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Scarica il saggio in formato pdf - Lettera
Du selbst ein Nichts geworden (Tu stesso divenuto un nulla):
funzione del sintomo e clinica del vuoto nel Caso Ellen West di L.
Binswanger
di Valentina Sturli
1. Introduzione
Il Caso Ellen West, pubblicato da Ludwig Binswanger nel 1944, rende
conto della storia clinica di una paziente ricoverata a Kreuzlingen dal
gennaio al marzo 1921 e suicidatasi quello stesso anno. Il clinico svizzero
stabilisce una diagnosi di schizophrenia simplex pur in assenza delle
manifestazioni eclatanti di allucinazioni e deliri. La decisione è presa, su
base fenomenologica, a partire dal riconoscimento nella paziente di una
progressiva chiusura esistenziale che la porta a non essere più nel mondo
ma a collocarsi irrimediabilmente fuori da esso (Binswanger, 1944/ 20112).
Il Caso è stato variamente interpretato, letto, studiato e criticato negli
ormai settant’anni dalla sua pubblicazione, e tuttavia ha ancora molto da
dire. Tra i suoi commentatori troviamo nomi illustri: Rogers (cit. da Mistura,
pref. a Binswanger, 1944/2011) che ha fortemente criticato alcune scelte
terapeutiche di Binswanger, così come Laing (1982); nel suo libro
sull’anoressia mentale M. Selvini Palazzoli (1963) fa cenno al Caso in
relazione al problema del suicidio tra le pazienti affette da anoressia
mentale. Recentemente, Recalcati (2002) ha utilizzato il caso di E. West
per mettere in luce i tratti psicotici e di «desiderio del vuoto» insiti in queste
forme psicopatologiche. In area germanica (Hirschmüller, 2003; 2007) è
stata da poco pubblicata una consistente parte del materiale lasciato dalla
paziente: diari, lettere, un dattiloscritto con l’inizio di un’autobiografia. In
area italiana, è da segnalare un recentissimo lavoro che apporta nuove
interessanti riflessioni su alcune parti del materiale pubblicato (Bettoni
Pojaghi, Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo, 2013)1.
L’intento del presente articolo è proporre una lettura del materiale
clinico del Caso Ellen West a partire da una prospettiva psicoanalitica, con
lo scopo di approfondire il discrimine tra processi di natura nevrotica o
psicotica in pazienti in cui, come in questo caso, non siano evidenti
manifestazioni deliranti o allucinatorie. Mediante l’analisi delle angosce
della paziente, così come testimoniate dai diari e dal resoconto clinico,
cercheremo di stabilire la presenza di angosce nevrotiche di castrazione
(livello edipico) o psicotiche di annichilimento (livello pre-edipico)
(McWilliams, 1994/1999; Bergeret, 1996/2002 2). Discuteremo se il disturbo
Una notevole porzione del materiale è ancora contenuta, inedita, nell’Archivio dell’Università di Tubinga
(N. VAT 702), e l’augurio è che un giorno possa essere portato all’attenzione degli studiosi della comunità
internazionale.
1
1
di Ellen West possa essere fatto rientrare nella sfera delle psicosi non
scatenate prendendo in esame cinque possibili indici proposti in letteratura
(Recalcati, 2002). Proponiamo di leggere il sintomo anoressico di Ellen
West come «manovra» per contrastare e organizzare un livello di angosce
psicotiche e vuoto non significantizzato. Avanziamo l’ipotesi che le
manifestazioni del sintomo svolgano una funzione compensativa rispetto
allo scatenamento psicotico, e in questo senso prenderemo in esame
funzioni analoghe di pratiche e sintomi nella letteratura psicoanalitica degli
ultimi trent’anni (Cohen e Jay, 1996; Farber, 2008; Kilchenstein, 1998;
Latzer e Gerzi, 2000; Nissen, 2012; Tustin, 1986/2012). Proponiamo in
conclusione l’analisi di una parte specifica del materiale clinico (l’utilizzo di
lassativi e tiroidina) per suffragare le nostre ipotesi.
2. Caso Clinico
Ellen West, pseudonimo scelto da Binswanger per una ricca paziente di
origini ebraiche, nasce da una famiglia illustre in cui si registrano casi di
malattia mentale. Sin da piccola mostra una notevole oppositività di
carattere, attacchi di rabbia, rifiuto di cibo. Il padre è un uomo d’affari
piuttosto rigido, incline a momenti di depressione, la madre appare come
una persona sensibile e sottomessa. Nei diari dell’adolescenza Ellen scrive
di sentirsi destinata a grandi imprese, di stare stretta nella condizione di
donna che le viene imposta. Ha la passione degli sport, non disdegna gli
esercizi pericolosi e volentieri si mette in situazioni di rischio. Nello stesso
periodo i suoi diari registrano momenti di grande sconforto: la sensazione
di non essere niente, di essere soverchiata da ingiuste norme sociali, la
paura di una catastrofe incombente e senza nome. A vent’anni, di ritorno
da un viaggio in America (in cui pare aver intrecciato una prima relazione
amorosa subito troncata per volere del padre), si ferma per una vacanza in
Sicilia. Sta bene in salute e mangia con appetito, tanto che ingrassa
visibilmente e alcune amiche – percepite come figure superiori, eleganti ed
eteree – glielo fanno notare con sarcasmo. Cominciano così le diete e gli
esercizi ossessivi: è il primo manifestarsi del sintomo anoressico che
l’accompagnerà per tutta la vita, alternandosi a fasi bulimiche. Negli anni
successivi Ellen si prepara privatamente per l’esame di maturità,
sottoponendosi a sessioni estenuanti di studio, ma fallisce. Si iscrive quindi
come uditrice all’Università e incontra un giovane studente con cui intreccia
una relazione. Compie lunghe marce a piedi, e il pensiero di prendere peso
la ossessiona continuamente. Percepisce lo studente – con cui nel
frattempo si è fidanzata – come un tipo etereo, biondo, spirituale, e vuole
tentare di tutto per dimostrarsi alla sua altezza. Ingrassare, invecchiare,
morire significa perdere tutto questo. Comincia a fare crescente uso di
pastiglie di tiroidina per dimagrire ulteriormente, i periodi di rifiuto del cibo si
fanno più lunghi. Poco dopo il fidanzamento va a monte, probabilmente per
2
pressioni della famiglia (Hirschmüller, 2005): i sintomi si intensificano, per
quanto la paziente non sembri esprimere rimpianto. Ellen, che adesso ha
ventitré anni, comincia a essere oggetto del corteggiamento di un cugino,
Karl; persona solidamente inserita nel mondo, con un buon lavoro e gradito
alla famiglia, la sposerà tre anni dopo. I primi anni di matrimonio
trascorrono tra fasi di aggravamento del sintomo e il desiderio di dare un
figlio al marito. La paziente tiene diari e ad ogni pagina tenta di analizzare
quella che definisce la sua «idea fissa». Ha paura del cibo, del proprio
desiderio di mangiarlo, della voracità, e si sente sotto scacco: soprattutto,
la deprime e preoccupa l’idea che lei – che si sentiva destinata ad alte
imprese e a realizzare progetti significativi – si trovi invece intrappolata in
pensieri angosciosi quanto ridicoli come il computo ossessivo delle calorie,
la paura dei cibi grassi, una congerie di rituali simil-ossessivi. L’attività
frenetica, scrive, le serve per stordirsi, come pure l’incessante pensare al
cibo: fermarsi sarebbe come morire e tuttavia le privazioni a cui si
sottopone cominciano a minarla seriamente. L’unica gravidanza che ha si
risolve molto presto in un aborto, probabilmente per le cattive condizioni di
salute. E così inizia una serie di ricoveri e cure in cliniche prestigiose,
stazioni termali, consulti con illustri internisti e psichiatri. Ellen oscilla
notevolmente di peso, tra i quaranta e i settanta chili, sente che ogni suo
sviluppo interiore è cessato, e che tutto ormai è in lei solo una orribile
desolazione. Ha crisi di agitazione, cui seguono giorni di confuso torpore. A
trentadue anni e mezzo intraprende una prima cura psicoanalitica, che
viene interrotta pochi mesi dopo. Verso la fine dello stesso anno, un nuovo
tentativo psicoanalitico naufraga miseramente, e la paziente tenta più volte
il suicidio. Nel dicembre di quello stesso anno, dal momento che la
situazione è critica, viene deciso un consulto con Kräpelin, che diagnostica
una melanconia. Le condizioni della paziente peggiorano ulteriormente,
finché, all’inizio del nuovo anno, il medico internista spinge per un ricovero
nella clinica Bellevue di Binswanger, a Kreuzlingen. Ellen vi trascorrerà gli
ultimi tre mesi della sua vita. Verso la fine di questo periodo, l’aggravarsi
delle condizioni della paziente fa decidere per un consulto con Bleuler da
Zurigo e Hoche da Friburgo. La diagnosi sarà di schizophrenia simplex, a
sicura prognosi infausta e decadimento progressivo. Una volta conosciuto
il destino cui va incontro, il marito e la paziente chiedono e ottengono le
dimissioni dalla clinica. Pochi giorni dopo, a seguito di un pomeriggio
trascorso in maniera inusualmente serena, Ellen West prende una dose
mortale di veleno e si uccide2.
3.
Diagnosi
2
Alcuni dati accessori rispetto a questi possono essere ricavati dalla ricostruzione di Hirschmüller (2003;
2007): Ellen West fu in cura presso la clinica Bellevue di Binswanger dal gennaio al marzo del 1921, così
la morte va datata al 4 Aprile 1921. Al momento della morte Ellen West ha trentaquattro anni, ne ha
trentadue e mezzo quando comincia la prima analisi con V.E. von Gebsattel (febbraio – agosto 1920). La
seconda analisi viene intrapresa a Monaco con H. von Hattingberg.
3
Secondo i parametri del DSM-V (APA, 2013), la diagnosi psichiatrica più
plausibile è quella di Anoressia Nervosa (Asse I) e Disturbo Borderline di
Personalità (Asse II). La paziente, almeno stando al resoconto del clinico,
non ha mai presentato manifestazioni chiaramente deliranti o allucinatorie.
