pagina 35 - Sezione Sport L`IMBARAZZO DEL MILAN: `AIUTATECI`
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dal sito www.repubblica.it 6 giugno 1989 - pagina 35 - Sezione Sport L'IMBARAZZO DEL MILAN: 'AIUTATECI' La notizia che uno degli arrestati fa parte del servizio d’ordine del Milan è stata accolta con imbarazzo evidente. Abbiamo 400 volontari che ogni domenica stanno ai cancelli, controllando i biglietti e segnalando eventuali incidenti. Sono tutti schedati, nel senso che di ognuno di loro abbiamo foto e dati. Ma non possiamo certo controllare le fedine penali, controllare momento per momento che cosa stanno architettando. Non sappiamo più dove battere la testa: se qualcuno ha dei consigli da darci, ci aiuti. Quando l’ho saputo, io ho pensato una cosa sola: bisogna prenderli. Paolo Taveggia è ufficialmente il direttore organizzativo del Milan. In realtà è l’uomo che Berlusconi ha delegato per affrontare e risolvere le grane interne ed estere della società, dai biglietti della finalissima di Barcellona ai rapporti con i giocatori. E’stato lui, domenica, a chiedere ai padroni della curva di ritirare gli striscioni, a convincere l’ingegner Viola che la targa di merito al dottor Berlusconi poteva dargliela un’altra volta, che la riproduzione floreale della Coppa faceva parte di una festa improvvisamente e terribilmente fuori luogo. E poi una serata lunghissima in questura dopo la partita, un altro vertice poi nella mattinata di ieri. Abbiamo fatto una riunione con i capi dei gruppi tifosi. Io personalmente non ho mai pensato che il Milan avesse trovato la formula della felicità. Abbiamo cercato di selezionare, di aiutare, di incanalare. A un certo punto, dopo aver tanto lavorato e aver ottenuto anche dei buoni risultati, sembrava davvero che quelli del Milan fossero tifosi un po’speciali. E invece non era vero, sono come tutti gli altri, nel bene e nel male. Ho detto ai capi ultras: da domani avrete la patente di assassini, tutti, dalle vostre madri ai datori di lavoro si potrebbero vergognare di voi, magari disprezzarvi. Se vogliamo che questo non accada, bisogna eliminare i deficienti. E’già successo con Luigi Sacchi, quello che l’anno scorso colpì Tancredi con un petardo. Fu identificato e arrestato grazie alle testimonianze di chi gli stava intorno quel giorno. Adesso deve scattare di nuovo lo stesso meccanismo. Il Milan parteciperà ufficialmente ai funerali del ragazzo ucciso: nei prossimi giorni verrà anche deciso in che modo intervenire a favore della famiglia De Falchi. La Federazione Giovanile comunista di Milano ha scritto a Berlusconi: Regalate la Coppa dei Campioni alla famiglia di Antonio. Sarebbe un gesto straordinario. dal sito www.repubblica.it 6 giugno 1989 - pagina 35 - Sezione Sport - di Piero Colaprico e Fabrizio Ravelli KILLER DA STADIO CON TESSERA MILANO - Portano i capelli quasi a zero, hanno scarpe pesanti, cinghie piene di borchie. Inalberano uno striscione che ha il suo posto fisso sulla curva: Gruppo brasato. Fra le due parole, una zucca svuotata come quella di Halloween. Sono loro, i brasati, quelli che domenica hanno ammazzato di botte un ragazzo di diciannove anni, Antonio De Falchi, alcune ore prima di Milan-Roma, fuori dallo stadio. E ieri mattina, dopo una lunga notte di interrogatori e confronti, il sostituto procuratore Daniela Borgonovo ha firmato tre ordini di arresto per concorso in omicidio. Uno dei tre ultras fermati, Daniele Formaggia, 29 anni, fa parte del servizio d’ordine del Milan: i dirigenti rossoneri l’hanno ammesso solo dopo che la madre aveva dato la notizia alla stampa. Formaggia è uno dei 12 rappresentanti degli ultras nel servizio d’ordine, formato in tutto da 380 elementi tesserati. Gli altri due arrestati sono Luca Bonalda, 18 anni, e Antonio Lamiranda, 21 anni. Si cercano altri cinque brasati: la polizia ha gli identikit di due di loro. Antonio De Falchi, 19 anni da compiere, era arrivato in treno da Roma e con tre amici aveva raggiunto in tram lo stadio. Comprato il biglietto, i quattro si stavano avviando verso il cancello numero 16, le sciarpe giallorosse nascoste sotto i giubbotti per evitare guai. Il primo identikit è di quello che li ferma con un pretesto: alto 1,75, capelli lunghi dietro e corti sopra, naso storto, maglietta bianca e jeans. Hai una sigaretta?, chiede. E poi: Sai che ore sono?. L’accento romano tradisce De Falchi e i suoi amici. Un cenno, e da dietro una struttura di cemento esce un commando di picchiatori. Antonio De Falchi non ce la fa a scappare, lo ferma uno sgambetto. Lo massacrano di calci e pugni. Il secondo identikit è di uno di quelli che infieriscono: capelli rasati, salvo un ciuffo sulla tempia destra, robusto, mascella forte. Mancavano ancora quattro ore al fischio d’inizio di Milan-Roma, quando Antonio De Falchi s’è rialzato in piedi, aiutato da uno dei poliziotti che erano accorsi e avevano messo in fuga i picchiatori. Il ragazzo era cianotico, respirava a fatica, e si è di nuovo accasciato. Il poliziotto ha tentato di rianimarlo con la respirazione bocca a bocca, e con il massaggio cardiaco. De Falchi è morto sull’ambulanza. Dirà