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Il disprezzo della vita - EDIT Edizioni italiane

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Il disprezzo della vita - EDIT Edizioni italiane
PRIMA COLONNA
I ricordi, un inutile infinito,
ma soli e uniti contro il mare,
intatto
in mezzo a rantoli infiniti
Il mare,
voce d’una grandezza libera,
ma innocenza nemica nei ricordi,
rapido a cancellare le orme dolci
d’un pensiero fedele...
di Ivo Vidotto
Il disprezzo
della vita
Giuseppe Ungaretti
LA VOCE
DEL POPOLO
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Le prime navi in grado di tenere il
mare risalgono al IV millennio a.C. e praticamente da allora alla navigazione vengono associati tutti quei fenomeni che la
accompagnano pure oggi, dai naufragi
alla pirateria. La pirateria marittima ha
da sempre rappresentato una minaccia al
principio universalmente riconosciuto della libertà dei mari e ancor oggi rappresenta una piaga che il diritto internazionale e
i diritti penali statali non sono in grado di
risolvere. Il mar Mediterraneo rappresenta in questo contesto un’oasi di tranquillità, ma non fu sempre così. Quest’area
vide sorgere e svilupparsi alcune fra le più
antiche civiltà del mondo, ma le sue acque erano percorse dai predoni del mare.
Specialmente i greci erano conosciuti per
questo tipo di attività, tanto da rappresentare una seria minaccia per le navi fenicie
che solcavano l’Egeo. Anche l’Adriatico
potrebbe sembrare un mare tranquillo e
riparato, ma tra le isole trovavano riparo
pure i predoni.
Scavando tra vecchi libri e documenti, abbiamo appreso di un atto di pirateria marittima, forse l’ultimo, avvenuto
proprio nel mare Adriatico, tra Rimini e
Ravenna. La vittima fu “un possidente onestissimo e intemerato negoziante”,
tale Carlo Ambrogio Locatelli Zuccala,
che “lungo un viaggio di mare, d’ogni suo
avere spogliato, da cento colpi trafitto, spirava sotto il coltello d’immani furibondi
corsari”, i quali venivano giudicati “anime di ferro, sentine di vizi e tetre fucine di
nefandezze”, epiteti che potrebbero venir
associati anche ai pirati moderni.
Non è soltanto la pirateria marittima,
però, a provocare morte, dolore e sdegno.
In questo numero trattiamo anche un altro argomento, sulle tracce di un’inchiesta aperta dal Consiglio d’Europa, curata dalla parlamentare olandese Tineke
Strik, che tratta “le vite perse nel Mediterraneo”, cercando di individuare le specifiche responsabilità. Il Mediterraneo,
infatti, viene solcato da barconi pieni di
migranti africani che molte volte vengono
ignorati e lasciati in balia del mare e delle
intemperie. L’indagine era stata avviata
dopo il caso dei 72 naufraghi rimasti per
due settimane alla deriva e senza soccorsi,
ignorati da tutti, tant’è che soltanto nove
riuscirono a porsi in salvo. Ebbene, almeno due elicotteri militari, altrettante fregate della NATO e alcuni pescherecci ignorarono semplicemente le richieste di aiuti.
È una storia terribile e raccapricciante,
simile a tante altre che raccontano di imbarcazioni mai giunte a destinazione, ma
stavolta ci sono nove testimoni che hanno
potuto raccontare la loro storia. Com’è
possibile che questo mare, che come abbiamo detto ha visto nascere e svilupparsi
le più importanti civiltà del mondo, possa
essere oggi il più grande cimitero dei migranti? Il rapporto presentato al Consiglio
d’Europa, però, ha evidenziato, oltre a un
disprezzo generale della vita umana, la
grande difficoltà nel fare piena luce sulla
vicenda, principalmente a causa delle reticenze e delle facili giustificazioni di avrebbe potuto e dovuto salvare quelle persone.
In questo numero facciamo un “tuffo
nel passato” del porto di Fiume, analizzandone l’attività nel 1869 come ci viene esposta da un bollettino consolare.
Quell’anno ebbe un significato importante per la città, il cui porto era stato sempre
sacrificato dall’Austria per favorire lo sviluppo dello scalo triestino. Dal 1868, ossia
col passaggio di Fiume all’Ungheria, ci fu
un’inversione di tendenza, resa possibile
dall’“Ausgleich”, dalla riforma costituzionale promulgata da Francesco Giuseppe, in virtù della quale Fiume divenne il
principale sbocco sul mare per i traffici
commerciali ungheresi. Rappresenta un
“tuffo nel passato” anche un servizio sul
tramonto di un’attività millenaria delle
genti mediterranee: la pesca dei tonni. Le
tonnare nella baia di Buccari sono oggi i
muti testimoni di questa attività, una “lapide” sulla tomba di una tradizione scomparsa.
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Mercoledì, 9 ma
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Mercoledì, 9 maggio 2012
I barconi sono quasi sempre sovraccarichi
Indagine aperta dal Consiglio d’Europa: «Vite
La triste morte
di Marco Grilli
M
orire in mare nell’indifferenza. È quanto accaduto nella scorsa primavera ai
migranti africani in fuga dalla guerra
di Libia con un barcone, diretto a Lampedusa,
rimasto per 15 giorni alla deriva e senza soccorsi nel Mediterraneo. Dei 72 naufraghi caricati a forza sul gommone dalla milizia libica,
tra cui 20 donne e due neonati, soltanto nove
riuscirono a porsi in salvo dopo lo sbarco nella
città libica di Zlitan, avvenuto il 10 aprile 2011.