Non sussistono i criteri per diagnosticare un Disturbo Bipolare poiché, a
quanto rileva Binswanger, non sono mai state registrate manifestazioni di
umore insolitamente elevato per un periodo di tempo considerevole. Alla
stessa maniera, può essere esclusa la Fobia Specifica, che riferita al cibo
giustificherebbe tutt’al più solo la parte di repulsione, ma non – ovviamente
– quella di attrazione. La coazione a pensare al cibo potrebbe far pensare
a un DOC, ma non è mai registrata una significativa presenza di rituali o
compulsioni atti a scongiurare la possibilità di mangiare anche se la
presenza di tratti ossessivi in tutta una serie di manifestazioni cliniche non
è da trascurare. Sono invece perfettamente adempiuti tutti i criteri per la
diagnosi di Anoressia Nervosa con sporadici episodi di Abbuffate/Condotte
di Eliminazione, così come quelli di Disturbo Borderline di Personalità: basti
ricordare, oltre alla marcata sensibilità all’abbandono (il marito deve essere
sempre con lei), l’instabilità delle rappresentazioni buono/cattivo dei
componenti della famiglia, dei terapeuti, dell’ambiente sociale, l’abuso di
sostanze potenzialmente dannose (tiroidina, lassativi), i ricorrenti tentativi e
minacce di suicidio, l’instabilità affettiva che però non sfocia mai in un
conclamato disturbo dell’umore, i pervasivi sentimenti di vuoto, le difficoltà
a controllare gli impulsi.
Che Ellen West possa essere definita borderline alla luce della vulgata
psichiatrica attuale – almeno all’interno di quelle cornici teoriche che
riconoscono la possibilità di questo tertium genus tra psicosi e nevrosi –, è
riscontrabile dalla sovrapposizione tra i criteri del DSM-V (APA, 2013) e gli
elementi della sua storia clinica. Il problema è che con questo termine si
sono intese e si continuano a intendere una miriade di configurazioni
cliniche, proprio dal momento che borderline significa «limite» o «linea di
confine»: «una persona può avere una nazionalità o essere un apolide, ma
è difficile immaginare che possa essere una frontiera» (Green, 1990/1991,
p. 92). In questo senso, la diagnosi di Binswanger è significativa: benché i
tempi fossero ancora lontani dalla grande riflessione psicoanalitica sul
problema degli stati limite, che ha avuto la sua fioritura soprattutto a partire
anni ’70, si può notare che le alternative prese in considerazione sono
molteplici, e oscillino tra l’area della nevrosi e quella della psicosi. Come a
dire che risulta in fondo problematica la natura di un disturbo per molti versi
non eclatante dal punto di vista sintomatologico (oltre al rifiuto di assumere
cibo, nessun delirio né disorganizzazione del pensiero e linguaggio) e che
tuttavia, nella progressiva chiusura rispetto al mondo, nell’imballarsi del
pensiero sul tormento permanente del cibo, nella marca di sfinimento
esistenziale, lascia intendere qualcosa di più di una natura nevrotica.
4
Una delle prime alternative che Binswanger prende in considerazione è un
disturbo di tipo isterico, subito scartato perché non sono osservabili sintomi
di conversione o amplificazione isterica. Una seconda alternativa, si
interroga il clinico, è forse quella di ricondurre il disturbo a una forma di
tossicomania, o brama morbosa? Binswanger prova a accostare la fame di
Ellen West alla fame di morfina del morfinomane cronico, o al bisogno
coatto dell’alcolista: è bisogno di riempire un vuoto esistentivo, quello della
paziente, un bisogno che non si colma mangiando e che permane,
esattamente come il desiderio della bottiglia resta nell’alcolista anche dopo
aver bevuto. In questo caso, Binswanger mostra una sorprendente
consonanza con spunti della clinica più recente in cui in varia maniera sono
stati individuate strette parentele tra l’addiction al cibo nei disturbi
alimentari ed altri tipi di tossicomanie, laddove tutti sarebbero da ricondurre
ad un ceppo comune di brama di godimento perenne e senza legge
(Recalcati, 1997; 2002; 2003; 2010)3.
Benché Ellen West descriva la coazione costante a pensare al cibo, il
clinico esclude l’ipotesi di un disturbo delirante, così come di una nevrosi
coatta (DOC) e di una psicosi maniaco depressiva, che era stata la
diagnosi di Kräpelin; decide infine, e senza alcun dubbio, per una diagnosi
di schizophrenia simplex. Già sistematizzato qualche anno prima da
Bleuler (1911/1985) questo nuovo impianto diagnostico non ritiene più
necessari per la diagnosi di schizofrenia i classici cardini della nosografia di
Kräpelin: arresto psicomotorio per la forma catatonica, esordio precoce e
bizzarrie di comportamento per la forma ebefrenica, deliri strutturati per la
forma paranoide.
Come si vede, una paziente come Ellen West non potrebbe essere inclusa
a rigore in nessuno di questi casi: ci sono forti tratti di iperattività nella sua
storia clinica, momenti di torpore e confusione, pensieri ossessivi e paura
di cadere preda di forze incontrollabili, ma niente che assomigli ad un
delirio franco e strutturato, una qualsiasi bizzarria di comportamento se si
esclude ciò che riguarda l’ossessione del cibo e la magrezza. In questo
senso, lo stesso Binswanger si interroga a lungo – come molti dopo di lui4 –
sulla diagnosi di una forma che, pur essendo definita schizofrenia, non
presenta nessuno dei sintomi usuali. Conia per questo l’ulteriore
precisazione di polimorfa. Alla fine la diagnosi completa sarà forma
polimorfa di schizophrenia simplex: una schizofrenia senza perdita
dell’efficienza intellettiva, sottosoglia, con «sintomi apparentemente
psicopatico-anancastici, nevrotico-coatti, «isterici» o «nevrastenici»,
«“Sono l’eroina di me stessa” mi diceva una giovane paziente mettendo in evidenza come l’immagine
del corpo-magro fosse un’immagine che accechi l’anoressica allo stesso modo di come la droga (l’eroina)
accechi il tossicomane» (Recalcati, 2002, p. 50).
4
Penso soprattutto a Blankenburg (1971/1998) e al dibattito della psichiatria fenomenologica in merito al
«disturbo fondamentale» della schizofrenia e all’eventuale possibilità di meglio coglierlo proprio nelle
forme residuali o paucisintomatiche.
3
5
tendenza alla tossicomania» (EW. p. 2055).
Ma allora, è lecito chiedersi: perché schizofrenia, cioè una diagnosi di
sicura psicosi? Perché non piuttosto nevrosi? La risposta di Binswanger è
da ricercarsi in un preciso quid che egli definisce, in una prospettiva
fenomenologico-esistenziale, come offuscarsi del mondo, soffocante
accerchiamento (EW, p. 189), vuoto esistentivo (EW, p. 197): in una
parola, il processo di mondificazione [Verweltlichung], ovvero un
progressivo e pervasivo senso di irrealtà e passività che la paziente prova
davanti al mondo, il senso di non farne parte e non poterne far parte in
alcun modo, il netto rifiuto a vivere in prospettiva del presente e l’atrofia in
una dimensione di passato-futuro. È il senso di progressivo restringimento
di qualsiasi orizzonte immaginativo ed esistenziale a condannare la
paziente a quella chiusura esistenziale totalizzante (EW, p. 197) che fa
propendere il clinico per l’area della psicosi.
Il senso di vuoto rappresenta in questo senso uno dei cardini della
diagnosi. Il mondo di Ellen West è, secondo Binswanger, caratterizzato dal
rifiuto, un rifugiarsi prima nella fantasticheria, poi in sé e infine nel desiderio
di morte. Nei diari leggiamo [corsivi miei]:
[Annotazione di Binswanger al tempo del ricovero della paziente a
Kreuzlingen] «Disposizione d’animo: disperazione senza limiti. […] Si ha
l’impressione che la paziente si trovi non tanto in un vero stato depressivo,
quanto che si senta psichicamente vuota e spenta, completamente vacua»
(EW, p. 42); «Il sole splende, ma dentro di me c’è il vuoto. […] Che significa
questa orribile sensazione di vuoto? […] Orrenda sensazione di vuoto.
Orrenda paura di questa sensazione. Non trovo nulla che riesca a
placarla» (EW, p. 27); «Mi sento esclusa da ogni vita reale. Sono del tutto
isolata. Vivo chiusa in un globo di vetro […] le mie mani urtano contro le
pareti del mio globo di vetro» (EW, p. 32); «Per me non c’è più nulla di
allettante nella vita. Non c’è nulla, dovunque guardi, che possa trattenermi.
Tutto è grigio e senza gioia. Da quando mi sono sepolta in me stessa e non
posso più amare, l’esistenza è soltanto un tormento» (EW, p. 34).
Sin dall’adolescenza, Ellen soffriva di un’oppressione caratterizzata dalla
sensazione che fosse tutto vuoto; le fantasticherie, l’aspirazione a librarsi in
una sfera più «eterea» dell’esistenza – e, in modo complementare, l’orrore
di essere inghiottita da un mondo tombale, greve e mortifero – sarebbero
l’espressione di una genuina incapacità di restare «saldamente coi piedi
sulla terra» (EW, p. 61). Progressivamente, il senso di essere nulla (EW, p.
66) invade la paziente, che percepisce ovunque barriere che limitano la
sua esistenza, mentre ogni cosa all’esterno diviene sempre più sinistra e il
Sé è costretto a vegetare come un verme della terra (EW, p. 75).
Da qui in poi la sigla EW sarà utilizzata per contrassegnare le parti citate direttamente da L. Binswanger,
Il Caso Ellen West, Torino, 20112.
5
6
Da una prospettiva psicoanalitica possiamo chiederci le ragioni di questa
immagine di sé e del mondo, a che tipo di angosce essa vada ricondotta:
sappiamo in proposito che l’analisi del tipo di angoscia può essere
fondamentale ai fini della diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi
(Bergeret, 1996/20022). Recalcati (2010) mette in luce come tratto distintivo
dell’anoressia psicotica la rigida affermazione di sé contro il timore di
essere ridotti a oggetto rispetto al mondo e alla volontà altrui: un
fondamentale timore di essere sopraffatti senza speranza, perseguitati ed
inglobati da un Altro che non lascia scampo e non concede limiti. In questo
senso, la parentela con il concetto di mondificazione utilizzato da
Binswanger è evidente: si tratta di un modo di non essere-nel-mondo,
un’aspirazione all’annullamento per certi versi analoga al principio del
Nirvana di Freud (1920). Scrive Binswanger: «La positività del nulla ha un
senso esistentivo del tutto precipuo, che consiste precisamente in questo:
quando la presenza si consegna o è consegnata al nulla – qui, ancora una
volta, ci troviamo al di là della colpa o del destino – essa vive non solo
nell’angoscia dell’esserci, ma, cosa strettamente connessa con la prima,
nell’assoluto isolamento» (EW, p. 96). È la fondamentale aspirazione al
vuoto, il lacaniano «desiderio della larva»: «l’anti-praxis, la passività più
passiva di fronte alla tensione vitale dell’esistenza» (Recalcati, 1997, p.
