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Du selbst ein Nichts geworden (Tu stesso divenuto un nulla): funzione del sintomo e clinica del vuoto nel Caso Ellen West di L. Binswanger di Valentina Sturli 1. Introduzione Il Caso Ellen West, pubblicato da Ludwig Binswanger nel 1944, rende conto della storia clinica di una paziente ricoverata a Kreuzlingen dal gennaio al marzo 1921 e suicidatasi quello stesso anno. Il clinico svizzero stabilisce una diagnosi di schizophrenia simplex pur in assenza delle manifestazioni eclatanti di allucinazioni e deliri. La decisione è presa, su base fenomenologica, a partire dal riconoscimento nella paziente di una progressiva chiusura esistenziale che la porta a non essere più nel mondo ma a collocarsi irrimediabilmente fuori da esso (Binswanger, 1944/ 20112). Il Caso è stato variamente interpretato, letto, studiato e criticato negli ormai settant’anni dalla sua pubblicazione, e tuttavia ha ancora molto da dire. Tra i suoi commentatori troviamo nomi illustri: Rogers (cit. da Mistura, pref. a Binswanger, 1944/2011) che ha fortemente criticato alcune scelte terapeutiche di Binswanger, così come Laing (1982); nel suo libro sull’anoressia mentale M. Selvini Palazzoli (1963) fa cenno al Caso in relazione al problema del suicidio tra le pazienti affette da anoressia mentale. Recentemente, Recalcati (2002) ha utilizzato il caso di E. West per mettere in luce i tratti psicotici e di «desiderio del vuoto» insiti in queste forme psicopatologiche. In area germanica (Hirschmüller, 2003; 2007) è stata da poco pubblicata una consistente parte del materiale lasciato dalla paziente: diari, lettere, un dattiloscritto con l’inizio di un’autobiografia. In area italiana, è da segnalare un recentissimo lavoro che apporta nuove interessanti riflessioni su alcune parti del materiale pubblicato (Bettoni Pojaghi, Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo, 2013)1. L’intento del presente articolo è proporre una lettura del materiale clinico del Caso Ellen West a partire da una prospettiva psicoanalitica, con lo scopo di approfondire il discrimine tra processi di natura nevrotica o psicotica in pazienti in cui, come in questo caso, non siano evidenti manifestazioni deliranti o allucinatorie. Mediante l’analisi delle angosce della paziente, così come testimoniate dai diari e dal resoconto clinico, cercheremo di stabilire la presenza di angosce nevrotiche di castrazione (livello edipico) o psicotiche di annichilimento (livello pre-edipico) (McWilliams, 1994/1999; Bergeret, 1996/2002 2). Discuteremo se il disturbo Una notevole porzione del materiale è ancora contenuta, inedita, nell’Archivio dell’Università di Tubinga (N. VAT 702), e l’augurio è che un giorno possa essere portato all’attenzione degli studiosi della comunità internazionale. 1 1 di Ellen West possa essere fatto rientrare nella sfera delle psicosi non scatenate prendendo in esame cinque possibili indici proposti in letteratura (Recalcati, 2002). Proponiamo di leggere il sintomo anoressico di Ellen West come «manovra» per contrastare e organizzare un livello di angosce psicotiche e vuoto non significantizzato. Avanziamo l’ipotesi che le manifestazioni del sintomo svolgano una funzione compensativa rispetto allo scatenamento psicotico, e in questo senso prenderemo in esame funzioni analoghe di pratiche e sintomi nella letteratura psicoanalitica degli ultimi trent’anni (Cohen e Jay, 1996; Farber, 2008; Kilchenstein, 1998; Latzer e Gerzi, 2000; Nissen, 2012; Tustin, 1986/2012). Proponiamo in conclusione l’analisi di una parte specifica del materiale clinico (l’utilizzo di lassativi e tiroidina) per suffragare le nostre ipotesi. 2. Caso Clinico Ellen West, pseudonimo scelto da Binswanger per una ricca paziente di origini ebraiche, nasce da una famiglia illustre in cui si registrano casi di malattia mentale. Sin da piccola mostra una notevole oppositività di carattere, attacchi di rabbia, rifiuto di cibo. Il padre è un uomo d’affari piuttosto rigido, incline a momenti di depressione, la madre appare come una persona sensibile e sottomessa. Nei diari dell’adolescenza Ellen scrive di sentirsi destinata a grandi imprese, di stare stretta nella condizione di donna che le viene imposta. Ha la passione degli sport, non disdegna gli esercizi pericolosi e volentieri si mette in situazioni di rischio. Nello stesso periodo i suoi diari registrano momenti di grande sconforto: la sensazione di non essere niente, di essere soverchiata da ingiuste norme sociali, la paura di una catastrofe incombente e senza nome. A vent’anni, di ritorno da un viaggio in America (in cui pare aver intrecciato una prima relazione amorosa subito troncata per volere del padre), si ferma per una vacanza in Sicilia. Sta bene in salute e mangia con appetito, tanto che ingrassa visibilmente e alcune amiche – percepite come figure superiori, eleganti ed eteree – glielo fanno notare con sarcasmo. Cominciano così le diete e gli esercizi ossessivi: è il primo manifestarsi del sintomo anoressico che l’accompagnerà per tutta la vita, alternandosi a fasi bulimiche. Negli anni successivi Ellen si prepara privatamente per l’esame di maturità, sottoponendosi a sessioni estenuanti di studio, ma fallisce. Si iscrive quindi come uditrice all’Università e incontra un giovane studente con cui intreccia una relazione. Compie lunghe marce a piedi, e il pensiero di prendere peso la ossessiona continuamente. Percepisce lo studente – con cui nel frattempo si è fidanzata – come un tipo etereo, biondo, spirituale, e vuole tentare di tutto per dimostrarsi alla sua altezza. Ingrassare, invecchiare, morire significa perdere tutto questo. Comincia a fare crescente uso di pastiglie di tiroidina per dimagrire ulteriormente, i periodi di rifiuto del cibo si fanno più lunghi. Poco dopo il fidanzamento va a monte, probabilmente per 2 pressioni della famiglia (Hirschmüller, 2005): i sintomi si intensificano, per quanto la paziente non sembri esprimere rimpianto. Ellen, che adesso ha ventitré anni, comincia a essere oggetto del corteggiamento di un cugino, Karl; persona solidamente inserita nel mondo, con un buon lavoro e gradito alla famiglia, la sposerà tre anni dopo. I primi anni di matrimonio trascorrono tra fasi di aggravamento del sintomo e il desiderio di dare un figlio al marito. La paziente tiene diari e ad ogni pagina tenta di analizzare quella che definisce la sua «idea fissa». Ha paura del cibo, del proprio desiderio di mangiarlo, della voracità, e si sente sotto scacco: soprattutto, la deprime e preoccupa l’idea che lei – che si sentiva destinata ad alte imprese e a realizzare progetti significativi – si trovi invece intrappolata in pensieri angosciosi quanto ridicoli come il computo ossessivo delle calorie, la paura dei cibi grassi, una congerie di rituali simil-ossessivi. L’attività frenetica, scrive, le serve per stordirsi, come pure l’incessante pensare al cibo: fermarsi sarebbe come morire e tuttavia le privazioni a cui si sottopone cominciano a minarla seriamente. L’unica gravidanza che ha si risolve molto presto in un aborto, probabilmente per le cattive condizioni di salute. E così inizia una serie di ricoveri e cure in cliniche prestigiose, stazioni termali, consulti con illustri internisti e psichiatri. Ellen oscilla notevolmente di peso, tra i quaranta e i settanta chili, sente che ogni suo sviluppo interiore è cessato, e che tutto ormai è in lei solo una orribile desolazione. Ha crisi di agitazione, cui seguono giorni di confuso torpore. A trentadue anni e mezzo intraprende una prima cura psicoanalitica, che viene interrotta pochi mesi dopo. Verso la fine dello stesso anno, un nuovo tentativo psicoanalitico naufraga miseramente, e la paziente tenta più volte il suicidio. Nel dicembre di quello stesso anno, dal momento che la situazione è critica, viene deciso un consulto con Kräpelin, che diagnostica una melanconia. Le condizioni della paziente peggiorano ulteriormente, finché, all’inizio del nuovo anno, il medico internista spinge per un ricovero nella clinica Bellevue di Binswanger, a Kreuzlingen. Ellen vi trascorrerà gli ultimi tre mesi della sua vita. Verso la fine di questo periodo, l’aggravarsi delle condizioni della paziente fa decidere per un consulto con Bleuler da Zurigo e Hoche da Friburgo. La diagnosi sarà di schizophrenia simplex, a sicura prognosi infausta e decadimento progressivo. Una volta conosciuto il destino cui va incontro, il marito e la paziente chiedono e ottengono le dimissioni dalla clinica. Pochi giorni dopo, a seguito di un pomeriggio trascorso in maniera inusualmente serena, Ellen West prende una dose mortale di veleno e si uccide2. 3. Diagnosi 2 Alcuni dati accessori rispetto a questi possono essere ricavati dalla ricostruzione di Hirschmüller (2003; 2007): Ellen West fu in cura presso la clinica Bellevue di Binswanger dal gennaio al marzo del 1921, così la morte va datata al 4 Aprile 1921. Al momento della morte Ellen West ha trentaquattro anni, ne ha trentadue e mezzo quando comincia la prima analisi con V.E. von Gebsattel (febbraio – agosto 1920). La seconda analisi viene intrapresa a Monaco con H. von Hattingberg. 