di Pasqua – sono stato arrestato dalla Guardia nazionale
repubblicana (Gnr): nel pomeriggio un milite in borghese è venuto a casa mia, a S. Elena,
invitandomi ad andare subito con lui in caserma per “chiarimenti”. Non si atteggiava a duro: non
ha risposto negativamente alla mia richiesta di passare da un amico per ragioni di scuola: volevo
informare Eugenio Pignatti – facevamo insieme attività propagandistica – della cosa capitatami per
metterlo in guardia. Ma a casa sua mi hanno detto che era stato prelevato la mattina (ma nessuna
della famiglia era venuto ad avvisarmi) e la stessa sorte, saprò dopo, era capitata anche a Cesare
Dal Palù e ad Alberto Capisani, sempre del nostro giro di studenti. Era così evidente che non si
trattava tanto di un “chiarimento”, ma di un problema ben più serio.
Abbiamo attraversato tutta la città a piedi sino ad una caserma all’Angelo Raffaele, il milite
sempre bonaccione. La Riva degli Schiavoni era inondata di sole, c’era molta gente per il giorno di
festa. Ho pensato di fuggire nella confusione – vi era più di una possibilità – ma ho riflettuto
anche che non avrei saputo dove andare: eravamo senza piani di fuga, anche per andare in
montagna (erano saltati i contatti dell’autunno precedente attraverso cui avevamo mandato gente
nelle formazioni, fra cui anche un mio amico). La clandestinità totale – al momento e in città – mi
sarebbe stata praticamente impossibile per mancanza di un rifugio e di collegamenti per cui la
prospettiva avrebbe potuto essere anche peggiore.
Ero in un momento di passaggio nella mia partecipazione alla Resistenza: dal gruppo di
studenti con cui avevo operato sinora, ma con il limite dell’improvvisazione e della faciloneria,
all’organizzazione comunista, con Giuseppe Turcato. Un mese prima, ai primi di marzo, gli avevo
chiesto infatti di aderire al Pci: se ci dovevano anche essere tempi d’attesa per via della
candidatura che tutti i nuovi dovevano fare – così erano le regole –, limitato era stato pure il
periodo per inserirmi nel nuovo contesto. Non mi sembravano possibili, dunque, vie di fuga in
queste condizioni. Tuttora resto convinto di non aver ragionato male, anche col senno di poi.
All’Angelo Raffaele – senza chiedermi o dirmi nulla – mi hanno messo in una cella non molto
grande, con un tavolaccio che occupava metà dello spazio: avevo freddo e facevo fatica a deglutire,
ho dormito poco. Alla mattina presto – ma non avevo orologio – è venuto uno in borghese a
prendermi. Saprò dopo che si trattava di Ernani Cafiero - scherano di Waifro Zani, l’ufficiale della
Gnr addetto agli interrogatori degli antifascisti, entrambi condannati a morte, dopo la Liberazione,
dalla Corte d’assise straordinaria di Venezia3 -: aveva una rivoltella in mano (se ricordo bene una
P 38 tedesca), allo scoperto, e mi ha detto freddamente “attento che sparo, senz’avviso”4. Mi ha
M. BORGHI – A. REBERSCHEGG, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise Straordinaria di Venezia
(1945/47), Comune di Venezia, 1999, pp. 108-110.
4 Solo più tardi capirò quanto questo avvertimento fosse per niente astratto: infatti Cafiero, in gioventù era
stato uno squadrista dei “Cavalieri della morte”, comandati da Gino Covre, arrestato e accusato, insieme ad
un suo ‘collega’, per l’assassino del portuale Bernardo Borile in fondamenta dei Carmini nel maggio 1922
(cfr. G. ALBANESE, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Il Poligrafo, Padova 2001,
p. 192) e difeso “sulla stampa oltre che in tribunale” (ib., p. 194) niente meno che da Piero Marsich; sarà poi
anche l’esecutore del colpo alla nuca, oltre che di altri, di G. Tramontin, sfuggito per miracolo alla morte e,
3
3
condotto, sempre a piedi, a Ca’ Giustinian, sede della Gnr dove Zani aveva il suo ufficio. Ho il
preciso ricordo di aver visto, durante il tragitto, sui muri, i manifesti di Ossessione di Luchino
Visconti al San Marco (o al Rossini): ne avevo sentito parlare da alcuni miei amici come di un film
assolutamente da vedere. Intanto, di passaggio, in una stanza avevo intravisto Pignatti, ma non
ho potuto parlargli. Al mio turno, Zani – una rivoltella sul tavolo – ha cominciato l’interrogatorio.
Durante la notte avevo pensato a questa evenienza e al come dovevo o potevo farvi fronte.
Saprò solo dopo che nell’organizzazione comunista il metodo era quello – per principio – di negare
tutto, anche l’evidenza: ma allora nessuno me l’aveva detto e io non avevo la minima idea di cosa
significasse la militanza comunista, il tribunale speciale, le condanne a vent’anni o trenta, il
confino, la domanda di grazia come resa. Mi sono arrangiato come ho potuto, senza esperienza
alcuna che si congiungeva ad una certa qual fierezza giovanile per l’attività svolta nella mia scuola
– al ‘Benedetti’, il liceo scientifico veneziano – dove tutti sapevano come la pensavo. Ero stato uno
dei promotori – improvvisatomi sul momento, come gli altri – subito dopo l’8 settembre, all’arrivo
dei tedeschi a Venezia, di una manifestazione studentesca in campo S. Giustina, nel primo
pomeriggio, durante la quale abbiamo cantato a squarciagola “Va fuori stranier” e gridato slogan
contro nazisti e fascisti. Verso sera, in piazza S. Marco, abbiamo visto un gruppetto di ufficiali
tedeschi in divisa che ammiravano la Torre dell’orologio: senza premeditazione – sospinto
irrazionalmente al gesto – ho sputato sulla punta degli stivali di uno di loro. L’ufficiale ha avuto
come un gesto di stupore ed io, subito, riconquistata la ragione, me la sono data a gambe nel
dedalo di calli e callette. A scuola, reagivo d’istinto ai predicozzi fascisti del professore di disegno:
spaccavo la matita, tossivo forte o guardavo per aria. Ero cioè consapevole dei miei
comportamenti: non li potevo negare e qualcosa loro certamente sapevano, se mi avevano
arrestato.
Anche perché, a fare il mio nome e quello degli altri, come saprò subito dopo, era stato
Pignatti: i suoi poi hanno tenuto a spiegarmi che lo aveva fatto, su loro insistenza, perché era
molto ammalato e non poteva assolutamente passare neanche un giorno in carcere e infatti è
morto qualche anno dopo la Liberazione, credo proprio di tubercolosi. Eugenio era un giovane
disponibile e colto, amante della musica: a casa sua ho ascoltato i primi dischi di musica classica.
Aveva una particolare passione per un pezzo suonato da Menuhin che abbiamo ascoltato molte
volte ma di cui poi non ricordavo più né autore né titolo. Qualche anno fa – verso la fine degli anni
novanta – una mattina a Radio3, inopinatamente ho risentito e immediatamente riconosciuto con
qualche emozione quel pezzo – un concerto di Max Bruch – di cui mi sono subito procurato il CD5
per poterlo riascoltare per la musica, per il violino superbo ma anche per un ripercorso di
memoria.
A Pignatti non gliene abbiamo mai voluto: anche lui era alle sue prime prove, senza esperienza
e in una condizione di gran lunga peggiore delle nostre. Non era del nostro gruppo originario, ma
inserito più tardi con altri che poi hanno anche subito l’intrusione di una spia di Zani – Sudessi,
per finire, membro del plotone di esecuzione dei 13 a Ca’ Giustinian, come si dirà più avanti e come risulta
dalla citata sentenza della Corte d’assise straordinaria di Venezia. Sinistro e a suo modo coerente itinerario
di un ‘fascista della “prima ora”.
5 M. BRUCH, Violin Concerto No. 1 in G minor, Op. 26†, violino Yehudi Menuhin, Emi Records Ltd, 1993.
4
un giovane di cui non ricordo il nome e che abitava dietro la Toletta, fra l’Accademia e S. Barnaba
– che, poco furbescamente dal suo punto di vista, li aveva subito denunciati senza tentare di
scoprire di più sulla rete. Questo Sudessi l’ho poi ritrovato in carcere, dove si era fatto rinchiudere
per continuare a fare la spia sperando di giocare sull’ingenuità e inesperienza dei giovani, ma
senza concludere nulla, ché tutti comunque erano stati messi subito sull’avviso.
In questa condizione ho cominciato con lo spiegare a Zani – del resto con molta ingenuità, un
po’ finta e un po’ no – che non tutti la potevano pensare allo stesso modo, che molti studenti
erano contro i tedeschi per tradizione e, in breve, che avevo solo distribuito dei volantini con due
persone (che sapevo già essere al sicuro). Naturalmente quel poco non l’ho detto di colpo, ma nel
corso di tre interrogatori, ogni volta aggiungendo qualche particolare, più o meno inventato o
adattato sul momento: hanno fatto i controlli, hanno riscontrato che queste due persone
esistevano ma non erano a Venezia. La loro spia non aveva poi saputo portare nulla di
significativo anche perché, in definitiva, non avevano grandi mezzi d’indagine né le tecniche
adatte. Zani voleva farmi dire qualcos’altro, ma io avevo detto tutto quello che potevo dire senza
danneggiare altri e non insistette molto, ché probabilmente pensava – non a torto in quel
momento - che non saremmo stati in grado di fare di più. Mi hanno così portato a S. Maria
Maggiore, cella n. 91 dove, dopo qualche settimana, mi hanno consegnato una carta in cui mi si
comunicava che ero stato condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello stato a due anni di
carcere per “propaganda e associazione sovversiva” insieme a Dal Palù e Capisani6.
Cominciava così la mia vita di carcerato, dopo le formalità dell’entrata: le impronte digitali, la
consegna della cintura dei pantaloni e delle lacci della scarpe e l’assegnazione di gavetta e
cucchiaio, oltre che di una coperta e di due lenzuola. Quando mi hanno chiuso in cella, sbattendo
violentemente la porta e inchiavardandola da fuori con i catenacci – il senso fisico della
separazione – rimasto solo, sulla branda, sono esploso in un pianto convulso: era solo
un’esplosione delle tensioni, uno sfogo per la paura e la situazione nuova. Avevo diciannove anni e
non ero mai rimasto fuori di casa: non tanto paradossalmente, alla fine, questo sfogo ha
funzionato come superamento del momento di crisi aiutandomi ad affrontare la situazione con la
dovuta fermezza. Ne ho passate molte, in carcere, ma non ho più pianto se non quando, dopo la
Liberazione, ho assistito, nel cimitero di S. Michele, alla riesumazione dei corpi dei 13 di Ca’
Giustinian per essere ricomposti, trasportati e sepolti con una grande cerimonia popolare nel
cimitero di S. Donà di Piave, in una apposita tomba collettiva.
Anzi, per molti versi, in carcere mi sono indurito. Addirittura ho fatto un passo per me
importante: sono entrato cattolico e praticante e ne sono uscito ateo. Il cappellano di S. Maria
Maggiore, don Marcello Dell’Andrea, era una amabilissima persona, antifascista convinto, ci
aiutava in tutto, comprese le comunicazioni con l’esterno rischiando grosso e senza mai chiederci
nulla in cambio, tanto meno sul piano religioso, e il parroco di S. Elena mi mandava i mozziconi
delle candele della sua chiesa perché potessi leggere la sera, visto che chiudevano presto la luce,
anche lui senza chiedermi nulla, ed io ho avuto sempre molta riconoscenza per questa loro
5
solidarietà concreta. Ma a dio non credevo più: per me non aveva proprio più senso, per come
andava il mondo e soprattutto per bisogno di razionalità. Non è stata un’abiura, ma un
abbandono tranquillo, quasi scontato. Me ne è rimasto anche un ricordo materiale: in una delle
prime celle ho trovato un crocefisso – quelli soliti di legno e in lega di una volta, sui venti
centimetri – che poi mi sono portato dietro e nel cui rovescio scrivevo man mano, a penna con
inchiostro, il numero della cella: Alla fine la scritta è risultata così:
W L’Italia / Arrestato politico 10/4/44 / celle 91 – 66 – 60 – 62 – 110 – 101 – T 13 – 130 – 163 – 13 – 165 –
158 / S. Maria Maggiore – Carcere di Venezia – Trovato nella cella n. 66 / Portato nelle celle n. 66 – 60 – 62 –
140 – 101 – T 13 – 130 – 163 –73 – 165 – 158 – 47.
Quando sono uscito me lo sono portato a casa e l’ho riposto per poi dimenticarmene
completamente. Due anni fa, sgomberando la casa dopo la morte di mia madre, l’ho ritrovato nel
fondo di un cassetto della mia vecchia scrivania di studente, e ho provato una certa emozione
rivedere quella fila di numeri di celle praticate a S. Maria Maggiore. Non l’ho buttato via, come per
istinto stavo per fare, e lo conservo tuttora come una doppia memoria, del carcere e della ex fede.
Sono arrivato a S. Maria Maggiore nel primo pomeriggio: non avevo fame, anche se erano
quattro giorni che non avevo praticamente toccato cibo (mi avevano dato qualche pezzo di pane in
un passaggio che mi avevano fatto fare nella caserma ai Gesuiti). Solo la mattina dopo un
bicchiere di brodaglia nerastra come caffè e verso mezzogiorno pane e una specie di minestra di
rape. I primi giorni li ho passati in isolamento – solo in una cella, cinque passi per tre – senza
neanche un libro o un giornale e senza un pezzo di carta e una matita: in pura contemplazione dei
muri, delle inferriate e della bocca di lupo, dal di sotto per poter vedere una sottilissima striscia di
cielo. Con la sola compagnia delle cimici. Alla mattina – unica forma di socializzazione carceraria e
di movimento fisico – c’era un’ora di aria nei cortiletti insieme a gruppi di altri detenuti,
frammischiati fra comuni e politici (allora non era fatta distinzione: per l’autorità si trattava in
ogni caso di criminalità comune).
Ė stato in una di queste prime mattine di aria che ho incontrato Francesco Biancotto – un
operaio diciottenne – in carcere da gennaio con un gruppo di partigiani di S. Donà di Piave
imputati di azioni di sabotaggio. Mi ha avvicinato – probabilmente mi avrà visto un po’ stordito – e
mi ha offerto una sigaretta e, per accenderla, ha preso un fiammifero da una scatoletta di svedesi
mostrandomi, sotto, disegnata una falce e martello. Sono stato impressionato ma anche
rallegrato: non mi sentivo più solo e ho fumato così la mia prima sigaretta e non ho più smesso
per vent’anni, con più di qualche conseguenza nefasta. Poi anche da casa me ne hanno portato
senza farmi tante prediche, ma anche il Cln – attraverso il cappellano – ci ha fatto pervenire del
tabacco (immagino sia stato per iniziativa di Turcato), ma poi sono arrivato anche a fumare la
paglia del materasso avvolta in carta da giornale (come, del resto molti altri) diventando un
esperto arrotolatore di sigarette con le dita. Qualche settimana dopo, finito l’isolamento e non
ISTITUTO VENEZIANO PER LA STORIA DELLA RESISTENZA E DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA (IVESER), Fondo C. Chinello,
6/10/1944, Tribunale speciale per la difesa dello stato, "Estratto di condanna", manoscritto su modulo, B. 1,
fasc. 1
7 Non so ora spiegare la differenza delle due serie di numeri.
6
6
ricordo proprio come, mi sono ritrovato in cella con Biancotto e con Gianfranco Gramola, uno
studente di Schio all’Accademia delle belle arti, allievo di Elena Bassi, arrestato per le stesse mie
ragioni. Un piccolo sodalizio che ricordo ancora con suggestione.
Ma quell’isolamento non mi pesava: a distanza di tanti anni non ricordo come avvenne, ma nel
tempo ho interiorizzato che mi è servito a fare un po’ di conti con me stesso. Mi trovavo molto
cambiato, per certi aspetti non mi riconoscevo quasi più rispetto a solo qualche anno prima.
Praticamente ero in carcere quasi per mia scelta: non che lo avessi cercato, ovviamente, ma avevo
messo in conto che mi poteva capitare qualcosa, anche se certe efferatezze di repubblichini e
nazisti dovevamo ancora conoscerle.
Stavo facendo l’ultimo anno di liceo scientifico, al Benedetti di Venezia: avevo imparato a
leggere e a studiare piuttosto seriamente. Stimavo moltissimo alcuni professori che mi avevano
aperto gli occhi in tutti i sensi. Guardavo ora gli avvenimenti terribili del fascismo/nazismo e della
guerra sentendomi fortemente coinvolto e in dovere di fare qualcosa per la “libertà”. Avevo
imparato ad assaporare questa parola, a declinarla nei vari significati, ne cominciavo a capire gli
aspetti concreti nei diritti inalienabili che ci erano stati strappati a forza e di cui bisognava
riappropriarci: un “noi” collettivo di cui non mi chiedevo come e da cosa potesse originarsi, ma
che avvertivo necessario come l’aria e di cui percepivo in qualche modo il suo farsi in atto. Avevo
avuto anch’io la mia passioncella per Croce e il “liberalismo” come traslazione politica della
libertà, come “fondamento morale di tutti i programmi”, ché ne avevo potuto leggerne qualcosa
alla Marciana o alla Querini (La teoria della libertà del 1939 e il classico La storia come pensiero e
come azione del 1938): soprattutto ai tanti giovani di scarse letture storiche e politiche come ero
io, nel deserto del fascismo, in quei primi anni quaranta Croce appariva come “il faro della
libertà”. Appunto, fantasticherie giovanili in mancanza d’altro in grado di fare i conti con la
complessità sociale e storica, come comincerà ad apparirmi il problema solo pochi mesi dopo: il
passaggio da “La storia come storia della libertà”8 a “La storia […] è storia di lotte di classi”9 mi è
stato naturale, tutt’altro che difficile.
Ripercorsi di vita
Mio padre era un impiegato statale, postelegrafonico. Aveva fatto la grande guerra – prima
infermiere in un ospedale da campo a Tai di Cadore e poi, dal gennaio 1917, soldato di un reparto
del 52° reggimento di fanteria sulla Marmolada – ed era stato ferito a un piede nell’agosto 1917
sul Col di Lana. Proveniva dalle campagne del Piovese, in provincia di Padova, da numerosa
famiglia contadina fittavola di un non grande appezzamento di terra. Negli ospedali di guerra e poi
nella “Casa di rieducazione” di Padova aveva frequentato i corsi, prima, “elementari” e poi
“Postelegrafonico – Sezione Telegrafonica” per mutilati e invalidi di guerra ricavandone le relative
idoneità e successivamente assunto in servizio e sistemato in ruolo a Rovigo nel maggio 1922 e
trasferito a Venezia nel novembre 1923, giusto un mese prima di sposarsi con mia madre e
acquisire la cittadinanza veneziana nel luglio 1924. Iscritto più tardi per obbligo al Pnf, come
8
9
B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, p. 46.
K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1948, p. 94.
7
d’uso, mugugnava contro, soprattutto quando, a metà degli anni trenta, gli avevano ridotto lo
stipendio, come del resto il regime aveva decretato per tutti i dipendenti pubblici e privati10.
Mugugnava, ma senza commenti, ed io non li capivo se non come brontolamenti contro la durezza
dei tempi. Aveva anche aderito per tempo ad una cooperativa edilizia per mutilati di guerra (credo
le uniche cooperative permesse dal fascismo), aveva resistito come socio in certi momenti difficili e
alla fine erano riusciti a portare a termine il progetto e, con la concessione di un mutuo, a
costruirsi un gruppo di belle – almeno per i tempi – case a S. Elena, dove siamo andati ad abitare
nel 1930, lasciando quella in affitto a S. Stae di cui ricordo solo una terrazza dove mi hanno fatto
una foto che ancora conservo.
Avevo cinque anni e i miei mi hanno fatto subito fare, in anticipo per non “perdere l’anno” (ero
nato in gennaio), la prima elementare dalle suore – la prima vicinanza alla chiesa: la scuola
contigua ai muri della chiesa attraverso un chiostro – per poi passare, in seconda, alla scuola
pubblica, alla Gaspare Gozzi in via Garibaldi: il ricordo vivido di questa prima elementare è
l’infinita serie di aste che quelle buone suore mi obbligavano a fare. Ho una fotografia della mia
classe alla Gozzi: mi si vede un po’ grassottello e un po’ stranito in mezzo ad altri straniti. Ho
avuto una maestra in seconda e in terza - si chiamava Leandro – di cui ricordo ancora i tratti del
viso, sempre gentile e premurosa con noi. Nei due anni successivi ho avuto un maestro, Galvani,
piuttosto burbero, padre di una signora che abitava al pianterreno della mia stessa casa: una
volta mi ha incolpato ingiustamente di aver fatto una bricconata in classe – non ricordo cosa,
forse un dispetto ad un compagno – ma che proprio non avevo compiuto, anche perché ero molto
timido e arrossivo per niente. E nonostante le molte spiegazioni, anche successive, è rimasto
sempre cocciutamente convinto che ero stato io. La ricordo tuttora come la prima ingiustizia
patita. Forse per ingraziarselo, i miei mi hanno mandato a ripetizione per qualche tempo da sua
figlia, pure maestra, dalle parti di Campo Ruga ma non mi ricordo grandi risultati.