67). Distinguere tra nevrosi e psicosi significa tracciare una linea tra
angosce di castrazione e ben più pervasive angosce di annichilimento, tra
una risposta difensiva ed una di annullamento totale, tra una difesa che
tiene ancora in vita il soggetto – se pure zoppo e orbato di gran parte della
sua funzionalità – o scegliere invece una via non-vitale, la barriera assoluta
nel cui annullamento «bianco» ogni esistenza si spegne e desertifica. Il
Caso Ellen West, prestandosi con la sua complessità a questo tipo di
indagine, apre le porte all’indagine del «bordo» su cui si gioca questa
partita. Apre l’indagine e contemporaneamente, come per ogni confine che
si rispetti, costringe a un’interrogazione passibile di rimanere senza
risposta.
4.
Vuoto, mortificazione, simbiosi: una psicosi non scatenata
Una recente lettura del sintomo anoressico di Ellen West (Recalcati, 2002)
ascrive il devastante senso di vuoto, insieme al ritiro dal mondo, a un
sottostante sfondo psicotico. Esisterebbero, secondo Recalcati, alcuni
indici che possono orientare con un certo grado di affidabilità la valutazione
diagnostica in caso di psicosi non scatenate: il che può tornare molto utile
in un caso, come quello di Ellen West, in cui non sembra essere in primo
piano tutta la serie delle franche manifestazioni psicotiche. Vediamone
alcuni, e di seguito proveremo ad applicarli al materiale clinico del Caso
per vedere se possano essere registrate assonanze.
7
1.
2.
3.
4.
5.
Presenza di una dimensione di mortificazione reale e non simbolica del
soggetto. Le pratiche che vengono attuate devono avere una matrice
reale, cioè essere inflitte al corpo in modo diretto: possiamo pensare al
dolore mediante tagli, percosse autoinflitte, esercizi estenuanti.
Vuoto non significantizzato: deve cioè essere presente una dimensione
di vuoto che il soggetto manifesta e di cui eventualmente si lamenta,
senza inscrivere questo tipo di percezione in un orizzonte di senso più
vasto, dargli una forma esistenziale, trattarlo come un elemento che ha
una radice simbolica.
Uso anaclitico dell’immagine dell’Altro, cioè tendenza ad instaurare
relazioni simbiotiche caratterizzate da un bisogno incondizionato di
«appoggiarsi» all’altro, che non viene riconosciuto come tale, ma trattato
come una parte di sé assolutamente non distinta.
Pratiche e operazioni che hanno la finalità di introdurre nel reale del
corpo la funzione della castrazione, poiché essa non si è potuta
esercitare simbolicamente: in questo senso, oltre ad elementi che
riportano al primo punto di questo elenco, sarà possibile indagare anche
tutta quella dimensione dell’acting riconducibile alla manifestazione di
sentimenti, affetti, disagio su un piano puramente agito, iperattivo e non
mediato dalla funzione simbolica del pensiero.
Presenza, nella storia del soggetto, di una serie di sradicamenti, di
cambi improvvisi di direzione, di erranze, di difficoltà a inscriversi in un
legame sociale stabile.
Per quanto riguarda la presenza di una dimensione di mortificazione reale
che il soggetto si auto infligge, è possibile pensare a tutta quella
costellazione di pratiche molto frequenti nell’anoressia – e ben attestate nel
Caso Ellen West –, dove troviamo esercizi estenuanti e lunghissime marce
in montagna (al termine di una di queste Ellen West subirà un aborto
spontaneo), percosse al proprio ventre e al corpo quando si guarda allo
specchio, l’utilizzo di purghe e lassativi che provocano evacuazione forzata
e dolorosa. Anche l’esposizione continua a gravi rischi per la salute, come
quando durante una febbre altissima la paziente esce di casa sotto la
pioggia sperando di ammalarsi ancor più gravemente e morire (per avere
così finalmente sollievo dal suo sintomo), può essere ricondotta a questo
tipo di livello.
Una difficoltà di significantizzazione dell’esperienza dell’angoscia e del
distacco è invece rintracciabile nei diari, dove tornano spesso riferimenti a
un senso di annichilimento, di disintegrazione, isolamento rispetto al
mondo. In questo senso, la difficoltà di significantizzazione sembra
consistere nel fatto che difficilmente la paziente porta a coscienza – e
descrive – un qualche tipo di manifestazione che leghi il senso di vuoto, di
buco fisico, a qualche tipo di esperienza più facilmente comprensibile sul
piano mentale: non viene mai praticamente fatto riferimento a conflitti
8
interpersonali, senso di tristezza, preoccupazione per la propria vita o la
famiglia. Il sintomo è trattato come qualcosa di esterno ed estraneo, non
comprensibile, che balza sopra la paziente come un animale feroce e le fa
fare cose che sono tutto il contrario di quel che essa vorrebbe. Si sente
impotente a resistere, mentre le «forze malvage» con cui deve fare i conti
sono concettualizzate come serpi e incubi (EW, p. 13), pensieri e spiriti
maligni (EW, p. 14), putredine (EW, p. 14), sordide anime gialle (EW, p.
14), topi e spettri (EW, p. 15), belve (EW, p. 26), Erinni (EW, p. 33), incubo
tenebroso (EW, p. 34), nemici (EW, p. 35), sortilegio e prigionia (EW, p.
35), forze sinistre (EW, p. 36), nubi (EW, p. 36), uccelli neri (EW, p. 44),
donna dalla nera chioma che getta nell’abisso spalancato (EW, p. 44).
Mancano rifermenti ad un livello successivo di elaborazione mentale e
simbolica; le immagini non vengono mai decrittate nel senso di un qualche
evento reale; nello stesso tempo, si noterà che esse sono per la maggior
parte espressione di forze soverchianti, subdole, indefinite, potenzialmente
letali e sinistramente inafferrabili.
In un recente lavoro, Hurvich (2003) ha raggruppato sotto la definizione di
annihilation anxieties alcuni gruppi di angosce caratteristiche di un livello
psicotico: quello che le accomuna è il senso di disintegrazione dell’Io,
l’essere sopraffatti, il timore della perdita dei normali nessi associativi. In
questa prospettiva, le angosce di annichilimento possono essere ricondotte
a sottogruppi che fanno riferimento a: paura di perdere il controllo, essere
intrappolato o divorato; paura della disintegrazione del Sé, dell’essere
vuoto; angosce di abbandono; angosce di persecuzione, catastrofe. Se
scorriamo le pagine del Caso Ellen West, ci imbattiamo frequentemente in
descrizioni molto simili a quelle fornite da Hurvich [corsivi miei]:
a) Paura di perdere il controllo: «Quando su di noi incombe la minaccia del
crollo di tutto ciò che tiene insieme il nostro mondo, quando è spenta la
luce della nostra felicità e appassita è la nostra gioia di vivere, una cosa ci
salva ancora dalla follia: il lavoro»(EW p. 7); «In me c’è infatti una tale
rivolta e un tale fermento che devo aprire una valvola di sicurezza se non
voglio esplodere perdendo ogni freno e diventando aggressiva» (EW, p.
12).
b) Paura di essere intrappolato o divorato: «Mi sento esclusa da ogni vita
reale. Sono del tutto isolata. Vivo chiusa in un globo di vetro» (EW, p. 32);
«I sentimenti d’angoscia si fanno sempre più frequenti e, soprattutto,
compare ora la molesta coazione a dover pensare continuamente al cibo.
Definisce i sentimenti d’angoscia “spettri che mi balzano senza posa alla
gola”» (EW, p. 23).
c) Paura della disintegrazione e dell’essere vuoto: «Il sole splende, ma
dentro di me c’è il vuoto. […] Che significa questa orribile sensazione di
vuoto? Questo spaventevole sentimento di scontentezza che mi assale
dopo ogni pasto? Il cuore mi manca, lo sento fisicamente, è una
9
sensazione di indescrivibile squallore. […] Orrenda sensazione di vuoto»
(EW, p. 27). «Io sto di fronte a me stessa come di fronte a un estraneo: ho
paura di me stessa, ho paura dei sentimenti di cui incessantemente cado
preda senza poter difendermi. Questo è l’aspetto atroce della mia vita:
essa è colma di angoscia. Angoscia del mangiare, angoscia della fame,
angoscia dell’angoscia. Dall’angoscia può liberarmi soltanto la morte.[…]
Ogni giorno è come camminare su una cresta vertiginosa, un eterno
mantenersi in equilibrio su degli scogli» (EW, p. 29).
d) Angosce di abbandono: «Mangiando io cerco di soddisfare due cose: la
fame e l’amore. La fame viene appagata – l’amore no! Resta quel gran
buco non riempito» (EW, p. 29).
e) Angosce di persecuzione e catastrofe: «Quest’ossessione è diventata la
maledizione della mia vita, mi perseguita nel sonno e nella veglia, è
presente in tutto quello che faccio, come uno spirito maligno, e non posso
fuggirla in nessun momento, in nessun luogo. Mi perseguita come le Erinni
perseguitano l’omicida, riduce il mondo a una caricatura e la mia vita a un
inferno» (EW, p. 33). «È ancora notte, e regna il caos come mai prima
d’ora» (EW, p. 30).
La terminologia per determinare questo tipo di angosce è varia nella
letteratura psicoanalitica dell’ultimo mezzo secolo: psychotic anxietis (Klein,
1952/1978), unthinkable anxiety (Winnicott, 1963/1995; 1971/1972),
annihilation anxiety (Little, 1986/1994; 1990/1993), nameless dread (Bion,
1967/2009), basic fault (Balint e Balint, 1968/1995), cataclysmic
catastrophe (Tustin, 1986/2012; 1990/1991). Tutti gli autori appena citati
appartengono ad una tradizione psicoanalitica che prevede la possibilità di
compresenza, all’interno di uno stesso individuo, di un livello nevrotico e
uno psicotico della personalità, di estensione e pervasività variabile a
seconda delle vicende di integrazione e sviluppo personale.
