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Esistere Forte - Diogene Multimedia

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Esistere Forte - Diogene Multimedia
Collana “Quaderni di Diogene”
Stefano Scrima
ESIST ERE F ORT E
Ha senso esistere? Camus, Gide e Sartre dicono che...
Il Giardino dei Pensieri
“... comme un arbre de son jardin”
A chi crede di aver ragione,
me compreso.
Copertina e impaginazione: Jimmy Knows S.C.P., Barcelona (ES)
I disegni della copertina sono opera di Eleonora Eta Liparoti,
www.etadormesuipescivolanti.blogspot.com
ISBN 978-88-98227-59-4
© Edizioni del Giardino dei Pensieri di Mario Trombino
Via Nadi 12, 40137 Bologna
I edizione, gennaio 2014
INDICE
PREFAZIONE
7
INTRODUZIONE
11
PRIMO CAPITOLO. JEAN-PAUL SARTRE
Esisto: è troppo?
18
1. «Una specie di nausea nelle mie mani»
2. Condannati a morte
18
22
Impelagato
1. Condannati ad essere liberi
2. «A che serve la libertà se non per impegnarsi?»
3. Scegliersi
Vita di Jean-Paul Sartre
SECONDO CAPITOLO. ALBERT CAMUS
C’è un limite a tutto?
1. Sisifo in rivolta
2. «La felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo»
2.1. Mediterraneo
2.2. La felicità del suolo
3. Assurda libertà
Vita di Albert Camus
TERZO CAPITOLO. ANDRÉ GIDE
E se io ti buttassi giù dal treno?
1. Vita nova
2. La vita è capriccio?
Vita de André Gide
26
26
29
34
37
42
42
50
54
60
66
71
74
74
85
95
QUARTO CAPITOLO. NICHILISMI
Maestro Nietzsche
«Oggi la mamma è morta»
Vita di Albert Caraco
99
106
112
APPENDICE
Abbiamo tutti ragione
113
DIZIONARIO MINIMO
120
BIBLIOGRAFIA
124
FILMOGRAFIA
130
DISCOGRAFIA
131
P REF AZIONE
Sala Borsa a Bologna è una biblioteca comunale. Ce ne sono
molte in città, ma questa è diversa dalle altre. È a fianco di
Piazza Maggiore, dentro il Palazzo, uno dei luoghi tipici della
realtà del tempo dei Comuni. Un luogo di potere.
Qui entri, ti siedi sui divani o ai tavoli, leggi, sali in emeroteca,
ascolti musica, scendi nei depositi, ci porti i nipotini perché
c’è una sezione per bambini che possono leggerli lì anche
loro, i libri per la loro età. Fai tutto tu. Ti senti libero. Non mi
azzarderei a dire che lo sei davvero, perché qui hanno regole
severe, ma ti ci senti. E ci sono tanti libri che più volte mi sono
sentito come quando da ragazzo frequentavo il Beaubourg,
allora appena costruito.
Quando andavo al Beaubourg venivo in genere dai luoghi sacri
della filosofia di allora: al mattino andavo a lezione a Vincennes
dove insegnava Deleuze, al pomeriggio frequentavo le antiche
sale della Sorbona e del Collège de France, dove insegnava
Foucault. Sartre invece non c’era già più, aveva lasciato da
poco il suo quartiere latino, ma nei bar all’incrocio di Saint7
Germain c’era ancora tanta gente per cui la sua presenza era
stata familiare.
Così adesso, studiando in sala Borsa (di studiare non si finisce
davvero mai), incontrando Stefano Scrima al bar della grande
piazza coperta, e parlando di questo libro, un filo diretto mi
ha ricondotto alla Parigi di quando avevo la sua età. Allora
un senso di vuoto, la percezione quasifisica della mancanza
di senso di cui parlavano i filosofi parigini, era più forte di
adesso. Io, almeno, adesso la sento meno. Per cui mi sono un
po’ meravigliato quando Stefano ha mostrato di sentirla ancora
così forte da scriverci un libro, che non è nato come libro, ma
ne ha assunto presto la forma.
Sembra che per un giovane degli anni dieci non sia molto
diverso da un giovane degli anni settanta. Poi rifletto che
quarant’anni certo che sono passati invano! Tutto sommato,
che cosa sappiamo di più oggi di allora sul senso dell’essere e
dell’accadere?
Ecco, fare filosofia per me giovane allora e ancora adesso era
ed è non voltarmi dall’altra parte quando qualcuno ti ricorda
che non sappiamo nulla dei fondamentali della vita. Ma nulla
davvero. Eppure dobbiamo vivere, amare le persone di cui
ci innamoriamo, allevare figli e nipoti, speranze e destini,
perché esistiamo e seguiamo la nostra natura. Che dire qual è,
esattamente, proprio non sapremmo dire.
Un destino che ha qualcosa di crudele quello del filosofo: deve
parlare del vuoto su cui poggia la nostra vita, che magari invece
è un pieno e non abbiamo capito che lo era, e allo stesso tempo
tutti ci scambiano per maestri di vita e di sapere, come con il
prete, e ci chiedono quale direzione dare alla propria vita. E
certo se si è filosofi non si può sfuggire ai due opposti compiti
che abbiamo davanti. Dire la verità su quello che sappiamo,
riflettere sulle scelte da compiere e sulla strada da prendere.
Questo libro fa entrambe le cose. Come un libro di filosofia
deve fare.
8
Quindi, da editore, è stata ovvia la scelta di pubblicarlo e
di accettare la richiesta di Stefano di scriverne una breve
prefazione.
Luoghi come Sala Borsa e come il Beaubourg ci ricordano che
si può progettare il futuro. Non sappiamo se si deve farlo, dirlo
è troppo. Sappiamo che si può.
Sisifo felice. Sì, è stupefacente, ma Sisifo può essere felice.
Grazie a Stefano per avermelo (e pubblicando il libro anche
avercelo) ricordato.
Mario Trombino
9
Che m’importa che tu non legga, lettore,
quel che ho voluto metterci,
se vi leggi quel che ti accende di vita?
Miguel de Unamuno
INT RODUZIONE
Ci basta, se riflettiamo,
l’incomprensibilità dell’universo;
volerlo capire è essere meno che uomini,
perché essere uomo
è sapere che non si capisce.
Fernando Pessoa
Siamo figli di un mondo che pensiamo di conoscere, di una
sua interpretazione chiara e decisa sviluppata dagli uomini in
secoli e secoli di passioni e pensieri. Questo ci riporta indietro
di un po’ di tempo: all’alba della nostra cosiddetta epoca
moderna. Qui, da un lato ritroviamo Galileo Galilei (15641642), il quale, attraverso la rivoluzione della scienza moderna,
sancisce un preteso dominio umano sulla natura, e dall’altro
René Descartes (Cartesio, 1596-1650), il filosofo che inaugura
il dualismo (per noi comune) soggetto/oggetto, identificando il
primo termine con l’essere che pensa il reale, ovvero l’uomo,
e il secondo con il reale stesso; arrivando anche qui a sancire
una superiorità dell’uomo razionale sul resto dell’esistente.
Cartesio arriva a questa conclusione grazie all’evidenza
dell’impossibilità di dubitare del nostro stesso dubbio: posso
dubitare dell’esistenza di qualsiasi cosa, eccetto di quella del
mio dubitare, e quindi se sto dubitando vorrà dire che esisto, e
ciò è indubitabile – di qui il celebre Cogito, ergo sum (Penso,
dunque sono). Da una parte, dunque, c’è il soggetto pensante,
11
dall’altra l’oggetto, autonomo, che il primo, attraverso un
metodo deduttivo-razionale, matematico, quindi non sensoriale
ma solo intellettuale, può arrivare a conoscere adeguandosi ad
esso; tuttavia l’uomo non conosce direttamente l’oggetto, ma
solo la sua idea. Questo metodo è garantito da Dio stesso, della
cui esistenza Cartesio è certo in quanto idea innata nell’uomo,
il quale è bene e non potrebbe mai ingannare le sue creature
“migliori”, gli uomini. È evidente lo sbilanciamento procurato
dalla riflessione cartesiana dalla parte del soggetto, della res
cogitans, la sostanza pensante, che prevale così sulla res
extensa, il mondo oggettivo, interamente spiegabile attraverso
due soli principi: la materia e il movimento. In tal modo il
soggetto (umano) si fa praticamente autonomo, perlomeno
metafisicamente – esso è la prima sostanza, in termini logici,
l’unica che possa costruire il fondamento di tutte le altre
sostanze: senza il soggetto pensante, non ha senso parlare
dell’oggetto, definibile solo in quanto pensato – riconoscendo
nella facoltà conoscitiva razionale il suo più grande potere.
Un soggettivismo, questo, che si radicalizzerà con la filosofia di
Immanuel Kant (1724-1804) – e poi soprattutto con l’Idealismo
tedesco –, per il quale l’oggetto, la natura, e le sue caratteristiche
fisiche e matematiche esistono solo in relazione al soggetto,
l’uomo, perché è quest’ultimo che attraverso le articolazioni
del suo pensiero le concepisce. È l’oggetto che si adegua al
soggetto e non viceversa. Non che Kant neghi l’esistenza di una
natura in sé (ciò che invece faranno gli idealisti), indipendente
dal pensiero umano – esiste, certo, ma è a noi inconoscibile –,
tuttavia ha senso parlare di natura solo dal e nel momento in
cui essa si svela a noi come fenomeno. Tutto questo per una
sorta di superiorità ontologica (quindi sul piano dell’essere)
dell’attività pensante rispetto al resto dell’esistenza – forse
perché senza pensiero con cui pensare le cose esistenti queste
stesse cose, per quanto belle, risulterebbero del tutto vane. (Per
quanto riguarda Dio, a differenza di Cartesio, Kant ammette
di non poterne dimostrare l’esistenza, né attraverso idee innate
né col ragionamento. La questione si sposta sul piano morale).
12
Nel mondo antico e fino al Rinascimento la distinzione, o
perlomeno la contrapposizione, tra soggetto e oggetto non
esisteva, oltre al fatto che “soggetto” aveva un significato
diverso, quasi opposto a quello che intendiamo oggi: soggetto,
dal latino subiectus, significa sotto (sub) e gettare (iacere),
dunque “ciò che sta sotto”. Per Aristotele, infatti, il soggetto
era la sostanza, l’essenza della cosa, di quello che noi oggi
chiamiamo oggetto, ma anche dell’uomo stesso. Tra gli
antichi non si propose il dualismo soggetto/oggetto perché si
pensava esistesse un’unica legge cosmica, umana e naturale,
che regolasse il tutto e che la realtà esterna fosse quella
che è a prescindere dall’occhio umano. Tra i medievali e i
rinascimentali, invece, era l’idea dell’Uno o di Dio a garantire
un’unità superiore cui ricondurre i due poli (quello soggettivo
dell’uomo e quello oggettivo dell’essere), che si pensavano
così come un’unità inscindibile perché emanazione della stessa
potenza regolatrice del tutto.
Ed ecco allora come nell’età moderna andò definendosi un
uomo dalla rinnovata e rinvigorita coscienza di sé (non si
sarà montato la testa?): la “rivoluzione copernicana” di Kant
(come egli stesso l’ha denominata) che definitivamente pone
il soggetto al centro dell’universo in quanto parte attiva e
fondamentale del processo conoscitivo – le cose sono così
perché il nostro intelletto, attraverso le sue forme a priori
(spazio, tempo, categorie), lo definisce così ai nostri occhi
–, e il nuovo potere conferitoci dalla scienza e dalla tecnica
moderne in grado di piegare al nostro servizio (con ovvi limiti,
ma sempre più spostati) le forze della natura, non poterono
che conferire all’uomo una nuova e sconosciuta autonomia.
L’uomo diventa sì più autonomo, ma anche più solo. Non a caso
la modernità coincide anche con il processo di secolarizzazione
del mondo occidentale (ovvero il graduale allontanamento della
società dalle tradizioni religiose – che tuttavia, ridimensionate,
permarranno), uno degli effetti più profondi di questa nuova
mentalità. Una volta sancito il potere sul reale, ora l’uomo
rischia di ritrovarsi anche senza una forza o ragione esterna,
13
metafisica, per la quale esiste ed agisce. Grazie agli sviluppi
della scienza – i grandi passi fatti nel campo del naturalismo,
dell’archeologia ma anche della storiografia – si iniziò ad
ipotizzare una discendenza umana e naturale di tutto ciò che
concerne i rapporti sociali, politici e religiosi: forse il reale
non è opera di una mano esterna ordinatrice (Dio), ma un
graduale delinearsi, un’interazione profonda tra esso e i suoi
attori principali: gli uomini. La società cambiò lentamente fino
a raggiungere la forma attuale in cui noi, ignari cittadini, ci
ritroviamo in possesso di libertà duramente conquistate nel
corso di secoli, perché prima soffocate da rivendicazioni legate
a un presunto diritto divino a governare. In mezzo c’è infatti
la Rivoluzione Francese, evento che sancì sanguinosamente
e definitivamente (in Europa) la separazione tra vita sociale
(e politica) e vita religiosa – lasciando quest’ultima alla
coscienza dell’individuo –, nonché lo Stato liberale (repubblica
o monarchia costituzionale) come società auspicabile, contro
gli assolutismi1 di tipo religioso e non, all’insegna d’una
convivenza pacifica fra uomini liberi di esprimersi.
Ma nella storia del pensiero occidentale, eccetto qualche
isolato episodio nell’antichità e nell’età moderna, fu con
Friedrich Nietzsche (1844-1900) – il quale fece confluire nella
sua filosofia, in relazione a questo tema, le idee di altri autori
fondamentali come Feuerbach, Stirner, Marx – che si arrivò al
netto rifiuto della religione (perlomeno della cristiana, regina
d’Occidente), per sondare gli sconosciuti lidi di un’esistenza
senza fondamento – tutta da fondare. “La vita è assurda” –
può essere – ma ciò non significa che non possiamo essere noi
stessi a darle un senso. Questo il risultato della messa al bando
di Dio, o meglio della sua morte. “Dopo Nietzsche” l’uomo
[1] Il riproporsi di assolutismi in epoca contemporanea (le dittature novecentesche, ma anche le attuali) tradiscono, evidentemente, tali conquiste, ma
vanno comunque ricondotte a un soggettivismo estremo (e in particolare alla
radicalizzazione dei concetti di soggetto e ragione da parte delle filosofie ottocentesche) figlio della mentalità moderna.
14
contemporaneo acquisì suo malgrado coscienza della fragilità
del terreno; il sentimento di vuoto che mina l’esistenza, il
nichilismo, penetrò nelle trame della quotidianità ancor prima
che nelle pagine di trattati filosofici, romanzi e poesie. Ma è
grazie a questi che la riflessione si fece universale, voce d’una
specie – l’umanità – “abbandonata” da Dio.
Un romanzo su tutti, La nausea di Jean-Paul Sartre (19051980), ha assurto a classico non certo solo per le sue qualità
stilistico-letterarie, ma soprattutto per la capacità dell’autore
di sondare le due facce dell’insostenibilità della vita: il troppo
pieno e il troppo vuoto; qualcosa, in ogni caso, che è sempre
di troppo. Per Sartre l’uomo sarebbe l’unico essere in cui
l’esistenza precede l’essenza, non essendoci più un Dio creatore
capace di concepire quest’ultima quale suo fondamento (e
non a caso Sartre è il padre dell’esistenzialismo francese). Se
praticamente fino a Nietzsche, nonostante la nuova autonomia
del soggetto umano (più che altro sul piano conoscitivo)
sancita dapprima da Cartesio e definitivamente da Kant, il
reale e tutte le sue manifestazioni, noi compresi, trovano
un’unità originaria e fondativa in Dio – che sia il Dio cristiano,
l’Uno dei neoplatonici o il dio “orologiaio” dei desisti – per i
contemporanei, questo, non è più un dato di fatto, anzi, risulta
fortemente contraddittorio. L’uomo del Novecento, invischiato
nella crudezza di una realtà ostile, tra crisi generalizzate e
guerre mondiali, non riesce più a credere (oppure non ne ha più
bisogno?) in un Dio amorevole e ordinatore. Il risultato: una
tremenda libertà. Ma questo cosa comporta?
Pochi anni dopo, col suo romanzo Lo straniero, irruppe sulla
scena letteraria mondiale il franco-algerino Albert Camus
(1913-1960): la vita è assurda, completamente, ci dice; cosicché
l’unico problema serio diventa: ha senso continuare a vivere?
Siamo rimasti soli – anche qui: autonomi rispetto agli oggetti che
abbiamo posto al nostro servizio e senza più la certezza di una
mano divina che possa consolarci – al cospetto di un universo
silenzioso, in balia del caos dei nostri pensieri slegati. Eppure
15
per Camus ci dev’essere qualcosa per cui abbia senso vivere,
per cui abbia senso rivoltarsi contro l’ingiustizia di un mondo
che non sa rispondere alle nostre domande esistenziali. Per lui
il problema sta proprio lì, in quella traiettoria emancipativa
percorsa dall’uomo moderno, la quale avrebbe ingiustamente
e pericolosamente soffocato il legame originario col non-io,
con la natura, gli oggetti, insomma col mondo, tutto quello che
non siamo noi, anzi no, perché il mondo siamo anche noi. È la
separazione uomo/mondo il problema.
Ma sia Sartre che Camus devono, in certa misura, questa loro
peculiare sensibilità esistenziale (o esistenzialista) e letteraria
ad un altro uomo e scrittore francese, non proprio filosofo, ma
profondo interprete del suo tempo: André Gide (1869-1951).
È il romanzo I sotterranei del Vaticano, infatti, ad instillare
nella letteratura europea il sentimento della gratuità della vita.2
Che significa agire moralmente? Se la vita non ha senso, e
quindi, se nessuno ha il diritto di giudicarmi – nemmeno Dio
– perché sottostare a una morale arbitraria? Perché non seguire
l’esistenza, nella sua apparente gratuità e assurdità, e fare come
lei: agire senza scopo e senza veti?
Tutti e tre questi autori, nonostante il loro personale
riconoscimento di una sostanziale assurdità della vita,
propongono, attraverso le loro opere (romanzi e non), un senso
che renda degno il loro – il nostro – tempo d’esser vissuto, e
amato. Vivere è sì assurdo, ma solo se non prendiamo in mano
la nostra vita, se la lasciamo in balia dei venti e dei mari che
non siamo noi. La libertà che segue al non-senso dell’esistere
è, invero, il dono più prezioso che il caso (o chi per lui) potesse
farci. Scopriamo così di non essere obbligati o destinati, bensì
i creatori, gli artefici del nostro mondo.
[2] Anche i romanzi del russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881) influirono
moltissimo sulla letteratura, filosofica e non, del Novecento europeo, nonché
sullo stesso Nietzsche.
16
E come ci giocheremo quest’unica chance di esistere? Perché
non capiterà mai più, in tutta l’eternità, una cosa del genere.
Come gestiremo la responsabilità di un tale privilegio? Cosa ci
impedirà di non sentirci di troppo, straripanti da quest’esistenza?
17
PRIMO CAPITOLO. JEAN-PAUL SARTRE
ESIST O: È T ROP P O?
3
E sol melanconia m’aggrada forte.4
Cino da Pistoia
1. «Una specie di nausea nelle mie mani».
La nausea (La nausée) di Jean-Paul Sartre vide la luce nel ’38
provocando scalpore per la sua natura antiromanzesca di diario
ritrovato dagli editori e pubblicato all’insaputa dell’artefice.
Antiromanzo poiché non è presente una storia, o perlomeno non
una storia convenzionale ben definita, distribuita in avvenimenti
chiave che determinano svolte significative nella narrazione:
Antoine Roquentin è uno storico annoiato “costretto” a vivere
da tre anni in una fittizia Bouville per concludere delle ricerche
[3] Saggio apparso per la prima volta nel 2012 su XÁOS. Giornale di confine:
Stefano Scrima, L’Esistenza di troppo. Jean-Paul Sartre e il Romanzo della
Nausea Esistenziale, in “XÁOS. Giornale di confine”, Ottobre 2012. URL:
http://www.giornalediconfine.net/2012/stefano_scrima_sartre.htm.
[4] Questa frase fa da esergo anche alla poesia Dolore (contenuta in Dolcezze, 1904) di Sergio Corazzini, e da questa è tratta.
Melancholia fu il titolo proposto da Sartre, poi scartato dagli editori a favore
de La nausée (La nausea), per il suo primo romanzo.
18
sul marchese di Rollebon; nella sua desolante quotidianità,
scandita dalle ore in biblioteca, il ricordo dell’ex ragazza Anny
e la musica jazz ascoltata al Ritrovo dei Ferrovieri, prorompe
il peso della confessione che il trentenne teme di rivelare
perfino al suo cuore: la contrazione della nausea. È egli stesso
a presentarci questo sentimento come una malattia5, a sentirsi
infetto a tratti, nei momenti che rimane solo, quand’è la sua
“natura” a parlare in lui e la realtà a svelarsi per quella che è
realmente. Una «specie di nausea» è il risultato.
Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato
l’altro giorno. Quando tenevo quel ciottolo. Era una specie
di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal
ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani.
Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.6
Il ciottolo, l’oggetto, la realtà che si svela. E che cosa dice?
Non dice niente, è qui che la nausea ci assale: l’esistenza è, ed
è senza un motivo, c’è come potrebbe non esserci. L’esistenza
è pura contingenza, gratuità assoluta. Nell’agire Antoine si
dimentica di ciò, ma nel ricordo, nella riflessione, eccolo
afflitto dalla rivelazione che le cose compiono per mezzo della
sua autocoscienza. È per questo che l’escamotage del diario
rende l’opera ancor più efficace: solo dando voce ad un dialogo
interiore può emergere la reale potenza di quest’incombere.
Vi è uno scarto incolmabile tra agire e pensare, tra vivere
un’esistenza assurda, senza dubitare mai del senso intrinseco
alle cose, e l’osservarsi da fermi, dall’alto, quasi con occhi da
narratore onnisciente. Se guardata così, la realtà, assume forme
agghiaccianti; la Nausea che inizia ad impossessarsi dell’intera
esistenza di Antoine – la quale per questo assumerà da ora in
poi la N maiuscola – si mostra come sostanza costitutiva del
reale:
[5] ��������������
J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; tr. it. La nausea, Einaudi,
Torino 2005, cit., p. 14.
[6] Ivi, p. 23.
19
La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle
bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io
che sono in essa.7
Così la Nausea da malattia diviene essenza.8
Una parvenza di consolazione sembra prospettarsi nel pieno
assaporamento degli istanti, unici e irripetibili, perciò sublimi.
Ma dura poco, il momento dell’attimo o il momento in cui
ci si ferma a ripensarlo, narrandolo: così si può far della vita
un’avventura. «Bisogna scegliere: o vivere o raccontare»9 e per
vivere si deve abbandonare il racconto e l’avventura. Siamo
obbligati a portar avanti quest’esistenza dal di dentro e non
come fossimo narratori di noi stessi, ma il problema è che
«quando si vive non accade nulla»10.
La situazione appare senza via di fuga; accettandola o no rimarrà
quell’amaro in bocca che sa d’assurdo. Accettare una vita
assurda o rinunciarci? Dimenticarsi di se stessi è impossibile:
Anche se rimanessi, anche se mi rannicchiassi in silenzio in un
angolo, non mi dimenticherei. Sarei lì, peserei sul pavimento.
Sono.11
«Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo»12.
Eccolo: il compimento della coscienza, la saturazione
definitiva. La nausea fa straboccare Antoine dalla sua stessa
vita; egli, da dentro, avverte il suo eccedere, il suo cader fuori
dal vaso, e, come per la luna nel Diario di Eva13, il suo scivolar
[7] Ivi, p. 34.
[8] Ivi, p. 171.
[9] Ivi, p. 59.
[10] Ibidem.
[11] J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 138.
[12] Ivi, p. 165.
[13] M���������
. Twain, Eve’s Diary, Harper and Brothers, London e New York 1906;
20
verso il basso per poi uscir dal disegno. Perdita gravissima
per l’integrità dell’io, smarrito in un impellente deliquio che
tuttavia, a dispetto dei desideri del nauseato, mai sopravviene.
Satura la coscienza, cade ogni senso. E piano piano una nebbia
d’estate si fa largo.
Che fare? Annullarsi? Sopprimersi? Le cose «esistono forte»,
troppo perché ci si possa non pensare e troppo per credere che
morire possa risolvere qualcosa. Il proprio cadavere sarebbe
anch’esso di troppo, tutto è di troppo, l’esistenza è di troppo,
noi siamo di troppo come gli alberi e i ciottoli. Antoine crede
di aver trovato così la «chiave dell’esistenza»: l’arbitrarietà,
l’assurdità, la contingenza, la perfetta gratuità. È come
un’illuminazione, un incantesimo che rende accessibile la
verità. E il pensiero va subito agli altri, a quei porcaccioni, gli
abitanti di Bouville, al resto degli uomini che
Tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di
diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto;
essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini,
non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo,
segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.14
È un moto di disprezzo e pietà per gli altri che rimane al
lettore dopo aver scorto i pensieri di Antoine, sentimenti che
quest’ultimo sente cadere anche su di sé, attenuati soltanto da
una consapevolezza maggiore che sommerge l’uomo negli
abissi di un’esistenza ingiustificabile.
Il romanzo si conclude senza soluzione, o meglio con un’unica e
provvisoria possibilità di salvezza nell’orizzonte dell’angoscia
dell’uomo al cospetto del terrore per l’esistenza: giustificarsi
ed accettarsi «al passato, soltanto al passato»15; proprio quella
limitata consolazione di cui già Antoine intravide il potere
tr. it. a cura di B. Lanati, Il diario di Eva, Feltrinelli, Milano 2006.
[14] J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 177.
[15] Ivi, p. 238.
21
salvifico: vivere o raccontare, vivere o scrivere. Scegliendo la
seconda possibilità diventa realizzabile una contemplazione
distaccata della propria vita, ma solo di quella passata,
compiuta, non più esistente. L’esistenza in atto non permette
alcuna interferenza, la Nausea domina.
Ascoltando la solita canzone Antoine immagina la sofferenza
del compositore trovandola commovente, lo invidia perché
sa che nessuno penserà mai ad Antoine Roquentin come egli
pensa all’ebreo che ha scritto Some of these days e alla “negra”
che la canta. Sente «qualcosa che [lo] sfiora timidamente e non
os[a] nemmeno muoversi per paura che scompaia. Qualcosa
che non conoscev[a] più: una specie di gioia»16.
Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo
romanzo […] e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul
mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare
la mia vita senza ripugnanza.17
2. Condannati a morte.
I racconti de Il muro (Le mur, 1939), seconda fatica narrativa
di Sarte, riecheggiano e approfondiscono alcune tematiche già
sviluppate ne La nausea, introducendo però nuovi elementi che
contribuiranno all’evoluzione del pensiero sartriano.
Il sentimento della Nausea, che da germe infetto prende le
sembianze dell’esistenza al cospetto dell’uomo, viene affrontato
qui attraverso gli occhi di un condannato a morte – metafora
della vita umana che non può sfuggire all’annullamento. Pablo
Ibbieta, protagonista del racconto che dà il nome alla raccolta, è
prigioniero durante la guerra civile spagnola ed è più vicino alla
morte di quanto avrebbe mai potuto immaginare: ha “scoperto”
che deve morire, e questa scoperta lascia il segno.
[16] Ivi, p. 237.
[17] Ivi, p. 238.
22
Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi
che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi
avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente:
qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa
cosa, una volta che si è perduto l’illusione di essere eterni.18
È l’ennesimo trionfo dell’Assurdo, dell’impossibilità di
smarcarsi dal paradosso della vita che ci tiene attaccati a sé
prospettandoci il nulla. Sembra quasi che Pablo, col suo
rassegnarsi, abbia subìto un’involuzione rispetto ad Antoine e
alla sua precaria via di salvezza; è da dire, però, che quest’ultimo
non aveva annusato il profumo della morte della carne, quella
reale, non raccontata o immaginata.
Perché continuare a vivere se la morte è un dovere? Quando
la coscienza raggiunge il suo apice, l’inizio del cerchio da
cui era partita, perché fingere ancora a se stessi nel recitare
una commedia mal scritta? Pablo è saturo di sé, anch’egli ha
scoperto la Nausea, quella sottile pellicola che riveste la realtà.
L’uomo è imprigionato nella sua esistenza e vive come fosse
eterno, la coscienza dell’incombere della fine paralizza –
l’uomo è come un prigioniero sbattuto al muro e puntato dai
fucili di un plotone d’esecuzione – provocando ancora una
volta «una specie di nausea», ora però molto più asfissiante.
Pablo è più lucido di Antoine: non cerca nemmeno di fuggire al
suo destino, anzi, gli va incontro “sacrificandosi”. Il racconto
lo vedrà vincitore per mera fortuna e si chiuderà col suo riso
apotropaico. Ma non c’è salvezza, non c’è soluzione. C’è una
vita che scorre; vediamo che ne possiamo farne.
Il muro è anche il simbolo dell’incomunicabilità, delle diversità
insormontabili, dell’impossibilità di veder oltre, di capire.
Lucien in Infanzia di un capo (L’enfance d’un chef) ammette di
aver perso il proprio tempo a rimpiangere d’esser nato per non
esser riuscito a liberarsi dall’impaccio che la vita gli procura
quotidianamente, ma soprattutto per l’incapacità di darsi conto
[18] J.-P. Sartre, Le mur, in Le mur, Gallimard, Paris, 1939; tr. it. Il muro, in
Il muro, Einaudi, Torino 2003, cit., p. 24.
23
del perché dell’esistenza, «questo dono voluminoso e inutile»19.
Tom ne Il muro paragona agli incubi il tentativo dell’uomo di
darsi ragione:
Si vuole pensare a qualche cosa, tutto il tempo si ha
l’impressione di esserci arrivati, di star per capire e poi ecco
che tutto scivola via, che ti sfugge e ricade. Mi dico: dopo non
ci sarà più nulla. Ma non capisco cosa vuol dire.20
Paul Hilbert, protagonista di Erostrato (Erostrate), crede invece
di esorcizzare la paura dell’esistenza aizzando la sua volontà di
potenza contro gli altri, ma l’assassinio non ottiene gli effetti
sperati. Non cambia niente, la paura e la Nausea ci sono ancora.
Paul è un misantropo, sogna d’essere anarchico e attentare alla
vita dello Zar, si domanda ironicamente perché ha il desiderio
d’uccidere «gente che è già morta»21 – quegli stessi porcaccioni
di cui parla Antoine: di troppo senza coraggio d’ammetterlo.
Sì perché «gli uomini, bisogna vederli dall’alto»22, dice Paul,
onnipotente, dal balcone del sesto piano:
Non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità:
la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a ridere:
dov’era andato a finire quel famoso “portamento eretto” di cui
andavano così orgogliosi: erano spiccicati sul marciapiede e
due lunghe gambe mezzo rampanti uscivano da sotto le loro
spalle.23
***
[19] J.-P. Sartre, L’enfance d’un chef, in Le mur; tr. it. Infanzia di un capo,
in Il muro, cit., p. 182.
[20] J.-P. Sartre, Il muro, in Il muro, cit., p. 18.
[21] J.-P. Sartre, Erostrate, in Le mur; tr. it. Erostrato, in Il muro, cit., p. 82.
[22] Ivi, p. 67.
[23] Ibidem.
24
Per Sartre, lo si è detto, non v’è salvezza. È forse per questo
che scrisse romanzi, così che il tempo non gli fu soltanto
struggersi dell’esistenza, ma anche e soprattutto consolazione
dell’amarezza della finitudine. Egli fu maestro nel narrar
la diagnosi senza terapia del disinganno che abita l’uomo
contemporaneo, quello più ardito, colui che coltivò la coscienza,
forse per sbaglio, e ci trovò dentro il vuoto, un ammasso di
niente.
Al di là del nauseante viver quotidiano, per Sartre, come
miraggio, c’è solo il raggiungimento dell’Età della ragione,
il momento in cui l’uomo capisce d’esser condannato alla
libertà; libero di scegliere e schiavo nella scelta. Il suo impegno
letterario approderà a questi lidi, ma a una condizione: non far
rimarginare le ferite.
25
IMP ELAGAT O
1. Condannati ad essere liberi.
La nausea (1938) e Il muro (1939) – prime esperienze narrative
di Jean-Paul Sartre – rappresentano la fase primitiva del
cammino personale e romanzesco che condurrà lo scrittore
parigino all’engagement (impegno) letterario, il momento
d’incubazione del pensiero circa il ruolo (nella sua vita
e nel mondo) di filosofia e letteratura. Con la conferenza
L’esistenzialismo è un umanismo (L’existentialisme est un
humanisme) del ’45 – che potremmo considerare come il
compendio della summa filosofica L’essere e il nulla (L’être et
le néant) di due anni precedente – e Che cos’è la letteratura?
(Qu’est-ce que la littérature?) del ’47 – che riprende tematiche
già abbozzate nella Presentazione di “Temps Modernes”24
(Présentation des “Temps Modernes”) –, Sartre arriverà a
teorizzare l’impegno a cui dedicherà entrambe. Gli anni della
Seconda Guerra Mondiale maturarono in lui le esigenze della
riflessione filosofica e motivarono gli orientamenti acquisiti;
la coscienza della responsabilità di scrittore – «l’occupazione
[24] Les Tempes Modernes (Tempi moderni) è una delle più importanti riviste francesi a sfondo politico, filosofico e letterario. Il comitato direttivo fu
fondato nel 1944 ed era composto da Raymond Aron, Simone de Beauvoir,
Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan e JeanPaul Sartre.
26
[gli] ha insegnato la [sua]»25 – è così apparsa sempre più
chiara e ineludibile. Sartre spezza lance, imperterrito, in
favore dell’esistenzialismo ateo, ingiustamente accusato, a
suo dire, d’esser «venuto meno alla solidarietà umana»26 e
d’aver gettato l’uomo in un «quietismo di disperazione»27
diffondendo un pessimismo dostoevskijano privo di valori.
Ma questa è solo un’istantanea, per altro distorta dai detrattori,
dell’esistenzialismo filosofico. Sartre, al contrario, sostiene
l’ottimismo di quest’ultimo indotto dalla “riscoperta della
scelta”: l’inconsistenza di valori universali e la mancanza di
un senso intrinseco all’esistenza non danno forse all’uomo la
possibilità di definirsi egli stesso? di scegliersi come vorrebbe?
Se Dio non esiste […] c’è almeno un essere in cui l’esistenza
precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere
definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo […]. L’uomo
[…] non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà
solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una
natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca.28
Da qui nasce tutto: l’uomo deve farsi da sé, realizzarsi in un
progetto costruitosi liberamente – perché «l’uomo è liberta, […]
è condannato a essere libero»29. La possibilità di scelta – questa
condanna di libertà – presuppone la completa responsabilità
dell’uomo nei confronti di se stesso e gli altri:
[25] J.-P. Sartre, Presentazione di “Temps Modernes”, in Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il
Saggiatore, Milano 2009, cit., p. 125.
[26] J.-P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; tr.
.it. L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1990, cit., p. 41.
[27] Ibidem.
[28] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1990, cit.
pp. 49-50.
[29] �����������
Ivi, p. 63.
27
Non c’è uno solo dei nostri atti che, creando l’uomo che
vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine
dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere […] La nostra
responsabilità […] coinvolge l’umanità intera.30
Tali affermazioni conducono a un ridimensionamento dell’idea
di esistenza: l’uomo conscio del suo “peso” non può agir male,
anzi, a fortiori, sapendo che ogni suo gesto coinvolge tutti, agirà
bene per realizzarsi nel mondo come ha progettato d’essere.
Di qui anche l’impegno: il vivere stesso è impegno, scegliere
è impegno che non può esser mancato, poiché anche il non
scegliere è una presa di posizione. Si ha piena responsabilità di
noi stessi; tutto ciò che facciamo può ricaderci addosso.
Partendo da questi presupposti filosofici risulta naturale, per
Sartre, anche l’adesione della letteratura all’engagement.
Scrivere non è atto neutro, presuppone la libertà di un uomo
che nel suo agire modifica il mondo: «lo scrittore ha scelto di
svelare il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini,
perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a
nudo tutta la loro responsabilità»31. La coscienza di ciò rende
possibile la trasmissione di idee che portino al miglioramento
della condizione umana (non potendo più parlare di “natura”)
e della convivenza pacifica, giacché parlare e scrivere è svelare
e svelare è cambiare: «non si può svelare se non progettando
di cambiare»32. Ma non bisogna confondere l’engagement
sartriano con la militanza politica: lo scrittore, seppur attivo
politicamente, non deve ostentare il suo esser iscritto al
partito – se lo fosse – o far opera di proselitismo; il suo intimo
appello dev’essere rivolto all’uomo in quanto libertà, in quanto
[30] ���������������
Ivi, pp. 53-54.
[31] ��������������
J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature?, in Situations II, Gallimard,
Paris 1948; tr. it. Che cos’è la letteratura?, in Che cos’è la letteratura? Lo
scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore,
Milano 2009, (pp. 11-121), cit., p. 23.
[32] Ibidem.
28
coscienza libera di accoglierlo e scegliere autonomamente il
da farsi.
La letteratura, la filosofia, l’arte, le parole, sono mezzi per
trasformare il mondo; Sartre le utilizzerà come strumento per
veicolare il suo appello di cambiamento all’umanità.
2. «A che serve la libertà se non per impegnarsi?».
Prodotto di tal impegno sarà la tetralogia romanzesca I cammini
della libertà (Les chemins de la liberté), sebbene soltanto
tre romanzi su quattro videro la luce; del primo, l’omonimo
I cammini della libertà Sartre compose solo una parte. Ma ci
restano tre opere fondamentali: L’età della ragione (L’âge de
raison), Il rinvio (Le sursis) e La morte nell’anima (La mort
dans l’âme).
Dopo la rivelazione deflagrante della Nausea tocca progettare
una ricostruzione. Ed è proprio grazie a questa, la Nausea, che
l’uomo comprende il suo ruolo, il diritto e dovere di crearsi
un progetto personale d’esistenza. L’età della ragione, già
dal titolo, esemplifica il passaggio sartriano dalla Nausea
all’impegno, dall’“età adolescenziale”, in cui emerge lo scontro
con la gratuità della vita, all’età, appunto, della ragione, la quale
pretende dall’uomo una presa in carico della responsabilità
derivante dall’esistere. Questo romanzo, pubblicato nel ’45
ma iniziato nel ’39, documenta perfettamente la maturazione
del suo autore impegnato in quegli anni nella resistenza:
Mathieu Delarue è un trentaquattrenne professore di filosofia
(i personaggi sartriani sono spesso esplicitamente alter ego
dell’autore) costretto a rendersi conto del valore della vita
quasi suo malgrado, a causa di avvenimenti imprevisti che gli
sconvolgono la quotidianità. La ragazza che frequenta da anni,
di cui si sta disinnamorando, gli comunica che aspetta un figlio
da lui, avvenimento che avevano sempre cercato d’evitare;
la ricerca dei cinquemila franchi per farla abortire trascinerà
Mathieu anche al furto, e l’incapacità di scegliere se, invece
29
che perdere il bambino, sposare Marcelle, oppure lasciarla
definitivamente, lo condurrà alla stasi, al dover rassegnarsi
e vedere gli altri decidere per lui: sarà Daniel a chiedere la
mano di Marcelle e convincerla a tenere il bambino. Quello
di Mathieu è un riconoscimento amaro della sua libertà, del
suo fallimento come uomo proprio perché incapace di darsi una
forma, di scegliersi.
Le conseguenze della libertà si affacciano alla sua coscienza
assumendo lentamente le fattezze dell’esistenza; all’inizio
dell’opera ha ancora un’idea “adolescenziale” – come
l’abbiamo intesa qui – di libertà, non ancora approdata all’età
adulta:
“Io vorrei dipendere solo da me stesso”
“Sì. Essere libero. Totalmente libero. È il tuo vizio.”33
Mathieu ancora non sa della sua responsabilità, del valore
delle sue scelte. Vorrebbe liberarsi anche se non sa da cosa,
probabilmente dal peso di una relazione ormai soffocante.
Ma anche quando alla fine del romanzo si ritroverà “libero”,
o meglio liberato, si accorgerà del suo desiderio effimero e
astratto:
“Resto solo”. Solo ma non più libero di prima. […] “Nessuno
ha ostacolato la mia libertà, ma è stata la mia vita a berla.”34
Il suo è un lungo processo che dalla confusione approda alla
lucidità. Non è la solitudine, il bastare a se stessi, la libertà; non
è far tutto quel che si vuole quando lo si vuole35, ma progettarsi
[33] ��������������
J.-P. Sartre, L’âge de raison, Gallimard, Paris 1945; tr. it. L’età della
ragione, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 13.
[34] Ivi, p. 349.
[35] Ne La mort dans l’âme Mathieu ripensa ad alcune vicende del suo passato (narrate ne L’età della ragione) ricredendosi su ciò che prima intendeva
per libertà: «Egli prese un coltello sulla tavola, Ivich sanguinava, egli si in30
responsabilmente soppesando azioni e conseguenze. È una
condizione esistenziale che rende possibile la vita così com’è.
Così l’amico Daniel sprona Mathieu: «eccoti una magnifica
occasione di fare un atto di libertà, […] sposare Marcelle», ma
Mathieu sembra non capire. «Non hai che da dire una parola e
cambi tutta la tua esistenza»36. L’impegno gli appare come una
rassegnazione37. E ancora Jacques, il fratello:
“Il bambino che nascerà è il logico risultato di una situazione
in cui volontariamente ti sei messo, e tu vuoi sopprimerlo
perché non vuoi accettare tutte le conseguenze dei tuoi atti.
[…] Tutta la tua esistenza è costruita sopra una menzogna.
[…] Io credevo […] che la libertà consistesse nel guardare in
faccia le situazioni in cui uno s’è cacciato di sua piena volontà
e nell’accettare ogni responsabilità.”38
Un primo e timido approccio a questa ridimensionata idea di
libertà assale Mathieu a una mostra di Gauguin:
“I quadri non afferrano” […] “ma si propongono; dipende da
me che essi esistano o no, io sono libero di fronte a loro”.
Troppo libero; ciò gli creava una responsabilità supplementare,
si sentiva colpevole.39
ferse un colpo nel palmo, gesti, gesti,piccole distruzioni, che cosa significano,
io ho creduto che questa fosse la libertà». La mort dans l’âme, Gallimard,
Paris 1949; tr. it. La morte nell’anima, Mondadori, Milano 2009, cit., p. 158.
«Tagliarsi la mano con una coltellata, buttar via la fede nuziale, sparacchiare
sui Fridolins: e poi? Spaccare, rovinare, non era una soluzione; un colpo di
testa non significa la libertà». Ivi, p. 180.
[36] J.-P. Sartre, L’età della ragione, cit., p. 109.
[37] Ivi, p. 122.
[38] Ivi, pp. 119, 121.
[39] Ivi, p. 80.
31
La colpevolezza è una delle forme della responsabilità, e, come
questa, è impossibile da scacciare, a meno che l’uomo non
voglia tornare a vivere da porcaccione o adolescente.
Altro episodio fondamentale è quello che vede il vecchio
amico Brunet tentar di convincere Mathieu ad iscriversi al
partito comunista: infondo «a che serve la libertà se non per
impegnarsi?»40.
Mathieu realizza che Brunet «è più libero di [lui]: è d’accordo
con se stesso e d’accordo col partito»41. D’altronde egli non crede
nel partito e non sarebbe giusto aderirvi, ma ciò non impedisce
ai suoi occhi d’ammirare in Brunet un uomo «pieno di realtà,
con un vero sapore di tabacco in bocca»42; in altri termini: un
uomo libero. Libero perché consapevole della portata delle sue
scelte, libero perché si è scelto come uomo e come destino43.
Finalmente Mathieu sembra capire:
“Sono un irresponsabile.” […] “Sono anni che sono libero per
nulla. Crepo dalla voglia di barattarla [la libertà] una volta per
sempre con una certezza.” […] “Ho condotto una vita sdentata,
[…] non ho mai morso, aspettavo, mi conservavo per più tardi
– e ora mi accorgo che non ho più denti.”44
Ciononostante, quest’apparente presa di coscienza non gli
consente d’agire, di prendere in mano la propria vita. Mathieu
rimane immobile, ancora nauseato. La sua consapevolezza non è
piena: la libertà non va “barattata”, è la condizione dell’esistenza,
è l’esistenza stessa. Le certezze, se si può parlare di certezze in
una vita segnata dalla contingenza, vanno costruite liberamente.
Mathieu non riesce a procurarsi i cinquemila franchi, arriverà a
rubarli (e restituirli). Ma che fare? Sposare Marcelle? Lasciarla?
[40] Ivi, p. 134.
[41] Ivi, p. 136.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem.
[44] J.-P. Sartre, L’età della ragione, cit., pp. 137-138, 215.
32
Continuare questa vita come se nulla fosse? Cosa consiglia la
sua libertà?
Egli era libero, libero di tutto, libero di fare l’animale o la macchina,
libero di accettare, libero di rifiutare, libero di tergiversare; sposare,
piantare, trascinarsi per anni quella palla al piede; poteva fare quel
che voleva, nessuno aveva il diritto di consigliarlo, vi sarebbero
stati per lui il Bene e il Male solo se li avesse inventati.45
Ora è chiaro. Mathieu sa d’esser libero – «condannato a decidere
senza possibilità di appello, condannato per sempre ad essere
libero»46, – e sa cosa comporta. Ma non sceglierà, conscio
che anche questa è una scelta; o meglio, si tormenterà nelle
contraddizioni: prima lasciando Marcelle per poi rendersi conto
d’averlo fatto «‘per niente’»47. Troppo tardi, Daniel deciderà
per lui: Marcelle ha accettato di sposarlo e abbandonare l’idea
dell’aborto.
L’approdo all’età della ragione non è indolore, sa di fallimento,
ma è anche una conquista che permette a Mathieu di «gustare,
minuto per minuto, da conoscitore, [la sua] esistenza fallita»48.
Sartre ha lanciato il suo appello: «non vi è determinismo:
l’uomo è libero, l’uomo è libertà»49 e anche il fallimento è un
suo progetto.
In verità a Mathieu sarà concessa un’altra possibilità; infatti,
«ciò che […] inoltre e più profondamente separa [Antoine da
Mathieu], – ci dice Maurice Blanchot – è che questa rivelazione
[la Nausea per il primo e la Libertà per il secondo] non è un
nuovo inizio per Roquntin, ma dev’esserlo per Mathieu»50.
[45] Ivi, p. 281.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, p. 348.
[48] Ivi, p. 350.
[49] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 63.
[50] �������������
M. Blanchot, Les romans de Sartre, in La part du feu, Gallimard, Paris
33
3. Scegliersi.
Le parabole esistenziali dei personaggi conosciuti ne L’età
della ragione continuano dunque il loro percorso, con la
figura di Mathieu ancora in primo piano, nei due romanzi che
completano il ciclo I cammini della libertà: Il rinvio e La morte
nell’anima.
Ne Il rinvio fa l’ingresso la sconvolgente minaccia della guerra
a preannunciare un «immenso cataclisma comune»51; è qui
che Sartre inizia a trasporre in narrazione la sua idea di libertà
nella sua reale portata, nel dipingere un destino collettivo
dell’umanità, nell’intrecciare le responsabilità reciproche
degli uomini affetti e complici della sventura imminente. Ma
è La morte nell’anima, nel quale la guerra è ormai realtà, che
rappresenta il culmine della maturazione sartriana. Uscito nel
’49, testimonia i terribili momenti dell’occupazione nazista in
Francia: Mathieu è al fronte, non si trova affatto bene nei panni
di soldato, e sa che la guerra è anche suo prodotto, conseguenza
delle sue azioni: siamo tutti coinvolti, tutti responsabili.
Ma Pinette, suo compagno di sventure, non la pensa in questo
modo:
“Perché mi ci hanno preso dentro, proprio io? Dov’è la mia
colpa? Credi forse che siano venuti a chiedere il mio parere?”
/ Mathieu alzò le spalle: / “È da quindici anni che la sentiamo
arrivare [la guerra]. Bisognava pensarci a tempo, o per evitarla
o per vincerla.” / “Io non sono mica un deputato.” / “Ma hai
votato.” / […] Mathieu sorrise: / “Neanch’io votavo.”52
1949, (pp. 195-211), p. 203 (traduzione mia).
[51] Ivi, p. 209.
[52] J.-P. Sartre, La morte nell’anima, cit., p. 85.
34
Qui può leggersi un’autocritica di Sartre che, come egli stesso
ammise, prima del ‘39 non votava53 – mantenendo ideali
pseudoanarchici e individualistici senza tuttavia capirne la
portata.
Pinette è il Mathieu-Jean-Paul dell’“età dell’adolescenza”,
l’uomo non ancora cosciente delle implicazioni dell’agire
individuale nel vivere comune.
L’uomo, una volta arrivato all’“età della ragione”, edotto sul
suo “ruolo”, non potrà crogiolarsi nel quietismo, ma «sarà
senza illusioni e […] farà ciò che potrà»54. Non è possibile
rimanere immobili soltanto perché al singolo “cambiare il
mondo” sembra impossibile: se tutti si illuminassero su ciò le
cose cambierebbero. Nel frattempo il dovere e l’impegno si
rifugiano nella sensibilizzazione degli animi “ignoranti”.
L’avventura di Mathieu avrà un epilogo ambiguo: un’«immensa
rivincita» personale, per il fallimento di uomo, per la sua ignavia,
e contemporaneamente l’affermazione di una libertà pura, che
prenderà la forma anche d’una liberazione – prefigurazione
della liberazione dal nazismo –; un atto in cui Mathieu impegna
la sua esistenza intera, senza remore, liberandosi da essa, ma
allo stesso tempo impregnando l’aria del suo atto.
Mathieu va incontro alla morte – come Pablo ne Il muro – e non
ha paura. Ha scelto:
Ho deciso che la morte era il senso segreto della mia vita, che
ho vissuto per morire; muoio per dimostrare che è impossibile
vivere; i miei occhi spegneranno il mondo, ne salderanno in
conto per sempre.55
[53] «Durante l’intero anteguerra non ho avuto opinioni politiche e, beninteso, non ho votato». Cit. di Autoritratto a settant’anni (1975) tratta dall’introduzione a La nausea, Einaudi, Torino 2005.
[54] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 76.
[55] J.-P. Sartre, La morte nell’anima, cit., p. 205.
35
Mathieu si sceglie come uomo, finalmente. Diventa eroe,
martire della resistenza. Non è chiaro se abbracci coraggio o
ignavia, tuttavia la sua scelta non potrebbe essere più definitiva.
Muore consacrandosi alla libertà che perderà per sempre.
Spara contro i nazisti, assieme ai suoi compagni, resistendo per
quindici interminabili minuti: il tempo necessario per morire
soddisfatto.
Tuttavia – come evidenziato sopra – questo finale si muove
all’interno d’una nube di pessimismo e ambiguità: per Mathieu
«è impossibile vivere». E perché? È la guerra? È ancora la
Nausea?
«Sparava sull’uomo, sulla Virtù, sul Mondo: la Libertà è
Terrore»56. Era l’unica via d’uscita? L’angoscia può davvero
essere il “motore” dell’azione? L’uomo può bastare a se stesso?
Si può continuare a vivere conciliando angoscia e impegno?
Non sarà certo un romanzo a dircelo, e questo Sartre lo sa.
Le risposte a queste domande spettano alle nostre coscienze.
Merito di Sartre è quello di avercele proposte.
[56] Ivi, p. 228.
36
V ITA DI
JEAN-PAUL SART RE
Jean-Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno 1905. Fu
romanziere, filosofo, drammaturgo, critico letterario,
giornalista. Per la sua attività intellettuale nel 1964 fu insignito
del Premio Nobel che però rifiutò sostenendo l’impossibilità
di dare un giudizio definitivo su uno scrittore ancora in vita.
Nel ‘29, all’École Normale Supérieure di Parigi, incontra
colei che gli resterà sempre accanto: Simone de Beauvoir, la
quale racconta il loro rapporto in alcune opere come Memorie
d’una ragazza per bene (Mémories d’une jeune fille rangée,
1958). Dal ‘31 al ‘45 insegnò filosofia nei licei di Le Havre,
Laon e Parigi. Nel ‘33-‘34 vinse una borsa di studio all’Istituto
francese di Berlino dove venne a contatto con la filosofia
tedesca (Husserl in particolare). Nel ‘39 venne chiamato alle
armi e fatto prigioniero dai tedeschi, poi liberato nel ’41: è in
questi difficili anni che matura la necessità dell’engagement
(impegno) letterario. Tornato in Francia partecipò alla
Resistenza (era già iscritto al Partito Comunista Francese) e
fondò con altri intellettuali francesi la rivista a carattere politico,
sociale e culturale Les Temps Modernes, diventando così uno
dei più importanti punti di riferimento culturali della Francia
del Novecento. Muore a Parigi il 15 aprile 1980.