l’autopsia, con precisione, quale è stata la causa della morte. In questura hanno riferito che sul corpo non c’erano lesioni apparenti, e hanno ipotizzato un collasso. Ma la madre e i fratelli di Antonio De Falchi, dopo aver riconosciuto il cadavere all’obitorio, hanno detto invece che era pieno di lividi. Mentre l’ambulanza correva verso l’ospedale San Carlo, intorno allo stadio la polizia ha fermato una decina di sospetti e li ha portati in questura. Daniele Formaggia è stato preso al bar lì vicino. Alto, irrobustito dal body-building, un lavoro alle Poste di piazzale Lugano, Formaggia abita con la madre in viale Suzzani. In tasca aveva un passi con foto, una delle 380 tessere del servizio d’ordine che il Milan ha organizzato. Formaggia è uno dei brasati: ogni domenica, grazie alla tessera, entrava allo stadio per stendere lo striscione. Sempre allo stesso posto, sopra quello delle Brigate rossonere. La sua è una delle dodici tessere distribuite agli ultras, le altre 368 del servizio d’ordine sono per gli affiliati ai Milan Club. Alto e atletico è anche Antonio Lamiranda, 21 anni, figlio di un farmacista di Sesto San Giovanni, studente modello del secondo anno di Giurisprudenza. Grande e grosso ma tranquillo, secondo il padre, che ieri attraverso lo spioncino della sua farmacia ha risposto all’assalto dei cronisti. Tranquillo, ma c’è chi sostiene che, quando la polizia l’ha fermato, Antonio avesse ancora una cinghia borchiata avvolta intorno a una mano. Il terzo arrestato per concorso in omicidio si chiama Luca Bonalda, e coi suoi 18 anni è il più giovane. Fa il fattorino pony-express, e ha una Kawasaki. Per tutta la notte fra domenica e ieri, il sostituto procuratore Daniela Borgonovo ha interrogato in questura i fermati e i testimoni, fra i quali c’era un ragazzino di tredici anni, e ha messo a verbale il racconto dei tre amici di Antonio De Falchi. Poi ha firmato gli ordini di convalida dei fermi, chiedendo che i nomi dei tre non venissero divulgati: la cautela non ha mantenuto a lungo il segreto. Entro quarantotto ore il pubblico ministero chiederà al giudice istruttore Gustavo Cioppa l’emissione di mandati di cattura. Si cercano intanto gli altri picchiatori, almeno cinque. Dei tre fermati, pare che quello più compromesso sia proprio Bonalda, il più giovane: la polizia l’ha acchiappato subito. Gli altri due sono stati presi qualche minuto più tardi. La notizia che Formaggia fa parte del servizio d’ordine è stata diffusa dalla madre, e ha messo in crisi l’ordinato coro di chi da domenica segnava sottili confini fra i veri tifosi e gli altri. Anche il questore Umberto Lucchese, forse trascinato dall’indignazione, aveva sostenuto che la vera tifoseria, per quanto brutta ed esasperata, non arriva mai a questi livelli. Stessa musica, la solita, da Berlusconi in giù. Poi i dirigenti del Milan hanno dato una mano alle indagini, ed è arrivata la sorpresa. Daniele Formaggia pare sia uno dei capi dei brasati: il gruppo non ha tessere né gerarchie. I brasati però non sono indipendenti - spiega uno della Fossa - Stanno insieme agli altri ultras. Sono un centinaio e non tutti sono skinheads, rapati. Non hanno tessere come gli altri ultras, e non vendono sciarpe e magliette. Non avevano mai dato problemi. A San Vittore, mentre si indagava sulla morte di Antonio De Falchi, erano intanto finiti altri due ultras milanisti: Paolo Ferrari, 25 anni e Umberto Lanzani, 24 anni. Stavano fra gli esagitati che, nemmeno due ore dopo che De Falchi era morto ammazzato, tiravano sassi ai tifosi romanisti, centrando anche un carabiniere. dal sito www.repubblica.it 7 giugno 1989 - pagina 25 - Sezione Sport - di Leonardo Coen 'LO STATO DEVE AIUTARCI' MILANO - Limitare la violenza agli stadi è un compito che spetta alle istituzioni, non ai clubs e ai loro dirigenti: un demoralizzato Silvio Berlusconi se ne è andato a Bologna per incontrare gli agenti Publitalia del Centro e del Sud, però prima di partire ha detto la sua sullo scenario che ha provocato (e consentito) l’aggressione mortale contro il tifoso romanista Antonio De Falchi. Il presidente rossonero, infatti, ha dichiarato che spetta alle forze dell’ordine agire per tenere lontano chi reca danni, giacchè la tragedia avvenuta fuori San Siro quattro ore prima dell’inizio di Milan-Roma è il classico esempio che pone gli sportivi di fronte all’impotenza. E’difficile controllare quel che succede dentro lo stadio, con quale diritto possiamo intervenire all’esterno? La logica di Berlusconi apparentemente non fa una grinza: anzi, in fondo qualcosa di simile aveva già detto due anni fa il presidente del Verona Ferdinando Chiampan, esasperato dalle scorribande dei propri tifosi dentro e fuori il Bentegodi: aveva accusato d’omertà i suoi concittadini perchè non gli davano una mano per smascherare i violenti. Questa volta, contrariamente al solito, Berlusconi è stato laconico. Ha dimenticato o sorvolato il fatto che uno dei tre giovani arrestati dalla polizia ed accusati di concorso in omicidio fosse regolarmente inquadrato nel servizio d’ordine dei Milan club. L’imbarazzo è evidente: per un motivo o per un altro