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L`origine del male e le origini della crudeltà

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L`origine del male e le origini della crudeltà
L’origine del male e le origini della crudeltà
Pietro Greco
Il 30 luglio 1932, mentre Adolf Hitler si accinge a prendere il potere in Germania, il fisico
tedesco Albert Einstein, padre della relatività, scrive una lettera al neurologo austriaco
Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, per chiedergli: perché gli uomini si fanno la
guerra? Di più: come mai «l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere»? E,
in definitiva, qual è l’origine della malvagità umana?
Sia Einstein sia Freud sono ebrei. E la storia dimostrerà di lì a poco quanto il tema di cui
discutono sia di tragica attualità.
Il tema della malvagità umana non è nuovo. Se ne interessano, da sempre, gli scrittori, i
filosofi, i teologi. Ma la (relativa) novità è che con le sue domande Albert Einstein cerca di
riportarlo nell’ambito delle scienze naturali. E chiede quali siano le basi biologiche del
male. Avanza anche un’ipotesi: che la peculiare aggressività dell’uomo – in particolare dei
maschi della specie Homo sapiens – abbia un’origine evolutiva. Freud risponde che ancora
non abbiamo una risposta naturalistica alla domanda sull’origine del male. Ma che, certo,
l’uomo risponde a due tipi di pulsione, una erotica e l’altra di morte. E che la “pulsione di
morte”, quando è diretta verso gli altri, diventa aggressività e, talvolta, si trasforma in
aperta ferocia.
Oggi il tema non ha perduto, purtroppo, di attualità. Mentre l’approccio proposto da
Einstein – cercare una spiegazione naturalistica alla malvagità umana – è diventato
finalmente “trattabile”. La scienza se ne può occupare. Grazie all’enorme sviluppo di
conoscenza che si è verificato nel campo dell’evoluzione biologica (e culturale) e grazie
anche all’enorme sviluppo di conoscenza che si è verificato, negli ultimissimi anni, nel
campo delle neuroscienze e della studio della “materia della mente” (il cervello, con i suoi
miliardi di neuroni organizzati in diversi livelli e “circuiti”).
Il fatto che il problema sia diventato “trattabile”, non significa che la scienza abbia già una
risposta definitiva alle domande di Albert Einstein. Tuttavia alcuni punti sono abbastanza
solidi.
Vediamone alcuni. Il male esiste. La storia dimostra che l’uomo ha quella inusitata
malvagità rilevata dal grande fisico (e pacifista) tedesco. Tuttavia le conoscenze attuali nel
campo dell’evoluzione sembrano dirci che non siamo “naturalmente cattivi”. Che l’origine
della nostra inusitata malvagità non è solo (non è tanto) biologica, ma anche (e
soprattutto) culturale. D’altra parte ci sono prove che anche altre specie hanno la capacità
di esprimere giudizi etici e hanno, quindi, una cognizione, magari meno sofisticata della
nostra, di ciò che è bene e di ciò che è male rispetto a un loro codice etico.
Lo sviluppo delle conoscenze nell’ambito delle neuroscienze sembra indicare che, per
quanto non sia né determinante (almeno non sempre) né tipica della nostra specie, esiste
una base biologica della malvagità. Ed è nel tentativo di dimostrarlo che Simon BaronCohen, psicopatologo in forza all’Università di Cambridge, ha scritto un libro – La scienza
del male. L’empatia e le origini della crudeltà – appena tradotto in italiano e pubblicato da
Raffaello Cortina.
La tesi di Baron-Cohen (che, sia detto per inciso è ebreo proprio come Einstein e
Freud ed è stato spinto a questi studi dal costo inaccettabile che gli ebrei hanno pagato alla
malvagità umana) è che le basi biologiche della malvagità (e della bontà) stanno in un
circuito cerebrale che definisce “circuito dell’empatia”.
Per empatia lo psicopatologo inglese intende «la capacità di identificare ciò che
qualcun altro sta pensando e provando, e di rispondere a quei pensieri e a quei sentimenti
con un’emozione corrispondente». La capacità empatica è, dunque, la capacità non solo di
capire l’altro, ma di entrare in sintonia con l’altro da noi.
Ebbene, la tesi di Simon Baron-Cohen è che nel nostro cervello esiste un circuito
neuronale che detiene questa capacità. Non è una mera ipotesi. Ma una vera e propria
teoria che spiega, in maniera economica, dei fatti verificati e verificabili. Anche (ma non
solo) mediante le nuove e diverse tecniche di neuroimaging (le tecniche che ci consentono
di “vedere” le parti del cervello che si attivano in corrispondenza di un’azione).