37
Opere principali
Romanzi e racconti
La nausea (La nausée), 1938.
Il muro (Le mur), 1939.
L’età della ragione (L’âge de raison), 1945.
Il rinvio (Le sursis), 1945.
La morte nell’anima (La mort dans l’âme), 1949.
Filosofia
L’essere e il nulla (L’être et le néant), “saggio di ontologia
fenomenologica”, 1943.
L’esistenzialismo è un umanismo (L’existentialisme est un
humanisme), 1945.
Critica della ragione dialettica I: Teoria degli insiemi
pratici preceduto da Questione di metodo (Critique de la raison
dialectique), 1960.
Critica della ragione dialettica II: L’intelligibilità della
storia, 1985.
Critica letteraria
Che cos’è la letteratura? (Qu’est-ce que la littérature ?), 1948.
Teatro
Le mosche (Les mouches), 1943.
A porte chiuse (Huis clos), 1944.
Morti senza tomba (Morts sans sépulture), 1946.
Le mani sporche (Les mains sales), 1948.
Il Diavolo e il buon Dio (Le Diable et le bon Dieu), 1951.
I sequestrati di Altona (Les séquestrés d’Altona), 1959.
Autobiografia
Le parole (Les mots), 1964.
38
Trame dei romanzi citati
La nausea, 1938.
Antoine Roquentin è uno storico che vive da tre anni a Bouville
per condurre delle ricerche sul marchese di Rollebon (un
libertino del Settecento). Tra le ore passate in biblioteca, il
ricordo dell’ex-fidanzata Anny e l’osservazione della piccola
borghesia provinciale, tiene un diario filosofico nel quale si
confessa (è questa la forma del romanzo: un diario). Ed è qui
che racconta il sentimento di nausea – l’insopportabile peso di
un’esistenza gratuita – che lo ossessiona. Gli unici momenti
degni di essere vissuti diventano i “momenti perfetti”, gli
istanti vissuti senza bisogno d’essere analizzati. Ma dura
poco, nemmeno questo riesce a giustificare un’esistenza così
ingombrante. Tuttavia, ascoltando la solita canzone jazz al
solito Ritrovo dei ferrovieri, Antoine crede di aver trovato la
soluzione: scrivere un romanzo. Questo sì, potrebbe dare un
senso all’esistenza: così magari qualcuno, un giorno, avrebbe
potuto leggerlo e pensare a lui. Avrebbe così vissuto per
qualcosa e per qualcuno, riuscendo forse ad accettarsi, anche
se soltanto “al passato”.
Il muro, 1939.
1) Il muro. Durante la guerra civile spagnola (1936-1939),
quando i Nazionalisti spagnoli di Franco entrarono a Madrid
sconfiggendo i difensori della Repubblica, Pablo Ibbieta,
prigioniero, viene condotto insieme ad altri due uomini in una
cella dove viene loro comunicata la fucilazione prevista per
l’alba – il titolo del racconto è infatti (anche) un riferimento
al muro davanti al quale si schierano i condannati a morte. La
notte di attesa è tremenda. Senonché viene concesso a Pablo di
salvarsi in cambio di alcune informazioni riguardo alla posizione
del suo più influente compagno Ramòn Gris. Dapprima Paul si
rifiuterà di collaborare per poi fornire informazioni false nel
tentativo di sviare i nemici. Ironia della sorte: le indicazioni
di Paul corrispondono alla realtà. Gris viene ucciso e Paul ha
salva la vita, almeno per il momento.
39
2) La camera. Eve, la moglie di un uomo divenuto folle,
viene spronata dai parenti ad “abbandonare” il marito in
un manicomio, ma non ha il coraggio di decidere il da farsi
nella speranza che l’amato riacquisti il senno. Sembra quasi
desiderare di diventare folle come il marito, separandosi così
da una realtà ormai estranea.
3) Erostrato. Paul Hilbert è un misantropo. Il suo odio lo porta
ad uccidere sei persone a caso, una per ogni pallottola della
sua pistola. Si sente onnipotente e proprio come Erostrato, il
pastore greco che nel 356 a. C. bruciò il tempio di Artemide in
Efeso per rimanere impresso nella storia, decide di raggiungere
la fama attraverso un gesto eclatante.
4) Intimità. Lulù ha un marito impotente, Henry, il che la fa
sognare, evadere dal reale, fantasticare su viaggi sensuali con
Pierre. Rimarrà incagliata nella contraddizione tra l’amore
carnale, Pierre, e la “purezza” di Henry, dimenticandosi però di
come stanno realmente le cose.
5) Infanzia di un capo. Lucien Fleurier, figlio di un ricco
industriale, è alla ricerca della sua identità e di un significato da
dare alla sua esistenza. In una sorta di romanzo di formazione
Lucien passerà dal cedere alle lusinghe di un poeta pedofilo
fino a macchiarsi dell’assassino di un ebreo assieme ai suoi
amici coinvolti in un’organizzazione fascista.
I cammini della libertà.
L’età della ragione, 1945.
Mathieu Delarue è un trentaquattrenne professore di
filosofia costretto a rendersi conto del valore della vita quasi
suo malgrado, a causa di avvenimenti imprevisti che gli
sconvolgono la quotidianità. La ragazza che frequenta da anni,
di cui si sta disinnamorando, gli comunica che aspetta un figlio
da lui, avvenimento che avevano sempre cercato d’evitare;
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la ricerca dei cinquemila franchi per farla abortire trascinerà
Mathieu anche al furto (poi rinnegato cercando di restituire i
soldi rubati), e l’incapacità di scegliere se, invece che perdere
il bambino, sposare Marcelle, oppure lasciarla definitivamente,
lo condurrà alla stasi, al dover rassegnarsi e vedere gli altri
decidere per lui: sarà Daniel a chiedere la mano di Marcelle
e convincerla a tenere il bambino. Quello di Mathieu è un
riconoscimento amaro della sua libertà, del suo fallimento come
uomo proprio perché incapace di darsi una forma, di scegliersi.
Il rinvio, 1947.
Due mesi dopo l’epilogo degli avvenimenti de L’età della
ragione, Mathieu si ritrova in quella drammatica settimana
(dal 23 al 30 settembre 1938) che si conclude con gli Accordi
di Monaco. Il titolo rimanda al rinvio della guerra di un anno
che questi accordi sanciscono. La prospettiva è qui allargata
rispetto al precedente romanzo: dal microcosmo interiore di
pochi personaggi alla percezione globale di una minaccia che
coinvolge tutti.
La morte nell’anima, 1949.
I nazisti hanno occupato Parigi e Mathieu è al fronte. Non si
trova affatto bene nei panni di soldato, e sa che la guerra è
anche suo prodotto, conseguenza delle sue azioni: siamo tutti
coinvolti, tutti responsabili. A pochi giorni dall’armistizio
Mathieu si sceglie come uomo, finalmente. Diventa eroe,
martire della Resistenza. Muore consacrandosi alla libertà
che perderà per sempre. Spara contro i nazisti, assieme ai
suoi compagni, resistendo per quindici interminabili minuti: il
tempo necessario per morire soddisfatto.
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SECONDO CAPITOLO. ALBERT CAMUS
C’È UN LIMIT E A T UT TO?
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!
Genesi, 3, 19.
1. Sisifo57 in rivolta.
Un mondo che possa essere spiegato, se pure con cattive
ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo
subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente
un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei
ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra
[57] «Sisifo pure vidi, che pene atroci soffriva; / una rupe gigante reggendo
con entrambe le braccia. / E puntellandosi con le mani e coi piedi, / la rupe
in su spingeva, sul colle: ma quando già stava / per superare la cima, allora
lo travolgeva una forza violenta, / di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe
maligna. / E lui a spingere ancora tenendosi: scorreva il sudore / colando giù
dalle membra; intorno al capo saliva la polvere».
Omero, Odissea, XI, vv. 593-599.
Sisifo, personaggio della mitologia greca, leggendario fondatore e primo re di
Corinto, per aver osato sfidare gli dèi viene costretto da Zeus a far rotolare un
masso su per un altissima rupe, ma nel momento in cui avrebbe raggiunto la
cima, il masso sarebbe rotolato giù, cosicché Sisifo avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo, in eterno. Camus chiamò il suo primo trattato filosofico
(anche se egli non si definiva filosofo) Il mito di Sisifo (1942) utilizzando
questo personaggio quale simbolo dell’assurdità della vita.
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promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore
e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo.58
Nasce da qui, per Albert Camus, ogni considerazione sull’uomo
degna d’ascolto, da queste parole de Il mito di Sisifo (Le mythe
de Sisyphe, 1942). Il confronto tra la disarmante irrazionalità del
mondo e il nostro ossessivo desiderio di chiarezza alimenta in noi
il sentimento dell’assurdo. Inizieremo così a scorgere l’assurdo
ovunque e svincolarci dalle nostre convinzioni metafisiche per
cogliere la crudezza di una situazione insolvibile. «Un uomo
divenuto cosciente dell’assurdo, è legato a questo per sempre.
Un uomo senza speranza, e cosciente di esserlo, non appartiene
più all’avvenire»59. Ed è sufficiente quest’ultima frase – che si
potrebbe eleggere a manifesto del primo Camus – per distogliere
lo scrittore da qualsiasi ideologia razionale o teleologica.60
Eppure qualcosa che ci innalzi e che ci renda resistenti al
tremendo confronto, a questo divorzio, deve pur esserci se
[58] A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Il mito di
Sisifo, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 9.
[59] Ivi, p. 32.
[60] Nel 1934 Camus, ancora in Algeria, dette la sua adesione al Par-
tito Comunista, il quale lo destinò alla campagna tra gli arabi; e fu a
contatto con questo mondo che Camus cominciò a convincersi della
necessità d’un cambiamento. Non è chiaro se in seguito agli accordi
presi tra il primo ministro francese Pierre Laval e Stalin o ai successivi incidenti fra lo stesso PC e il Partito del Popolo Algerino di
Messali Hadj, ma Camus, già tra il ’35 e il ’37, prese le distanze dal
partito: da questo momento in poi egli attuerà attraverso i suoi scritti una feroce critica del marxismo inteso come filosofia della storia.
L’impegno camusiano, dunque, sorpassato il breve sodalizio con gli
ideali socialisti, sarà impegnato a dimostrar le cause dell’impossibilità di un’adesione al comunismo decostruendo dall’interno le sue fondamenta concettuali: lo storicismo hegelo-marxista (vedi L’homme
révolté, Gallimard, Paris 1951; tr. it. L’uomo in rivolta, Bompiani,
Milano 1994).
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non ci si vuole inabissare in quel dolce crogiolarsi quotidiano
dell’unico «problema filosofico veramente serio: quello del
suicidio»61. Lungi dalle evasioni proposte dell’esistenzialismo,
meri suicidi filosofici, offerte d’evasione, Camus arriverà
all’accettazione della vita così com’è rifiutando il suicidio
(fisico) e proclamando la rivolta dell’uomo in una perpetua
tensione tra il suo grido e il silenzio del mondo. Già Il mito
di Sisifo preannuncia il tema della rivolta – «una delle sole
posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo
confronto dell’uomo e della sua oscurità»62 –, che però sarà
sviluppato appieno da Camus soltanto ne L’uomo in rivolta
(L’homme révolté, 1951).
La rivolta è un no all’assurdità della vita e contemporaneamente
un sì al senso di positività, di bene, di giustizia col quale l’uomo
accetta l’esistenza, la sua finitudine. È qualcosa di ben diverso
dalla rivoluzione, movimento con cui l’uomo Camus dovette
far i conti in un mondo logorato dalla minaccia d’una terza
guerra mondiale.
Ogni moto di rivolta dell’uomo è sintomo dell’invocazione di
un valore, anche se ciò non significa che ogni valore implichi
necessariamente una rivolta, e ogni rivoluzione è una sorta di
generatore di disvalori. Essa è la corruzione della rivolta: il
rivoluzionario tradisce la rivolta ponendosi come strumento al
suo servizio affinché questa non si estingua in un grido. Egli
ne pretende la perpetuità, ne forza il moto. Di certo l’opzione
per l’una o l’altra – rivolta o rivoluzione – è determinata da
quest’efficacia, propria soltanto della seconda. Mentre il
gesto del rivoltoso nasce da una difesa della “natura” umana,
procedendo dall’esperienza al valore, il rivoluzionario traspone
l’idea nella concretezza storica, rinunciando a quegli stessi
valori per cui combatte; così facendo, però, la sua rivoluzione
non rispetterà la natura umana, giacché mira a edificarne una
nuova in un nuovo sviluppo storico.
[61] A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 7.
[62] Ivi, p. 50.
44
È evidente come un ridimensionamento del concetto di natura
abbia contribuito a plasmare il pensiero politico-sociale del
filosofo/scrittore: tra uomo e mondo vige una misura, un
equilibrio vitale che dev’essere salvaguardato affinché non
produca, una volta distorto e manipolato dall’uomo, effetti
catastrofici; ma il comunismo (l’ideologia su cui tutti, in
questo delicato periodo storico, sono costretti a confrontarsi)
è, al contrario, portatore di dismisura: spezza, dimenticandolo,
quest’equilibrio originario. La credenza in un assoluto irreale
non collima con la nostra situazione concreta, costruita su
quella relazione tessuta tra noi ed il mondo; l’attuazione di tali
credenze non può che forzare la “natura” umana ad esprimersi
in azioni innaturali, contro se stessa. Dunque, foriero d’una
vera alienazione degli uomini è, con buona pace di Marx, il
comunismo stesso.63
[63] Karl Marx (1818-1883), filosofo tedesco teorizzatore del comunismo,
sosteneva che l’uomo contemporaneo è alienato (e praticamente costretto a
una condizione di schiavo – con l’unica differenza che era salariato) dal nuovo tipo di lavoro sviluppatosi nelle società industrializzate, dunque il lavoro
in fabbrica, e dal relativo sistema produttivo capitalistico che faceva il suo
esordio nelle grandi nazione europee dell’Ottocento (Inghilterra e Francia su
tutte). L’operaio non vedeva riconosciuto il prodotto del suo lavoro il quale
apparteneva al capitalista e non lavorava per soddisfare i suoi bisogni personali, bensì sempre quelli del capitalista. Di qui l’alienazione. L’unico modo
per liberare l’uomo da questa condizione sarebbe stata la rivoluzione del
proletariato – gli operai – contro la classe dominante – la borghesia. Obiettivo: il comunismo, società in cui sarebbe regnato l’egualitarismo economico,
nonché l’assenza di classi dirigenti. Tuttavia, nel momento in cui in Russia
si cercò di mettere in pratica la teoria marxiana attraverso la rivoluzione del
1917 guidata da Lenin, l’agognato equilibrio del sistema comunista s’incrinò
(in particolare dal 1924 in poi con a capo del Partito comunista Stalin): chi
non era d’accordo con le idee della nuova classe dirigente (il proletariato)
venne incarcerato e mandato a lavorare nei gulag (campi di concentramento
sovietici). Invece che una società di eguali si venne delineando un’ennesima
dittatura questa volta – paradossalmente – dell’egualitarismo. Il regime russo
si giustificò affermando che per giungere a una società realmente comunista si sarebbe dovuti passare per un periodo intermedio in cui il proletariato
avrebbe dovuto prendere il potere e, in sostanza, “educare” (anche attraverso
45
Se il rivoltoso, per affrancare il valore invocato dalla sua intima
rivolta, è costretto ad uccidere, con tale atto disintegrerà il valore
stesso della solidarietà umana che dava calore alla sua rivolta.
Il problema principale, per Camus, è proprio questo: l’uso della
violenza in politica. Come fare a giustificare i processi di Mosca
degli anni Trenta64? E i campi di concentramento sovietici?
Nella storia considerata come assoluto, la violenza si trova
legittimata; come rischio elevato, essa costituisce una frattura
nella comunicazione. Deve dunque serbare, per l’insorto, il suo
carattere di provvisoria effrazione, andar sempre congiunta, se
non può evitarsi, a una responsabilità personale, a un rischio
immediato.65
Dunque, la violenza dei processi non può trovare alcuna
giustificazione: una violenza al servizio di un fine assoluto,
quello del marxismo, del quale si ritiene certa la realizzazione,
è senza dubbio ordinaria amministrazione, ma se, come afferma
Camus, il marxismo non rispecchia la realtà umana e naturale,
mantenendosi nell’utopia, la violenza non potrà esser utilizzata
per sacrificare gli altri, ma soltanto se stessi «come posta di una
lotta per la dignità comune»66: «chi accetta di morire, di pagare
vita contro vita, quali che siano le sue negazioni, afferma con
la violenza, se necessario) il popolo alla nuova ideologia, che prevedeva l’egualitarismo economico, la statalizzazione di ogni proprietà, l’ateismo, l’assenza di violenza. Ciò che non prevedeva, ed è qui la critica avanzata dai suoi
detrattori, era il diritto al dissenso, possibile solo all’interno di un sistema democrazia. La rivoluzione d’Ottobre, invece, si trasformò in un totalitarismo.
Ecco perché Camus, riferendosi al marxismo, e soprattutto al comunismo
reale, parla di dismisura e alienazione: un uomo che non può pensare con la
sua testa è, per forza di cose, un uomo alienato.
[64] Tra il 1936 e il 1938 furono giudicati, per una serie di presunti reati
antisovietici, membri di spicco del Pcus (Partito Comunista dell’Unione Sovietica). Furono quasi tutti condannati a morte e giustiziati.
[65] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 318.
[66] Ivi, p. 319.
46
ciò un valore che lo trascende in quanto individuo storico»67.
Ma la rivolta deve poggiare sul reale per raggiungere, in
un’inevitabile lotta, la verità; si fa «fautrice del vero realismo»68
e non deve cadere nell’utopia delle rivoluzioni del XX secolo
che dall’assoluto pretendono riconfigurare il reale.
Il valore emerso dalla rivolta si fa portavoce della finitudine
cosciente d’una dignità umana che dev’essere preservata e
difesa. E così questo valore diverrà misura. Esiste dunque un
limite oltre il quale ogni impresa umana si tramuta nel suo
contrario. Perciò rivolta e rivoluzione devono essere ognuna
limite dell’altra, giacché
la rivoluzione ha bisogno, per rifiutare il terrore organizzato e
la polizia, di custodire intatto il principio di rivolta che le ha
dato origine, come la rivolta stessa necessita di uno sviluppo
rivoluzionario per trovare un corpo e una verità.69
Queste le due facce della dialettica rivolta-rivoluzione. È come
se Camus affidasse la purezza delle intenzioni alla rivolta e
la concretezza di queste, trasformate in fatti, alla rivoluzione.
Il problema sta nel saper mantenere intatte le intenzioni nel
passaggio tra rivolta e rivoluzione, e quindi nel non oltrepassare
il limite oltre al quale le intenzioni verrebbero negate. La
rivoluzione, per come è stata interpretata dal comunismo70,
oltrepassa il limite e non tiene fede ai suoi ideali iniziali, quelli
della rivolta, quelli che vedono l’uomo l’essere supremo per
l’uomo, che inneggiano a un egalitarismo totale. Ma attuando la
[67] Ivi, p. 192.
[68] Ivi, p. 325.
[69] ����������
A. Camus, Défense de L’Homme revolté, in Essais, Gallimard, Paris
1965; tr. it. Difesa de “L’Uomo in rivolta”, in Estate e altri saggi solari,
Bompiani, Milano 2010, cit., p. 176.
[70] Camus spiega come questa contraddizione sia un problema comune a
tutte le rivoluzioni compiute dall’uomo.
47
violenza in politica – e i processi di Mosca71 ne sono un chiaro
esempio – s’intacca la dignità umana, quella rivendicata dagli
ideali della rivolta. Questa contraddizione può rintracciarsi
nella dottrina marxista, la quale giustifica la violenza nei casi
limite per il raggiungimento dello stadio ultimo della storia.72
Non è possibile, insiste Camus, instaurare il regno della libertà
per mezzo della violenza. Non sarebbe possibile nemmeno se
quest’ultima fosse necessaria al raggiungimento d’una società
dove essa stessa troverebbe la sua fine; il problema, comunque,
non sussiste, poiché Camus non può sostenere una filosofia
della storia. La storia non segue un corso razionale, non dovrà
dispiegarsi in un ultimo stadio idilliaco. Questo è, peraltro,
quello che Camus pensava stesse dimostrando il comunismo
stesso attraverso il suo fallimento. Ma egli, spesso accusato
di non sapersi svincolare da posizioni astratte, cercherà di
analizzare anche nel concreto i fatti storici che portarono a
questo “sconfitta”.
«Alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, il
movimento rivoluzionario ha vissuto come i primi cristiani,
nell’attesa della fine del mondo e della parusia del Cristo
proletario»73. Ma la parusia74 non avvenne mai. Camus
individua le cause del fallimento della “profezia” marxista, in
primis, nell’infondatezza della sua filosofia della storia, ma
[71] Vedi nota 64.
[72] Lungi dall’essere una giustificazione di tipo morale, il marxismo ammette l’uso della violenza rivoluzionaria quale unico metodo per sovvertire il
potere della classe dominante (la borghesia). Una volta passato il periodo di
transizione in cui il proletariato sarebbe dovuto rimanere al potere per consolidare le conquiste della rivoluzione, si sarebbe potuto istituire la nuova
società comunista – che corrisponde allo stadio ultimo della storia – nella
quale sarebbe scomparso, perché non più necessario, ogni tipo di violenza.
[73] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 231.
[74] La parusia (che significa “presenza”, intesa in generale come presenza
del divino) nella teologia cristiana indica il ritorno di Gesù sulla terra il giorno del Giudizio universale.
48
più concretamente nell’evoluzione economica, non prevista da
Marx, del mondo contemporaneo; essa stessa smentisce una
serie di postulati del filosofo: «capitale e proletariato sono stati
ugualmente infedeli a Marx»75. L’introduzione della società
per azioni alterò le dinamiche capitalistiche di fine Ottocento,
che invece di accentrarsi, permisero il nascere di una nuova
categoria di piccoli proprietari. Intorno alle grandi imprese
proliferarono un gran numero di piccole manifatture: «i piccoli
industriali formano uno strato sociale intermedio che complica
lo schema immaginato da Marx»76. Oltre a tutto ciò Marx ignorò
anche il fenomeno nascente del nazionalismo; le barriere non
caddero grazie ai commerci e alla stessa proletarizzazione:
«la lotta della nazionalità si è rivelata almeno altrettanto
importante, per spiegare la storia, della lotta di classe»77. Per di
più la classe proletaria non si accrebbe indefinitamente grazie
alla produzione industriale che, oltre ad aumentare in misura la
classe media, permise l’affrancamento del nuovo strato sociale
dei tecnici. La produttività sviluppata in proporzioni smisurate
indusse all’inevitabile divisione del lavoro, che il filosofo
tedesco pensava potesse evitarsi. La missione cui Marx insignì
il proletariato non poté dunque incarnarsi nella storia, giacché
la storia stessa dimostrò di non essere quella profetizzata da
Marx.
Senza il riconoscimento di un limite invalicabile, garante d’una
misura, oltre il quale l’atto dimentica le sue radici per tramutarsi
nel suo pericoloso opposto, il determinismo comunista, con la
sua logica assoluta, andrà avanti a disseminare diseguaglianza
e terrore proclamando i valori dell’uguaglianza e della pace. La
misura camusiana sarà dunque una misura democratica.
L’egualitarismo politico democratico pone il problema
dell’uguaglianza totale dei cittadini di fronte allo stato non
[75] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 233.
[76] Ibidem.
[77] Ibidem.
49
eleggendo un egualitarismo economico come meta finale
(intento comunista), seppur ritenendo anch’esso fondamentale
quale parte integrante dell’egualitarismo “completo”.
2. «La felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo».
Il presentimento, materializzatosi in certezza a seguito delle
atrocità del XX secolo, della frattura tra uomo e natura (ormai
intesa come mero oggetto a nostra infinita disposizione),
turba l’animo del franco-algerino; la necessità che lo spinge
a dichiarare una “guerra senz’armi” alla società matricida
scaturisce dai fatti del suo secolo. Se solo fosse rimasto nella
sua povertà, senza badare agli altri, senza preoccuparsi di cosa
ci sia fuori, sarebbe rimasto felice come quando «all’infuori
del sole, dei baci e dei profumi selvaggi, tutto [gli] sembra[va]
futile»78. Ma, una volta cosciente della realtà storica, Camus,
tradito dagli uomini istitutori d’un regno antinaturale, avverte
l’esigenza di proporre un antidoto al mondo – la natura si
esprime sui volti di tutti, ma bisogna ridestarne la coscienza.
La conquista della filosofia dello scadere del XIX secolo,
l’insegnamento più importante lasciatoci da Friedrich
Nietzsche, la “fedeltà alla terra”79 – il non cedere alle lusinghe
delle religioni, non credere in una vita dopo la morte a scapito
di questa –, fu probabilmente avvertito come l’ennesimo
delirio del folle venuto “troppo presto”.80 D’altronde Nietzsche
[78] A. Camus, Noces, Gallimard, Paris 1938; tr. it. Nozze, in Estate e altri
saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 4.
[79] Nietzsche per bocca di Zarathustra ammonisce: «rimanete fedeli
alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!». F. W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und
Keinen (1883-85), Insel, Frankfurt 2000; tr. it. Così Parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2008, cit., p. 6.
[80] Riportiamo qui l’aforisma 125 (L’uomo folle) de La gaia scienza
in cui è racchiuso in nuce il fulcro della filosofia nietzscheana: «Avete
50
stesso sapeva della portata catastrofica delle sue affermazioni:
sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce
del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente:
“Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti
molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “E forse
perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro.
“Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo
balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è
andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo:
voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto
questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima
goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte?
Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?
Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i
soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco,
in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo
forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo
spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte,
sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo
dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi
lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli
assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva
fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da
noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti
espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo
grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi
stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai
un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai
siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo puntò il folle uomo
tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì
51
l’uomo contemporaneo non avrebbe voluto sobbarcarsi il peso
infame della sua “misera nobiltà”, incredibile responsabilità;
necessitava d’un alibi; preferiva guardare il cielo o attendere
nella più iniqua servitù la giustizia della fine della storia.