sia Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan nonchè vicepresidente della Lega, sia Fedele Confalonieri, consigliere delegato della società di via Turati, ieri hanno evitato commenti pubblici in merito alla tragedia di domenica. Nessuno ha voglia di rispondere a domande oggi brucianti. Così, in una conversazione con un cronista del quotidiano milanese La Notte, Berlusconi si è limitato a rivendicare l’impegno formale della società contro la violenza che è l’unico vero male del calcio e che spesso ci arriva da fuori. Berlusconi allarga sconsolato le braccia - strano, per un lottatore del suo stampo - e ammette che c’è un limite oltre il quale un presidente e una società non possono andare. Insomma, ci pensi lo Stato a reprimere, a prevenire. Noi diamo il buon esempio, assicura Sua Emittenza, come dirigenti e come atleti. Noi abbiamo prodotto spot televisivi per campagne antiviolenza. Noi ci rivolgiamo periodicamente alle organizzazioni dei tifosi perchè raccomandino ai loro soci un comportamento sportivo: lealtà, correttezza e rispetto degli altri sono la filosofia del Milan e di ogni nostro gruppo di lavoro ripete, con tono accorato, Berlusconi. Tante cose non vanno a San Siro, come in tutti gli altri templi tricolori del dio pallone. Ai primi di maggio, per esempio, uno studente universitario denunciò lo sconcertante accordo fra bagarini e maschere all’ingresso dello stadio, in occasione di Inter-Milan (giocata il 30 aprile scorso). L’episodio finì sulle pagine dei quotidiani. Le curve sono un tripudio di striscioni i cui slogan, spesso e volentieri, sono ignobili: impossibile fingere di non sapere chi li prepara. Come affatto teneri sono gli inni degli ultras, fra i quali il celebre Sangue di milanista. Le società di calcio sono spesso vittime di ricatti: molte volte debbono scendere a compromessi con le tifoserie più turbolente regalando ingressi alle partite in cambio di promesse del tipo non succederà nulla di grave. L’argomento è tabù: tutti sanno, nessuno ha il coraggio di denunciare la situazione. Quando a Verona arrestarono dodici tifosi della curva sud, nel febbraio dell’87, la domenica successiva per Verona-Roma lo stadio era semivuoto (fu realizzato un ridicolo incasso di 160 milioni di lire) e nella famigerata curva sud campeggiava uno striscione minaccioso: Non dodici ma cinquemila colpevoli. Le regole del disordine, come le ha definite il sociologo inglese Peter Marsh che ha studiato il fenomeno della violenza sugli spalti, sono il codice comportamentale di queste frange che cercano l’incidente, che provocano. Sulle pubblicazioni dei vari Milan club, Inter club, eccetera i dirigenti continuano a predicare la non violenza. Le stesse Brigate Rossonere e le Fosse dei Leoni, le tifoserie organizzate della curva più calda di San Siro, oggi puntualizzano che non rientra nella nostra mentalità fare ronde contro gli avversari ed è sbagliato volere collegare per forza gli aggressori a qualche gruppo della curva. Sventola il drappo con l’immagine del Che Guevara e si rivedono gesti e slogan dell’autonomia, sopra questi gruppi la domenica allo stadio. Li vediamo noi, li vedono i dirigenti delle squadre. E’un mondo dove tutti conoscono tutti. Dice uno degli ultras: Di solito chi fa certe cose, come picchiare un avversario, il giorno dopo se ne vanta. Ma se ci scappa il morto, sta zitto. Bocca cucita. dal sito www.repubblica.it 8 giugno 1989 - pagina 19 - Sezione Cronaca - di Massimo Lugli ULTIMO SALUTO AL TIFOSO ROMANISTA 'FIGLIO MIO, T’HANNO SPEZZATO IL CUORE' ROMA - Antonio, figlio mio, figlio mio bello, cocco di mamma tua ti hanno spezzato il cuore... Antonio non ci torni più a casa. Antonio bello, Antonio dolce t’hanno ammazzato, non ti vedo più. Il lamento di Esperia De Falchi continua a lungo, come una nenia di dolore, sovrasta il brusio di una folla accalcata fino all’inverosimile, il ronzare ininterrotto delle telecamere, il rumore secco delle macchine fotografiche, perfino le prime note dell’organo. Afflosciata su una panca tra le braccia del presidente della Roma, Dino Viola, la donna è pallidissima, esausta. Il nero degli abiti mette in risalto lo spaventoso pallore del viso, rigato di sudore e di lacrime. Almeno diecimila persone, l’intera borgata di Torre Maura, sono venute a dare l’addio al giovane tifoso romanista, morto in un’imboscata di ultras milanisti davanti ai cancelli di San Siro. Il quartiere, uno dei tanti scorci di periferia accoccolati sulla Casilina, si è tinto di rosso e di giallo: striscioni, bandiere, mazzi di fiori, gagliardetti erano dovunque. Sul piazzale davanti alla palazzina dove abita la famiglia del ragazzo spiccava un gigantesco cuore dipinto coi colori della Roma. Intanto a Milano, è stata celebrata una messa di suffragio. Al rito era presente tutta la squadra rossonera. Solo una piccola parte della folla ha trovato posto nella chiesa di San Giovanni Leonardi, un edificio modesto, moderno, con grandi vetrate blu e poche decorazioni. Dentro e fuori, una tensione quasi isterica, commozione, lacrime, singhiozzi, applausi. Ma non ad alta voce, nessuno slogan di vendetta, di sangue. In rappresentanza