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IL SE` E L`ALTRO- Cinzia Mion “il volto dell`altro mi interpella…” E
IL SE’ E L’ALTRO- Cinzia Mion
“il volto dell’altro mi interpella…”
E.Levinas
Mi piace iniziare il presente commento di riflessione sul campo di esperienza
“Il sé e l’altro”, incluso nelle recenti Indicazioni per il curricolo per la scuola
dell’infanzia, con la citazione riportata di Levinas, filosofo lituano di origine
ebraica. Levinas ha presente il “volto” nudo e indifeso dell’uomo oppresso,
sofferente, per cui richiama alla co-responsabilità irrecusabile gli altri esseri
umani che dovrebbero da esso sentirsi interpellati, chiamati in modo
pregnante, quasi viscerale, a non restare indifferenti e ad intervenire.
Intendo dare perciò un taglio di etica pubblica, e non solo, al mio commento,
segnalando la grande preoccupazione che trapela da parecchie fonti per la
deriva collettiva che sta prendendo la società occidentale, attraverso una
progressiva dissolvenza, fino alla cancellazione implicita ed esplicita, della
categoria dell’alterità.
L’indifferenza diffusa verso gli altri che le ricerche sociologiche sulle
relazioni interpersonali denunciano, per cui solo la convenienza individuale
spesso sorregge la ricerca di rapporti sociali, ne è la dimostrazione lampante.
La scuola, intesa nel senso di grande opportunità di laboratorio sociale, ha un
compito molto importante da realizzare nella direzione di ricostruire un
tessuto di relazioni significative, dove tutti gli altri possano essere riconosciuti
e valorizzati come uguali e insieme diversi .
Accanto a questa grande finalità mettiamo anche quella di aiutare
bambini e bambine a maturare delle identità, dal punto di vista psicologico,
solide ma flessibili. La flessibilità è infatti la condizione per l’apertura verso gli
altri ma d’altro canto soltanto un IO solido può crescere disponibile agli altri
perché non teme di essere invaso o di perdere i suoi confini.
La solidità dell’io si costruisce attraverso il pensiero non solo riflettente,
che ripete il pensiero degli altri, ma soprattutto riflessivo, vale a dire che brilla
di luce propria. Questo tipo di pensiero se curato a scuola, come
raccomandano vivamente le indicazioni in più parti, costruisce oltre al
pensiero critico anche il senso dell’autoefficacia e dell’autostima, ed evita
contemporaneamente le secche del dogmatismo che risulta invece essere
alla base dell’io rigido e non solido.
Il sé e l’altro in “Cultura, scuola, persona”
Il senso dell’importanza che il testo delle indicazioni dà al tema dell’identità e
dell’alterità va ricercato in tutti i capitoli, a partire dall’introduzione, nota ormai
sotto il nome di documento Ceruti.
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A proposito di questo mi ha colpito subito il termine ambivalenza che a
dire il vero viene riferito a rischi ed opportunità, ma che personalmente rilevo
ed estendo alla tematica prettamente psicologica che si interessa
dell’evoluzione dei soggetti intenti alla maturazione della loro identità,
pertanto non solo occupati ad apprendere ma anche a crescere.
Val la pena sottolineare infatti come l’ambivalenza sia una costante del
mondo interno di tutti noi: meglio esserne consapevoli e tenerne conto che
lasciarci disorientare da essa. Questo vale per gli adulti come per i bambini e
i ragazzi.
Il tema dell’identità perciò è molto delicato e non va assunto con
leggerezza oppure con l’intento manipolatorio di chi intende usare
l’appartenenza, di qualsiasi appartenenza si tratti, come un abito rigido e
indiscusso.
Il paradigma della complessità, molto caro a M.Ceruti e prima di lui a
E.Morin, compare subito quando più avanti si legge la necessità di dare
piena attuazione alla libertà e uguaglianza coniugate con le differenze e le
identità di ciascuno.
