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Esistere Forte - Diogene Multimedia
Collana “Quaderni di Diogene” Stefano Scrima ESIST ERE F ORT E Ha senso esistere? Camus, Gide e Sartre dicono che... Il Giardino dei Pensieri “... comme un arbre de son jardin” A chi crede di aver ragione, me compreso. Copertina e impaginazione: Jimmy Knows S.C.P., Barcelona (ES) I disegni della copertina sono opera di Eleonora Eta Liparoti, www.etadormesuipescivolanti.blogspot.com ISBN 978-88-98227-59-4 © Edizioni del Giardino dei Pensieri di Mario Trombino Via Nadi 12, 40137 Bologna I edizione, gennaio 2014 INDICE PREFAZIONE 7 INTRODUZIONE 11 PRIMO CAPITOLO. JEAN-PAUL SARTRE Esisto: è troppo? 18 1. «Una specie di nausea nelle mie mani» 2. Condannati a morte 18 22 Impelagato 1. Condannati ad essere liberi 2. «A che serve la libertà se non per impegnarsi?» 3. Scegliersi Vita di Jean-Paul Sartre SECONDO CAPITOLO. ALBERT CAMUS C’è un limite a tutto? 1. Sisifo in rivolta 2. «La felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo» 2.1. Mediterraneo 2.2. La felicità del suolo 3. Assurda libertà Vita di Albert Camus TERZO CAPITOLO. ANDRÉ GIDE E se io ti buttassi giù dal treno? 1. Vita nova 2. La vita è capriccio? Vita de André Gide 26 26 29 34 37 42 42 50 54 60 66 71 74 74 85 95 QUARTO CAPITOLO. NICHILISMI Maestro Nietzsche «Oggi la mamma è morta» Vita di Albert Caraco 99 106 112 APPENDICE Abbiamo tutti ragione 113 DIZIONARIO MINIMO 120 BIBLIOGRAFIA 124 FILMOGRAFIA 130 DISCOGRAFIA 131 P REF AZIONE Sala Borsa a Bologna è una biblioteca comunale. Ce ne sono molte in città, ma questa è diversa dalle altre. È a fianco di Piazza Maggiore, dentro il Palazzo, uno dei luoghi tipici della realtà del tempo dei Comuni. Un luogo di potere. Qui entri, ti siedi sui divani o ai tavoli, leggi, sali in emeroteca, ascolti musica, scendi nei depositi, ci porti i nipotini perché c’è una sezione per bambini che possono leggerli lì anche loro, i libri per la loro età. Fai tutto tu. Ti senti libero. Non mi azzarderei a dire che lo sei davvero, perché qui hanno regole severe, ma ti ci senti. E ci sono tanti libri che più volte mi sono sentito come quando da ragazzo frequentavo il Beaubourg, allora appena costruito. Quando andavo al Beaubourg venivo in genere dai luoghi sacri della filosofia di allora: al mattino andavo a lezione a Vincennes dove insegnava Deleuze, al pomeriggio frequentavo le antiche sale della Sorbona e del Collège de France, dove insegnava Foucault. Sartre invece non c’era già più, aveva lasciato da poco il suo quartiere latino, ma nei bar all’incrocio di Saint7 Germain c’era ancora tanta gente per cui la sua presenza era stata familiare. Così adesso, studiando in sala Borsa (di studiare non si finisce davvero mai), incontrando Stefano Scrima al bar della grande piazza coperta, e parlando di questo libro, un filo diretto mi ha ricondotto alla Parigi di quando avevo la sua età. Allora un senso di vuoto, la percezione quasifisica della mancanza di senso di cui parlavano i filosofi parigini, era più forte di adesso. Io, almeno, adesso la sento meno. Per cui mi sono un po’ meravigliato quando Stefano ha mostrato di sentirla ancora così forte da scriverci un libro, che non è nato come libro, ma ne ha assunto presto la forma. Sembra che per un giovane degli anni dieci non sia molto diverso da un giovane degli anni settanta. Poi rifletto che quarant’anni certo che sono passati invano! Tutto sommato, che cosa sappiamo di più oggi di allora sul senso dell’essere e dell’accadere? Ecco, fare filosofia per me giovane allora e ancora adesso era ed è non voltarmi dall’altra parte quando qualcuno ti ricorda che non sappiamo nulla dei fondamentali della vita. Ma nulla davvero. Eppure dobbiamo vivere, amare le persone di cui ci innamoriamo, allevare figli e nipoti, speranze e destini, perché esistiamo e seguiamo la nostra natura. Che dire qual è, esattamente, proprio non sapremmo dire. Un destino che ha qualcosa di crudele quello del filosofo: deve parlare del vuoto su cui poggia la nostra vita, che magari invece è un pieno e non abbiamo capito che lo era, e allo stesso tempo tutti ci scambiano per maestri di vita e di sapere, come con il prete, e ci chiedono quale direzione dare alla propria vita. E certo se si è filosofi non si può sfuggire ai due opposti compiti che abbiamo davanti. Dire la verità su quello che sappiamo, riflettere sulle scelte da compiere e sulla strada da prendere. Questo libro fa entrambe le cose. Come un libro di filosofia deve fare. 8 Quindi, da editore, è stata ovvia la scelta di pubblicarlo e di accettare la richiesta di Stefano di scriverne una breve prefazione. Luoghi come Sala Borsa e come il Beaubourg ci ricordano che si può progettare il futuro. Non sappiamo se si