Nietzsche, il profeta della terra, ci aveva avvertito del pericolo;
grazie a lui non avremmo più dovuto incorrere nella tentazione
di camminare con la testa rivolta troppo all’insù o troppo in là
rispetto ai nostri piedi. Se la religione esorta l’uomo a cercar di
svincolarsi dalla materia corrotta per abbandonarsi alla grazia
di Dio, alla speranza, lo storicismo, la filosofia della storia di
Hegel e Marx81, sprona a un’ambigua devozione nei confronti
– non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora
per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino
alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume
delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo
essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è
ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo
folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e
quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori
e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente
in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse
e i sepolcri di Dio?”». F. W. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma
125, tr. it. di F. Masini, in Opere di F. Nietzsche, Adelphi 1967, vol.
V, tomo 2, pp. 129-130.
[81] Secondo Camus, Marx fece suo lo storicismo hegeliano – quindi
la Storia come Assoluto – attualizzando la dialettica “signoria-servitù” (introdotta da Hegel ne La fenomenologia dello spirito). Eccola in
sintesi: per riconoscersi l’uomo deve negare. L’autocoscienza potrà
affermarsi soltanto contrapponendosi a ciò che è altro da sé. Il distinguersi dell’autocoscienza dell’uomo dal mondo naturale consiste nel
desiderio – l’appetito – che egli solamente può nutrire nei confronti
del mondo; e per essere, l’autocoscienza, deve necessariamente soddisfarsi nell’appagamento di questo desiderio. Dunque agirà solo per
appagarsi, e negando ciò di cui si appaga. Sarà negazione, distruzio52
della storia, alla convinzione assoluta che presto verrà il tempo
della resa dei conti. Dunque, i devoti e gli sfruttati saranno
ne. E tuttavia l’unico modo dato all’uomo di appagarsi veramente
risiede nel riconoscimento di un’altra autocoscienza, giacché distruggere un oggetto senza coscienza è proprio anche dell’animale. Solo
nella società riceviamo il valore umano degno d’appagamento. Qui si
istaurerà una feroce lotta tesa al completo riconoscimento di tutti con
tutti, e il desiderio di questo riconoscimento non potrà che cessare
quando tutti si saranno riconosciuti con tutti, e quindi alla fine della
storia.
In questo processo di riconoscimento, ciò che può distinguerci dall’animale è accettare e volere la morte. Ogni coscienza, per essere, ormai
vuole la morte dell’altro, ma la contraddizione e l’assurdità di questa
lotta non lasciano scampo: annientando l’altro non si ottiene nessun
riconoscimento, perché l’altro non è più. E dunque è proprio qui che
si inseriscono le figure del signore e dello schiavo. Hegel ci dice che
fin dall’origine sono dati due tipi diversi di coscienza, il che permette
di uscire dall’aporia sopra citata. Una di queste due coscienze, quella
dello schiavo, non ha il coraggio di rinunciare alla vita e accetta così
di riconoscere l’altra coscienza, quella del signore, senza però essere
da quest’ultima riconosciuta. Quest’autonomia del signore tuttavia
sarà soltanto negativa, giacché, essendo riconosciuta da una coscienza della quale egli non ne riconosce l’autonomia, non può esser paga
fino in fondo. «Il signore non serve a null’altro, nella storia, che a suscitare la coscienza servile, la sola appunto che crei la storia. Infatti lo
schiavo non è vincolato dalla propria condizione, vuole mutarla» (A.
Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 158.). «La storia dunque s’identifica
con la storia del lavoro e della rivolta. Non ci si stupirà che da questa
dialettica, il marxismo-leninismo abbia tratto l’ideale contemporaneo
del soldato-operaio» (Ibidem.). Ed ecco dunque svelata per Camus
l’eredità di Hegel fatta propria da Marx e dai rivoluzionari marxisti
contemporanei. L’intento di questi sarà instituire lo “Stato Assoluto”,
l’ultimo stadio della storia, nel quale – seguendo l’insegnamento hegeliano – «lo spirito del mondo si rifletterà infine in se stesso nel riconoscimento reciproco di ognuno da parte di tutti e nella conciliazione
universale di tutto ciò che è stato sotto il sole» (Ivi, p. 159).
53
premiati, i pagani e gli sfruttatori castigati. Ma «il corpo ignora
la speranza» direbbe Camus parafrasando il suo modello
antimetafisico Nietzsche, «esso non conosce che il pulsare del
sangue»82.
Nietzsche voleva dirci questo: non si può negare l’unica realtà
possibile a favore di qualcosa di irreale, che ci snatura, e, a
dispetto di quel che sostengono i credenti delle fedi sopracitate,
rende ancor più infima l’esistenza dell’uomo. Non chiede
l’ennesimo sforzo d’autopersuasione per abdicare la ragione e
saltare nelle braccia d’un nuovo dio, ma di ritrovare noi stessi;
ci siamo perduti ed è il momento di imparare la strada per non
perderci più, perché non ci si può perdere rimanendo fedeli a
ciò che si è.
2.1. Mediterraneo.
Per introdurre la cultura del limite e della misura camusiana, è
ancora necessario il confronto col pensiero nietzscheano.
Ne La Nascita della Tragedia (1872) Nietzsche illustra quel
che confluirà in una vera e propria rivoluzione filosofica ed
estetica – la reinterpretazione della grecità – volta ad una
profonda critica della cultura contemporanea. L’immagine
della grecità di cui si nutre fino ai giorni nostri la tradizione
europea è dominata dall’idea di armonia, bellezza, equilibrio e
misura83. Ma questa, per Nietzsche, non è la Grecia ma soltanto
l’Atene del V secolo a. C., riguardante solo un certo genere di
prodotti artistici: l’architettura e la scultura. Fu il cristianesimo
a fissare l’antichità nei suoi tratti classici, secondo Nietzsche
già esemplificativi di decadenza e ascrivibili alla traiettoria
nichilistica della storia, giacché non più appartenenti ad un
movimento pienamente vitale. Opposta a questa tendenza
[82] A. Camus, Nozze, cit., p. 30.
[83] Equilibrio e misura in questa accezione non paragonabili agli stessi termini proposti da Camus.
54
apollinea dell’armonia e della misura classica sono i miti
tragici e la diffusione dei culti orgiastici e misterici, i quali ci
rimandano a un’idea diversa di grecità, a un suo necessario
ridimensionamento, mostrandoci l’altro fuoco che vive in essa:
il sentimento dionisiaco. È qui che è racchiuso il cosiddetto
pessimismo greco, il “meglio non essere nati” recitato dai poeti
arcaici e il relativo bisogno dell’uomo di entrare in contatto con
le recondite forze della natura, come a suggellare un rapporto
originario unico in grado di salvarlo dalla sofferenza della
vita, dal suo incrollabile mistero. Liberare gli istinti repressi da
un’ingombrante umanità, avvicinarsi al divino per sentirsi parti
integranti dell’equilibrio cosmico, sono gli imperativi di chi si
lascia guidare da Dioniso.
Apollineo e dionisiaco rappresentano dunque una dualità che
caratterizza profondamente l’anima greca. Il mondo degli dèi
olimpici, il mondo del sogno, è quello prodotto dall’impulso
apollineo, mentre l’esperienza del caos, dell’ebbrezza, è
frutto del dionisiaco. Questi due aspetti sono anzitutto un
rapporto di forze che trova dimora nell’intimità del singolo.
Per Nietzsche tutta la cultura umana è frutto del “gioco” di
questi due impulsi.
La più grande manifestazione di questo “gioco” la si scorge
nella tragedia attica: «il dramma è la rappresentazione
apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci»84. Il
prodotto artistico dell’impulso dionisiaco, per Nietzsche, è
la musica; ed è proprio dalla musica che avrebbe origine la
tragedia. Ma non tutta la tradizione tragediografa manterrà
questi connotati: fu Euripide a porre fine a quest’equilibrio
trasformando il mito tragico in un susseguirsi di vicende
razionalmente concatenate e realistiche. E Nietzsche ci spiega
anche il motivo per cui il tragediografo sentì l’esigenza di
privilegiare l’apollineo a scapito del dionisiaco: il suo realismo
non è altro che la conseguenza dell’ottimismo teoretico
[84] F. W. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus Dem Geiste der Musik
(1872), Cambridge University Press, 2010; tr. it. La Nascita della Tragedia,
Adelphi, Milano 1994, cit., p. 61.
55
proposto da Socrate: ciò che merita di essere rappresentato
sulla scena è appunto la struttura razionale della vita.
Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per
poterla osservare, la conoscenza di sé. E così, accanto alla
necessità estetica della bellezza, si fa valere l’esigenza del
“conosci te stesso” e del “non troppo”, mentre l’esaltazione
di sé e l’eccesso furono considerarti i veri demoni ostili della
sfera non apollinea, quindi qualità dell’epoca preapollinea,
dell’età titanica, e del mondo extra apollineo, cioè del mondo
barbarico.85
Se esiste una struttura razionale dell’universo, come Socrate
e tutta la successiva filosofia classica ci insegnano, allora il
tragico non ha più senso. All’uomo “corrotto” da Socrate ora
serve qualcosa che possa rendergli tollerabile il caos della vita,
un’esasperata rassicurazione metafisica cercata nelle essenze,
sintomo, per Nietzsche, d’una cultura decadente, quella che
innesterà il processo del nichilismo europeo.
Ed è qui che si innesta il pensiero camusiano, proprio in
questa perdita del sentimento vitale che legava l’uomo della
Grecia arcaica alla natura. Sulla scorta di Nietzsche86, Camus
identifica la mancanza di equilibrio vitale dell’uomo, arrivata
intatta sino a noi attraverso le rivendicazioni di religioni e
ideologie, in questo sbilanciamento verso il polo della ragione
soffocatrice degli istinti, ossia nella vittoria dell’apollineo sul
dionisiaco.87 Anche per Camus sono stati proprio i greci arcaici,
[85] F. W. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, cit., p. 37.
[86] Si racconta che Camus portasse sempre con sé, nella sua borsa, una copia de La gaia scienza di Nietzsche regalatagli dal suo insegnate di filosofia
Jean Grenier, nel 1933, quando ancora viveva in Algeria. Venne poi ritrovata
tra gli oggetti che lo scrittore aveva con sé il giorno in cui si schiantò in auto
(era il 4 gennaio 1960).
[87] Non si può però affermare che Camus riconduca questo disequilibrio
vitale a Socrate (come invece fa Nietzsche), forse più a Platone. Infatti, per
capire a fondo il concetto di limite camusiano, dobbiamo tornare al santuario
56
“preapolinnei”, o meglio ancora quei greci che seppero trovare
un accordo tra Apollo e Dioniso, a concepire un pensiero che
rendesse possibile un modo autenticamente umano di abitare
la terra, che, sì, convivesse con la presenza degli dèi, ma senza
confondere umano e divino, senza rubare all’uomo la gioia dei
sensi solo perché portatori di inganni e conflitti – in definitiva
la vita è questa, non può (non deve) essere repressa. Sono stati
loro ad “inventare” il Mediterraneo, inteso come la ricerca della
misura, il fecondo equilibrio tra ragione e natura.
Il cedere dell’uomo alle lusinghe d’una finalità, d’una
razionalità, religiosa o storicista che sia, lo ha indebolito e
condotto allo smarrimento. Camus identifica questo momento
di mistificazione come l’imporsi della storia sulla natura:
[Nella storia] si compiono venti secoli di vana lotta contro
la natura in nome di un dio storico dapprima, e poi della
storia divinizzata. Senza dubbio, il cristianesimo non ha
potuto conquistare la propria cattolicità88 se non assimilando
di Apollo a Delfi, sulla cui facciata era scritto “conosci te stesso” assieme alla
precisazione “nulla di troppo” (quelli che poi diverranno i motti della filosofia
socratica). Conoscere se stessi, infatti, non significa altro che conoscere i propri limiti, sapere fin quanto ci si può sporgere dal precipizio senza rischiare di
cadere. Platone narra che Socrate durante i simposi bevesse tantissimo, tanto
quanto gli altri commensali; ma mentre questi si ubriacavano, egli rimaneva
lucido, perché sapeva di non aver ancora raggiunto il suo limite, di poter ben
sopportare tutto quel vino. Conoscere e accettare i propri limiti, renderli misura della vita, non è dunque un mortificare la carne o lo spirito, abbandonare
sensi e piaceri, anzi, è saperli vivere al meglio, pienamente, in tutte le loro
possibilità di espressione autentica.
[88] Camus ci dice che l’incontro del cristianesimo, inizialmente dottrina
chiusa che ignorava le concessioni, con la cultura mediterranea, diede inizio
ad una nuova dottrina: il cattolicesimo. Questa nuova filosofia ebbe modo
di “abbellirsi” e rifinirsi adattandosi all’uomo. E fu ancora un mediterraneo,
Francesco d’Assisi, a far del cristianesimo interiore e tormentato un inno alla
natura e alla semplicità. Inoltre Camus sostiene che il solo tentativo di separare dal mondo il cristianesimo fu opera d’un nordico, Lutero, che col Protestantesimo strappò il cattolicesimo dal Mediterraneo. Su questo tema vedi il
57
quanto poteva del pensiero greco. Ma sperperata la sua
eredità mediterranea, la Chiesa ha messo l’accento sulla
storia a detrimento della natura, ha fatto trionfare il gotico sul
romanico e, distruggendo in se stessa un limite, ha sempre più
rivendicato la potenza temporale e il dinamismo storico.89
Da queste parole emergono due termini chiave del pensiero
camusiano: limite e Mediterraneo. È questo limite, garante
d’una misura, eredità della cultura mediterranea, l’oggetto di
rivendicazione del filosofo. Ma la misura di cui egli parla non
ha niente a che vedere con l’armonia apollinea, ordine illusorio,
usurpatrice del “gioco” vitale – reale – che lega l’uomo, perenne
Anteo, alla natura, premurosa madre. Il concetto di misura di
Camus è senz’altro più affine all’armonia nietzscheana tra
razionale e irrazionale, apollineo e dionisiaco. La misura nasce
dalla rivolta dell’istinto represso e non può viversi che per suo
tramite.
È costante conflitto, perpetuamente suscitato e signoreggiato
dall’intelligenza. Non trionfa dell’impossibile né dell’abisso.
Qualunque cosa facciamo, la dismisura serberà sempre il suo
posto entro il cuore dell’uomo, nel luogo della solitudine.90
Necessario alla misura è il confronto con la dismisura: un limite
esiste solo se può esser superato; sta poi all’uomo scegliere.
Evidente che optando per una vita senza misura, senza limiti,
l’unico traguardo raggiungibile è la mistificazione della
natura, della nostra “natura” di uomini, a favore del trionfo
dell’ipostatizzazione dell’irreale che ci domina e manovra
dall’alto – in realtà siamo noi che ci autoreprimiamo –, e delle
saggio camusiano La culture indigène. La nouvelle culture méditerranéenne,
in Jeune Méditerranée, aprile 1937, 1, in Essais, Gallimard, Paris 1965; tr. it.
È possibile una nuova cultura mediterranea?, in Estate e altri saggi solari,
Bompiani, Milano 2010.
[89] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 327.
[90] Ivi, p. 329.
58
teleologie91, ideologie92 e religioni93 che allontanano l’uomo
dalla realtà sostituendola con illusioni e armonie che però si
scontrano coi bisogni primariamente umani. Il limite da non
superare, in questo caso, corrisponde alla stessa possibilità di una
vita piena, fatta dell’accordo tra ragione e sentimento, libertà di
capire (e sognare) e necessità di vivere coi mezzi di cui siamo
a disposizione. Superando il limite, da una parte o dall’altra,
alteriamo questa misura originaria, il tutto a nostro svantaggio.
Perché la misura camusiana è quell’unico sentimento che ci
permette di mantenere l’autenticità del rapporto vitale con la
natura, di capire noi stessi e trovare le nostre radici sepolte.
L’uomo del XX secolo, evidentemente, non è stato fedele a se
stesso: «tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti
e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito non è quello di
scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in noi e negli
altri»94.
[91] Quelle dottrine improntate su uno scopo di futura e sicura realizzazione, cui tutto dipende. Il cristianesimo, ad esempio, è una teleologia (dal
greco télos, scopo e lógos, discorso, pensiero), poiché interpreta l’esistenza
umana come momentaneo passaggio sulla terra in attesa della fine dei tempi
e dell’inizio della vera vita accanto a Dio, o della dannazione eterna. Anche
l’hegelismo e il marxismo sono teleologie (o meglio filosofie della storia):
vedi nota 81.
[92] Come ad esempio il marxismo, ma anche il fascismo e ogni altro tipo di
sistema di idee totalitario che non ammette critiche.
[93] Stiamo parlando, nella fattispecie, del cristianesimo. Nietzsche e Camus, pensatori occidentali, vennero così educati e vissero personalmente solo
questa religione.
[94] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 329.
59
2.2. La felicità del suolo.
Nozze a Tipasa (Noces à Tipasa), la prima “confessione” della
raccolta camusiana Nozze (Noces, 1939), si apre a una visione
panteistica d’un paesaggio mediterraneo in cui confluiscono
in assoluta armonia storia, natura e mito. In questo luogo
simbolico, quasi magico, i resti della civiltà perduta – le rovine
romane portate alla luce dagli scavi – appaiono in perfetta
simbiosi con la bellezza della natura:
In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano
nel sole e nell’odore degli assenzi, nel mare corazzato
d’argento, nel cielo d’un blu crudo, fra le rovine coperte
di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre.95
Dalla fertilità e brillantezza della natura scaturisce quella
ricchezza di sensazioni e impressioni che conducono l’uomo,
immerso in quei luoghi, all’estasi, all’appagamento di tutti
i desideri di corpo e anima. Quest’intensità di vita, questa
pienezza, si riflette nelle numerose metafore che Camus utilizza
per rendere tangibile la sensualità e la semplice grandezza dei
momenti narrati. Con il fragoroso sospirare del mondo e la
descrizione dell’acqua marina che scorre sul suo corpo, Camus
proietta il lettore in un’atmosfera d’ubriachezza sensuale pronta
a celebrare la festa pagana del corpo. Qui l’essere si realizza
completamente nell’esaltazione della vita, lontano dal bisogno
di significato e unità. Mediatore, il corpo si apre all’esperienza
e all’iniziazione spirituale, a una sorta d’illuminazione di
carattere (quasi) mistico.
Questa felicità, dunque, non va cercata fra gli uomini, ma la si
incontra nel momento in cui si vive in perfetta assonanza con
la natura che ci circonda. Le parole di Camus, che ci narrano
della sua stessa esperienza, sono certamente le migliori per
rievocare questo sentimento:
[95] A. Camus, Nozze, cit., p. 3.
60
Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo
di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo,
turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie
labbra. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto
l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere
l’amore.96
Questa è l’unica felicità possibile per Camus, l’amore più
grande che possa travolgerci. Solo nel matrimonio tra uomo
e natura può celarsi la nostra realizzazione. «Sentire i propri
legami con una terra, il proprio amore per alcuni uomini,
sapere che c’è sempre un luogo in cui il cuore troverà la sua
armonia, ecco già molte certezze per una sola vita umana»97.
E come si evince da quest’ultima frase, la felicità, oltre che
realizzazione, è punto di partenza; è già insita in noi, per nostra
stessa “natura”. Il compito dell’uomo è riconoscerla, e di qui la
sua realizzazione.
La felicità, per Camus, prorompe dall’accettare con naturalezza
la trasparenza, l’immediatezza delle cose, senza cercare
di assegnarne forzatamente un significato. Solo in questo
modo potremo trovar noi stessi in questo mondo sfuggente e
inafferrabile. La capacità di meravigliarsi per il mondo e godere
dei momenti più semplici e naturali, che l’uomo contemporaneo
sorvola puntando lo sguardo oltre, alla ricerca d’un fine
esterno, è l’unica che ci permette di superare la sofferenza e la
frustrazione – quella sensazione derivante dall’assurdo di cui
sono costituiti i nostri pensieri in relazione al mondo.
Ne L’estate a Algeri (L’eté à Alger, terzo saggio di Nozze)
Camus, con la descrizione di Algeri e degli algerini, celebra la
lode alla gioia semplice, che è quella del vivere nel presente in
piena armonia con la natura. La patria dell’anima di cui parla
Camus non si trova in un altro mondo o in una dimensione
metafisica, ma, sempre seguendo le orme di Nietzsche, in
questa stessa realtà terrena. Contro le astrazioni denigratorie
[96] Ivi, p. 9.
[97] Ivi, p. 25.
61
della natura, promulgate nel corso dei secoli dall’ambizione
assolutistica e sovraterrena dell’uomo, Camus ne L’estate a
Algeri dice:
Imparo che non esiste felicità sovrumana, né eternità fuori
della curva dei giorni. Questi beni irrisori ed essenziali, queste
verità relative sono le sole che mi commuovano. Le altre, le
“verità ideali”, non ho abbastanza anima per capirle. Non che
sia necessario esser bestia, ma non trovo senso nella felicità
degli angeli.98
È il secondo saggio, Il vento a Djemila (Le vent à Djémila), che
per mezzo della suggestione d’una città attraversata dal vento
evoca a Camus una meditazione sulla morte. Djémila è un altro
villaggio della costa algerina particolarmente caro a Camus, sul
quale, come per Tipasa, sorgono rovine romane testimoni di
un glorioso passato; resti che si innestano perfettamente nella
conformazione del paesaggio creando un’armonia inebriante per
i sensi di quell’uomo ancora in grado di meravigliarsi. Anche qui
vi è spazio per la celebrazione della simbiosi tra uomo e natura:
Il vento mi foggiava a immagine dell’ardente nudità che mi
era intorno. E, pietra fra le pietre, la sua stretta fugace mi dava
la solitudine d’una colonna o d’un olivo nel cielo d’estate…
Ben presto, sparso ai quattro angoli del mondo, dimentico,
dimenticato da me stesso, io sono questo vento e, nel vento,
queste colonne e questo arco, queste pietre che sanno di caldo
e queste montagne pallide intorno alla città deserta.99
«Creare delle morti coscienti»100 è il desiderio camusiano
che emerge da questo saggio, in modo da «diminuire la
distanza che ci separa dal mondo, e entrare senza gioia nel
compimento, coscienti delle immagini che esaltano un mondo
[98] Ivi, pp. 25-26.
[99] Ivi, pp. 12-13.
[100] Ivi, p. 16.
62
perduto per sempre»101. L’ebbrezza di vita di Camus acquista
ancor più potenza nel momento in cui egli si fa cosciente
della sua finitezza, dell’effimerità di quest’unica vita terrena.
Così l’uomo, spogliato da false aspettative ultraterrene, potrà
“sposare” la natura e finalmente ritrovare la felicità. Una felicità
finita e fugace per il singolo individuo ed eterna, o perlomeno
lunga quanto la vita della nostra specie, per l’umanità.
Infine, nell’ultimo saggio Il deserto (Le désert) – questa volta
ambientato in Toscana –, Camus ripercorre tutti i temi trattati
nei tre saggi precedenti alludendo in termini espliciti alla
“fedeltà alla terra” proclamata da Nietzsche:
Firenze! Uno dei pochi luoghi d’Europa in cui ho capito che
nel cuore della mia rivolta dormiva un consenso. Nel suo cielo
misto di lacrime e di sole imparavo a dire di sí alla terra e a
ardere nella fiamma cupa delle sue feste… Come consacrare
l’accordo dell’amore e della rivolta? La terra!102
Con queste parole viene suggellato l’equilibrio tanto agognato
dall’uomo camusiano: quel sottile equilibrio tra l’amore, che
potremmo identificare con l’apollineo, e la rivolta all’assurdo,
il dionisiaco.
Il tema delle “nozze” uomo-natura, così sentito e amato dal
romanziere filosofo, trova spazio in gran parte della sua
produzione letteraria. E così nel romanzo che lo portò alla
ribalta nel ‘42, Lo straniero (L’étranger), si hanno continue
allusioni ai luoghi della costa algerina, allo splendore e al
calore del sole, ai bagliori dei raggi solari riflessi dal mare, alla
spiaggia infuocata, agli odori inebrianti.
Tuttavia nel passaggio tra Nozze e Lo straniero sembra che
Camus si lasci momentaneamente alle spalle il suo radiante
ottimismo per affrontare più da vicino la tragicità e assurdità
dell’esistenza. Un ritorno all’ottimismo, alla possibilità
d’un equilibrio vitale, anche se con caratteristiche diverse,
[101] Ibidem.
[102] Ivi, p. 39.
63
sopravverrà solo col completamento del suo percorso filosofico:
la consapevolezza del valore della rivolta de L’uomo in rivolta.
Ma Lo straniero non si dimentica affatto del rapporto vitale
tra uomo e natura; esso rimane sempre sulla scena, a tratti da
antagonista, tentatore che incrina l’equilibrio naturale e trascina
gli avvenimenti nel tragico:
Tutto quel calore pesava sopra di me e contrastava il mio
andare… Mi tendevo tutto per vincere il sole e quella
ubriachezza opaca che esso riversava su di me. A ogni
sciabolata di luce sprizzata dalla sabbia, da una conchiglia
candida o da un frammento di vetro, mi si contraevano le
mascelle.103
La conclusione di questo disaccordo tra il protagonista
Meursault e la natura (ostile) che lo avvolge saranno i quattro
colpi di pistola riversati sul corpo inerte del marocchino disteso
sulla spiaggia:
Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura
e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è
cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito
che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario
silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.104
E poi il processo, l’adattamento alla vita della prigione, e infine
la non rassegnazione e la scoperta d’una nuova esistenza. Sì,
perché in prigione Meursault ritroverà la quiete trasformando
il suo inconscio sentimento dell’assurdo in rabbia contro il
cappellano105 che avrebbe voluto salvargli l’anima.
[103] A. Camus, L’étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 73.
[104] Ivi, pp. 75-76.
[105] Riferimento alle speranze offerte dalla religione.
64
Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato
dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle,
mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo.
Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho
sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora.106
Questa «dolce indifferenza del mondo» è il silenzio avvilente
che caratterizza il nostro sentimento dell’assurdo, che si
contrappone alle nostre domande gridate contro un cielo
insensibile; e di qui la rivolta tesa alla rivendicazione della
nostra dignità, la quale verrà riconosciuta soltanto nella
compenetrazione tra uomo e natura, nel tacito accordo fra i due.
Camus, tramite il simbolo letterario di Meursault, riduce le
bestialità del XX secolo a questo essenziale disaccordo tra
uomo contemporaneo e natura e a quell’imporsi di principi
irreali che snaturano ciò che di naturale, per definizione, esige
l’uomo nella ricerca della felicità.
È come se la forza di gravità ad ogni nostro movimento,
consapevole o no, s’annullasse per permetterci la libertà di
vivere il mondo in una sorta di tensione atmosferica.