Non ho grandi reminiscenze di questi primi anni a S. Elena: i giochi e le corse sottocasa, in
campo – allora campo Vittorio Emanuele, campo Indipendenza durante la repubblica di Salò e
campo Marco Stringari dopo la Liberazione - o in riviera e le amicizie con gli altri ragazzi, piuttosto
occasionali. Frequentavo in parrocchia la dottrina per la prima comunione che ricordo ancora in
una giornata di pioggia, nel maggio del ’32 o ’33, con la tazza di cioccolata calda offerta dal
parroco, insieme alla cresima nella basilica di S. Marco e l’orologio da taschino Omega con la
catenella d’oro regalatomi dal padrino. Per qualche tempo ho gironzolato intorno a quel chiostro di
frati, forse perché non riuscivo a legare troppo con gli altri ragazzi. Mio padre non andava in
chiesa: diceva che da piccolo aveva servito tante messe, e consumato così le ginocchia, da aver
saldato il conto per tutta la vita.
Mia madre invece andava a messa, normalmente religiosa, ma era soprattutto paga di avere
una casa a riscatto, che sarebbe diventata poi nostra, come infatti è avvenuto con non molti soldi
subito dopo la guerra, grazie – in questo caso – all’inflazione. In casa tutto era misurato, al
centesimo: ho una distinta memoria dei lunghi pensamenti e dei conti prima di comprare anche
un paio di scarpe o la legna e il carbone per l’inverno. Amministrava, appunto, mia madre con
10
G. TONIOLO, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 189.
8
grande parsimonia uno stipendio fisso – come risulta dalle carte di mio padre, pari nel 1933 a 667
lire mensili lorde (8.008 annuali, sempre lorde: 6.424 di “stipendio annuo” più 1.584 di
supplemento di “servizio attivo”) – appena sufficiente, e con non pochi stratagemmi, per lo
strettamente necessario: era impossibile fare risparmio (fra le carte di mio padre è anche segnato
più di qualche prestito o “cessione del quinto” fatta dall’Amministrazione).
Mia madre era nata all’alba del Novecento, il 31 gennaio, ed è morta nei primi giorni del 1997,
esausta dai molti acciacchi di una lunghissima vecchiaia, anche se lucida e relativamente attiva
negli ultimi anni: ma faceva tre piani di scale quasi ogni giorno. Era sopravissuta alla spagnola
verso la fine della prima guerra mondiale e forse anche questo l’avrà in qualche modo
immunizzata, se ha vissuto tanto a lungo. Ha patito come una tragedia la morte improvvisa di mio
padre nel 1953 e ha passato una lunga vita senza grandi relazioni. Una sola volta, dal modo come
me lo ha raccontato, l’ho sentita molto eccitata: quando fu lei a rispondere al telefono a Sandro
Pertini, allora Presidente della Camera, che chiedeva mie notizie – ero deputato – dopo le
manganellate prese sulla testa dalla Celere a Marghera, una mattina dei primi di luglio del 1970
durante la lotta delle imprese.
Della mia attività resistenziale, ovviamente, in casa non raccontavo niente: mia madre aveva
capito perfettamente, tanto che non è stata sorpresa del mio arresto e mai mi ha detto una
qualche parola di rimprovero per gli affanni che avevo portato in famiglia. Mi aiuterà anche dopo il
carcere in tutti i modi possibili e continuerà a non chiedermi nulla e senza mai raccomandarmi
qualcosa: penso si fidasse del mio senso della misura. Così anche mio padre, diventato presto
decisamente antifascista. Faceva i turni al telegrafo, all’ultimo piano del palazzo delle Poste a S.
Bortolomeo, comprese le notti: si portava una valigetta con il pranzo o la cena. Lo sentivo talvolta
di notte, quando tornava, sbattere il bastone salendo pesantemente le scale, il piede ferito
facendogli sempre male. Come hobby, gli piaceva aggiustare le scarpe – aveva tutti gli attrezzi del
calzolaio – e vi dedicava molto del tempo libero, oltre che curare l’orto per la verdura e l’uva da
tavola. Tra le sue carte che ho trovato in un cassetto, c’è persino un permesso del Comune,
rilasciato subito dopo la Liberazione, per “tenere non più di N. 6 galline” nell’orto. Non era molto
ciarliero e non dava troppe confidenze ai figli, come era d’uso nelle campagne. Non aveva molti
amici a Venezia, solo colleghi di ufficio e aveva nostalgia del suo paese dove andava appena
poteva: a lui, e a queste sue conoscenze e amicizie in campagna, dobbiamo se non abbiamo mai
patito veramente la fame durante la guerra.
D’estate, sin da bambini, sempre ci portava per un mese o due dai parenti suoi o, il più delle
volte, da quelli di mia madre e poi veniva a trovarci ogni settimana, si faceva prestare una
carrozza con cavallo da un suo amico e ci portava a fare lunghi giri per le strade interne, fra i
campi, o a visitare parenti. Una solo volta - nella seconda metà degli anni trenta – siamo andati in
montagna, ‘in villeggiatura’ per quindici giorni a Montagnaga di Pinè, in Trentino: si scendeva dal
treno a Pergine e poi ‘in automobile’ – per usare l’idioma del tempo - si saliva sino al paese. Un
avvenimento dovuto a non so più che cosa e che mia madre mitizzava sempre nei racconti
famigliari: credo il viaggio più lungo della sua vita. Ho ancora memoria di quella vecchia casa in
cui i miei avevano presa una stanza in affitto con comodo di cucina: sulla facciata c’era una lapide
9
in marmo in cui era inciso che Cesare Battisti vi era passato, o vi aveva dormito. Ricordo ancora i
bagni fatti nel vicino lago di Baselga un po’ melmoso e, più in particolare, il viaggio, sempre ‘in
automobile’, a Trento con relativa visita al castello del Buon Consiglio dove appunto Cesare
Battisti era stato impiccato dagli austriaci. Anche per me è stato il primo vero viaggio, la prima
volta che vedevo le montagne. Qualche tempo prima, con una gita organizzata dal dopolavoro dei
postelegrafonici, eravamo stati a Torreglia, sui colli Euganei che mi erano apparsi enormi e ignoti
come le Ande di cui leggevo con molta trepidazione su Cuore, ma neanche a confronto poi con
queste vere montagne.
Ma io conservo soprattutto il ricordo piacevole e nostalgico di quei mesi estivi in campagna: il
verde, gli alberi, la frutta abbondante, i fichi dolcissimi presi sull’albero, le ‘sante rose’ d’un sapore
che poi non sono più riuscito a ritrovare, i pomodori succulenti del “brolo” di mio nonno, le
lunghe distese dei campi di grano, la terra tiepida sui piedi appena dopo l’aratura. Le lunghe
corse in bicicletta e alla sera il bagno nella tinozza con l’acqua riscaldata al sole durante tutta la
giornata. A casa di mia nonna materna – a Celeseo – dormivamo in un letto che aveva come
materasso un grande ‘pagiaro’ – così, se non ricordo male, lo chiamavano – fatto con le foglie
secche delle pannocchie con relativo scricchiolio quando ci si rigirava. Mia nonna, piccola di
statura e mingherlina, la domenica si alzava prima dell’alba, si vestiva tutta di nero, con lo scialle,
e la ciabatte pure nere e tutte lustre, a si avviava a piedi – più o meno due chilometri di stradone
bianco – per andare alla “messa prima”, nell’Arcipretale in piazza, a S. Angelo di Piove di Sacco,
per poi ritornare sempre a piedi e fare colazione – polenta e latte che forniva una famiglia con la
stalla dall’altro lato della strada – quando noi ci alzavamo. Ricordo ancora come faceva la polenta
sopra il fuoco di legna, lo scalare degli anelli della catena, il ritmo lento e misurato dei colpi del
mescolamento, il ribaltamento sul grande tagliere, persino le ‘croste’ bruciacchiate e calde
strappate col cucchiaio dal fondo della ‘caldiera’ di rame.
Una mia zia – la portalettere del paese – pure abitava in questa casa, aveva una figlia ma non
era sposata: era la mia delizia. Alla mattina, sino al primo pomeriggio, si macinava non so quanti
chilometri di bicicletta – con sole, pioggia o vento – per distribuire la posta per tutte le ‘contrà’.
Alle sera, sempre giovanile, fascinosa, spesso ci raccontava delle storie inventate, talvolta cantava
con passione Una notte a Madera e fumava qualche sigaretta, allegra e piena di vita. Ogni tanto si
vestiva a festa, si profumava, e in bicicletta – misteriosa – andava a Padova chissà per quali
incontri segreti, o almeno così si sussurra in casa. Una volta – avrò avuto sei o sette anni e pesavo
non poco – mi ha portato, seduto sul manubrio della bicicletta, a Padova, pedalando per 12 km e
più, per farmi visitare la basilica di S. Antonio. Ė morta due anni fa, a 93 anni, piena di acciacchi
e di dolori per tutti i reumatismi e le artriti prese nei lunghissimi anni del suo lavoro di postina.
Mio nonno paterno – diventato mezzadro - abitava con due dei suoi numerosi figli, non
sposati, in una grande casa padronale a Campagnola di Brugine: aveva da curare un grande orto,
alcuni campi con le colture tradizionali e il vigneto e tenere in sesto appunto la casa, grandissima
a due piani e con un grande salone dove facevo le corse in bicicletta, come in una pista. Al
pianterreno c’era una saletta, credo del figlio del padrone – ma non ho mai visto qualcuno di loro –
ben ammobiliata dove c’era un pianoforte su cui mi divertivo spesso a strimpellare a casaccio.
10
Sopra il pianoforte, e in un armadio vicino, era accatastata un’enorme quantità di partiture
stampate di ogni sorta di canzoni (credo fossero spartiti per orchestrine) la cui prima pagina era
stampata con volti, rami di foglie e fiori e grandi caratteri liberty. La sera, un ‘moroso’ veniva a
trovare mia zia e noi assistevamo alle chiacchiere e ai convenevoli, nello spazio davanti alla porta
di casa, nell’orto. Mio zio, prima aiutava mio nonno nei campi, poi è diventato operaio nelle cave
dei colli Euganei, addetto ai trasporti e alla macinatura: un lavoro pendolare duro e faticoso. È
finita che si è preso la silicosi morendone, alcuni anni dopo la guerra. Mia zia ha fatto le pratiche
della pensione negli anni cinquanta con la Cisl o le Acli, con mio grande dispetto.
I miei giochi infantili e i ricordi sono soprattutto di questi mesi di campagna, lungo gli anni
trenta: non vedevo l’ora che arrivasse il giorno della partenza ai primi di luglio. Da Riva degli
Schiavoni con il battello della Veneta sino a Fusina e poi con la tramvia sino a Stra, lungo la
sinuosa riviera del Brenta del tutto libera dal traffico infernale di oggi. Qui ci veniva a prendere
qualche amico con la carrozza e il cavallo e finalmente, passando per Vigonovo, si arrivava nella
casetta di Celeseo, a due piani e con il pavimento/soffitto di mezzo in tavole di legno poggiate sulle
travi, per cui si poteva vedere di sotto attraverso le fessure. Ed era subito una corsa con la
bicicletta di mia zia postina.
Ho fatto amicizia con i ragazzi del posto: in principio, quando passavo, mi guardavano
imbambolati come fossi un marziano, poi a poco a poco cominciò la frequentazione e la
confidenza. Mi colpiva che fossero sempre a piedi scalzi, non solo loro ma anche i grandi, e solo
più tardi ho realizzato che si trattava di miseria, miseria nera: scalzi d’estate e con le “sgalmare”
d’inverno. E i calzoni e la camicia tutti rattoppati. E il pane mai era in tavola, solo la polenta e
spesso i fagioli erano il primo e anche il secondo: solo poco più di mezzo secolo fa e nessuno
poteva fiatare, pena il carcere o il confino. Ho un ricordo vivido di questa miseria in un episodio
che mi ha fortemente impressionato, tanto da averlo presente tuttora: avrò avuto dieci-dodici
anni, quando una mattina sento urlare che avevano preso il ladro, mentre tutta la gente
accorreva. Sono corso anch’io e, in una casa non lontana, vicino al pollaio ho visto un uomo
seduto per terra, con le mani legate dietro la schiena e due galline a penzoloni sul collo – erano
quelle rubate – e più di qualcuno gli sputava sul viso e tutti lo insultavano violentemente, finché
sono giunti i carabinieri che se lo sono portati via. Era la guerra fra poveri: tra il povero che aveva
qualche gallina e uno più povero ancora che per vivere sarà stato costretto a rubare galline, ché
allora la disoccupazione nelle campagne era di massa. Non è che avesse rapinato una banca o
svaligiato una casa: aveva rubato solo due galline ed era finito in carcere e tra gli insulti. La cosa
proprio non mi andava giù e l’ho vissuta come un accaduto odioso.
Dietro la casa di mia nonna c’era una specie di bottega artigiana, in gestione famigliare, per la
fabbricazione a mano di sedie grezze, con una specie di roncola lunga a due impugnature e molto
tagliente, poi intinte in una vasca con un colore giallognolo e successivamente impagliate dalle
ragazze durante tutta la giornata. Il figlio del padrone – Stefano Baschierato – studiava a Padova
all’Istituto d’arte ed era alle sue prime prove di scultore. Il suo studio era sopra il laboratorio, su
per una scala di legno: lì dentro passavo intere mattinate o pomeriggi a guardarlo a modellare
grandi blocchi di creta e a sfogliare i molti libri d’arte che aveva. Sono stato il suo primo ‘critico’:
11
ho scritto il mio primo (pessimo) articolo su di lui su “L’Avvenire d’Italia”11 che è stato pubblicato –
guarda la combinazione astrale – il 25 luglio 1943, il giorno della caduta di Mussolini. Emozione
da primo articolo travolta però da quella voce cavernosa che annunciava alla radio le fin’allora
impensabili dimissioni del “cavalier Benito Mussolini”.
Avevo diciotto anni e con la guerra era già cominciato a mutare radicalmente il clima del paese
e lo si percepiva ogni giorno di più, tuttavia mi pareva ancora impossibile una fine così repentina
del regime: di colpo sono scomparsi i distintivi dall’occhiello delle giacche.
A suo tempo, per le inferiori, i miei avevano deciso per l’Istituto Magistrale con la prospettiva
di farmi fare il maestro, così come hanno poi fatto con mia sorella che maestra è diventata
veramente. Come scuola e come professori ho un pessimo ricordo del Tommaseo: non voglio
generalizzare, ma – per quanto mi riguarda – sono proprio capitato male. Con un allampanato
professore di matematica, sempre vestito di nero, severissimo, che gioiva quando poteva dare un
brutto voto e che ci faceva fare difficili compiti scritti all’improvviso e in tempi strettissimi, su fogli
protocollo che distribuiva lui stesso e siglava con un timbretto che levava dal taschino del gilè o
che faceva interrogazioni/trabocchetto; con le varie insegnanti di italiano che si succedevano di
continuo e che dicevano le loro cose, indifferenti alla nostra attenzione e capacità di
comprensione; con un insegnante di musica che mi aveva messo al bando perché ero stonato, non
parlava con me e poi mi dava l’insufficienza. Per cercare di rimediare, i miei mi hanno mandato a
ripetizione dalle suore per il solfeggio – una noia mortale – e ho persino tentato di imparare a
suonare il violino, per due anni, in un corso pomeridiano. Fallimento totale. In definitiva, una
scuola che si faceva odiare, che non mi aiutava e non destava in me un qualche interesse: il
suono del campanello era una specie di liberazione. Superfluo dire che ero uno studente –
praticamente come tutti della mia classe – svogliato, passivo e senza senso: tanto che l’ultimo
anno sono stato bocciato e ho dovuto ripetere, con relativo sconforto dei miei.
Bocciatura che invece si è rivelata una felice opportunità: ho ripetuto l’anno e poi, per le
superiori, mi sono iscritto per l’anno 1939-40 al Liceo scientifico Benedetti. Non ci vorrà molto
tempo per diventare – da svogliato e passivo – interessato e coinvolto. E in un modo, appunto,
quasi da non riconoscermi più e a farmi pensare sempre a quegli anni – all’incirca fra i dieci e i
quindici – come anni rovinati o perduti proprio in quella scuola.
Finivo il primo anno di liceo che l’Italia entrava in guerra, nel giugno 1940: durante l’anno gli
studenti di tutte le scuole veneziane, evidentemente su ordine dall’alto e più di una volta, come in
tutto il paese – per alcune mattinate, durante l’orario di lezione – avevano fatto alcune
‘dimostrazioni’, come si chiamavano allora, inneggiando all’entrata in guerra dell’Italia a fianco
della Germania. Vi avevo partecipato anch’io: tutt’ora provo un senso di repulsione e di vergogna,
anche se avevo solo 15 anni e anche se poi mi sono sempre detto di essermi riscattato con la
Resistenza. Ma, per la verità, quel senso di repulsione lo provo anche per il prima: per quando, da
ragazzino, il fascismo appariva a me, come a tutti i miei compagni di scuola e agli altri ragazzi, il
volto ‘naturale’ dell’Italia essendoci stato istillato il virus della “grande patria” che costruiva il suo
“grande” destino. Era l’unico punto di riferimento materialmente presente in ogni momento e a cui
11
I. CHINELLO, Giovani scultori nostri, "L'Avvenire d'Italia", 25 lug. 1943.
12
era impossibile sottrarsi se non alla condizione, il più delle volte casuale, che qualcuno
squarciasse il velo. Ed è quello che per mia grande fortuna è accaduto.
Appunto, quella mattina della dimostrazione, rientrati a scuola per l’ultima ora, siamo stati
letteralmente investiti dal giovane professore di storia e filosofia – ricordo ancora nel dettaglio
quelle parole, talmente mi si sono incise nella mente per la loro travolgente novità e rottura – che
così ci apostrofò: “Voi giovani impacchettati di civiltà moderna di re imperatori e di duci, fate le
dimostrazioni per la guerra e io vi frego”. Interrogò tutti e a tutti diede un 3 o un 4 e anch’io presi
il mio 4. Fu per me una prova eclatante, di rottura, inimmaginabile allora, che mi ha sconvolto
totalmente: non avevo mai sentito parlare così, mi pareva impossibile di aver sentito quelle parole.
Certamente è stata una protesta forte – dati i tempi – da parte di un professore decisamente
antifascista, ma è stata soprattutto una frustata in piena faccia a noi studenti, una vera e propria
lezione di vita, una didattica d’assalto per incidere nelle coscienze e infatti ha condizionato
fortemente la mia: ho cominciato effettivamente, proprio da quel momento, a guardare le cose in
modo diverso. Erano state parole così incisive moralmente ed emotivamente, talmente shockanti,
che nessuno lo denunciò: immagino cosa rarissima e sorprendente in quei tempi, forse più unica
che rara, ma proprio per ciò tanto più significativa. Questo mio professore era Sandro Gallo: solo
dopo saprò essere già militante comunista e morirà da partigiano, comandante della “Calvi”,
combattendo contro i tedeschi a Lozzo di Cadore, in una curva della strada per Calalzo, il 20
settembre 1944, poche ore prima di assumere il comando della “Nannetti” in Cansiglio.
Oggi non ricordo che vagamente i contenuti delle sue lezioni, ma ricordo perfettamente di
averlo ascoltato sin dall’inizio, e prima della sua ultima sfuriata, con una crescente ed insolita
attenzione soprattutto in quelle di storia: in principio neanche me ne rendevo conto, ma è così che
ho cominciato a cambiare il mio rapporto con la scuola e a mettere insieme, certamente in forma
ancora rudimentale, cultura e politica. L’ho avuto come professore per due anni e mezzo sino alle
vacanze di Natale del ’41, quando alla ripresa – nei primi giorni del ’42 – non ritornò a scuola e fu
sostituito da una insegnante, Giovanna Pratilli, senza che ci fosse data alcuna spiegazione. Ho
saputo solo dopo che era stato arrestato nella notte di capodanno in piazza S. Marco con Renzo
Sullam e Renato Maestro per un alterco con un fascista e poi condannato al confino per un anno.
Non l’ho più visto da quei giorni di scuola e non avrà mai saputo che anch’io partecipavo alla
Resistenza e che la prima spinta me l’aveva data proprio lui: ho sempre avvertito come un debito
morale nei suoi confronti, un dovergli qualcosa. Spero, almeno in parte, di averlo saldato quando
mi è venuta l’occasione di parlare e di scrivere più in dettaglio sulla sua breve vita e sulla sua
intensa attività12. Quando passo, mi fermo sempre alla chiesetta degli alpini, tra Pieve e Calalzo,
dove è sepolto con i partigiani dell’ultimo combattimento.
Al Benedetti, nei primi due anni, avevo poi come professore d’italiano Giuliano Pradella che –
se non era così dichiaratamente antifascista come Gallo – tuttavia insegnava con impegno e al di
fuori di ogni conformismo e di retorica propagandistica, il che per i tempi non era poco. Ci ha fatto
anche conoscere certi film francesi in mattinate cinematografiche organizzate dal Guf al cinema S.
12
C. CHINELLO, Sandro Gallo ’Garbin, “Protagonisti”, n. 61, ott.-dic. 1995, pp. 39-56.
13
Marco – conservo tuttora un opuscolo di recensioni, anche sue, non allineate13 – che erano in
netto contrasto con i telefoni bianchi in voga nei film del regime. Avevo inoltre una professoressa
di scienze che ci educava al positivismo scientifico e persino l’insegnante di religione - un pretescienziato, direttore dell’osservatorio astronomico del seminario – che, invece di farci le
lezioni/prediche religiose, parlava di scienza. Ė evidente dunque che il mio orizzonte era
sollecitato da più parti ad allargarsi sempre più.
Ė a questo punto – e in questo contesto – che è venuto ad insegnare al Benedetti Francesco
Semi: doveva essere, se ricordo bene, nell’autunno del ’42, che in classe – IV B – è entrato Semi e,
come si usava allora, il capoclasse ha dato l’attenti. Lui ci ha guardati stupito e ha detto “non
sono mica un generale, mi basta il buongiorno”. Anche questo è stato un altro colpo di frusta: la
scuola è la scuola, non l’esercito o il premilitare. Ancora una lezione civile e insieme anche morale
e politica.