deve farlo, dirlo è troppo. Sappiamo che si può. Sisifo felice. Sì, è stupefacente, ma Sisifo può essere felice. Grazie a Stefano per avermelo (e pubblicando il libro anche avercelo) ricordato. Mario Trombino 9 Che m’importa che tu non legga, lettore, quel che ho voluto metterci, se vi leggi quel che ti accende di vita? Miguel de Unamuno INT RODUZIONE Ci basta, se riflettiamo, l’incomprensibilità dell’universo; volerlo capire è essere meno che uomini, perché essere uomo è sapere che non si capisce. Fernando Pessoa Siamo figli di un mondo che pensiamo di conoscere, di una sua interpretazione chiara e decisa sviluppata dagli uomini in secoli e secoli di passioni e pensieri. Questo ci riporta indietro di un po’ di tempo: all’alba della nostra cosiddetta epoca moderna. Qui, da un lato ritroviamo Galileo Galilei (15641642), il quale, attraverso la rivoluzione della scienza moderna, sancisce un preteso dominio umano sulla natura, e dall’altro René Descartes (Cartesio, 1596-1650), il filosofo che inaugura il dualismo (per noi comune) soggetto/oggetto, identificando il primo termine con l’essere che pensa il reale, ovvero l’uomo, e il secondo con il reale stesso; arrivando anche qui a sancire una superiorità dell’uomo razionale sul resto dell’esistente. Cartesio arriva a questa conclusione grazie all’evidenza dell’impossibilità di dubitare del nostro stesso dubbio: posso dubitare dell’esistenza di qualsiasi cosa, eccetto di quella del mio dubitare, e quindi se sto dubitando vorrà dire che esisto, e ciò è indubitabile – di qui il celebre Cogito, ergo sum (Penso, dunque sono). Da una parte, dunque, c’è il soggetto pensante, 11 dall’altra l’oggetto, autonomo, che il primo, attraverso un metodo deduttivo-razionale, matematico, quindi non sensoriale ma solo intellettuale, può arrivare a conoscere adeguandosi ad esso; tuttavia l’uomo non conosce direttamente l’oggetto, ma solo la sua idea. Questo metodo è garantito da Dio stesso, della cui esistenza Cartesio è certo in quanto idea innata nell’uomo, il quale è bene e non potrebbe mai ingannare le sue creature “migliori”, gli uomini. È evidente lo sbilanciamento procurato dalla riflessione cartesiana dalla parte del soggetto, della res cogitans, la sostanza pensante, che prevale così sulla res extensa, il mondo oggettivo, interamente spiegabile attraverso due soli principi: la materia e il movimento. In tal modo il soggetto (umano) si fa praticamente autonomo, perlomeno metafisicamente – esso è la prima sostanza, in termini logici, l’unica che possa costruire il fondamento di tutte le altre sostanze: senza il soggetto pensante, non ha senso parlare dell’oggetto, definibile solo in quanto pensato – riconoscendo nella facoltà conoscitiva razionale il suo più grande potere. Un soggettivismo, questo, che si radicalizzerà con la filosofia di Immanuel Kant (1724-1804) – e poi soprattutto con l’Idealismo tedesco –, per il quale l’oggetto, la natura, e le sue caratteristiche fisiche e matematiche esistono solo in relazione al soggetto, l’uomo, perché è quest’ultimo che attraverso le articolazioni del suo pensiero le concepisce. È l’oggetto che si adegua al soggetto e non viceversa. Non che Kant neghi l’esistenza di una natura in sé (ciò che invece faranno gli idealisti), indipendente dal pensiero umano – esiste, certo, ma è a noi inconoscibile –, tuttavia ha senso parlare di natura solo dal e nel momento in cui essa si svela a noi come fenomeno. Tutto questo per una sorta di superiorità ontologica (quindi sul piano dell’essere) dell’attività pensante rispetto al resto dell’esistenza – forse perché senza pensiero con cui pensare le cose esistenti queste stesse cose, per quanto belle, risulterebbero del tutto vane. (Per quanto riguarda Dio, a differenza di Cartesio, Kant ammette di non poterne dimostrare l’esistenza, né attraverso idee innate né col ragionamento. La questione si sposta sul piano morale). 12 Nel mondo antico e fino al Rinascimento la distinzione, o perlomeno la contrapposizione, tra soggetto e oggetto non esisteva, oltre al fatto che “soggetto” aveva un significato diverso, quasi opposto a quello che intendiamo oggi: soggetto, dal latino subiectus, significa sotto (sub) e gettare (iacere), dunque “ciò che sta sotto”. Per Aristotele, infatti, il soggetto era la sostanza, l’essenza della cosa, di quello che noi oggi chiamiamo oggetto, ma anche dell’uomo stesso. Tra gli antichi non si propose il dualismo soggetto/oggetto perché si pensava esistesse un’unica legge cosmica, umana e naturale, che regolasse il tutto e che la realtà esterna fosse quella che è a prescindere dall’occhio umano. Tra i medievali e i rinascimentali, invece, era l’idea dell’Uno o di Dio a garantire un’unità superiore cui ricondurre i due poli (quello