3 Secondo i parametri del DSM-V (APA, 2013), la diagnosi psichiatrica più plausibile è quella di Anoressia Nervosa (Asse I) e Disturbo Borderline di Personalità (Asse II). La paziente, almeno stando al resoconto del clinico, non ha mai presentato manifestazioni chiaramente deliranti o allucinatorie. Non sussistono i criteri per diagnosticare un Disturbo Bipolare poiché, a quanto rileva Binswanger, non sono mai state registrate manifestazioni di umore insolitamente elevato per un periodo di tempo considerevole. Alla stessa maniera, può essere esclusa la Fobia Specifica, che riferita al cibo giustificherebbe tutt’al più solo la parte di repulsione, ma non – ovviamente – quella di attrazione. La coazione a pensare al cibo potrebbe far pensare a un DOC, ma non è mai registrata una significativa presenza di rituali o compulsioni atti a scongiurare la possibilità di mangiare anche se la presenza di tratti ossessivi in tutta una serie di manifestazioni cliniche non è da trascurare. Sono invece perfettamente adempiuti tutti i criteri per la diagnosi di Anoressia Nervosa con sporadici episodi di Abbuffate/Condotte di Eliminazione, così come quelli di Disturbo Borderline di Personalità: basti ricordare, oltre alla marcata sensibilità all’abbandono (il marito deve essere sempre con lei), l’instabilità delle rappresentazioni buono/cattivo dei componenti della famiglia, dei terapeuti, dell’ambiente sociale, l’abuso di sostanze potenzialmente dannose (tiroidina, lassativi), i ricorrenti tentativi e minacce di suicidio, l’instabilità affettiva che però non sfocia mai in un conclamato disturbo dell’umore, i pervasivi sentimenti di vuoto, le difficoltà a controllare gli impulsi. Che Ellen West possa essere definita borderline alla luce della vulgata psichiatrica attuale – almeno all’interno di quelle cornici teoriche che riconoscono la possibilità di questo tertium genus tra psicosi e nevrosi –, è riscontrabile dalla sovrapposizione tra i criteri del DSM-V (APA, 2013) e gli elementi della sua storia clinica. Il problema è che con questo termine si sono intese e si continuano a intendere una miriade di configurazioni cliniche, proprio dal momento che borderline significa «limite» o «linea di confine»: «una persona può avere una nazionalità o essere un apolide, ma è difficile immaginare che possa essere una frontiera» (Green, 1990/1991, p. 92). In questo senso, la diagnosi di Binswanger è significativa: benché i tempi fossero ancora lontani dalla grande riflessione psicoanalitica sul problema degli stati limite, che ha avuto la sua fioritura soprattutto a partire anni ’70, si può notare che le alternative prese in considerazione sono molteplici, e oscillino tra l’area della nevrosi e quella della psicosi. Come a dire che risulta in fondo problematica la natura di un disturbo per molti versi non eclatante dal punto di vista sintomatologico (oltre al rifiuto di assumere cibo, nessun delirio né disorganizzazione del pensiero e linguaggio) e che tuttavia, nella progressiva chiusura rispetto al mondo, nell’imballarsi del pensiero sul tormento permanente del cibo, nella marca di sfinimento esistenziale, lascia intendere qualcosa di più di una natura nevrotica. 4 Una delle prime alternative che Binswanger prende in considerazione è un disturbo di tipo isterico, subito scartato perché non sono osservabili sintomi di conversione o amplificazione isterica. Una seconda alternativa, si interroga il clinico, è forse quella di ricondurre il disturbo a una forma di tossicomania, o brama morbosa? Binswanger prova a accostare la fame di Ellen West alla fame di morfina del morfinomane cronico, o al bisogno coatto dell’alcolista: è bisogno di riempire un vuoto esistentivo, quello della paziente, un bisogno che non si colma mangiando e che permane, esattamente come il desiderio della bottiglia resta nell’alcolista anche dopo aver bevuto. In questo caso, Binswanger mostra una sorprendente consonanza con spunti della clinica più recente in cui in varia maniera sono stati individuate strette parentele tra l’addiction al cibo nei disturbi alimentari ed altri tipi di tossicomanie, laddove tutti sarebbero da ricondurre ad un ceppo comune di brama di godimento perenne e senza legge (Recalcati, 1997; 2002; 2003; 2010)3. Benché Ellen West descriva la coazione costante a pensare al cibo, il clinico esclude l’ipotesi di un disturbo delirante, così come di una nevrosi coatta (DOC) e di una psicosi maniaco depressiva, che era stata la diagnosi di Kräpelin; decide infine, e senza alcun dubbio, per una diagnosi di schizophrenia simplex. Già sistematizzato qualche anno prima da Bleuler (1911/1985) questo nuovo impianto diagnostico non ritiene più necessari per la diagnosi di schizofrenia i classici cardini della nosografia di Kräpelin: arresto psicomotorio per la forma catatonica, esordio precoce e bizzarrie di comportamento per la forma ebefrenica, deliri strutturati per la forma paranoide. Come si vede, una paziente come Ellen West non potrebbe essere inclusa a rigore in nessuno di questi casi: ci sono forti tratti di iperattività nella sua storia clinica, momenti di torpore e confusione, pensieri ossessivi e paura di cadere preda di forze incontrollabili, ma niente che assomigli ad un delirio franco e strutturato, una qualsiasi bizzarria di comportamento se si esclude ciò che riguarda l’ossessione del cibo e la magrezza. In questo senso, lo stesso Binswanger si interroga a lungo – come molti dopo di lui4 – sulla diagnosi di una forma che, pur essendo definita schizofrenia, non presenta nessuno dei sintomi usuali. Conia per questo l’ulteriore precisazione di polimorfa. Alla fine la diagnosi completa sarà forma polimorfa di schizophrenia simplex: una schizofrenia senza perdita dell’efficienza intellettiva, sottosoglia, con «sintomi apparentemente psicopatico-anancastici, nevrotico-coatti, «isterici» o «nevrastenici», «“Sono l’eroina di me stessa” mi diceva una giovane paziente mettendo in evidenza come l’immagine del corpo-magro fosse un’immagine che accechi l’anoressica allo stesso modo di come la droga (l’eroina) accechi il tossicomane» (Recalcati, 2002, p. 50). 4 Penso soprattutto a Blankenburg (1971/1998) e al dibattito della psichiatria fenomenologica in merito al «disturbo fondamentale» della schizofrenia e all’eventuale possibilità di meglio coglierlo proprio nelle forme residuali o paucisintomatiche. 3 5 tendenza alla tossicomania» (EW. p. 2055). Ma allora, è lecito chiedersi: perché schizofrenia, cioè una diagnosi di sicura psicosi? Perché non piuttosto nevrosi? La risposta di Binswanger è da ricercarsi in un preciso quid che egli definisce, in una prospettiva fenomenologico-esistenziale, come offuscarsi del mondo, soffocante accerchiamento (EW, p. 189), vuoto esistentivo (EW, p. 197): in una parola, il processo di mondificazione [Verweltlichung], ovvero un progressivo e pervasivo senso di irrealtà e passività che la paziente prova davanti al mondo, il senso di non farne parte e non poterne far parte in alcun modo, il netto rifiuto a vivere in prospettiva del presente e l’atrofia in una dimensione di passato-futuro. È il senso di progressivo restringimento di qualsiasi orizzonte immaginativo ed esistenziale a condannare la paziente a quella chiusura esistenziale totalizzante (EW, p. 197) che fa propendere il clinico per l’area della psicosi. Il senso di vuoto rappresenta in questo senso uno dei cardini della diagnosi. Il mondo di Ellen West è, secondo Binswanger, caratterizzato dal rifiuto, un rifugiarsi prima nella fantasticheria, poi in sé e infine nel desiderio di morte. Nei diari leggiamo [corsivi miei]: [Annotazione di Binswanger al tempo del ricovero della paziente a Kreuzlingen] «Disposizione d’animo: disperazione senza limiti. […] Si ha l’impressione che la paziente si trovi non tanto in un vero stato depressivo, quanto che si senta psichicamente vuota e spenta, completamente vacua» (EW, p. 42); «Il sole splende, ma dentro di me c’è il vuoto. […] Che significa questa orribile sensazione di vuoto? […] Orrenda sensazione di vuoto. Orrenda paura di questa sensazione. Non trovo nulla che riesca a placarla» (EW, p. 27); «Mi sento esclusa da ogni vita reale. Sono del tutto isolata. Vivo chiusa in un globo di vetro […] le mie mani urtano contro le pareti del mio globo di vetro» (EW, p. 32); «Per me non c’è più nulla di allettante nella vita. Non c’è nulla, dovunque guardi, che possa trattenermi. Tutto è grigio e senza gioia. Da quando mi sono sepolta in me stessa e non posso più amare, l’esistenza è soltanto un tormento» (EW, p. 34). Sin dall’adolescenza, Ellen soffriva di un’oppressione caratterizzata dalla sensazione che fosse tutto vuoto; le fantasticherie, l’aspirazione a librarsi in una sfera più «eterea» dell’esistenza – e, in modo complementare, l’orrore di essere inghiottita da un mondo tombale, greve e mortifero – sarebbero l’espressione di una genuina incapacità di restare «saldamente coi piedi sulla terra» (EW, p. 61). Progressivamente, il senso di essere nulla (EW, p. 66) invade la paziente, che percepisce ovunque barriere che limitano la sua esistenza, mentre ogni cosa all’esterno diviene sempre più sinistra e il Sé è costretto a vegetare come un verme della terra (EW, p. 75). Da qui in poi la sigla EW sarà utilizzata per contrassegnare le parti citate direttamente da L. Binswanger, Il Caso Ellen West, Torino, 20112. 5 6 Da una prospettiva psicoanalitica possiamo chiederci le ragioni di questa immagine di sé e del mondo, a che tipo di angosce essa vada ricondotta: sappiamo in proposito che l’analisi del tipo di angoscia può essere fondamentale ai fini della diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi (Bergeret, 1996/20022). Recalcati (2010) mette in luce come tratto distintivo dell’anoressia psicotica la rigida affermazione di sé contro il timore di essere ridotti a oggetto rispetto al mondo e alla volontà altrui: un fondamentale timore di essere sopraffatti senza speranza, perseguitati ed inglobati da un Altro che non lascia scampo e non concede limiti. In questo senso, la parentela con il concetto di mondificazione utilizzato da Binswanger è evidente: si tratta di un modo di non essere-nel-mondo, un’aspirazione all’annullamento per certi versi analoga al principio del Nirvana di Freud (1920). Scrive Binswanger: «La positività del nulla ha un senso esistentivo del tutto precipuo, che consiste precisamente in questo: quando la presenza si consegna o è consegnata al nulla – qui, ancora una volta, ci troviamo al di là della colpa o del destino – essa vive non solo nell’angoscia dell’esserci, ma, cosa strettamente connessa con la prima, nell’assoluto isolamento» (EW, p. 96). È la fondamentale aspirazione al vuoto, il lacaniano «desiderio della larva»: «l’anti-praxis, la passività più passiva di fronte alla tensione vitale dell’esistenza» (Recalcati, 1997, p. 67). Distinguere tra nevrosi e psicosi significa tracciare una linea tra angosce di castrazione e ben più pervasive angosce di annichilimento, tra una risposta difensiva ed una di annullamento totale, tra una difesa che tiene ancora in vita il soggetto – se pure zoppo e orbato di gran parte della sua funzionalità – o scegliere invece una via non-vitale, la barriera assoluta nel cui annullamento «bianco» ogni esistenza si spegne e desertifica. Il Caso Ellen West, prestandosi con la sua complessità a questo tipo di indagine, apre le porte all’indagine del «bordo» su cui si gioca questa partita. Apre l’indagine e contemporaneamente, come per ogni confine che si rispetti, costringe a un’interrogazione passibile di rimanere senza risposta. 