della Roma (che ha sostenuto tutte le spese delle esequie) oltre al presidente Viola c’è l’intera squadra dei giovanissimi regionali, ragazzini sui quindici anni un po’impacciati nella tuta rossa. Poi, alla spicciolata, arrivano Angelo Peruzzi, Sebino Nela, Giuseppe Giannini. A stento sfuggono all’abbraccio dei tifosi e si rifugiano di lato all’altare, in un angolo. Nela, in giacca scura, è visibilmente scosso, non riesce a trattenere le lacrime. A un tratto uno dei sette fratelli di Antonio, un ragazzo alto, tutto vestito di jeans, dai lineamenti chiusi, serrati dal dolore, gli si avvicina. In mano ha una maglia giallorossa: E’la tua. Gliel’avevi regalata tu, ti ricordi? Poi l’emozione ha la meglio e i due uomini si abbracciano e piangono insieme. La bara, davanti all’altare è avvolta in una grande bandiera giallorossa, sepolta dai fiori: gladioli, garofani, lilium, crisantemi e gerbere che riprendono i toni dominanti del giallo e del rosso. Ai lati, spiccano le due corone rossonere (una del Milan, l’altra di Berlusconi) e quella biancoceleste della Lazio. Davanti al feretro si fermano per qualche istante, sconvolti, anche due dei giovani che erano a Milano assieme a Antonio De Falchi e sono sfuggiti all’assalto degli ultras. Stasera Antonio ha acquistato l’autorità che gli dà il diritto di rivolgerci la parola, come chi ha raggiunto il limite ultimo dell’esperienza umana, la morte Don Giuseppe Mani, vescovo della zona est di Roma è un bell’uomo, dai capelli bianchi e dalla voce chiara, leggermente teatrale. E la parola che Antonio vuol dirci è questa: la vita è il valore più alto. La vita non si tocca, è un dono di Dio. Antonio ci dice di guardare a tutti coloro che opprimono la vita, sia nel nascere che nel finire. Sta a noi raccogliere questo messaggio e l’impegno a difendere sempre la vita. Poi il sacerdote pronuncia parole di fede cristiana, di speranza nella resurrezione Se lui se n’è andato conclude noi restiamo a giocare la partita più terribile e impegnativa, quella della vita. Antonio sarà sempre con noi, a sostenerci, ad assisterci. Il cappellano della Roma, don Fortunato Frezza, interviene per lanciare un messaggio di fratellanza in nome dello sport: Domenica allo stadio useremo la tattica vincente della gioia, della festa e sapremo mostrarla a chi predica l’odio. Non opporremo l’odio all’odio. La chiesa è avvolta da una cappa di calore. Tutti sudano, qualcuno inveisce a mezza bocca contro i fotografi e i cineoperatori che si arrampicano perfino sopra l’altare. Un interminabile applauso saluta la fine della messa e il nome di Antonio mentre la folla defluisce a fatica. Dino Viola e i giocatori infilano una porta secondaria e vanno via senza una parola. Che infamata che cianno fatto, a presidè dice un ragazzo col giubbotto e Viola annuisce E’peggio di Heysel, peggio di Paparelli mormora. Fuori, la gente scandisce il nome di Antonio, Antonio, la confusione dilaga, una fiumana di gente tenta di avvicinarsi al furgone mortuario, volano insulti, spintoni, qualche schiaffo. Poi il corteo invade le vie della borgata. Su un muro, una scritta minacciosa: Antonio, ti vendicheremo. E ancora: Vigliacchi uscite adesso, ve lo facciamo noi un bel processo. dal sito www.repubblica.it 9 giugno 1989 - pagina 19 - Sezione Cronaca - di Massimo Lugli LA PAURA DELLA RAPPRESAGLIA ULTRAS ROMA - La paura della vendetta è nell’aria, gli ultras, da una parte e dall’altra, minacciano di affilare le armi. C’è il rischio che romanisti e milanisti si affrontino almeno questa sembra essere l’intenzione di alcuni gruppi in un campo neutro, a Pisa, dove la squadra rossonera dovrà incontrare, domenica, la compagine locale (scioperi dei calciatori permettendo...). E gli hooligans giallorossi sembrano ormai scesi sul sentiero di guerra, si dichiarano pronti a mettere in pratica il monito biblico occhio per occhio, dente per dente. Quel giovane tifoso romano morto domenica scorsa vicino allo stadio di San Siro dopo una feroce aggressione da parte di un commando di brasati, l’ala più violenta e oltranzista dei supporters milanisti, è diventato il tragico simbolo di una guerra senza quartiere, combattuta fuori e dentro le Curve dei campi di calcio. Le truppe potrebbero muoversi all’alba di domenica, in incognito, e convergere verso la cittadina toscana che fino a ieri era del tutto ignara di quanto rischia di piombargli addosso. Ma se Pisa ancora non dà segni di reazione, diverso è il clima che si vive negli uffici di polizia della capitale e di Milano. Questa marcia degli ultras non si farà, spiega un funzionario che, per ovvi motivi intende mantenere l’anonimato. Al ministero dell’Interno hanno già approntato un piano operativo per impedire che la violenza dell’estremismo calcistico esploda. I gruppi oltranzisti dei tifosi romani e milanesi sono stati messi, discretamente, sotto controllo. E ogni loro spostamento sarà minuziosamente seguìto e verificato. Come, non è possibile sapere. Ma con qualsiasi mezzo cercheranno di raggiungere la città toscana aggiunge il funzionario sapremo fermarli. Li controlleremo minuto per minuto Stazioni e autostrade