Le ambiguità permangono e se non fosse così, se definissimo
un concetto stabile di natura, ne elimineremmo seduta
stante il carattere dinamico, evolutivo, ossia ciò che più
la contraddistingue. Quel che ci rimane è questa certezza
nell’ambiguità. La certezza che se non possiamo far a meno
di riflettere sulle cose, essendo animali riflessivi, dobbiamo
almeno ammettere che la natura, il nostro suolo, si trova al di là
d’ogni riflessione essendo ciò che ci permette di concretizzarla.
L’appello di Camus, se vogliamo estenderlo alla prassi, alla
quotidianità, spinge alla meditazione sulla nostra condizione
umana, alla salvaguardia della nostra dignità attraverso un
pesato interscambio con l’ambiente.
[106] A. Camus, Lo straniero, cit., pp. 149-150.
65
3. Assurda libertà.
Se per Camus la dialettica uomo-natura appare inscindibile –
l’essere umano è natura, elemento tra gli elementi, in equilibrio
nel e col mondo –, tuttavia nel momento in cui l’uomo scorge
nei suoi gesti la minaccia dell’assurdo, questo equilibrio
originario sembra sgretolarsi. La ragione dello smarrimento è
legata allo scarto che intercorre tra il bisogno insoddisfatto di
risposte e il silenzio frustrante dell’universo.
Se fossi albero tra gli alberi o gatto tra gli animali, questa
vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non
sussisterebbe, perché farei parte del mondo. Io sarei quel
mondo, al quale mi oppongo ora con tutta la mia coscienza e
con tutta la mia esigenza di familiarità.107
Dunque il problema sorge con la nostra coscienza, dalla capacità,
propria solo all’uomo, di poter penetrare la sua condizione
assurda, colpevole dello spezzarsi dell’“incantesimo” che
lo manteneva in un equilibrio menzognero. Ciononostante,
l’acquisita coscienza della gratuità della vita non può separarci
realmente dalla natura, poiché resteremo irreducibilmente parte
di essa, in uno scambio reciproco imprescindibile ai fini della
vita stessa; la scissione può avvenir solo nella nostra mente.
L’assurdità più clamorosa, che assumerà il volto dell’assurdo
solo dopo la liberazione della nostra coscienza da false speranze,
è la morte. Essa si presenta come la distruttrice d’ogni nostra
pretesa di libertà.
Ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità
di una possibile morte. Pensare al domani, fissarsi uno scopo,
avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà…
[107] A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., pp. 48-49.
66
Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà
di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte
è là, di fronte, come la sola realtà.108
Appare qui, pertanto, una prima considerazione sulla libertà, la
quale verrebbe negata dalla morte che incombe prepotentemente
sull’uomo. Se la morte avesse realmente questo potere – negare
la libertà di essere dell’uomo – saremmo condannati a una vita
insensata nell’unica triste prospettiva della fine. Ma questa
prima approssimazione del problema della liberà umana, che
si pone l’uomo ormai entrato in contatto con l’assurdo, non
risulta soddisfacente. Infatti, contemporaneamente a questa
sensazione d’impotenza «l’uomo assurdo capisce che fino
a questo momento era legato a un postulato di libertà, sulla
cui illusione viveva»109. L’uomo, prima della “rivelazione”,
immaginava degli scopi nella vita, si conformava ad essi per
poi farsi schiavo della sua stessa libertà. In realtà non era affatto
libero.
Nella misura in cui spero o mi do pensiero di una verità che mi
sia propria, di un modo di essere o di creare, nella misura in
cui ordino la mia vita e provo, con ciò stesso, di ammettere che
essa abbia un senso, mi creo barriere entro le quali rinchiudo
la mia vita.110
Ecco l’illuminazione dell’assurdo: «non esiste un domani»111.
Scopriamo d’esser liberi, profondamente liberi, molto
più di quanto credevamo prima d’imbatterci nell’assurdo.
Quest’ultimo, negando ogni nostra propensione a una libertà
eterna, non fa altro che riconsegnarci, esaltandola, la nostra
libertà d’azione: «questa privazione di speranza e di avvenire
[108] Ivi, p. 53.
[109] Ibidem.
[110] Ivi, p. 54.
[111] Ibidem.
67
significa un accrescimento nelle disponibilità dell’uomo»112.
Tale libertà sarà limitata, avendo termine con la morte, ma
non più imprigionata in un senso, in una direzione fittizia.
Scorgiamo così infinite possibilità di essere.
Appare dunque chiaro come per Camus l’uomo non debba
sottrarsi all’assurdo e nemmeno costruirsi false prospettive atte
a scioglierlo – e ciò non è possibile se non con fini superiori
inventati su misura. L’uomo deve, al contrario, mantener
questa tensione tra il suo indomabile desiderio di conoscere
le configurazioni segrete della natura e l’impossibilità di
soddisfarlo, tra il suo grido disperato e l’estenuante silenzio del
mondo. Questo lo potrà fare solo attraverso la rivolta: solo
così «il corpo, la tenerezza, la creazione, l’azione, la nobiltà
umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo
insensato. L’uomo vi ritroverà infine il vino dell’assurdo
e il pane dell’indifferenza, di cui nutre la sua grandezza»113.
Negando schopenhauerianamente114 il suicidio, Camus
consegna all’uomo contemporaneo il privilegio di essere un
“condannato a morte” – il contrario del suicida, ovvero un
uomo cosciente delle proprie possibilità e profonda libertà –,
che nonostante tutto non accetta il suo limite mantenendosi
in costante rivolta, capace dell’esaltazione della vita terrena,
l’unica, nella liberazione, attraverso la consapevolezza della
morte, «da tutto ciò che non sia l’appassionata attenzione»115.
[112] Ivi, p. 53.
[113] Ivi, p. 49.
[114] Come Schopenhauer afferma che il suicidio, lungi dall’essere la negazione della volontà, ne rappresenta in realtà il compimento, Camus sostiene
l’inutilità del suicidio come mezzo per risolvere l’assurdo. «Si può credere
che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico
sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio… è l’accettazione del proprio limite». Ivi,
p. 51.
[115] Ivi, p. 54.
68
Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta
un’esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un
uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello di
un’intelligenza alle prese di una realtà che la supera.116
La tensione dell’assurdo aumenta, paradossalmente, il nostro
sentimento d’appartenenza al mondo.
L’uomo, svelata la sua contingenza, è condannato a vivere alla
perenne presenza dell’angoscia; tuttavia la maggior parte degli
uomini persisterà nella costruzione di scale di valori e obiettivi
da portare a termine. Questa una delle conseguenze possibili
della rivolta: il non arrendersi all’abisso del non senso, il
continuare a crearsi, inventarsi nelle piccole cose, sebbene la
nostra coscienza abbia ben salda l’unica certezza possibile: non
c’è fondamento; se qualcosa ha per me un senso è solo grazie
alla mia capacità di conferirglielo. In ogni caso, qualunque siano
le conseguenze della “libertà assurda” camusiana, quel che è
certo è che la potenza del ragionamento assurdo non perderà
di vitalità nel cuore umano; rimarrà, nell’uomo consapevole, il
termine di paragone privilegiato, il suo afflato, la possibilità di
una vera valutazione della grandezza dell’esistenza.
Ogni libera scelta comporta limiti all’agire se si vuole che azioni
e decisioni abbiano un senso per il futuro. Propria di Camus
è la volontà di “creare” uomini liberi consapevoli; consegnar
all’uomo contemporaneo la sua essenziale corresponsabilità nello
sviluppo della storia personale e universale. È necessario aver
coscienza della propria libertà e, soprattutto, della responsabilità
che ciò comporta nell’azione individuale. Immediato il rimando
alla misura camusiana, a quel concetto di limite che occupa così
tanto spazio nella riflessione sull’uomo del Pied-Noir117.
[116] Ivi, p. 51.
[117] Pied-Noir (Piede Nero), nel linguaggio corrente francese, significa
“rimpatriato”, ed in particolare fa riferimento ai francesi d’Algeria rimpatriati a partire dal 1962.
69
In uno dei pochissimi riferimenti alla libertà de L’uomo in
rivolta egli scriverà:
La libertà, “questo nome terribile scritto sul carro degli uragani”,
è al principio di tutte le rivoluzioni. Senza di essa, la giustizia
sembra inimmaginabile al ribelle. Eppure viene il momento che
la giustizia esige la sospensione della libertà. Il terrore, piccolo
o grande, viene allora a coronare la rivoluzione.118
Qual miglior esempio della rivoluzione per sensibilizzar l’uomo
sulle possibili conseguenze dell’uso improprio della libertà?
Per Camus noi siamo potenzialmente tutti liberi in egual modo,
ma abbiamo la responsabilità di “mantener l’equilibrio” – è
necessario un equilibrio ai fini della convivenza degli uomini
e della salvaguardia del rapporto uomo-natura. Nel momento
in cui dovessimo abusare di questa libertà, alimentando la
dismisura, superando il naturale limite “impostoci” dalla
coesistenza dell’altro, giungeremmo alla negazione stessa della
libertà; affermeremmo forse un’effimera libertà personale al
prezzo, però, della libertà altrui. E – per prendere l’esempio di
Camus – nella rivoluzione questo si concretizzerebbe in terrore.
Se per Camus, al di là e per mezzo della consapevolezza
dell’assurdo, lo scopo dell’uomo consiste in una “fedeltà alla
terra” di stampo nietzscheano, nell’esaltazione della nostra
relazione privilegiata, perché cosciente, con la natura, e
dunque, per concludere, nella salvaguardia della nostra misura
propria – quella che ci rende propriamente uomini –, che non
può esser considerata a prescindere dal rapporto con gli altri, il
nostro impegno dovrà essere volto al mantenimento di questa
misura, nel non oltrepassare il limite superato il quale un atto
negherebbe se stesso.
La libertà è senza dubbio il nostro bene più prezioso, senza
il quale non potremmo capir la gioia del creare e del crearci;
appunto perché così profonda, se utilizzata male, può diventare
pericolosa e contraddizione di se stessa.
[118] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 121.
70
V ITA DI
AL BERT CAMUS
Albert Camus nacque il 7 novembre 1913 in Algeria a Mondovi,
oggi Dréan. Fu romanziere, filosofo, drammaturgo, giornalista.
Vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1957 «per la sua
importante produzione letteraria, che con perspicace zelo getta
luce sui problemi della coscienza umana nel nostro tempo»
(motivazione dell’Accademia Svedese). Crebbe con la madre
e la nonna (il padre morì in guerra). Grazie all’aiuto del suo
professore Jean Grenier e a una borsa di studio si laureò in
Filosofia all’Università di Algeri, finendo gli studi da privatista,
nel ’36, a causa della tubercolosi. Nel ’34 dette la sua adesione
al Partito Comunista, il quale lo destinò alla campagna tra gli
arabi, ma già tra il ’35 e il ’37 ne prese le distanze: da questo
momento in poi attuerà attraverso i suoi scritti una feroce
critica del comunismo (soprattutto per l’uso della violenza).
Iniziò la sua carriera scrivendo per un giornale locale algerino,
ma emigrò presto in Francia dove, da attivista (contro
l’occupazione nazista), scrisse per Paris-Soir. Partecipò poi
alla Resistenza avvicinandosi al giornale partigiano Combat.
A causa dell’entrata nell’ONU della Spagna franchista lasciò il
suo posto all’UNESCO. Morì il 4 gennaio 1960 in un incidente
automobilistico avvenuto nella cittadina di Villeblevin.
71
Opere principali
Romanzi
Lo straniero (L’étranger), 1942.
La peste (La peste), 1947.
La caduta (La chute), 1956.
La morte felice (La mort heureuse), 1971, postumo.
Il primo uomo (Le premier homme), 1959, ma 1994, postumo
e incompiuto.
Filosofia e saggi autobiografici
Il rovescio e il diritto (L’envers et l’endroit), 1937.
Nozze (Noces), 1938.
Il mito di Sisifo (Le mythe de Sisyphe), 1942.
L’uomo in rivolta (L’homme révolté), 1951.
L’estate (L’été), 1954.
Teatro
Caligola (Caligula), 1944.
Il malinteso (Le malentendu), 1944.
Lo stato d’assedio (L’état de siège), 1948.
I giusti (Les justes), 1950.
Trama de Lo straniero (1942)
Meursault, uomo di origini francesi che vive ad Algeri, apprende
della morte della madre. La notizia non lo prova più di tanto:
giunto all’ospizio in cui si trova la salma rifiuta addirittura di
vederla. Nei giorni successivi al funerale inizia una relazione con
una donna, ex collega di ufficio, conosciuta in spiaggia. Marie,
questo il nome della donna, si innamora di lui e vuole sposarlo,
ma Meursault pare essere interessato solo ad una relazione
superficiale. Meursault si ritroverà, praticamente per caso, ad
uccidere un arabo disteso sulla spiaggia. La pistola gli era stata
data da un suo amico, Raymond Synthès, un magazziniere
che aveva schiaffeggiato e picchiato la sorella dell’arabo,
provocando in questi un desiderio di vendetta. Meursault viene
72
arrestato. Durante il processo viene discusso, più che l’assurdo
assassinio, il fatto che Meursault sembri non provare alcun tipo
di rimorso, e, nonostante i tentativi dell’avvocato difensore,
Meursault viene condannato a morte. Rifiuta anche il confronto
col cappellano che avrebbe voluto redimerlo, ma la collera
che sfoga nei confronti di quest’ultimo, in qualche modo, lo
purificherà, riconciliandolo con l’indifferenza del mondo.
73
TERZO CAPITOLO. ANDRÉ GIDE
E SE IO T I BUT TASSI
GIÙ DAL T RENO?
E vanno ad ammirare le montagne altissime
e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi
e l’orizzonte dell’oceano sconfinato
e il girotondo delle stelle: e trascurano se stessi,
gli uomini, e non si meravigliano che io parli
di tutte queste cose senza vederle con gli occhi.
Agostino (Confessioni, X, 8.15).
1. Vita nova.
La figura di Gide influenzò generazioni di scrittori francesi –
che dopo di lui cercarono respiro all’interno di una letteratura
e un mondo in profonda trasformazione –, in alcuni casi
lasciando tracce inconfondibili. Si potrebbe considerare
quest’autore, facendo forse un torto alla sua originalità, come
il trait d’union fra due differenti concezioni dell’arte (e della
letteratura in primo luogo): nella sua lunga avventura letteraria,
Gide, raggiunse un sofferto equilibrio che prese le mosse da
una concezione giovanile dell’arte come pura creazione dal
74
valore intrinseco, come seconda natura disinteressata (o come
natura vera e propria di cui l’artista è medium), dunque non
eterogenea, non piegata dalla realtà; è questo l’ideale simbolista
o parnassiano (per parlare dei movimenti contemporanei a
Gide) – sebbene egli dichiarò sempre la sua estraneità alle loro
affettazioni e velleità astrattive –, di un finale ottocentesco ancor
intriso di sapore romantico; per poi approdare, quasi subito, a
un far letteratura dettato dalla più intima esigenza introspettiva,
che, però, s’impone come attività pratica, formativa, all’interno
della crescita e sperimentazione di sé – Blanchot, a proposito
di ciò, parlerà di “Letteratura d’esperienza”. Attraverso
un’autoanalisi disinibita Gide metterebbe a nudo gli aspetti
più oscuri e indecifrabili del proprio essere anelando alla vera
realizzazione dell’esistenza: l’accettazione di sé, di tutto ciò
che riguarda il corpo e lo spirito. L’opera gidiana – afferma
Maurice Blanchot – risponde
a quel bisogno della letteratura contemporanea di essere
qualcosa di più che letteratura: un’esperienza vitale, uno
strumento di scoperta, un mezzo per l’uomo di sperimentarsi,
di scandagliarsi e di oltrepassare così, in questo tentativo, i
propri limiti.119
Limiti che sono, evidentemente, quelli imposti dalla società,
da costumi e pregiudizi, nemici della natura mai assentatasi
dal percorso umano: il profondo e celato rapporto – celebrato
da Gide nella sua attività creatrice – tra uomo e natura, intima
all’uomo contemporaneo di spogliarsi dell’artificiosità di una
morale costruita sul dolore, per recuperare una sorta di ebbrezza
primordiale memore dei legami vitali che ci alimentano
costantemente.
Ma le due concezioni letterarie, coesistenti nella complessa
esperienza gidiana, non si escludono, bensì tendono a fondersi
[119] �������������
M. Blanchot, Gide et la Littérature d’expérience, in La part du feu,
Gallimard, Paris 1949; tr. it. Gide e la letteratura d’esperienza, in Così sia
ovvero Il gioco è fatto, SE, Milano 2001, (pp. 119-132), cit. pp. 121-122.
75
armonicamente nel nesso vita-scrittura proprio dell’autore
francese. Per Gide l’opera letteraria mantiene quel valore
“superiore”, avvolto dalla gioia creatrice contemplatrice di
se stessa attribuitole dall’arte tradizionale, concedendo però
allo spirito dell’artefice una comunione di sorte con essa: la
letteratura diventa un cammino che porta a diventare ciò che
si è.
È indubbio che colui che si chiede, al momento di prendere la
penna: di che utilità sarà ciò che sto per scrivere? Non è uno
scrittore nato e meglio farebbe a rinunciare immediatamente a
esprimersi.120
Dunque, la letteratura non avrà alcun impegno prestabilito – né
quello d’esser filosofica né socialmente e politicamente situata
– se non quello d’esser vera, ossia espressione libera. Avrà a che
fare con la materia reale – lungi da Gide rannicchiarsi nei mondi
fantastici e surrealisti –, ma non con fini dettati dall’esterno: lo
scopo è e rimane interno al nesso vita-opera dell’autore.
Se gli avvenimenti mi incalzano sono pronto ad affrontarli. E
cercherò di farlo senza disonorarmi, cercherò di non tremare
troppo di fronte all’orrore. Ma non venite a chiedermi di falsare
la voce e di introdurre nei miei scritti qualche opportunistico
fremito…121
Di qui la distanza dall’engagement (impegno), che pur
risente, nelle psicologie dei personaggi dei romanzi sartriani,
dell’influsso gidiano122. Per usare la terminologia di Sartre,
[120] ���������
A. Gide, Ainsi soit-il ou Les jeux sont faits, Gallimard, Paris 1952; tr.
it. Così sia ovvero Il gioco è fatto, SE, Milano 2001, cit., p. 90.
[121] Ivi, p. 86.
[122] Lo stesso Sartre ammette che «tutto il pensiero francese degli ultimi
trent’anni, volente o nolente, quali che fossero le sue altre coordinate, Marx,
Hegel, Kierkegaard, si doveva anche definire in rapporto a Gide». J.-P. Sartre,
Gide vivant, in Situations IV, Gallimard, Paris 1964; tr. it. Attualità di Gide, in
76
Gide si manterrebbe indefesso nell’“età dell’adolescenza”,
assorta in quel celebre atto gratuito – che spesso banalizza
ferocemente, cercando di racchiuderla in un’etichetta, la
sua intera opera –; non riuscirebbe a superare il sentimento
di smarrimento che segue alla coscienza della Nausea, del
riconoscimento dell’assurdità, della completa gratuità e
contingenza della vita. Il suo è un gioco che necessiterebbe di
un’ulteriore presa di posizione sul reale. La stessa letteratura
sarebbe per lui atto gratuito, spirito materializzato volto al
diletto dei fruitori; senza cause (se non la propria libera volontà
creatrice) né conseguenze. Eppure si è avuto modo di spiegare
come l’esperienza gidiana sia un continuo compromettersi
dell’autore, testimonianza di una lacerazione, di una lotta contro
se stessi e i propri residui pregiudiziali; per Gide costituirà una
vera e propria purificazione. Più la scrittura diventa mezzo di
autocomprensione e superamento di sé, più i connotati di un’arte
gratuita, dell’art pour l’art (l’arte per l’arte), sbiadiscono.
Ciò considerato resta netta la divergenza con il futuro impegno
sartriano, il quale non potrà far a meno di un lucido e costante
confronto con le attuali contingenze politico-sociali.
Tuttavia c’è un avvicinamento gidiano a questo modo
d’intendere la letteratura concentrato in alcuni episodi letterati
della maturità: le denunce contro lo sfruttamento umano e il
feroce colonialismo contenute nel Viaggio in Congo (Voyage
au Congo, 1927) e Ritorno dal Ciad (Le retour du Tchad,
1928); le deluse considerazioni su un comunismo reale più
repressivo di quel che si credeva del Ritorno dall’URSS (Retour
de l’U.R.S.S., 1936); e l’esplicito tentativo di Corydon (1920)
di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema sociale, che
agli occhi di Gide avrebbe dovuto definitivamente smettere di
esser considerato tale, dell’omosessualità. In questi episodi
Gide, entrato pienamente nell’“età della ragione”, prende
coscienza del forte impatto che l’attività letteraria permette
sulle coscienze dei lettori. La compromissione degli scritti
Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano 2009, (pp. 444-447), cit., p. 444.
77
gidiani – come si è cercato di dimostrare più sopra – è sempre
stata totale, risultando quasi un intimo diario esperienziale
dell’autore; tuttavia, questi casi particolari di testimonianza
diretta di situazioni politico-sociali (e morali) propongono
altresì un Gide engagé (impegnato) nella vera accezione
sartriana. La differenza tra Gide e Sartre risiede nel fatto che le
opere del primo, quelle sopracitate, sono appunto testimonianze
vere e proprie, esplicite, e non narrative – ad eccezione di
Corydon, opera di “fantasia” costruita sul modello del dialogo
socratico –: Gide, al contrario di Sartre, non utilizza il romanzo
(o il racconto) in un cosciente impegno volto al miglioramento
delle condizioni dell’esistenza umana. Eppure, il suo tentativo
di rovesciamento della morale comune è palpabile in ogni sua
opera, ma la dimensione individualistica e intimistica, in cui
spesso si inseriscono i personaggi gidiani, collocano il suo
autore su un piano differente rispetto all’engagement.
Gide non è filosofo, non vuol esserlo, non divide la sua produzione
letteraria in narrativa e trattatistica filosofica: la sua opera è
tendenzialmente omogenea e si concentra sulla narrazione,
sul racconto o romanzo. Tuttavia, essendo sterminata, l’opera
gidiana conta anche opere d’altro tenore – si vedano appunto
i resoconti dei viaggi e altri scritti di natura trattatistica; ma
non vi è un’elaborazione teoretica, come avverrà per esempio
in Sartre o Camus, di una filosofia personale. Se per filosofo
intendiamo colui che teorizza una particolare visione del mondo,
Gide non può esser considerato tale, ma se intendiamo, invece,
colui che, attraverso qualunque genere di letteratura (o arte in
generale), veicola uno sguardo coerente e personale sul valore
dell’esistenza, allora anche Gide – e lo stesso potrebbe dirsi ad
esempio per Dostoevskij – è ascrivibile all’ambito filosofico. Di
certo, a prescindere da questo, alle spalle di Gide vi è il sorgere
e consolidarsi di un contesto filosofico che lo scrittore francese
abbraccia entusiasticamente, seppur in una continua tensione
spirituale. E di certo l’esperienza letteraria gidiana, comunque
la si voglia considerare, influenzò la Francia del Novecento
non soltanto letterariamente ma anche filosoficamente – sulla
questione morale di sicuro.
78
Le convinzioni e posizioni filosofiche di Gide emergono
sensibilmente dai suoi scritti, a partire dai primissimi lavori,
sostenute – come già detto – dalla necessità di autocomprensione
e accettazione di sé. Vi è una completa fusione tra vita-pensiero
e pratica letteraria dell’autore, per cui ogni opera si ergerà a
portavoce del sentimento filosofico che in quel momento
domina il suo modo di agire. Non è possibile determinare quanto
egli avesse coscienza della portata dell’appello personale a
cui dedicava i suoi scritti e di quanto questo avrebbe potuto
irrompere nella realtà per trasformarla, tuttavia possiamo esser
certi che volesse mostrarsi all’umanità come testimone dei
benefici dell’applicazione alla vita d’una particolare filosofia
da lui “sperimentata”.
Attraverso la letteratura e la filosofia, Gide comprende come i
suoi tormenti, le turbe mentali che lo avevano cresciuto, fossero
frutto di un’educazione fondata su una morale convenzionale,
repressiva, e su una tensione religiosa portata al parossismo,
le quali, invece che mantenere l’uomo nella sua condizione
naturale – e pertanto equilibrata –, cercavano il suo innalzamento
a Dio recidendo i legami vitali con la natura. Loro prodotto non
poteva che essere un uomo malato, estraneo a se stesso; e se
l’uomo in questione si ritrova altresì emarginato dalla società
per la sua tendenza omosessuale, la situazione assumerà tinte
ancor più fosche. Gide avverte il bisogno di recuperare una
serenità perduta, fino ad allora mai conosciuta se non nella
propria immaginazione, di lasciar al corpo la propria espressione
naturale, dar libero sfogo all’istintualità che da tempo rivendica
una riemersione tra le censure causate dalla morale.
In questa prima fase di intima liberazione la filosofia di
riferimento non può che essere quella di Nietzsche, che,
allo scadere del XIX secolo, già suscitava accesi dibattiti
in Europa. Gide fu tra i primi in Francia a trasmettere, con
mezzi non convenzionali quali il lirismo letterario – giacché
«per ben parlare di Nietzsche bisogna essere più passionali e
meno scolastici»123 –, quello che lui chiama “niceismo”. In una
[123] ���������
A. Gide, Lettres à Angèle, Mercure de France, Paris 1900; tr. it. Lettere
79
lettera del 1898 – quindi con il filosofo tedesco ancora in vita
– Gide esprime esplicitamente l’entusiasmo per il pensiero di
Nietzsche, il quale
riempie di vita gioiosa [gli uomini], con essi vive nel mezzo
delle rovine e vi semina a più non posso. Mai è così esuberante
di vita come quando si tratta di mandare in rovina cose mortali
e tristi. Allora ogni pagina è saturata da una energia creatrice:
indistinte novità vi si agitano; sa prevedere, sa presentire e
chiama a raccolta e ride. – opera stupenda? No, ma prefazione
d’opere stupende. Dunque Nietzsche demolisce? Suvvia! Vi
dico che costruisce, è tutto indaffarato a costruire.124
Nietzsche non è semplicemente il decostruttore dell’impalcatura
platonico-cristiana della vita, bensì colui che permette una
“rinascita”, la costruzione di valori nuovi dettati dalla ritrovata
“fedeltà alla terra”, dal coraggio dell’accettazione della “morte
di Dio” – o meglio della sua “mancata nascita”. E dunque
l’«energia creatrice» di cui parla Gide è quella che erompe da
un uomo finalmente padrone di se stesso, consapevole delle sue
radici terrene, della sua “nobile miseria”.