4. Vuoto, mortificazione, simbiosi: una psicosi non scatenata Una recente lettura del sintomo anoressico di Ellen West (Recalcati, 2002) ascrive il devastante senso di vuoto, insieme al ritiro dal mondo, a un sottostante sfondo psicotico. Esisterebbero, secondo Recalcati, alcuni indici che possono orientare con un certo grado di affidabilità la valutazione diagnostica in caso di psicosi non scatenate: il che può tornare molto utile in un caso, come quello di Ellen West, in cui non sembra essere in primo piano tutta la serie delle franche manifestazioni psicotiche. Vediamone alcuni, e di seguito proveremo ad applicarli al materiale clinico del Caso per vedere se possano essere registrate assonanze. 7 1. 2. 3. 4. 5. Presenza di una dimensione di mortificazione reale e non simbolica del soggetto. Le pratiche che vengono attuate devono avere una matrice reale, cioè essere inflitte al corpo in modo diretto: possiamo pensare al dolore mediante tagli, percosse autoinflitte, esercizi estenuanti. Vuoto non significantizzato: deve cioè essere presente una dimensione di vuoto che il soggetto manifesta e di cui eventualmente si lamenta, senza inscrivere questo tipo di percezione in un orizzonte di senso più vasto, dargli una forma esistenziale, trattarlo come un elemento che ha una radice simbolica. Uso anaclitico dell’immagine dell’Altro, cioè tendenza ad instaurare relazioni simbiotiche caratterizzate da un bisogno incondizionato di «appoggiarsi» all’altro, che non viene riconosciuto come tale, ma trattato come una parte di sé assolutamente non distinta. Pratiche e operazioni che hanno la finalità di introdurre nel reale del corpo la funzione della castrazione, poiché essa non si è potuta esercitare simbolicamente: in questo senso, oltre ad elementi che riportano al primo punto di questo elenco, sarà possibile indagare anche tutta quella dimensione dell’acting riconducibile alla manifestazione di sentimenti, affetti, disagio su un piano puramente agito, iperattivo e non mediato dalla funzione simbolica del pensiero. Presenza, nella storia del soggetto, di una serie di sradicamenti, di cambi improvvisi di direzione, di erranze, di difficoltà a inscriversi in un legame sociale stabile. Per quanto riguarda la presenza di una dimensione di mortificazione reale che il soggetto si auto infligge, è possibile pensare a tutta quella costellazione di pratiche molto frequenti nell’anoressia – e ben attestate nel Caso Ellen West –, dove troviamo esercizi estenuanti e lunghissime marce in montagna (al termine di una di queste Ellen West subirà un aborto spontaneo), percosse al proprio ventre e al corpo quando si guarda allo specchio, l’utilizzo di purghe e lassativi che provocano evacuazione forzata e dolorosa. Anche l’esposizione continua a gravi rischi per la salute, come quando durante una febbre altissima la paziente esce di casa sotto la pioggia sperando di ammalarsi ancor più gravemente e morire (per avere così finalmente sollievo dal suo sintomo), può essere ricondotta a questo tipo di livello. Una difficoltà di significantizzazione dell’esperienza dell’angoscia e del distacco è invece rintracciabile nei diari, dove tornano spesso riferimenti a un senso di annichilimento, di disintegrazione, isolamento rispetto al mondo. In questo senso, la difficoltà di significantizzazione sembra consistere nel fatto che difficilmente la paziente porta a coscienza – e descrive – un qualche tipo di manifestazione che leghi il senso di vuoto, di buco fisico, a qualche tipo di esperienza più facilmente comprensibile sul piano mentale: non viene mai praticamente fatto riferimento a conflitti 8 interpersonali, senso di tristezza, preoccupazione per la propria vita o la famiglia. Il sintomo è trattato come qualcosa di esterno ed estraneo, non comprensibile, che balza sopra la paziente come un animale feroce e le fa fare cose che sono tutto il contrario di quel che essa vorrebbe. Si sente impotente a resistere, mentre le «forze malvage» con cui deve fare i conti sono concettualizzate come serpi e incubi (EW, p. 13), pensieri e spiriti maligni (EW, p. 14), putredine (EW, p. 14), sordide anime gialle (EW, p. 14), topi e spettri (EW, p. 15), belve (EW, p. 26), Erinni (EW, p. 33), incubo tenebroso (EW, p. 34), nemici (EW, p. 35), sortilegio e prigionia (EW, p. 35), forze sinistre (EW, p. 36), nubi (EW, p. 36), uccelli neri (EW, p. 44), donna dalla nera chioma che getta nell’abisso spalancato (EW, p. 44). Mancano rifermenti ad un livello successivo di elaborazione mentale e simbolica; le immagini non vengono mai decrittate nel senso di un qualche evento reale; nello stesso tempo, si noterà che esse sono per la maggior parte espressione di forze soverchianti, subdole, indefinite, potenzialmente letali e sinistramente inafferrabili. In un recente lavoro, Hurvich (2003) ha raggruppato sotto la definizione di annihilation anxieties alcuni gruppi di angosce caratteristiche di un livello psicotico: quello che le accomuna è il senso di disintegrazione dell’Io, l’essere sopraffatti, il timore della perdita dei normali nessi associativi. In questa prospettiva, le angosce di annichilimento possono essere ricondotte a sottogruppi che fanno riferimento a: paura di perdere il controllo, essere intrappolato o divorato; paura della disintegrazione del Sé, dell’essere vuoto; angosce di abbandono; angosce di persecuzione, catastrofe. Se scorriamo le pagine del Caso Ellen West, ci imbattiamo frequentemente in descrizioni molto simili a quelle fornite da Hurvich [corsivi miei]: a) Paura di perdere il controllo: «Quando su di noi incombe la minaccia del crollo di tutto ciò che tiene insieme il nostro mondo, quando è spenta la luce della nostra felicità e appassita è la nostra gioia di vivere, una cosa ci salva ancora dalla follia: il lavoro»(EW p. 7); «In me c’è infatti una tale rivolta e un tale fermento che devo aprire una valvola di sicurezza se non voglio esplodere perdendo ogni freno e diventando aggressiva» (EW, p. 12). b) Paura di essere intrappolato o divorato: «Mi sento esclusa da ogni vita reale. Sono del tutto isolata. Vivo chiusa in un globo di vetro» (EW, p. 32); «I sentimenti d’angoscia si fanno sempre più frequenti e, soprattutto, compare ora la molesta coazione a dover pensare continuamente al cibo. Definisce i sentimenti d’angoscia “spettri che mi balzano senza posa alla gola”» (EW, p. 23). c) Paura della disintegrazione e dell’essere vuoto: «Il sole splende, ma dentro di me c’è il vuoto. […] Che significa questa orribile sensazione di vuoto? Questo spaventevole sentimento di scontentezza che mi assale dopo ogni pasto? Il cuore mi manca, lo sento fisicamente, è una 9 sensazione di indescrivibile squallore. […] Orrenda sensazione di vuoto» (EW, p. 27). «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a un estraneo: ho paura di me stessa, ho paura dei sentimenti di cui incessantemente cado preda senza poter difendermi. Questo è l’aspetto atroce della mia vita: essa è colma di angoscia. Angoscia del mangiare, angoscia della fame, angoscia dell’angoscia. Dall’angoscia può liberarmi soltanto la morte.[…] Ogni giorno è come camminare su una cresta vertiginosa, un eterno mantenersi in equilibrio su degli scogli» (EW, p. 29). d) Angosce di abbandono: «Mangiando io cerco di soddisfare due cose: la fame e l’amore. La fame viene appagata – l’amore no! Resta quel gran buco non riempito» (EW, p. 29). e) Angosce di persecuzione e catastrofe: «Quest’ossessione è diventata la maledizione della mia vita, mi perseguita nel sonno e nella veglia, è presente in tutto quello che faccio, come uno spirito maligno, e non posso fuggirla in nessun momento, in nessun luogo. Mi perseguita come le Erinni perseguitano l’omicida, riduce il mondo a una caricatura e la mia vita a un inferno» (EW, p. 33). «È ancora notte, e regna il caos come mai prima d’ora» (EW, p. 30). La terminologia per determinare questo tipo di angosce è varia nella letteratura psicoanalitica dell’ultimo mezzo secolo: psychotic anxietis (Klein, 1952/1978), unthinkable anxiety (Winnicott, 1963/1995; 1971/1972), annihilation anxiety (Little, 1986/1994; 1990/1993), nameless dread (Bion, 1967/2009), basic fault (Balint e Balint, 1968/1995), cataclysmic catastrophe (Tustin, 1986/2012; 1990/1991). Tutti gli autori appena citati appartengono ad una tradizione psicoanalitica che prevede la possibilità di compresenza, all’interno di uno stesso individuo, di un livello nevrotico e uno psicotico della personalità, di estensione e pervasività variabile a seconda delle vicende di integrazione e sviluppo personale. Nonostante questo sia in controtendenza con la prospettiva da cui altri studiosi hanno provato a dare conto del Caso (si veda ad es. Recalcati, 2002; 2010) negando strutturalmente la possibilità del tertium genus borderline, penso possa essere interessante notare come le descrizioni cliniche di questo tipo di angosce psicotiche coincidono significativamente in tutti quanti gli autori citati. Per Winnicott (1963/1995) si tratta di tracce di timori non mentalizzabili risalenti ai primi livelli dell’esperienza infantile: ritroviamo il difetto di significantizzazione, il timore del ritorno ad uno stato non integrato, un paventato crollo dell’autocontenimento, la perdita del senso del reale e della collusione psicosomatica. Sia che si vogliano ascrivere questi angosce ad un livello precipuamente psicotico sia che si pensi di poterne rintracciare la presenza anche in pazienti altrimenti nevrotici, è da notare che il perno è sempre incentrato su confini dell’Io particolarmente labili e precari, facilmente sollecitati dall’insorgenza di pulsioni e bisogno a cui non sanno fare fronte con conseguente necessità 10 di proiettare