Morti intollerabili eppure evitabili, come emerge dai risultati dell’indagine aperta dal Consiglio d’Europa e curata dalla parlamentare olandese Martina Hermina Antonia (Tineke) Strik,
pubblicati nel rapporto “Vite perse nel Mediterraneo: chi è il responsabile”.
Diritti umani e obblighi
internazionali
L’inchiesta è stata avviata su richiesta di 34 membri dell’assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa
Un barcone di immigrati nelle acque di Lampedusa
Almeno uno o due elicotteri militari, due
pescherecci e una grande imbarcazione militare ignorarono infatti la richiesta d’aiuto. “Possiamo continuare a parlare di diritti umani e
del rispetto degli obblighi internazionali, ma
le nostre parole resteranno senza senso fino a
quando continueremo a lasciar morire le persone, forse perché non ne conosciamo l’identità o perché vengono dall’Africa”, il giudizio severo di Tineke Strik in occasione della presentazione del rapporto, ultimato dopo
un’inchiesta avviata per richiesta di 34 membri dell’assemblea parlamentare del Consiglio
d’Europa, durata nove mesi.
La storia del gommone salpato da Tripoli
nella notte del 26 marzo 2011, raccontata dal
quotidiano inglese “The Guardian” e dal bel
documentario della Tv svizzera Rsi “Mare deserto” (curato da Emiliano Bos e Paul Nicol),
pur essendo purtroppo simile a quella di molte altre imbarcazioni di migranti mai arrivate
a destinazione, presenta due particolarità: le
testimonianze dei nove sopravvissuti, considerate credibili dalla relatrice anche in confronto ai dati accertati, hanno permesso di ricostruire la vicenda, mentre è appurato che la
richiesta d’aiuto dei migranti fu registrata da
diverse autorità competenti e la barca fu localizzata, avvicinata e fotografata; queste morti potevano quindi essere evitate se uno degli
attori coinvolti fosse intervenuto in soccorso
delle persone a bordo.
Tineke Strik
è rimasto “deserto”, come nel titolo del documentario, proprio nel momento di massimo pattugliamento e controllo, ossia in conseguenza dell’intervento militare delle forze
Nato in Libia, dopo la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 17 marzo 2011.
Il rapporto parla del “fallimento collettivo della Nato, dell’Onu e dei singoli Stati nel pianificare gli effetti delle operazioni militari in
Libia e nel prepararsi per un atteso esodo via
mare”, evidente in questo caso nel mancato
coordinamento per il salvataggio della barca,
nonostante l’invio del messaggio d’emergenza e l’individuazione delle sue coordinate.
Il disprezzo della vita
Sul banco degli imputati c’è anche la Guardia costiera italiana, che inviò sì la richiesta
d’aiuto ma, come quella maltese, non si impegnò direttamente nelle operazioni di ricerca e
salvataggio, non considerandole di sua competenza. Un altro duro colpo per l’Italia, dopo
la condanna della pratica dei respingimenti in
mare da parte della Corte europea dei diritti
umani di Strasburgo (23 febbraio 2012). I protagonisti di questa triste vicenda sono i lavoratori dell’Africa sub sahariana in Libia, ritrovatisi tra due fuochi durante la guerra civile e costretti in molti casi all’esodo forzato via mare,
per la gioia dei trafficanti. Il rapporto sottolinea
apertamente le responsabilità delle autorità libiche, incapaci di salvaguardare la sicurezza dei
civili e di mantenere il controllo sulla loro area
ricerca e salvataggio in mare durante la guer«Mare nostrum»... deserto di
ra, nonché dei trafficanti, che in totale disprezzo
Il “mare nostrum” dei romani è oggi il più alla vita dei migranti sovraccaricarono il gomgrande cimitero dei migranti. Nel 2011 le ac- mone, limitando le provviste e il carburante.
que del Mediterraneo hanno inghiottito almeL’SOS del «capitano»
no 1.500 persone in fuga da guerre, miserie
e dittature, nel loro pericolante viaggio verso
Alle 72 persone ammassate a bordo, in prela “terra promessa” Europa. Paradossalmen- valenza eritrei ed etiopi, fu promesso di ragte, quel mare che vanta una complessa rete giungere Lampedusa in 18 ore. Dopo quest’ardi traffici marittimi e può contare su svilup- co di tempo, però, il gommone rimase in balìa
pati sistemi di monitoraggio dei movimenti, del mare grosso, senza più carburante e con po-
mare 3
Mercoledì, 9 maggio 2012
In balia del mare...
perse nel Mediterraneo: chi è responsabile?»
della solidarietà
L’indagine aperta dal Consiglio d’Europa è stata redatta dalla parlamentare olandese Tineke Strik
Giudizi severi di Tineke Strik mentre presenta i risultati dell’indagine
donna sopravvissuta, la 22enne etiope Marianne, ha trovato accoglienza in Norvegia tramite
l’Organizzazione internazionale per la migrazione. Dalla loro mente non scomparirà mai il
ricordo di questi terribili 15 giorni a contatto
con la morte. Il rapporto del Consiglio d’Europa ha evidenziato le difficoltà per fare piena
luce sulla vicenda, dovute non solo al gap informativo ma soprattutto alle reticenze e alle
facili giustificazioni da parte della Nato e di
altri Stati membri. La Nato continua a negare
ogni responsabilità e, dopo l’iniziale smentita, ha poi confermato di aver ricevuto il fax da
Roma, considerandolo però privo di una formale richiesta d’assistenza.
chi viveri. Il “capitano” chiamò col telefono
satellitare un prete eritreo residente in Italia,
Mussie Zerai, che informò subito la Guardia
costiera italiana, rendendo nota l’emergenza.