soggettivo dell’uomo e quello oggettivo dell’essere), che si pensavano così come un’unità inscindibile perché emanazione della stessa potenza regolatrice del tutto. Ed ecco allora come nell’età moderna andò definendosi un uomo dalla rinnovata e rinvigorita coscienza di sé (non si sarà montato la testa?): la “rivoluzione copernicana” di Kant (come egli stesso l’ha denominata) che definitivamente pone il soggetto al centro dell’universo in quanto parte attiva e fondamentale del processo conoscitivo – le cose sono così perché il nostro intelletto, attraverso le sue forme a priori (spazio, tempo, categorie), lo definisce così ai nostri occhi –, e il nuovo potere conferitoci dalla scienza e dalla tecnica moderne in grado di piegare al nostro servizio (con ovvi limiti, ma sempre più spostati) le forze della natura, non poterono che conferire all’uomo una nuova e sconosciuta autonomia. L’uomo diventa sì più autonomo, ma anche più solo. Non a caso la modernità coincide anche con il processo di secolarizzazione del mondo occidentale (ovvero il graduale allontanamento della società dalle tradizioni religiose – che tuttavia, ridimensionate, permarranno), uno degli effetti più profondi di questa nuova mentalità. Una volta sancito il potere sul reale, ora l’uomo rischia di ritrovarsi anche senza una forza o ragione esterna, 13 metafisica, per la quale esiste ed agisce. Grazie agli sviluppi della scienza – i grandi passi fatti nel campo del naturalismo, dell’archeologia ma anche della storiografia – si iniziò ad ipotizzare una discendenza umana e naturale di tutto ciò che concerne i rapporti sociali, politici e religiosi: forse il reale non è opera di una mano esterna ordinatrice (Dio), ma un graduale delinearsi, un’interazione profonda tra esso e i suoi attori principali: gli uomini. La società cambiò lentamente fino a raggiungere la forma attuale in cui noi, ignari cittadini, ci ritroviamo in possesso di libertà duramente conquistate nel corso di secoli, perché prima soffocate da rivendicazioni legate a un presunto diritto divino a governare. In mezzo c’è infatti la Rivoluzione Francese, evento che sancì sanguinosamente e definitivamente (in Europa) la separazione tra vita sociale (e politica) e vita religiosa – lasciando quest’ultima alla coscienza dell’individuo –, nonché lo Stato liberale (repubblica o monarchia costituzionale) come società auspicabile, contro gli assolutismi1 di tipo religioso e non, all’insegna d’una convivenza pacifica fra uomini liberi di esprimersi. Ma nella storia del pensiero occidentale, eccetto qualche isolato episodio nell’antichità e nell’età moderna, fu con Friedrich Nietzsche (1844-1900) – il quale fece confluire nella sua filosofia, in relazione a questo tema, le idee di altri autori fondamentali come Feuerbach, Stirner, Marx – che si arrivò al netto rifiuto della religione (perlomeno della cristiana, regina d’Occidente), per sondare gli sconosciuti lidi di un’esistenza senza fondamento – tutta da fondare. “La vita è assurda” – può essere – ma ciò non significa che non possiamo essere noi stessi a darle un senso. Questo il risultato della messa al bando di Dio, o meglio della sua morte. “Dopo Nietzsche” l’uomo [1] Il riproporsi di assolutismi in epoca contemporanea (le dittature novecentesche, ma anche le attuali) tradiscono, evidentemente, tali conquiste, ma vanno comunque ricondotte a un soggettivismo estremo (e in particolare alla radicalizzazione dei concetti di soggetto e ragione da parte delle filosofie ottocentesche) figlio della mentalità moderna. 14 contemporaneo acquisì suo malgrado coscienza della fragilità del terreno; il sentimento di vuoto che mina l’esistenza, il nichilismo, penetrò nelle trame della quotidianità ancor prima che nelle pagine di trattati filosofici, romanzi e poesie. Ma è grazie a questi che la riflessione si fece universale, voce d’una specie – l’umanità – “abbandonata” da Dio. Un romanzo su tutti, La nausea di Jean-Paul Sartre (19051980), ha assurto a classico non certo solo per le sue qualità stilistico-letterarie, ma soprattutto per la capacità dell’autore di sondare le due facce dell’insostenibilità della vita: il troppo pieno e il troppo vuoto; qualcosa, in ogni caso, che è sempre di troppo. Per Sartre l’uomo sarebbe l’unico essere in cui l’esistenza precede l’essenza, non essendoci più un Dio creatore capace di concepire quest’ultima quale suo fondamento (e non a caso Sartre è il padre dell’esistenzialismo francese). Se praticamente fino a Nietzsche, nonostante la nuova autonomia del soggetto umano (più che altro sul piano conoscitivo) sancita dapprima da Cartesio e definitivamente da Kant, il reale e tutte le sue manifestazioni, noi compresi, trovano un’unità originaria e fondativa in Dio – che sia il Dio