Nonostante questo sia in controtendenza con la prospettiva da cui altri
studiosi hanno provato a dare conto del Caso (si veda ad es. Recalcati,
2002; 2010) negando strutturalmente la possibilità del tertium genus
borderline, penso possa essere interessante notare come le descrizioni
cliniche di questo tipo di angosce psicotiche coincidono significativamente
in tutti quanti gli autori citati. Per Winnicott (1963/1995) si tratta di tracce di
timori non mentalizzabili risalenti ai primi livelli dell’esperienza infantile:
ritroviamo il difetto di significantizzazione, il timore del ritorno ad uno stato
non integrato, un paventato crollo dell’autocontenimento, la perdita del
senso del reale e della collusione psicosomatica. Sia che si vogliano
ascrivere questi angosce ad un livello precipuamente psicotico sia che si
pensi di poterne rintracciare la presenza anche in pazienti altrimenti
nevrotici, è da notare che il perno è sempre incentrato su confini dell’Io
particolarmente labili e precari, facilmente sollecitati dall’insorgenza di
pulsioni e bisogno a cui non sanno fare fronte con conseguente necessità
10
di proiettare all’esterno – in un panorama vago e indefinito – tutti gli
attacchi contro sé stessi e il corpo che non si riesce a mentalizzare a causa
di un certo difetto primario in questo tipo di facoltà. Questi stessi confini
labili sono quelli che portano la paziente a dover instaurare relazioni
simbiotiche, fusionali e di carattere anaclitico. Secondo Bergeret
(1996/20022), la pseudonormalità che caratterizza questi soggetti – il clinico
fa parte di una tradizione che riconosce l’area degli stati limite come
separata da nevrosi e psicosi -, risponde alla continua necessità di
ristabilire, appoggiandosi a un oggetto esterno, un narcisismo labile.
Si può pensare però che non soltanto il sintomo – con la sua carica di
mortificazione reale – serva a tenere sotto controllo l’angoscia di
disintegrazione e ad evacuare affetti e sensazioni intollerabili. È da più parti
stato notato che anche un certo tipo di relazioni potrebbero svolgere una
funzione analoga. Penso soprattutto alla riflessione di J. Bleger
(1967/2010), psicoanalista argentino di tradizione kleiniana, che molto ha
indagato il rapporto tra i due fenomeni che definisce simbiosi e autismo.
Il primo termine definisce la tendenza ad instaurare una relazione di
perfetta adesione con un oggetto esterno, tale che esso non sia
distinguibile da sé. In questo senso l’oggetto è trattato come una parte di
sé, come una propria estensione e non gli viene riconosciuto alcun diritto
ulteriore a un’esistenza separata. Il fenomeno naturalmente è silente, per
cui alcune relazioni possono possederne una cerca quota senza che essa
venga alla luce; se ne nota piuttosto la presenza nel momento in cui la
relazione si rompe, provocando gravi scompensi. L’autismo, invece –
precisiamo che questa definizione non ha nessuna consonanza con il ben
più noto disturbo infantile, e fa invece riferimento ad una tradizione,
inaugurata da Bleuler (1911/1985) per definire stati di ritiro in pazienti adulti
– si manifesterebbe nella tendenza ad instaurare, sempre all’interno della
stessa relazione e in modo speculare alla simbiosi, una sorta di statuto
monadico, una separazione netta che renda inaccessibili dei contenuti
mentali (che siano pensieri o sensazioni) all’altra parte. Uno stato di ritiro
totale che il soggetto attua come difesa inconscia da paventati stati di
fusione e confusione. Anche in questo caso, è nella sfera del corpo che si
attua questa fusione simbiotica. Entrambi i fenomeni, simbiosi e autismo,
hanno una natura eminentemente narcisistica.
Questi concetti sono molto utili nell’individuazione di un uso anaclitico di
un certo tipo di oggetto o relazione. Bleger proviene da una tradizione che
ammette – anzi, postula – la contemporanea presenza all’interno di uno
stesso individuo di parti psicotiche e parti nevrotiche della personalità; in
questo senso egli propone che l’instaurarsi di un legame simbiotico serva a
tenere sotto controllo e proiettare fuori da sé angosce potenzialmente
distruttive; ad evacuarle senza che debbano essere pensate, a bypassare
la necessaria strettoia che porterebbe questo tipo di elementi ad essere
trasformati in pensiero.
11
Che si sia d’accordo o meno coi presupposti di questo assunto, l’idea che
una intera relazione oggettuale possa svolgere funzioni evacuative, e
quindi essere trattata in modo diverso da una relazione in cui l’Altro viene
riconosciuto come tale, ha importanti implicazioni: in questo senso, come
vedremo anche nel nostro materiale clinico, un paziente può presentare
una remissione parziale e significativa del sintomo fintantoché si trovi in
presenza dell’altro oggetto della simbiosi. La presenza deve essere fisica,
e assicurata costantemente. Proprio dal momento che è impossibile
simbolizzare il «buco nero» dell’assenza, della mancanza, non appena
questa assoluta continuità per qualche motivo si rompe o viene minacciata,
ecco che abbiamo nel paziente lo scatenamento e l’affiorare di una serie di
angosce psicotiche che portano sul limite dello scompenso: torpore,
confusione, agitazione, tentativi di suicidio, acting dirompenti, reazioni
aggressive e autolesionismo.
Tra le congiunture scatenanti della psicosi anoressica troviamo spesso la
rottura traumatica di un certo tipo di relazione simbiotica e immaginaria
(Recalcati, 2002) con cui il paziente si protegge dall’invasione soverchiante
del reale. Possono bastare oscillazioni anche minime nella presenza di un
congiunto o familiare per far peggiorare o scatenare i sintomi: «non domina
l’Amore come sentimento della mancanza dell’Altro, […] ma l’esigenza
imperiosa della sua presenza. […] Questo può significare che la sua
presenza deve essere assicurata in modo assoluto, deve poter essere
costantemente presente come presenza, costantemente reperibile nella
realtà, altrimenti il transfert può virare verso l’odio e il sentimento della
persecuzione poiché l’assenza non può essere in alcun modo simbolizzata
e si manifesta al soggetto solamente come “cattiva intenzione”, “malvagità”,
“disprezzo”, “rifiuto” dell’Altro» (Recalcati, 2002, pp. 105-106). Nel caso di
Ellen West, è possibile ipotizzare che questo tipo di legame sia stato
instaurato con il marito subito dopo il matrimonio. Precedentemente,
abbiamo traccia di qualcosa di simile anche nel rapporto con l’anziana
bambinaia della paziente, anche se nel Caso gli accenni alla donna sono
estremamente meno frequenti.
Un primo riferimento proprio alla bambinaia risale ai primi tempi della
relazione con lo studente (EW, p. 17): la paziente compie lunghe gite in
montagna, è entusiasta dello studio, e tuttavia non può stare da sola. La
bambinaia deve sempre accompagnarla. Poco dopo la rottura del primo
fidanzamento (per volere dei genitori), ha una nuova crisi e trascorre alcuni
mesi prima in sanatorio, preda di una profonda depressione. Dopo il
matrimonio (EW, p. 22) la paziente torna nella città universitaria dove
aveva studiato e ricomincia a frequentare le lezioni, ancora una volta
insieme al marito e alla bambinaia. Nel frattempo, intraprende la prima
delle sue due terapie psicoanalitiche, anche se velocemente l’umore torna
instabile e si intensificano i segni di irrequietezza [corsivi miei]: «nei periodi
di assenza del marito, la vecchia bambinaia deve stare con lei». In autunno
12
è ancora insieme al marito e alla balia nella città universitaria dove
comincia la sua seconda analisi. L’importanza della presenza fisica
costante del marito per l’equilibrio psichico della paziente, e per evitare un
vero e proprio esordio psicotico, è attestata dal fatto che, non appena il
secondo analista ottiene dalla coppia che il marito lasci Ellen per un
periodo sola in città, la paziente manifesta, nel giro di pochi giorni, propositi
suicidi, agitazione estrema, momenti di derealizzazione in cui vaga da sola
per le strade in uno stato che lo psicoanalista definisce «crepuscolare
isterico» (EW, p. 26). Infine, tenta ripetutamente il suicidio e deve essere
tenuta sotto stretto controllo. In conformità con i fenomeni attesi alla rottura
di una simbiosi, le pagine del diario registrano intense sensazioni di
angoscia, una crescente confusione, sensazioni di vuoto, angoscia atroce,
confusione totale, miseria senza limiti6.
La presenza del marito, se assicurata costantemente e ininterrottamente,
ha al contrario un significativo effetto calmante sulla paziente 7 [corsivi miei]:
«È facilissimo per il marito entrare in rapporto con lei, non soltanto nel
dormiveglia, ma anche quando dorme profondamente»(EW, p. 44). Con il
termine entrare in rapporto [Rapport] in questo caso si intende, come
specifica Mistura (in pref. a Binswanger, 1944/2011) una particolare forma
di comunicazione esclusiva che verrebbe a stabilirsi tra un soggetto in
trance ipnotica e chi ha indotto lo stato di trance.
Il cortocircuito che si genera per il difetto di significantizzazione, e che non
permette di accedere ad una dimensione simbolica della rappresentazione,
con conseguente bisogno di inscrivere continuamente nella dimensione più
reale e concreta possibile atti rapporti e relazioni, è anche responsabile di
quel manifestarsi di una dimensione dell’acting, ripetuto e non
mentalizzabile, caratteristica di questo tipo di pazienti. Possiamo davvero
dire che questa – a differenza della nevrosi – è una clinica dell’«agire
senza pensiero»8, dove l’azione si oppone alla presenza di un pensiero che
si sviluppi e permetta al soggetto di inscrivere la sua esperienza in una
dimensione simbolica, e proprio per questo necessariamente caduca,
dell’esistenza.
6
La rottura improvvisa di una relazione simbiotica comporta «sintomi fisici quali tremori, brividi, sussulti,
spaesamento. […] Annientamento dell’io, perdita di integrazione, panico e vari gradi di alterazione della
coscienza quali confusione, stato crepuscolare etc. In una fase ancora più avanzata si può produrre una
disgregazione psicotica» (Bleger, 1967/2010, p. 138).
7
«In clinica la situazione è decisamente migliorata per la continua presenza del marito, che esercita sulla
malata una benefica influenza»(EW, p. 37); «Al momento del ricovero, il 14 gennaio, dopo poche parole
la paziente erompe in un altissimo pianto desolato […]. Si reca poi senza fare difficoltà in camera sua col
marito, ed è lieta dell’opportunità che subito le si offre di riferire in maniera più circostanziata sulla sua
malattia» (EW, p. 38); «Dopo il secondo tentativo di suicidio, l’unico suo pensiero fu che se il marito non
fosse tornato immediatamente si sarebbe buttata sotto un’automobile; sempre, quando lui era assente, lo
ha pensato ardentemente» (EW, p. 39) [corsivi miei]. Si riscontra quella fortissima esigenza di sameness
che caratterizza anche gli stati autistici (Barale e Uccelli, in Ballerini, Barale et al., 2006, p. 164).