Nonostante fosse fallito il tentativo di contatto telefonico con l’imbarcazione, a causa del
satellitare del “capitano” rimasto senza batteria, le autorità italiane riuscirono comunque a localizzare la posizione del gommone,
a 60 miglia da Tripoli. Il Centro di controllo
per la sicurezza marittima di Roma trasmise
ogni quattro ore e per dieci giorni la chiamata
d’emergenza ma il fallimento del salvataggio,
secondo il rapporto, fu in parte dovuto proprio
all’assenza di coordinamento fra il Centro di
Roma o quello di Malta e gli altri attori presenti nella zona, compreso l’assetto militare
coinvolto nelle operazioni Nato.
E le navi della NATO?
Elicotteri, pescherecci...
nessuno
Bisognava quindi dar per scontato che
la Libia, in stato di guerra, non fosse capace di provvedere alla sicurezza del suo mare,
e approntare le giuste misure. Alla vista di
un elicottero militare, le persone a bordo iniziarono a urlare, agitarsi e tenere in vista i
bambini, ma il velivolo scomparve nel nulla
per poi tornare – non si sa se lo stesso – soltanto per lanciare pacchi di biscotti e bottiglie d’acqua. Intanto il “capitano”, convinto
del salvataggio imminente, spense i motori e
buttò a mare la bussola e il satellitare, ossia
le prove del suo coinvolgimento nella rete
dei trafficanti. La salvezza era però ben là
dal venire, e a nulla valse lo stesso incontro
con almeno due pescherecci (uno con bandiera tunisina) che negarono colpevolmente
ogni forma di assistenza. Una semplice telefonata dalla radio di bordo alle autorità marittime competenti avrebbe potuto salvare
i naufraghi, ma il rapporto sottolinea come
le politiche restrittive di molti Stati costie-
ri incidano negativamente sul rispetto degli
obblighi per la sicurezza marittima da parte delle imbarcazioni commerciali. Nessuno,
in pratica, vuole essere incolpato di favorire
l’immigrazione clandestina.
Il sogno di «terra e aiuto»
La barca proseguì così il suo calvario, con
i migranti, affamati, assetati e in preda al panico, che continuarono a morire. Alcuni, disperati, si buttarono dal gommone, mentre i
superstiti raccontano di aver bevuto la propria
urina mischiata al dentifricio e di esser stati
costretti a gettare i cadaveri in mare. Al decimo giorno di navigazione, i naufraghi s’imbatterono in un’imponente imbarcazione militare, non ancora identificata. Osservati col
binocolo e fotografati, i testimoni raccontano
di aver mostrato i bambini morti e le taniche
vuote, ma incredibilmente la loro richiesta di
salvezza rimase senza esito. Dopo 15 giorni
solo 11 persone a bordo erano ancora in vita,
col loro sogno “di terra e di aiuto”. La corrente trascinò poi l’imbarcazione a riva nei pressi di Zlitan: i superstiti furono imprigionati
per 24 ore e scarsamente assistiti dalle autorità libiche, tanto che altre due persone morirono per le conseguenze del viaggio infernale.
Una volta liberati, i nove scampati trovarono
assistenza presso la Chiesa cattolica di Tripoli, prima di ricominciare le peripezie per la
fuga/salvezza dalla Libia.
Reticenze
e facili giustificazioni
Oggi, tre dei giovani superstiti vivono in
Italia, dove solo uno ha già avuto accolta la
sua domanda di asilo, tre sono nei campi profughi tunisini e saranno sistemati presto in Australia, due sono in attesa di asilo rispettivamente in Olanda e in Norvegia, mentre l’unica
Le tesi difensive della Nato cadono impietosamente nel rapporto redatto dalla Strik,
la quale ha rilevato la presenza di due navi
dell’Alleanza atlantica in prossimità del
gommone: la fregata spagnola “Mendez Nunez” ad appena 11 miglia (due ore di navigazione) e l’italiana “ITS Borsini” a 37 miglia,
entrambe in grado di trasportare elicotteri (il
rapporto ipotizza che l’elicottero avvistato
dai testimoni potrebbe appartenere proprio
alla nave italiana). Perché nessuno si mosse?
Secondo il rapporto, il comando Nato non reagì alla segnalazione d’emergenza (che poteva esser interpretata unicamente in tal senso)
e non intraprese nessuna azione di coordinamento con le navi militari in zona per soccorrere il barcone dei migranti. “Molto resta
da fare – scrive la Strik – per evitare che altre persone muoiano nel loro disperato tentativo di raggiungere l’Europa”. Il rapporto,
che verrà ancora discusso all’assemblea del
Consiglio d’Europa, contiene quindi varie
raccomandazioni per evitare che tragedie simili si ripetano in futuro. Non possiamo più
tollerare che nel Mediterraneo, uno dei mari
più trafficati e monitorati del mondo, possa di
nuovo morire la solidarietà.