Ricordo invece chiaramente le lezioni di Semi, almeno nel metodo: sia quelle di italiano che di
latino. Semi era un rigoroso filologo e che si considerava allievo – come saprò dopo – di Giorgio
Pasquali, uno dei più noti filologi del primo dopoguerra, che vedeva la filologia non come “scienza
esatta, né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica”14 come
scriveva lui stesso in un libretto del 1920 che a suo tempo mi sono comprato, proprio su
indicazione di Semi, e che conservo tuttora. Dell’italiano ricordo le sue letture di Dante, di
Petrarca e di tanti altri autori: era una lettura del tutto particolare non formalistica o ampollosa o
anche solo letteraria, ma – appunto – storica. Prima di tutto scomponeva la singola parola, ne
mostrava la radice linguistica, le possibili varianti, i diversi significati – appunto il passaggio dalla
filologia alla storia – da cui veniva un Dante che andava letto criticamente, cioè interpretato nella
struttura della parola, nelle variabili dei significati e nella relazione tra loro, per cui ci dovevi
mettere del tuo: una vera partecipazione intellettuale che si ripeteva per ogni verso e poi per la
terzina su cui, per qualcuna, talvolta Semi si soffermava più a lungo. Risultato: per noi – a
leggerla prima e a leggerla dopo – la terzina cambiava totalmente di prospettiva per cui Dante non
risultava più un obbligo, ma un piacere. Così per Petrarca e gli altri autori, forse in numero
inferiore di quelli prescritti dai programmi scolastici, ma certamente in modo molto più
approfondito.
Per il latino mi pare che proprio in quell’anno – o in quello successivo – ci fece il De Agricola di
Tacito, la biografia del generale che aveva conquistato la Britannia. Già la scelta di Cornelio Tacito
come autore era coraggiosa: significava studiare “il massimo storico del principato” che – come ha
detto Concetto Marchesi – è stato “l’implacabile accusatore” di Tiberio, uno dei “più grandi e
infamati imperatori di Roma”15 perché crudele persecutore delle libertà. In altri termini studiare
13 VENEZIA, Iveser, Fondo C. Chinello 2, s.d. [1942], Le nostre mattinate, Edito a cura dell’Ufficio stampa del
Guf, Venezia, stampato, pp. 30, B. 4, fasc. 2. Le recensioni sono le seguenti: M. ORSONI, Registi del cinema
francese 1930-1939, pp. 6-8 e Rene Clair. Vogliamo la celebrità, pp. 28-30; G. PRADELLA, Pierre Chenal. Il fu
Mattia Pascal, pp. 9-10; Julien Duvivier, Il bandito della Casbah, pp. 17-19 e Rene Clair. Il milione, pp. 23-25;
G.M. VIANELLO, Julien Duvivier. Pel di Carota, pp. 12-16 e Julien Duvivier, Carnet du bal, pp. 20-22; A. ZORZI,
René Clair. Il fantasma galante, pp. 26-27.
14 G. PASQUALI, Filologia e storia, Le Monnier, Firenze 1920, p. 45.
15 Così Marchesi qualifica Cornelio Tacito all’8° congresso del Pci - nel 1956, dopo il 20° congresso del Pcus e
la condanna di Stalin – per sottolineare polemicamente che “a Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita
14
Tacito significava incentivare quell’“odium adversus dominantis” che, come scriveva lo stesso
Tacito, era “lo spirito chiarificatore e animatore della verità storica”. Non a caso, in quegli anni, al
Liviano di Padova, anche Marchesi faceva i suoi corsi su Tacito e aveva l’aula sempre strapiena,
ché andavano anche dalle altre facoltà.
In particolare, Tacito sintetizza i tempi di Agricola – vittima di Domiziano, l’”insidiosissimus
princeps” che quasi di sicuro lo aveva avvelenato – in quel fulminante ed incisivo passaggio,
praticamente all’inizio del testo: “tam saeva et infesta virtutibus tempora”. Sul suo significato
Semi si era soffermato a lungo, riferendolo specificamente alla tirannide, il che mi ha colpito
fortemente per i suoi forti ed immediati riflessi politici.
Con Semi sono rimasto due anni o poco più ma mi sembra tuttora di averlo avuto per lungo
tempo, talmente la sua presenza è stata densa e illuminante. Ricordo le interrogazioni come un
colloquio o una discussione a due: il problema non era l’interrogazione come controllo dello studio
scolastico ma come approfondimento di un argomento. Come non impegnarsi in queste
condizioni? Infatti, raramente dava una insufficienza perché ragionando ricavava sempre qualcosa
dall’interrogato. Una volta, in un compito d’italiano, mi ha dato dieci più e, al di là del voto, ero
felice per la stima che mi ha dimostrato e per le parole che mi ha rivolto. Era inevitabile che in
queste condizioni cominciassi a orientarmi verso scelte di tipo storico/letterario e umanistico.
Se pensavo alle magistrali mi sembrava di essere entrato in un altro mondo: mi si era
inaspettatamente aperta una nuova prospettiva e non è certo un caso che proprio in quell’anno,
insieme ad altri studenti di S. Elena – Livio Maitan, Mario Marcé, Mario Ferrari Bravo, Marco
Stringari e altri – cominciavamo a distribuire a S. Elena e a Castello i primi manifestini
antifascisti.
In classe – con una sola eccezione fra gli studenti – eravamo diventati tutti antifascisti,
compresi quasi tutti i professori: non a caso il Benedetti diventerà uno dei centri anche
organizzativi della Resistenza veneziana e alcuni dei suoi professori, come Semi, fra i suoi capi.
Persino la professoressa di tedesco mai, in nessuna occasione, neanche dopo l’8 settembre, ha
detto una sola parola a favore dei tedeschi: era tedesca, si chiamava Freund, mi ha difeso dopo
l’arresto nel consiglio dei professori e quando l’ho incontrata dopo la Liberazione mi ha
abbracciato piangendo e ogni volta che la vedevo mi faceva grandi feste.
In quel fine 1943, tra settembre e ottobre e nei mesi successivi, vivevo in uno stato di tensione
continuo: l’impegno a scuola, studiavo e leggevo non poco, per mio conto soprattutto Leopardi –
ho ancora il libro con i suoi Canti, il primo classico16 che mi sono comprato, con tutte le mie note
e commenti a matita sui bordi delle pagine che non ho più riletto per non riscoprirmi fuori del
tempo – cui si aggiungeva, ogni giorno sempre di più, l’attività antifascista del gruppo di studenti
di S. Elena a cui mi ero aggregato: dalla diffusione dei volantini ciclostilati di soppiatto nelle sede
dal fascio a quella, qualche mese dopo, dei “Fratelli d’Italia”, il giornaletto del Cln. Avevamo anche
dei contatti per cui abbiamo mandato alcuni giovani in montagna.
Krusciov” (PCI, VIII Congresso del Partito comunista Italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1957, p.
138).
16 G. LEOPARDI, Canti commentati da lui stesso, a cura di F. Moroncini, Edizioni Sandron, Palermo-Milano
1936. Nella prima pagina interna ho anche segnato la data dell’acquisto: 27 febbraio 1943.
15
Era un momento in cui anche gli studenti repubblichini stavano riorganizzandosi: una volta
abbiamo avuto persino una accesa discussione con loro. Era fra metà e la fine di settembre: nella
sede del Guf, in campo della Guerra, qualcuno aveva combinato questo incontro fra studenti.
Entrati, ne ho visto uno in divisa, con una pistola al cinturone, e subito ho detto “non discutiamo
in presenza di armi”, e quello si è levato il cinturone e lo ha portato in un’altra stanza: da non
crederci. Ce ne siamo detti di tutti i colori e non ci è successo niente.
Molti anni dopo, nella mie ricerche per il saggio sulla Resistenza a Marghera17, ho trovato
all’Archivio centrale dello stato il verbale della riunione tenuta il 29 settembre 1943 in Municipio a
Venezia18 con i rappresentanti di quasi tutte le forze politiche antifasciste – Gianquinto per i
comunisti, Boldi per i socialisti, Linassi per i repubblicani, Pietriboni, Cisco, Tessier, Zironda e
Bianchini per i liberali e la Democrazia cristiana – a cui si era rivolto il federale fascista Eugenio
Montesi in nome del “sentimento d’italianità” con l’invito a collaborare sulla base dell’”osservanza
delle norme emanate dall’autorità italiana e dalla autorità occupante” di cui si è discusso
criticamente in più sedi e che costituisce uno dei due buchi neri dell’avvio e della conclusione
della Resistenza a Venezia, l’altro essendo la resa non incondizionata pattuita con i tedeschi il 28
aprile 1945. Ė allora che con qualche probabilità ho creduto di capire perché non ci è successo
niente nella sede del Guf: anche nei nostri confronti evidentemente c’era stato un tentativo di
dialogo e di coinvolgimento ma, a differenza dei personaggi della riunione in Municipio, noi
d’istinto avevamo reagito per le rime. Anche se con il senno di poi bisogna aggiungere che la
stessa partecipazione all’incontro è stata ambigua, sbagliata e impolitica. Per fortuna che non ha
lasciato strascichi.
Più avanti – su sollecitazione del Cln veneziano – abbiamo organizzato un’altra iniziativa, ben
più importante e significativa: la partecipazione – il 9 novembre 1943 – all’inaugurazione dell’anno
accademico a Padova fatta dal rettore Concetto Marchesi. Un’esperienza incancellabile: siamo
partiti per tempo con la Veneta, arrivati a Padova siamo andati subito al Bo’ e siamo entrati in
quell’aula magna decisi a far valere il nostro antifascismo militante. Quando è entrato il ministro
Biggini con il codazzo di fascisti in divisa si è levata una potente fischiata e un urlo assordante di
“fuori, fuori”. Non stavamo nella pelle a fischiare e urlare, a lungo. Eravamo troppi e scatenati
perché i fascisti, per quanto numerosi dentro e fuori, potessero arginarci in maniera significativa e,
di fatto, non hanno potuto che subire: solo uno di loro si è alzato, è andato al microfono del podio
al centro dell’aula e ha iniziato con un “andate ad arruolarvi”, subito interrotto e subissato dai
fischi. Si è alzato allora Marchesi – addosso la toga con l’ermellino – si è avvicinato al podio, ha
tirato giù il fascista per un braccio gridandogli nell’improvviso silenzio abbattutosi nell’aula:
“Questo è il mio posto”. Una tempesta di applausi e grida. E ha cominciato il suo discorso che si
concludeva con quella del tutto inusuale – e perciò tanto più eclatante – dichiarazione di
inaugurazione del 722° anno accademico “in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli
C. CHINELLO, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività
sociale e politica, in G. PALADINI – M. REBERSCHAK, La Resistenza nel veneziano. La società veneziana tra
fascismo, resistenza, repubblica, Comune di Venezia, 1985, I, pp. 235-293.
18 Archivio centrale dello Stato, Rsi. Spd. Cr., b. 61, fasc. 64. Pfr, sottofasc. 11), riportato in IB., II, pp. 169195.
17
16
scienziati”19. A rileggere quel discorso avanti negli anni – a confronto del ricordo che ne avevo
introiettato – ne sono rimasto deluso per il suo tono troppo classicheggiante ormai fuori moda e
per quella ridondanza magniloquente con cui invocava “lo spirito della salvazione”, anche se erano
accenti confacenti al tempo e allo spirito dell’Università e del personaggio. Ma resta tuttora di lui,
incancellabile, quell’appello agli studenti “traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla
servilità criminosa” a “rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano” insieme alla “gioventù
operaia e contadina”, quando a fine novembre ha rassegnato le dimissioni da rettore per passare in
clandestinità. Appello che, stampato in volantino anche a Venezia dal Cln – ne conservo nel mio
archivio una copia autentica20 – abbiamo poi diffuso per tutta la città.
Sono ritornato a Padova nelle settimane successive altre due volte. In entrambi i casi come
inviato del nostro gruppo di studenti: la prima all’Istituto di farmacologia, a prendere dal professor
Egidio Meneghetti, preventivamente contattato, un bottiglietta con dentro del fosforo giallo che nei
nostri piani doveva servire per incendiare certe liste in alcuni uffici del distretto militare, ma che,
rovesciatone per prova una particella nel lavandino a casa di Marcé, non ha fatto la fiammata
prevista mandando così all’aria il nostro progetto (forse Meneghetti non si era fidato o avevamo per
sbaglio fatto filtrare aria nella bottiglietta o chissà cos’altro): ricordo tuttora quel viaggio
clandestino, sempre con la Veneta, con la bottiglietta nella mano in tasca, ché mi pareva tutti mi
scrutassero sospettosi.
La seconda volta per andare a casa di Ugo Perinelli, allora uno dei capi del partito d’Azione in
Veneto – non ricordo se fosse già medico – per consegnargli o farmi dare delle carte. Un compito di
secondaria importanza, ma che mi è rimasto impresso per un’altra ragione. Era inverno, faceva un
freddo cane, anche nelle nostre case vivevamo nel gelo, pieni di geloni alle mani e ai piedi: entrare e
sentire quel tepore di casa riscaldata – ad un certo momento persino insopportabile – mi fece
venire un fortissimo mal di denti. Perinelli mi ha accolto a letto – era influenzato – gli ho
consegnato o ricevuto le carte e scambiato qualche parola, mi ha offerto qualcosa di caldo: ma ero
arrabbiatissimo, quella casa calda mi pareva un insulto personale e me ne sono andato appena
possibile. Rimuginavo già la voglia di diventare comunista e in quella casa riscaldata mi è parso di
cogliere di colpo la differenza di classe, tra il privilegio della ricchezza e la norma degli stenti e delle
privazioni. Erano mie ingenuità giovanili del tempo: Perinelli è stato una forte figura della
Resistenza veneziana tanto da ispirare uno dei personaggi principali de Il terrorista, il bel film di
Gianni De Bosio21, ed è diventato poi un militante socialista e successivamente del Psiup, sempre
schierato a sinistra e sempre combattivo e partecipe dei movimenti di lotta. Come pediatra era
bravo e solidale con tutti noi che gli abbiamo sempre portato i nostri figli. È scomparso
all’improvviso, ancora troppo giovane, pagando di colpo il suo forte impegno politico e
professionale. Se penso a quell’incontro di Padova con Ugo mi viene ancora da ironizzare su me
19 C. MARCHESI, Discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-44, in ID., Scritti politici, a cura di M. TodaroFaranda, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 109.
20 VENEZIA, Iveser, Fondo C. Chinello, 1/12/1943, "Studenti dell'Università di Padova! Sono rimasto a capo
della vostra Università...", a firma "Il Rettore Concetto Marchesi", stampato, B. 1, fasc. 1.
21 Il regista me lo ha confermato personalmente in una rapida conversazione telefonica in occasione di una
mia presentazione del suo film a Venezia in un anniversario della Liberazione.
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stesso e ne ha sorriso anche lui – non so se proprio divertito – una volta che gli ho raccontato il
fatto di cui fortunatamente non conservava memoria.
Erano di questo tipo le attività intraprese da questo gruppo di studenti di S. Elena – liceali o
universitari – con cui mi ero legato ancora nel ’42, e forse anche prima, per discutere fra di noi
proprio sulla guerra, sulle crepe che si aprivano nel regime, sul bisogno comune e vitale della
libertà e contro la dittatura che avvertivamo anche nelle piccole cose o nelle vessazioni quotidiane.
Come, per esempio, lo stacco ordinato dal regime di tutte le antenne degli apparecchi radio – che
allora si stendevano fra una casa e l’altra – per tentare di impedire l’ascolto di radio Londra. Un
altro caso: una sera, in vaporino – fine ’41 o inizio ’42 – io e Livio Maitan discutevamo, a voce alta
e molto criticamente, sui commenti che Mario Appelius faceva alla sera alla radio sulle vicende
della guerra e sugli inserimenti a viva voce di Radio Londra per cui ne nascevano delle situazioni
paradossali in cui i due ‘nemici’ si controbattevano e in cui, di solito l’Appellius soccombeva, oltre
che per i fatti incontrevertibili, anche perché senza verve. Scendendo dal vaporino a S. Elena un
tizio – ho saputo dopo che si chiamava Zinoni, un fascista di antica data che abitava vicino a casa
mia – ci si è avvicinato invitandoci per le spicce a seguirlo nella vicina sede del fascio. Lì ci ha
chiesto le generalità, ci ha contestato duramente le nostre critiche all’Appellius dandoci dei
“disfattisti” e minacciando severissime punizioni. Poi gli hanno detto che eravamo figli di mutilati
di guerra, che il padre di Maitan era stato volontario in Abissinia e non so che altro e alla fine ci
ha lasciati andare solo perché – ha commentato – eravamo figli, anche se indegni, di gente che
aveva dato tutto alla patria.
Piccole storie ma che segnano le esperienze individuali e incentivano la critica e l’iniziativa
contrapposta. Con questi giovani di S. Elena ci conoscevamo sin da bambini, talvolta abbiamo
anche giocato insieme – dipendeva dalla differenza di età che contava molto, anche se era solo di
qualche anno – e ci eravamo ritrovati obbligatoriamente nel premilitare che ci facevano fare
marciando su e giù per il viale di S. Elena: una cosa insopportabile, penosa, goffa e che ci
infastidiva molto per la perdita di tempo e per il modo d’essere pagliaccesco, con quella divisa
addosso che puzzava di lana straccia e il finto pugnale di latta. Sono avvenuti proprio in questi
sabato pomeriggio del premilitare i nostri primi incontri, i primi ammiccamenti, l’avvio di una
discussione che ci avrebbe portato lontano, qualcuno anche a morire combattendo da partigiano
sull’altipiano di Asiago, come Marco Stringari. E discutendo ci siamo ritrovati presto antifascisti –
e antimonarchici – con la voglia e l’urgenza di agire: sono nati così i nostri primi manifestini
contro la guerra.
Ma prima ancora – in una sorta di pre-littoriali di italiano, organizzati all’Istituto Nautico, nel
’41 o ’42, e per i quali erano stati scelti alcuni di noi – avevamo predisposto una sorta di
ostruzionismo: ci hanno dato un tema da sviluppare – “Se tu parlassi con il duce cosa gli diresti?”
– che si prestava perfettamente al nostro intendimento di presentare dopo un certo tempo il foglio
in bianco, come segnale di disobbedienza. E così è avvenuto: dopo mezz’ora passata facendo finta
di pensare, mi sono alzato e ho consegnato il foglio in bianco ad un tipo in divisa che ci
controllava. Mi ha chiesto “perché è bianco?”, e io di rimando “non saprei cosa dirgli” e sono
uscito dall’aula. Dopo poco un altro (Franco Grienti) ha fatto lo stesso tiro e, se ricordo bene,
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anche un terzo. L’iniziativa ha suscitato sul momento un certo scalpore, ma poi hanno preferito
far finta di niente. O forse, nella loro ottusità, potrebbero avere anche pensato che effettivamente
ci sentivamo timidi di dire al duce qualcosa.
Si distribuivano i manifestini a S. Elena e a Castello, in Paludo e in Secco Marina sino in via
Garibaldi. Li avevamo girati al ciclostile dentro la sede del fascio di cui era segretario un alto
funzionario del Comune, mutilato di guerra che ci conosceva benissimo perché abitava
nell’appartamento sotto Maitan e delle cui figlie alcuni di noi erano anche amici: mai avrebbe
potuto supporre un tale raggiro.
Può sembrare, oggi, niente di straordinario diffondere dei volantini, ma allora era una sorta di
avventura. Prima di tutto presupponeva – in quel contesto di regime imperante, di guerra in corso
e di giovani non certo iniziati alla lotta politica – una scelta soggettiva di azione controcorrente e
autocontrollo nell’esecuzione – la prima volta mi tremavano le mani nell’infilare i volantini sotto le
porte, per la novità assoluta del gesto – e anche un segreto da mantenere con gli altri, in casa e con
i compagni di scuola e gli amici, contro la voglia immediata di condividere tutte le esperienze così
presente nei giovani. Inoltre bisognava risolvere i problemi pratici del reperimento della carta, della
scrittura dei testi, dell’inchiostro e della stampa con il ciclostile.
Avevamo raggiunto persino una certa efficienza nell’organizzazione della rete che abbiamo
messo a punto – qualche mese dopo l’8 settembre – con la diffusione del clandestino “Fratelli
d’Italia”, il giornalino del Cln. Era composto ancora a mano, con i caratteri presi dai cassettini, in
una tipografia in Campiello del Sol, a S. Polo e poi si andava a casa dello stampatore, in campo S.
Cassian – quella col ponte che dà direttamente sulla porta del caseggiato, al primo o secondo
piano – a ritirare le bozze che correggevamo (ricordo – perché colpito dall’avvenimento – di aver
partecipato alla correzione del numero che annunciava in prima pagina la morte di Silvio Trentin).
Poi stampavano il giornaletto, durante il giorno, frammisto all’altro lavoro. Quando era pronto lo si
divideva in pacchi legati e incartati, non molto grandi per non dare troppo nell’occhio, e verso sera
– quando aumentava il passaggio nelle calli – lo si portava fuori a singhiozzo a una prima rete
fatta da tre giovani – uno di questi, ricordo bene, era Emanuele Battain, poi combattivo legale dei
militanti sindacali e politici di sinistra – ai tre angoli del campo, i quali, a loro volta lo portavano a
una rete più larga, e così via sino a destinazione nei luoghi convenuti e nella sera tarda, prima del
coprifuoco, o nei giorni successivi veniva diffuso in tutta la città. Ero diventato uno specialista
nell’infilare o depositare ovunque – giornaletti o volantini che fossero, accuratamente piegati in
più parti per ridurne la visibilità – nelle cassette delle lettere come nei tavolini dei bar, nelle sedie
dei cinema come nei banchi dei negozi o nelle scuole e biblioteche (alla Marciana o alla Querini
non c’era nessun problema con tutti quei cassetti colmi di schede).