cristiano, l’Uno dei neoplatonici o il dio “orologiaio” dei desisti – per i contemporanei, questo, non è più un dato di fatto, anzi, risulta fortemente contraddittorio. L’uomo del Novecento, invischiato nella crudezza di una realtà ostile, tra crisi generalizzate e guerre mondiali, non riesce più a credere (oppure non ne ha più bisogno?) in un Dio amorevole e ordinatore. Il risultato: una tremenda libertà. Ma questo cosa comporta? Pochi anni dopo, col suo romanzo Lo straniero, irruppe sulla scena letteraria mondiale il franco-algerino Albert Camus (1913-1960): la vita è assurda, completamente, ci dice; cosicché l’unico problema serio diventa: ha senso continuare a vivere? Siamo rimasti soli – anche qui: autonomi rispetto agli oggetti che abbiamo posto al nostro servizio e senza più la certezza di una mano divina che possa consolarci – al cospetto di un universo silenzioso, in balia del caos dei nostri pensieri slegati. Eppure 15 per Camus ci dev’essere qualcosa per cui abbia senso vivere, per cui abbia senso rivoltarsi contro l’ingiustizia di un mondo che non sa rispondere alle nostre domande esistenziali. Per lui il problema sta proprio lì, in quella traiettoria emancipativa percorsa dall’uomo moderno, la quale avrebbe ingiustamente e pericolosamente soffocato il legame originario col non-io, con la natura, gli oggetti, insomma col mondo, tutto quello che non siamo noi, anzi no, perché il mondo siamo anche noi. È la separazione uomo/mondo il problema. Ma sia Sartre che Camus devono, in certa misura, questa loro peculiare sensibilità esistenziale (o esistenzialista) e letteraria ad un altro uomo e scrittore francese, non proprio filosofo, ma profondo interprete del suo tempo: André Gide (1869-1951). È il romanzo I sotterranei del Vaticano, infatti, ad instillare nella letteratura europea il sentimento della gratuità della vita.2 Che significa agire moralmente? Se la vita non ha senso, e quindi, se nessuno ha il diritto di giudicarmi – nemmeno Dio – perché sottostare a una morale arbitraria? Perché non seguire l’esistenza, nella sua apparente gratuità e assurdità, e fare come lei: agire senza scopo e senza veti? Tutti e tre questi autori, nonostante il loro personale riconoscimento di una sostanziale assurdità della vita, propongono, attraverso le loro opere (romanzi e non), un senso che renda degno il loro – il nostro – tempo d’esser vissuto, e amato. Vivere è sì assurdo, ma solo se non prendiamo in mano la nostra vita, se la lasciamo in balia dei venti e dei mari che non siamo noi. La libertà che segue al non-senso dell’esistere è, invero, il dono più prezioso che il caso (o chi per lui) potesse farci. Scopriamo così di non essere obbligati o destinati, bensì i creatori, gli artefici del nostro mondo. [2] Anche i romanzi del russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881) influirono moltissimo sulla letteratura, filosofica e non, del Novecento europeo, nonché sullo stesso Nietzsche. 16 E come ci giocheremo quest’unica chance di esistere? Perché non capiterà mai più, in tutta l’eternità, una cosa del genere. Come gestiremo la responsabilità di un tale privilegio? Cosa ci impedirà di non sentirci di troppo, straripanti da quest’esistenza? 17 PRIMO CAPITOLO. JEAN-PAUL SARTRE ESIST O: È T ROP P O? 3 E sol melanconia m’aggrada forte.4 Cino da Pistoia 1. «Una specie di nausea nelle mie mani». La nausea (La nausée) di Jean-Paul Sartre vide la luce nel ’38 provocando scalpore per la sua natura antiromanzesca di diario ritrovato dagli editori e pubblicato all’insaputa dell’artefice. Antiromanzo poiché non è presente una storia, o perlomeno non una storia convenzionale ben definita, distribuita in avvenimenti chiave che determinano svolte significative nella narrazione: Antoine Roquentin è uno storico annoiato “costretto” a vivere da tre anni in una fittizia Bouville per concludere delle ricerche [3] Saggio apparso per la prima volta nel 2012 su XÁOS. Giornale di confine: Stefano Scrima, L’Esistenza di troppo. Jean-Paul Sartre e il Romanzo della Nausea Esistenziale, in “XÁOS. Giornale di confine”, Ottobre 2012. URL: http://www.giornalediconfine.net/2012/stefano_scrima_sartre.htm. [4] Questa frase fa da esergo anche alla poesia Dolore (contenuta in Dolcezze, 1904) di Sergio Corazzini, e da questa è tratta. Melancholia fu il titolo proposto da Sartre, poi scartato dagli editori a favore de La nausée (La nausea), per il suo primo romanzo. 18 sul marchese di Rollebon; nella sua desolante quotidianità, scandita dalle ore in biblioteca, il ricordo dell’ex ragazza Anny e la musica jazz ascoltata al Ritrovo dei Ferrovieri, prorompe il peso della confessione che il trentenne teme di rivelare perfino al suo cuore: la contrazione della nausea. È egli stesso a presentarci questo sentimento come una malattia5, a sentirsi infetto a tratti, nei momenti che rimane solo, quand’è la sua “natura” a parlare in lui e la realtà a svelarsi per quella che è realmente. Una «specie di nausea» è il risultato. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno. Quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.6 Il ciottolo, l’oggetto, la realtà che si svela. E che cosa dice? Non dice niente, è qui che la nausea ci assale: l’esistenza è, ed è senza un motivo, c’è come potrebbe non esserci. L’esistenza è pura contingenza, gratuità assoluta. Nell’agire Antoine si dimentica di ciò, ma nel ricordo, nella riflessione, eccolo afflitto dalla rivelazione che le cose compiono per mezzo della sua autocoscienza. È per questo che l’escamotage del diario rende l’opera ancor più efficace: solo dando voce ad un dialogo interiore può emergere la reale potenza di quest’incombere. Vi è uno scarto incolmabile tra agire e pensare, tra vivere un’esistenza assurda, senza dubitare mai del senso intrinseco alle cose, e l’osservarsi da fermi, dall’alto, quasi con occhi da narratore onnisciente. Se guardata così, la realtà, assume forme agghiaccianti; la Nausea che inizia ad impossessarsi dell’intera esistenza di Antoine – la quale per questo assumerà da ora in poi la N maiuscola – si mostra come sostanza costitutiva del reale: [5] �������������� J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; tr. it. La nausea, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 14. [6] Ivi, p. 23. 19 La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.7 Così la Nausea da malattia diviene essenza.8 Una parvenza di consolazione sembra prospettarsi nel pieno assaporamento degli istanti, unici e irripetibili, perciò sublimi. Ma dura poco, il momento dell’attimo o il momento in cui ci si ferma a ripensarlo, narrandolo: così si può far della vita un’avventura. «Bisogna scegliere: o vivere o raccontare»9 e per vivere si deve abbandonare il racconto e l’avventura. Siamo obbligati a portar avanti quest’esistenza dal di dentro e non come fossimo narratori di noi stessi, ma il problema è che «quando si vive non accade nulla»10. La situazione appare senza via di fuga; accettandola o no rimarrà quell’amaro in bocca che sa d’assurdo. Accettare una vita assurda o rinunciarci? Dimenticarsi di se stessi è impossibile: Anche se rimanessi, anche se mi rannicchiassi in silenzio in un angolo, non mi dimenticherei. Sarei lì, peserei sul pavimento. Sono.11 «Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo»12. Eccolo: il compimento della coscienza, la saturazione definitiva. La nausea fa straboccare Antoine dalla sua stessa vita; egli, da dentro, avverte il suo eccedere, il suo cader fuori dal vaso, e, come per la luna nel Diario di Eva13, il suo scivolar [7] Ivi, p. 34. [8] Ivi, p. 171. [9] Ivi, p. 59. [10] Ibidem. [11] J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 138. [12] Ivi, p. 165. [13] M��������� . Twain, Eve’s Diary, Harper and Brothers, London e New York 1906; 20 verso il basso per poi uscir dal disegno. Perdita gravissima per l’integrità dell’io, smarrito in un impellente deliquio che tuttavia, a dispetto dei desideri del nauseato, mai sopravviene. Satura la coscienza, cade ogni senso. E piano piano una nebbia d’estate si fa largo. Che fare? Annullarsi? Sopprimersi? Le cose «esistono forte», troppo perché ci si possa non pensare e troppo per credere che morire possa risolvere qualcosa. Il proprio cadavere sarebbe anch’esso di troppo, tutto è di troppo, l’esistenza è di troppo, noi siamo di troppo come gli alberi e i ciottoli. Antoine crede di aver trovato così la «chiave dell’esistenza»: l’arbitrarietà, l’assurdità, la contingenza, la perfetta gratuità. È come un’illuminazione, un incantesimo che rende accessibile la verità. E il pensiero va subito agli altri, a quei porcaccioni, gli abitanti di Bouville, al resto degli uomini che Tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.14 È un moto di disprezzo e pietà per gli altri che rimane al lettore dopo aver scorto i pensieri di Antoine, sentimenti che quest’ultimo sente cadere anche su di sé, attenuati soltanto da una consapevolezza maggiore che sommerge l’uomo negli abissi di un’esistenza ingiustificabile. Il romanzo si conclude senza soluzione, o meglio con un’unica e provvisoria possibilità di salvezza nell’orizzonte dell’angoscia dell’uomo al cospetto del terrore per l’esistenza: giustificarsi ed accettarsi «al passato, soltanto al passato»15; proprio quella limitata consolazione di cui già Antoine intravide il potere tr. it. a cura di B. Lanati, Il diario di Eva, Feltrinelli, Milano 2006. [14] J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 177. [15] Ivi, p. 238. 