Mettere insieme il valore freddo del diritto che parla di uguaglianza con il
valore caldo dell’identità e dell’appartenenza che parla di differenza, come
direbbe Alain Touraine, è proprio del pensiero riflessivo della complessità che
ospita la multilogica ed induce operazioni mentali di coniugazione e non
semplicemente di inclusione od esclusione logiche.
Soltanto questo percorso può “formare saldamente ogni persona sul piano
cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la
mutevolezza degli scenari sociali e professionali presenti e futuri”.
Al tema che stiamo analizzano appartiene pertanto anche ogni riferimento
all’intercultura in quanto “la presenza di bambini e adolescenti con radici
culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale” per cui “bisogna sostenere
la loro interazione e la loro integrazione…in un confronto che non eluda
questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere.”
Mi sembra molto interessante che prima di parlare di integrazione si faccia
riferimento all’interazione. Risulta infatti indispensabile favorire la
conoscenza reciproca, la comunicazione, lo scambio, il confronto altrimenti
l’integrazione può essere scambiata con la semplice e fuorviante
assimilazione che negherebbe ogni peculiarità dell’altro, che pur chiede di
essere conosciuto e valorizzato.
Nessuno osa affermare che questo percorso sia facile. ma la strada non
può che essere questa.
Il confronto può avvenire sui grandi problemi dell’attuale condizione
umana perchè sono questi che possono spianare la strada per l’identità
terrestre, come auspica E.Morin.
Nella scuola dell’infanzia
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Nella scuola dell’infanzia il tema dell’identità costituisce una delle grandi
finalità generali insieme all’autonomia e alla competenza, riprese dal testo
degli Orientamenti del 1991, cui è stata aggiunta la cittadinanza.
Il tema dell’identità è legato a quello delle appartenenze, non a caso oggi
si parla di Io plurimo e nel testo si fa riferimento, parlando appunto
dell’identità, “all’importanza di imparare a conoscersi e a sentirsi riconosciuti
come persona unica ed irripetibile ma vuol dire anche sperimentare ruoli
diversi e diverse forme di identità: figlio, alunno, compagno, maschio o
femmina, abitante di un territorio, appartenente a una comunità”
Più avanti invece, parlando della cittadinanza, si introduce la tematica
dell’altro :” Educare alla cittadinanza significa scoprire gli altri, i loro bisogni e
la necessità di gestire i contrasti attraverso regole condivise che si
definiscono attraverso le relazioni, il dialogo, l’espressione del proprio
pensiero, l’attenzione al punto di vista dell’altro, il primo riconoscimento dei
diritti e dei doveri; significa porre le fondamenta di un abito democratico,
eticamente orientato, aperto al futuro e rispettoso del rapporto uomonatura”.
Anche nel capitolo “ l’ambiente per l’apprendimento” si riconosce
nell’organizzazione del contesto, finalizzato allo scambio e alla comunità di
pratiche, il valore della diversità come stimolo all’arricchimento personale,
anche quando la diversità può essere data dal bambino con fragilità e
difficoltà nonché dal bambino in situazione di handicap con i suoi diritti
speciali.
Campo di esperienza: “Il sé”
L’analisi del campo di esperienza che ha per titolo “ Il sé e l’altro” raccoglie in
sintesi tutte le indicazioni utili a sviluppare la tematica in questione e ci
permette meglio di approfondire, con qualche osservazione metodologica, la
sua complessità.
L’incipit del testo risulta subito molto impegnativo:” I bambini formulano le
grandi domande esistenziali sul mondo e cominciano a riflettere sul senso e
sul valore morale delle loro azioni, prendono coscienza della propria identità,
scoprono le diversità e apprendono le prime regole necessarie alla vita
sociale”
Questa premessa si declina poi attraverso i traguardi di sviluppo delle
competenze, che già nella loro espressione contengono l’idea del processo,
che non avviene in modo spontaneo, bensì sarà agevolato dai diversi contesti
di apprendimento, in situazione sociale e interattiva con i pari e con gli adulti,
all’interno di più relazioni significative, contrassegnate dalla cura. Tutte
queste espressioni meriterebbero una esplicitazione più puntuale, attraverso
argomentazioni attinte dalla psicologia dell’educazione, ma non è questo
l’intento del presente contributo.