I nutrimenti terrestri (Les nourritures terrestres, 1897) – la
cui pubblicazione precede di un solo anno le “considerazioni
nietzscheane” sopracitate – sono l’esempio più affascinante
di questa “rinascita”, vera e propria “purificazione” gidiana.
Non è un romanzo, poiché manca d’un preciso intreccio
di avvenimenti, bensì uno sfogo lirico, la narrazione della
liberazione dello spirito e del corpo dall’oppressione della
tradizione; perfetto “manuale edonistico” incentrato sullo
sprigionamento del fervore istintivo.
Agire senza giudicare se l’azione sia buona o cattiva.
Amare senza giudicare se sia il bene o il male. Natanaele, io
ad Angela, in Incontri e pretesti, Bompiani, Milano 1945, (pp. 71-104), cit.,
p. 81.
[124] Ibidem.
80
t’insegnerò il fervore. […] Ciò che di più bello ho conosciuto
sulla terra / Ah! Natanaele! è la mia fame.125
L’interlocutore di Gide, Nathanaël, è lo scrittore stesso prima
della “scoperta della natura”, ovvero l’uomo malato, represso
da una morale meschina e menzognera, neutralizzatrice delle
passioni terrene e del primigenio rapporto uomo-natura. Qui
Gide si colloca al di là del bene e del male riflettendo liricamente
la sua personale «rieducazione degli istinti»126 e la riscoperta di
sé sperimentata nel primo viaggio in Algeria del ‘93. Dalla sua
autobiografia leggiamo:
La morale con la quale ero vissuto fino a quel giorno, cedeva
da poco a non sapevo bene quale cangiante visione della vita.
Cominciavo a intravedere che il dovere non era lo stesso per
ciascuno, e che anche Dio poteva avere in orrore l’uniformità
contro cui protestava la natura, ma cui tendeva, mi sembrava,
l’ideale cristiano, nella sua pretesa di mortificare la natura
stessa. […] Invero ero inebriato dalla diversità della vita.127
L’allontanamento di Gide dalla religione sarà graduale:
l’ateismo vero e proprio verrà abbracciato soltanto nell’ultima
fase della sua vita; ancora nel ’26 Gide può confessare: «non
dissi addio al Cristo senza una specie di schianto; per questo
oggi dubito di averlo mai abbandonato»128. Per il momento,
il giovane scrittore, considera l’attuale morale puritana a
cui venne rigorosamente educato attuazione non fedele
dell’insegnamento di Cristo; ed è proprio – paradossalmente
– il pensiero nietzscheano ad assumersi, secondo Gide, le
[125] ���������
A. Gide, Les nourritures terrestres, Mercure de France, Paris 1897; tr.
it. I nutrimenti terrestri, Garzanti, Milano 2004, cit., pp. 93, 110.
[126] ������������������������
Cfr. p. 299 di A. Gide, Si le grain ne meurt, Nouvelle Revue Française,
Paris 1926; tr. it. Se il grano non muore, Bompiani, Milano 1990.
[127] Ivi, pp. 266-267.
[128] Ivi, p. 279.
81
conseguenze di una piena realizzazione del protestantesimo.
Infatti accogliere il pensiero nietzscheano «è possibile solo
a cervelli da lunga pezza preparati a riceverlo da[l] […]
protestantesimo o da un innato giansenismo, […] [i quali]
conservano tutto il calore della fede»129. Perché Nietzsche
è un credente: ha fede nella vita; distrugge, ma ancor più
costruisce. La reinterpretazione gidiana di Nietzsche gli è utile
per combattere la menzogne della morale convenzionale, senza
però intaccare il piano metafisico, momentaneamente saldo; lo
scetticismo ateo appare ai suoi occhi ancora troppo arido per
realizzare quell’immersione – richiesta dalla crisi spirituale che
lo ossessiona – nella natura viva.
Tuttavia Gide «non cred[e] più al peccato»130 e, durante
l’esperienza algerina, troverà il vero benessere nella voluttà131:
Capivo finalmente quanto orgoglio si celasse in tale resistenza
a ciò che cessavo di chiamare tentazione poiché ormai
smettevo di fortificarmi contro di lei.132
È questa la felicità, il desiderio definitivo dell’uomo: «la mia
felicità è fatta di fervore. Attraverso indistintamente ogni cosa,
io ho perdutamente adorato»133.
Per la prima volta Gide sperimenta la gioia dell’innocenza;
il sentimento della colpa ha a che fare con una morale non
più sua. Nel viaggio in Algeria la natura di Gide riemerge
dall’assopimento dell’infanzia per manifestarsi nella sua
veste originaria: il piacere della carne e la libera e desiderata
esperienza dell’omosessualità. Gide recupera il fondamentale
equilibrio che lo fonde con la natura lasciando cadere gli
[129] A. Gide, Lettere ad Angela, cit., p. 80.
[130] A. Gide, I nutrimenti terrestri, cit., p. 115.
[131] Cfr. A. Gide, I nutrimenti terrestri, p. 121.
[132] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 293.
[133] A. Gide, I nutrimenti terrestri, cit. p. 145.
82
ostacoli pregiudiziali che ancora vivevano in lui. L’ambiente
africano, che gli permette di «abbeverarsi di luce» in un’«estasi
sensuale»134, si fa complice di questa rinascita: «mi sembrava
perfino di esistere per la prima volta, uscito dalla vallata
dell’ombra della morte, di nascere alla vita vera»135. Il calore
della terra predispone l’animo gidiano all’accoglimento della
sua verità.
La narrazione di questa “nuova vita” prenderà forma anche
e soprattutto ne L’immoralista (L’immoraliste), primo vero e
proprio romanzo di Gide apparso nel 1902, che narra del viaggio
di nozze – con l’Africa come tappa fondamentale – di Michel
e Marceline. Troppo autobiografico per non esser anche questo
un tentativo di autoanalisi dell’autore, e, nello stesso tempo,
necessità di comunicare la gioia della libertà conquistata.
Anche qui sarà la natura africana, il sole cocente, le carezze
del vento, i canti degli uccelli e i giochi all’aria aperta dei
fanciulli ad influire profondamente sulla disposizione d’animo
del protagonista:
L’aria era luminosa. Le cassie, i cui fiori spuntano assai prima
delle foglie, la imbalsamavano: a meno che non venisse da ogni
parte quella specie d’odore leggero, incognito che mi pareva
entrare in me da più sensi e mi incantava. […] Mi divertivo ad
ogni rumore. Mi ricordo d’un arbusto la cui scorza da lontano
mi pareva d’una consistenza così bizzarra che dovetti alzarmi
per andarla a palpare. Più che toccarla la carezzavo: ci trovavo
un rapimento… […] Dovevo forse nascere alla vita in quel
mattino?136
Michel si sente guarire, non solo dalla malattia che lo aveva
colpito durante il viaggio, ma anche dalla sua vita precedente
straripante di pensiero, il quale mai gli permise di sentire
[134] Ivi, p. 204.
[135] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 302 .
[136] ���������
A. Gide, L’immoraliste, Mercure de France, Paris 1902; tr. it. L’immoralista, Jandi Sapi, Roma-Milano 1945, cit., p. 52.
83
realmente; arriva addirittura a rinnegar la sua statica vita da
studioso, dedicata alla teoria, che sempre gli precluse lo stupore
di fronte all’azzurro del cielo. La natura viva gli ricorda le
pretese dei suoi sensi sullo spirito, le perentorie esigenze delle
sensazioni, della corporeità; «tutto il [suo] essere affluiva verso
la pelle»137. Michel-André, nella sua vita in Francia, «avev[a]
preso la decisione di dissociare il piacere dall’amore»138
proiettando nella figura della sposa Marceline-Emanuelle tutta
la venerazione spirituale possibile, che non avrebbe potuto, e
dovuto, collidere con la passione carnale. Il risultato di questa
scissione esperienziale, dettata dall’educazione puritana, non
fece altro che reprimere il bisogno sensoriale di Michel-André.
Ed ecco come l’insopprimibile naturalità dell’uomo riemerge
dall’offesa proprio nel momento di contatto con le radici
forzatamente dimenticate:
In un’anfrattuosità di quelle rocce scorreva dell’acqua chiara.
[…] Tre volte c’ero andato, m’ero coricato, disteso sull’argine,
pieno di sete e pieno di desideri. […] Quel […] giorno avanzai,
deciso, sino all’acqua più pura che mai, e senza più riflettere,
mi ci tuffai tutto intero. […] Lasciai l’acqua e mi distesi
sull’erba. Là crescevano mente odoranti. Le colsi, ne spremetti
le foglie, ne sfregai tutto il mio corpo umido ma bruciante. Mi
guardai lungamente, senza più vergogna alcuna, con gioia.139
Michel-André, a Biskra, ritrova la gioia del corpo, la genuinità
del piacere, «un forsennato desiderio di vivere»140. L’attrazione
per i ragazzi algerini non verrà più mascherata o giudicata
dalle artificiosità di una morale caduca. Da ora in poi Gide
sarà un altro uomo, non estraneo al modello nietzscheano
dell’übermensch (oltreuomo), o meglio dello “spirito libero”.
[137] Ivi, p. 74.
[138] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 278.
[139] A. Gide, L’immoralista, cit., p. 75 .
[140] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 308.
84
2. La vita è capriccio?
Gide non ha solo scritto, ma «ha vissuto – dice Sartre – […] le
sue idee, e una soprattutto: la morte di Dio»141. E infatti sarà la
presa di posizione avversa alle istituzioni e tradizioni morali, che
si facevano portavoce di Dio, a permettere a Gide d’assaporare
il suo nuovo respiro, mentre l’idea di Dio sopravvivrà nel suo
animo ancora per molti anni.
Ma la “morte di Dio” non ha soltanto il risvolto positivo della
“rigenerazione” dell’esistenza, ma anche quello negativo della
perdita di punti di riferimento, quello che Nietzsche identificò
col nichilismo. Dipende dalla forza dell’uomo, dalla sua
volontà, se abbandonarsi all’angoscia o canalizzare l’energia
per risorgere. Gide affronterà anche quest’ulteriore aspetto
mutuato dal pensiero nietzscheano – per il quale viene oggi
maggiormente ricordato – introducendo nei suoi lavori narrativi
la formulazione e dimostrazione dell’atto gratuito.
L’abbandono del fondamento della morale tradizionale, che
rendeva l’esistenza necessaria – causata e diretta a un fine
–, provoca nell’uomo uno spaesamento vertiginoso, quella
«specie di nausea» di cui parlerà Sartre; I nutrimenti terrestri
e L’immoralista narrano già della possibilità di una vita priva
di condizionamenti etici e storici, regolata sul “principio del
piacere”, ma è con I sotterranei del Vaticano (Les caves du
Vatican) del ‘14 che Gide darà spazio al “capriccio” a cui
questa liberazione può condurre.
Il primo passo è sempre quello della presa di coscienza:
Per la prima volta, un dubbio spaventoso sorgeva in lui
[…], un dubbio sulla sincerità di quei sorrisi, sul valore di
quell’approvazione, sul valore delle sue opere, sulla realtà del
suo pensiero, sull’autenticità della sua vita.142
[141] J.-P. Sartre, Attualità di Gide, in Che cos’è la letteratura? Lo scrittore
e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano
2009, cit., p. 446.
[142] ���������
A. Gide, Les caves du Vatican, Nouvelle Revue Française, Paris 1914;
85
Che il senso della vita non sia quel che ci viene raccontato?
I dubbi iniziano a pervadere il visconte Julius de Baraglioul,
scrittore affermato, tra i protagonisti di questo romanzo.
Sarà lui a formulare la teoria dell’atto gratuito (prefigurando
lo sconcertante episodio di chiusura) dopo aver saputo dal
cognato Amédée Fleurissoire, incontrato fortuitamente in
Piazza San Pietro in Vaticano, dell’imprigionamento del Santo
Padre nei sotterranei di Castel Gandolfo e della sua sostituzione
con un sosia. Juluis era appena stato ricevuto dal papa – da
lui creduto tale – per rivolgere l’appello d’aiuto da parte d’un
amico convertito, caduto in disgrazia dopo la radiazione dalla
massoneria; Amédée, invece, era lì per la crociata, altrettanto
segreta, di liberazione del pontefice. Prima dell’incontro tra
i due, Gide avverte il lettore dell’imbroglio messo in scena
da Protos, abile truffatore, che, travestendosi da prete, aveva
inventato la storia del rapimento per ottenere denaro (che a suo
dire avrebbe aiutato la liberazione del papa) da qualche ingenua,
devota, e soprattutto ricca famiglia. Ma Julius, informato dal
cognato del grave episodio, non mostra alcuna preoccupazione
per le sorti della Chiesa: ad infastidirlo è solo il tempo perso
con un impostore. Liquida la questione portando il cognato a
far colazione, e qui gli confesserà la «rivelazione»143 che lo
colse durante il colloquio col Santo Padre, al punto di distrarsi
e ritrovarsi a «pensare a qualcos’altro»144:
tr. it. I sotterranei del Vaticano, Feltrinelli, Milano 2007, cit., p. 32.
[143] Ivi, p. 129.
[144] Ibidem.
86
“Il profitto non è la sola motivazione della condotta umana; […]
ci sono azioni disinteressate. […] Quando dico disinteressato,
intendo gratuito. E penso che il male, ciò cui diamo il nome
di male, può essere tanto gratuito quanto il bene.” / “Ma, in
tal caso perché farlo?” / “Appunto! per lusso, per spreco, per
giuoco. Perché sostengo che le anime più disinteressate non
sono necessariamente le migliori, nel senso cattolico della
parola; anzi, dal punto di vista cattolico l’anima più degna è
quella che sa far meglio i suoi conti.”145
Gide enuncia la teoria dell’atto gratuito per bocca di Julius e
prepara il lettore a qualcosa di sconvolgente: il delitto senza
scopo, pago esclusivamente dell’idea della riuscita.
Lafcadio Wluiki, scopertosi figlio illegittimo del morente conte
Juste-Agenor de Baraglioul e fratellastro di Julius, dopo aver
riscosso l’eredità a lui dovuta, parte da Parigi verso l’Italia con
l’intento d’imbarcarsi alla volta di nuovi mondi. Sul treno per
Napoli incontra Fleurissoire, il quale diverrà, suo malgrado,
l’oggetto dei suoi esperimenti e diletti. Quel “vecchio”
sconosciuto lo irrita, gli ispira fantasticherie da assassino:
chi sospetterebbe di Lafcadio de Baraglioul se, per mano sua,
quella “cavia” sprofondasse nel buio della notte, tra le rotaie
del treno? L’episodio verrebbe etichettato come disgrazia,
suicidio; le investigazioni cercherebbero invano un movente
per l’omicidio, ma Lafcadio non ne ha, ed è solo «il movente,
il motivo del delitto, […] ciò che tradisce il criminale»146. A
disorientare il lettore è l’invocazione d’innocenza che sia
Julius che Lafcadio attribuiscono al misfatto compiuto senza
motivazioni: tolto l’interesse cade la colpa. A muovere Lafcadio
è, infatti, solo il saggiar il disinteresse nella realtà, trasferir la
fantasia sulla carne; sperimentare sé stessi, la propria potenza;
consacrar la libertà.
«Non tanto degli avvenimenti sono curioso, quanto di me
[145] A. Gide, I sotterranei del Vaticano, cit., p. 128.
[146] Ivi, pp. 129-130.
87
stesso»147 pensa Lafcadio nei minuti che precedono l’atto;
Gide fa sprofondare nel solipsismo e nel culto di sé il suo
personaggio, l’individualità domina l’intero episodio: sono i
suoi pensieri, la sua segreta interiorità, a chiedere al lettore la
complicità d’un gesto assurdo, gratuito, “ingiusto”.
Ancora indeciso, Lafcadio, si affida alla sorte, al gioco: «se
posso contare fino a dodici, senza affrettarmi, prima di vedere
una luce nella campagna, il tapiro è salvo. Cominciamo:
uno; due; tre; quattro (piano, piano!); cinque; sei; sette; otto;
nove… Dieci, una luce…»148. Tutto si compie. Egli diviene la
consacrazione vivente dell’“illuminazione” di Julius, il quale,
ancora ignaro di tutto, ci viene mostrato intento a creare un
personaggio – per il suo prossimo romanzo – che incarni le
sue nuove idee. Le notizie sui giornali dell’inspiegabile
morte del cognato lo ispireranno, mentre Lafcadio, accortosi
(ritrovando un biglietto tra gli oggetti personali della vittima)
della parentela che legava Fleurissoire a Julius, è invaso «da
un desiderio irresistibile di rivedere il fratello, una sfrenata
curiosità di assistere alle ripercussioni di quel fatto sulla sua
mente calma e logica»149.
Lafcadio aveva bisogno di commettere quel delitto per affermare
la propria libertà e Julius ha bisogno di un personaggio come
Lafcadio per oltrepassare i limiti imposti dalla tradizione,
dai suoi valori e dal senso comune. Agire gratuitamente è
un modo di sentire le vibrazioni dell’esistenza, di affrancare
una libertà occlusa. Noi siamo liberi, completamente liberi e
assurdi, gratuiti, contingenti. Alla gratuità di quest’esistenza
corrisponde la gratuità dell’azione che riesce ad assumere
tratti nobili: capacità di librarsi, accettare il proprio destino.
Esprimere la propria potenza, per il semplice bisogno umano
d’esprimerla, è la realizzazione completa di una libertà sempre
[147] Ivi, p. 139.
[148] Ivi, pp. 139, 140.
[149] Ivi, pp. 142-143.
88
in bilico. Kirillov150 si uccide per diventare Dio, Lafcadio uccide
per sentirsi onnipotente, ma contemporaneamente innocente;
entrambi sperimentano la “morte di Dio”, lo sgretolarsi di un
terreno e il dubbio angosciante che, una volta sgretolato del
tutto, all’uomo resterà un’unica scelta: disperarsi o accettare.
Lafcadio ha già accettato, forse senza sceglierlo, di assumersi
gli oneri di un’esistenza completamente gratuita in un mondo
altrettanto gratuito; forse, così, la vita avrà un sapore meno
anonimo.
Gide condivide col lettore i suoi dubbi: esiste qualcosa che
l’uomo ha soffocato per secoli sotto montagne di macerie e che
ora è necessario riesumare? Qual è la vera “natura” dell’uomo?
Il disinteresse, il “capriccio”, è prodotto della noia del mondo
borghese o è l’autenticità primordiale dell’uomo?
I sotterranei del Vaticano trova la sua ragion d’essere
nell’innovativo fascino letterario proposto dal suo autore, nel
dono che egli crede di lasciare disinteressatamente al lettore;
tuttavia esso rimane un intento di marca nietzscheana –
cosciente o meno – di demolizione della morale tradizionale,
o perlomeno di critica nei confronti di una società chiusa,
snaturante.
Gide è tra i primi in Francia, in ambito letterario, a maturare ed
esaltare quegli interessi filosofici – esploratori dell’ambiguità
e precarietà della condizione umana – che diventeranno i
fuochi dell’esistenzialismo filosofico e letterario novecentesco;
le influenze di Nietzsche, su un piano prettamente filosofico,
e Dostoevskij, su quello narrativo, conducono lo scrittore a
una messa in discussione dell’ordine stabilito, all’estenuante
ricerca di una nuova dimensione per l’uomo insoddisfatto del
mondo, costretto a sopportare una realtà arbitraria e decadente,
ma spacciata per l’unica possibile; contro la menzogna, per la
libertà.
Ma la libertà che propone l’opera gidiana è quella dell’individuo,
la protesta di un uomo svincolato dalla realtà effettuale; «Gide
[150] Uno dei personaggi del romanzo I demoni (1873) di Fëdor Dostoevskij.
89
non sa che cosa sia una situazione»151. I suoi personaggi vivono
limitati dalla loro interiorità, dalla loro smania di realizzazione
personale, la quale sembra raggiungibile attraverso una
semplice presa di coscienza: l’accettazione di sé; essi vivono
e pensano solo per sé, non per l’avvenire dell’umanità, se
non marginalmente, come esito secondario. È Gide stesso che
racconta la sua esperienza di “redenzione” attraverso i suoi alter
ego letterari; André-Lafcadio è uno, astratto, conosce soltanto
i problemi del suo malessere spirituale, e non, ad esempio, la
sofferenza provocata dal suo disinteresse, dal suo “capriccio”,
il dolore “assurdo” provato dai famigliari di Fleurissoire.
Non crede e non sa che i suoi atti muovono il mondo intero,
condizionano l’avvenire e i gesti degli altri, plasmano
l’umanità come vorrebbe che sia. Questa è, invece, la teoria
dell’umanismo sartriano, è l’engagement, la consapevolezza
del potere delle parole, e dunque il loro utilizzo calibrato, atto
a consapevolizzare l’uomo della responsabilità di ogni suo
gesto libero. Gide, poiché elude la situazione socio-politica
concreta, si colloca dalla parte opposta dell’impegno, nella
gratuità che non tiene conto delle conseguenze, che agisce per
puro “piacere”. Ciononostante anche in Gide si va formando un
umanismo, diverso da quello sartriano, ma anche e soprattutto
da quello autocelebrativo. Sì, si tratta pur sempre di celebrare
l’uomo, ma non in quanto culturalizzato, bensì redento, ossia
lo spirito libero nietzscheano; colui che prende le distanze dalla
tradizione per ricongiungersi alla natura; una celebrazione che
qualche tempo dopo, Camus, lettore di Gide, avrebbe liricamente
interpretato come «la felice stanchezza di un giorno di nozze
con il mondo»152. L’atto gratuito è la conseguenza dell’assurdo
che invade la nostra quotidianità, quella dell’individuo che si
confronta con la “morte di Dio”. Non è detto che questa conduca
[151] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1990,
cit. p. 92.
[152] A. Camus, Nozze, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano
2010, cit., p. 7.
90
all’accettazione “misurata” della propria condizione come per il
Gide de I nutrimenti terrestri o il Michel de L’immoralista; può
invece portare all’eccesso, all’esperimento estremo, all’anarcoindividualismo come esemplificato nella figura di Lafcadio.
Gide, mosso da una tensione interna, offre al lettore varie
possibilità di realizzazione di un’esistenza autentica, per poi
optare – per se stesso – verso una cosciente trasvalutazione dei
valori tradizionali e una purificazione attraverso la liberazione
del piacere “proibito”. Compie tutto questo, in primo luogo,
per se stesso, per cristallizzare la sua conquista personale;
tuttavia, come effetto secondario, l’opera gidiana si offre come
riflessione sulla condizione umana, sui suoi pregiudizi e su
come combatterli. È una testimonianza che mette a disposizione
di tutti i segreti appresi in un tormentoso viaggio.
Il Gide scrittore sarebbe rimasto in quell’“età dell’adolescenza”
di cui parla Sartre, incapace – forse volontariamente – di
superare la dimensione dell’“uomo solo”153; un uomo in
perpetua lotta contro i propri pregiudizi e quelli della società,
in perenne contrapposizione all’altro.
L’influenza gidiana sul romanzo esistenzialista francese
– perlomeno della sua prima fase, quella che precede
L’esistenzialismo è un umanismo – è facilmente rintracciabile:
opere come La nausea e Lo straniero sono gli esempi più
significativi.
Anche Meursault, protagonista del romanzo di Camus, compie
il suo atto gratuito:
[153] Non è da dimenticare, però, il vero e proprio engagement gidiano delle
requisitorie scritte a seguito dei viaggi in Congo, Chad e U.R.S.S.: non romanzi, ma pur sempre letteratura.
91
il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura
e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è
cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito
che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario
silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.154
Meursault spara sul corpo inerte del marocchino disteso
sulla spiaggia. Lo fa senza un motivo apparente, vinto
dall’«ubriachezza opaca del sole»155. Attraverso la narrazione
di quest’atto assurdo Camus presenta al lettore la vita come
gratuità, smarrimento, estrema libertà d’azione. Il delitto è
immotivato, ma l’avversione degli elementi naturali ai danni di
Meursault potrebbe esser interpretata come la rappresentazione
del possibile disaccordo tra uomo e natura, la vittoria di storia
e cultura su questa. Camus, come Gide, utilizzerà la letteratura
come testimonianza, come esperienza di rinascita alla vita
“misurata”, a quella “fedeltà alla terra” nietzscheana intenta a
ridimensionare la corrotta mentalità umana – Nozze è uno degli
episodi più riusciti. La dismisura, l’idealizzazione del mondo,
la supremazia delle ideologie o le menzognere rassicurazioni
metafisiche – tutte racchiuse nell’esemplificazione metaforica
dell’atto gratuito di Meursault – portano inevitabilmente a
tragici scenari. Quest’aspetto, così fondamentale in Camus, è
meno approfondito in Gide: il Pied-Noir, impegnato in prima
persona nella resistenza contro totalitarismi e conseguenti
dismisure imperanti, presta maggior attenzione ai pericoli
dell’atto gratuito – da questo punto di vista egli è più affine al
Sartre della conferenza sull’esistenzialismo, sebbene originalità
e divergenze rimangano comunque numerose e insormontabili.
Tuttavia, anche l’atto gratuito di Lafcadio ha in sé i risvolti
negativi dell’abuso di potenza, della sopraffazione immotivata
di un uomo libero nei confronti di un uomo altrettanto libero;
Lafcadio, però, agisce per “gioco”, per misurare la sua potenza,
non è mosso da alcuna forza misteriosa, da nessun “accecamento”
[154] A. Camus, Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., pp. 75-76.
[155] Ivi, p. 76.
92
momentaneo. Meursault non è lucido, Lafcadio sì.
Camus e Gide mostrano, attraverso i loro romanzi, le possibili
conseguenze della “morte di Dio”, ma senza darne coscienza
ai personaggi, creati solo in funzione della loro parte. I saggi
filosofici camusiani – Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta
–, però, gettano luce sull’intento del romanziere, per cui la
non piena coscienza della vita come contingenza da parte di
Meursault è completata dall’interpretazione del suo autorefilosofo e da quella del lettore, mentre per i lettori di Gide, al
contrario, l’interpretazione resta inevitabilmente aperta: egli ci
mostra i fatti, senza giudizi di valore.
Roquentin, protagonista de La nausea di Sartre, a differenza di
Meursault e Lafcadio, sente la Nausea invaderlo, e sa che cosa
significa.
Il mio temperino è sul tavolo. L’apro. Perché no? In ogni
modo porterà un piccolo cambiamento. Poso la mano sinistra
sul block-notes e mi vibro un bel colpo sulla palma. Il gesto
era troppo nervoso; la lama è scivolata, la ferita è superficiale.