all’esterno – in un panorama vago e indefinito – tutti gli attacchi contro sé stessi e il corpo che non si riesce a mentalizzare a causa di un certo difetto primario in questo tipo di facoltà. Questi stessi confini labili sono quelli che portano la paziente a dover instaurare relazioni simbiotiche, fusionali e di carattere anaclitico. Secondo Bergeret (1996/20022), la pseudonormalità che caratterizza questi soggetti – il clinico fa parte di una tradizione che riconosce l’area degli stati limite come separata da nevrosi e psicosi -, risponde alla continua necessità di ristabilire, appoggiandosi a un oggetto esterno, un narcisismo labile. Si può pensare però che non soltanto il sintomo – con la sua carica di mortificazione reale – serva a tenere sotto controllo l’angoscia di disintegrazione e ad evacuare affetti e sensazioni intollerabili. È da più parti stato notato che anche un certo tipo di relazioni potrebbero svolgere una funzione analoga. Penso soprattutto alla riflessione di J. Bleger (1967/2010), psicoanalista argentino di tradizione kleiniana, che molto ha indagato il rapporto tra i due fenomeni che definisce simbiosi e autismo. Il primo termine definisce la tendenza ad instaurare una relazione di perfetta adesione con un oggetto esterno, tale che esso non sia distinguibile da sé. In questo senso l’oggetto è trattato come una parte di sé, come una propria estensione e non gli viene riconosciuto alcun diritto ulteriore a un’esistenza separata. Il fenomeno naturalmente è silente, per cui alcune relazioni possono possederne una cerca quota senza che essa venga alla luce; se ne nota piuttosto la presenza nel momento in cui la relazione si rompe, provocando gravi scompensi. L’autismo, invece – precisiamo che questa definizione non ha nessuna consonanza con il ben più noto disturbo infantile, e fa invece riferimento ad una tradizione, inaugurata da Bleuler (1911/1985) per definire stati di ritiro in pazienti adulti – si manifesterebbe nella tendenza ad instaurare, sempre all’interno della stessa relazione e in modo speculare alla simbiosi, una sorta di statuto monadico, una separazione netta che renda inaccessibili dei contenuti mentali (che siano pensieri o sensazioni) all’altra parte. Uno stato di ritiro totale che il soggetto attua come difesa inconscia da paventati stati di fusione e confusione. Anche in questo caso, è nella sfera del corpo che si attua questa fusione simbiotica. Entrambi i fenomeni, simbiosi e autismo, hanno una natura eminentemente narcisistica. Questi concetti sono molto utili nell’individuazione di un uso anaclitico di un certo tipo di oggetto o relazione. Bleger proviene da una tradizione che ammette – anzi, postula – la contemporanea presenza all’interno di uno stesso individuo di parti psicotiche e parti nevrotiche della personalità; in questo senso egli propone che l’instaurarsi di un legame simbiotico serva a tenere sotto controllo e proiettare fuori da sé angosce potenzialmente distruttive; ad evacuarle senza che debbano essere pensate, a bypassare la necessaria strettoia che porterebbe questo tipo di elementi ad essere trasformati in pensiero. 11 Che si sia d’accordo o meno coi presupposti di questo assunto, l’idea che una intera relazione oggettuale possa svolgere funzioni evacuative, e quindi essere trattata in modo diverso da una relazione in cui l’Altro viene riconosciuto come tale, ha importanti implicazioni: in questo senso, come vedremo anche nel nostro materiale clinico, un paziente può presentare una remissione parziale e significativa del sintomo fintantoché si trovi in presenza dell’altro oggetto della simbiosi. La presenza deve essere fisica, e assicurata costantemente. Proprio dal momento che è impossibile simbolizzare il «buco nero» dell’assenza, della mancanza, non appena questa assoluta continuità per qualche motivo si rompe o viene minacciata, ecco che abbiamo nel paziente lo scatenamento e l’affiorare di una serie di angosce psicotiche che portano sul limite dello scompenso: torpore, confusione, agitazione, tentativi di suicidio, acting dirompenti, reazioni aggressive e autolesionismo. Tra le congiunture scatenanti della psicosi anoressica troviamo spesso la rottura traumatica di un certo tipo di relazione simbiotica e immaginaria (Recalcati, 2002) con cui il paziente si protegge dall’invasione soverchiante del reale. Possono bastare oscillazioni anche minime nella presenza di un congiunto o familiare per far peggiorare o scatenare i sintomi: «non domina l’Amore come sentimento della mancanza dell’Altro, […] ma l’esigenza imperiosa della sua presenza. […] Questo può significare che la sua presenza deve essere assicurata in modo assoluto, deve poter essere costantemente presente come presenza, costantemente reperibile nella realtà, altrimenti il transfert può virare verso l’odio e il sentimento della persecuzione poiché l’assenza non può essere in alcun modo simbolizzata e si manifesta al soggetto solamente come “cattiva intenzione”, “malvagità”, “disprezzo”, “rifiuto” dell’Altro» (Recalcati, 2002, pp. 105-106). Nel caso di Ellen West, è possibile ipotizzare che questo tipo di legame sia stato instaurato con il marito subito dopo il matrimonio. Precedentemente, abbiamo traccia di qualcosa di simile anche nel rapporto con l’anziana bambinaia della paziente, anche se nel Caso gli accenni alla donna sono estremamente meno frequenti. Un primo riferimento proprio alla bambinaia risale ai primi tempi della relazione con lo studente (EW, p. 17): la paziente compie lunghe gite in montagna, è entusiasta dello studio, e tuttavia non può stare da sola. La bambinaia deve sempre accompagnarla. Poco dopo la rottura del primo fidanzamento (per volere dei genitori), ha una nuova crisi e trascorre alcuni mesi prima in sanatorio, preda di una profonda depressione. Dopo il matrimonio (EW, p. 22) la paziente torna nella città universitaria dove aveva studiato e ricomincia a frequentare le lezioni, ancora una volta insieme al marito e alla bambinaia. Nel frattempo, intraprende la prima delle sue due terapie psicoanalitiche, anche se velocemente l’umore torna instabile e si intensificano i segni di irrequietezza [corsivi miei]: «nei periodi di assenza del marito, la vecchia bambinaia deve stare con lei». In autunno 12 è ancora insieme al marito e alla balia nella città universitaria dove comincia la sua seconda analisi. L’importanza della presenza fisica costante del marito per l’equilibrio psichico della paziente, e per evitare un vero e proprio esordio psicotico, è attestata dal fatto che, non appena il secondo analista ottiene dalla coppia che il marito lasci Ellen per un periodo sola in città, la paziente manifesta, nel giro di pochi giorni, propositi suicidi, agitazione estrema, momenti di derealizzazione in cui vaga da sola per le strade in uno stato che lo psicoanalista definisce «crepuscolare isterico» (EW, p. 26). Infine, tenta ripetutamente il suicidio e deve essere tenuta sotto stretto controllo. In conformità con i fenomeni attesi alla rottura di una simbiosi, le pagine del diario registrano intense sensazioni di angoscia, una crescente confusione, sensazioni di vuoto, angoscia atroce, confusione totale, miseria senza limiti6. La presenza del marito, se assicurata costantemente e ininterrottamente, ha al contrario un significativo effetto calmante sulla paziente 7 [corsivi miei]: «È facilissimo per il marito entrare in rapporto con lei, non soltanto nel dormiveglia, ma anche quando dorme profondamente»(EW, p. 44). Con il termine entrare in rapporto [Rapport] in questo caso si intende, come specifica Mistura (in pref. a Binswanger, 1944/2011) una particolare forma di comunicazione esclusiva che verrebbe a stabilirsi tra un soggetto in trance ipnotica e chi ha indotto lo stato di trance. Il cortocircuito che si genera per il difetto di significantizzazione, e che non permette di accedere ad una dimensione simbolica della rappresentazione, con conseguente bisogno di inscrivere continuamente nella dimensione più reale e concreta possibile atti rapporti e relazioni, è anche responsabile di quel manifestarsi di una dimensione dell’acting, ripetuto e non mentalizzabile, caratteristica di questo tipo di pazienti. Possiamo davvero dire che questa – a differenza della nevrosi – è una clinica dell’«agire senza pensiero»8, dove l’azione si oppone alla presenza di un pensiero che si sviluppi e permetta al soggetto di inscrivere la sua esperienza in una dimensione simbolica, e proprio per questo necessariamente caduca, dell’esistenza. 6 La rottura improvvisa di una relazione simbiotica comporta «sintomi fisici quali tremori, brividi, sussulti, spaesamento. […] Annientamento dell’io, perdita di integrazione, panico e vari gradi di alterazione della coscienza quali confusione, stato crepuscolare etc. In una fase ancora più avanzata si può produrre una disgregazione psicotica» (Bleger, 1967/2010, p. 138). 7 «In clinica la situazione è decisamente migliorata per la continua presenza del marito, che esercita sulla malata una benefica influenza»(EW, p. 37); «Al momento del ricovero, il 14 gennaio, dopo poche parole la paziente erompe in un altissimo pianto desolato […]. Si reca poi senza fare difficoltà in camera sua col marito, ed è lieta dell’opportunità che subito le si offre di riferire in maniera più circostanziata sulla sua malattia» (EW, p. 38); «Dopo il secondo tentativo di suicidio, l’unico suo pensiero fu che se il marito non fosse tornato immediatamente si sarebbe buttata sotto un’automobile; sempre, quando lui era assente, lo ha pensato ardentemente» (EW, p. 39) [corsivi miei]. Si riscontra quella fortissima esigenza di sameness che caratterizza anche gli stati autistici (Barale e Uccelli, in Ballerini, Barale et al., 2006, p. 164). 8 «Mentre la clinica della nevrosi è una clinica simbolica perché i sintomi contengono un messaggio e sono suscettibili di essere decifrati dall’attività semantica dell’interpretazione, nei nuovi sintomi in primo piano c’è la tendenza del soggetto ad agire attraverso scariche pulsionali […] è una clinica dell’agire senza pensiero, dell’evacuazione» (Recalcati, in Recalcati 2011, p. 29). 