Una volta in vaporino, tra S. Zaccaria e l’Arsenale – dopo che avevo gettato il giornaletto fra il
carbone, nel locale macchine sottostante aperto verso l’alto, mentre il fuochista lo spalava nella
caldaia per cui non si era accorto di nulla – me la sono vista un po’ brutta: dando le spalle alla
cabina del capitano che allora era aperta in alto e di lato, ho infilato con le mani all’indietro il
giornaletto. Il capitano si è accorto della manovra, ha preso in mano il foglio, lo ha spiegato, letto i
titoli, ha capito subito di che si trattava, mi ha guardato, se lo è infilato in tasca e si è voltato
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dall’altra parte attraccando all’Arsenale. Non sono neanche sceso. Era andata bene: per Renzo De
Felice questo capitano non sarebbe un resistente, mentre di fatto lo era, o lo diventava in quel
momento, come sa bene chi ci è stato di mezzo. Il primissimo passo di ciascuno è stato più o
meno analogo.
Vita, dunque, in continua tensione ma piena: alla mattina a scuola, fra pomeriggio e sera
studiare e fare attività. Noi non avevamo responsabilità politiche o organizzative, non dovevamo
decidere qualcosa, ma fare tutto quello che ci dicevano di fare e se qualche giorno non ci arrivava
niente, ce lo inventavamo noi di nostra iniziativa: magari una frase col gessetto su un muro, o una
scritta con qualcosa di più consistente – quante ne abbiamo fatte nel muro del sottoportico dietro
la Fenice e nelle calli verso campo S. Angelo e altrove – oltre che diffondere gli ormai soliti
volantini.
Non eravamo mai stanchi, anche perché avevamo sì e no vent’anni: volontariato puro che
diventava ragione di vita, interiorizzata senza enfasi. Anzi sembrava spesso di fare troppo poco
rispetto ai bisogni e alla rabbia che ci ribolliva dentro, il che ci rendeva qualche volta persino
incoscienti. Come mi è capitato in una delle prime attività svolte: portare una tanica di benzina
(sui dieci litri) al Lido, non ricordo a chi e perché. Sta di fatto che si sentiva un forte odore di
benzina, quando sono andato a prelevarla in una casa dalle parti del campo S. Maria Nova – se
ricordo bene, era presente anche Battain – e per cercare di attenuarlo ho acceso una candela e ho
fatto colare la cera sul tappo di sughero della tanica per sigillarla. Poi l’ho portata al Lido, in prua
della motonave per far sentire meno la puzza di benzina. Solo qualche tempo dopo ho realizzato
quale sorte benigna ho avuto per non essere investito da una fiammata che avrebbe potuto magari
incendiare la stessa casa, con quali conseguenze è facile immaginare. Debbo dire che nella
Resistenza, questa fortuna – di non essere leso personalmente - l’ho riavuta in più occasioni.
Ed è in questo contesto che stavo per saldare un rapporto particolare, politico e di fraternità,
con Giuseppe Turcato. L’avevo conosciuto una sera dell’autunno 1943 a S. Elena, in casa di Mario
Marcé, studente di medicina, durante uno dei nostri caotici incontri in cui si discuteva di tutto e ci
si organizzava. Come ho raccontato altrove, finito l’incontro, siamo usciti insieme, probabilmente
non in modo casuale. Ormai sapevo che era antifascista e saprò presto anche della sua militanza
comunista. Nello scambiarci i primi commenti mi ha squadrato in modo penetrante e nel contempo
fulminante, anche indagatore – come farà sempre con le persone che per una qualche ragione lo
interessavano, talvolta persino in un modo tale da creare un filo di imbarazzo per l’interlocutore –
per cui ho avuta netta e immediata l’impressione che poco poteva sfuggirgli e che il rapporto con
lui doveva essere a tutto campo e trasparente. Credo che deliberatamente non mi ha chiesto di fare
qualcosa con lui nei giorni successivi: aveva le sue regole di comportamento.
Come risulta anche dai suoi Frammenti di autobiografia22 Turcato era un autentico autodidatta
– “irregolare, frammentario, da correggere”23 – che aveva letto di tutto e annotato, con la sua grafia
grande e segmentata, un’infinità di pagine dei suoi libri segnandovi gli errori di stampa o del testo,
il commento personale o il rimando a qualche altri libro e infilando tra le pagine i ritagli di giornale
22
23
G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit.
IB, p. 164.
20
sull’argomento. Eclettismo ma filtrato – come saprò più tardi – da letture storiche e filosofiche e
dalla preparazione, per esempio, di recensioni (pubblicate) di libri importanti che, se lo
impegnavano molto, scrupoloso com’era, lo maturavano, tanto da farne un intellettuale sui generis,
senza titoli e riconoscimenti formali. Tutti passaggi ed esperienze che lo preparavano moralmente e
razionalmente ai venti mesi di lotta – nella Resistenza e nella militanza comunista clandestina –
che, per molte ragioni, sono stati per lui durissimi.
Naturalmente in quel primo incontro con Turcato – come nei successivi – io nulla sapevo di
tutto questo ma intuivo lo spessore del personaggio anche dal modo con cui mi trapassava con gli
occhi socchiusi: abbiamo cominciato col parlare di fascismo/antifascismo ma in modo concreto,
sul cosa e sul come bisognava fare e agire, della guerra, ha voluto che gli raccontassi della mia
scuola. Non è passato molto tempo che si è cominciato a parlare del comunismo mentre avevo già
cominciavo a fare attività con lui, staccandomi lentamente dal gruppo degli studenti, ciascuno dei
quali, a sua volta, viveva processi analoghi di contatti ed esperienze diverse, ma sempre
mantenendo tra noi relazioni più che amicali. Ė così che il 6 marzo 1944 gli ho chiesto di entrare
nel Pci. Mi aveva spinto a questo anche la lettura del Manifesto dei comunisti di Marx-Engels che
avevo fatto alla Marciana, non ricordo più indicatomi da chi: si trattava di un volume di una
collana di economia diretta da Bottai, con tutte le pagine stropicciate e segnate proprio là dove
c’era appunto il Manifesto, chissà come tradotto e censurato. Comunque fosse, quel testo così
com’era – o appariva a me – bastava a decidermi al passo: quel “proletari di tutto il mondo unitevi”
era la rivoluzione. Era in quei giorni che venivo arrestato, per ritrovarmi solo in cella a rimuginare
su questi passaggi esistenziali.
A S. Maria Maggiore nell’estate del ‘44
In quei frangenti, la vita in carcere era dura, difficile: per l’ambiente nuovo, per le regole
spaesanti (il martellamento delle sbarre della cella durante la notte, il bugliolo puzzolente, le
cimici) e per l’inconsapevolezza di quanto accadeva fuori. E soprattutto per la perdita di identità:
bisognava rivolgersi al “superiore” che altri non era che il secondino sempre con la faccia feroce,
evidentemente per ragioni professionali, anche quelli che segretamente erano amici, come
Leonardo Cotugno24 che poi ho ritrovato militante del Pci.
Si doveva fare il letto alla mattina, subito dopo la sveglia e prima di ricevere quel bicchiere di
acqua tiepida scura che si denominava caffè: con l’esperienza ho imparato a stendere senza una
piega – con i quattro nodi agli angoli - quelle lenzuola ruvide e scure che cambiavano assai
raramente Si mangiava una solo volta al giorno, fra le undici e mezzogiorno: una pagnotta
all’incirca di mezzo chilo (non saprei proprio con cosa fatta, ché non sapeva certo di pane) e una
scodella di sbobba tiepida con qualche pezzo di rapa galleggiante. Era tutto per 24 ore:
l’alternativa stava tra razionare il ‘pane’ nella giornata e masticarlo lentamente per farlo durare
più a lungo o mangiarlo in fretta e tutto in una volta per sentirsi pieno almeno per qualche
istante. La domenica, in aggiunta, due centimetri cubi di carne coriacea e altrettanti di
Turcato lo qualifica come “persona di fiducia del Comando Piazza” (G. TURCATO. “Stratagemma contro la X
Mas. 30 aprile: ore 1.20, in G. TURCATO – A. ZANON DAL BO (A cura di), 1943-1945 Venezia nella Resistenza.
Testimonianze, Venezia, Comune di Venezia 1975-1976, p. 260.
24
21
castagnaccio. Le prime cucchiaiate non sono riuscito a mandarle giù e neanche il pane che sapeva
di segatura bagnata. Solo dopo qualche giorno per forza di cose ho cominciato a mangiare, ma
sempre con sforzo. Dovrà passare qualche settimana perché quel castagnaccio cominciasse a
sembrarmi quasi una leccornia. Per fortuna che i miei sono riusciti poi a farmi avere sempre
qualcosa da mangiare, il che mi ha aiutato molto a tener duro.
Dopo l’isolamento, in cella – peraltro sempre chiusa - si era in tre (mai in due, per non favorire
l’omosessualità, come i ‘vecchi’ del carcere mi hanno spiegato) con tutto lo spazio materialmente
occupato dalle brande, per cui non ci si poteva muovere e vi si doveva stare accovacciati. Solo nei
cameroni, all’ultimo piano, si stava in sei o in nove, ma almeno ci si poteva rigirare, a parte il fatto
che non era semplice la convivenza quando capitava qualche ‘comune’ aggressivo (anche se, in
generale, i comuni avevano molto rispetto per i politici).
Per imperscrutabili ragioni i cambiamenti di cella e di compagni di cella erano numerosi e
anche questo era motivo di tensione, come ogni cambiamento in carcere, anche piccolo. Salvo
eccezioni: una volta ci siamo trovati in sei in un camerone – il 163 – tutti comunisti o
simpatizzanti: il periodo meno tirato della mia detenzione e in cui abbiamo discusso di più di
politica e di cosa sarebbe accaduto dopo la Liberazione, quando avremmo avuto la nostra “libertà”
e senza fascisti e tedeschi, cose che sembravano un sogno. Gramola, in quel camerone, ha fatto
degli acquarelli – usando inchiostro diluito – uno dei quali lo conservo appeso al muro dello studio
e che ho ritrovato fra le carte riordinando il mio archivio: un tavolo in mezzo, le brande, un
paravento per il bugliolo, una finestra con sbarre e bocca di lupo e noi colti in lettura. Quando si
andava all’aria, la mattina, trovavamo anche un prete di un paese del Piave che canticchiava
sottovoce Bandiera rossa (chissà se poi lo avranno spretato quando i comunisti sono stati
scomunicati).
Eravamo anche riusciti a farci una piccola biblioteca con libri da casa o che ci procurava il
cappellano: io avevo una “edizione minuscola” della Divina commedia25, la Storia della letteratura
latina26 di Concetto Marchesi, la Storia della filosofia27 di Lamanna che era un libro di scuola in
due volumoni, il mio Leopardi e titoli di letteratura italiana e russa. Bibliotecario del carcere in
quel momento era Vittorio Ghidetti – saprò dopo essere vecchio militante comunista – che, capito
perfettamente con chi aveva a che fare, ci forniva quello che si potrebbe chiamare il ‘meglio’ di una
bibliotecaccia dove erano finiti tutti gli avanzi scartati di chissà chi. Ciononostante mi è capitato
di leggere un brano di Diego Valeri sui colli Euganei – non ricordo assolutamente il titolo, mi pare
in una rivista – scritto in un modo tale che mi sono perso nelle fantasticherie e nel profumo dei
fiori. Non mi era mai capitata una cosa del genere e probabilmente solo in un luogo di restrizione
può verificarsi: tuttora sono grato allo scrittore per quel tempo che mi ha fatto passare in
dimenticanza delle sbarre.
D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Edizione minuscola, Hoepli, Milano, 1941, con il visto della censura del
carcere.
26 C. MARCHESI,Storia della letteratura latina, 2 voll., Principato, Milano 1943. Nella prima pagina interna ho
anche segnato “Letto a S. Maria Maggiore maggio 1944 cella n. 60 – 66 – 62”.
27 P. LAMANNA, Storia della filosofia, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1943.
25
22
Per un periodo della mia detenzione ho fatto anche il postino – deve essere stato il cappellano
a propormi alla direzione – che è un lavoro assolutamente privilegiato: si ha una cella solo per sé,
con la porta chiusa solo di notte e, soprattutto, con una lampadina a muro sopra il tavolo che si
poteva accendere o spegnere quando si voleva. Ci si poteva muovere durante il giorno e leggere
anche per l’intera nottata: una pacchia, sempre relativamente al carcere. Si trattava di recapitare,
ogni mattina, la posta nelle celle mentre nel pomeriggio la si ordinava (non era che fosse molta e il
lavoro era perciò rapido) e si aveva molto tempo per leggere e girare. E anche questo era un
percorso tra un’umanità estremamente variegata. Aprire, dal di fuori e senza preavviso, lo
spioncino della porta – quando era aperto per una qualche ragione i carcerati ci infilavano la testa
per gettare uno sguardo su quello che per loro, in quel momento, era tutto il mondo esterno –
poteva essere una violazione di intimità, ma non così nella realtà: al contrario, era occasione di
parlare, di dare o ricevere qualcosa di caro (appunto, la posta), comunque di uno scambio di
sguardo o di parola o di sigaretta che serviva a tirare avanti. Era anche un modo per tenere i
collegamenti tra i politici ed è così che praticamente ho conosciuti tutti quelli che erano lì, salvo
quelli in isolamento o nel raggio a disposizione dei tedeschi.
Una volta – doveva essere a fine giugno o i primi di luglio – mi hanno fatto perfino uscire da S.
Maria Maggiore per fare l’esame di ginnastica in una palestra vicina, nella sede dell’ex Gioventù
italiana del littorio, dove ora c’è un asilo dove sono andati anche i miei nipotini. A scuola, a fine
anno scolastico, a metà giugno, erano stati fatti gli scrutini per la maturità28: tutti i professori e il
preside mi avevano protetto salvo quello di ginnastica, fascista, che si è rifiutato di darmi la
sufficienza. La maturità me la meritavo ma quei professori – Semi e il preside Borriero in testa –
hanno dovuto difendermi lo stesso per salvarmi l’anno, pur sapendo di correre dei rischi. Il
compromesso raggiunto era stato, appunto, quello di farmi fare l’esame di ginnastica, ma con una
carta di riserva da parte del preside.
Era metà pomeriggio quando sono uscito dalla porta principale del carcere, dopo l’apertura e
la chiusura di non so quanti cancelli e vari ordini gridati, accompagnato da un agente della
questura, ma non ammanettato: ho assaporato la tiepidezza del sole, ho visto una bambina
giocare in un piccolo squero sul canale vicino e la gente passare. Uno scorcio improvviso e rapido
sulla vita normale e mi si è posto per la seconda volta lo stesso problema: passata Fondamenta
Cereri, in Fondamenta Rossa, con uno spintone improvviso avrei potuto scaraventare in canale la
mia guardia e darmela a gambe. Ma dopo, dove andare? Continuavo a non avere alcun recapito e
ho concluso – il tutto in pochi attimi, come nel caso precedente – che il rischio era troppo forte
rispetto alle possibilità di riuscita. In questo caso però, anche se poi nel complesso – come già
detto – è andata bene, mi sono venuti dubbi maggiori su tale decisione: non è che si trovano le
soluzioni sul momento, quando le si vogliono effettivamente trovare?
Comunque, percorsa la Fondamenta Rossa, fatto il ponte e un piccolo tratto di quella Briati –
allora si accedeva da questa parte – sono entrato nella palestra, piena di fascisti in divisa (non
credo fossero lì per me, ma bastava la loro presenza per complicare la situazione). Mi sono
28 Negli anni di guerra gli esami di maturità con le commissioni esterne sono stati sostituiti dagli scrutini
annuali.
23
presentato, sempre scortato, al tavolo e ho detto “buongiorno”. Il professore – che non era quello
di scuola – di rimando: “perché non fai il saluto romano?” Ed io cosa potevo fare o dire?: “Come
faccio a fare il saluto romano se sono un detenuto politico?”. Non avevo immaginato una simile
richiesta e la risposta mi era venuta spontanea. Tutti mi hanno guardato fra lo stupito e il
meravigliato cominciando a gridare insulti. Allora il professore, tagliando corto, mi ha mandato
alla fune e mi ha detto di salire. Io ho provato: in ginnastica non sono mai stato bravo e dopo tre
mesi di carcere ancora meno, non sono riuscito a fare neanche mezzo metro. Allora mi ha
mandato alle pertiche e si è ripetuta la stessa scena. Mi ha chiesto un’altra cosa (mi pare il salto
del cavallo) ed io di rimando: “sono tre mesi che sono in carcere, come posso fare queste cose?”.
Mi ha bocciato e mandato via. Così sono ritornato in carcere, convinto di aver perso l’anno anche
se non ne pativo più di tanto, visto poi che la situazione in cui ero ingrovigliato mi destava ben
maggiore preoccupazione. Invece il preside, valendosi di una disposizione di non so quale legge,
ha cassato quella bocciatura e mi ha dato la maturità per cui mio padre, poi, in autunno ha
potuto iscrivermi a Scienze politiche a Padova. Non credo siano stati molti i presidi o i professori
che hanno saputo comportarsi in un modo così risoluto in difesa di un loro studente.
Ma alla calma relativa di questi miei primi tre mesi – da aprile a giugno – è seguita poi la
tragedia con una sequenza di giorni terribili in cui nel carcere dominava il terrore e il silenzio
assoluto, irreale: poteva capitare a chiunque qualunque cosa e tutti ne avevano consapevolezza,
anche i detenuti comuni.
Del primo avvenimento – la rappresaglia a Cannaregio nella notte fra il 7 e l’8 luglio – non
abbiamo avuto che una eco ridotta, immagino perché il carcere non era stato coinvolto, ma è stato
il primo segnale che le cose erano destinate a precipitare. Una mattina ci è giunta la notizia che
erano stati “rinvenuti in città” 5 cadaveri, prima versione dagli stessi fascisti, e solo più tardi
abbiamo saputo che si trattava invece di una rappresaglia, ma niente di più. Chi fossero e perché
assassinati l’ho saputo dopo la mia liberazione. Era accaduto che la mattina presto del 6 luglio,
nei pressi dell’allora cinema Italia, un gruppo di tre partigiani aveva giustiziato Bartolomeo Asara,
maresciallo di marina collaboratore della Gnr. Era la prima volta che a Venezia si verificava un
fatto del genere, segno che la Resistenza cresceva. La rappresaglia fascista è seguita, senza
preavviso, appunto fra il 7 e 8 luglio quando, nella notte, sono stati prelevati sei antifascisti dalle
loro case, a Cannaregio, ed è stato loro sparato un colpo alla nuca in strada, davanti alla loro
porta. Si è salvato solo Giuseppe Tramontin, evidentemente colpito di striscio: è stato subito
soccorso dai vicini, portato in ospedale, curato e nascosto dai medici riuscendo a sopravvivere e a
raccontare poi la sua incredibile storia. Saprò dopo la Liberazione che a sparare a Tramontin era
stato quello stesso Cafiero che mi aveva accompagnato a Ca’ Giustinian, il giorno successivo
all’arresto.
Ma il dramma – per noi – è esploso venti giorni dopo. La mattina del 27 luglio abbiamo sentito
un grande boato: abbiamo saputo dopo che si trattava dell’attentato di Ca’ Giustinian con morti e
feriti. Un’azione partigiana che mostrava a tutto campo la vitalità, la forza e anche la capacità
organizzativa della Resistenza veneziana. Le notizie che riuscivamo ad avere erano frammentarie,
qualcosa ci dicevano i secondini ma, sul momento, non ci eravamo resi conto – quelli con cui ero
24
insieme – di quello che stava per accadere. Nella notte abbiamo sentito un gran trambusto, un
aprire e sbattere di porte e cancelli con violenza inusitata, comandi urlati, uno sferragliamento di
catene, un tramestio di passi in movimento. Brigate nere e guardia repubblicana erano venuti a
prelevare i tredici del gruppo di S. Donà di Piave, fra cui anche Biancotto: li hanno portati sulle
macerie di Ca’ Giustinian e un plotone di esecuzione, comandato da Zani e di cui facevano parte
Cafiero29 e Sudessi, li ha fucilati all’alba. Abbiamo intuito immediatamente che era la
rappresaglia, ma la certezza l’abbiamo avuta durante la giornata: angoscia e terrore avvinghiavano
tutto il carcere, un silenzio di tomba impressionante. Nessuno dei mille rumori e delle voci usuali
di ogni giorno.
Quella notte me la sono portata dietro per lunghissimi anni: Biancotto era per me più che un
fratello, siamo stati per due-tre mesi nella stessa cella dividendo tutto quello che avevamo, poi
comunque ci vedevamo all’aria ogni giorno, si parlava continuamente ovviamente di politica e di
comunismo ma anche della vita e del futuro. Ė stato un colpo così atroce e diretto che ho
cominciato a credere – interiorizzandolo nel tempo – che l’avessero strappato dalla mia cella. Oggi
– detta così – può apparire come una forma di sentimentalismo giovanile, ma in quei giorni ho
giurato a me stesso con assoluta determinazione che, se e quando fossi uscito, lo avrei vendicato.