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Proviamo invece almeno ad investigare il percorso della nascita
dell’identità, tralasciando suggestioni psicoanalitiche, che pur sarebbero
necessarie ma soffermandoci invece sulla semplice ma indispensabile
osservazione che il processo identitario si costruisce attraverso
l’identificazione con i simili ma anche la differenziazione dai diversi,
attraverso una lenta e continua scoperta ed assunzione di analogie e
differenze.
Risulta pertanto lampante che per qualsiasi percorso, sia quello riferito
all’appartenenza di genere, come a quello culturale-antropologico o religioso,
si può parlare di identità solo in presenza del confronto con la diversità o la
differenza altrimenti si è di fronte semplicemente ad un processo di
identificazione-assimilazione.
Bisogna anche tenere presente che la ricerca oggi di identità è uno dei
caratteri culturali e sociali della cultura della complessità. Per reggere infatti
gli urti della cultura disorientante del post-moderno, che ha spazzato via le
vecchie certezze, la nuova identità deve essere solida ma anche coesa, per
evitare il rischio della frantumazione.
La coesione dà il senso dell’identità, perché permette di tenere insieme
le varie parti del sé e garantisce il primato libidico, sulla ambivalenza
sopraccitata, evitando il disimpasto pulsionale e la liberazione
dell’aggressività allo stato puro.
La maturazione dell’identità, pertanto, consiste in un graduale ed
interminabile processo di maturazione, intrecciato di aspettative, proprie ed
altrui, personali e sociali che sono presupposto ma anche traguardo per la
crescita di ognuno di noi.
E… “l’altro”
Dopo aver tentato di accennare al percorso di formazione del sé proviamo a
capire come si struttura l’immagine dell’altro. Oggi abbiamo a disposizione
anche la scoperta, da parte delle neuroscienze, dei cosiddetti neuroni
specchio, che ci spiegano come la stessa soggettività nasca, per mezzo di
meccanismi cerebrali, quindi corporei, attraverso la relazione con l’altro,
attraverso quindi l’intersoggettività. Quest’ultima perciò risulta essere
originaria, preverbale e prelogica.
Prima delle neuroscienze anche Merlau-Ponty sosteneva l’originarietà della
relazione corporea, ma ciò oggi è dimostrato attraverso le scienze
sperimentali e lo studio del cervello. Un conto però è sapere come nasce la
reciprocità, da cui scaturisce anche la famosa empatia, un conto è avviarne la
consapevolezza e la consuetudine educativa.
Sappiamo tutti come i bambini all’età della scuola dell’infanzia siano
caratterizzati da un notevole egocentrismo e come l’altro sia presto vissuto
come un limite ai propri bisogni e desideri; come sia difficile accettare che gli
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altri, i pari, abbiano gli stessi diritti e come queste spiegazioni ed
argomentazioni siano dure da digerire per chi poco tempo prima, in famiglia,
aveva intorno a sé più di un adulto che si faceva in quattro per anticipare,
non solo accontentare, ogni sua richiesta.
Il testo delle indicazioni, in uno dei traguardi di sviluppo, infatti, recita
che il bambino dovrebbe raggiungere una prima consapevolezza dei propri
diritti e dei diritti degli altri, dei valori, delle ragioni e dei doveri che
determinano il suo comportamento.