13 Nella paziente Ellen West, l’attività del lavoro, le continue ruminazioni sul cibo, sono lì ad evitare nel concreto che la catastrofe si realizzi, che il nonpensiero possa venire in contatto con la parte vuota di sé e generare terrori catastrofici [corsivi miei]: «Quando su di noi incombe la minaccia del crollo di tutto ciò che tiene insieme il nostro mondo […] una cosa soltanto ci salva ancora dalla follia: il lavoro» (EW, p. 7); «A quale fine viviamo – perché tutto ciò? Perché aneliamo, perché viviamo, forse soltanto per marcire, ben presto dimenticati, nella fredda terra? […] E allora balza su svelta, ed è bene per te se qualcuno ti chiama, rincomincia a lavorare con tutta te stessa, sinché non siano spariti i fantasmi notturni» (EW, p. 7). «Soffoca le mormoranti voci nel lavoro! Colma la tua vita di doveri. – Non voglio più pensare» (EW, p. 8). Nel resoconto di Binswanger le attività di Ellen sono accomunate da un tratto compulsivo [corsivi miei]: «Tornata in Europa, comincia ad andare a cavallo […]: nessun cavallo è per lei troppo pericoloso e si misura in gare di salto con esperti cavallerizzi. Come in tutto ciò che compie, anche all’equitazione si dedica “con eccessiva intensità”, come se si trattasse del compito esclusivo della sua vita» (EW, p. 9); «Si dedica con energia e zelo a opere di assistenza sociale, va assiduamente a teatro e legge molto. Ma quando si accorge di essere aumentata di due chili in una settimana, scoppia in lacrime e a lungo non riesce a calmarsi» (EW, pp. 19-10). Il vuoto interiore deve essere continuamente negato per fare posto a una sorta di precario senso di esistenza conferito da attività esterne9. In questo senso, la «minaccia del crollo» è arginata su due fronti: da un lato dall’attività frenetica e a-finalistica con cui la paziente tenta di stordirsi, dall’altra da un fronte di pseudo-pensieri sul cibo che la occupano continuamente e che in qualche maniera le negano l’accesso ad una dimensione di pensiero reale. Se da un lato questa possiamo dire è la sostanza del disturbo, dall’altra il sintomo mai come qui riveste anche quella fondamentale funzione di argine contro lo scatenamento di terrore senza nome. Come leggiamo nei passi appena citati, è la paziente stessa ad essere in qualche modo consapevole che nella sua condizione l’unico modo per mantenere insieme la coesione del «mondo» è appunto dandosi da fare continuamente per riuscire a «non pensare»10. 9 «Nessun cavallo è per lei troppo pericoloso»; «Io non voglio far concessioni! […] voglio fare qualcosa di grande e devo avvicinarmi, almeno un poco, al mio ideale, al mio orgoglioso ideale! Mi costerà lacrime? E sia. Ma che fare, da che parte cominciare? Tutto questo ribolle e palpita in me, sento che sta per spezzare ciò che lo trattiene! Libertà! Rivoluzione!»; «La mia ragione si ribellava e io tentavo, facendo leva sulla mia volontà, di scacciarla da me [l’idea fissa del cibo]. Invano. Troppo tardi» (EW, p. 32). 10 «È completamente dominata dalla sua “soverchiante idea, che da tempo ho riconosciuto come insensata”» (EW, p. 21); «I miei pensieri si volgono esclusivamente al mio corpo, alla mia alimentazione, alle mie purghe» (EW, p. 22); «compare ora la molesta coazione a dover pensare continuamente al cibo» (EW, p. 22); «Per tutta la mattina la fame o l’angoscia di avere fame mi tormentano. L’angoscia di avere 14 L’attività di pseudo-pensiero, la coazione a ruminare e riempire la propria testa di pensieri ossessivi quanto inutili, può essere efficacemente paragonata ad alcuni fenomeni che ritroviamo in altre patologie alimentari: «nella ruminazione continua dell’obesità non c’è tempo per la nostalgia perché l’oggetto è sempre a portata di bocca. […] Un’accumulazione che giunge a trasformare il corpo in un vero e proprio contenitore di rifiuti» (Recalcati, 2002, p. 214). La testa si riempie di rifiuti, accumula pensieri uno sull’altro non al modo dell’a-strutturato caos del delirio – questo sì manifestamente alienante –, imballandosi su un pensiero assoluto come un motore che gira a vuoto. Ellen West tenta di riempire un vuoto e esorcizzarne la presenza nel corpo. Una presenza assoluta e letale da cui non c’è nessuno scampo. In questo senso non c’è più posto se non per lo scarto, ma uno scarto così lontano da sé da non poter mai dire niente al soggetto sulla sua intima verità. Per quanto riguarda alle separazioni traumatiche e alle erranze della paziente, abbiamo alcuni dati inconfutabili: il rifiuto del latte a nove mesi, probabilmente dovuto a una seconda gravidanza della madre che si risolve con la morte del neonato (Hirschmüller, 2005), il trasferimento dall’America alla Germania nel decimo anno di vita, la separazione dalla famiglia e il ricovero del fratello minore in una clinica per malattie mentali, le relazioni d’amore fallimentari. Su queste, soprattutto, possiamo dire alcune cose: la prima, intrecciata prima dei vent’anni durante un viaggio in America viene immediatamente troncata per volere del padre (EW, 10), la stessa sorte tocca poco dopo alla relazione con un maestro di equitazione, che viene definita “infelice” (EW, 15). Da ultimo, la relazione con lo studente: tra alti e bassi e separazioni forzate volute tutte dalla famiglia Ellen ha il tempo di sperimentare più volte la frustrazione delle sue speranze. Dopo il matrimonio, la vita col marito la porta lontano dalla famiglia, a cambiare spesso città, errare di sanatorio in sanatorio e di clinica in clinica, in un tour dove sempre si cerca – senza mai trovarla – la panacea tanto desiderata. Infine, mi sembra non privo di peso, l’esito di entrambe le psicoanalisi intraprese: nel primo caso, quella con Von Gebsattel si interrompe traumaticamente una prima volta (XXX) per una malattia del medico; una seconda volta – definitivamente – per l’infatuazione che questi ha improvvisamente avuto per un predicatore errante. In questo senso, il medico non crede più al potere curativo della fame è qualcosa di orribile: annulla ogni altro pensiero. […] Quando ho fame non posso più ragionare con chiarezza, non posso analizzare nulla» (EW, p. 27); «Una tormentosa inquietudine non mi consente di concentrarmi. Balzo in piedi, corro qua e là, continuo ad andare alla credenza in cui tengo il pane. […] Ma il desiderio di mangiare, questo è insopprimibile. Per tutto il giorno non riesco a liberarmi dall’ossessione del pane. Invade a tal punto il mio cervello che non c’è più posto per nient’altro: non posso concentrarmi né nel lavoro né nella lettura» (EW, p. 27); «Quando al mattino apro gli occhi, tutto il mio strazio è lì, davanti a me. Ancor prima di esser sveglia del tutto penso… al cibo. Ogni pasto è dominato dall’angoscia e dall’eccitazione, un’unica idea riempie le ore tra un pasto e l’altro: quando avrò fame di nuovo? Che voglia proprio adesso mangiar qualcosa? E che cosa? … E così via e così via: mille forme diverse, ma il contenuto è sempre lo stesso» (EW, p. 33); «Mi sento passiva quanto la scena su cui si dilaniano due forze nemiche» (EW, p. 44) [corsivi miei]. 15 psicoanalisi, e ritiene di doverlo comunicare alla paziente. La seconda analisi termina invece quasi di soppiatto, durante le vacanze di Natale: seguendo il consiglio del medico internista, la paziente viene ricoverata nella clinica di Binswanger a tempo pieno. È da notare che anche la seconda analisi doveva essersi già da tempo arenata (Bettoni Pojaghi, Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo, 2013) per una chiara incapacità dell’analista a comprendere e contenere i vissuti della paziente. 5. Il sintomo come oggetto organizzatore del vuoto Abbiamo visto come le manifestazioni del sintomo anoressico in Ellen West, e in generale in pazienti che si trovano in stati analoghi, possano essere meglio comprese alla luce della loro struttura che si basa fondamentalmente su un difetto della capacità di significantizzare e simbolizzare l’esperienza. È possibile anche indagare una seconda dimensione, collegata alla prima come l’ombra al corpo che di necessità la proietta: la dimensione contenitiva del sintomo. Quello che vorrei provare a mostrare è come anche nel Caso Ellen West è possibile rintracciare una funzione del sintomo come tentativo di accedere, in una qualche misura e sempre senza mai riuscirvi completamente, ad una dimensione di coesione. Se inscrivere il taglio nella carne, affamare il proprio stesso corpo serve, in una dimensione psicotica, a tenere a freno l’ansia annichilente di non avere più confini né limiti, possiamo dire con Recalcati (2002) che il sintomo rimane l’ultima mossa per provare a tenere insieme un corpo e una carne che rischiano di diventare completamente alienati. Il sintomo, dunque, come organizzatore del caos 11. Kafkianamente, potremmo dire che è necessario l’esercizio di una quotidiana mortificazione reale per tenere lontano il concreto rischio di metamorfosi. La riflessione psicoanalitica dell’ultimo cinquantennio, pur a partire da posizioni diverse, si è occupata delle angosce di disintegrazione e delle manovre, primitive e massicce, che possono essere attuate per farvi fronte. Particolarmente significativa mi sembra la riflessione di F. Tustin, che come analista infantile si è occupata principalmente delle psicosi autistiche. Dagli anni ’70 Tustin inaugura un filone di ricerca secondo il quale alcune manifestazioni dell’autismo infantile – laddove non sussistano danni cerebrali, e quindi possa essere definito psicogeno – potrebbero essere il risultato di una serie di reazioni difensive primitive e massicce a precoci frustrazioni sentite come soverchianti. Secondo questa prospettiva, se un bambino particolarmente vulnerabile dal punto di vista psicobiologico incontra una madre che – per qualche motivo – tende a non instaurare con lui un buon legame di sincronia nei primi mesi post natali, può vivere come 11 «Il culto anoressico dell’osso, in questi casi, non è il culto simbolico dell’incorporeo, dell’anticarne, ma, al contrario, è ciò che permette alla carne di stare insieme» (Recalcati, 2002, p. 45) [corsivi miei]. 