21 salvifico: vivere o raccontare, vivere o scrivere. Scegliendo la seconda possibilità diventa realizzabile una contemplazione distaccata della propria vita, ma solo di quella passata, compiuta, non più esistente. L’esistenza in atto non permette alcuna interferenza, la Nausea domina. Ascoltando la solita canzone Antoine immagina la sofferenza del compositore trovandola commovente, lo invidia perché sa che nessuno penserà mai ad Antoine Roquentin come egli pensa all’ebreo che ha scritto Some of these days e alla “negra” che la canta. Sente «qualcosa che [lo] sfiora timidamente e non os[a] nemmeno muoversi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscev[a] più: una specie di gioia»16. Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo romanzo […] e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza.17 2. Condannati a morte. I racconti de Il muro (Le mur, 1939), seconda fatica narrativa di Sarte, riecheggiano e approfondiscono alcune tematiche già sviluppate ne La nausea, introducendo però nuovi elementi che contribuiranno all’evoluzione del pensiero sartriano. Il sentimento della Nausea, che da germe infetto prende le sembianze dell’esistenza al cospetto dell’uomo, viene affrontato qui attraverso gli occhi di un condannato a morte – metafora della vita umana che non può sfuggire all’annullamento. Pablo Ibbieta, protagonista del racconto che dà il nome alla raccolta, è prigioniero durante la guerra civile spagnola ed è più vicino alla morte di quanto avrebbe mai potuto immaginare: ha “scoperto” che deve morire, e questa scoperta lascia il segno. [16] Ivi, p. 237. [17] Ivi, p. 238. 22 Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente: qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduto l’illusione di essere eterni.18 È l’ennesimo trionfo dell’Assurdo, dell’impossibilità di smarcarsi dal paradosso della vita che ci tiene attaccati a sé prospettandoci il nulla. Sembra quasi che Pablo, col suo rassegnarsi, abbia subìto un’involuzione rispetto ad Antoine e alla sua precaria via di salvezza; è da dire, però, che quest’ultimo non aveva annusato il profumo della morte della carne, quella reale, non raccontata o immaginata. Perché continuare a vivere se la morte è un dovere? Quando la coscienza raggiunge il suo apice, l’inizio del cerchio da cui era partita, perché fingere ancora a se stessi nel recitare una commedia mal scritta? Pablo è saturo di sé, anch’egli ha scoperto la Nausea, quella sottile pellicola che riveste la realtà. L’uomo è imprigionato nella sua esistenza e vive come fosse eterno, la coscienza dell’incombere della fine paralizza – l’uomo è come un prigioniero sbattuto al muro e puntato dai fucili di un plotone d’esecuzione – provocando ancora una volta «una specie di nausea», ora però molto più asfissiante. Pablo è più lucido di Antoine: non cerca nemmeno di fuggire al suo destino, anzi, gli va incontro “sacrificandosi”. Il racconto lo vedrà vincitore per mera fortuna e si chiuderà col suo riso apotropaico. Ma non c’è salvezza, non c’è soluzione. C’è una vita che scorre; vediamo che ne possiamo farne. Il muro è anche il simbolo dell’incomunicabilità, delle diversità insormontabili, dell’impossibilità di veder oltre, di capire. Lucien in Infanzia di un capo (L’enfance d’un chef) ammette di aver perso il proprio tempo a rimpiangere d’esser nato per non esser riuscito a liberarsi dall’impaccio che la vita gli procura quotidianamente, ma soprattutto per l’incapacità di darsi conto [18] J.-P. Sartre, Le mur, in Le mur, Gallimard, Paris, 1939; tr. it. Il muro, in Il muro, Einaudi, Torino 2003, cit., p. 24. 23 del perché dell’esistenza, «questo dono voluminoso e inutile»19. Tom ne Il muro paragona agli incubi il tentativo dell’uomo di darsi ragione: Si vuole pensare a qualche cosa, tutto il tempo si ha l’impressione di esserci arrivati, di star per capire e poi ecco che tutto scivola via, che ti sfugge e ricade. Mi dico: dopo non ci sarà più nulla. Ma non capisco cosa vuol dire.20 Paul Hilbert, protagonista di Erostrato (Erostrate), crede invece di esorcizzare la paura dell’esistenza aizzando la sua volontà di potenza contro gli altri, ma l’assassinio non ottiene gli effetti sperati. Non cambia niente, la paura e la Nausea ci sono ancora. Paul è un misantropo, sogna d’essere anarchico e attentare alla vita dello Zar, si domanda ironicamente perché ha il desiderio d’uccidere «gente che è già morta»21 – quegli stessi porcaccioni di cui parla Antoine: di troppo senza coraggio d’ammetterlo. Sì perché «gli uomini, bisogna vederli dall’alto»22, dice Paul, onnipotente, dal balcone del sesto piano: Non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a ridere: dov’era andato a finire quel famoso “portamento eretto” di cui andavano così orgogliosi: erano spiccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo rampanti uscivano da sotto le loro spalle.23 *** [19] J.