8
«Mentre la clinica della nevrosi è una clinica simbolica perché i sintomi contengono un messaggio e
sono suscettibili di essere decifrati dall’attività semantica dell’interpretazione, nei nuovi sintomi in primo
piano c’è la tendenza del soggetto ad agire attraverso scariche pulsionali […] è una clinica dell’agire
senza pensiero, dell’evacuazione» (Recalcati, in Recalcati 2011, p. 29).
13
Nella paziente Ellen West, l’attività del lavoro, le continue ruminazioni sul
cibo, sono lì ad evitare nel concreto che la catastrofe si realizzi, che il nonpensiero possa venire in contatto con la parte vuota di sé e generare terrori
catastrofici [corsivi miei]:
«Quando su di noi incombe la minaccia del crollo di tutto ciò che tiene
insieme il nostro mondo […] una cosa soltanto ci salva ancora dalla follia: il
lavoro» (EW, p. 7); «A quale fine viviamo – perché tutto ciò? Perché
aneliamo, perché viviamo, forse soltanto per marcire, ben presto
dimenticati, nella fredda terra? […] E allora balza su svelta, ed è bene per
te se qualcuno ti chiama, rincomincia a lavorare con tutta te stessa, sinché
non siano spariti i fantasmi notturni» (EW, p. 7). «Soffoca le mormoranti
voci nel lavoro! Colma la tua vita di doveri. – Non voglio più pensare» (EW,
p. 8).
Nel resoconto di Binswanger le attività di Ellen sono accomunate da un
tratto compulsivo [corsivi miei]: «Tornata in Europa, comincia ad andare a
cavallo […]: nessun cavallo è per lei troppo pericoloso e si misura in gare
di salto con esperti cavallerizzi. Come in tutto ciò che compie, anche
all’equitazione si dedica “con eccessiva intensità”, come se si trattasse del
compito esclusivo della sua vita» (EW, p. 9); «Si dedica con energia e zelo
a opere di assistenza sociale, va assiduamente a teatro e legge molto. Ma
quando si accorge di essere aumentata di due chili in una settimana,
scoppia in lacrime e a lungo non riesce a calmarsi» (EW, pp. 19-10). Il
vuoto interiore deve essere continuamente negato per fare posto a una
sorta di precario senso di esistenza conferito da attività esterne9.
In questo senso, la «minaccia del crollo» è arginata su due fronti: da un
lato dall’attività frenetica e a-finalistica con cui la paziente tenta di stordirsi,
dall’altra da un fronte di pseudo-pensieri sul cibo che la occupano
continuamente e che in qualche maniera le negano l’accesso ad una
dimensione di pensiero reale. Se da un lato questa possiamo dire è la
sostanza del disturbo, dall’altra il sintomo mai come qui riveste anche
quella fondamentale funzione di argine contro lo scatenamento di terrore
senza nome. Come leggiamo nei passi appena citati, è la paziente stessa
ad essere in qualche modo consapevole che nella sua condizione l’unico
modo per mantenere insieme la coesione del «mondo» è appunto dandosi
da fare continuamente per riuscire a «non pensare»10.
9
«Nessun cavallo è per lei troppo pericoloso»; «Io non voglio far concessioni! […] voglio fare qualcosa di
grande e devo avvicinarmi, almeno un poco, al mio ideale, al mio orgoglioso ideale! Mi costerà lacrime? E
sia. Ma che fare, da che parte cominciare? Tutto questo ribolle e palpita in me, sento che sta per
spezzare ciò che lo trattiene! Libertà! Rivoluzione!»; «La mia ragione si ribellava e io tentavo, facendo
leva sulla mia volontà, di scacciarla da me [l’idea fissa del cibo]. Invano. Troppo tardi» (EW, p. 32).
10
«È completamente dominata dalla sua “soverchiante idea, che da tempo ho riconosciuto come
insensata”» (EW, p. 21); «I miei pensieri si volgono esclusivamente al mio corpo, alla mia alimentazione,
alle mie purghe» (EW, p. 22); «compare ora la molesta coazione a dover pensare continuamente al cibo»
(EW, p. 22); «Per tutta la mattina la fame o l’angoscia di avere fame mi tormentano. L’angoscia di avere
14
L’attività di pseudo-pensiero, la coazione a ruminare e riempire la propria
testa di pensieri ossessivi quanto inutili, può essere efficacemente
paragonata ad alcuni fenomeni che ritroviamo in altre patologie alimentari:
«nella ruminazione continua dell’obesità non c’è tempo per la nostalgia
perché l’oggetto è sempre a portata di bocca. […] Un’accumulazione che
giunge a trasformare il corpo in un vero e proprio contenitore di rifiuti»
(Recalcati, 2002, p. 214). La testa si riempie di rifiuti, accumula pensieri
uno sull’altro non al modo dell’a-strutturato caos del delirio – questo sì
manifestamente alienante –, imballandosi su un pensiero assoluto come un
motore che gira a vuoto. Ellen West tenta di riempire un vuoto e
esorcizzarne la presenza nel corpo. Una presenza assoluta e letale da cui
non c’è nessuno scampo. In questo senso non c’è più posto se non per lo
scarto, ma uno scarto così lontano da sé da non poter mai dire niente al
soggetto sulla sua intima verità. Per quanto riguarda alle separazioni
traumatiche e alle erranze della paziente, abbiamo alcuni dati
inconfutabili: il rifiuto del latte a nove mesi, probabilmente dovuto a una
seconda gravidanza della madre che si risolve con la morte del neonato
(Hirschmüller, 2005), il trasferimento dall’America alla Germania nel decimo
anno di vita, la separazione dalla famiglia e il ricovero del fratello minore in
una clinica per malattie mentali, le relazioni d’amore fallimentari. Su queste,
soprattutto, possiamo dire alcune cose: la prima, intrecciata prima dei
vent’anni durante un viaggio in America viene immediatamente troncata
per volere del padre (EW, 10), la stessa sorte tocca poco dopo alla
relazione con un maestro di equitazione, che viene definita “infelice” (EW,
15). Da ultimo, la relazione con lo studente: tra alti e bassi e separazioni
forzate volute tutte dalla famiglia Ellen ha il tempo di sperimentare più volte
la frustrazione delle sue speranze. Dopo il matrimonio, la vita col marito la
porta lontano dalla famiglia, a cambiare spesso città, errare di sanatorio in
sanatorio e di clinica in clinica, in un tour dove sempre si cerca – senza mai
trovarla – la panacea tanto desiderata. Infine, mi sembra non privo di peso,
l’esito di entrambe le psicoanalisi intraprese: nel primo caso, quella con
Von Gebsattel si interrompe traumaticamente una prima volta (XXX) per
una malattia del medico; una seconda volta – definitivamente – per
l’infatuazione che questi ha improvvisamente avuto per un predicatore
errante. In questo senso, il medico non crede più al potere curativo della
fame è qualcosa di orribile: annulla ogni altro pensiero. […] Quando ho fame non posso più ragionare
con chiarezza, non posso analizzare nulla» (EW, p. 27); «Una tormentosa inquietudine non mi consente
di concentrarmi. Balzo in piedi, corro qua e là, continuo ad andare alla credenza in cui tengo il pane. […]
Ma il desiderio di mangiare, questo è insopprimibile. Per tutto il giorno non riesco a liberarmi
dall’ossessione del pane. Invade a tal punto il mio cervello che non c’è più posto per nient’altro: non
posso concentrarmi né nel lavoro né nella lettura» (EW, p. 27); «Quando al mattino apro gli occhi, tutto il
mio strazio è lì, davanti a me. Ancor prima di esser sveglia del tutto penso… al cibo. Ogni pasto è
dominato dall’angoscia e dall’eccitazione, un’unica idea riempie le ore tra un pasto e l’altro: quando avrò
fame di nuovo? Che voglia proprio adesso mangiar qualcosa? E che cosa? … E così via e così via: mille
forme diverse, ma il contenuto è sempre lo stesso» (EW, p. 33); «Mi sento passiva quanto la scena su cui
si dilaniano due forze nemiche» (EW, p. 44) [corsivi miei].
15
psicoanalisi, e ritiene di doverlo comunicare alla paziente. La seconda
analisi termina invece quasi di soppiatto, durante le vacanze di Natale:
seguendo il consiglio del medico internista, la paziente viene ricoverata
nella clinica di Binswanger a tempo pieno. È da notare che anche la
seconda analisi doveva essersi già da tempo arenata (Bettoni Pojaghi,
Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo, 2013) per una chiara incapacità
dell’analista a comprendere e contenere i vissuti della paziente.
5.
Il sintomo come oggetto organizzatore del vuoto
Abbiamo visto come le manifestazioni del sintomo anoressico in Ellen
West, e in generale in pazienti che si trovano in stati analoghi, possano
essere meglio comprese alla luce della loro struttura che si basa
fondamentalmente su un difetto della capacità di significantizzare e
simbolizzare l’esperienza. È possibile anche indagare una seconda
dimensione, collegata alla prima come l’ombra al corpo che di necessità la
proietta: la dimensione contenitiva del sintomo. Quello che vorrei provare a
mostrare è come anche nel Caso Ellen West è possibile rintracciare una
funzione del sintomo come tentativo di accedere, in una qualche misura e
sempre senza mai riuscirvi completamente, ad una dimensione di
coesione. Se inscrivere il taglio nella carne, affamare il proprio stesso
corpo serve, in una dimensione psicotica, a tenere a freno l’ansia
annichilente di non avere più confini né limiti, possiamo dire con Recalcati
(2002) che il sintomo rimane l’ultima mossa per provare a tenere insieme
un corpo e una carne che rischiano di diventare completamente alienati. Il
sintomo, dunque, come organizzatore del caos 11. Kafkianamente,
potremmo dire che è necessario l’esercizio di una quotidiana mortificazione
reale per tenere lontano il concreto rischio di metamorfosi.
La riflessione psicoanalitica dell’ultimo cinquantennio, pur a partire da
posizioni diverse, si è occupata delle angosce di disintegrazione e delle
manovre, primitive e massicce, che possono essere attuate per farvi fronte.
Particolarmente significativa mi sembra la riflessione di F. Tustin, che come
analista infantile si è occupata principalmente delle psicosi autistiche. Dagli
anni ’70 Tustin inaugura un filone di ricerca secondo il quale alcune
manifestazioni dell’autismo infantile – laddove non sussistano danni
cerebrali, e quindi possa essere definito psicogeno – potrebbero essere il
risultato di una serie di reazioni difensive primitive e massicce a precoci
frustrazioni sentite come soverchianti. Secondo questa prospettiva, se un
bambino particolarmente vulnerabile dal punto di vista psicobiologico
incontra una madre che – per qualche motivo – tende a non instaurare con
lui un buon legame di sincronia nei primi mesi post natali, può vivere come
11
«Il culto anoressico dell’osso, in questi casi, non è il culto simbolico dell’incorporeo, dell’anticarne, ma,
al contrario, è ciò che permette alla carne di stare insieme» (Recalcati, 2002, p. 45) [corsivi miei].