16 catastrofica l’esperienza della separazione. Ciò genererebbe la sensazione di un buco nero, di essere preda di un terrore indicibile. A questo punto, per fare fronte all’ansia annichilente di questo tipo di sensazioni, il bambino opererebbe una precocissima e rudimentale manovra difensiva atta a tagliare qualsiasi ponte sensoriale col mondo esterno, circondandosi esclusivamente di «sensazioni autogenerate che sono sempre disponibili e prevedibili e quindi non possono provocare traumi» (Tustin, 1986/2012, p. 23)12. Questo tipo di sensazioni possono essere elicitate da manipolazione di parti del proprio corpo o oggetti esterni dotati, come vedremo, di precise caratteristiche. Tustin denomina questo tipo di oggetti oggetti autistici. I terrori annichilenti cui il neonato si troverebbe a far fronte non sono molto diversi da quelle che abbiamo definito, con Hurvic (2003), annihilation anxieties. Il «bozzolo» isolante sarebbe a questo punto formato da sensazioni autogenerate, movimenti idiosincratici, stereotipie e automatismi autostimolatori. Tustin assimila questo tipo di reazioni a quelle di congelamento di certi animali (1986/2012, p. 25): «[…] nei soggetti propensi a modalità autistiche di comportamento questo stadio precoce di comunione è stato traumaticamente disturbato. Essi non hanno un nucleo psichico che li tiene insieme, ma un senso di perdita non elaborato, un «buco nero»[…]. Questi soggetti sono terrorizzati da qualsiasi cosa che non sia sotto il loro tirannico controllo. […] focalizzano l’attenzione su “oggetti e forme sensoriali” autoctone (autogenerate). Le risorse e la creatività di cui sono ben dotati vanno in una direzione sterile, poiché hanno generato degli artefatti, non condivisi e non condivisibili dagli altri». La funzione dell’oggetto autistico è quella di isolare sensorialmente il soggetto dai timori annichilenti mediante l’immobilizzazione del corpo e l’ottundimento delle sensazioni 13. Se proviamo a pensare al sintomo come ad un particolare tipo di oggetto autistico, ci accorgiamo di essere di nuovo sulla linea di quanto notato da Binswanger e ipotizzato da Recalcati. Forme e oggetti assolvono una funzione autosedativa (Tustin, 1986/2012; 1990/1991), e sono sempre caratterizzati da un certo tipo di qualità: ritmiche, ripetitive, messe in atto di preferenza in momenti di ansia o forte stress, l’individuo ne ha il controllo assoluto, non sono connesse a variazioni di umore, tendono a tiranneggiare l’individuo e ad assumere una forma pervasiva. L’esame Molte critiche sono state mosse in anni recenti a questo tipo di concezioni riguardo l’eziologia dell’autismo, vedi ad esempio Barale e Uccelli (in Ballerini, Barale, et al., 2006). Gli stessi autori riconoscono tuttavia come potenzialmente valida l’applicazione del concetto di oggetto autistico a tutta una serie di osservazioni cliniche. 13 Facendo l’esempio di una macchinina: un bambino non psicotico può usarla per giocare, farne girare le ruote, avere una sua macchinina preferita. L’oggetto autistico è diverso: si tratta di un oggetto, di solito duro al tatto o comunque solido, che il bambino tiene strettamente chiuso in mano o a contatto con una parte del corpo. È usato in modo bizzarro e idiosincratico, cioè in maniera assolutamente incurante dell’utilizzo condiviso: chiavi, giocattoli, macchinine, cubi sono manipolati, stretti, tenuti a contatto col corpo in virtù delle sensazioni che generano. Il bambino non farà con la macchinina alcun tipo di gioco. La sua perdita può provocare un accesso di collera e angoscia, ma se la macchinina viene sostituita con un’altra o con un oggetto altrettanto duro, questo sarà sufficiente a calmarlo. 12 17 dell’utilizzo dell’oggetto autistico è di grande aiuto nella diagnosi precoce di molti tipi di disturbi. Winnicott (1971/1972, p. 41) riporta il resoconto e i risultati del gioco dello scarabocchio con un bambino fortemente disturbato per una separazione familiare. I risultati del gioco – che consiste nel cominciare un disegno con un tratto di penna, chiedere al bambino di aggiungerne un altro, e continuare reciprocamente così fino a produrre delle figure di varia forma chiedendo al bambino che cosa rappresentino – erano estremamente ripetitivi e indicavano sempre oggetti connessi all’atto del legare: lazo, frusta, frustino, yoyo, laccio con nodo, frustino, frusta. In questo senso, il tema del gioco tendeva ad assumere delle valenze ossessive14. Il filone di ricerca inaugurato da Tustin, che ha registrato negli ultimi venti anni assai significativi contributi di altri studiosi di area anglosassone, indaga l’utilizzo di barriere autistiche da parte di pazienti adulti non manifestamente psicotici che non avessero ricevuto nell’infanzia alcuna diagnosi di disturbo autistico. Nella ricerca di Tustin, infatti, è divenuto sempre più chiaro che anche un certo tipo di pazienti non psicotici può utilizzare sensazioni, oggetti o comportamenti con le stesse finalità e funzioni che hanno gli oggetti autistici. Faccio presente come ho già ricordato che per Tustin e per alcuni autori che hanno raccolto i suoi spunti, è possibile in pazienti nevrotici la contemporanea presenza di “sacche” psicotiche. Quindi nei testi che citeremo la dicitura per questo tipo di pazienti – a volte altrimenti concettualizzabili come borderline, o come portatori di psicosi non scatenate – sono definiti “nevrotici” [corsivi miei]: «Alcuni pazienti nevrotici hanno dei tratti in comune con i bambini autistici; si sentono irreali e percepiscono “la vita come se fosse un sogno”. Ad un esame più approfondito, appare chiaro quanto sia labile la loro sensazione di esistere come individui. In questi soggetti la maturazione cognitiva ed emozionale sembra che abbia avuto luogo aggirando una «zona oscura» di mancato sviluppo, che poi si è trasformata in una capsula di autismo nel fondo della loro personalità. […] Tali pazienti nevrotici riescono spesso a descrivere lo stato primitivo, non verbale, in cui lo sviluppo del senso del Sé è stato ampiamente impedito o quantomeno alterato» (Tustin, 1986/2012, p. 203). Nei pazienti adulti, questo tipo di aree a funzionamento autistico può essere mascherato da formazioni reattive ossessive, così come i profondi timori di annichilimento e il senso di non esistenza possono essere coperti 14 «Come diniego della separazione il laccio diventa una cosa a sé, qualcosa che ha proprietà pericolose e che deve essere padroneggiato. […] Quando la speranza è assente ed il laccio rappresenta un diniego della separazione, allora si determina un assai più complesso stato di cose – uno stato di cose che diventa difficile da curare, per via del guadagno secondario che deriva dalla abilità che si sviluppa ogniqualvolta un oggetto deve essere manipolato per poter essere padroneggiato» (Winnicott, 1971/1972, p. 44). 18 da apparente fluidità verbale, capacità comunicative notevoli, apparente soddisfazione. La componente autistica si manifesta in un certo ritiro dal mondo, tendenza ad instaurare relazioni con caratteristiche anaclitiche e simbiotiche, senso di vuoto (Tustin, 1986/2012, p. 276). Ogden (1989/1992) parla di posizione contiguo-autistica, una modalità prevalentemente sensoriale per cui il senso di sé è costituito dal ritmo delle sensazioni, dall’essere tenuti, dal contatto con superfici che delimitano e che forniscono un primo abbozzo dell’esperienza epidermica. Il fallimento di questo tipo di modalità porta allo sviluppo di difese autistiche. Fa notare che il termine non deve essere inteso nell’accezione del grave disturbo psicopatologico infantile: anche in questo l’aggettivo autistico è utilizzato in riferimento a una universale modalità di esperienza che si costituisce su base autosensoriale, e che mira all’autosufficienza e all’autogratificazione. Una paziente di 29 anni (Ogden, 1989/1992, p. 42) non può fare a meno di provocarsi tagli sulle braccia per trovare sollievo all’angoscia: su un piano di contiguità sensoriale, laddove manca un senso del limite e una chiara definizione simbolica dell’angoscia, l’atto dell’infliggersi tagli costituisce l’unica via per riuscire a riconoscere un me/non-me, una superficie corporea, un qualche grado di separazione. Tutto avviene a livello fisico, in modo completamente presimbolico. Nel Caso Ellen West è possibile dimostrare come le recrudescenze del sintomo e lo scatenamento delle crisi acute siano sempre concomitanti a periodi di separazione dalla famiglia, viaggi all’esterno, interruzioni di relazioni sentimentali significative. Il primo scatenarsi del sintomo avviene dopo un viaggio in America, quando la paziente è stata a lungo separata dai genitori; abbiamo poi un secondo momento particolarmente problematico al termine della prima relazione sentimentale con lo studente all’Università: in questo caso la paziente ha bisogno di un lungo periodo in sanatorio. Il terzo momento drammatico lo abbiamo dopo il matrimonio e durante il viaggio di nozze: la paziente, ingrassata nel periodo precedente, torna a fare larghissimo uso di purganti per dimagrire; ulteriori recrudescenze si hanno ad ogni separazione dal marito, fino al momento dell’ultima separazione significativa per ordine dell’analista: come si ricorderà, in quel caso la paziente tenta più volte il suicidio. Potremmo pensare che un assetto dell’Io particolarmente labile, con scarsa capacità di fare fronte alle angosce di separazione e alle perdite, reagisca utilizzando il sintomo anoressico come auto-consolazione e delimitazione ogni volta che in qualche modo, a causa di un distacco, è minacciata la simbiosi immaginaria che tiene coesa la paziente. Il vuoto, concettualizzato per mancanza di significantizzazione, come qualcosa di reale ed esterno, viene tenuto a bada attraverso queste manovre, che poi diventano praticamente indipendenti dal soggetto e automatiche. 