4
maa
Mercoledì, 9 maggio 2012
AMBIENTE La pesca dei tonni: il tramonto di un
Quell’instancabile
di Chiara Veranić
entrando per le Porte di Otranto. Tra la
forma atlantica e quella mediterranea
a bambina, durante le passeg- esistono scambi minimi, in quanto c’è
giate che facevamo regolarmen- scarsissimo passaggio nello stretto di
te la domenica, le ripide scalet- Gibilterra.
te di vedetta della baia di Preluca m’incantavano per la loro insolita posizione, Le «frecce» del mare
con la minuscola piattaforma in cima,
Verso luglio, alla fine del perioquasi sospesa nel vuoto; non sapevo an- do riproduttivo, i pesci perdono il loro
cora, che proprio in quegli anni avveni- istinto gregario e si dirigono, isolati o
va il definitivo tramonto di un’attività in modesti gruppi, verso aree ricche del
millenaria delle genti mediterranee.
loro cibo preferito: sardelle, alici, aguLa pesca dei tonni risale all’epoca glie, sgombri, lanzardi, seppie e gamdei Fenici, che a Cadice, sulla costa at- beretti. Per farlo, sviluppano una velantica dell’odierna Spagna, avevano un locità di nuoto che raggiunge picchi di
vero e proprio opificio per la lavorazio- 70 chilometri all’ora, in quanto le loro
ne delle carni, che venivano conserva- appuntite pinne pettorali possono vete nelle anfore in una specie di salamo- nir ritirate in una depressione della coia. Greci, romani e bizantini ne andava- razza per non ostacolare il movimenno ghiotti, ma furono gli arabi, insediati to. Hanno squame grosse solo sul torain Sicilia, sulle coste dell’Africa setten- ce, che ha un colore blu scuro sul dorso
trionale e su quelle spagnole, coloro che e grigio argenteo sui fianchi. Possono
portarono alla perfezione l’arte della viaggiare incessantemente grazie alla
cattura, che trasmisero quindi ai popo- perfetta forma idrodinamica del loro
li dell’Italia meridionale. Seguendo le corpo, ma soprattutto perché la temrotte dei tonni, idearono una prima rete peratura corporea, che supera di circa
perpendicolare alla costa, che indirizza- 10°C quella dell’acqua di mare, perva il pesce verso un complesso sistema mette loro di contrarre rapidamente i
di camere verticali che li convogliava, muscoli. Per questo motivo, la loro vosenza via di scampo nell’ultima, dove racità è immane, in quanto hanno bivenivano catturati. I tonnaroli dell’Italia sogno di forti quantitativi energetici,
meridionale (i pochi superstiti lo fanno per non parlare della loro stazza, che di
ancora) pescavano i tonni con lo stes- norma negli adulti si aggira intorno ai
so sistema, effettuando la mattanza nel- 100 chilogrammi ma che aumenta nola cosiddetta “camera della morte” dove tevolmente nelle forme atlantiche, arrigli animali venivano arpionati e issati a vando a superare i 600 chilogrammi.
bordo dei pescherecci. Del tonno veniRegole precise...
va sfruttato tutto: carne, uova e persino
le ossa ridotte in farina. I cascami servida sempre
vano invece a produrre concime.
tonni dell’Adriatico diretti a nord,
Fantastiche migrazioni un Itempo
risalivano in branchi masLa gran parte dei tonnidi (tonno co- sicci i canali tra le isole e la costa del
mune o pinna azzurra, alalunga, ton- nostro litorale, seguendo le correnti e
netto, palamita e tonnarello) popolano il pesce azzurro minuto e giungevano
tutti gli oceani tropicali e temperati del nel Quarnero, che prediligevano per i
mondo, ma è soprattutto il primo quel- consistenti banchi di spratti (papaline)
lo che compie le fantastiche migrazioni e per la scarsa salinità delle sue acque.
lungo rotte lunghissime, pari a migliaia Sino agli anni trenta del secolo scordi chilometri, che lo portano nelle aree so, la pesca dei tonni veniva eseguita
dell’alimentazione e soprattutto della da aprile a ottobre con le tonnare o reti
riproduzione. All’inizio del loro viag- da posta fisse, che venivano gettate in
gio i pesci si radunano in zone del Me- determinate località e controllate dalditerraneo e rispettivamente degli oce- le scalette di vedetta. Questo tipo di
ani Atlantico, Pacifico e Indiano oggi pesca era regolato giuridicamente sin
ben note, grazie alle informazioni dei dall’epoca dei principi di Veglia, menpescatori, ma soprattutto alla marcatu- tre il primo documento scritto, emesso
ra degli esemplari catturati e poi rila- dal vescovo Eufrasio e concernente la
sciati e purtroppo anche ai vari tipi di pesca generica nel canale di Leme, riami che si portano addosso quando rie- sale all’anno 543.
scono a sfiuggire alle lenze lunghe. Tra
aprile e giugno i tonni dell’Atlantico Una pratica scomparsa
giungono al Golfo di Biscaglia, per riLa comparsa delle navi da pesca
prodursi a sud ovest dell’isola di Ma- a motore, che facevano uso delle reti
dera; una parte di quelli del Mediterra- a circuizione e che erano in grado di
neo centrale si riunisce tra la Tunisia e catturare molto più facilmente granla Sardegna e l’altra risale l’Adriatico di quantità di pesce, diede il via a una
diatriba infinita tra i proprietari delle
poste fisse nel Quarnero, che all’epoca
erano ben 38, e i padroni dei pescherecci. Una simile pesca indiscriminata portò nel corso degli anni a un totale impoverimento del fondo ittico.