16
catastrofica l’esperienza della separazione. Ciò genererebbe la sensazione
di un buco nero, di essere preda di un terrore indicibile. A questo punto, per
fare fronte all’ansia annichilente di questo tipo di sensazioni, il bambino
opererebbe una precocissima e rudimentale manovra difensiva atta a
tagliare qualsiasi ponte sensoriale col mondo esterno, circondandosi
esclusivamente di «sensazioni autogenerate che sono sempre disponibili e
prevedibili e quindi non possono provocare traumi» (Tustin, 1986/2012, p.
23)12. Questo tipo di sensazioni possono essere elicitate da manipolazione
di parti del proprio corpo o oggetti esterni dotati, come vedremo, di precise
caratteristiche. Tustin denomina questo tipo di oggetti oggetti autistici.
I terrori annichilenti cui il neonato si troverebbe a far fronte non sono molto
diversi da quelle che abbiamo definito, con Hurvic (2003), annihilation
anxieties. Il «bozzolo» isolante sarebbe a questo punto formato da
sensazioni autogenerate, movimenti idiosincratici, stereotipie e automatismi
autostimolatori. Tustin assimila questo tipo di reazioni a quelle di
congelamento di certi animali (1986/2012, p. 25): «[…] nei soggetti
propensi a modalità autistiche di comportamento questo stadio precoce di
comunione è stato traumaticamente disturbato. Essi non hanno un nucleo
psichico che li tiene insieme, ma un senso di perdita non elaborato, un
«buco nero»[…]. Questi soggetti sono terrorizzati da qualsiasi cosa che
non sia sotto il loro tirannico controllo. […] focalizzano l’attenzione su
“oggetti e forme sensoriali” autoctone (autogenerate). Le risorse e la
creatività di cui sono ben dotati vanno in una direzione sterile, poiché
hanno generato degli artefatti, non condivisi e non condivisibili dagli altri».
La funzione dell’oggetto autistico è quella di isolare sensorialmente il
soggetto dai timori annichilenti mediante l’immobilizzazione del corpo e
l’ottundimento delle sensazioni 13.
Se proviamo a pensare al sintomo come ad un particolare tipo di oggetto
autistico, ci accorgiamo di essere di nuovo sulla linea di quanto notato da
Binswanger e ipotizzato da Recalcati. Forme e oggetti assolvono una
funzione autosedativa (Tustin, 1986/2012; 1990/1991), e sono sempre
caratterizzati da un certo tipo di qualità: ritmiche, ripetitive, messe in atto di
preferenza in momenti di ansia o forte stress, l’individuo ne ha il controllo
assoluto, non sono connesse a variazioni di umore, tendono a
tiranneggiare l’individuo e ad assumere una forma pervasiva. L’esame
Molte critiche sono state mosse in anni recenti a questo tipo di concezioni riguardo l’eziologia
dell’autismo, vedi ad esempio Barale e Uccelli (in Ballerini, Barale, et al., 2006). Gli stessi autori
riconoscono tuttavia come potenzialmente valida l’applicazione del concetto di oggetto autistico a tutta
una serie di osservazioni cliniche.
13
Facendo l’esempio di una macchinina: un bambino non psicotico può usarla per giocare, farne girare le
ruote, avere una sua macchinina preferita. L’oggetto autistico è diverso: si tratta di un oggetto, di solito
duro al tatto o comunque solido, che il bambino tiene strettamente chiuso in mano o a contatto con una
parte del corpo. È usato in modo bizzarro e idiosincratico, cioè in maniera assolutamente incurante
dell’utilizzo condiviso: chiavi, giocattoli, macchinine, cubi sono manipolati, stretti, tenuti a contatto col
corpo in virtù delle sensazioni che generano. Il bambino non farà con la macchinina alcun tipo di gioco.
La sua perdita può provocare un accesso di collera e angoscia, ma se la macchinina viene sostituita con
un’altra o con un oggetto altrettanto duro, questo sarà sufficiente a calmarlo.
12
17
dell’utilizzo dell’oggetto autistico è di grande aiuto nella diagnosi precoce di
molti tipi di disturbi. Winnicott (1971/1972, p. 41) riporta il resoconto e i
risultati del gioco dello scarabocchio con un bambino fortemente disturbato
per una separazione familiare. I risultati del gioco – che consiste nel
cominciare un disegno con un tratto di penna, chiedere al bambino di
aggiungerne un altro, e continuare reciprocamente così fino a produrre
delle figure di varia forma chiedendo al bambino che cosa rappresentino –
erano estremamente ripetitivi e indicavano sempre oggetti connessi all’atto
del legare: lazo, frusta, frustino, yoyo, laccio con nodo, frustino, frusta. In
questo senso, il tema del gioco tendeva ad assumere delle valenze
ossessive14.
Il filone di ricerca inaugurato da Tustin, che ha registrato negli ultimi venti
anni assai significativi contributi di altri studiosi di area anglosassone,
indaga l’utilizzo di barriere autistiche da parte di pazienti adulti non
manifestamente psicotici che non avessero ricevuto nell’infanzia alcuna
diagnosi di disturbo autistico. Nella ricerca di Tustin, infatti, è divenuto
sempre più chiaro che anche un certo tipo di pazienti non psicotici può
utilizzare sensazioni, oggetti o comportamenti con le stesse finalità e
funzioni che hanno gli oggetti autistici. Faccio presente come ho già
ricordato che per Tustin e per alcuni autori che hanno raccolto i suoi spunti,
è possibile in pazienti nevrotici la contemporanea presenza di “sacche”
psicotiche. Quindi nei testi che citeremo la dicitura per questo tipo di
pazienti – a volte altrimenti concettualizzabili come borderline, o come
portatori di psicosi non scatenate – sono definiti “nevrotici” [corsivi miei]:
«Alcuni pazienti nevrotici hanno dei tratti in comune con i bambini autistici;
si sentono irreali e percepiscono “la vita come se fosse un sogno”. Ad un
esame più approfondito, appare chiaro quanto sia labile la loro sensazione
di esistere come individui. In questi soggetti la maturazione cognitiva ed
emozionale sembra che abbia avuto luogo aggirando una «zona oscura»
di mancato sviluppo, che poi si è trasformata in una capsula di autismo nel
fondo della loro personalità. […] Tali pazienti nevrotici riescono spesso a
descrivere lo stato primitivo, non verbale, in cui lo sviluppo del senso del
Sé è stato ampiamente impedito o quantomeno alterato» (Tustin,
1986/2012, p. 203).
Nei pazienti adulti, questo tipo di aree a funzionamento autistico può
essere mascherato da formazioni reattive ossessive, così come i profondi
timori di annichilimento e il senso di non esistenza possono essere coperti
14
«Come diniego della separazione il laccio diventa una cosa a sé, qualcosa che ha proprietà pericolose
e che deve essere padroneggiato. […] Quando la speranza è assente ed il laccio rappresenta un diniego
della separazione, allora si determina un assai più complesso stato di cose – uno stato di cose che
diventa difficile da curare, per via del guadagno secondario che deriva dalla abilità che si sviluppa
ogniqualvolta un oggetto deve essere manipolato per poter essere padroneggiato» (Winnicott,
1971/1972, p. 44).
18
da apparente fluidità verbale, capacità comunicative notevoli, apparente
soddisfazione. La componente autistica si manifesta in un certo ritiro dal
mondo, tendenza ad instaurare relazioni con caratteristiche anaclitiche e
simbiotiche, senso di vuoto (Tustin, 1986/2012, p. 276). Ogden
(1989/1992) parla di posizione contiguo-autistica, una modalità
prevalentemente sensoriale per cui il senso di sé è costituito dal ritmo delle
sensazioni, dall’essere tenuti, dal contatto con superfici che delimitano e
che forniscono un primo abbozzo dell’esperienza epidermica. Il fallimento
di questo tipo di modalità porta allo sviluppo di difese autistiche. Fa notare
che il termine non deve essere inteso nell’accezione del grave disturbo
psicopatologico infantile: anche in questo l’aggettivo autistico è utilizzato in
riferimento a una universale modalità di esperienza che si costituisce su
base autosensoriale, e che mira all’autosufficienza e all’autogratificazione.
Una paziente di 29 anni (Ogden, 1989/1992, p. 42) non può fare a meno di
provocarsi tagli sulle braccia per trovare sollievo all’angoscia: su un piano
di contiguità sensoriale, laddove manca un senso del limite e una chiara
definizione simbolica dell’angoscia, l’atto dell’infliggersi tagli costituisce
l’unica via per riuscire a riconoscere un me/non-me, una superficie
corporea, un qualche grado di separazione. Tutto avviene a livello fisico, in
modo completamente presimbolico.
Nel Caso Ellen West è possibile dimostrare come le recrudescenze del
sintomo e lo scatenamento delle crisi acute siano sempre concomitanti a
periodi di separazione dalla famiglia, viaggi all’esterno, interruzioni di
relazioni sentimentali significative. Il primo scatenarsi del sintomo avviene
dopo un viaggio in America, quando la paziente è stata a lungo separata
dai genitori; abbiamo poi un secondo momento particolarmente
problematico al termine della prima relazione sentimentale con lo studente
all’Università: in questo caso la paziente ha bisogno di un lungo periodo in
sanatorio. Il terzo momento drammatico lo abbiamo dopo il matrimonio e
durante il viaggio di nozze: la paziente, ingrassata nel periodo precedente,
torna a fare larghissimo uso di purganti per dimagrire; ulteriori
recrudescenze si hanno ad ogni separazione dal marito, fino al momento
dell’ultima separazione significativa per ordine dell’analista: come si
ricorderà, in quel caso la paziente tenta più volte il suicidio. Potremmo
pensare che un assetto dell’Io particolarmente labile, con scarsa capacità
di fare fronte alle angosce di separazione e alle perdite, reagisca
utilizzando il sintomo anoressico come auto-consolazione e delimitazione
ogni volta che in qualche modo, a causa di un distacco, è minacciata la
simbiosi immaginaria che tiene coesa la paziente. Il vuoto, concettualizzato
per mancanza di significantizzazione, come qualcosa di reale ed esterno,
viene tenuto a bada attraverso queste manovre, che poi diventano
praticamente indipendenti dal soggetto e automatiche.