presidiate, quindi, massiccio spiegamento di forze intorno allo stadio di Pisa e nelle strade cittadine, massicci controlli sulla provenienza di coloro i quali, domenica, andranno a vedere la partita. Già da oggi nostri agenti in borghese avranno il compito di non perdere di vista, neanche un minuto, i leader dei vari club rivela il funzionario e, se necessario, provvederanno a informare la procura della Repubblica e la prefettura di iniziative che possano far presumere azioni di rappresaglia o esplosioni di violenza. Polizia e carabinieri presidieranno le sedi delle associazioni delle tifoserie, mentre le volanti di pattuglia hanno già avuto precise disposizioni di identificare e fermare gli ultras che andranno in giro a fare scritte sui muri. Intanto si moltiplicano gli appelli alla ragione. La violenza che si esprime negli stadi non ha una sua radice nel mondo dello sport, se non in quanto anch’esso partecipe delle ombre di questa nostra società, afferma il cappellano del Milan, don Massimo Camisasca. Fanno amaramente pensare le grida di vendetta ha detto don Camisasca, che è anche un autorevole esponente di Comunione e Liberazione Fanno pensare a una rabbia che non nasce dal calcio, ma da ragioni più profonde. E gli ultras? Un appello è partito dall’Associazione Italiana Roma Club, che conta sessantamila iscritti in tutta Italia: Siate saggi, dimostrate che la migliore vendetta è il perdono ha dichiarato il vice-presidente Fausto Iosa, rivolgendosi ai tifosi. Iosa ha aggiunto che la notizia di una vendetta dei romanisti su quelli del Milan non è vera: non accadrà nulla: certe manifestazioni d’odio al funerale di De Falchi sono uscite in un momento di rabbia, ma non avranno conseguenze. Il presidente della Roma, Dino Viola, ha invece evitato qualsiasi forma d’appello: Non credo veramente a una vendetta dei tifosi ha dichiarato, ma non voglio fare appelli perché gli italiani sono abituati a fare l’esatto contrario di quello che gli viene chiesto. Da Pisa, invece, il presidente della società toscana, Romeo Anconetani, ha chiesto di non dare importanza a queste notizie, perché rischiano di rovinare una festa dello sport. La voce degli estremisti La Lega ci ha tranquillizzato: forse le minacce sono state fatte a caldo, in un momento di rabbia. Spero comunque che la società Roma dissuada i tifosi ha continuato Anconetani, se qualcuno ha veramente intenzione di venire a Pisa per vendicare la morte di quel ragazzo. Ma c’è anche la testimonianza di una ragazza della frangia estremista del tifo giallorosso. Milano sembra avvelenata contro Roma ha detto Inevitabilmente qualcosa succederà. Noi cercheremo di restare calmi, ma non si può accettare che un ragazzo di 19 anni, innocuo, sia aggredito selvaggiamente e ucciso. Cosa farebbe una persona se gli uccidessero un amico? Reagirebbe: è un istinto animalesco. Purtroppo ha dichiarato la tifosa ultras, a Milano fanno i loro comodi. Se decidiamo di andare in trasferta a Milano, dobbiamo esser pronti a difenderci da soli. Dopo gli interrogatori in questura, i ragazzi che erano con De Falchi sono tornati da soli alla stazione, senza scorta, con l’angoscia che qualcuno li prendesse. Due anni fa hanno arrestato sessanta tifosi della Roma, che sono rimasti in prigione cinque giorni ha continuato la giovane. I giornali li hanno subito individuati come delinquenti. Quest’anno però si è svolto il processo per quell’episodio, e sono stati tutti assolti rapidamente con formula piena. Di Antonio De Falchi, fra tre settimane non ne parlerà più nessuno. Domenica, intanto, nella Curva della Roma sarà il lutto: non tiferemo, non esporremo striscioni. Per ricordare Antonio resteremo in silenzio. dal sito www.repubblica.it 17 giugno 1989 - pagina 25 - Sezione Sport MARTEDI’ IL PROCESSO DE FALCHI ROMA - E’ stata fissata a martedì 20 la data del processo per direttissima ai tre giovani incarcerati per l’omicidio di Antonio De Falchi il diciannovenne tifoso romanista ucciso a S. Siro prima di Milan-Roma il 4 giugno scorso. Il magistrato istruttore ha confermato l’accusa di omicidio preterintenzionale per Luca Bonalda, Daniele Formaggia e Antonio Lamiranda arrestati subito dopo il drammatico tafferuglio. Tutti gli atti relativi al processo sono stati inviati alla corte di Assise di Milano. Depositata anche la perizia medico legale che ha stabilito con certezza il nesso di causalità fra le percosse subite dalla vittima Antonio e la sua morte. dal sito www.repubblica.it 21 giugno 1989 - pagina 31 - Sezione Emergenza Calcio MILANO, AL PROCESSO DE FALCHI LA PARATA DEGLI ULTRA’ INTERISTI MILANO - E’ stato rinviato a lunedì 26 giugno il processo a carico dei tre ultras del Milan accusati di aver ucciso domenica 5 giugno davanti al cancello 16 dello stadio di San Siro il tifoso romanista Antonio De Falchi di 19 anni. Antonio Lamiranda, 21 anni, studente di legge; Daniele Formaggia, 29 anni, del servizio d’ordine del Milan; Luca Bonalda, 18 anni, di mestiere pony-express, ieri mattina sono stati accompagnati dal carcere all’aula della quarta Corte d’assise dove è cominciato il processo. Ad attenderli nello spazio riservato al pubblico