La pesca industriale che attualmente
ha luogo già in
D
Tonno in posizione normale (a) e con le pinne ripiegate (b)
Gabbie d’allevamento
Una prateria di Posidonie oceaniche
pieno Mediterraneo o nell’Adriatico
profondo intorno all’isola della Mela/
Jabuka, ha prodotto l’estinzione della
pesca effettuata dalla costa. In Italia, la
mattanza sopravvive solo in un paio di
tonnare siciliane, soprattutto per scopi
turistici, mentre nel Quarnero si è conclusa verso gli anni Sessanta del secolo scorso.
Negli allevamenti...
come dei polli
Allo scopo di salvaguardare quanto
resta di quello che sembrava un patrimonio inestinguibile, la Commissione
per la tutela del tonno comune (ICCAT)
con 48 paesi membri, ha ridotto notevolmente le quote permesse, aumentando anche l’entità del peso consentito alla cattura. Sempre più spesso i tonni pescati, non inferiori ai 10 kg (8 stabiliti per la Croazia) vengono immessi
in speciali gabbie d’allevamento, dove
raggiungono il peso di 30 kg, necessari alla messa in commercio. Il mercato
del Giappone, paese che adopera tradizionalmente le carni crude del
tonno nell’alimentazione, è il
maggior consumatore, per cui
la richiesta è fortissima. In Croazia, l’allevamento sperimentale ha
avuto inizio nel 1996 pres- s o
are
Mercoledì, 9 maggio 2012
’attività millenaria delle genti mediterranee
nomade dei mari
5
Una delle postazioni di vedetta a Bakarac,
restaurate alcuni anni fa
Un tonno gigante (250 kg) pescato nel 1909
a Lukovo Otočko
l’isola di Iso/Iž, con 39 tonnellate iniziali. Ho avuto modo di visitarne gli
impianti e decisamente ho associato
quest’attività a quella dei polli all’ingrasso, visto che i pesci vengono nutriti con aringhe e sardelle provenienti dal Mare del Nord, in quanto
le quantità di pesce azzurro catturate
nell’Adriatico non sono sufficienti.
Un problema
ecologico
L’allevamento nelle gabbie, pur
avendo dei riscontri economici sicuramente positivi per l’intera filiera
(pescherecci, impianti di lavorazione)
potrebbe però portare, col tempo, a
problemi di carattere ecologico. Una
simile attività produce infatti parecchia materia organica ricca di sostanze azotate e fosfati; gli organismi preposti alla degradazione, che nel compiere questa operazione consumano
ossigeno in quantità elevate, impoveriscono sicuramente i fondali adiacenti. Un rischio notevole, soprattutto
per le colonie di Posidonia oceanica,
che oltre a ospitare numerosissime
specie di animali marini, costituiscono delle vere e proprie
“fabbriche” di ossigeno.
Alle istituzioni preposte
alla tutela ambientale spetterà
Una pescata eccezionale (1955)
Le alici, uno tra i cibi preferiti dai tonni
quindi il compito di regolamentare adeguatamente quest’attività, che
attualmente sembra abbia elaborato
anche la tecnica d’inseminazione in
loco delle uova di tonno.
I riti, i canti propiziatori e la mattanza dei tonnaroli italiani, i folti
branchi avvistati al seguito dei lanzardi dopo le lunghe attese in cima
alle vedette e le faticose tratte dei pescatori quarnerini volano ormai sulle ali della leggenda.
Un tonnetto alletterato
Barca e attrezzi da pesca
di un tempo lontano
6 mare
Mercoledì, 9 maggio 2012
UN TUFFO NEL PASSATO Dati interessanti nel «Bollettino consolare» del 1869
La rinascita del porto di Fiume
di Ivo Vidotto
È
inevitabile che ogni “scavo” compiuto in quelle miniere inesauribili
di notizie che si chiamano biblioteche porti a qualche interessante scoperta.
Talvolta questi “tesori” si nascondono anche dietro titoli non proprio accattivanti.
Cosa potrebbe mai nascondere un librone
di 1.100 e passa pagine dal titolo “Bollettino consolare”, seppur datato 1869, pubblicato per cura del Ministero per gli Affari
esteri? Sfogliandolo, però, siamo incappati
in un capitolo redatto dal Regio Console a
Fiume, Cav. Avv. Candido Negri, intitolato “Navigazione e commercio del Porto di
Fiume durante l’anno 1868”. Cosa succedeva da queste parti 144 anni fa?
L’anno della svolta
Ebbene, quell’anno ebbe un significato
particolare per la città. Fino al 1860, il porto fiumano era stato sacrificato dall’Austria
per favorire lo sviluppo del vicino scalo
triestino, dal 1868 in poi, col passaggio di
Fiume all’Ungheria accadde un’inversione
di tendenza. Lo sviluppo del porto di Fiume
fu dovuto, quindi, più a fattori politici che
economici. Questo cambiamento di rotta è
dovuto certamente all’Ausgleich, il “compromesso”, ossia la riforma costituzionale
promulgata il 12 giugno 1867 dall’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, in virtù
della quale Fiume divenne parte del Regno
d’Ungheria e il maggiore sbocco sul mare
per i traffici economici ungheresi.