Se intendiamo però indirizzare questo piccolo essere autocentrato verso
la crescita progressiva di un soggetto in grado di decentrarsi, di mettere a
fuoco l’altro da sé, di assumere anche doveri e non solo rivendicare diritti, di
capire che i vari comportamenti sottendono dei valori, bisogna lavorare molto
sia sulla realizzazione dei contesti interattivi, come raccomanda Vygotskij,
ma anche utilizzando tutte le occasioni per insegnare a mettersi nei panni
degli altri. Cosa vedono gli altri da un altro punto di vista, intendendo
veramente un’altra visuale; cosa pensano gli altri di fronte ad avvenimenti che
toccano interessi diversi, per esempio i partecipanti a dei giochi di squadra
che si misurano reciprocamente; cosa sentono gli altri quando sono messi a
dura prova da qualche situazione dolorosa, per esempio un cucciolo ad
essere portato lontano dalla propria mamma, un virgulto ad essere strappato
dal ramo oppure un bambino ad essere preso in giro o peggio fatto oggetto di
prevaricazione e prepotenze.
Per quanto riguarda la richiesta del traguardo “Riflette, si confronta,
discute con gli adulti e con gli altri bambini, si rende conto che esistono punti
di vista diversi e sa tenerne conto” è l’approccio socioculturale della
psicologia dell’educazione, divulgato in Italia da C. Pontecorvo. P.Boscolo e
A.M.Ajiello che suggerisce le didattiche più adeguate per avviare a questa
essenziale competenza, fondamento della democrazia.
Infatti i contesti sociali organizzati come spazi e tempi stimolanti, come
comunità di pratiche, di dialogo e di diversità, permettono la co-costruzione
della conoscenza, attraverso la discussione con gli adulti e con i pari, perché
discutendo si impara; sollecitano la riflessione e l’assunzione dei punti di vista
diversi attraverso il confronto; permettono l’apprendimento della
argomentazione e della controargomentazione, dando spiegazione delle
proprie affermazioni ma imparando anche a sollevare dubbi e a sostenerli,
sapendo anche fare domande interessanti dettate dalla costante ricerca di
senso.
Si afferma poi che tra le domande di senso sorgono interrogativi sui temi
esistenziali tra cui, l’esperienza insegna, compare il tema della malattia e
della morte, perché dimensioni ineludibilmente legate alla pratica degli affetti
e della vita.
Mi sembra meno probabile invece che compaiano interrogativi “su ciò che
è bene e ciò che è male” come afferma il testo. Ritengo infatti che valori così
assoluti siano un po’ lontani dal mondo dei bambini che invece saranno
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sensibili a valutare, in riferimento a comportamenti, le categorie di
correttezza o scorrettezza, obbedienza o disobbedienza, o al massimo
parleranno di soggetti buoni o cattivi .
Merita invece un discorso a parte il problema della giustizia. Bisogna tener
presente che alla scuola dell’infanzia si vive la prima esperienza di essere
trattati, in modo corretto o scorretto, come titolari di diritti uguali per tutti. Se,
invece, la scuola diventa il luogo, nella mentalizzazione dei bambini, dove si
compiono ingiustizie (subite direttamente o dai compagni) incomincia il rifiuto
delle istituzioni e del loro modo di operare.
L’Identità di genere
sensibili a valutare, in riferimento a comportamenti, le categorie di Tra le
differenze da rispettare, di cui si diventa consapevoli a scuola, dovrebbero
esserci anche quelle di genere che il testo però trascura. Compare, a
proposito del ”Corpo e movimento” una laconica espressione del tipo, a
proposito dei traguardi di sviluppo delle competenze:”Conosce il proprio
corpo, le differenze sessuali…” come se maturare l’identità di genere
significasse semplicemente prendere atto delle differenze anatomofisiologiche! Successivamente ogni tanto compare il termine genere ma non
all’interno di una sollecitazione esplicita rivolta al corpo docente a farsi carico
della maturazione dell’identità, prima di maschietti e femminucce e poi di
ragazze e ragazzi, affinchè crescano uomini e donne il più possibile scevri da
vecchi stereotipi e all’interno di una relazione che riconosca e renda operative
le pari opportunità.
Compare, per esempio, a proposito della scuola del primo ciclo,
all’interno del paragrafo “Elaborare il senso dell’esperienza”, la frase : (La
scuola) segue con attenzione le diverse condizioni di sviluppo e di
elaborazione dell’identità di genere, che nella adolescenza ha la sua stagione
cruciale. Sfido chiunque a capire che seguire con attenzione, significa
intervenire perché vengano intaccati gli stereotipi sessisti che non permettono
sia a maschi che a femmine di essere avviati contemporaneamente sia alla
autorealizzazione che alla relazione.