Simon Baron-Cohen lavora, con il suo gruppo, proprio alla verifica di questi fatti. Non è il
solo, naturalmente. Il gruppo italiano di Giacomo Rizzolatti, per esempio, ha scoperto sul
finire del secolo scorso i “neuroni specchio”. Neuroni che si attivano sia quando noi
facciamo un’azione, per esempio prendiamo un bicchiere d’acqua, sia quando vediamo
compiere un’azione, per esempio quando vediamo qualcun altro prendere un bicchiere
d’acqua. Rizzolatti e i suoi hanno dimostrato che questi tipi di neuroni esistono sia nel
cervello umano, sia nel cervello di altri animali (primati e non).
Più di recente il gruppo di Rizzolatti ha scoperto che i “neuroni specchio” hanno a che fare
anche con il linguaggio. Gli stessi neuroni, per esempio, si attivano sia quando
pronunciamo una parola sia quando la sentiamo pronunciare. Di più: esistono anche
neuroni specchio empatici, che si attivano, per esempio, sia quando proviamo disgusto o
paura, sia quando vediamo qualcuno provare disgusto o paura.
I neuroni specchio, sostiene Simon Baron-Cohen, sono una componente del “circuito
empatico umano”. E forse neppure la principale. Perché questo circuito ha una capacità di
comprendere non solo emozioni fondamentali provate da altri, ma anche pensieri e
sentimenti molto sofisticati.
La capacità di provare empatia non è uguale per ciascuno di noi, ma differenziata.
Secondo Simon Baron-Cohen esistono almeno sei gradi diversi di empatia e la popolazione
umana si distribuisce lungo la scala dell’empatia secondo una classica curva a campana.
Pochi hanno un grado altissimo (il grado sei) di empatia. Pochi, per fortuna, hanno un
grado bassissimo (zero) di empatia.
Da dove nasce, dunque, il male? Chiaro: dalla marcata “erosione dell’empatia”. Da un
cervello incapace di attivare il “circuito empatico”. Ovviamente il bene è l’esatto opposto:
una marcata capacità che ha il cervello di una persona di attivare il circuito dell’empatia.
Questo circuito è determinato geneticamente. Ci sono geni la cui espressione è in grado di
influenzare la formazione del circuito empatico.
L’ipotesi dell’esistenza di basi biologiche del bene e del male è di estremo interesse.
Purtroppo Simon Baron-Cohen, che è uno psicopatologo, nel suo libro focalizza
l’attenzione sulle grandi anomalie e non affronta, almeno: non con la stessa intensità, gli
aspetti generali della teoria empatica.
Tuttavia sottolinea alcuni punti. Il primo è che il tema della malvagità (e della bontà)
dell’uomo, come proponevano Einstein e Freud, ha basi biologiche ed evolutive. Ci sono
forti indizi, sostiene Simon Baron-Cohen, che anche altri animali oltre l’uomo siano dotati
non solo di neuroni specchio empatici, ma anche di un vero e proprio circuito dell’empatia,
anche se probabilmente meno sofisticato di quello umano.
Il secondo punto, sottolinea Baron-Cohen, è che evidenziando l’esistenza delle basi
biologiche del male (e del bene) non si pecca di un eccesso di riduzionismo: non si trascura
affatto la complessa influenza dell’ambiente. L’empatia e la sua erosione sono frutto di
natura e ambiente, di natura e cultura.
Il terzo punto, sostiene ancora Simon Baron-Cohen, è che evidenziando l’esistenza di
basi genetiche della malvagità (e della bontà) nell’uomo non si commette un peccato, grave
e ingenuo, di determinismo. Al contrario, il circuito empatico si rimodella anche sulla base
della volontà, della ragione e, quindi, dell’educazione. I cattivi possono diventare più
buoni, e, purtroppo, i buoni possono diventare cattivi.
Ma proprio questo apre la porta alla speranza. L’empatia, afferma Simon BaronCohen chiudendo il suo libro, è una grande risorsa, la più grande che ha l’uomo. Una
risorsa che può essere aumentata. Insomma, nel nostro cervello c’è scritto che, se
vogliamo, possiamo costruire un futuro migliore. Un futuro più empatico.
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