Analizzando i dati statistici dell’epoca
possiamo osservare che dal 1868 al 1910 la
città conobbe uno sviluppo determinante e
il passaggio all’Ungheria si rifletté subito
sui traffici, tanto che “il movimento della
navigazione nel Porto di Fiume, durante lo
scorso 1868, fu alquanto superiore a quello
dell’anno precedente”, come puntualizzato
dal console Candido Negri. Occorre specificare che questo considerevole aumento
non fu dovuto solo al maggior numero delle navi in movimento, ma anche al graduale
passaggio dalla navigazione a vela a quella
a vapore, ed è chiaro che quest’ultima richiedeva navi di stazza ben superiore.
Gli obiettivi del governo
ungherese
nalità e lungimiranza lo sviluppo della città e stabilì il perseguimento di tre obiettivi principali, partendo dalla congiunzione
ferroviaria diretta tra Fiume e l’Ungheria
attraversando la Croazia, ampliando il porto stesso e creando una marina mercantile ungherese a vapore. I circoli imprenditoriali fiumani, che da oltre dieci anni avevano chiesto a Vienna la costruzione di una
ferrovia, avevano ottenuto solamente la realizzazione del troncone, piuttosto inutile, che univa Fiume a San Pietro in Selve,
in Istria. Nel 1868, però, il primo ministro
Andrassy ordinò la costruzione della tanto richiesta linea ferroviaria Fiume-Karlovac. I lavori durarono cinque anni e i 177
chilometri di binario furono inaugurati nel
1873. L’anno prima iniziarono anche i lavori di ampliamento del porto e venne costruita una prima grande diga frangiflutti intitolata alla memoria dell’imperatrice
Maria Teresa, l’odierno Molo longo.
Un periodo di grande
fioritura
Parallelamente alla diga furono costruite nuove banchine, grandi magazzini per lo
stoccaggio delle merci e furono installate
nuove gru. Furono, anche, costruiti piccoli
porti separati con proprie dighe frangiflutti
a uso della Raffineria, del Silurificio “Whitehead” e dei cantieri navali. Per capire
cosa stava succedendo in città in quell’epoca, sul lato meridionale della città fu ricavata un’ampia superficie d’imbonimento,
sulla quale furono edificati i padiglioni dei
mercati e il nuovo teatro, che successivamente verrà dedicato a Giuseppe Verdi e
che oggi, invece, porta il nome di Ivan de
Zajc. La città progrediva e con essa il livello culturale della gente. I giornali fiumani
– i più importanti erano l’“Eco di Fiume”,
“La Bilancia” e l’“Eco ungarico” – aumentavano le copie di tiratura e il livello dei
propri articoli. Insomma, Fiume stava vivendo un periodo di grande fioritura, che
venne bruscamente interrotto soltanto dallo scoppio della Prima guerra mondiale.
Il «formentone»
per l’Italia
Tornando al movimento portuale del
1868, secondo il console Candido Negri “i
Il governo ungherese era ben consape- principali fattori della maggior attività vevole che occorreva promuovere con razio- rificatasi nelle transazioni commerciali di
questa piazza, al cui approvvigionamento
l’Italia prende larga parte”, andrebbero ricercati “nell’abbondante raccolta di cereali fattasi in Italia”, ma anche “nelle migliorate condizioni del cambio”. Veniamo a sapere, così, che “fra gli articoli che alimentarono l’importazione primeggiò, secondo
il consueto, il formentone”. Il prezzo del
granturco era sceso rispetto l’anno prima da
“sei fiorini per stajo veneto (67 kg) fino a
tre”. Oltre al mais “gli articoli che in maggior quantità s’importarono dai navigli nazionali sono: il legname di rovere da costruzione, il riso, l’olio d’oliva, il vino, l’aceto,
i frutti secchi, l’orzo, le fave, i fagiuoli, gli
erbaggi, le cipolle, le patate, la canapa ed i
mattoni. Il prezzo di questi articoli è stato,
in generale, alquanto inferiore a quello del
1867”. Le esportazioni italiane attraverso il
Porto di Fiume riguardavano “il legname di
costruzione, specialmente d’abete, le tavole, tavolette e doghe, la legna da fuoco ed il
carbone, mentre i coloniali, la carta, i prodotti chimici ed alcuni altri oggetti diversi
vi figurano in piccola quantità”.
Una «piazza inerte»
Le considerazioni che abbiamo fatto più
in alto sulla necessità di costruire una ferrovia, vengono riportate anche dal console Negri, il quale sottolineava “l’inerzia di
questa piazza, dove il più grande negoziante, come il più modesto bottegajo, continuano a deplorare la mancanza di affari”.
Il diplomatico italiano constatò che “la sola
cosa che possa ridonar vita al commercio di
questa città è l’apertura di una strada ferrata che la ponga in comunicazione coi paesi dell’interno, o direttamente per Carlstadt,
od almeno indirettamente per mezzo della
linea di S. Peter”. Il console Candido Negri,
però, era tutt’altro che ottimista. Il suo pessimismo lo portò ad affermare che “Fiume
non può sperare di veder sì presto tradotto
in atto questo desiderio di tanti anni”, adducendo da una parte “le difficoltà inerenti
alla sua posizione topografica”, ma dall’altra “gli ostacoli suscitati dalla questione
politica che si agita fra essa e la Croazia”,
come pure “per le interessate opposizioni
di potenti avversari”. “Trascorreranno ancora parecchi anni prima che la locomotiva giunga a Fiume, tanto dall’una, quanto
dall’altra parte”, aggiunse quasi sconsolato
Candido Negri, il quale, però, sembrò quasi
voler cercare qualcosa di positivo da segnalare nel suo rapporto. E ci riuscì...