Generalmente infatti succede ancora che la nostra cultura di
appartenenza, composta di pratiche di accudimento genitoriale, interventi
educativi non oculati, esperienze generazionali vissute in famiglia, stereotipi
acriticamente trasmessi anche da docenti, non invitati espressamente ad
autopercepirsi e ad autointerrogarsi, si mantenga ancora su di un piano
tradizionale ormai superato. Non sempre infatti c’è consapevolezza, rispetto
alla tematica che stiamo investigando, del rischio di trasmettere stereotipi
smaccatamente antiquati. Spesso i maschi vengono indotti ancora solo
all’autorealizzazione, e viene trascurata la considerazione per il loro mondo
interno, con il risultato di una grave ripercussione sulla loro competenza
emozionale. Le femmine, invece, vengono educate alla considerazione di tutti
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gli aspetti che migliorano la relazione, perché storicamente deputate al lavoro
di cura, ma ciò si accompagna spesso per loro ad una implicita svalutazione
dell’autorealizzazione, se questa distrae dalla famiglia.
Si dimentica pertanto sia per maschi che per femmine che oggi c’è bisogno
per entrambi i generi della doppia dimensione.
Questa nuova progettualità, frutto della cultura della complessità, prevede
che la scuola lavori in funzione delle pari opportunità, nella fattispecie uomodonna e non si può nemmeno lontanamente pensare che questo sia un
lavoro automatico per cui sia sufficiente “l’elaborazione” della tematica del
genere.
Possiamo dire, nella migliore delle ipotesi, che il testo delle
indicazioni, sfiorando alcune tematiche, ci autorizza ad aprire delle
finestre di approfondimento tutte da esplorare.
Il disagio maschile e il bullismo
Intorno all’identità femminile e al suo riscatto, nonostante le pari opportunità
non siano di sicuro raggiunte, si sono però avviati parecchi progetti ed inoltre
risultano efficaci in modo pregnante gli esempi offerti in casa, alle bambine e
alle adolescenti, dell’emancipazione femminile conquistata dalle madri che in
gran parte ormai lavorano anche fuori casa. Queste ultime dimostrano infatti
ogni giorno notevoli competenze organizzative nel gestire la loro giornata
connotata dalla “doppia presenza” ma rappresentano anche un’immagine
femminile che ha già sfatato molti stereotipi riferiti alla propria identità. Sanno
prendere decisioni importanti, sanno assumere iniziative, sanno governare la
responsabilità in posti di lavoro apicali: competenze un tempo riconosciute
solo al genere maschile. Le donne però nell’interpretare questa nuova
dimensione che va oltre gli stereotipi, che E.Badinter chiama umanità
riconciliata, tengono insieme sia autorevolezza che notevole competenza
relazionale attenta ai bisogni degli altri.
Che cosa è successo nel frattempo all’identità maschile?
Nei suoi aspetti del cosiddetto “machismo”, è stata messa in crisi dalla donna
rinnovata e più consapevole del suo valore: l’uomo è stato costretto a dire
addio al patriarcato- almeno nei suoi aspetti giuridici, perché nei fatti non si
può dire che esso sia morto del tutto- ma ben poco è stato fatto, da parte dei
maschi, per ripensare alla loro identità nuova, Sono vissuti troppo a lungo di
rendita dei privilegi del patriarcato e molti non hanno rielaborato in tempo
un’idea di loro stessi come compagni della nuova donna.
Il disagio dell’uomo adulto ha spesso quindi questa origine ma tale
ritardo si ripercuote in modo più tangibile sulle nuove generazioni di
adolescenti.