-P. Sartre, L’enfance d’un chef, in Le mur; tr. it. Infanzia di un capo, in Il muro, cit., p. 182. [20] J.-P. Sartre, Il muro, in Il muro, cit., p. 18. [21] J.-P. Sartre, Erostrate, in Le mur; tr. it. Erostrato, in Il muro, cit., p. 82. [22] Ivi, p. 67. [23] Ibidem. 24 Per Sartre, lo si è detto, non v’è salvezza. È forse per questo che scrisse romanzi, così che il tempo non gli fu soltanto struggersi dell’esistenza, ma anche e soprattutto consolazione dell’amarezza della finitudine. Egli fu maestro nel narrar la diagnosi senza terapia del disinganno che abita l’uomo contemporaneo, quello più ardito, colui che coltivò la coscienza, forse per sbaglio, e ci trovò dentro il vuoto, un ammasso di niente. Al di là del nauseante viver quotidiano, per Sartre, come miraggio, c’è solo il raggiungimento dell’Età della ragione, il momento in cui l’uomo capisce d’esser condannato alla libertà; libero di scegliere e schiavo nella scelta. Il suo impegno letterario approderà a questi lidi, ma a una condizione: non far rimarginare le ferite. 25 IMP ELAGAT O 1. Condannati ad essere liberi. La nausea (1938) e Il muro (1939) – prime esperienze narrative di Jean-Paul Sartre – rappresentano la fase primitiva del cammino personale e romanzesco che condurrà lo scrittore parigino all’engagement (impegno) letterario, il momento d’incubazione del pensiero circa il ruolo (nella sua vita e nel mondo) di filosofia e letteratura. Con la conferenza L’esistenzialismo è un umanismo (L’existentialisme est un humanisme) del ’45 – che potremmo considerare come il compendio della summa filosofica L’essere e il nulla (L’être et le néant) di due anni precedente – e Che cos’è la letteratura? (Qu’est-ce que la littérature?) del ’47 – che riprende tematiche già abbozzate nella Presentazione di “Temps Modernes”24 (Présentation des “Temps Modernes”) –, Sartre arriverà a teorizzare l’impegno a cui dedicherà entrambe. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale maturarono in lui le esigenze della riflessione filosofica e motivarono gli orientamenti acquisiti; la coscienza della responsabilità di scrittore – «l’occupazione [24] Les Tempes Modernes (Tempi moderni) è una delle più importanti riviste francesi a sfondo politico, filosofico e letterario. Il comitato direttivo fu fondato nel 1944 ed era composto da Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan e JeanPaul Sartre. 26 [gli] ha insegnato la [sua]»25 – è così apparsa sempre più chiara e ineludibile. Sartre spezza lance, imperterrito, in favore dell’esistenzialismo ateo, ingiustamente accusato, a suo dire, d’esser «venuto meno alla solidarietà umana»26 e d’aver gettato l’uomo in un «quietismo di disperazione»27 diffondendo un pessimismo dostoevskijano privo di valori. Ma questa è solo un’istantanea, per altro distorta dai detrattori, dell’esistenzialismo filosofico. Sartre, al contrario, sostiene l’ottimismo di quest’ultimo indotto dalla “riscoperta della scelta”: l’inconsistenza di valori universali e la mancanza di un senso intrinseco all’esistenza non danno forse all’uomo la possibilità di definirsi egli stesso? di scegliersi come vorrebbe? Se Dio non esiste […] c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo […]. L’uomo […] non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca.28 Da qui nasce tutto: l’uomo deve farsi da sé, realizzarsi in un progetto costruitosi liberamente – perché «l’uomo è liberta, […] è condannato a essere libero»29. La possibilità di scelta – questa condanna di libertà – presuppone la completa responsabilità dell’uomo nei confronti di se stesso e gli altri: [25] J.-P. Sartre, Presentazione di “Temps Modernes”, in Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano 2009, cit., p. 125. [26] J.-P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; tr. .it. L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1990, cit., p. 41. [27] Ibidem. [28] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1990, cit. pp. 49-50. [29] ����������� Ivi, p. 63. 