oltre cinquanta persone divise tra amici, familiari, compagni di scuola e tifosi dei gruppi ultras sia del Milan che dell’Inter. Tra il pubblico c’era anche Nicola Ciccarelli, uno degli interisti inquisiti in un primo tempo e poi prosciolti per l’omicidio di Nazareno Filippini, il tifoso ascolano ucciso nell’ottobre scorso nei pressi dello stadio Del Duca. C’è stato qualche momento di tensione subito sedato dai carabinieri, ed è apparsa inconsueto e in qualche modo preoccupante questo appuntamento di ultras del tifo a sostegno e solidarietà degli accusati. La sensazione è che questo processo, quando sarà celebrato, potrebbe trasformarsi in una platea per le tesi giustificazioniste nei confronti della violenza che si registra intorno al calcio. La famiglia di Antonio De Falchi ha deciso di costituirsi parte civile e ieri l’ha fatto tramite gli avvocati Marcello e Giuseppe Madia. Lunedì i difensori dei tre imputati chiederanno alla Corte di sentire anche numerosi testimoni indicati dalla difesa. L’AIAC SULLA VIOLENZA Anche l’associazione italiana allenatori di calcio ha preso posizione sul drammatico problema della violenza. L’Aiac - dice una nota del consiglio direttivo riunitosi a Coverciano condanna ancora una volta questi insensati episodi e ravvisa la necessità che tutte le componenti del mondo del calcio si incontrino per proporre concreti interventi per le soluzioni di tali complessi e ormai radicati problemi. dal sito www.repubblica.it 8 luglio 1989 - pagina 22 - Sezione Cronaca PER I TRE MILANISTI IL PUBBLICO MINISTERO CHIEDE OTTO ANNI MILANO - Sono tutti e tre responsabili. Il povero Antonio De Falchi è morto per infarto, dovuto allo stress psicologico e fisico del lungo inseguimento. Chi poi l’ha effettivamente colpito ha solo aggiunto un ulteriore elemento negativo. Per questo chiedo che gli imputati siano condannati a otto anni di reclusione. Pietro Forno, pubblico ministero al processo ai tre milanisti accusati di aver aggredito il tifoso romanista morto a San Siro il 4 giugno, ha parlato per oltre due ore. Una requisitoria che, basandosi in parte sulla ricostruzione dei movimenti degli ultras in quella domenica pomeriggio, in parte sull’omertà dimostrata dai milanisti al processo, ha messo sotto accusa anche il clima dello stadio. Il contesto ambientale è l’odio di chi gioca alla guerra non avendo altre intenzioni e altre possibilità, ha detto Forno. Gli imputati Luca Bonalda, Daniele Formaggia e Antonio Lamiranda hanno più subito che determinato quest’odio. Vivono il calcio in termini di droga e come drogati vanno alla partita. Gli imputati sono vittime di cattivi maestri, e i generali sono rimasti dietro le quinte. L’istruttoria in aula ha dato la misura di quanto possa fare l’odio. Il pubblico ministero ha fatto notare anche come nessuno tra i vari testimoni che avevano la possibilità di vedere in faccia qualcuno del gruppo degli aggressori ha collaborato seriamente all’inchiesta, ha fornito prove e testimonianze. E Forno ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura della testimonianza di un tifoso milanista, Nils Bredik, che si era presentato spontaneamente: secondo il Pm ha mentito. dal sito www.repubblica.it 14 luglio 1989 - pagina 20 - Sezione Cronaca - di Piero Colaprico MILANO, GLI ULTRAS EVITANO IL CARCERE MILANO - Per trasformare l’aula della quarta sezione della Corte d’assise e il corridoio del primo piano del palazzo di giustizia in un angolo da stadio violento ieri sono stati sufficienti duecento tifosi. Sono bastati i loro insulti, le minacce, i gestacci contro i giornalisti, il tentativo di assalto ai fotografi. Ed ecco, proprio come allo stadio, la reazione dei carabinieri, una trentina, che devono correre, tenere a distanza di sicurezza quei milanisti sudati e quasi impazziti, alcuni in lacrime, altri con la mandibola stretta e lo sguardo cattivo. Ecco ancora i carabinieri spingerli tutti fuori dall’aula, scortarli giù, lungo le scale, sino ai gradini dell’uscita in strada, mentre altri militari costringono i giornalisti a infilarsi nel corridoietto riservato ai giudici, consigliando di non muoversi per dieci minuti. Un pomeriggio a rischio. Una sceneggiata assurda, al termine della lettura di una sentenza tutto sommato favorevole ai tre imputati: due assolti per insufficienza di prove e uno condannato ma rimesso subito in libertà. Una sentenza così favorevole da far impallidire la madre di Antonio De Falchi. Suo figlio, vent’anni, era morto domenica 4 giugno dopo l’agguato degli ultras milanisti, ben quattro ore prima di Milan-Roma. E questa è la giustizia? E’uno schifo, ha detto la signora Esperia, vestita di nero. A me questa sentenza non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno mi può riportare il povero Antonio. La quarta sezione della Corte d’assise ha condannato solo Luca Bonalda, 20 anni, magro, bassino, pantaloni stretti e una camicia chiara: neanche i capelli rasati riescono a dargli l’aria del duro. Era stato riconosciuto dagli amici di De Falchi e dai poliziotti. Il pubblico ministero Pietro Forno aveva chiesto la condanna a otto anni di reclusione. Ne ha avuti sette, dovrà