Un’immagine riconoscibile del porto,
con in primo piano Molo Adamich
Tutte le bandiere
Nel “Bollettino consolare” abbiamo
trovato anche diverse tabelle, nelle quali viene riportato il “movimento generale della navigazione nel porto di Fiume
durante l’anno 1868”, che vede il netto
dominio del naviglio austriaco sia negli
approdi che nelle partenze. Sono entrate
in porto 224 navi a vapore (84.374 t) e
5.798 navi a vela (63.462 t) battenti bandiera austriaca, mentre quelle italiane erano 680 (25.768 t) e quelle elleniche complessivamente 12. L’Inghilterra è presente con due navi (una a vapore), mentre tra
le altre bandiere figurano una americana
(Stati Uniti), una germanica (Nord), una
ottomana, una russa (a vapore) e una svedo-norvegese, per un totale di 6.721 navi
(582 in più rispetto all’anno precedente)
e 125.993 tonnellate (+16.857).
Per quanto riguarda le partenze, la flotta austriaca ha fatto segnare la presenza di
224 navi a vapore (34.529 t) e 5.800 navi
a vela (71.120 t), seguito dalle navi italiane (673, con 25.648 t). In quell’anno vennero registrate ancora 13 navi greche, due
navi inglesi (una a vapore), una americana (Stati Uniti), una Germanica (Nord),
una Ottomana, una prussiana, una russa a
vapore e una svedo-norvegese. In totale,
rispetto all’anno precedente ci furono 433
navi in più e 13.040 tonnellate in più.
Cantieristica «prospera
e crescente»
“Frammezzo al generale deperimento dei
commerci di Fiume – scrisse nel Bollettino
consolare –, un’industria però vi si mantiene tuttora prospera e crescente, cioè quella della costruzione navale, la quale trova
nelle particolari condizioni del luogo e nella tendenza egli abitanti per le speculazioni
del mare facilità e vantaggi non comuni che
ben favoriscono lo sviluppo. Quest’industria
– aggiunge – fornisce eziandio lavoro a molti operai italiani, originari, in massima parte, del Veneto e delle Marche”. Conclude affermando che nei cantieri di Fiume vennero
costruite nel 1868 “ventidue navigli di lungo
corso della totale portata di 10,157 tonnellate, e del valore di 2,416,223 lire italiane”.
Uno scorcio del porto visto da piazza Adamic
h
Mercoledì, 9 maggio 2012
mare 7
La crescita del porto di Fiume era uno
degli obiettivi primari di Budapest
Imbarcazioni nell’odierno Canal morto
Velieri in porto
Un’immagine di Riva Szapáry
8 mare
Mercoledì, 9 maggio 2012
DOCUMENTI Il racconto di un assalto avvenuto nel 1802 tra Rimini e Ravenna
Gli ultimi pirati dell’Adriatico
di Attilio Petris
Q
uella che stiamo per presentarvi è la cronaca di un
assalto di pirati, forse comuni banditi, che nel 1802 depredarono una nave tra Rimini e Ravenna massacrando l’intero equipaggio. Potrebbe trattarsi dell’ultimo atto di pirateria commesso
in Adriatico, del quale veniamo
a sapere grazie a un documento
che cercheremo di rielaborare allo
scopo di rendere più comprensibili i dettagli di questo atto di pirateria che al giorno d’oggi, purtroppo, rappresentano la nostra triste
quotidianità, anche se fortunatamente non nell’Adriatico.
«Immani furibondi
corsari»
Infatti, all’indirizzo del professore Giovanni Zuccala, all’epoca professore di letteratura latina
e italiana presso il Convitto-Ginnasio di Santa Giustina a Padova, venne inviata una lettera nella quale “trovasi la narrazione della tragica fine” di suo padre, Carlo Ambrogio Locatelli Zuccala, il
quale viene definito “possidente
onestissimo e intemerato negoziante” che “lungo un viaggio di
mare, d’ogni suo avere spogliato,
da cento colpi trafitto, e (...) spirava sotto il coltello di immani furibondi corsari”. La lettera inoltrata al padre del professore in data
10 maggio del 1857, venne scritta all’epoca dall’I.R. Comandante
Maggiore austriaco della piazza e
del forte di Comacchio. Fu lo stesso Giovanni Zuccala ad aver voluto indagare sulla morte del padre
e fu il “Nob Cavaliere Giovanni
Orti” a informarlo “del luttuoso
fatto, di cui mi domandate contezza”.
L’apparente amicizia
dei briganti
“Fu a Goro, piccolo porto del
mare Adriatico, ove il sig. Carlo
Ambrogio Zuccala da Bergamo,
nei primi giorni d’agosto dell’anno
1802, provenendo di Venezia, si ricoverò due o tre giorni col naviglio
di suo trasporto, a cagione di una
forte burrasca di mare – si legge
nella lettera –. In quel porto stesso,
e per l’egual causa vi si ridusse, e
si fermò pure un piccolo legno che
dal Porto Corsini andava girovagando armato per mare, con entro
degli individui, i quali si dichiararono per ex ufficiali lombardi della
cessata Repubblica veneta. Ivi fecero questi col Zuccala apparente
amicizia, e così arrivarono a spiare
ch’egli aveva a bordo del suo legno
una somma di danaro. Terminata la
procella di mare partirono da Goro
di conserva i due legni; ed arrivati al di sopra del porto di Primaro,
quattro o cinque miglia distanti da
terra, quand’era circa la mezzanotte del giorno 8 d’agosto, coloro che si erano annunziati ex ufficiali della cessata Repubblica, abbordarono ad uso pirata il naviglio
dello Zuccala, e sorpresi gli infelici
in esso raccolti, senza pietà alcuna
passarono a trucidarli ed a gettarli
in mare”.