6.
Dimensione «orale» del sintomo come oggetto autistico
19
La ruminazione infantile (E. Gaddini e R. Gaddini, 1959) con l’ingerire e poi
rigurgitare e masticare il cibo, il provocarsi ferite, tagli, abrasioni (Farber,
2008) sono stati concettualizzati come manovre primitive, autosensoriali e
presimboliche di delimitazione interno/esterno. I pazienti possono
sviluppare rituali ripetitivi di conta o sintomi ossessivi nella misura in cui
sentono che questi servono per delimitarsi rispetto a un buco o a un vuoto
che sentono dentro di loro (Ogden, 1989/1992). In questo senso anche il
dolore mentale (Farber, 2008) potrebbe agire in modo determinante come
«organizzatore sensoriale». In letteratura è stata indagata la funzione di
oggetto autistico ricoperta da storie (Barrows, 2001), dolore autoinflitto o
provocato da malattie (Kilchenstein, 1998), alcool e droghe (Cohen e Jay,
1996), automutilazione (Farber, 2008). Riferendoci all’articolo dei Gaddini
(1959) possiamo intravedere una prima formulazione che pratiche orali e di
controllo alimentare possano fungere da oggetto autistico. In effetti si può
pensare che anche elementi orali (siano essi un certo tipo di uso della
parola o del conflitto verbale, così come le più manifeste pratiche nei
disturbi dell’alimentazione) possano essere considerati oggetti autistici. Il
che ci porta al nostro focus sui disturbi alimentari e in particolare
sull’anoressia di Ellen West.
Cohen e Jay (1996) descrivono il comportamento di un paziente che
utilizzava la creazione di conflitti interpersonali, l’agitazione continua e le
proteste verbali come attestazioni fisiche del proprio senso di esistenza. Gli
autori notano come questo utilizzo idiosincratico di un certo tipo di
comportamento a fini di isolamento abbia molto a che fare con le
sensazioni autoconsolatorie ed escludenti sperimentate tramite l’utilizzo di
oggetti autistici: il paziente era solito ubriacarsi quotidianamente, usando
l’alcool per creare quella che definiva «a bubble of good feelings».
Possiamo pensare che sia elementi di protesta verbale (un certo uso
dell’apparato fonatorio, un certo tipo di sensazioni derivanti dal una potente
emissione di voce) che elementi più direttamente connessi con l’addiction a
una sostanza che si ingerisce fornissero quegli elementi di consolazione
sul proprio stato di esistenza, sulla propria connessione corporea, e
isolassero il paziente da angosce di frammentazione.
Un’altra paziente descrive la creazione di uno spazio mentale
assolutamente vuoto come protezione rispetto a sensazioni di angoscia
[corsivi miei]: «I’m blanking you out. I’m trying to make everything white. No
contact points, no touching, no overlapping. Just a plain white empty
canvas. […] It feels very good. […] No one can get me to here. No one can
hurt me» (Cohen e Jay, 1996, p. 922). Questo tipo di manovre, soprattutto
qualora riescano a sostituirsi al pensiero all’interno della comunicazione
analitica, assolvono una funzione evacuativa (Korbivcher, 2007): creano un
«mondo sensoriale perfetto», all’interno del quale il paziente permane in
una sorta di beatitudine allucinatoria. Nissen (2012) parla a questo
20
proposito di organizzazioni autistoidi: l’esperienza del Sé davanti al mondo
è di totale e passiva impotenza, che può essere compensata da formazioni
onnipotenti: «I pazienti si trovano tra la Cariddi di uno stato non integrato e
la Scilla del terrore esterno. La separazione e l’essere separati, la realtà
interna e quella esterna, non devono diventare reali e tutto ciò che ricorda
questi fatti è da evitare» (Nissen, 2012, p. 138).
Da un punto di vista di soddisfazione orale, la medesima funzione può
essere svolta dal sintomo anoressico e bulimico. In un articolo, Latzer e
Gerzi (2000) si occupano di ricostruire un caso clinico di anoressia trattato
da Tustin nel 1958, cioè molto prima che la studiosa cominciasse ad
occuparsi di oggetti autistici. È interessante che alcuni elementi già
prefigurino questa direzione di indagine: Tustin osserva che il
comportamento della sua paziente adolescente è improntato a marcato
ritiro. Il rapporto con l’analista è caratterizzato da un transfert simbiotico,
nel senso che secondo la paziente un rapporto “buono” è esclusivamente
quello in cui ci si gratifica reciprocamente in perpetuo senza che mai niente
venga a rompere questa armonia. In questo senso, a parziali distacchi
dall’analista, in occasione di piccoli periodi di separazione o discussioni su
orari e sedute, la paziente varia di peso: da un diagramma riportato
vediamo come in conseguenza a qualche tipo di frustrazione si abbia ritiro
e conseguente immediato calo ponderale. Se invece le cose vanno bene, il
peso resta stabile o aumenta [corsivi miei]: «come risulta dal grafico […], le
sue variazioni di peso riflettevano le variazioni del suo stato d’animo nei
miei confronti» (Tustin, 1986/2012, p. 244).
Nell’articolo di Latzer e Gerzi (2000) i pattern autistici vengono messi in
relazione al tentativo di gestire, nei disturbi alimentari, il «buco nero»
collegato a bisogni irrisolti di separazione individuazione e definizione di
sé, nonché nell’espressione di bisogni affettivi: il paziente si servirebbe del
sintomo come di una guscio protettivo contro le sensazioni dolorose
derivanti – già a livello fisico – da angosce di disintegrazione, queste ultime
causate da assenza di contenimento materno. Questo tipo di pazienti,
almeno in alcuni casi, sarebbe caratterizzato da un certo livello di scissione
della personalità, una parte della quale rimane completamente
inaccessibile al terapeuta. Fantasie grandiose e onnipotenti, conservate
grazie all’isolamento di questa parte, permettono al paziente di sentirsi in
grado di non avere bisogno di niente da nessuno, fornendogli l’illusione di
poter bastare completamente a se stesso per quanto riguarda i propri
bisogni. Il paziente si disconnette dalla realtà e permane in una sorta di
«bolla» autoprodotta: «These patients must “manage” holes. The hole
might be the parent’s hole, which is empty and never fills up as in binge
eating; fills up alternately, as in bulimia; or whose existence is denied by
the parents as in anorexia» (Latzer e Gerzi, 2000, p. 53) 15. Possiamo
L’anoressia, in poche parole, sembra «sostituire a questa difficoltà [scil. il sentimento della propria
separazione] l’ideale nirvanico di una specie di separazione assoluta, apatica, anestetica, di una
15
21
pensare al “faccio da sola” della paziente anoressica come a un’arcaica
forma di gestione e compensazione del «buco» simbolico e affettivo nella
famiglia, nella relazione precocemente turbata con la madre: la negazione
alla radice del vuoto, la sua assunzione a baluardo, proteggono dallo
sperimentare una perdita o le conseguenze di un trauma, ma lo stesso
congelamento che salva divora poi la paziente. In questo senso, come
spesso accade, la difesa è ben peggiore del male che si proponeva di
evitare.
Ma che cos’hanno veramente in comune gli oggetti autistici dei pazienti di
Tustin e le manovre che nell’anoressia vengono messe in atto al fine di
«salvaguardare» l’esistenza del vuoto? L’idea è quella che un certo tipo di
pratiche che ritroviamo nell’anoressia «psicotica» – ma si potrebbe dire
l’impianto stesso del disturbo e ancora prima i presupposti esistenziali che
lo sostanziano – possano essere lette come forme silenti, più «immateriali»
di oggetti autistici, ma non meno pervasive né distruttive nei loro esiti.
Come a dire che, pure a un diverso livello di sviluppo e astrazione queste
difese conterrebbero in nuce esattamente le stesse caratteristiche di
quelle individuate da Tustin; la differenza consisterebbe nel fatto che se per
i piccoli pazienti autistici gli oggetti possono essere solo e soltanto oggetti
materiali o pratiche di autostimolazione corporea, nel disturbo che abbiamo
provato ad analizzare, in un’anoressia con tratti psicotici quale da più parti
è stata definita quella di Ellen West (Binswanger, 1944/2011; Borgna, 2005;
Cargnello, 20102; Recalcati, 2002), potremo avere una gamma più ampia di
elementi che funzionino da oggetto autistico: si va da pratiche di
mortificazione sul corpo molto vicine a quanto descritto da Tustin a
relazioni utilizzate in modo evacuativo; da rituali di ingestione/espulsione
fino a ben più complessi utilizzi dei pensieri come tampone al servizio di
questo tipo di auto-stordimento. In questo senso, soprattutto, ci sembra di
poter proporre una similitudine forse feconda: tra il pensiero come
significantizzazione dell’esperienza, capacità di trarre senso e crearne, e
un certo tipo di pensiero ossessivo messo in atto dalla paziente Ellen West
(che in molti momenti ne è consapevole e soffre orribilmente per questo)
può intercorrere la differenza che c’è tra un oggetto autistico e un oggetto
transizionale.
L’oggetto autistico per eccellenza nega a priori la possibilità di
sperimentare la mancanza. La separazione, in questo caso, è un «buco
nero» che rischia di inghiottire: se pensiamo alle reazioni di angoscia
estrema che suscita l’improvviso impedimento nell’uso di un oggetto
autistico16, possiamo capire come sia in gioco, in primo luogo, il piano fisico
separazione in opposizione a ogni esperienza di mancanza e di perdita» (Recalcati, 2010, p. 75) [corsivi
miei].
16
«La rottura delle stereotipie di comportamento» provoca «perdita dell’orientamento […]. La mia
paziente utilizza l’aggressione nell’intento di controllare e ridefinire i limiti del suo corpo, riuscendo a
configurarseli di nuovo attraverso il vissuto del brusco contrasto con gli oggetti esterni. […] l’attività
22
della sopravvivenza; l’oggetto transizionale, così come descritto da
Winnicott (1971/1972) serve, quasi all’opposto, per aiutare il bambino a
dare un senso a questa assenza e a questa mancanza. A trasformare
appunto il vuoto in qualcosa che sia possibile trattare con la mente e non
debba essere semplicemente evacuato [corsivi miei]:
OGGETTO TRANSIZIONALE
Il
bambino
assume
diritti
sull’oggetto, e conveniamo su
questo assunto. Tuttavia una
qualche
abrogazione
dell’onnipotenza
è
una
caratteristica fin dall’inizio.
Non deve mai cambiare, a meno
che non venga cambiato dal
bambino.
L’oggetto è trattato con affetto, e al
tempo
stesso
amato
con
eccitamento e mutilato.