Ho realizzato solo dopo che quella notte non abbiamo sentito niente che potesse somigliare a
lamento o disperazione, anche se certamente avranno intuito cosa li attendeva e avranno provato
l’orrore della morte. E ho realizzato solo molto più tardi – quando ho letto il libro di Sandro
Portelli30 sulle Fosse Ardeatine – che nessuno di noi in carcere ha rinnegato o si è posto anche
solo un interrogativo su quell’azione partigiana, anche se capivamo di essere in pericolo, tanto ci
pareva legittima e necessaria in una guerra di liberazione come la nostra. La Resistenza non
poteva che essere armata – ovviamente secondo piani pensati, calibrati e realistici – e quando si
usavano le armi bisognava mettere in conto le reazioni, tanto più quando si trattava di nazisti e
fascisti che avevano già insanguinato e soggiogato l’Europa, anche se allora non sapevamo tutto
della loro ferocia.
29 Sentenza n. 2 (1945) della Corte d’Assisi Straordinaria di Venezia in M. BORGHI – A. REBERSCHEGG, Fascisti
alla sbarra cit., pp. 109.
30 A. PORTELLI, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999. Come
è noto, Portelli dimostra – carte alla mano – come sia fuori luogo il senso comune, tuttora presente, secondo
cui i tedeschi hanno attuato la strage perché i partigiani non avevano risposto all’appello di “presentarsi”.
Anche a me è capitato un caso a suo modo analogo, di gran lunga minore in quanto riguarda una sola
persona, ma parimenti significativo. L’attentato di Ca’ Giustinian è stato organizzato da un gruppo
capeggiato da Giovanni Tonetti e Aldo Varisco ed eseguito materialmente da Kim (Franco Arcalli) e da un suo
compagno che, in divisa tedesca, hanno portato in barca a remi il baule con l’esplosivo che poi hanno
depositato nell’atrio. Quando ho pubblicato la biografia di Tonetti (Giovanni Tonetti il “conte rosso”. Contrasti
di una vita e di una militanza (1888-1970), Supernova, Venezia 1997) la figlia Francesca mi ha contestato non
la paternità dell’attentato di Ca’ Giustinian (ne aveva parlato lei stessa nel suo libro), ma il fatto che ci siano
stati morti e feriti e che poi ci sia stata la rappresaglia. È stato in questa occasione che, su mia domanda, ha
negato appunto la legittimità dell’attentato di via Rasella, che secondo lei non avrebbe dovuto essere
compiuto per evitare le rappresaglie, mentre per Ca’ Giustinian il caso era diverso, appunto perché senza
vittime e senza rappresaglie. Un discorso visionario, fuori della realtà: al mio invito di leggersi i giornali, ha
risposto che erano giornali fascisti e quindi falsi. Ha insistito tanto su queste sue fantasticherie - all’inizio le
avevo prese appunto per tali – che una mattina, senza preavviso, l’ho portata direttamente nella calle a fianco
del Bauer, davanti alla lapide con i nomi dei 13 martiri di Ca’ Giustinian, lapide di cui mi aveva negato
persino l’esistenza. Di fronte alla evidenza materiale della lunga lista scolpita nel marmo, è ammutolita e non
è più tornata sull’argomento.
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Passata una settimana, la tragedia si è ripetuta. All’alba del 3 agosto altri sette ostaggi sono
stati fucilati sulla riva che poi prenderà il nome dei “Sette martiri”, di fronte alla popolazione di via
Garibaldi a Castello, rastrellata poco prima con i noti metodi da fascisti e tedeschi. Era la
rappresaglia per l’”uccisione” di una sentinella tedesca, di guardia ad un mezzo navale attraccato
alla stessa riva, che solo più tardi si scoprirà essere stata ubriaca, caduta in acqua e annegata.
Su richiesta dei tedeschi, sei nominativi di persone – arrestate il 31 luglio “perché
fondamentalmente ritenute partecipi di organizzazione partigiana” – sono stati forniti dalla
Questura, il settimo – Alfredo Viviani, vecchio militante comunista anche se di soli 36 anni –
“veniva scelto” e prelevato in carcere direttamente dai tedeschi, come risulta da un documento che
ho ritrovato all’Archivio centrale dello Stato e di cui conservo fotocopia31. Noi abbiamo saputo
subito di Viviani e un vero e proprio orrore e il timore forte per la nostra stessa vita si
incuneavano in ogni cella. Ognuno di noi taceva, non sapeva come esprimere la propria angoscia:
le parole di ogni giorno non servivano più, contava solo il fatto di stare insieme e vivere il giorno
per giorno.
Io mi sono domandato allora – ma anche altri si sono posti lo stesso problema – se mi ero
sbagliato nella settimana appena trascorsa a tentare di sfuggire alla deportazione in Germania.
Perché è anche successo che nello stesso periodo i tedeschi hanno fatto le visite mediche a molti
detenuti, comuni e politici, per inviarli – deportarli – in Germania per “lavorare”. A me è capitata
la visita proprio in uno di quei giorni tra le due rappresaglie. La voce era corsa veloce in carcere e
c’è stata una discussione tra noi su cosa convenisse tentare: se lasciarsi deportare per sfuggire
alle possibili rappresaglie, come per esempio sostenevano Bordin di Padova (il fratello
dell’antiquario comunista) e altri, oppure sfidare la sorte rimanendo a Venezia nella speranza di
una rapida fine della guerra: le voci che arrivavano dalla Germania parlavano di bombardamenti
continui, di fame e di molte sofferenze (dei lager non si sapeva ancora nulla). Era questa anche la
mia scelta. Ma c’era la visita da superare, ché se fosse stata dichiarata l’idoneità non c’era nulla
da fare. E allora ognuno a inventarsi qualcosa e al modo come gestirla: ma era più facile
escogitarla che giocarla di fronte ai tedeschi. Io ho avuto una combinazione assolutamente
fortuita, ché se non l’avessi vissuta direttamente stenterei tuttora a crederla, e ho avuto la
prontezza di rischiarla all’istante.
Dunque, nel momento in cui sono entrato nella saletta della visita medica, sono usciti i due
ufficiali tedeschi e sono rimasto solo con il medico italiano. Di fronte alla porta c’era un ritratto di
Mussolini: dalla parete ho abbassato gli occhi sul medico, l’ho fissato dritto e gli ho detto “Lei è
italiano? … e manda i prigionieri politici in Germania?”. Quello mi ha guardato stupito, è restato
un attimo interdetto e mi ha ribattuto “cos’ha?”. Ed io: “sifilide di terza generazione la cui
manifestazione esterna è l’occhio destro con cui non vedo”. Ė stata l’unica volta che ho sfruttato il
mio difetto all’occhio su cui, per le verità, da quando me ne ero reso conto, un poco ci pativo.
Sconcertato, il medico mi fissava mentre in quel preciso momento rientravano i due ufficiali
31 IVESER, Fondo C. Chinello, 12/9/1944, Questura repubblicana di Venezia, “Restituzione segnalazione”, a
firma “Il questore Larice Secondo”, fotocopia, pp. 2, B, 1, fasc. 2.
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tedeschi: “untauglich”32 [inabile], ha risposto alla loro domanda. Sono uscito dalla saletta, quasi
incredulo su quello che avevo fatto e alla immediatezza di riflessi di quel medico. Se i tedeschi
l’avevano scelto, significava che avevano fiducia in lui ma la situazione improvvisa in cui
inopinatamente l’avevo stretto l’aveva anche in qualche modo scosso e messo di fronte a sé stesso:
almeno nel mio caso ha reagito positivamente. Io non ho più visto quel medico né ho saputo come
si chiamava ma posso dire che anche altri, che si sono inventati lì per lì un proprio limite fisico o
una malattia, sono stati pure scartati. Mi sarebbe piaciuto sapere dopo, magari dalla sua viva
voce, quali percorsi interni aveva seguito e come si è comportato successivamente: magari in quel
momento era stato obbligato a fare quel lavoro e poteva anche essere dalla nostra parte. Problemi
e interrogativi cui mai potrò avere una risposta ma che mostrano di per sé le rotture in tutti i
campi e a tutti i livelli che la Resistenza riusciva a moltiplicare.
Alla tempesta di quei giorni spietati è seguita una sorta di bonaccia e i rumori e i brusii del
carcere pian piano sono tornati nella norma, anche le nostalgiche cantate dei detenuti comuni:
“Mamma, il capitan Trestelle mi vuol portare all’isola di Pantelleria / Pantelleria scoglio crudele
della vita mia…” (o pressappoco) e qualche altra di cui avevo imparato le parole a memoria e che
ora non ricordo più. Ma, ovviamente, si era sempre sul ‘chi vive’, con i nervi a fior di pelle. Non
potevamo sapere che “dopo le rappresaglie tutti d’accordo, compagni e Comitato di liberazione,
hanno deciso di sospendere azioni per evitare nuove reazioni”, come ha scritto Giorgio Amendola
nel suo famoso Rapporto dal Veneto33 con linguaggio crudo, ma veritiero. Per noi poteva accadere
di tutto in ogni momento, non avevamo alcun potere di controllo e di decisione se non quello di
autodisciplinarci. E così facevamo, anche per forza di cose, nelle letture e nelle discussioni.
Nel contempo tornavano i piccoli ma tormentosi problemi della vita carceraria. Una notte, in
piena estate, ho sentito un forte prurito: ho acceso un mozzo di candela e mi sono visto tutto il
corpo e la branda rosso-cupi, letteralmente ricoperti di cimici dall’odore sgradevole e in continuo
movimento (avevamo persino messo i piedini delle brande dentro delle scatolette piene d’acqua per
impedire che le cimici salissero dal pavimento, come ci avevano insegnato gli ‘esperti’). Sono
saltato in piedi, ho cercato di scrollarmi di dosso quelle viscide bestioline, ma è stata una lotta
impari sino al mattino. Un’altra volta mi sono preso le piattole e ho potuto combatterle solo
quando da casa mi hanno portato il Mom. Da quei pavimenti scrostati e da quelle pareti piene di
fessure arrivava ogni sorta di insetti e di parassiti, compresi gli scarafaggi. E non era che ci
potessimo lavare molto: sul catino, con poca acqua e a pezzi.
I ‘colloqui’ con la famiglia – per cui occorreva farsi dare un permesso – sono stati quattro o
cinque in sei mesi: in genere veniva mio padre, mi dava le notizie di casa, non mi ha detto mai
una parola che potesse neanche lontanamente suonare come un rimprovero e mi nascondeva –
nel senso che non ne parlava – le fortissime preoccupazioni che avevano e che tuttavia erano
visibili nel suo atteggiamento e nel suo modo di parlare. Ed anch’io gli fingevo sicurezza, come se
tutto fosse normale.
32 Nella mia memoria era rimasto “untaurlich” che non esiste nel vocabolario e Daniele Ceschin mi ha aiutato
a trovare il termine esatto.
33 G. AMENDOLA, Rapporto dal Veneto, in ID., Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Editori Riuniti,
Roma 1973, p. 442.
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L’unico colloquio non di famiglia è stato quando mi è venuto a trovare un mio vecchio
compagno delle magistrali, Ezio Rossi, con cui ero stato anche amico fin quando ero passato al
liceo: era in divisa avendo aderito all’esercito repubblichino. La chiamata per il colloquio era
straordinaria e non avevo idea di chi si trattava, anzi mi ha preso un certo timore per qualcosa di
imprevisto: al vederlo – e in divisa – mi è venuta la rabbia, ho pensato a una sfida di pessimo
gusto. Gli ho detto delle parolacce e me ne sono tornato indietro all’istante. Come potevo fare
diversamente?
I pensieri di quei lunghi mesi interminabili mi rimuginavano continuamente in testa – così
vedevo essere anche per gli altri – e si focalizzavano in due punti che poi diventavano uno solo: la
sofferenza del carcere, della clausura, della porta chiusa, delle sbarre, tanto più acuta quanto più
si anelava a partecipare alla lotta contro fascisti e tedeschi. L’inazione obbligata in una cella
contro l’urgenza e la voglia di azione in campo aperto esaltavano ancor più questa aspirazione. Ė
allora che ho pensato che se mai fossi uscito sarei andato subito nelle formazioni in montagna,
perché lì mi sembrava che si combattesse di più.
Improvvisamente si è aperto un varco, grazie alla forte volontà della madre di Cesare Dal Palù.
Nell’anniversario della marcia su Roma – il 28 ottobre – il governo di Mussolini aveva decretato
un’amnistia che comprendeva anche il ‘reato’ di propaganda sovversiva. Sono riuscito a leggere il
testo del decreto e ho subito riscontrato che non ci riguardava in quanto la nostra condanna era
stata emessa in base ai due articoli 271 e 272 del codice penale mentre il decreto riguardava i
reati di uno solo, mi pare il 271 (la propaganda ma non l’associazione sovversiva). Una speranza
bruciata in un momento. Ma non così per la mamma di Dal Palù che tanto ha fatto e brigato – ho
sempre ignorato come vi sia riuscita, ma immagino che abbia usato anche l’arma della corruzione
– che improvvisamente siamo stati amnistiati e liberati. Era la mattina del 6 novembre: mi hanno
chiamato e mi hanno detto “fuori con tutta la roba”, espressione classica per dire che si andava
fuori.
All’ufficio matricola mi confermano che ero stato amnistiato, mi hanno restituito i miei oggetti
e mi hanno imbarcato in un motoscafo con altri detenuti ammanettati. Non mi pareva vero ma
nello stesso tempo temevo qualche trucco: mi pareva impossibile che mi liberassero così
facilmente. Il motoscafo ha girato per il Canal grande e poi ha preso il rio di Cannaregio per
sbucare in laguna e mi è sembrato che la prua puntasse al cimitero di S. Michele: mi è preso un
tuffo al cuore e letteralmente ho pensato che stavano per attuare una rappresaglia su di me. Mi si
è strizzato lo stomaco, come terrorizzato: sono stati attimi terribili ma il motoscafo ha poi
imbucato il canale dell’ospedale dove ha fatto sosta e sbarcato i detenuti che vi si dovevano
recare. Poi in questura, nel vicino rio di S. Lorenzo. Qui, dopo una qualche attesa, mi hanno fatto
firmare un verbale e mi hanno rilasciato. Tutto in pochi minuti.
Scendevo le scale che ancora non ci credevo. Ero senza documenti – d’identità e di riforma alla
leva – e di colpo ho pensato che mi aspettassero fuori della porta per chiedermeli e ricondurmi
subito in carcere. Mi sono fermato e mi sono fatto un piccolo piano: se alla porta non trovavo
nessuno – come in fondo speravo – di corsa al Benedetti, poco distante, per telefonare di lì a casa
e farmi venire a prendere con i documenti. Così ho fatto: alla porta non ho trovato nessuno e di
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corsa in pochi minuti sono giunto a scuola. Il preside e alcuni professori erano stupiti di vedermi
comparire all’improvviso e mi hanno fatto festa. Ho telefonato a casa di un vicino – i telefoni allora
erano rari – che ha avvisato i miei che non sapevano della mia liberazione, anche se erano al
corrente dell’attivismo della Dal Palù. E mio padre è venuto a prendermi per ritornare a casa,
esattamente sei mesi meno quattro giorni dopo l’arresto.
Non è stato semplice riprendere il ritmo della normalità, mangiare quando si voleva, farsi il
bagno e dormire in un letto con un vero materasso e, soprattutto, senza cimici. Sono andato dal
barbiere che mi ha tagliato i capelli, me li ha lavati e fatto anche la frizione. Ma alla sera stessa ho
suonato il campanello di Turcato: non volevo perdere tempo.
Nella Resistenza e nell’organizzazione comunista
Con Turcato, nella sua stanza piena di libri, ci siamo abbracciati e di colpo mi sono ritrovato
nella Resistenza: le sue prime parole sono state per dirmi che ero membro effettivo del partito
comunista – me lo ero guadagnato in carcere, ha ribadito – e poi, alla mia domanda, ha risposto
che della montagna non se ne parlava, che il mio “posto di lotta” era a Venezia, che dovevamo
mettere subito in piedi il Fronte della Gioventù e i Gap e mi ha dato subito una commissione da
fare per l’indomani. Saprò solo dopo che a giorni – il 10 novembre34 – Turcato sarebbe stato
nominato segretario della federazione comunista veneziana clandestina in sostituzione di “Aurelio”
(Giorgio Trevisan), ma a me appariva già come un dirigente di primo piano. È stato proprio nel
salutarmi alla fine dell’incontro che mi ha regalato L’educazione sentimentale di Flaubert, in una
edizione della Longanesi del 1942, forse come viatico per la nuova attività, oppure anche come
codificazione dell’esperienza del carcere: al momento non gli ho chiesto niente, ché non avevo letto
il libro e poi altre cose ci hanno preso. Ma nel riordinare in questi ultimi tempi i miei libri, quando
ho preso in mano questo, nel rivedere la mia scritta “dono di Renzo” sulla prima pagina interna,
mi sono ricordato nitidamente di quella sera e dell’evidente valore simbolico del libro: fra una cosa
e l’altra, ormai l’avevo fatta anch’io la mia “educazione sentimentale”.
Così ho ripreso subito la mia attività non più fra gli studenti, ma nell’organizzazione
comunista e sempre in funzione del Cln e della lotta antifascista unitaria. Infatti era difficile
allora, se non impossibile, distinguere fra le due attività tanto erano intrecciate. Ora non andavo
più a scuola e avevo a disposizione tutta la giornata che dedicavo interamente a questa attività,
quasi senza respiro: me lo ero ripetuto infinite volte in carcere che, se ne fossi uscito, ogni mia
energia sarebbe stata spesa nella lotta.
Agli studi – per preparare l’esame di maturità classica da fare quando sarebbe stato possibile –
o a qualche lettura dedicavo i ritagli di tempo. Come già detto, mi ero iscritto a Scienze politiche
ma il mio obiettivo era di passare a Lettere, per cui allora occorreva la maturità classica, cioè fare
completamente gli esami su tutte le materie del Liceo classico. Il vero problema da risolvere per
me era il greco che non si faceva al Liceo scientifico e che, quindi, dovevo studiare interamente.
C. CHINELLO e al., Per una documentazione. L’organizzazione comunista veneziana nel “lavoro illegale”, in G.
TURCATO – A. ZANON DAL BO (A cura di), 1943-1945 Venezia nella Resistenza cit., p. 140. Questo incarico
durerà sin verso la fine del gennaio 1945, quando cioè giunge a Venezia “Spino (Luciano Marchi) inviato dal
Centro.
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Qualche tempo dopo la mia uscita dal carcere ho discusso di questo mio progetto con il professor
Semi che non solo l’approvò ma – con grande generosità – offrì di insegnarmelo e così ho
cominciato ad andare a casa sua, dietro S. Filippo e Giacomo, dove pazientemente e con metodo
concentrato me lo insegnò tanto bene che, quando feci l’esame in settembre, dopo la Liberazione,
presi la sufficienza. Cinque anni di greco in pochi mesi: come avrei potuto fare senza Semi? Le
prime lezioni me le aveva fatte Livio Maitan che ha dovuto interromperle – come ho dovuto
interromperle io - per causa di forza maggiore: appunto, senza Semi35 non avrei mai potuto, così
rapidamente e positivamente, risolvere questo mio problema che allora consideravo vitale.
Per l’intanto, prioritario restava il mio impegno di attività con Turcato, il cui ‘nome di battaglia’
– come si diceva allora per indicare il nome da clandestino o da partigiano – era ‘Renzo’. Anch’io
me lo sono dato subito: ho scelto impulsivamente quello di ‘Cesco’ in memoria di Francesco
Biancotto che in carcere chiamavamo, appunto, con questo diminutivo. Sarà poi il nome che mi
porterò dietro per tutta la vita non per mia decisione o insistenza particolare, anche se mi piaceva
molto, ma perché tutti hanno continuato spontaneamente a chiamarmi così (forse anche perché il
mio nome anagrafico non è granché e bisogna sempre spiegare che va scritto con una ‘n’ sola, per
non confonderlo con il femminile).
Di quei mesi dopo il carcere la memoria immediata che ho impressa nella mente è quella del
continuo, lungo, spossante andare a piedi. Ė da allora, infatti, che da S. Elena ero obbligato ad
arrivare “in centro”, come allora chiamavamo S. Marco o S. Luca o S. Bortolomeo, a piedi – i
vaporetti non funzionavano più per mancanza di carbone e al Lido o alla Giudecca o a Murano si
andava in barca – da cui poi mi recavo agli appuntamenti nei punti più svariati e lontani della
città. Un’interminabile marcia quotidiana per me, per Turcato e per tutti gli altri. Non ho mai
calcolato quanta strada a piedi ho fatto in quei sei mesi, ma non sarebbe difficile: quattro volte al
giorno, senza mai saltarne uno, da novembre ad aprile, sino alla Liberazione. Ma il peggio era
passare davanti ai pontoni armati o al naviglio tedesco – e alle loro bandiere con le croci uncinate
– attraccati alla riva che allora si chiamava pomposamente dell’impero, vigilati da sentinelle
armate che sempre scrutavano sospettosamente i passanti: non poche volte ho fatto il giro per via
Garibaldi per non sorbirmi questa vista così poco gradevole.
Per la verità, di quei mesi, non ho presente il dettaglio come nel periodo precedente al carcere:
ricordo prima di tutto il documento falsificato di impiegato del Cellina, rilasciato dal comando
tedesco (che tuttora conservo in archivio36), che mi ha fornito Turcato per coprire quelle lunghe
camminate di ogni giorno, e tutti i giorni, e che si concludevano in una serie incessante e fitta di
appuntamenti, incontri, piccole riunioni, diffusione di volantini, commissioni da eseguire, girate di
ciclostile e così via, con un gran numero di persone di tutte le età, che non conoscevo se non per il
nome di battaglia, e tutto subordinato alle severe regole della clandestinità che Turcato ci
instillava ogni giorno con grande pazienza e tenacia e con quel modo tutto suo di guardar dritto
35 Su “la figura e l’opera”
di F. Semi ho dato testimonianza nell’”Omaggio a Francesco Semi” tenuto
all’Ateneo Veneto il 18 dicembre 2000, assieme a M. Cortellazzo e G. Paladini (IVESER, Fondo C. Chinello,
18/12/2000, Intervento CC per la commemorazione di F. Semi, dattiloscritto, pp. 4, B. 79, fasc. 2).