Sanguina.156
Roquentin si ferisce senza motivo, la vista del «sangue che ha
cessato finalmente di essere [lui]»157 gli ricorda l’impossibilità
d’evasione di cui quest’esistenza è custode. Il suo atto è
gratuito, non è foriero di altro dolore, se non superficiale, ma è
cosciente della sua gratuità, del suo muoversi per mezzo d’un
corpo fragile e contingente.
Sartre si identifica con Roquentin, Gide e Camus non fanno
altrettanto con Lafcadio e Meursault, limitandosi a narrare
possibili scenari dell’assurdo; entrambi però rivendicano la
riscoperta della “felicità terrena”, immergendosi completamente
nelle proprie opere: I nutrimenti terrestri e Nozze sono i loro
“manuali” di gioia e libertà.
[156] J.-P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 137.
[157] Ibidem.
93
Gide è stato un innovatore, romanziere anti-romanziere,
uomo assetato di vita ed esperienze; la fecondità letteraria
della sua analisi interiore, del superamento dei propri limiti,
è dovuta al coraggio d’addentrarsi nei lati oscuri della sua
persona per uscirne ancor più fortificato. Ne I falsari (Les fauxmonnayeurs), romanzo del ’25 che riflette nei personaggi vari
significativi aspetti della personalità gidiana, egli ci ricorda, per
bocca dello scrittore Édouard, che:
in arte e, in particolare, in letteratura, contano solo quelli che
si lanciano verso l’ignoto. Non si scoprono terre nuove senza
accettare di perdere prima di vista e per molto tempo ogni terra
sconosciuta.158
[158] ���������
A. Gide, Les faux-monnayeurs, Gallimard, Paris 1925; tr. it. I falsari,
Bompiani, Milano 2010, cit. p. 332.
94
V ITA DI ANDRÉ GIDE
André Gide nacque a Parigi il 22 novembre 1869. Fu scrittore
e drammaturgo. Nel 1947 vinse il premio Nobel per la
Letteratura «per la sua opera artisticamente significativa, nella
quale i problemi e le condizioni umane sono stati presentati
con un coraggioso amore per la verità e con una appassionata
penetrazione psicologica» (motivazione dell’Accademia
Svedese). Tra l’85 e l’88 visse un periodo di esaltazione
religiosa, frutto della sua educazione puritana, che condivise
con la cugina Madeleine (la quale divenne sua moglie nel
’95). Ma nel ’93, durante un viaggio tra Tunisia, Algeria e
Italia con l’amico pittore Paul Laurens, riscoprì il piacere dei
sensi (fatto che influirà molto sulla sua produzione letteraria
successiva), nonché un’omosessualità poi confessata in
Corydon. Con Copeau, Ghéon, Schlumberger e Rivière fondò
la Nouvelle Revue Française, che nel periodo tra le due guerre
divenne la più prestigiosa rivista letteraria europea. Con il
viaggio in Congo (1925-1926), e la conseguente denuncia
dello sfruttamento colonialista, iniziò la sua presa di coscienza
politica che lo portò nel ‘32 ad aderire al comunismo, anche
se dopo il viaggio in Unione Sovietica (1936) ne criticherà
aspramente i metodi. Nel ’35, assieme allo scrittore André
Malraux, presiedette al primo Congresso internazionale degli
scrittori per la difesa della cultura. Morì a Parigi il 19 febbraio
1951 e venne sepolto vicino alla moglie Madeleine nel piccolo
cimitero di Cuverville, nel dipartimento della Seine-Maritime.
95
Opere principali.
Romanzi e racconti.
I quaderni di André Walter (Les cahiers d’André Walter), 1891.
Paludi (Paludes), 1895.
I nutrimenti terrestri (Les nurritures terrestres), 1897.
L’immoralista (L’immoraliste), 1902.
Il ritorno del figliol prodigo (Le retour de l’enfant prodigue),
1907.
La porta stretta, (La port étroite), 1909.
Isabelle, 1911.
I sotterranei del Vaticano (Les caves du Vatican), 1914.
La sinfonia pastorale (La symphonie pastorale), 1919.
I falsari (Les faux-monnayeurs), 1925.
La scuola delle mogli (L’école des femmes), 1929.
Saggi.
Lettere a Angela (Lettres à Angèle), 1900.
Dostoevskij,1923.
Corydon, 1924.
Viaggio in Congo (Voyage au Congo), 1927.
Ritorno dal Ciad (Le retour du Tchad), 1928.
Ritorno dall’URSS (Retour de l’U.R.R.S.), 1936.
Pagine d’autunno (Feuillets d’automne), 1949.
Teatro.
Filottete o il Trattato delle tre morali (Philoctète ou le Traité
des trois morales), 1899.
Saül, 1904.
Edipo, (Oedipe), 1930.
Persefone (Persèphone), 1934.
Teseo (Thésée), 1946.
Autobiografia e diari.
Se il seme non muore (Si le grain ne meurt), 1926.
Pagine del Diario 1929-1932 (Pages de Journal 1929-1932),
1934.
96
Nuove pagine del Diario 1932-1935 (Nouvelles Pages de
Journal 1932-1935), 1936.
Diario 1889-1939 (Journal 1889-1939),1939.
Diario 1942-1949 (Journal 1942-1949),1950.
Così sia ovvero Il gioco è fatto (Ainsi soit-il ou les jeux sont
faits), 1952.
Trame dei romanzi (o racconti) citati.
I nutrimenti terrestri, 1897.
Più che un romanzo si tratta di un poema in prosa, un’alternanza
di riflessioni e sogni espressi in forma lirica, i cui temi principali
sono il fervore, la gioia dei sensi e il felice contatto con la natura.
Il narratore si rivolge a Nathanaël per raccontargli le proprie
esperienze e gli insegnamenti appresi dal maestro Ménalque
(che assomiglia molto ad Oscar Wilde, col quale Gide aveva
effettivamente da poco fatto amicizia).
L’immoralista, 1902.
È la confessione fatta ad alcuni amici di un giovane filologo,
Michel, il quale ha sposato Marceline, donna alla quale era
molto legato ma che non ha mai amato veramente. Durante il
viaggio di nozze in Nord Africa Michel si ammala di tubercolosi
e rischia di morire, ma le cure della moglie, e soprattutto la
compagnia dei giovani del luogo, riescono a salvarlo. Questa
esperienza lo rinnova, lo apre alla vita semplice del corpo,
soffocata fino ad allora da una morale tradizionale reprimente
e da una professione dedita esclusivamente allo studio. I due
tornano in Francia, ma lontani da Parigi e dalla vita accademica,
stabilendosi in una fattoria della Normandia che permette loro
di vivere in modo semplice e a contatto con la natura. Michel
inizia una relazione segreta col giovane Charles ed è felice. Ma
dovrà presto tornare a Parigi per tenere la sua prima lezione
durante la quale incontra Ménalque nelle cui idee ritrova
le sue, quelle maturate col viaggio in Nord Africa. E così,
approfittando della debilitazione della moglie incinta, tornerà
97
con lei in quei luoghi convincendola che sia proprio quella la
soluzione migliore per ritrovare la salute. Tuttavia Marceline,
trascurata dal marito, morirà durante il viaggio.
I sotterranei del Vaticano, 1914.
La nobile famiglia parigina de Baraglioul viene aggirata da un
gruppo di truffatori che, travestiti da preti, vanno diffondendo la
falsa notizia del rapimento del papa (ad opera della Massoneria),
nascosto nei sotterranei di Castel Gandolfo e sostituito da un
impostore, per estorcere alle ricche e devote famiglie denaro
che sarebbe servito per la sua liberazione. Nel frattempo il
giovane Lafcadio Wluiki scopre di essere il figlio illegittimo
del morente conte Juste-Agenor de Baraglioul e fratellastro di
un famoso scrittore, il visconte Julius de Baraglioul. Alla morte
del vero padre, Lafcadio riceve così la sua parte di eredità e
parte per nuove avventure. Intanto Amédée Fleurissoire,
cognato di Julius, dalla sua città, Pau, prende un treno diretto a
Roma con l’obiettivo di salvare il papa. Arrivato in piazza San
Pietro incontra lo stesso Julius che era andato dal Santo Padre
a chiedere un aiuto per un amico convertito caduto in disgrazia.
Qui Julius gli racconta la sua nuova rivelazione dell’“atto
gratuito”. Fleurissoire, convinto dai truffatori a raggiungere
Napoli, si ritrova sul treno con Lafcadio, il quale lo uccide senza
motivo, buttandolo giù dal treno, a conferma della possibilità
dell’atto gratuito di cui sopra. Successivamente Protos, il
truffatore, dopo aver strangolato l’amante, colpevole di averlo
denunciato, viene arrestato con l’accusa di essere l’omicida di
Fleurissoire. Il fratellastro Julius consiglia a Lafcadio di pentirsi
del suo gesto, ma Geneviève, la figlia di Julius, confessa i suoi
sentimenti a Lafcadio, il quale abbandona così ogni idea di
redenzione per approfittare delle gioie dell’amore.
98
QUARTO CAPITOLO. NICHILISMI
Quant’è profondo l’influsso di Nietzsche
nella letteratura filosofica francese del Novecento?
Il nichilismo, quali forme letterarie assume?
MAEST RO NIET ZSCHE
159
Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere
è, accanto a lui, su uno stesso gradino di perfezione... E affermando
questo, affermiamo ancora sempre troppo: relativamente
parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più
pericolosamente aberrante dai suoi istinti.
Friedrich Nietzsche, l’anticristo.
André Gide e Jean-Paul Sartre hanno in comune la capacità
d’esplorare le trame delle frustrazioni figlie della società
contemporanea, il coraggio d’osare e raccontar i meandri
disordinati dell’esistenza, sovente avvertita come carico
eccessivamente penoso per le piccole spalle degli uomini.
Entrambi coinvolti, in diversa misura, in quella corrente
[159] Saggio apparso per la prima volta nel 2012 su Etica e Letteratura:
Stefano Scrima, Gli ammiratori di Nietzsche. La morale del “suolo” nelle
esperienze letterarie di Gide e Sarte, in “Etica e Letteratura”, settembre 2012.
URL: http://www.etica-letteratura.it/el-interventi.asp?Item=7.
99
filosofico-letteraria che prese il nome di esistenzialismo: Sartre
a tutti gli effetti, fino a diventarne il caposcuola francese,
Gide, invece, solo marginalmente; celebrato piuttosto come
precursore dello sguardo esistenzialista che si fa narrazione,
e traghettatore della Francia di fine Ottocento verso il nuovo
fervore letterario europeo. Condivisero, con occhi differenti, le
esperienze più significative del XX secolo: il primo abbracciò
la resistenza – si tratta d’impegno intellettuale – con l’energia
dei suoi quarant’anni, mentre il secondo, ultraottantenne,
non poté che assumere a riguardo il disincanto d’un uomo
giunto al termine delle sue fatiche. Del resto l’evoluzione
dell’engagement sartriano è dovuta anche a questo, alle
particolari contingenze che legarono l’uomo alla realtà. Gide
visse una giovinezza diversa, quella d’una generazione che si
apprestava, con l’entusiasmo positivistico da lui rinnegato, a
viver l’ebbrezza del nuovo secolo, quello che, nonostante le
promesse di rigoglio indefinito, sarebbe diventato il vero e
proprio teatro dell’assurdo, o il mattatoio della storia.
La differenza tra questi due giganti, oltre il ruolo giocato dalla
letteratura nella società – lo scrittore ha sempre, nolens volens,
responsabilità sensibilizzante nei confronti del lettore (Sartre);
l’opera d’arte risponde all’intima necessità dell’esperienza di sé
(Gide) – si incontra nella funzione assunta dalla filosofia nelle
loro rispettive produzioni letterarie. Sartre fu filosofo oltre che
romanziere – questo è pacifico –, Gide no: pervicace homme
de plume non teorizzò mai una propria filosofia, non scrisse
il suo L’essere e il nulla; si “limitò” ad accogliere gli impulsi
filosofici proposti dal contesto culturale dell’epoca, i più affini
alle sue esigenze spirituali.
Occorre anzitutto fare una considerazione preliminare a sostegno
delle “incursioni” qui proposte: dopo Nietzsche il mondo non fu
più lo stesso. Egli è il confluire di vie precedentemente abbozzate,
lasciate seccare o mal seminate, scordate sotto terra fino all’arrivo
del filosofo di Röcken, che con aforismi e “martello” ri-scolpì i
lineamenti del pensiero occidentale. Conosciamo bene la fortuna
del corpus nietzscheano – la letteratura non sfuggì ai suoi aculei.
100
Si può dire così che Sartre, nato nel 1905, ebbe modo di
tesaurizzare gli insegnamenti nietzscheani che accompagnarono
tutta la riflessione filosofico-culturale della prima metà del
Novecento europeo. La stagione post-nietzscheana avvertì
infatti obbligato il confronto con questo autore capitale (si veda
la cosiddetta Nietzsche-Renaissance), cuspide e frattura della
tradizione filosofica dominante. Ciò significa che Sartre poté
nutrirsi di un’atmosfera rigenerata, di un mondo dal suolo più
fermo – o più sdrucciolevole? –, cosciente del suo inestimabile
valore, insostituibile; d’una “fedeltà alla terra”, unica possibile
dimensione dell’esistenza, eletta a nuova morale. Significa
un’antimetafisica come punto di partenza, una libertà
riscoperta in tutta la sua potenza “condizionante”. Non si vuol
qui affermare un “niceismo” sartriano, bensì suggerire un
suggestivo confronto fra alcuni tratti fondamentali del pensiero
nietzschenao (uno su tutti la “morte di Dio”) – senza i quali non
si potrebbe comprendere del tutto Sartre e la sua generazione –
e alcuni punti fermi dell’autore de La nausea.
La liaison intellettuale tra Gide e Nietzsche fu, per motivi
cronologici, meno “scontata”: necessitò d’un abbandono
entusiastico da parte del letterato francese alle coinvolgenti
brame d’emancipazione scorte in superficie agli scritti del
filosofo, i quali cominciavano a circolare in Europa negli ultimi
decenni del XIX secolo. La lettura gidiana di Nietzsche, naïf e
poco approfondita, risulta il perfetto viatico per l’abluzione dalla
morale tradizionale, sia in termini esperienziali che letterari.
Se Sartre si ritrovò al cospetto d’un Nietzsche rielaborato
e ormai confezionato dalla critica, che pretese di conoscerlo
fino in fondo, Gide ebbe la “fortunata” possibilità di crearsi
un Nietzsche personale, epurato da molti dei suoi aspetti (che
poi diventarono) caratteristici per esser esaltato come il filosofo
dell’«energia creatrice». In una lettera del 1898 leggiamo:
[Nietzsche] riempie di vita gioiosa [gli uomini], con essi vive
nel mezzo delle rovine e vi semina a più non posso. Mai è
così esuberante di vita come quando si tratta di mandare in
rovina cose mortali e tristi. Allora ogni pagina è saturata da una
101
energia creatrice: indistinte novità vi si agitano; sa prevedere,
sa presentire e chiama a raccolta e ride. – opera stupenda? No,
ma prefazione d’opere stupende. Dunque Nietzsche demolisce?
Suvvia! Vi dico che costruisce, è tutto indaffarato a costruire.160
Fu questa la filosofia di Gide, quella che poté salvarlo
dall’imputridirsi della morale puritana che lo stava risucchiando
nelle sabbie del peccato; bastò questo allo scrittore francese
per esaurir l’esigenza d’una propria edificazione filosofica:
tutta la sua opera, a vari livelli, da I nutrimenti terrestri a
L’immoralista, da I sotterranei del Vaticano all’autobiografia
Se il seme non muore (Si le grain ne meurt), sarà permeata
da questa volontà di liberazione e accettazione della vita, che
trovò nel suo Nietzsche lo slancio filosofico iniziale.
Leggiamo questi passi esemplificativi dal breve romanzo
autobiografico L’immoralista:
L’aria era luminosa. Le cassie, i cui fiori spuntano assai prima
delle foglie, la imbalsamavano: a meno che non venisse da ogni
parte quella specie d’odore leggero, incognito che mi pareva
entrare in me da più sensi e mi incantava. […] Mi divertivo ad
ogni rumore. Mi ricordo d’un arbusto la cui scorza da lontano
mi pareva d’una consistenza così bizzarra che dovetti alzarmi
per andarla a palpare. Più che toccarla la carezzavo: ci trovavo
un rapimento… […] Dovevo forse nascere alla vita in quel
mattino?161
Il protagonista del romanzo, Michel, alter ego dello scrittore,
viene rapito dall’ebbrezza sprigionata al contatto con la natura,
dalla riscoperta febbrile della corporeità. Gide nasce a nuova
vita, purificato, cogliendo appieno la portata dell’insegnamento
nietzscheano.
[160] ���������
A. Gide, Lettres à Angèle, Mercure de France, Paris 1900; tr. it. Lettere
ad Angela, in Incontri e pretesti, Bompiani, Milano 1945 (pp. 71-104), cit.,
p. 81.
[161] ���������
A. Gide, L’immoraliste, Mercure de France, Paris, 1902; tr. it. L’immoralista, Jandi Sapi, Roma-Milano 1945, cit., p. 52.
102
Torniamo a Sartre. Instancabile scrittore – filosofo, romanziere,
critico letterario, giornalista – non scrisse mai di Nietzsche,
o perlomeno mai gli dedicò studi o articoli monografici. Ma
ora si potrebbe obiettare: nemmeno Gide scrisse di Nietzsche,
salvo qualche lettera privata! È vero, ma Gide non si dava
né alla critica né alla filosofia162, Sartre sì. È un paradosso:
trattare degli influssi nietzscheani su un filosofo “indifferente”
a Nietzsche. Alcuni sostengono che Sartre non “elaborò” mai
un suo Nietzsche a causa d’una sorta di complesso d’inferiorità
che lo paralizzava di fronte ai contemporanei più esperti in
materia (ad esempio Bataille). Usciamo dall’impasse cercando
d’attirar l’attenzione esclusivamente sulle opere narrative dei
due autori francesi (la gran parte della produzione gidiana
e una considerevole di quella sartriana), il che permette di
concentrarci, in questo caso, sulle intersezioni filosofiche che
saturano i romanzi di Sarte prescindendo dal Sartre filosofo.
Cioè a dire: leggiamo i romanzi di Sartre e chiediamoci che
cosa, contenutisticamente e in parte anche stilisticamente, non
potrebbe esser stato proposto ante Nietzsche.
Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato
l’altro giorno. Quando tenevo quel ciottolo. Era una specie
di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal
ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani.
Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.163
Che cos’è la Nausea se non la “morte di Dio”? Il lampo di
coscienza che squarcia la nostra illusa quotidianità intrisa
fino all’unghia di morale tradizionale, quel mostro decadente
“inventato” da Socrate e Platone e poi riadattato dal
[162] Invero anche la lunga carriera di Gide contò episodi di critica letteraria
e filosofica (soprattutto conferenze) e d’impegno sociale (i famosi resoconti
dei suoi viaggi). Ciò non è sufficiente a sradicare il letterato francese dal suo
ambito principale, il romanzo e il racconto.
[163] ��������������
J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris, 1938; tr. it. La nausea, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 14.
103
Cristianesimo, il fautore del regno della repressione. La Nausea
è l’apice del nichilismo, il momento in cui l’uomo scorge la
possibilità, se non il dovere, di scacciare i falsi demoni a favore
d’una trasvalutazione di tutti i valori; valori ascendenti, per la
vita, il sangue, la carne, il corpo in tutte le sue manifestazioni, per
la terra, la potenza, ma anche per il male, il dolore e le tenebre.
Accettare la vita, rimaner fedeli alla terra, madre e sorella. Far
trionfare le ragioni del corpo, delle mani con le quali sentiamo
l’esistente opporsi e, nello stesso tempo, darsi a noi.
Roquentine (protagonista de La nausea) disprezza gli abitanti
della cittadina di Bouville, i quali
tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di diritto.
Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono
completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a
non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di
troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.164
«Amorfi», «vacui» e «tristi», d’origine e destino non divini
e celestiali, bensì bestie geniali, miseramente belli, e tuttavia
sperduti nell’infezione di false credenze. I porcaccioni di cui
parla Roquentine-Sartre sono gli stessi sbalorditi e sogghignanti
frequentatori del mercato, quelli “interrotti” dall’uomo folle
nietzscheano, ovvero tutti gli uomini incapaci di sostenere il
tremendo peso dell’esistenza, incapaci di darsi forma. Essi
sono di troppo giacché nascono e muoiono senza ragione, sono
liberi e gratuiti, legati soltanto alla loro natura.
Il senso di Nausea, il disincanto, penetra anche nelle personalità
dei personaggi sartriani che seguono a La nausea, dai racconti
de Il muro alla tetralogia incompiuta I cammini della libertà;
ma ciò che di nuovo emerge nei tre romanzi – L’età della
ragione, Il rinvio e La morte nell’anima – che compongono
quest’ultima, è la volontà d’approdare all’“età della ragione”,
responsabilizzarsi dopo la caduta dalla torre d’avorio della
tradizione, sempre cieca alle esigenze del reale.
[164] Ivi, p. 177.
104
Le contingenze storiche fanno “contrarre” la Nausea a Mathieu
(protagonista della trilogia) la quale permette al giovane
professore di filosofia – anche qui alter ego dello scrittore
– di riconsiderare la sua vita, morderla, come l’odore del
cadavere putrefatto di Dio dà allo spirito libero la possibilità
di riappropriarsi della sua esistenza, all’inseguimento di nuovi
valori terreni. Mathieu, a differenza delle mire superumane di
Nietzsche, fallisce nel suo intento, permane “triste” nel pantano
dell’inettitudine. D’altronde la guerra non permette di pensare
e Mathieu-Jean-Paul non ha mai ambito ad uscire dalla storia.
Le differenze fra Nietzsche e Sartre sono evidenti, ma altrettanto
evidenti sono i nessi che li legano.
Sartre fu, non immeritatamente, il massimo esponente
dell’existentialisme anche e soprattutto per il suo impegno
filosofico, per il suo tentativo teoretico di penetrare le insondabili
profondità della condizione umana. A differenza di Gide,
egli volle elaborare un punto di vista prettamente personale
sull’esistenza, seppur non estraneo agli esistenzialismi tedeschi
di Heidegger e Jaspers, che sarebbe dovuto esser altrettanto
foriero – come la proposta letteraria gidiana – d’un rinnovamento
critico dell’approccio alla vita, lontano dalle consolazioni
metafisiche e da false speranze di riscatto ultraterreno.
Romanzo e filosofia, in entrambe le esperienze letterarie qui
ricordate, intrecciano legami essenziali, seppur dinamici, custodi
d’un messaggio che la cultura contemporanea non dovrebbe
dimenticare sugli scaffali impolverati delle biblioteche.
105
OGGI LA
MAMMA È MORTA >>
<<
Onora tuo padre e tua madre, come il Signore,
il tuo Dio, ti ha ordinato, affinché i tuoi giorni
siano prolungati e affinché venga a te del bene
sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà.
Deuteronomio 5: 16.
Muore la madre e con lei la tradizione; cade l’ultimo baluardo,
invincibile per noi, ma non per le stagioni. Il mondo si stinge, si
sfuoca il contorno e le Apocalissi fan visita ai pensieri, ma solo
per apparir ancor più inutili – dazio troppo amaro da pagare.
Quando si pensa alla morte della madre il ricordo corre subito
alle pagine de Lo straniero (1942) di Albert Camus, il cui
incipit recita: «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho
ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali
domani. Distinti saluti”. Questo non dice nulla: è stato forse
106
ieri»165. Non importa. La mamma è morta, che importa quando?
e cos’altro può più importare? La sottile ombra d’incanto che
riluceva nel cuore del figlio è ormai evaporata. Non è assurdo,
oltre che orribile, vedere morire la propria madre? ricordandoti
così il tuo destino: polvere nella sua polvere?
Il protagonista del romanzo di Camus, Meursault, nasce –
per noi – con questa morte: non sappiamo quasi nulla di lui
prima di quest’avvenimento. Qualche flashback tuttavia ci fa
credere che non sia stata la perdita della madre a renderlo così
indifferente in materia di sentimenti – i veri colori della realtà
–, eppure l’ex abrupto camusiano – scaraventare il lettore nello
sbigottimento per l’apatia di Meursault di fronte al lutto – non
può esser solo caso. È bensì gran mossa letteraria, e ancor di
più filosofica.
Camus, ne Il mito di Sisifo (1942), lo dice a gran voce: il mondo
è assurdo, la vita è assurda. Non c’è Dio, e perché dovrebbe?
Nietzsche ha danzato sul suo cadavere. I valori sui quali i nostri
avi plasmarono le condotte, per noi senza-Dio, sono crollati
come montagne di marzapane. “Tutto è permesso” metteva in
bocca – più che altro in testa – Dostoevskij a Ivan Karamazov.
Gratuito è vivere e ogni gesto regalato al vento. Il nichilismo,
l’abbraccio del nulla come destino, inonda i nostri campi
rendendoli incoltivabili.
La figura della madre rappresenterebbe soltanto l’ultimo
simbolo d’una tradizione imputridita dai miasmi del lutto
divino. Camus lo sa e la utilizza come escamotage letterario,
conferendo al suo romanzo altissima caratura filosofica – non
serve Il mito di Sisifo per rendersene conto.
Pur essendo Meursault sostanzialmente inconsapevole di tutto
ciò – un nichilista ignaro –, in lui agisce la mano dello scrittore
lucido e la coscienza generale d’una generazione dai piedi
inchiodati a terra. La sua è una rappresentazione artistica, è un
dipinto, non può avere coscienza di sé.
Una volta morta anche la madre, l’ultimo valore che conferiva
[165] A. Camus, L’étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 7.
107
senso al nostro peregrinare esistenziale, la vita e la forza di
credere saranno definitivamente vinte.
Eppure Camus – basti leggere Nozze (1938), ma anche L’uomo
in rivolta (1951) – troverà il modo di trarre giovamento (anche)
dall’assurdo.
Un altro Albert, quasi sconosciuto, di qualche anno più giovane
di Camus, un altro scrittore francofono del Novecento, anche
lui invischiato nelle sabbie immobili del nichilismo, ma molto
di più, Albert Caraco, esordisce così in quella sorta di diariocommiato che è Post Mortem (1968):
La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche
tempo, la sua fine me la restituisce alla memoria […]. Mi
chiedo se le voglio bene e sono costretto a rispondere: No,
le rimprovero di avermi castrato, poca cosa davvero, ma
insomma… […] e poi mi ha messo al mondo e io professo
l’odio per il mondo.166
La morte della madre conquista anche qui il primissimo pensiero
dell’opera, ma in questo caso anche la gran parte dei restanti:
Post Mortem è infatti una riflessione, a caldo, sull’esistenza
dello stesso Caraco a seguito della perdita dell’amata-odiata
madre.