6. Dimensione «orale» del sintomo come oggetto autistico 19 La ruminazione infantile (E. Gaddini e R. Gaddini, 1959) con l’ingerire e poi rigurgitare e masticare il cibo, il provocarsi ferite, tagli, abrasioni (Farber, 2008) sono stati concettualizzati come manovre primitive, autosensoriali e presimboliche di delimitazione interno/esterno. I pazienti possono sviluppare rituali ripetitivi di conta o sintomi ossessivi nella misura in cui sentono che questi servono per delimitarsi rispetto a un buco o a un vuoto che sentono dentro di loro (Ogden, 1989/1992). In questo senso anche il dolore mentale (Farber, 2008) potrebbe agire in modo determinante come «organizzatore sensoriale». In letteratura è stata indagata la funzione di oggetto autistico ricoperta da storie (Barrows, 2001), dolore autoinflitto o provocato da malattie (Kilchenstein, 1998), alcool e droghe (Cohen e Jay, 1996), automutilazione (Farber, 2008). Riferendoci all’articolo dei Gaddini (1959) possiamo intravedere una prima formulazione che pratiche orali e di controllo alimentare possano fungere da oggetto autistico. In effetti si può pensare che anche elementi orali (siano essi un certo tipo di uso della parola o del conflitto verbale, così come le più manifeste pratiche nei disturbi dell’alimentazione) possano essere considerati oggetti autistici. Il che ci porta al nostro focus sui disturbi alimentari e in particolare sull’anoressia di Ellen West. Cohen e Jay (1996) descrivono il comportamento di un paziente che utilizzava la creazione di conflitti interpersonali, l’agitazione continua e le proteste verbali come attestazioni fisiche del proprio senso di esistenza. Gli autori notano come questo utilizzo idiosincratico di un certo tipo di comportamento a fini di isolamento abbia molto a che fare con le sensazioni autoconsolatorie ed escludenti sperimentate tramite l’utilizzo di oggetti autistici: il paziente era solito ubriacarsi quotidianamente, usando l’alcool per creare quella che definiva «a bubble of good feelings». Possiamo pensare che sia elementi di protesta verbale (un certo uso dell’apparato fonatorio, un certo tipo di sensazioni derivanti dal una potente emissione di voce) che elementi più direttamente connessi con l’addiction a una sostanza che si ingerisce fornissero quegli elementi di consolazione sul proprio stato di esistenza, sulla propria connessione corporea, e isolassero il paziente da angosce di frammentazione. Un’altra paziente descrive la creazione di uno spazio mentale assolutamente vuoto come protezione rispetto a sensazioni di angoscia [corsivi miei]: «I’m blanking you out. I’m trying to make everything white. No contact points, no touching, no overlapping. Just a plain white empty canvas. […] It feels very good. […] No one can get me to here. No one can hurt me» (Cohen e Jay, 1996, p. 922). Questo tipo di manovre, soprattutto qualora riescano a sostituirsi al pensiero all’interno della comunicazione analitica, assolvono una funzione evacuativa (Korbivcher, 2007): creano un «mondo sensoriale perfetto», all’interno del quale il paziente permane in una sorta di beatitudine allucinatoria. Nissen (2012) parla a questo 20 proposito di organizzazioni autistoidi: l’esperienza del Sé davanti al mondo è di totale e passiva impotenza, che può essere compensata da formazioni onnipotenti: «I pazienti si trovano tra la Cariddi di uno stato non integrato e la Scilla del terrore esterno. La separazione e l’essere separati, la realtà interna e quella esterna, non devono diventare reali e tutto ciò che ricorda questi fatti è da evitare» (Nissen, 2012, p. 138). Da un punto di vista di soddisfazione orale, la medesima funzione può essere svolta dal sintomo anoressico e bulimico. In un articolo, Latzer e Gerzi (2000) si occupano di ricostruire un caso clinico di anoressia trattato da Tustin nel 1958, cioè molto prima che la studiosa cominciasse ad occuparsi di oggetti autistici. È interessante che alcuni elementi già prefigurino questa direzione di indagine: Tustin osserva che il comportamento della sua paziente adolescente è improntato a marcato ritiro. Il rapporto con l’analista è caratterizzato da un transfert simbiotico, nel senso che secondo la paziente un rapporto “buono” è esclusivamente quello in cui ci si gratifica reciprocamente in perpetuo senza che mai niente venga a rompere questa armonia. In questo senso, a parziali distacchi dall’analista, in occasione di piccoli periodi di separazione o discussioni su orari e sedute, la paziente varia di peso: da un diagramma riportato vediamo come in conseguenza a qualche tipo di frustrazione si abbia ritiro e conseguente immediato calo ponderale. Se invece le cose vanno bene, il peso resta stabile o aumenta [corsivi miei]: «come risulta dal grafico […], le sue variazioni di peso riflettevano le variazioni del suo stato d’animo nei miei confronti» (Tustin, 1986/2012, p. 244). Nell’articolo di Latzer e Gerzi (2000) i pattern autistici vengono messi in relazione al tentativo di gestire, nei disturbi alimentari, il «buco nero» collegato a bisogni irrisolti di separazione individuazione e definizione di sé, nonché nell’espressione di bisogni affettivi: il paziente si servirebbe del sintomo come di una guscio protettivo contro le sensazioni dolorose derivanti – già a livello fisico – da angosce di disintegrazione, queste ultime causate da assenza di contenimento materno. Questo tipo di pazienti, almeno in alcuni casi, sarebbe caratterizzato da un certo livello di scissione della personalità, una parte della quale rimane completamente inaccessibile al terapeuta. Fantasie grandiose e onnipotenti, conservate grazie all’isolamento di questa parte, permettono al paziente di sentirsi in grado di non avere bisogno di niente da nessuno, fornendogli l’illusione di poter bastare completamente a se stesso per quanto riguarda i propri bisogni. Il paziente si disconnette dalla realtà e permane in una sorta di «bolla» autoprodotta: «These patients must “manage” holes. The hole might be the parent’s hole, which is empty and never fills up as in binge eating; fills up alternately, as in bulimia; or whose existence is denied by the parents as in anorexia» (Latzer e Gerzi, 2000, p. 53) 15. Possiamo L’anoressia, in poche parole, sembra «sostituire a questa difficoltà [scil. il sentimento della propria separazione] l’ideale nirvanico di una specie di separazione assoluta, apatica, anestetica, di una 15 21 pensare al “faccio da sola” della paziente anoressica come a un’arcaica forma di gestione e compensazione del «buco» simbolico e affettivo nella famiglia, nella relazione precocemente turbata con la madre: la negazione alla radice del vuoto, la sua assunzione a baluardo, proteggono dallo sperimentare una perdita o le conseguenze di un trauma, ma lo stesso congelamento che salva divora poi la paziente. In questo senso, come spesso accade, la difesa è ben peggiore del male che si proponeva di evitare. Ma che cos’hanno veramente in comune gli oggetti autistici dei pazienti di Tustin e le manovre che nell’anoressia vengono messe in atto al fine di «salvaguardare» l’esistenza del vuoto? L’idea è quella che un certo tipo di pratiche che ritroviamo nell’anoressia «psicotica» – ma si potrebbe dire l’impianto stesso del disturbo e ancora prima i presupposti esistenziali che lo sostanziano – possano essere lette come forme silenti, più «immateriali» di oggetti autistici, ma non meno pervasive né distruttive nei loro esiti. Come a dire che, pure a un diverso livello di sviluppo e astrazione queste difese conterrebbero in nuce esattamente le stesse caratteristiche di quelle individuate da Tustin; la differenza consisterebbe nel fatto che se per i piccoli pazienti autistici gli oggetti possono essere solo e soltanto oggetti materiali o pratiche di autostimolazione corporea, nel disturbo che abbiamo provato ad analizzare, in un’anoressia con tratti psicotici quale da più parti è stata definita quella di Ellen West (Binswanger, 1944/2011; Borgna, 2005; Cargnello, 20102; Recalcati, 2002), potremo avere una gamma più ampia di elementi che funzionino da oggetto autistico: si va da pratiche di mortificazione sul corpo molto vicine a quanto descritto da Tustin a relazioni utilizzate in modo evacuativo; da rituali di ingestione/espulsione fino a ben più complessi utilizzi dei pensieri come tampone al servizio di questo tipo di auto-stordimento. In questo senso, soprattutto, ci sembra di poter proporre una similitudine forse feconda: tra il pensiero come significantizzazione dell’esperienza, capacità di trarre senso e crearne, e un certo tipo di pensiero ossessivo messo in atto dalla paziente Ellen West (che in molti momenti ne è consapevole e soffre orribilmente per questo) può intercorrere la differenza che c’è tra un oggetto autistico e un oggetto transizionale. L’oggetto autistico per eccellenza nega a priori la possibilità di sperimentare la mancanza. La separazione, in questo caso, è un «buco nero» che rischia di inghiottire: se pensiamo alle reazioni di angoscia estrema che suscita l’improvviso impedimento nell’uso di un oggetto autistico16, possiamo capire come sia in gioco, in primo luogo, il piano fisico separazione in opposizione a ogni esperienza di mancanza e di perdita» (Recalcati, 2010, p. 75) [corsivi miei]. 