36 IVESER, Fondo C. Chinello, 8/11/1944, "Tessera di lavoro" di CC come impiegato della Cellina, rilasciata
dal comando tedesco [tessera falsificata da G. Velluti e G. Turcato], B. 1, fasc. 1.
30
negli occhi. Il tutto frammisto e difficilmente distinguibile – va ribadito - tra attività per il partito e
attività per il Cln.
Come esito particolare di uno di quei giri – fatti per l’organizzazione comunista, verso la fine
dell’anno o all’inizio del ’45 – sta il ricordo della mia prima “ombra” (di rosso), al “Bottegon”, ai
piedi del ponte di S. Trovaso: mi iniziò, offrendomela con una certa insistenza, “Aurelio” (Giorgio
Trevisan), estroso docente di matematica a Padova e rappresentante del partito nel Cln, che mi
manifestò una sorta di compatimento per questa mia arretratezza ‘culturale’ e mi decantò,
appunto, le seduzioni dell’”ombra”. A dire la verità, non è che quel bicchiere di rosso mi abbia
particolarmente colpito – dovranno passare molti anni perché imparassi a centellinare un buon
bicchiere di vino – ma lo ricordo solo perché è per me associato a quello straordinario personaggio,
e di così forte spessore, che è stato Trevisan, veramente “drastico e razionale”37 come lo descrive
Turcato.
Una delle prime iniziative politiche prese da Turcato cui ho partecipato direttamente è stata la
costituzione del Fronte della gioventù: con Kim (Franco Arcalli), Davide (Oddone Padoan) Moro
(Giovanni Citton) e altri abbiamo dato vita a questa organizzazione giovanile che poi costituirà la
struttura portante della formazione gappista, il cui comandante è diventato Kim, e che abbiamo
denominato “Battaglione F. Biancotto”, come ricamato in una bandiera rossa che presto ci
confezionerà la madre di Diana (Nella Coppola), una delle nostre staffette, e che conservavamo nel
buco/deposito di armi nella officina da fabbro di Giacomo Tenderini, un locale abbastanza ampio
in campiello S. Tomà. Giacomo era un giovane fabbro artigiano, bravissimo nel lavorare il ferro
battuto – suo fratello Carlo era in montagna, in una formazione partigiana, militante comunista,
non avrà una lunga vita e il suo funerale sarà raccontato in modo struggente da Tinto Brass nel
pezzo a colori di quel suo primo bellissimo film in bianco e nero che è Chi lavora è perduto. In capo
al mondo – e la sua officina praticamente ha funzionato come la nostra sede di incontro e di
deposito, ma anche di rifugio durante certi rastrellamenti (oggi vi si vendono carabattole
turistiche).
Ė appunto attorno a questa officina che pian piano si è formata questa nostra organizzazione,
diventando praticamente il luogo a cui faceva capo la nostra rete che, a sua volta, si imperniava
su Turcato nelle sue molteplici funzioni esercitate con una volontà di ferro tanto da fargli
annotare nei Frammenti autobiografici che
per questi venti mesi non conoscemmo soste e riposo. Di giorno e di notte ogni ora era buona per fare
qualcosa per l’organizzazione. Ogni giorno, tutti i giorni. Pericoli, angosce, fame. La morte per alcuni. Alla fine
della guerra eravamo stremati di forze e non pochi di noi erano giunti al limite della nevrosi. Anni disperati,
ma di grandi speranze di libertà e di giustizia38.
Come si vede, è una scrittura asciutta, sofferta, che comunica perfettamente l’estrema
tensione nervosa e la fatica fisica e, alla fine, anche la gratificazione di un uomo che si è
impegnato allo spasimo – tutti quelli che l’hanno conosciuto ne sono testimoni – in una lotta che
segnerà in tutto la sua vita, fino alla fine dei suoi giorni, come ho cercato di dire nella Introduzione
ai suoi Frammenti e a cui rimando per non dover ripetere quelle stesse parole, ché difficilmente
37
G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni, Marsilio, Venezia 1980, p. 166.
31
potrei trovarne altre.
Si trova traccia di questa nostra attività in una relazione di Turcato “per il periodo 4-17
febbraio ‘45”, sia per quanto mi riguarda – “12/2/45 – Presentazione di Cesco (elemento dirigente
del FdG) a Piero per aiuto del suo lavoro. Cesco può rendersi utile in entrambi i casi” – sia di
quella dei miei compagni: “15-16/2/45 – Disposizioni a Kim per occultamento armi. Disposizioni
per buco stampa – Fronte della Gioventù”39.
Noi allora non conoscevamo altri responsabili – ce lo vietavano le regole della clandestinità – e
il nostro punto di riferimento era appunto Turcato e attraverso di lui sentivamo la forza e
l’organizzazione del partito nelle direttive, come si diceva allora, e nelle cose che ci davano
continuamente da fare: quando finalmente vedrò in faccia i dirigenti comunisti, nella notte
dell’insurrezione, mi pareva di averli sempre conosciuti, tanto Turcato aveva saputo renderceli
familiari nei modi di pensare e nei comportamenti decisi e combattivi in ogni situazione. Ė allora
che io ho visto il partito comunista come la forza più decisa, organizzata e aggressiva nella lotta
antifascista proprio come io pensavo dovesse essere: così allora tessevo il doppio filo nel mio
rapporto con il Pci nell’esservi portato, da un lato, per acceso antifascismo e addirittura, dall’altro,
nell’incrementarlo – questo antifascismo – per essere nel partito. Ancora prima dei temi della
giustizia sociale e dell’uguaglianza che pure erano punti di forte attrazione per i giovani. Ė
un’esperienza che ha fortemente segnato quella parte della mia generazione che è cresciuta e
diventata comunista nella Resistenza.
Di quei mesi ricordo anche un tiro un po’ mancino - ma per noi (Kim, Davide, io e altri) voleva
essere solo scherzoso - che abbiamo fatto a Turcato e da lui, nei racconti sulla Resistenza, poi
ribaltato – per giustificare in qualche modo quello che ha indicato come “il bisogno di sfogarsi” dei
più giovani – nei confronti del responsabile del Pci veneziano (“Gianni”). La realtà era che noi,
allora, tendevamo molto confusamente a vedere la politica unitaria del Pci come una sorta di
ingabbiamento, di condizionamento di quello che pensavamo fosse lo spirito rivoluzionario, anche
se non mettevamo assolutamente in discussione la linea politica: è stato allora che abbiamo
preparato e ciclostilato un foglio con il titolo di Barricata rossa40 che di per sé era una
contraddizione politica. Non so come, ma ho ancora in archivio una copia autentica della prima
facciata di quel foglio41: a rivederlo, oggi, e a rileggerlo nel testo non è però chiaro in che
consistesse il “tiro”, visto che è ortodosso – salvo il finale piuttosto retorico dell’editorialino con
quelle “divisioni di Stalin che premono ai confini del Reich, decise ‘a rompere’ le ultime resistenze
e piantare nel cuore dell’Europa la rossa Bandiera dell’avvenire”, ma non più di tanto –, con
l’eccezione del titolo non proprio ciellenistico. Può anche essere letto come un segno giovanile e
speranzoso dei tempi.
Nel complesso, va però sottolineato che in tutti questi mesi seguiti alle rappresaglie estive,
anche a seguito dei successivi arresti di esponenti del Cln e dei partiti, l’attività resistenziale
G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit., p. 168
C. CHINELLO e al., Per una documentazione cit., p. 145.
40 G. TURCATO, Barricata rossa, in ID. (A cura di), Kim e i suoi compagni, Marsilio, Venezia 1980, pp. 51-53.
41 IVESER, Fondo C. Chinello, - s.d. [inizio 1945], "Barricata rossa", Foglio di battaglia dei soldati, degli operai
e dei contadini, edito dalla Federazione comunista veneziana, ciclostilato, pp. 2, B. 1, fasc. 2.
38
39
32
veneziana ha vissuto una difficile crisi per le conseguenti ragioni organizzative, ma anzitutto per
motivazioni politiche. Era una fase in cui tendevano a prevalere – per dirla francamente e
analogamente a quanto era accaduto dopo l’8 settembre - forme insidiose di “attesismo”42, di
limitazione a forme di attività solo di propaganda, di rinuncia cioè ad azioni di lotta concreta
contro fascisti e tedeschi per la loro multiforme presenza che faceva di Venezia una città
ministeriale “per molti versi anomala”43, da cui le possibili più gravi rappresaglie. Forme a cui
comunisti e azionisti cercavano di opporsi in ogni modo ma con scarsi risultati, se non si voleva
proprio rompere l’unità delle forze antifasciste in un momento così delicato, anche se poi alcune di
queste perseguivano con assoluta determinazione i propri interessi, senza scrupoli e in violazione
degli accordi, come nel caso de “Il Gazzettino” le cui azioni sono state regalate da Volpi alla
Democrazia cristiana44, non certo senza un prezzo politico come risulterà chiaro nei mesi
successivi alla Liberazione. È un tema complicato, questo dell’attendismo nei suoi vari aspetti, che
spesso è stato lasciato a margine nella memorialistica, ma cruciale nella storia della Resistenza e
nei rapporti tra le forze che vi parteciparono: a Venezia, in quel “duro”45 e freddo inverno ‘44-’45
ne emergevano forme piuttosto critiche, almeno questa è l’impressione che è rimasta fortemente
impressa nella mia esperienza. Tanto è vero che è in questo contesto che è nato il progetto
dell’azione del Goldoni: nel momento in cui la Liberazione appariva non troppo lontana, sembrava
necessaria un’iniziativa per smuovere le acque, per sospingere alla lotta, per rompere una
stagnazione che cominciava a diventare deprimente ed anche preoccupante sul piano politico. In
definitiva, bisognava - come dice Turcato - “rialzare il morale del nostro popolo”46 e, aggiungo io,
dei suoi rappresentanti. Naturalmente, nei suoi numerosi racconti della “beffa”, egli non l’ha mai
posta in termini così crudi per ovvie ragioni politiche, ma non è stato certo un caso se i
partecipanti all’azione erano tutti comunisti e ben consapevoli delle possibili conseguenze47: ma
bisognava affrontarle e rischiare. Per fortuna, è andata bene.
L’azione del Goldoni
Nei primi mesi del 2001, alla Celestia, scartabellando insieme a Marco Borghi un fascicoletto
di carte del Fondo G. Turcato nell’archivio dell’Iveser, ci è capitato fra le mani un foglio protocollo,
manoscritto sulle quattro facciate, intitolato “Rapporto sull’azione del Goldoni”. Incuriosito l’ho
guardato meglio e ho scoperto con molta sorpresa che quella scrittura era la mia: non ho
Cfr. voce “Attesismo (o attendismo)” in M. RENDINA, Dizionario della Resistenza italiana, Editori Riuniti,
Roma 1995, pp. 19-20.
43 C. FUMIAN, Venezia “città ministeriale” (1943-1945 in G. PALADINI – M. REBERSCHAK, La Resistenza nel
veneziano cit., I, p. 365.
44 M. REBERSCHAK, Il Comitato di liberazione nazionale regionale veneto e il caso Volpi, in Non uno itinere. Studi
storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Stamperia di Venezia, Venezia 1993, pp. 319-361.
45 G. TURCATO, La beffa del Teatro Goldoni. 12 marzo 1945, in G. TURCATO -A. ZANON DAL BO (a cura di), 19431945. Venezia nella Resistenza cit., p. 249.
46 Ibidem.
47 In occasione della morte di Turcato, N. L. De Franchi, che si trovava in platea, ha criticato l’azione in una
lettera a “Il Gazzettino” che così si concludeva: “Se qualcuno avesse reagito alla ‘beffa’, la platea del Goldoni
si sarebbe tramutata in un carnaio, degno delle più atroci stragi dell’epoca. Con conseguente rappresaglia
germanica, aprendo nella pacifica Venezia una ferita che difficilmente si sarebbe rimarginata. Come il caso
Priebke insegna”, meritandosi l’appropriato commento redazionale “Ma è anche grazie ad azioni ardite, come
quella di Turcato, che oggi chi vuole può dissentire liberamente” (“Ero presente alla Beffa del Goldoni”, “Il
Gazzettino”, 28 ottobre 1996).
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assolutamente ricordo, neanche il più vago, di aver mai scritto questo “rapporto”. L’ho letto prima
d’un fiato e poi riletto con più calma:
Battaglione S.A.P48. ‘F. Biancotto’ Venezia
Rapporto sull’azione del Goldoni
La sera del 5 marzo nella riunione settimanale del Comitato direttivo del Fronte della Gioventù il responsabile
Renzo propose di tenere un comizio volante in qualche locale pubblico.
L’esecutivo accettò e immediatamente si mise all’opera.
La sera dopo andò al teatro Goldoni per un sopral[l]uogo e gli riuscì di esaminare superficialmente il
palcoscenico.
Il colpo si presentava oltremodo difficile.
In una serie di appuntamenti susseguentisi si fissò il piano dettagliato.
Il nucleo operante doveva a nostro avviso essere composto di 11 elementi del FdG così disposti:
1° squadra 1 uomo
2° squadra 3 uomini
3° squadra 4 uomini
4° squadra 3 uomini
La 1° doveva chiudere la porta della platea con catena e lucchetto all’ora fissata.
La 2° doveva fermarsi nell’entrata degli attori e osservare il sottopalco.
La 3° sul palcoscenico dietro le quinte ai quattro angoli, alle porte, alla cabina dell’operatore, all’uscita di
sicurezza.
La 4° in scena.
Gli accordi erano di non sparare per primi, ma solamente se provocati, e il primo colpo in aria.
Molti ostacoli si presentarono nella scelta degli uomini ai quali non si poteva spiegare il piano per ragioni di
carattere cospirativo e militare. Aderì in massa la sezione FdG di S. Polo, alcuni elementi di S. Marco. Castello
e Cannaregio si rifiutarono.
Altro ostacolo erano le armi che mancavano completamente.
A Renzo, che ci fu prodigo di aiuti materiali e morali, ci rivolgemmo. E riuscì a procurarci 8 rivoltelle e 4
bombe a mano. Qualcuno di noi aveva la sua personale che, naturalmente, fu adoperata.
Il colpo era fissato per la sera dell’11 marzo, domenica.
All’ora fissata, si dovevano spegnere le luci in sala e in scena, e da due palchi occupati da compagni e
compagne si doveva fare un lancio di manifestini. Indi si doveva entrare in scena e tenere il comizio.
Domenica mattina Cesco e Kim ispezionarono le armi.
Mentre si parlava a Nino (Silv.) partì un colpo di rivoltella che colpì Massimo al braccio sinistro.
Si restò in silenzio. Nessun fascista aveva udito il colpo e fummo salvi. Massimo fu medicato alla meglio e
Cesco e Kim lo accompagnarono da Renzo che lo condusse da un medico.
Alle 15,30 in vari posti i ragazzi attendevano.
Si spiegò loro l’azione e s’illustrò il piano e il posto rispettivo di ciascuno mediante una piantina del teatro
preparata da Davide.
Furono soddisfatti.
Frattanto Kim e Davide dovettero allontanarsi per servizio di Partito e Cesco restò solo e passando
continuamente da un gruppo all’altro teneva i ragazzi raccolti onde evitare qualsiasi indiscrezione. Verso sera
(ore 17,30) ci si diresse verso il luogo.
Frattanto Renzo aveva fatto preparare sulla riva del Carbon un sandalo con due rematori e un medico in un
posto fissato per qualsiasi cosa potesse accadere.
Mentre si discutevano gli ultimi dettagli suonò l’allarme.
I due di S. Marco vollero andar via. Li lasciammo liberi con l’avviso che se qualcosa fosse da loro trapelato
sarebbero stati liquidati.
Cessato l’allarme dopo più di un’ora, si era indecisi.
Kim propose di agire. Cesco e Davide lo sostennero. Tutti accettarono. Si era in procinto di entrare e il
compagno della platea avvisò che la rappresentazione era terminata.
Da notare che i due rematori avev[an]o aderito di partecipare all’azione.
Si rimanda al giorno dopo, lunedì 12 marzo 1945.
Renzo propone la semplificazione del piano.
Niente lancio dai palchi ma dal palcoscenico.
Il giorno dopo ancora una lunga serie di appuntamenti perché alcuni non volevano più venire, e vennero
inclusi dei nuovi.
Alla sera (ore 20,30) ci si trovò in riva del Carbon.
Un compagno anziano propose di andare al telefono del teatro e di vigilare. La proposta fu accettata. Fu
eliminato il dettaglio di chiusura della porta con la catena.
Si distribuirono le armi.
Ultimo incoraggiamento di Renzo e Kim entrò per primo seguito dagli altri.
Uno scappò vilmente, Nino (Silv.), e si restò in 9.
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Non saprei perché ho scritto “Sap”, dal momento che ci siamo sempre considerati e denominati “Gap”.
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Un custode, due questurini e un tizio furono sopraf[f]atti.
Mirko e Andrea II° si disposero a guardia dell’entrata e del sottopalco dopo aver chiusa la porta. Gli altri
salirono sul palcoscenico con gli uomini catturati.
Mentre i ragazzi si disponevano secondo il piano prestabilito un questurino tentava la fuga. Kim lo fermò.
In pochi secondi tutti erano sotto la mira delle nostre rivoltelle. Tutti rimasero ter[r]orizzati.
Furono accese le luci in sala. Gli attori sortirono dalla scena e immediatamente Kim Cesco e Davide entrarono
nella scena e per pochi secondi osservarono il teatro. Silenzio perfetto e nessun movimento. Cesco tenne
comizio49.
Nella sala nessuno osò fare il minimo movimento.
Mentre Cesco parlava, Davide e Kim fecero il lancio di manifestini. Si restò in scena 1 minuto e 10 secondi.
Poi ci si ritirò. Ultimo avvertimento agli attori.
Il Moro chiese scusa, augurò la buona notte inchinandosi. Gli attori sorrisero.
Si uscì e nessuno disturbò.
Il comportamento fu ottimo da parte di tutti.
Elogio speciale al Comandante Militare Kim.
Tutti rimasero ai loro posti sino all’ultimo momento senza paura e decisi.
Tutti i partecipanti all’azione erano comunisti.
Armi e denaro forniti dal compagno Renzo responsabile del Fdg in seno alla federazione del P.C.
Parteciparono all’azione
Kim (Com. Milit.) Cesco (tenne comizio) Davide (sulla scena)
Moro – Totò – Oca – Giov. (palcoscenico dietro le quinte)
Mirco - Andrea II° (entrata degli attori)
Il giovane M. presidiò la barca.
L’esecutivo Fdg
L’esecutivo del Batt. ‘F. Biancotto’
22 marzo 1945
Morte ai Nazifascisti!50
Ė una relazione dettagliata51 che spiega anche nei particolari, con nettezza e senza enfasi, lo
svolgimento degli avvenimenti, con i problemi e i mutamenti dettati dalle circostanze e persino con
l’abbandono, non proprio bello, all’ultimo momento di Nino (Silv.52). Quello che mi ha colpito
subito e un po’ stupito – lo confesso, con una certa difficoltà – è che Turcato non abbia pubblicato
questo documento e neanche citato nei suoi infiniti racconti e relazioni sulla “beffa”, anche se esso
si profila con un carattere netto di documento storico per cosa e per come è raccontato e per la
stringata essenzialità. In qualche modo credo di capire le ragioni del silenzio di Turcato. Ho gia
detto nell’Introduzione ai suoi Frammenti come egli avesse una “visione patriottica”53 della
Resistenza e come sentisse fortemente il bisogno di mitizzarla per sottolinearne valore e incidenza
nella storia d’Italia, per allacciarla alla vicenda del Risorgimento, mentre la mia scrittura è molti
49 Il testo imparato a memoria, e ripetuto le mille volte e che ancora ricordo quasi integralmente, era il
seguente: “Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per
la causa della liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è
vicina! Stringetevi attorno Al Comitato di liberazione nazionale e alle bandiere degli eroici partigiani che
combattono per la libertà d’Italia dal giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la
democrazia progressiva e l’unità di tutti i partiti antifascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra patria.
A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della gioventù!”.
50 IVESER, Fondo C. Chinello, 22/3/1945, Battaglione S.A.P. 'F. Biancotto', "Rapporto sull'azione del Goldoni",
fotocopia/manoscritto, pp. 4 [l'originale nel Fondo G. Turcato], B. 1, fasc. 2. I nomi anagrafici sono i
seguenti: Kim: Franco Arcalli; Cesco: Cesco Chinello; Davide: Ottone Padoan; Moro: Giovanni Citton; Totò:
Otello Morosini; Oca: Renato De Faveri; Giov.: Giovanni Dinello; Mirco e Andrea II°: Delfino Pedrali e
Giovanni Guadagnin (o viceversa: dato che Pedrali e Guadagnin parteciparono all’azione, come ricordo
perfettamente, evidentemente avrò attribuito loro questi nomi al momento della stesura del rapporto);
Giovane M: Mario Osetta. A questi va ovviamente aggiunto il gruppo che era in platea e quelli che hanno
collaborato dall’esterno citati da Turcato nei vari resoconti.