Uno dei rami del delta, il Po di Volano
L’unico superstite
dell’eccidio
Dal racconto si evince che i
banditi dovevano essere dei criminali impietosi, i quali, però, si
lasciarono sfuggire uno dei membri dell’equipaggio. “Impadronitisi delle carte di quel legno – prosegue il triste racconto –, ebbero a rilevare che ancora rimaneva vivo un
individuo dell’equipaggio, il quale
appunto si trovava nascosto sotto
poppa, compreso dal massimo spavento. I crudeli trascinarono l’infelice sulla coperta del legno onde
pure piombarlo ne’ flutti esanime,
ma involatosi egli destramente ai
loro artigli, si gettò nell’onde, ove
ad onta dei colpi di archibugio che
gli diressero, ebbe a salvarsi. Nuotò un tratto di mare dalle 4 alle 5
miglia, e nudo arrivò a toccar terra
nello spazio della spiaggia che esiste fra il Po di Primaro e il fiume
Lamone, ove passò dolorosamente
il resto della notte. La mattina susseguente, che era giorno di festa,
recatosi all’ufficio del porto di Primaro, fece la deposizione dì questo
orrendo misfatto”.
Come andò poi a finire, lo leggiamo nella medesima lettera. “I
due legni si trovarono poi, dopo
qualche dì, abbandonati, o, come
dicesi, a picco nelle acque di Rimini, ove credesi che i pirati, presa colà terra, si siano dispersi.
Solo la spoglia dell’infelice Zuccala, dopo due giorni del decorso evento, fu restituita dal mare in
sulla spiaggia lungo il distretto di
Primaro. Venne dessa riconosciuta pei connotati deposti dal marinaio che si salvò; ed esaurite le
pratiche della legge in quel luogo,
fu sepolta”.
Il busto alla memoria
del professore Giovanni Zuccala
timo amico del compianto estinto
– prosegue il racconto –, ne fu disotterrato il di lui cadavere, e trasportato in Ravenna nella Cattedrale di S. Apollinare, ove dopo
sontuosi funerali vi fu sepolto e si
eresse una lapide a sua memoria.
L’inscrizione è la seguente: Carlus Ambrosius Zuccala Mercator
Bergomensis integerrimus aetatis
suae an XLVI navem conscensus
iter per adriaticum faciens pro
suis rebus agendis VIII Kal Augusti nocturno piratarum aggressu Truci fato interfectus ad vndis
hoc in litore iactus eius cadavere illhinc humato exinde effosso
hvcque evecto in hac pervetusta
basilica divi apollinaris honorabile funus adeptus est postrudue
La lapide
idus sextilis ann MDCCCII Franin Sant’Apollinare ciscus Georgius Venetus in amicitiae ac moestitiae argumentum
in Classe
Andrea Ballerinio Pauli Filio
“Ma, a cura del sig. France- Curante”.
sco Giorgio Maij di Venezia, in-
Il documento nel quale abbiamo trovato
la conferma dell’atto di pirateria
Una vecchia carta del delta del Po
L’Elogio
al professore
fu anche maestro di retorica nel
Collegio di Merate e professore di
Estetica nell’I.R. Università di Pavia, un busto di marmo “da collocarsi fra la serie di quei sommi ingegni che otterranno in quel santuario delle scienze e delle arti un
egual distinzione”.
Una conferma del tragico fatto
la troviamo pure in un altro documento, nell’“Elogio del professore
Giovanni Zuccala letto nell’Ateneo di Bergamo dal socio onorario
Francesco Regli il giorno 31 agosto 1837 coll’aggiunta d’alcune
lettere inedite di molti uomini insigni”. L’Università di Bergamo decretò al proprio concittadino, che
In un passo dell’elogio a Giovanni Zuccala (era nato il 19 dicembre 1788) possiamo leggere
che “la sventura turbò troppo presto i fiorenti anni suoi, e tale una
spina gli ha piantata nel cuore,
ch’egli scendeva nel tumulo sen-
Tetre fucine
di nefandezza
za averne per anco rimarginata
la piaga”. Francesco Regli scrive
che Giovanni “varcava appena il
secondo lustro” quando si verificò il tragico fatto. Nel documento leggiamo che, dopo essere stato
“da cento colpi trafitto”, “e qual se
respirasse fra le tigri della foresta
o il piè tratto avesse sur un lido di
barbari, con gli occhi infiammati
dall’ira, con le chiome per terror
rabbuffate, suo padre spirava sotto
il coltello d’immani furibondi corsari, e indarno chiedeva agonizzante un ajuto, poiché solo ai flutti
parlava, né umano labbro svegliar
poteva quelle anime di ferro, sentine di vizi e tetre fucine di nefandezze”.
Anno VI / n. 65 del 9 maggio 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
I funerali di Zuccala vennero celebrati nella basilica
di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MARE [email protected]
Redattore esecutivo: Ivo Vidotto / Impaginazione: Borna Giljević
Collaboratori: Danilo Prestint, Roberto Venturini, Chiara Veranić, Attilio Petris, Marco Grilli
Foto: Ivo Vidotto, Chiara Veranić
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