Deve
sopravvivere
all’amore
istintuale, e anche all’odio.
Al bambino deve sembrare che
l’oggetto dia calore, o che si
muova, o che abbia un suo tessuto,
o che faccia qualcosa che provi
l’esistenza di una sua propria
vitalità e realtà. Il suo destino è che
gli venga gradualmente concesso
di essere disinvestito di cariche.
OGGETTO AUTISTICO
Si utilizza l’oggetto proprio per non
dover abrogare l’onnipotenza del
guscio protettivo.
L’oggetto è intercambiabile con
qualsiasi altro oggetto assolva le
medesime funzioni.
L’oggetto non è trattato con affetto,
né amato con eccitamento.
Non è investito né di amore
istintuale, né di odio.
L’oggetto è trattato in tutto e per
tutto come una parte di sé, del
proprio corpo, non separata né
autonoma. Il suo destino è di venire
usato
ripetitivamente
e
poi
eventualmente sostituito da un altro
oggetto.
L’oggetto transizionale aiuta il soggetto a tollerare progressivamente la
realtà frustrante della separazione, ma allo stesso tempo è lì a ricordare
che la separazione non è interminabile né definitiva. Possiede uno statuto
particolare che lo rende un oggetto né completamente interno né del tutto
esterno (Winnicott, 1971/1972, p. 31): è un oggetto-simbolo, sempre
presente ma dotato di una sua essenziale separatezza, e come tale facilita
lo stabilirsi del senso di realtà e aiuta il bambino a transitare da uno stato di
controllo onnipotente (magico) a uno più realistico. Se il senso dell’utilizzo
dell’oggetto transizionale è quello di fare da ponte verso la simbolizzazione
dell’assenza, la funzione dell’oggetto autistico è esattamente opposta, cioè
di elidere qualsiasi mancanza.
autoaggressiva (colpi di testa, morsi, ecc.) serve per affinare la conoscenza dei limiti del proprio corpo,
dell’io e del non io» (Bleger, 1967/2010, p. 88).
23
7.
Tiroidina e Lassativi: oggetti autistici orali nel Caso Ellen West
Nel materiale clinico del Caso Ellen West molte manifestazioni
sintomatologiche della paziente possono essere ricondotte al tipo di
assetto orale-autistico che abbiamo appena descritto. Si può pensare che
la manifesta «coazione a pensare al cibo» sia una delle manifestazioni più
eclatanti di questo utilizzo della ruminazione mentale come un oggetto
autistico “piatto” cui aderire (Cartwright, 2006). Farber (2008) ha studiato
l’utilizzo del dolore autoinflitto (tagli, ma anche purghe dolorose, vomito)
come oggetti autistici nei disturbi alimentari: propone di considerare le
pratiche di autolesionismo, esposizione a forti rischi, purging tramite vomito
e lassativi come una manovra controfobica di controllo rispetto al «vuoto» o
«buco nero» sperimentato da pazienti di questo tipo.
In questa direzione, e per concludere, vorrei proporre l’esame in questo
senso di una ridotta, ma significativa, parte del materiale clinico così come
ci è stata riportata da Binswanger. Si tratta dell’impiego di pastiglie di
lassativi e tiroidina, di cui abbiamo una prima attestazione proprio nel
periodo della relazione con lo studente universitario: i genitori esigono una
separazione, Ellen accetta e si reca in una località balneare dove «torna a
manifestarsi una «depressione» particolarmente grave» (EW, 17). L’unico
modo di farvi fronte pare essere quello di aumentare i digiuni, fare lunghe
marce ed assumere ogni giorno da trentasei a quarantotto pastiglie di
tiroidina: «tormenta il proprio corpo per l’intera estate, ma interiormente sta
bene, perché è di nuovo sottile» (EW, p. 17). L’uso di purganti si intensifica
dopo il matrimonio (EW, 19) finché nel trentaduesimo anno di età la dose
giornaliera di lassativi è di settanta pastiglie (EW, 21). Se si sforza di non
assumerne percepisce il suo stato come «ancora più tormentoso» (EW,
24). Ancora durante il ricovero nella clinica di Binswanger fa uso di lassativi
di nascosto (EW, 42) e – possiamo aggiungere – la morte le giungerà per
bocca con l’assunzione di 30 pastiglie di Somnacetin (Hirschmüller, 2005).
Provando a leggere questo tipo di pratica alla luce di quanto osservato in
merito all’oggetto autistico, possiamo trarre le seguenti considerazioni
[corsivi miei]:
1. L’uso di lassativi e tiroidina è ossessivo e ripetitivo.
2. Viene messo in atto preferibilmente nei momenti di forte tensione, in
seguito a separazioni significative, momenti di stress, ricoveri in clinica,
assenze del marito, momenti di depressione.
3. Le sensazioni che genera l’assunzione sono di immediato sollievo e di
scarica rispetto ai conflitti che la attanagliano: «Ma quando si accorge di
essere aumentata di due chili in una settimana, scoppia in lacrime e a
lungo non riesce a calmarsi. Quando un altro ginecologo le dice che una
buona nutrizione non è il presupposto di una gravidanza, ricomincia
subito a prendere forti purganti» (EW, p. 19).
24
L’assunzione di tiroidina e lassativi sembra agli occhi della paziente
proteggere concretamente da indesiderabili affetti di tipo psichico:
«Appare invecchiata e deperita. Ma poiché crede di aver trovato nei
purganti un rimedio contro il pericolo di ingrassare, non è depressa»
(EW, p. 20).
5. Sia i lassativi che le pastiglie di tiroidina non sono usati per la loro
funzione specifica (che prevedrebbe ben più bassi dosaggi e un periodo
di impiego molto più limitato). Il tutto è parte di manovre evacuative che
la paziente mette in atto per evitare crisi di angoscia.
6. Possono essere usati indiscriminatamente tutti i tipi di sostanze che
svolgano la funzione di permettere l’evacuazione di cibo o la sua più
veloce eliminazione a livello metabolico: in questo senso, nessuna
differenza tra medicinali anche molto diversi tra loro come lassativi,
ormoni tiroidei, preparati vegetali, ma anche mezzi non farmacologici
come estenuanti passeggiate e digiuni. Se pensiamo a un passo come:
«Diviene triste quando si guarda allo specchio, odia il proprio corpo e
spesso lo percuote a pugni chiusi» (EW, p. 18) possiamo comprendere
come l’impiego di questi mezzi metta al sicuro dalla minaccia di
annientamento e di annichilimento connessa alla percezione del proprio
corpo grasso come rivoltante e tombale. All’opposto, ogni tentativo di
non farne uso si risolve in una serie di sensazioni terribili. “Non appena
avverto qualcosa che mi comprime alla vita – ossia mi comprime la
cintura della gonna – sprofondo avvilita in una depressione profonda,
quasi si trattasse di chissà quale tragedia”» (EW, p. 24); «Se invece
“digerisce bene” [il che può significare percepire il proprio stomaco
come non pieno, non ingombro da sostanze ingrassanti], si diffonde in
lei “una sorta di serenità” e si sente a suo agio» (EW, p. 24).
4.
In questo senso, e in conformità con quanto abbiamo cercato di mostrare
in questo scritto, possiamo ritenere che la paziente Ellen West, a partire
dalla discussa diagnosi di Binswanger e di quanti poterono avere accesso
alla sua storia clinica, recasse in sé i segni di un disturbo che rimonta alle
primissime fasi di sviluppo. Le notizie della morte di un fratellino subito
prima della sua nascita e di uno dopo la sua nascita (Hirschmüller, 2005) e
il concomitante suo rifiuto del latte potrebbero far pensare a una possibile
depressione materna, il che porta nella direzione di una possibile
disregolazione del normale contenimento. In questo caso tuttavia i dati
sono troppo pochi per portare ad ipotesi più strutturate. Quello che è sicuro
è che il disturbo di Ellen West, sviluppatosi dall’adolescenza in poi, reca in
sé le tracce profonde della presenza di un livello di angosce di
annichilimento che possiamo definire psicotiche. In questo senso, benché
la paziente non abbia mai mostrato segni manifesti di delirio o di
destrutturazione del pensiero, possiamo pensare che per l’intera vita abbia
lottato con questo tipo di angosce devastanti. Probabilmente proprio la
25
funzione del sintomo ha impedito un ulteriore scatenamento: usando il
proprio corpo e certe sensazioni di vuoto come oggetto autistico, la
paziente ha potuto isolare e trattare una quota di questo tipo di angosce.
Possiamo pensare, come abbiamo accennato, che l’utilizzo di pratiche «sul
corpo», l’ingestione di purganti e le percosse non siano l’unico modo in cui
si esplica un utilizzo autistico dell’esperienza. Probabilmente possiamo
pensare anche ad un certo utilizzo del pensiero, dell’imballarsi e del
tornare sempre sugli stessi pensieri infecondi e francamente inutili come
una modalità del tutto inconsapevole di riempire il vuoto in testa con una
sorta di «spazzatura mentale», in assenza di cui sarebbe proprio il vuoto a
percepirsi in tutta la sua devastante evidenza. In questo articolo ci si è
attenuti all’indagine delle sole pratiche di ingestione di lassativi e tiroidina
perché sono quelle più circoscritte e meglio definibili nel materiale riportato
da Binswanger.
Così come una paziente di Cartwright (2006) utilizzava la produzione
verbale e incessante e le ruminazioni mentali per tenere sotto controllo i
fortissimi stati di ansia e creare una sorta di «legame sensoriale» con
l’analista, così possiamo pensare che la funzione del sintomo anoressico di
Ellen West sia esattamente la stessa: isolarsi e nel contempo evacuare la
sua drammatica verità con gli unici mezzi a disposizione.
Negli scritti, nelle lettere, nelle poesie Ellen scrive spesso di sentirsi ormai
«un nulla»: Du selbst ein Nichts geworden – Tu stessa sei diventata un
nulla, la fondamentale intuizione di avere un vuoto al centro e non sapere
come e a chi comunicarlo. A molti lettori del resoconto (si pensi a
Hirschmüller, 2005; Bettoni Pojaghi, Capocaccia, Ciocca, Ferro e Rizzo,
2013; Procesi, 1995) resta la sensazione incontrovertibile che qualcosa di
questa «nulla» debba ancora essere compreso, ricercato, intuito pur quasi
a un secolo di distanza. Ci sono ancora molte vie da percorrere, e molte
tessere per arrivare a comprendere questo mosaico frammentario che fu
un tempo la paziente Ellen West: l’avventura grande e infelice, ma tutta
umana, di un’esistenza.
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