51 Questo “Rapporto” è già stato pubblicato in una nota della mia introduzione ai Frammenti autobiografici di
G. Turcato, inserita all’ultimo momento, quando già il n. della rivista era in bozza, e quando non avevo in
mente questa mia autobiografia, per cui mi sembra ora opportuno ripubblicarla nel testo, con la dovuta
evidenza, con i dati specifici e con commento più appropriato.
52 Silvano Panizzutti.
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toni sotto, ma non per questo meno sentita. Se devo dire la verità – tento di guardarlo come se
non fosse mio, questo “rapporto” – a suo modo esalta indirettamente l’avvenimento nel mostrare
come sia nato e risolto affrontando problemi e contraddizioni per cui, in definitiva, appare forse
più autentico delle molte versioni di Turcato che avendo inserito qualche tocco di fantasia – come
quell’esclamazione messa in bocca all’ufficiale tedesco
“questi italiani non cessano di
sorprenderci”54 – assumono spesso più un sapore letterario che di resoconto di un’azione
gappista.
Quello che ricordo con nettezza di quell’azione – oltre ad una piccola papera (di cui forse
nessuno si è accorto, ché nessuno me ne ha mai parlato) nelle mie primissime parole pronunciate
sul proscenio, subito risolta con una voce più forte e chiara – è stata la decisione del Kim, da vero
comandante anche se aveva 18 anni, due meno di me. Data un’occhiata alla squadra che aveva
messo i fazzoletti rossi sul viso e caricate le armi dietro i muretti di una scala lì vicino, ha detto
“andiamo” e senza aspettare è entrato, io e Davide l’abbiamo seguito seduta stante e gli altri
dietro. Tutto si è svolto con regolarità cronometrica. Solo io ho avuto un piccolo inconveniente: nel
far scendere un operatore da un’impalcatura, mi si è slegato il fazzoletto sul viso, scoprendolo, per
cui ho dovuto in qualche modo riannodarlo più stretto con la pistola in mano (e la bomba a mano
messa in tasca, il tutto anche un po’ comico). Noi eravamo senza dubbio caricatissimi – ci aveva
pensato Turcato – ma avevamo anche i nostri sottofondi di paura che però sono emersi dopo, ma
anche fascisti e tedeschi presi così alla sprovvista avranno avuto molta più paura di noi pensando
certamente che per fare una tale azione bisognava essere in molti ed anche addestrati (non a caso
noi avevamo subito annunciato che il teatro era circondato). Del resto lo si capisce anche dal
rapporto molto stringato del “Capo della Provincia Barbera” subito inviato al Ministero dell’Interno
e che ho ritrovato all’Archivio centrale dello Stato:
03925. Gab. Ore 21 circa ieri durante primo atto questo teatro Goldoni, gruppo dieci individui armati pistole
et viso mascherato, penetrati attraverso accesso riservato artisti, dopo immobilizzato personale et vigili et
chiuso accessi platea, portavansi tre dei predetti sul palcoscenico et uno parlava al pubblico, dichiarandosi
inviato Comitato Liberazione per annunciare prossima fine Fascismo et Nazismo et caduta Duce et Fueher
[sic], esortando presenti ad associarsi opera liberazione. At fine discorso venivano lanciati manifestini
ciclostile riportanti invito popolazione ad associarsi movimento liberazione nazionale.
Predetti, protetti minaccia armi et profittando stato emozione presenti, riuscivano ad allontanarsi indisturbati.
Nessun incidente. Disposte attivissime indagini”55
Ma di quell’azione ricordo ancora tre dettagli, non inerenti all’azione stessa, ma in qualche
nodo connessi, uno inerente al gruppo e due di carattere più personale.
Quello collettivo è accaduto la mattina di domenica 11, il giorno deciso per l’azione. Come è
detto nel “Rapporto”, eravamo nella bottega di fabbro e controllavamo le armi forniteci da Turcato
per l’azione quando a “Nino (Silv.)” è sfuggito un colpo di rivoltella che ha colpito Giacomo
Tenderini (Massimo) al braccio, per fortuna di striscio. Ricordo quel colpo in modo particolare
G. TURCATO, Frammenti di autobiografia cit., p. 154.
Ė la testimonianza di Turcato nel video – trasmesso dalla Rai nell’ottobre o novembre 1996 all’interno della
rubrica “Videosapere” – che porta il titolo “La beffa del Goldoni” e che è stato girato dal regista A. Schneider.
Per la verità nei resoconti precedenti Turcato non cita mai questo fatto ed io stesso mai ne ho sentito parlare.
55 IVESER, Fondo C. Chinello, 13/3/[1945], Ministero dell’Interno Sic. Div. Pol. (A.G.R. e Polizia), a firma
“Capo Provincia Barbera”, fotocopia, B. 1, fasc. 2.
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perché mi è passato a qualche millimetro (o centimetro, non saprei), ché ho intravisto un lampo e
mi sono sentito bruciare gli occhi. Non ci voleva proprio in quel momento e poi non ci siamo mai
detti cosa sarebbe successo se la ferita fosse stata più grave o peggio ancora. Comunque, con
Turcato abbiamo trovato la soluzione in una medicazione fatta dal prof. Vecchi nella cui casa
Giacomo è stato accompagnato da una nostra staffetta e prontamente medicato e rassicurato.
Tutto si è così risolto in positivo, con un risvolto negativo per Giacomo, che non ha potuto
partecipare all’azione.
I due dettagli personali riguardano il dopo-azione. Del gruppo io ero quello che abitava più
lontano, a S. Elena: avevo cioè il problema, riconsegnate le armi alla barca, di tornare subito a
casa – a piedi – prima del coprifuoco. Eccitati com’eravamo, non era semplice separarmi dal
gruppo che era per me protezione e sicurezza e andarmene a casa da solo senza perlomeno
scaricare l’eccitazione. Ma Turcato, a ragione, era inflessibile: abbiamo scambiato il cappotto per
sicurezza contro i possibili riconoscimenti, mi ha dato un paio di occhiali per la stessa ragione,
ma non ci vedevo bene e per fare i ponti dovevo abbassarli sulla punta del naso. Alla Veneta
Marina, infilando una mano in tasca mi sono accorto di avere un caricatore della rivoltella che
nella fretta evidentemente non avevo riconsegnato: a qualche decina di metri c’erano i pontoni
armati tedeschi con relative sentinelle che, se mi fermavano e mi trovavano quella roba in tasca,
non sarebbero certo andati per il sottile. Non ho potuto far altro – secondo i riflessi di sicurezza
istillatemi da Turcato – che avvicinarmi alla spalliera del ponte e gettare il caricatore in acqua,
anche se mi dispiaceva moltissimo, ché in quel momento non avevamo molte armi e munizioni.
Giunto a casa – tutt’altro che calmato – ho chiesto una sigaretta a mio padre che, ovviamente,
nulla sapendo non poteva certo immaginare le ragioni della mia voglia. Non me l’ha data, o perché
non l’aveva – fumava mezzi toscani – o chissà per quale altra ragione: ho provato un senso di
ribellione antipaterno facilmente immaginabile. Non resistevo senza una sigaretta – unico modo
immediato per scaricarmi della tensione – così sono ritornato fuori, nonostante il coprifuoco, e
sono andato nella casa vicina di un compagno che mi ha dato finalmente la sigaretta che ho
fumato con avidità, anche se non potevo parlare dell’azione appena compiuta. Sono poi ritornato a
casa e finalmente mi sono coricato e sono riuscito persino a dormire profondamente.
Il mattino dopo, verso le undici ci siamo ritrovati con Kim, Davide e qualche altro a girare tra
campo S. Luca, S. Bortolomeo e piazza S. Marco. La voce del “colpo” si era diffusa come un lampo
in tutta Venezia e non si parlava che di questo: noi camminavamo per la strada un po’
imbaldanziti, ma senza nulla rischiare per ovvie ragioni. Il caso ha voluto anche che
incontrassimo per strada Elena Zareschi56: vista fuori della scena era tutt’altra cosa. Una
magnifica giornata di sole che ricordo ancora con soddisfazione.
Il giorno dopo abbiamo diffuso per tutta Venezia un volantino ciclostilato a firma del Fronte
della Gioventù che oltre ad esaltare la beffa, usava l’arma dell’ironia contro i fascisti seduti in
platea al Goldoni:
56 E. Zareschi era l’attrice di cui avevamo interrotto la presentazione di Vestire gli ignudi di L. Pirandello, la
sera prima, sulla scena del Goldoni.
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“Tra gli eroici fascisti presenti che non hanno fiatato sono stati notati il questore Cortese, il tenente Lino
Bottacin, il giornalista Gastone Toschi, l’invincibile G.N.R., la terribile X Mas, le tremende brigate nere erano
tutte degnamente rappresentate, ma pare non abbiano gradito il piatto freddo che i nostri valorosi partigiani
hanno loro ammannito”57.
Quel “piatto freddo” rivela la mano di Turcato che sicuramente ha scritto il volantino,
ciclostilato, se ricordo bene, nel ‘buco stampa’ a casa di Armando Pizzicato o in qualche altra
parte.
Per concludere questo punto, Kim merita un cenno particolare. Turcato ci aveva assegnato gli
incarichi nella formazione: Kim comandante e Moro vice, Davide commissario politico e io vice, ma
non avevamo formalità alcuna tra noi, solo molta fiducia in Kim, perché aveva il senso innato del
comando in azione, il coraggio del giovane neanche diciottenne ma consapevole e calcolato e in
aggiunta aveva molta più esperienza di noi avendo partecipato a vere e proprie azioni di guerra fra
Venezia e Padova (basta solo pensare all’attentato a Ca’ Giustinian). Kim era nipote di Giuseppe
Stefani, detto “Bepi Carta” per via della cartoleria che gestiva, un vecchio militante comunista
veneziano che aveva fatto i suoi anni di confino e che aveva dato al partito sempre e in qualunque
situazione tutto quello che poteva dare. La sua cartoleria, in Salizzada S. Polo, era luogo di
incontro e di deposito della rete comunista veneziana, lì facevano capo tutti: dalla carta per il
ciclostile all’ultimo volantino, o a “l’Unità” clandestina da diffondere. Naturalmente Kim, in
quell’ambiente, aveva assorbito politica sin da ragazzino ma anche il suo istinto era ribelle e la
sua personalità molto complessa e versatile e, nel fondo, come si vedrà dopo, modernamente
artistica. Credo non avesse alcuna inibizione, in nessun campo, anche in certo qual modo a
sprecare la propria vita per viverla più intensamente. Dopo la Liberazione ha fatto più di qualche
mestiere ma alla fine ha ritrovato la sua strada nel cinema.
Aveva cominciato col partecipare all’elaborazione del progetto e poi alla realizzazione del film di
Brass già citato, in cui ha fatto anche due bellissime parti di attore fortemente immedesimato e, in
più, ha collaborato alla regia e alla sceneggiatura, come risulta dai titoli, ma che in realtà era
qualcosa di più di una collaborazione - “di complicità” dice Brass - come risulta da tante
testimonianze e come di lui raccontano tanti registi in quel bel libro che gli hanno dedicato Marco
Giusti ed Enrico Ghezzi58. Ma Kim si è rivelato soprattutto come uno dei più affermati, capaci e
57 IVESER, Fondo C. Chinello, s.d. [mar./1945], "Verso l'insurrezione nazionale", a firma "La Federazione
provinciale del Fronte della Gioventù", ciclostilato, B. 1, fasc. 2. Il testo integrale del volantino è il seguente:
“Verso l’insurrezione nazionale. Fronte della Gioventù. Operazione insurrezionale. La sera del 12 marzo 9
giovani del battaglione S.A.P. ‘Biancotto’, martire di Ca’ Giustinian, appartenenti ed operanti nel fronte della
Gioventù hanno tenuto comizio davanti al pubblico che affollava il Teatro Goldoni. / Dopo aver ridotto
all’impotenza la polizia fascista un giovane dal palcoscenico rivolse a tutti i presenti un vibrante appello
patriottico incitando alla lotta contro i tedeschi e i fascisti traditori. / Concludeva il suo dire con le seguenti
parole: / ‘Stringetevi attorno al Comitato di Liberazione nazionale, alle bandiere degli eroici partigiani. A
morte il fascismo! Libertà ai popoli! W il Fronte della Gioventù!’./ Dopo aver lanciato manifestini ed un
ironico ‘Buona sera ed arrivederci’, i 9 coraggiosi si ritirarono. L’eco pubblica dell’accaduto è stato tanto viva
che la stampa neofascista non ha osato fare neppure cenno. / Tra gli eroici fascisti presenti che non hanno
fiatato sono stati notati il questore Cortese, il tenente Lino Bottacin, il giornalista Gastone Toschi,
l’invincibile G.N.R., la terribile X Mas, le tremende brigate nere erano tutte degnamente rappresentate, ma
pare non abbiano gradito il piatto freddo che i nostri valorosi partigiani hanno loro ammannito.
Contemporaneamente nei cinema S. Marco, Massimo, S. Margherita vennero effettuati lanci di manifestini.
La Federazione Provinciale del Fronte della Gioventù”.
58 M. GIUSTI ed E. GHEZZI (a cura di, con la collaborazione di S. Grmek Germani), Kim Arcalli: montare il
cinema, Marsilio, Venezia 1980. La citazione di A. Brass è a p. 64.
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intuitivi montatori di film che nelle sue mani si trasformavano. Non aveva grande cultura e non
credo neanche grandi letture ma aveva la capacità innata di scoprire il senso e la dinamica di una
storia raccontata in un film che costruiva/montava in modo magistrale alla moviola, tanto da
conquistare presto la fiducia di molti registi.
Una delle ultime volte che ho visto Kim – in una cena ‘sociale’ (quelli del Goldoni) organizzata
da Turcato al “Nono risorto” nel 1976 – è stata subito dopo l’uscita di Novecento di Bernardo
Bertolucci di cui era uno degli sceneggiatori e aveva fatto il montaggio: ne abbiamo parlato a
lungo e all’inizio, per farlo parlare, gli avevo detto che il film non mi era piaciuto molto. Manovra
riuscita, ché a spada tratta ha difeso, e a ragione, il film e alla fine, spiegandogli la mia
provocazione, gli ho riconosciuto che lungo tutto il bellissimo film si vedeva il suo tocco, o almeno
quello che io immaginavo essere il suo tocco, il che lo ha rabbonito tanto da confermarmi quasi
tutte quelle mie impressioni. Morirà solo due anni dopo, nel 1978, dopo aver fatto quello che, per
quanto ne so, è stato l’ultimo suo lavoro: supervisore al montaggio – era ormai stremato nelle forze
– di Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni (1977). Io stimavo
moltissimo Kim come comandante partigiano per averlo provato in azione ma poi, dopo la
Liberazione, i nostri rapporti si erano allentati anche perché mi appariva, diciamo così con un
eufemismo, un po’ scapestrato. L’ho visto più di qualche volta a Roma, quando ero parlamentare –
una volta anche con Gigi Nono che lo amava moltissimo – ma ci eravamo parlati come amici di un
tempo passato. Ora, invece, confesso il mio grande rammarico di avere ‘scoperto’ e amato Kim59 –
la sua grandezza e sensibilità di artista – solo dopo la sua morte e solo dopo che altri ne avevano
parlato. Io avevo capito Kim partigiano, non l’ho capito poi nella sua ricerca attraverso itinerari
spesso molto sommersi e contorti ma che l’hanno portato lontano e per cui si è anche realizzato,
sebbene sia stato sempre inquieto per predisposizione innata.
Fra rastrellamenti e disarmi. Il colpo mancato in campo S. Salvador
Nei giorni seguenti l’azione del Goldoni le brigate nere hanno organizzato dei rastrellamenti in
città alla caccia degli esecutori e per caso sono incappato in uno di questi: in fondamenta a S.
Giuseppe, a Castello. Io ero andato in quella zona, non ricordo più per quale ragione, in
compagnia della nostra staffetta Diana (Nella Coppola) quando all’improvviso – saranno state le
dieci o le undici del mattino – gruppi di brigate nere e di militi della X Mas hanno circondato la
zona di Secco Marina, l’hanno bloccata nel senso che non si poteva entrarvi o uscirne e hanno
subito cominciato la perquisizione nelle case e l’identificazione delle persone. I modi erano spicci e
violenti: sfondavano le porte delle case a scarpate o con i calci dei mitra, gridavano come
forsennati per incutere terrore, spintonavano chiunque capitasse a tiro e senza riguardo alcuno
per vecchi e bambini e raggruppavano a parte i giovani che trovavano. La zona era in subbuglio,
praticamente tutti gli abitanti in strada, probabilmente la confusione aumentata ad arte dalle urla
e dai movimenti delle donne per mettere sull’avviso chi fosse in pericolo (era questa la mia netta
59 C’è una bellissima foto – Kim, Turcato ed io – scattata (non ricordo da chi e comunque contro tutte le
regole della clandestinità, anche se ormai si era alla vigilia della Liberazione) più o meno fra il Danieli e il
Ponte della paglia qualche giorno dopo l’azione del Goldoni che conservo con molto affetto e che Turcato ha
anche pubblicato (G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni cit., foto n. 2).
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sensazione). Io con la staffetta, documenti alla mano, ho cercato di passare il ponte di S.
Giuseppe, ma me lo hanno impedito. Dall’altra parte del canale, in campo S. Giuseppe, ho scorto
il mio ex professore di religione al liceo – esercitava non so quale funzione nella parrocchia – che,
a sua volta, mi ha visto e mi ha fatto segno di stare calmo (come ho già detto, era un gran bravo
prete/scienziato che nulla aveva di clericale, se non la tonaca). Non ho potuto far altro che
appoggiarmi al muretto della fondamenta e stringere tra le braccia la mia compagna, come se
fossimo giovani innamorati e non ci interessasse quello che stava accadendo lì attorno, per un
tempo che mi è parso lunghissimo. Dall’altra parte il professore sorrideva, in qualche modo
rassicurato. Ma io, in quella situazione, mi sentivo in trappola e aspettavo ansioso il momento di
poterne sgusciare fuori ma vedevo sempre più nero. Solo alla fine del rastrellamento – forse già
stanchi e con la tensione caduta – sono venuti a chiedermi i documenti: io ho esibito quello
tedesco falsificato fornitomi da Turcato e ci hanno fatti passare. Ce la siamo così filata quasi
increduli di una sorte così benevola. Era la seconda volta che mi ritrovavo in una retata: la prima
era stata in quello che in quel momento mi sembrava il lontanissimo fine settembre 1943, o inizio
di ottobre, a S. Bortolomeo, quando, circondato il campo, i fascisti avevano richiesto a tutti i
documenti. Allora andavano alla ricerca dei renitenti alla leva o di chi aveva abbandonato
l’esercito. Io ho mostrato il mio foglio di riformato60 che portavo sempre con me e il milite mi ha
ammonito con arroganza che potevo lo stesso andare volontario.
Più o meno negli stessi giorni del rastrellamento avevamo studiato un altro colpo, forse anche
più spettacolare di quello del Goldoni, da attuare il 23 marzo, nell’anniversario – come la
chiamavano loro – della fondazione dei ‘fasci di combattimento’ con sfilata di brigate nere e Gnr in
piazza S. Marco con relativi discorsi e cerimonie. Il machiavello stava nel fatto che alcuni punti
della città – piazza S. Marco, campo S. Luca e campo S. Bortolomeo, i veri “luoghi” della città in
tutti i sensi – erano collegati da un sistema di altoparlanti che faceva capo ad un unico centro da
cui in certe ore del giorno i fascisti diffondevano a tutto volume le loro canzoni, i loro bollettini di
guerra (sempre perdenti) e notiziari vari: non era un bel sentire per i veneziani. Quel centro era
situato in un grande locale in campo S. Salvador – dove ora c’è un negozio di fiori, a fianco
dell’allora cinema Massimo e a fronte della chiesa – al cui interno c’era l’apparato di microfoni e di
riproduzione musicale: il nostro piano era di entrare in quel centro a mano armata – il terzetto che
aveva agito sul palcoscenico del Goldoni – disarmare tutti i presenti e obbligarli a collaborare per
lanciare dal microfono il nostro appello che sarebbe risuonato nei due campi e soprattutto in
piazza S. Marco durante la sfilata con conseguenze facilmente immaginabili: tutta la città avrebbe
risentito la viva voce dei partigiani, cioè la mia come si era deciso per la ormai provata esperienza.
Avevamo consapevolezza dei punti deboli del piano: la non conoscenza della disposizione
interna dei locali e del funzionamento degli apparati e dei collegamenti (soprattutto dei microfoni)
e la vicinanza soprattutto con S. Bortolomeo da cui i fascisti potevano accorrere in pochi secondi.
Ma potevamo puntare sulla sorpresa ed anche sull’aria di sfacelo che già si sentiva nell’aria, sulla
collaborazione ‘forzata’ degli addetti del centro e sulla dislocazione delle nostre forze: i gappisti
IVESER, Fondo C. Chinello, 6/7/1943, "Dichiarazione di riforma" (alla leva militare) di CC, manoscritto su
modulo, B. 1, fasc. 1.
60
40
armati con rivoltelle e bombe a mano ai bordi del campo e all’incrocio delle calli, decisi a sparare
se necessario (anche se non ne avevamo l’addestramento, ma neanche gli altri ne avevano molto),
e una via di fuga per la limitrofa Salizzada S. Todaro, sulla cui riva c’era una barca che ci avrebbe
fatto raggiungere in pochi minuti l’altra riva del Canal grande. Comandava l’azione, al solito, Kim.
Se ricordo bene, l’ora era stata stabilita per il primo pomeriggio, fra le tre e le quattro, appunto
durante la sfilata: abbiamo dislocato le nostre forze e controllato molte volte che tutti fossero ai
loro posti.