Se oggi le cosiddette agenzie formative, scuola e famiglia, non
interverranno in tempo a farsi carico del tema dell’identità di genere, ma
continueranno ad identificarla con la semplice differenza sessuale, cioè con
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un dato biologico e non con un vissuto sociale, credo che anche il fenomeno
del bullismo diventerà sempre più difficile da debellare.
Sappiamo infatti che la moderna embriologia ha scoperto che tutti i
mammiferi, compreso l’essere umano, hanno una intrinseca tendenza allo
sviluppo in senso femminile. In altri termini la femminilità è il programma di
base ed occorre fare qualcosa in più affinché la maschilità prenda forma.
Questa consapevolezza si aggiunge alla difficoltà dovuta al fatto che il
processo di identificazione con la figura primaria, che è la madre, agevola le
femminucce ma non i maschietti che, appena diventati consapevoli della loro
appartenenza al genere maschile, devono mettere in atto un processo di
differenziazione che quasi sempre si connota per negazione. Per esempio“Sei un maschio, non devi aver paura, non devi piangere, non sei una
femminuccia !!!”Ma ciò è difficile perché la gestalt materna è penetrata in loro
attraverso il grembo che li culla, la voce che li avvolge, tutti i sistemi
sensoriali e mentali che li impregnano.
Inoltre, sempre la Badinter aggiunge: “ Egli (il maschio) può esistere solo
opponendosi alla madre, alla propria femminilità, alla propria condizione di
bebè passivo. A tre riprese, per esprimere la sua identità maschile, dovrà
convincersi e convincere gli altri di non essere una donna, di non essere un
bebè, di non essere un omosessuale.”
La difficoltà ad assumere l’identità maschile, adeguata ai tempi, esplode
nell’adolescenza, quando la domanda che ogni giovane maschio farà a se
stesso sarà-“Sono un vero maschio”? E più difficile che la giovane donna si
faccia la domanda speculare anche perché ha un forte segnale corporeo
mensile che sottolinea la sua appartenenza.
Paradossalmente è proprio aver intaccato a livello sociale gli stereotipi,
che facevano un tempo dell’uomo il sesso forte, senza però che i maschi
adulti li abbiano sostituiti con una ricerca pertinente, che ha creato il
disorientamento. Qualche volta allora gli adolescenti più sbandati e più fragili
riempiono il loro vuoto identitario, per avere l’antico potere, con la scorciatoia
delle prepotenze, soprattutto nei confronti dei più deboli. Le prepotenze, che
vanno ormai sotto il nome di bullismo, sono diventate ormai argomento
dominante sulle pagine dei giornali che scelgono tematiche scandalistiche
per parlare di scuola e dei giovani.
Secondo me sarà perciò prima di tutto attraverso una oculata ed attenta
educazione ad assumere una rinnovata identità di genere che si potrà
debellare questa forma di bullismo, ed altre forme di violenza, e che si potrà
pensare di raggiungere una sostanziale pari opportunità.
Il percorso riguarda però prima di tutto gli adulti e richiede pertanto una
formazione personale seria.
Il sé e l’errore
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Tornando all’analisi delle indicazioni, rispetto al campo di esperienza che qui
ci interessa, mi sembra degno di nota il rilievo dato dal testo, nel capitolo
“L’ambiente di apprendimento “ del primo ciclo, al fatto che per imparare ad
imparare è fondamentale “sapere riconoscere le difficoltà e le strategie
adottate per superarle, prendere atto degli errori commessi e comprendere le
ragioni di un insuccesso “ nonché rendersi conto del proprio stile di
apprendimento e conquistare la propria autonomia nel metodo di studio per
giungere all’autovalutazione.
E’ importante sapere che fra le caratteristiche dei nuovi bambini c’è
spesso anche quella che non accettano di sbagliare, incalzati come sono da
genitori della società della competizione, preoccupati di metterli in pista al più
presto possibile. Ben venga pertanto l’elogio dell’errore che permette di fare
esperienza e di apprendere da questa. Sappiamo tutti che lo spirito della
ricerca si regge sull’accettazione dell’errore e sulla fiducia in se stessi che
permette il successivo aggiustamento.