pagare un anticipo sui danni di 50 milioni, ma la Corte, come aveva chiesto il Pm, gli ha concesso il beneficio della remissione in libertà. A Bonalda, insomma, restano adesso da scontare poche ore di carcere, poi potrà tornare a casa, riabbracciare il padre che non ha perso neanche un’udienza, e riprendere il suo lavoro di fattorino. Assolti per insufficienza di prove gli altri due imputati. Anche per loro l’accusa aveva chiesto otto anni. Ma nessun testimone li aveva notati nel gruppo dei responsabili dell’agguato. Stavano solamente insieme al bar, e sono stati arrestati con un procedimento che l’avvocato Raffaele Della Valle, con una metafora da fumetto, aveva definito alla Tom Mix del Far West: i poliziotti hanno tirato il laccio e hanno preso chi c’era. Il più anziano, Daniele Formaggia, ha 29 anni, lavora come postino, ed è il leader del Gruppo Brasato, una formazione che tifa nella curva Sud, tra le Brigate rossonere e la Fossa dei leoni. Quando ha sentito la parola assolto è rimasto impassibile, alzando solo l’avambraccio sinistro, il pugno stretto, come spesso fanno i calciatori dopo il gol. L’altro, Antonio Lamiranda, 21 anni, giacca a quadri, camicia aperta, pantaloni scuri, invece s’è accasciato sulla panca, la mano sinistra sugli occhi, e ha pianto a lungo. Per lui, studente di giurisprudenza, figlio di un farmacista che, come ha detto, l’ha educato nei principi del rispetto delle istituzioni, è davvero una rinascita. Anche suo padre, appoggiato al divisorio di legno dell’aula, piange tra il pubblico. Poco più in là piangono di gioia anche i parenti di Formaggia. E altri singhiozzi, però disperati, nervosi, angosciati, sono quelli che scuotono le spalle delle sorelle di Bonalda. Sono le 15 e lui, l’unico riconosciuto colpevole, stralunato, i pugni stretti alle sbarre, osserva il pubblico, vede i suoi in lacrime, sente partire un applauso dagli amici degli altri due assolti. E’quasi assente. Solo quando un cameramen si avvicina per riprenderlo in primo piano, si scuote, scatta: Vai via, urla, poi si siede e scoppia anche lui a piangere. E allora la platea si ribella. Lo fa nel solo modo che conosce. Bastardi, giornalisti bastardi, urlano in dieci. Un paio d’avvocati alzano le mani, come per dire ai rossoneri di far silenzio. Ma ormai è tardi. Qualcuno tenta di scavalcare, altri spingono, un robusto, paonazzo, esagitato quarantenne scandisce le urla con quel gesto tipico delle curve, le due dita unite e il braccio prima piegato sulla testa, e poi disteso in avanti. Il divisorio traballa, si muove. I fotografi scappano. E quasi nessuno di loro riesce a riprendere gli ultras che ondeggiano nello stretto spazio tra le due porte d’ingresso dell’aula e il paravento di legno. Sono due giovanissimi carabinieri a lanciarsi contro i tifosi. Altri militari, allargando le braccia, fanno rapidamente un cordone di difesa dell’aula. Un poliziotto in borghese, che stava tra il pubblico, spinge i più nervosi. Chi può, tra il pubblico, se la fila in corridoio. Ma in aula gli altri continuano il coro: Vigliacchi, bastardi, vi romperemo il cranio. In fin dei conti si sono sfogati scegliendo il bersaglio meno rischioso. E’così comodo minacciare e sbeffeggiare in duecento i cronisti, piuttosto che rischiare il vilipendio alla Corte, oppure l’oltraggio a pubblico ufficiale. E’dall’inizio del processo che gli ultras rossoneri se la prendono con la stampa. Le scaramucce era cominciate durante la prima udienza, il 20 giugno scorso: un cronista che si era avvicinato alla gabbia per parlare con i tre imputati, era stato invitato ad andarsene con uno Sparisci, sennò ti sputo in faccia. Nei giorni successivi, i rappresentanti delle varie testate sono stati criticati a turno per gli articoli, i titoli, le fotografie. E ieri, infine, quest’ultimo esempio dello stile di vita ultra. Il processo per direttissima, insomma, ha finito per mostrare la violenza e il cinismo di chi va allo stadio pensando di andare in guerra. Anche Bonalda, il ragazzo più inguaiato dai testimoni, è, come ha riconosciuto il Pm, una vittima di questo clima. Ma di questo processo resta soprattutto il ricordo della faccia pallida e addolorata di Esperia De Falchi. Ha perso il suo figlio più piccolo, morto d’infarto davanti al cancello numero 16 di San Siro, inseguito e picchiato da trenta nemici solo perché portava una sciarpa giallorossa nascosta sotto il giubbotto di jeans. dal sito www.repubblica.it 15 luglio 1989 - pagina 18 - Sezione Cronaca - di Piero Colaprico ULTRAS MILANISTI CONTRO TUTTI 'CI VOLETE CRIMINALIZZARE' MILANO - Sempre più soli contro tutti. Sempre meno disposti a discutere. Ormai decisi perfino ad una sorta di rottura diplomatica. Con i giornalisti noi della curva sud abbiamo chiuso. Siete i responsabili delle distruzione di tre ragazzi che non c’entrano nulla e che avete messo in vetrina come mostri. I nostri amici si sono fatti 40 giorni a San Vittore. Due nello stesso raggio, ma in celle lontane. L’altro, il più giovane, in un altro braccio del carcere. E si sa cosa può capitare in galera ai più giovani. Per questo ci siamo arrabbiati. Lui, quando è stato