Al momento dell’azione Kim, Davide ed io andiamo alla porta della centrale: nel preciso istante
dell’entrata Kim sussurra “No, non si fa” e noi, prontamente, torniamo indietro e diciamo a tutti di
andar via. Nessuno si era accorto di niente. Per noi tre e per Turcato che Kim abbia detto “No”
significava solo che l’azione era destinata al disastro: Kim aveva un ‘naso’ per queste cose che per
noi era vangelo. Come già detto, avevamo in lui una fiducia assoluta e infatti nessuno ha
recriminato e mai abbiamo considerato questa nostra ritirata come un atto rinunciatario o una
fuga di fronte al nemico, ma solo un non buttarci allo sbaraglio e solo perché così aveva temuto
Kim. Turcato poi non ha mai parlato di questa tentata azione nel diario storico della formazione e
poi nei suoi scritti perché – immagino io – non voleva rendere pubblica una rinuncia di azione che
poteva apparire come una nostra debolezza, soprattutto dopo l’azione riuscita del Goldoni.
Ormai mancavano poche settimane alla Liberazione: la sentivamo nell’aria e diventavamo più
spavaldi che mai. Non si vedevano tedeschi girare da soli, ma sempre in gruppo (sapevano
‘tecnicamente’ il fatto loro). Non così i fascisti: pochi giorni dopo la nostra tentata azione, eravamo
in piccolo gruppo – armati e in caccia, si potrebbe dire – sulla riva di S. Simeon Piccolo, fra la
scalinata della chiesa e il ponte degli Scalzi, quando si fa avanti uno della Decima Mas in divisa,
con il mitra a tracolla, al braccio di una bella ragazza. Ci guardiamo e senza dirci una parola lo
cogliamo alle spalle, gli facciamo alzare le mani, gli sfiliamo il mitra e qualcuno gli dà un calcio sul
sedere e quello si mette a correre mollando la ragazza: la gente attorno a ridere e a battere le mani
con evidente approvazione. Portiamo il mitra nelle nostra bottega di fabbro e non passa molto
tempo che avvertiamo dalle grida un rastrellamento in corso (evidentemente quello si era
precipitato a chiedere aiuto): stiamo in silenzio e con le armi pronte. Ma passano via
schiamazzando. Qualche giorno dopo, sempre dalle stesse parti, in calle Bergami, passa un
brigatista nero, in divisa e con la pistola al cinturone, una valigia in mano: ripetiamo la scena, gli
facciamo aprire la valigia in cui ci sono bombe a mano e un’altra rivoltella. Sequestriamo tutto e
altro calcio nel sedere. In quei giorni i disarmi erano all’ordine del giorno quasi senza rischio e,
per di più, anche un divertimento: non era male vederli terrorizzati a chiedere grazia della vita,
anche se non si aveva alcuna intenzione di ‘eliminarli’.
In queste circostanze – come avverrà anche nei giorni dell’insurrezione – mi rimuginava
sempre nella mente il “giuramento” fatto con me stesso di vendicare Biancotto, e ogni volta mi
sentivo un po’ spergiuro ma non era proprio possibile agire casualmente sul primo passante,
anche se nell’odiata divisa. Non era possibile, insomma, fare giustizia da sé: in seguito,
ripensando a quei giorni, non mi sono mai pentito di questa decisione, ché sono tuttora convinto
di aver del pari ‘vendicato’ Biancotto con la mia partecipazione totale alla Resistenza e, dopo, alle
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lotte politiche e sociali.
Ma intanto era accaduta una cosa piuttosto grave. È mancato poco che Turcato, come scrive
lui stesso nei Frammenti, non cadesse in una trappola: ad un mese dalla Liberazione una persona,
arrestata per cause imprevedibili, aveva rivelato la sua identità ai fascisti, ma era riuscito a
salvarsi anche perché il suo istinto “sentiva il pericolo” e poi aveva “buone gambe”. Avvenimento
imprevisto perché Turcato era bravissimo a muoversi nella clandestinità senza mai destare
sospetti. Si era dato regole ferree che seguiva con scrupolosità rigorosa e così aveva insegnato
anche a noi, tanto che nessuno del nostro gruppo fu mai individuato e qualcosa di allora è
rimasta impressa in me: per esempio sono discreto al massimo, sono sempre puntuale anche con
chi so a priori che viene in ritardo e altro del genere.
Abbiamo perso i contatti all’improvviso ma, dal suo rifugio, Turcato ha fatto in modo di
recuperali rapidamente attraverso l’organizzazione di partito e a farci sentire la sua presenza. E
ha cambiato nome di battaglia: da “Renzo” a “Marco”. E sebbene non lo abbiamo visto per qualche
giorno la nostra rete ha continuato a funzionare svolgendo i suoi compiti. Ma oramai la situazione
stava precipitando.
I giorni dell’insurrezione
E così stava per giungere la notte dell’insurrezione e dello sciopero generale. Turcato – uscito
dal suo rifugio, già da qualche giorno era tornato a fare regolarmente i suoi giri – ci ha messo in
allerta sin dal mattino del 27 aprile e in pre-allerta anche da prima. Comunque la mattina del 27
ci siamo radunati nella bottega di Tenderini in attesa degli ordini. Avevamo pronte la nostra
bandiera ricamata e le armi: i disarmi ci avevano dato un mitra quasi per ciascuno, e per tutti
comunque moschetti e rivoltelle. A varie riprese si è fatto vedere Turcato e finalmente a sera
inoltrata – alle 23, come stabilito dal Decreto n. 1 del Cln veneziano61 – ci ha detto che era giunto
il momento. Nessuno si era sognato di dormire: come si sarebbe potuto?
Anzi – non ricordo se su iniziativa mia o di qualcun altro – nel frattempo avevamo fatto l’”ora
politica”, come si usava nelle formazioni garibaldine in montagna, e sono stato proprio io a
sintetizzare Il manifesto del partito comunista, forte delle mie letture alla Marciana: le ombre di
Marx ed Engels mi avranno perdonato per le castronerie che avrò detto, ma in quel momento i
loro nomi e quel “Proletari di tutto il mondo unitevi!” ci davano coraggio e speranza per il
momento ormai finale della lotta e, soprattutto, per dopo.
Nell’attesa dell’uscita, verso le quattro, Kim ed io abbiamo fatto una rapida perlustrazione nei
dintorni e ad un certo punto abbiamo visto, al di là del ponte che dà sulla Fondamenta della
Donna onesta, che nel panificio – tuttora in attività – stavano lavorando. Abbiamo bussato, ci
hanno aperto: hanno afferrato al volo e ci hanno dato del pane ancora caldo che abbiamo diviso
fra tutti. Finalmente all’alba Turcato ci ha dato l’ordine di uscire in formazione armata e di andare
all’Accademia delle Belle Arti, la sede insurrezionale del “Biancotto”, attraverso Rialto e campo S.
Stefano e di reagire a ogni forma di attacco.
IVESER, Fondo C. Chinello 2, 28/4/1945, "Fratelli d'Italia Il Gazzettino", Organo del Comitato regionale
veneto di liberazione nazionale, n. 1, B. 10, fasc. 1.
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Ci siamo messi in due file ai lati delle calli, tutti con i fazzoletti rossi al collo: Kim ed io – la
bandiera rossa del Battaglione sulle spalle – eravamo in testa, con i mitra pronti. Per campo S.
Polo e Ruga Rialto: si aprivano i balconi, la gente batteva le mani, qualcuno esponeva il tricolore.
Più di qualcuno si accodava, di fascisti neanche l’ombra. Il ponte di Rialto, campo S. Bortolomeo
giù per campo S. Luca. Oramai tutti avevano capito che era giunto il gran giorno: ma più che di
lotta era – almeno per il momento – un giorno di festa, applausi, fiori e ringraziamenti. Giunti ai
piedi del ponte dell’Accademia abbiamo visto improvvisamente giungere da destra un grande
barcone a motore pieno di tedeschi. Ci siamo predisposti al riparo e in semicerchio ai due lati
della testata del ponte: raffica di mitra in aria e segnali ai tedeschi di attraccare a riva. Sono scesi
a terra a mani alzate – dalla divisa, erano solo soldati e qualche graduato – abbiamo sequestrato
le armi (ricco bottino). Uno di noi ha ispezionato il barcone e nel vano motore ha scoperto un
tedesco rannicchiato e gli ha ingiunto di scendere a terra e gli ha dato un calcio sul sedere: un
atto liberatorio fatto da uno per tutti e la nostra tensione si è allentata di colpo. Ci sembrava
inverosimile vedere i tedeschi a mani alzate davanti alle nostre armi e con il volto segnato dalla
paura: ci ha fatto allegria, per contrasto.
E così siamo giunti alla nostra sede, non ancora completamente approntata, con il drappello –
saranno stati una ventina – di prigionieri, i primi, e le armi conquistate: li abbiamo messi in
un’aula con un paio di partigiani di guardia alla porta. Neanche fiatavano.
Ho subito sentito dire dell’auto-liberazione dei detenuti a S. Maria Maggiore dove ci hanno
mandato per dare una mano, ma dove tutto era già finito da un pezzo. Ho sentito poi dello scontro
a fuoco in Marittima in cui è stato colpito a morte Moro Turiddu e dello sciopero a Marghera con
l’occupazione armata delle fabbriche. Intanto all’Accademia c’era una buona dose di confusione,
anche festosa. Non era solo la sede della formazione ma anche, in quel momento, del partito. Così
finalmente ho conosciuto Luciano Marchi (Spino), segretario della Federazione comunista
veneziana, e Giuliano Lucchetta (Abe), comandante della brigata in quei giorni dell’insurrezione.
Intanto nel canale della Giudecca un pontone armato tedesco andava su e giù sparando sino a
sera raffiche di mitraglia pesante sulle Zattere – per più di qualche anno ne sono rimasti i segni
sui muri della pensione Calcina - per cui bisognava stare attenti. Ci hanno poi dato incarichi da
svolgere che abbiamo eseguito al volo.
Nel pomeriggio è mancato poco che Kim mi prendesse d’infilata con una raffica della
mitragliatrice che era sulla porta dell’Accademia protetta da sacchetti di sabbia che un altro
gruppo di partigiani aveva procurato, credo, in Marittima. Era stata segnalata la presenza di
cecchini fascisti sul tetto del Benedetto Marcello e il comando mi ha mandato con un piccolo
gruppo di partigiani e con l’ordine di salire sul campanile di S. Vidal e da lì cercare di snidarli.
Prima di uscire ho avvisato Kim – era sulla porta, alla mitragliatrice – del compito che stavo per
svolgere. Abbiamo passato il ponte e siamo saliti sul campanile: non abbiamo fatto tempo a
mettere il naso nella cella campanaria che una raffica ci faceva stendere a terra e un’altra ancora
ci ha tenuto immobilizzati. Abbiamo cercato di capire da dove veniva, ché non veniva dal davanti,
dal Conservatorio, ma dal lato destro, dall’altra sponda del Canal grande: era Kim che ci aveva
scambiato per i cecchini. Ho mandato giù uno che – protetto dal ponte – ha gridato a squarciagola
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e sventolato il fazzoletto rosso che aveva al collo finché Kim ha capito e smesso di sparare.
Intanto, in tutto questo guazzabuglio, i cecchini erano spariti o avevano smesso la loro attività.
Siamo ritornati in sede e Kim – io arrabbiatissimo – ha risposto tranquillo che non aveva capito
bene e che alla fine non era successo niente: era fatto così. Certo che non sarebbe stato molto
bello finire sotto le raffiche di Kim: anche in questo caso ho avuto fortuna.
Dire cosa ho fatto di particolare per tutto il giorno – salvo l’episodio del campanile – mi è
impossibile: non ricordo nulla tanto siamo stati sempre in movimento e in una grande confusione
e agitazione, fumando in continuità delle sigarette leggere e profumate che prendevamo da
barattoli di latta sequestrati ai tedeschi sul barcone. Ricordo invece nitidamente che a sera, verso
le dieci o le undici, Spino mi ha detto di andare con lui nella nuova sede della Federazione
comunista – una ex sede fascista, occupata dai Gap sin dalla mattina, al primo piano di un
palazzo di proprietà delle Assicurazioni Generali, in calle del Doge a S. Maurizio – per la riunione
del Comitato federale: Spino mi aveva nominato sul campo rappresentante dei giovani comunisti.
Ė lì che ho incontrato gli altri dirigenti del partito che mi erano ignoti per ragioni di clandestinità,
fra i quali Giobatta Gianquinto – avevo sempre sentito sussurrare il suo nome, persino in carcere
– che mi ha abbracciato con grande effusione complimentandosi per il Goldoni. Desumo ora i loro
nomi dal verbale62: Aldo Damo (Luciano), appunto Gianquinto, Paolo Vernì, Piero Martinelli a cui
si aggiungono quelli che già conoscevo da poche ore – Spino e Abe – o quelli di più antica data
come Turcato e Piero Franceschi. Nove persone in tutto, me compreso. Ricordo la grande stanza,
un tavolo nel mezzo e noi attorno: io ho appoggiato il mio mitra sulla parete, mi sono seduto e …
addormentato di colpo. Dal verbale risulta che ho anche parlato: non ricordo cosa ho detto e non
ricordo cosa hanno detto gli altri, non rammento nulla di quella riunione del primo Comitato
federale nella notte dell’insurrezione, se non di esserci andato. Se nel verbale sono riportate le mie
risposte e i miei interventi, significa che effettivamente ho parlato, magari in una sorta di
dormiveglia: il giorno dopo mi veniva da mordermi le mani per quel sonno traditore – non è che
poi abbia perso molto, almeno dalla lettura del verbale – e oggi mi viene da sorridere di quella
dormita giovanile e di quella pacca sulle spalle, comprensiva, che mi ha dato Gianquinto al
risveglio.
Come scrive Turcato alla fine del verbale, “ormai era mattino e ogni compagno presente doveva
correre a precisi impegni…” e così anch’io sono tornato all’Accademia. Di questo secondo giorno
insurrezionale ho impressa nella memoria la rabbia che ci ha preso di colpo quando abbiamo
avuto la notizia della resa “condizionata” pattuita dai tedeschi in Patriarcato con il Cln “per
salvaguardare Venezia”, come se i tedeschi – con gli alleati a distanza ravvicinata – potessero sul
serio far qualcosa a Venezia, neanche per pura vendetta, avendo ben altro cui pensare. Ė stata
una decisione che non ho mai capito e che sempre ho considerato sbagliata e degradante per la
Resistenza veneziana e sono stato poi felice di apprendere che Carlo Olivero – rappresentante del
Pci nel Cln – aveva votato almeno lui, unico, contro.
Ricordo poi, in particolare, tre episodi. Il primo: sono andato a S. Maria Maggiore per rivedere
il carcere da ‘libero’, ma soprattutto per guardare in faccia Zani – era stato il comandante del
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plotone d’esecuzione a Ca’ Giustinian – che vi era rinchiuso. In quei giorni non c’erano formalità e
poi il capo delle guardie mi ha riconosciuto e mi ha fatto accompagnare alla sua cella. Era
accovacciato in un angolo: si è alzato e alla mia domanda se mi riconosceva – avevo il fazzoletto
rosso al collo – mi ha risposto scrollando la testa e mi ha salutato con il pugno chiuso. Non ci ho
visto più e ho fatto per saltargli alla gola, ma i secondini mi hanno subito afferrato per le braccia e
mi hanno portato via.
Il secondo, correlato al primo: sono andato a prelevare a casa sua, alla Toletta, quella spia
Sudessi – quello che si era introdotto nel gruppo di studenti di Pignatti e poi in carcere e,
soprattutto, aveva fatto parte del plotone di esecuzione dei 13 martiri di Ca’ Giustinian, come
proprio in quei giorni insurrezionali avevo saputo – da dove però era fuggito per tempo. Facile
immaginare come la cosa mi abbia fortemente indispettito: ma era segnato che dovevo rivederlo.
Infatti, nei primi mesi del 1946, un pomeriggio – per puro caso – l’ho incontrato in campo S. Polo e
immediatamente l’ho riconosciuto: mi è salita d’improvviso la rabbia e, senza rendermene conto,
sul momento l’ho tempestato di pugni gridando alla gente fattasi attorno che era un spia fascista
e uno dei fucilatori di Ca’ Giustinian. Quando mi sono un po’ calmato, se n’è andato tutto pesto e
tra gli insulti dei presenti. L’ho incontrato una seconda volta, qualche mese dopo ancora, in
campo Manin e la scena si è ripetuta nello stesso identico modo con la promessa di rifargliela nel
futuro. Non l’ho più visto: molto probabilmente se ne sarà andato da Venezia: in fondo, se l’era
cavata anche bene.
Il terzo episodio consiste in un’osservazione che ho fatto a Spino. L’ho visto per buona parte
del giorno interrogare, in modi piuttosto sbrigativi, alcuni fascisti che erano stati catturati: non mi
sono trattenuto dal dirgli “perché ti occupi di queste cose e non scrivi invece un bel manifesto del
partito da affiggere subito in città?”, il che mi sembrava una cosa molto più utile e sensata.
Naturalmente mi rendevo perfettamente conto che uno che era passato per mano dei fascisti in
molte occasioni, che si era fatto la galera e il confino per tanti anni, doveva pur – avendone
qualcuno sottomano – potergli almeno chiedere direttamente spiegazioni delle sue malefatte, ma
non mi pareva che questo dovesse essere il principale interesse del segretario del Pci veneziano.
Spino mi ha guardato e ha continuato il suo interrogatorio. Non so ancora se il manifesto del Pci
affisso sui muri di Venezia uno o due giorni dopo sia stato anche il risultato di questo mio
intervento, so che non molto tempo dopo Spino ha smesso di invitarmi alle riunioni del Comitato
federale.
Erano tre giorni e due notti che non dormivo – fatta eccezione per la citata riunione – sia per le
cose che mi davano da fare, sia anche perché volevo ‘vivere’ tutto quello che accadeva, minuto per
minuto, non volevo perdermi niente di quei momenti in cui ci prendeva una vera e propria felicità
di essere finalmente liberi: uno dei momenti – se non il momento – fra i più belli della mia vita.
Liberi dalla dittatura e dall’arbitrio, liberi nel senso politico e sociale della parola, ma liberi nel
senso fisico e psicologico anche del quotidiano. Nel non dover più trasalire, per esempio, come mi
era capitato una sera verso l’imbrunire – qualche settimana dopo l’uscita dal carcere – in riva ai
giardini, prima del monumento ad Oberdan, venendo da S. Elena, quando ho avvertito che uno
62
C. CHINELLO e al., Per una documentazione cit., p. 135.
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stava camminando alle mie spalle a passi veloci e all’improvviso ho sentito come uno schiocco
forte che a me è sembrato il caricamento di una rivoltella: mi sono voltato di colpo per reagire e ho
visto invece che quello si stava accendendo la sigaretta con l’accendino (quelli di allora, appunto,
schioccavano perché erano con il coperchio). Solo chi è vissuto in certe situazioni sa cosa
pienamente significhi “libertà”, in tutti i sensi.
Dunque, verso sera, nel mangiare un panino qualcuno mi ha offerto anche un mezzo bicchiere
di vino bianco: berlo e sedermi, stremato, è stata la stessa cosa. Non mi reggevo più in piedi,
avevo infatti bisogno vitale di dormire: mi hanno sorretto portandomi lì vicino, nella casa di una
nostra compagna, Lina Basaldella, e ho dormito d’infilata sino al mattino successivo.
Il giorno dopo è stato quello dell’arrivo degli Alleati. Nel primo pomeriggio, con altri del mio
gruppo, sono andato in piazzale Roma: la gente era ovunque festante, liberata dall’incubo di
nazisti e fascisti, ma anche per la fine della guerra ormai vicinissima. Ho visto arrivare le prime
camionette – proprio quelle riprese dalle foto che poi sono rimaste – e ancora ho vivissima la
percezione del compimento di quei pochi giorni insurrezionali – tre – così straordinari e intensi.
Con l’arrivo degli alleati, arrivavano – con l’”Autorità” – anche tutti i problemi, a tutti i livelli:
necessitati, se si vuole, ma non scontati per noi.
Alla sera qualcuno aveva organizzato una cena del nostro gruppo, in una trattoria a S. Vio, e
paradossalmente eravamo tutti un po’ giù di corda – anche se finalmente mangiavamo qualcosa di
commestibile dopo tanti giorni, con un bicchiere di vino, le gambe stese sotto la tavola e senza
l’ansia della clandestinità – perché capivamo che anche la nostra libertà totale, quella felicità di
essere liberi di cui avevamo assaporato tutto il gusto sin quasi ad ebriarci, era finita, anche se
non poteva che essere così.
Il giorno successivo si è festeggiato il Primo maggio in una piazza S. Marco inondata di
bandiere rosse. Il 5 maggio c’è stata la sfilata di tutte le formazioni partigiane, sempre in piazza S.
Marco, davanti al comando alleato e al Cln. Noi siamo sfilati come “Battaglione F. Biancotto”, in
testa Turcato – ne è rimasta anche una foto63 – con la nostra bandiera rossa, cantando a
squarciagola La guardia rossa e abbiamo fatto in modo che, passando davanti al palco, il verso da
cantare fosse proprio quello: “Son le armate di Stalìn, viva Lenìn”. Altri tempi, ma era il ricordo
vivo di Stalingrado – il primo morso della sconfitta sul campo per il nazismo –, la manifestazione
della nostra felicità per la libertà e la pace conquistate dopo il fascismo e la guerra, la nostra
voglia del “sol dell’avvenir”.
Venezia/S. Vigilio di Marebbe
maggio/agosto 2001
63
G. TURCATO, (A cura di), Kim e i suoi compagni cit., foto n. 8.
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