Purtroppo però la scuola tradizionale poco si affida alla
problematizzazione, molto invece alla esercitazione, spostando in questo
modo l’attenzione dall’errore allo sbaglio. Sono importanti anche le
esercitazioni ma non possono assorbire tutta la didattica, trascurando lo
spazio da dedicare all’investigare problematico.
A dire il vero la scuola dell’infanzia per fortuna si salva da tali
osservazioni perché al suo interno l’attività più frequente è la rielaborazione
delle esperienze, che poggia sulle riflessioni interattive.
Quando si sottolinea poi che l’alunno deve rendersi consapevole del
proprio stile di apprendimento e sviluppare la propria autonomia nello studio
viene valorizzato tutto il tema della metacognizione, così caro al
sociocostruttivismo, e così importante per l’identità dei soggetti che
apprendono.
Il sé e l’altro nelle varie aree disciplinari.
La tematica che stiamo analizzando è veramente trasversale a tutte le
indicazioni, è basilare perciò la formazione che viene perseguita già a partire
dalla scuola dell’infanzia.
Senza estrapolare tutti i riferimenti dal testo possiamo dire che ogni volta
che compare l’argomento dell’intercultura siamo di fronte alla tematica del sé
e l’altro, nel senso delle diversità culturali. Ciò si manifesta già a partire
dall’area linguistico-artistico-espressiva dove, essendo questo l’ambito dei
linguaggi, si evidenziano differenti esperienze culturali che condizionano la
percezione, la sensibilità, la gestione del corpo e dello spazio e dove
compare, in riferimento alla lingua italiana, la necessità di imparare a
negoziare.
La negoziazione diventa indispensabile nel confronto che deve avvenire
fra opinioni diverse, per poter arrivare al passaggio all’azione, in qualsiasi
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decisione partecipata da prendere. Oggi imparare a negoziare diventa
sempre più importante per cui è essenziale riuscire a fare quello che M.
Sclavi chiama assumere che l’altro ha ragione. Solo in questo modo
l’opinione dell’altro viene presa in seria considerazione al fine di una
eventuale contestazione o riconoscimento, senza correre il rischio di scartare
il punto di vista degli altri solo perché non è uguale al nostro.
L’area definita del Corpo Movimento Sport sottolinea come nell’ attività
motoria e sportiva il soggetto, sperimentando la vittoria o la sconfitta,
apprende a modulare e controllare le proprie emozioni e impara anche il
rispetto per sé e per l’avversario.
Il tema delle emozioni è troppo importante per liquidarlo con due righe,
va senz’altro ripreso ed ampliato.
L’area storico-geografico-sociale si presta in modo particolare a far
emergere le diversità e i continui rimescolamenti di genti e di culture, che ci
consentono di capire i profondi intrecci che si stabiliscono fra le genti del
mediterraneo e le popolazioni dei continenti europei, asiatici e africani.
L’attenzione all’aspetto appena descritto dovrebbe dare la consapevolezza di
tali storici meticciamenti e potrebbe tornare utile ad aiutare a vincere la
diffidenza che esiste nei confronti dei recenti flussi migratori.
Per finire troviamo nei traguardi di sviluppo, al termine della scuola
secondaria di primo grado, per quanto attiene l’area scientifica, un paio di
riferimenti pertinenti. Il primo riguarda la visione organica del proprio corpo
che aiuta a cogliere la propria identità giocata tra permanenza e
cambiamento…tra potenzialità e limiti. Il secondo recita: (l’alunno) comprende
il ruolo della comunità umana nel sistema e adotta atteggiamenti responsabili
verso i modi di vita e l’uso delle risorse.
Come abbiamo potuto constatare possiamo assumere il sé e l’altro come il
filo conduttore della valenza trasversale formativa di tutte le indicazioni, dove
non sempre possiamo trovare ciò che ci piacerebbe, ma dove niente esclude
che possiamo provare ad individuare la parola chiave che ci crea l’accesso
per esplorare insieme altre opportunità.
Bibliografia
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