condannato, e ha pensato di dover tornare dentro, era distrutto. E voi, come sciacalli, vi siete avvicinati. L’abbiamo solo difeso. Abbiamo urlato, minacciato. E allora? Se davvero avessimo voluto scatenare la rissa, tanti com’eravamo, non ci saremmo riusciti?. Singolare autodifesa, figlia di un’idea del diritto e delle leggi evidentemente elaborata in proprio. Il giorno dopo la sentenza che ha assolto per insufficienza di prove Daniele Formaggia e Antonio Lamiranda, e condannato Luca Bonalda a sette anni, rimettendolo subito in libertà, per gli ultras milanisti non è cambiato nulla. E’cresciuta anzi la sfiducia: giornalisti, giudici, poliziotti sono nello stesso calderone. Hanno condannato un innocente, rovinato per sempre la vita di tre giovani, distrutto le famiglie. Anzi i giornalisti sono i peggiori, perché con la loro sete di disgrazie, hanno convinto le altre due categorie a essere sempre più spietate. Questa è la diagnosi che i tifosi si ripetono nei bar, spiegano al telefono, discutono alle riunioni. E così, l’aver trasformato il tribunale in una curva è stato per loro un atto legittimo. Anzi, l’unico modo per difendersi dall’ingiustizia, di far sentire la loro condanna al resto del mondo. Infatti, dalla loro parte ci sono, soprattutto in questo caso, i buoni, le vittime, gli innocenti. Gli altri, quelli che non fanno parte del clan rossonero, sono quanto meno in malafede. E una brutta figura, secondo gli ultras, ha fatto anche il Milan. La società che ha cercato di rilanciare il calcio spettacolo, di sdrammatizzare le partite, e che attraverso Canale 5 ha mandato in onda gli spot contro la violenza negli stadi, questa volta è rimasta dietro le quinte. C’era stata, nelle ore successive alla morte di Antonio De Falchi, una dichiarazione di Paolo Taveggia, che aveva detto ai capi degli ultras: Da domani avrete la patente di assassini. Tutti, dalle vostre madri ai vostri datori di lavoro, potrebbero disprezzarvi. Se vogliamo che questo non accada, bisogna eliminare i deficienti. Deve scattare lo stesso meccanismo che ci aveva permesso di individuare Luigi Sacchi, quello che lanciò il petardo contro il portiere della Roma Tancredi. Poi, c’è stato un black-out. Da parte della società rossonera non c’erano state più né critiche né aiuti. E agli ultras questo disinteresse non è andato giù. Si sono sentiti ancora di più un gruppo esposto a qualsiasi tempesta. E criminalizzati. Lo stadio è solo lo specchio della società: Trent’anni fa, dicono, nessuno sparava nelle rapine. Ora, se qualcosa va storto, i rapinatori ammazzano. E’peggiorata la qualità degli episodi criminali, forse ovunque tranne che allo stadio, dove ancora non ci sono state sparatorie.... Un’equazione che fa paura. Questo clima, questa voglia di autoisolamento è peggiorato durante i quaranta giorni di carcere dei tre tifosi. Per i rossoneri i responsabili della morte di Antonio De Falchi, della tragedia di un’altra famiglia, non sono mai stati presi. Ne erano convinti dal primo giorno. Forse avevano qualche elemento in più rispetto agli investigatori, forse si trattava di una semplice impressione. Di certo, considerano l’arresto come la classica sporca storia. Sono convinti, insomma, che i poliziotti hanno arrestato i primi rossoneri che si sono trovati davanti. Avrebbero scelto a caso tre tifosi da buttare in pasto alla pubblica opinione. E così ecco pronti i loro amici. Diventano i killer, gli assassini, i vigliacchi teppisti. Bonalda, che ha il cranio rasato, Lamiranda, che aveva la cintura dei pantaloni arrotolata al pugno, Formaggia, tesserato dal Milan con il pass del servizio d’ordine, diventati i burattini nelle mani della polizia. La Digos continua nell’indagine, chiede l’aiuto dei capi della curva. Ma agli ultras bastano poche discussioni per decidere, nonostante la preghiera di Taveggia, di non collaborare. Abbiamo capito, fanno sapere, che loro non volevano i veri colpevoli, volevano solo aggiungere nomi nuovi a quelli che già avevano arrestato. Ci volevano fregare, e noi non ci siamo stati. La stessa mancanza di fiducia c’è da parte dei tifosi nei confronti del giudice istruttore, che ha rinviato a giudizio i tre, senza scarcerarli. E, infine, ecco per gli ultras lo scandalo, l’imbroglio evidente, la scorrettezza di quel processo in Corte d’assise. Due tifosi non sono stati visti da nessuno. E l’altro, Bonalda, stava seduto sul cemento, con quelli che sono poi partiti verso i romanisti, ma chi l’ha visto inseguire e picchiare? Quanto contano le parole dei romanisti? Giovedì, considerato che non potevano condannarli tutti, se la sono presa almeno con uno, è il giudizio di uno dei tifosi che non ha perso neanche un’udienza. La bagarre però non scoppia contro la Corte, ma gli ultras si accaniscono, a parole, contro i giornalisti, considerati faziosi avvoltoi. Ma noi, continua il rossonero, siamo stati persino troppo poco violenti rispetto alle vostre descrizioni, sin troppo civili. La nostra unica gioia è stata quella di poter riabbracciare i nostri amici ieri, quando sono usciti dal carcere. Tutto il resto non c’interessa. Tutto il resto per loro non c’è, non vale.