«La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche
tempo», sembra una frase di Meursault, di un Meursault forse
un po’ più educato; ma quel «mi chiedo se le voglio bene e
sono costretto a rispondere: No» rivela un Caraco, (a differenza
di Meursault) non più personaggio romanzesco o alter ego
camusiano, lontano dall’indifferenza167 e dall’inconsapevolezza:
[166] A. Caraco, Post mortem (1968), Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne
2012; tr. it. Post Mortem, Adelphi, Milano 1984, cit., p. 9.
[167] Tuttavia nel Bréviaire du chaos Caraco scriverà: «La natura del mondo
è l’assoluta indifferenza, e dovere del filosofo è quanto meno essere simile
alla natura del mondo, continuando a essere l’uomo che non potrà smettere di
essere.» A. Caraco, Bréviaire du chaos, Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne
108
ha i sentimenti chiari, odia il mondo e per questo anche la porta
attraverso cui venne – forzatamente – alla luce: la madre. Il
vivere è un gioco odioso, laido intrattenimento d’un Dio che non
esiste; post mortem non saremo che ricordi sporchi, terriccio
silenzioso. L’antidoto – per sopportare una vita che, nonostante
tutto, persevera nel suo stato di malattia: la coscienza del nulla,
il dolore, l’amore per un’umanità condannata – è l’odio; odio
per tutto, compresi se stessi.
Fu verso il ’60 che la Signora Madre si fece malinconica, il che
le diede un magnifico aspetto, e questo cambiamento, di cui
non approfondii la causa, me la rese più cara, le ombre della
morte sono le spezie dell’amore e la vita eterna sarà la scuola
della freddezza assoluta. Si ama un essere che l’avvenire
minaccia, e tanto più lo si ama quanto più è minacciato, Dio
non ama e non può essere oggetto d’amore, l’amore divino è
un non-senso, la cosa migliore è certo non amare nessuno, e
per arrivare a questo dobbiamo cominciare da noi stessi. Chi
professa l’odio di se stesso spezza i legami sensibili.168
Caraco, estremamente lucido, vede la morte della madre come
una liberazione, un peso in meno che gli avrebbe lasciato,
piano piano, imparare a morire; poiché è la morte l’unica
verità: «noi tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio, e
mai falliamo la mira»169. Accetta la vita così com’è, non spera
di trovar conforto tra le nuvole candide, ma nemmeno vede
un senso, al contrario del Pied-Noir Camus, nel godere della
«felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo»170, in
spiagge di sole ed estati profumate; attende semplicemente la
fine, con inumana coerenza e vezzo letterario – le uniche nozze
1982 (postumo), tr. it. Breviario del caos, Adelphi, Milano 1998, cit., p. 24. Il
suo obiettivo è dunque l’indifferenza.
[168] A. Caraco, Post Mortem, Milano 1984, cit., p. 33 (corsivo mio).
[169] A. Caraco, Breviario del caos, Milano 1998, cit., p. 9.
[170] ����������
A. Camus, Noces, Gallimard, Paris 1938; tr. it. Nozze, in Estate e altri
saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 7.
109
che conosce sono quelle tra caos e morte («domani la morte
celebrerà le sue nozze con in caos»171 scrive nel suo Breviario
del caos (Bréviaire du chaos, 1982)). Egli «viveva per cortesia,
per i suoi genitori»172, come ricorda il suo editore Vladimir
Dimitrijević, e una volta sciolti questi due ultimi lacci vitali,
anche la sua frustrazione avrebbe potuto cessare di “sprecare”
pagine e pagine d’inchiostro. Infatti, se per Camus la figura
materna è l’unico punto di riferimento, per Caraco incombe
anche quella del padre: il lutto materno è soltanto l’inizio
della fine (totale, fisica e morale, non dedita alle “delizie” del
nichilismo). La letteratura camusiana prescinde dalla figura
paterna, forse perché Lucien Auguste Camus morì quando il
figlio non aveva neanche un anno, mentre la carachiana pende
(totalmente, perché qui vita e letteratura si fondono) da essa:
«il Signor Padre dorme nella stanza accanto, come se volesse
imparare a morire; lui è l’ultimo legame che mi tiene attaccato
a questo mondo, e se un bel mattino non dovesse svegliarsi,
lo seguirei di buona grazia»173. A pochi giorni dalla morte del
padre Caraco si tagliò la gola.
In un appunto, isolato, destinato a far parte della sua
autobiografia-romanzo rimasta incompleta – Il primo uomo (Le
premier homme, 1994) –, Camus ci lascia scritto: «Sua madre
è cristo»174: la madre di Jacques Cormery, ovvero la madre di
Albert Camus è Cristo, il simbolo d’un’intera tradizione che
vanta pretese ultraterrene, divine. Morta la madre, non resta
nulla, anzi resta il nulla, il nichilismo.
[171] A. Caraco, Breviario del caos, Milano 1998, cit., p. 96.
[172] V. Dimitrijević, Nota a A. Caraco, Post Mortem, Milano 1984, cit., p.
128.
[173] �����������
A. Caraco, Ma confession, Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne 1975,
cit., p. 16.
[174] A. Camus, Le premier homme, Gallimard, Paris 1994 (postumo); tr. it.
Il primo uomo, Bompiani, Milano 2011, cit., p. 308.
110
Le letterature di Camus e Caraco, inscindibili dalle loro
esperienze di uomini (nel secondo caso in modo esplicito),
condividono questo: la morte della madre come simbolo del
nichilismo che regna fuori e dentro di loro. Che il nichilismo
venga inteso come liberazione da un’ingiusta tirannia divina –
le esperienze letterarie che seguono a Lo straniero testimoniano
quest’apertura a un’esistenza spoglia – o come composta
disperazione – riassunta da un ultimo gesto estremo – del nonsenso della vita, non può nascondere, tuttavia, un’intuizione
comune, traccia ipersensibile di una contemporaneità senza più
padri né figli.
111
V ITA
DI AL BERT CARACO
Albert Caraco nacque a Istanbul l’8 luglio 1919. Fu filosofo e
scrittore. Trascorse l’infanzia tra Vienna, Praga e Berlino. La
famiglia, di origine ebraica, fu presto costretta ad abbandonare
la Germania e si trasferì a Parigi dove Caraco frequentò
l’École des Hautes Études Commerciales. Successivamente
acquisirono la cittadinanza dell’Honduras trasferendosi in
Argentina e poi in Uruguay, convertendosi, per opportunità,
anche al cattolicesimo. Dopo il ’46 tornarono di nuovo a vivere
a Parigi. Ma Caraco, pur ottenendo premi e onorificenze per
le sue opere, fu sempre snobbato da critica e editori, e tuttora,
a molti anni dalla morte, è ben poco conosciuto (anche se la
casa editrice Adelphi ha tradotto alcune delle sue opere più
significative). Visse in completa solitudine e morì suicida nel
’71, il giorno dopo la morte del padre.
Opere citate.
Post mortem, 1968, 1985.
La mia confessione (Ma confession), 1975.
Breviario del caos (Bréviaire du chaos), 1982.
112
APPENDICE
A BBIAMO T UT T I
RAGIONE
Rotola, rotola, rotola
come il mio amore inutile.
Gianni Meccia, Il barattolo.
Ci vuole tempo per interiorizzare i cambiamenti, che,
sotterranei, emergono solo quando i bollori dell’entusiasmo
cedono alle lusinghe della stanchezza. Gli uomini, soggiogati
dalla tirannia del tempo, un inizio e una fine che si inseguono
senza posa e che ciclo dopo ciclo assistono a quella costante
ricombinazione degli elementi che fa sì che nell’eterno fluire ci
sia sempre qualcosa di nuovo – non aveva tutti i torti Eraclito
quando diceva che il tempo è un fanciullo che gioca a dadi –,
si ritrovano in mano idee e convinzioni dure come la pietra
e pericolose come il fulmicotone. E proprio questo ritrovarsi
in mano materia spirituale da noi non direttamente coltivata ci
113
conduce alla critica (o perlomeno dovrebbe farlo, sempre che
il nostro fine sia quello di affinare le tecniche di convivenza),
doverosa e puntuale, di ogni comportamento. La si può
chiamare filosofia, anche se poi, troppo spesso, questa finisce
per prendere le difese delle varie ideologie (che, come si sa, nel
loro statuto non contemplano il mettersi in discussione).
La filosofia, che sia indagine su noi stessi e sul mondo o
portavoce di una peculiare visione di esso, non ha come mezzo
di trasmissione soltanto il (forse ormai desueto) trattato di
seicento e passa pagine o la lezione universitaria: oggi sono
la televisione, il cinema e l’arte in tutte le sue manifestazioni
i veicoli privilegiati. Ma uno su tutti – il romanzo –, lettura
apparentemente innocua, è lo strumento sul quale si vuol qui
porre l’attenzione. La sua pervicacia è sconosciuta al video
e all’arte figurativa, ma anche allo stesso trattato filosofico,
sovente di difficile accesso. Il romanzo si fa portavoce delle
esigenze di un’epoca (magari solo allo scadere della stessa,
ma ciò non ne riduce il valore) e, contemporaneamente,
“educa” i suoi lettori all’interpretazione del loro tempo, i quali
non sempre hanno i mezzi e la voglia di analizzare i propri
comportamenti e quelli di chi li circonda. Il romanzo – il bel
romanzo, ovviamente – sprona, sconvolge, fa riflettere. Ne
sanno qualcosa le generazioni del primo Novecento, invischiate
in vicende belliche e di mutamento politico economico e
sociale di assai complicata decifrazione, che si rispecchiarono
(anche loro malgrado) nei personaggi dei romanzi di Kafka,
Proust, Gide, Svevo. La mentalità, le convinzioni, le idee
erano cambiate, e andavano cristallizzandosi nell’inchiostro
di quelle pagine romanzesche che tanto parlavano, forse
anche inconsapevolmente, del “nuovo spirito” occidentale.
Un cambiamento su tutti: la consapevolezza della fragilità (in
alcuni casi da intendersi anche, paradossalmente, come potenza
– perché sono caduti i vecchi ostacoli) umana; Dio si è nascosto
dietro l’angolo, e qualcuno, addirittura, giurerebbe sia morto.
È Antoine Roquentin, il protagonista de La nausea (1938) di
Jean-Paul Sartre, colui che svela al mondo ciò che il mondo non
114
ha il coraggio di confessare nemmeno a se stesso: la gratuità
della vita, l’assurdità dei nostri gesti quotidiani, in breve:
il nostro essere di troppo. Sartre-Roquentin non è certo né il
primo né l’ultimo ad immergersi negli abissi delle esistenze
contemporanee, ma probabilmente è colui che maggiormente è
rimasto nell’immaginario collettivo quando si pensa, appunto,
alla nausea esistenziale, quel sentimento di alienazione dalla vita
che contraddistingue questo tempo dalle instabili fondamenta.
Roquentin, infatti, ci dice che gli uomini, nella fattispecie quei
porcaccioni di Bouville, «tentano di nascondersi [la Nausea]
con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna:
nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come
gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel
loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e
vacui; tristi»175. Quindi, tutti gli uomini sono di troppo ma se
lo nascondono a vicenda, non ci pensano, forse smettono di
chiederselo, mentre pochi eletti – e da chi? – espiano la colpa
di essere nati, e lo fanno per tutti, sperimentando una terribile
nausea. Tutto diventa fatto di nausea. La consapevolezza del
terreno screpolato, dell’assenza di significato, dev’essere stata
una rivelazione per i lettori de La nausea che, ancora confusi
– e non sapevano che il “bello” doveva ancora arrivare176 –,
cercavano di sedare il loro senso di vomito con aspirine e
intrugli della nonna, o meglio ancora con alcol e vizi consumati
nella migliore delle ipotesi tra il Café de Flore e il Deux Magots
di Saint-Germain-des-Prés. Ma sarà l’impegno letterario (o
artistico) l’unica possibilità di fuga dalla ripugnanza per se
stessi ed il mondo immaginata da Antoine mentre ascolta la
solita canzone al Ritrovo dei Ferrovieri. Solo così si può dare un
senso al nauseante scorrere dei giorni: immaginando il lettore
innamorato della tua opera, giustificazione di una vita intera
[175] J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. it. B. Fonzi, La
nausea, Einaudi, Torino 2005, p. 177.
[176] La nausea è del 1938, un anno dopo scoppierà la Seconda Guerra
Mondiale, le cui atrocità vennero a galla soltanto alla fine del conflitto, dopo
il 1945.
115
passata a cercare giustificazioni all’ingiustificabile. E tuttavia
Antoine non può sconfiggere la Nausea, essa lo possiede; vive
per lui.
Ma, come abbiamo ricordato all’inizio, le cose dentro di noi
cambiano, spesso senza che nemmeno ci sia il tempo per
accorgersene. I tempi cambiano, le epoche si susseguono, e con
loro significati, esigenze e convinzioni. La Nausea esistenziale
diventò “di moda” e parte integrante del modus vivendi
occidentale, fino a che, come accadde col “Dio morto” del
primo Novecento, non si fece anch’essa innocua – sensazione
che si avverte, ad esempio, leggendo Hanno tutti ragione
(2010) di Paolo Sorrentino. La storia è ambientata nel secondo
Novecento, ma la coscienza che la sottende è la nostra, quella
del tempo in cui il romanzo è stato scritto, quella che anche
sforzandoci non riusciamo bene a decifrare, proprio perché
la stiamo vivendo. Ed è come al solito un romanzo a venirci
incontro svelando il lato oscuro del formalismo (che non è solo
dell’italiano) al quale l’uomo soggiace come sotto incantesimo.
Tony Pagoda, il cantante napoletano protagonista del romanzo
di Sorrentino, dichiara, senza fronzoli, senza alcuna pretesa
giustificativa: «eccedono, gli uomini che non hanno nulla da
perdere, fino alla nausea. Ma la differenza tra me e il resto
del mondo è che io, dentro allo stato di nausea, ci sto una
meraviglia. Non la vivo come un problema, la nausea»177.
Se Roquentin scopre la Nausea per poi rimanerne succube,
Pagoda la calpesta, l’ha già interiorizzata e ha tutte le intenzioni
di ribaltare la sua condizione di essere di troppo a proprio
vantaggio; d’altronde, come dice egli stesso, “non ha niente
da perdere”. Tony non può non vivere nella nausea, eredità dei
tempi fagocitati dalla contemporaneità, non può non aver una
coscienza abituata ad una vita assurda che si barcamena tra
effimeri significati come la famiglia e la carriera. Nessun Cristo
lo salverà, ma non è poi così grave. La pienezza dell’istante (che
facilmente si concretizza in vizio, perlomeno secondo i canoni
[177] P. Sorrentino, Hanno tutti ragione (2010), Feltrinelli, Milano 2013,
cit., p. 223.
116
morali dell’Occidente) è quella che conta, non il compiuto
dell’opera, sterile emanazione – morta – di sé. Ma attenzione,
egli non è un semplice Don Giovanni, un Casanova rivisitato
o un marchese De Sade lascivo e spregiudicato, perché questi
non conobbero la Nausea, o almeno non il suo stato terminale
raggiunto soltanto col Secolo Breve. Perché una volta provata
la Nausea non si torna più indietro. L’assurdo è la parola
chiave, l’assurdo mischiato all’inutilità dei giorni. La cocaina,
la frivolezza sentimentale, lo sdoganamento del corpo, la fama
– insomma: la bella vita – vanno bene se è questa la condotta –
una come un’altra – che ci fa sopportare “serenamente” il peso
dell’esistenza. Una come un’altra, sì, e non è un caso che il
romanzo di Sorrentino si intitoli Hanno tutti ragione: una volta
che gli assoluti sono stati consumati e digeriti, per poi riaffiorare
soltanto come pallidi ricordi tra i rigurgiti della Nausea, chi può
più sostenere di aver ragione? perché aver ragione significa che
c’è qualcuno che non ce l’ha, che c’è chi vive nella menzogna.
Non è così: è molto più plausibile che tutti abbiano ragione, o
perlomeno che tutti abbiano le proprie ragioni per comportarsi
in un modo invece di un altro. Tony Pagoda lo sa (anche se il
percorso verso questa consapevolezza, all’interno del romanzo,
sarà graduale), e ha accettato se stesso. C’è però un prezzo da
pagare: l’idiosincrasia col mondo ancora lontano da queste
conclusioni: «per questo sono inadatto al mondo. Per questo
sono solo»178. La consapevolezza di Tony Pagoda non lascia
spiragli all’alternativa. Arrivato alla stanchezza della routine,
con la moglie che vuole il divorzio, il successo sulla via del
declino e uno scheletro nell’armadio da nascondere, Pagoda
decide di semplificare il suo stile di vita trasferendosi in Brasile,
raggiunto inizialmente per una piccola tournée con la sua band,
optando così per il completo anonimato. La vita al limite non
gli dà più l’emozione d’un tempo, ed è ora di cambiare con
esso. Sarà nei successivi diciotto anni brasiliani che affiorerà
in lui la definitiva sensazione che abbiano tutti ragione: perché
dovrebbe essere lui ad aver ragione, lui che ha cambiato vita, lui
[178] Ibidem.
117
che se avesse vissuto mille anni avrebbe cambiato vita almeno
altre venti volte? E questo vale per tutti.
È qui che la Nausea smette di nauseare riaffiorando sulla pelle
come lieve prurito.
Non sappiamo che fine abbia fatto Antoine Roquentin, rimasto
seduto al Ritrovo dei Ferrovieri a contemplare l’idea di scrivere
un romanzo che avrebbe potuto rendere accettabile, o forse
addirittura riempire, il suo senso di vuoto. Sappiamo invece
com’è invecchiato Tony Pagoda, che dopo quasi vent’anni tornò
in Italia sedotto da un’offerta irrifiutabile. Ma non facciamoci
illusioni: «non sto tornando per nostalgia. Torno, perché non
ho niente di meglio da fare. Perché si scaricano, dopo un certo
tempo, tutte le consistenze»179. A consistenze scariche, dunque,
Tony Pagoda si prepara alla morte. È diventato vecchio e ha
scoperto, finalmente, qual è sempre stato il senso della sua
vita: diventare vecchio. Vivere, e prendersi tutto dalla vita.
La Nausea non fa più paura, l’abbiamo digerita: sappiamo di
essere gratuiti e con una scadenza senza data, ma ineluttabile.
I tempi cambiano e ci si abitua a tutto, anche all’assenza di
significato, soprattutto quando non si ha niente da perdere. E
noi, oggi, cosa abbiamo da perdere?
Nota su Paolo Sorrentino.
Paolo Sorrentino, scrittore, regista e sceneggiatore, è nato a
Napoli il 31 maggio 1970. Con il lungometraggio Il divo (2008),
che ripercorre la storia di Giulio Andreotti, avviene la sua
consacrazione: vince il Premio della Giuria a Cannes. Il suo
romanzo d’esordio Hanno tutti ragione (2010) si classifica
terzo al Premio Strega del 2010.
[179] Ivi, p. 272.
118
Opere principali.
Romanzi.
Hanno tutti ragione, 2010. Racconti.
Tony Pagoda e i suoi amici, 2012.
Lungometraggi.
L’uomo in più, 2001.
Le conseguenze dell’amore, 2004.
L’amico di famiglia, 2006.
Il Divo, 2008.
This Must Be the Place, 2011.
La grande bellezza, 2013.
Trama di Hanno tutti ragione, 2010.
La carriera di Tony Pagoda, cantante melodico napoletano
di successo, è ormai sulla via del declino e a complicare le
cose ci si mette anche la moglie che vuole il divorzio. Questo
porterà Pagoda, dopo una breve tournée in Brasile, a decidere
di mollare tutto e stabilirsi dall’altra parte del mondo per
ricominciare una nuova vita, prima a Rio e poi a Manaus.
Vive tranquillo in Brasile per diciotto anni, ma arriva il 1999
e un onorevole italiano è pronto a pagare una cifra esorbitante
perché torni in Italia a cantare a casa sua, per la sua famiglia, la
sera dell’ultimo dell’anno. Pagoda accetterà trascorrendo così i
suoi ultimi anni a Roma.
119
DIZIONARIO MINIMO
Angoscia. Con il filosofo danese Søren Kierkegaard (18131855) il concetto di angoscia entra nella terminologia filosofica
quale sentimento fondamentale della vivenza umana in rapporto
all’esistenza e soprattutto alla morte: l’uomo prova angoscia,
ossia smarrimento, forte preoccupazione, perché si rende conto
della sua finitezza e della sua condizione di mera possibilità
nel mondo che l’accoglie, nonché della tragica prospettiva
della morte che lo attende. Per Martin Heidegger (1889-1976)
è proprio grazie all’esperienza dell’angoscia che l’uomo può
compiere le scelte più significative, perché conscio della sua
finitezza e della reale possibilità della morte.
Assurdo. Nella filosofia e letteratura contemporanea l’assurdo è
la condizione stessa dell’uomo. Mancando punti di riferimento
universali, l’esistenza dell’uomo viene concepita come
libera possibilità di realizzazione nelle trame di una realtà in
incessante divenire. Naturale che il sentimento dell’assurdo
provochi, al pari del sentimento dell’angoscia, un forte senso di
straniamento che può anche condurre al desiderio della morte,
il non dover più affrontare le difficoltà di una vita priva di
certezze e significati prestabiliti.
120
Atto gratuito. Nella letteratura europea (Fëdor Dostoevskij,
André Gide) di fine Ottocento / inizio Novecento l’atto
gratuito è quell’atto compiuto, per l’appunto, gratuitamente,
senza un fine prefissato, ma soltanto per il “gusto” (che non
significa necessariamente che provochi piacere in chi lo
compie) di farlo. Ad esempio Lafcadio, personaggio de I
sotterranei del Vaticano (1914) di André Gide (1869-1951)
uccide un uomo gratuitamente, e lo fa con lucidità; mentre
Meursault, protagonista de Lo straniero (1942) di Albert
Camus (1913-1960) uccide sì gratuitamente, ma il suo atto è
confuso, annebbiato. Ad ogni modo l’atto gratuito è frutto della
mancanza di certezze del mondo contemporaneo e soprattutto
della mancanza di una morale universale e condivisa che nella
storia dell’uomo è sempre stata garantita da (e identificata in)
Dio.
Engagement. Termine francese entrato nel linguaggio comune
(anche italiano), soprattutto con Sartre e gli intellettuali francesi
militanti durante la Seconda Guerra Mondiale, per designare un
“impegno” (è questa la traduzione) di tipo sociale e politico,
oltre che prettamente letterario e culturale. Uno scrittore engagé
(impegnato) è uno scrittore che attraverso i suoi scritti attua una
critica – esplicita (articoli di giornale, saggi) ma anche implicita
(romanzi, teatro, poesia) nei confronti della società.
Esistenzialismo (ateo). È una corrente filosofica, ma anche
letteraria e artistica, che trova espressione nel XX secolo. L’idea
portante di questi filosofi è che l’esistenza dell’uomo preceda
l’essenza (in contrapposizione alla concezione comune, opera
del cristianesimo, ma anche della filosofia greca, di un’essenza
comune – magari divina – che designi l’essere uomo, dalla
quale egli poi prenderà forma con la sua esistenza particolare).
Risultato di questo ribaltamento è una piena libertà e
responsabilità dell’uomo nei confronti della sua vita e di quella
degli altri. Alcuni celebri precursori dell’esistenzialismo sono
considerati Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Franz
Kafka, Fëdor Dostoevskij e André Gide, mentre come autori
121
principali in Francia troviamo Jean-Paul Sartre (1905-1980) e
Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), ma anche Albert Camus
(1913-1960), il quale però ne prendeva le distanze, mentre in
Germania Martin Heidegger (1889-1976) e Karl Jaspers (18831969).
Fedeltà alla terra. Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche
(1844-1900), nel suo Così parlò Zarathustra (1883-85),
scrive: «rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi
parlano di sovraterrene speranze!». Rimanere fedeli alla terra
significa dunque vivere pienamente questa vita terrena senza
farsi condizionare (e alienare, sempre secondo Nietzsche) da
dottrine religiose o sovraterrene, che hanno come punto di
riferimento il Cielo (cristianesimo), o il dopo la morte (sempre
cristianesimo e qualunque altra religione), ma anche per
esempio l’ultimo stadio della storia (hegelismo, marxismo…),
piuttosto che la vita stessa, unico bene in nostro possesso – e
quindi da non sprecare. La fedeltà alla terra diviene necessaria
dopo la scoperta della morte di Dio.
Morte di Dio. La morte di Dio è la consapevolezza fatta
propria da Nietzsche della morte nell’età contemporanea
occidentale dell’universalità dei valori. Non c’è più un Dio
garante dell’ordine dell’universo e delle vite degli uomini,
– perché piano piano, nel corso dei secoli, ridimensionato a
semplici illusione e speranza umane (ovviamente non per tutti)
– e dunque nemmeno di valori universali condivisi da tutti. La
morte di Dio è strettamente collegata al nichilismo, di cui è una
sorta di fondamento.
Nausea. Termine filosofico-letterario entrato nel linguaggio
comune, con il significato di “noia esistenziale”, con il romanzo
La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre. Più precisamente il
protagonista de La nausea Antoine Roquentine prova un senso
di disgusto, di nausea appunto, nel momento in cui la riflessione
lo porta a rendersi conto dell’assoluta gratuità, e quindi, per
certi versi, assurdità dell’esistenza.
122
Nichilismo. Da nihil (nulla). Termine che compare per la prima
volta in Germania alla fine del Settecento. È la mancanza
di solide fondamenta della società, la corrosione dei valori
tradizionali d’Occidente che seguono all’“annunciazione”
nietzscheana della morte di Dio. Di conseguenza nichilismo
è diventata la filosofia stessa del filosofo tedesco, ma anche
ogni atteggiamento privo di speranze per un futuro che si sa già
intriso di morte – di nulla.
Trasvalutazione dei valori. In Nietzsche è la creazione di
nuovi valori, esaltatori dell’uomo e della sua condizione
terrena, contro i valori della morale tradizionale (in sostanza
del cristianesimo). Obiettivo ultimo di Nietzsche: la creazione
di oltreuomini, ossia uomini capaci di sopportare il peso di
un’esistenza fine a se stessa, gioiosa ma allo stesso tempo
tremendamente dolorosa.
123
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131
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