16 «La rottura delle stereotipie di comportamento» provoca «perdita dell’orientamento […]. La mia paziente utilizza l’aggressione nell’intento di controllare e ridefinire i limiti del suo corpo, riuscendo a configurarseli di nuovo attraverso il vissuto del brusco contrasto con gli oggetti esterni. […] l’attività 22 della sopravvivenza; l’oggetto transizionale, così come descritto da Winnicott (1971/1972) serve, quasi all’opposto, per aiutare il bambino a dare un senso a questa assenza e a questa mancanza. A trasformare appunto il vuoto in qualcosa che sia possibile trattare con la mente e non debba essere semplicemente evacuato [corsivi miei]: OGGETTO TRANSIZIONALE Il bambino assume diritti sull’oggetto, e conveniamo su questo assunto. Tuttavia una qualche abrogazione dell’onnipotenza è una caratteristica fin dall’inizio. Non deve mai cambiare, a meno che non venga cambiato dal bambino. L’oggetto è trattato con affetto, e al tempo stesso amato con eccitamento e mutilato. Deve sopravvivere all’amore istintuale, e anche all’odio. Al bambino deve sembrare che l’oggetto dia calore, o che si muova, o che abbia un suo tessuto, o che faccia qualcosa che provi l’esistenza di una sua propria vitalità e realtà. Il suo destino è che gli venga gradualmente concesso di essere disinvestito di cariche. OGGETTO AUTISTICO Si utilizza l’oggetto proprio per non dover abrogare l’onnipotenza del guscio protettivo. L’oggetto è intercambiabile con qualsiasi altro oggetto assolva le medesime funzioni. L’oggetto non è trattato con affetto, né amato con eccitamento. Non è investito né di amore istintuale, né di odio. L’oggetto è trattato in tutto e per tutto come una parte di sé, del proprio corpo, non separata né autonoma. Il suo destino è di venire usato ripetitivamente e poi eventualmente sostituito da un altro oggetto. L’oggetto transizionale aiuta il soggetto a tollerare progressivamente la realtà frustrante della separazione, ma allo stesso tempo è lì a ricordare che la separazione non è interminabile né definitiva. Possiede uno statuto particolare che lo rende un oggetto né completamente interno né del tutto esterno (Winnicott, 1971/1972, p. 31): è un oggetto-simbolo, sempre presente ma dotato di una sua essenziale separatezza, e come tale facilita lo stabilirsi del senso di realtà e aiuta il bambino a transitare da uno stato di controllo onnipotente (magico) a uno più realistico. Se il senso dell’utilizzo dell’oggetto transizionale è quello di fare da ponte verso la simbolizzazione dell’assenza, la funzione dell’oggetto autistico è esattamente opposta, cioè di elidere qualsiasi mancanza. autoaggressiva (colpi di testa, morsi, ecc.) serve per affinare la conoscenza dei limiti del proprio corpo, dell’io e del non io» (Bleger, 1967/2010, p. 88). 23 7. Tiroidina e Lassativi: oggetti autistici orali nel Caso Ellen West Nel materiale clinico del Caso Ellen West molte manifestazioni sintomatologiche della paziente possono essere ricondotte al tipo di assetto orale-autistico che abbiamo appena descritto. Si può pensare che la manifesta «coazione a pensare al cibo» sia una delle manifestazioni più eclatanti di questo utilizzo della ruminazione mentale come un oggetto autistico “piatto” cui aderire (Cartwright, 2006). Farber (2008) ha studiato l’utilizzo del dolore autoinflitto (tagli, ma anche purghe dolorose, vomito) come oggetti autistici nei disturbi alimentari: propone di considerare le pratiche di autolesionismo, esposizione a forti rischi, purging tramite vomito e lassativi come una manovra controfobica di controllo rispetto al «vuoto» o «buco nero» sperimentato da pazienti di questo tipo. In questa direzione, e per concludere, vorrei proporre l’esame in questo senso di una ridotta, ma significativa, parte del materiale clinico così come ci è stata riportata da Binswanger. Si tratta dell’impiego di pastiglie di lassativi e tiroidina, di cui abbiamo una prima attestazione proprio nel periodo della relazione con lo studente universitario: i genitori esigono una separazione, Ellen accetta e si reca in una località balneare dove «torna a manifestarsi una «depressione» particolarmente grave» (EW, 17). L’unico modo di farvi fronte pare essere quello di aumentare i digiuni, fare lunghe marce ed assumere ogni giorno da trentasei a quarantotto pastiglie di tiroidina: «tormenta il proprio corpo per l’intera estate, ma interiormente sta bene, perché è di nuovo sottile» (EW, p. 17). L’uso di purganti si intensifica dopo il matrimonio (EW, 19) finché nel trentaduesimo anno di età la dose giornaliera di lassativi è di settanta pastiglie (EW, 21). Se si sforza di non assumerne percepisce il suo stato come «ancora più tormentoso» (EW, 24). Ancora durante il ricovero nella clinica di Binswanger fa uso di lassativi di nascosto (EW, 42) e – possiamo aggiungere – la morte le giungerà per bocca con l’assunzione di 30 pastiglie di Somnacetin (Hirschmüller, 2005). Provando a leggere questo tipo di pratica alla luce di quanto osservato in merito all’oggetto autistico, possiamo trarre le seguenti considerazioni [corsivi miei]: 1. L’uso di lassativi e tiroidina è ossessivo e ripetitivo. 2. Viene messo in atto preferibilmente nei momenti di forte tensione, in seguito a separazioni significative, momenti di stress, ricoveri in clinica, assenze del marito, momenti di depressione. 3. Le sensazioni che genera l’assunzione sono di immediato sollievo e di scarica rispetto ai conflitti che la attanagliano: «Ma quando si accorge di essere aumentata di due chili in una settimana, scoppia in lacrime e a lungo non riesce a calmarsi. Quando un altro ginecologo le dice che una buona nutrizione non è il presupposto di una gravidanza, ricomincia subito a prendere forti purganti» (EW, p. 19). 24 L’assunzione di tiroidina e lassativi sembra agli occhi della paziente proteggere concretamente da indesiderabili affetti di tipo psichico: «Appare invecchiata e deperita. Ma poiché crede di aver trovato nei purganti un rimedio contro il pericolo di ingrassare, non è depressa» (EW, p. 20). 5. Sia i lassativi che le pastiglie di tiroidina non sono usati per la loro funzione specifica (che prevedrebbe ben più bassi dosaggi e un periodo di impiego molto più limitato). Il tutto è parte di manovre evacuative che la paziente mette in atto per evitare crisi di angoscia. 6. Possono essere usati indiscriminatamente tutti i tipi di sostanze che svolgano la funzione di permettere l’evacuazione di cibo o la sua più veloce eliminazione a livello metabolico: in questo senso, nessuna differenza tra medicinali anche molto diversi tra loro come lassativi, ormoni tiroidei, preparati vegetali, ma anche mezzi non farmacologici come estenuanti passeggiate e digiuni. Se pensiamo a un passo come: «Diviene triste quando si guarda allo specchio, odia il proprio corpo e spesso lo percuote a pugni chiusi» (EW, p. 18) possiamo comprendere come l’impiego di questi mezzi metta al sicuro dalla minaccia di annientamento e di annichilimento connessa alla percezione del proprio corpo grasso come rivoltante e tombale. All’opposto, ogni tentativo di non farne uso si risolve in una serie di sensazioni terribili. “Non appena avverto qualcosa che mi comprime alla vita – ossia mi comprime la cintura della gonna – sprofondo avvilita in una depressione profonda, quasi si trattasse di chissà quale tragedia”» (EW, p. 24); «Se invece “digerisce bene” [il che può significare percepire il proprio stomaco come non pieno, non ingombro da sostanze ingrassanti], si diffonde in lei “una sorta di serenità” e si sente a suo agio» (EW, p. 24). 4. In questo senso, e in conformità con quanto abbiamo cercato di mostrare in questo scritto, possiamo ritenere che la paziente Ellen West, a partire dalla discussa diagnosi di Binswanger e di quanti poterono avere accesso alla sua storia clinica, recasse in sé i segni di un disturbo che rimonta alle primissime fasi di sviluppo. Le notizie della morte di un fratellino subito prima della sua nascita e di uno dopo la sua nascita (Hirschmüller, 2005) e il concomitante suo rifiuto del latte potrebbero far pensare a una possibile depressione materna, il che porta nella direzione di una possibile disregolazione del normale contenimento. In questo caso tuttavia i dati sono troppo pochi per portare ad ipotesi più strutturate. Quello che è sicuro è che il disturbo di Ellen West, sviluppatosi dall’adolescenza in poi, reca in sé le tracce profonde della presenza di un livello di angosce di annichilimento che possiamo definire psicotiche. In questo senso, benché la paziente non abbia mai mostrato segni manifesti di delirio o di destrutturazione del pensiero, possiamo pensare che per l’intera vita abbia lottato con questo tipo di angosce devastanti. Probabilmente proprio la 25 funzione del sintomo ha impedito un ulteriore scatenamento: usando il proprio corpo e certe sensazioni di vuoto come oggetto autistico, la paziente ha potuto isolare e trattare una quota di questo tipo di angosce. Possiamo pensare, come abbiamo accennato, che l’utilizzo di pratiche «sul corpo», l’ingestione di purganti e le percosse non siano l’unico modo in cui si esplica un utilizzo autistico dell’esperienza. Probabilmente possiamo pensare anche ad un certo utilizzo del pensiero, dell’imballarsi e del tornare sempre sugli stessi pensieri infecondi e francamente inutili come una modalità del tutto inconsapevole di riempire il vuoto in testa con una sorta di «spazzatura mentale», in assenza di cui sarebbe proprio il vuoto a percepirsi in tutta la sua devastante evidenza. In questo articolo ci si è attenuti all’indagine delle sole pratiche di ingestione di lassativi e tiroidina perché sono quelle più circoscritte e meglio definibili nel materiale riportato da Binswanger. Così come una paziente di Cartwright (2006) utilizzava la produzione verbale e incessante e le ruminazioni mentali per tenere sotto controllo i fortissimi stati di ansia e creare una sorta di «legame sensoriale» con l’analista, così possiamo pensare che la funzione del sintomo anoressico di Ellen West sia esattamente la stessa: isolarsi e nel contempo evacuare la sua drammatica verità con gli unici mezzi a disposizione. Negli scritti, nelle lettere, nelle poesie Ellen scrive spesso di sentirsi ormai «un nulla»: Du selbst ein Nichts geworden – Tu stessa sei diventata un nulla, la fondamentale intuizione di avere un vuoto al centro e non sapere come e a chi comunicarlo. A molti lettori del resoconto (si pensi a Hirschmüller, 2005; Bettoni Pojaghi, Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo, 2013; Procesi, 1995) resta la sensazione incontrovertibile che qualcosa di questa «nulla» debba ancora essere compreso, ricercato, intuito pur quasi a un secolo di distanza. Ci sono ancora molte vie da percorrere, e molte tessere per arrivare a comprendere questo mosaico frammentario che fu un tempo la paziente Ellen West: l’avventura grande e infelice, ma tutta umana, di un’esistenza. BIBLIOGRAFIA - American Psychiatric Association [2013]. DSM-5: Diagnostic and statistical manual of mental disorders. - Balint, M., Balint, E. [1968]. La regressione. Milano, 1995. - Ballerini, A., Barale, F., Gallese, V., Uccelli, S. Autismo. L’umanità nascosta. Torino, 2006. - Barale, F., Bertani, M., Gallese, V., Mistura, S., Zamperini, A. Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze. Torino, 2006. - Barrows, P. [2001]. 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