27 Non c’è uno solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere […] La nostra responsabilità […] coinvolge l’umanità intera.30 Tali affermazioni conducono a un ridimensionamento dell’idea di esistenza: l’uomo conscio del suo “peso” non può agir male, anzi, a fortiori, sapendo che ogni suo gesto coinvolge tutti, agirà bene per realizzarsi nel mondo come ha progettato d’essere. Di qui anche l’impegno: il vivere stesso è impegno, scegliere è impegno che non può esser mancato, poiché anche il non scegliere è una presa di posizione. Si ha piena responsabilità di noi stessi; tutto ciò che facciamo può ricaderci addosso. Partendo da questi presupposti filosofici risulta naturale, per Sartre, anche l’adesione della letteratura all’engagement. Scrivere non è atto neutro, presuppone la libertà di un uomo che nel suo agire modifica il mondo: «lo scrittore ha scelto di svelare il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità»31. La coscienza di ciò rende possibile la trasmissione di idee che portino al miglioramento della condizione umana (non potendo più parlare di “natura”) e della convivenza pacifica, giacché parlare e scrivere è svelare e svelare è cambiare: «non si può svelare se non progettando di cambiare»32. Ma non bisogna confondere l’engagement sartriano con la militanza politica: lo scrittore, seppur attivo politicamente, non deve ostentare il suo esser iscritto al partito – se lo fosse – o far opera di proselitismo; il suo intimo appello dev’essere rivolto all’uomo in quanto libertà, in quanto [30] ��������������� Ivi, pp. 53-54. [31] �������������� J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature?, in Situations II, Gallimard, Paris 1948; tr. it. Che cos’è la letteratura?, in Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano 2009, (pp. 11-121), cit., p. 23. [32] Ibidem. 28 coscienza libera di accoglierlo e scegliere autonomamente il da farsi. La letteratura, la filosofia, l’arte, le parole, sono mezzi per trasformare il mondo; Sartre le utilizzerà come strumento per veicolare il suo appello di cambiamento all’umanità. 2. «A che serve la libertà se non per impegnarsi?». Prodotto di tal impegno sarà la tetralogia romanzesca I cammini della libertà (Les chemins de la liberté), sebbene soltanto tre romanzi su quattro videro la luce; del primo, l’omonimo I cammini della libertà Sartre compose solo una parte. Ma ci restano tre opere fondamentali: L’età della ragione (L’âge de raison), Il rinvio (Le sursis) e La morte nell’anima (La mort dans l’âme). Dopo la rivelazione deflagrante della Nausea tocca progettare una ricostruzione. Ed è proprio grazie a questa, la Nausea, che l’uomo comprende il suo ruolo, il diritto e dovere di crearsi un progetto personale d’esistenza. L’età della ragione, già dal titolo, esemplifica il passaggio sartriano dalla Nausea all’impegno, dall’“età adolescenziale”, in cui emerge lo scontro con la gratuità della vita, all’età, appunto, della ragione, la quale pretende dall’uomo una presa in carico della responsabilità derivante dall’esistere. Questo romanzo, pubblicato nel ’45 ma iniziato nel ’39, documenta perfettamente la maturazione del suo autore impegnato in quegli anni nella resistenza: Mathieu Delarue è un trentaquattrenne professore di filosofia (i personaggi sartriani sono spesso esplicitamente alter ego dell’autore) costretto a rendersi conto del valore della vita quasi suo malgrado, a causa di avvenimenti imprevisti che gli sconvolgono la quotidianità. La ragazza che frequenta da anni, di cui si sta disinnamorando, gli comunica che aspetta un figlio da lui, avvenimento che avevano sempre cercato d’evitare; la ricerca dei cinquemila franchi per farla abortire trascinerà Mathieu anche al furto, e l’incapacità di scegliere se, invece 29 che perdere il bambino, sposare Marcelle, oppure lasciarla definitivamente, lo condurrà alla stasi, al dover rassegnarsi e vedere gli altri decidere per lui: sarà Daniel a chiedere la mano di Marcelle e convincerla a tenere il bambino. Quello di Mathieu è un riconoscimento amaro della sua libertà, del suo fallimento come uomo proprio perché incapace di darsi una forma, di scegliersi. Le conseguenze della libertà si affacciano alla sua coscienza assumendo lentamente le fattezze dell’esistenza; all’inizio dell’opera ha ancora un’idea “adolescenziale” – come l’abbiamo intesa qui – di libertà, non ancora approdata all’età adulta: “Io vorrei dipendere solo da me stesso” “Sì. Essere libero. Totalmente libero. È il tuo vizio.”33 Mathieu ancora non sa della sua responsabilità, del valore delle sue scelte. Vorrebbe liberarsi anche se non sa da cosa, probabilmente dal peso di una relazione ormai soffocante. Ma anche quando alla fine del romanzo si ritroverà “libero”, o meglio liberato, si accorgerà del suo desiderio effimero e astratto: “Resto solo”. Solo ma non più libero di prima. […] “Nessuno ha ostacolato la mia libertà, ma è stata la mia vita a berla.”34 Il suo è un lungo processo che dalla confusione approda alla lucidità. Non è la solitudine, il bastare a se stessi, la libertà; non è far tutto quel che si vuole quando lo si vuole35, ma progettarsi [33] �������������� J.-P. Sartre, L’âge de raison, Gallimard, Paris 1945; tr. it. L’età della ragione, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 13. [34] Ivi, p. 349. [35] Ne La mort dans l’âme Mathieu ripensa ad alcune vicende del suo passato (narrate ne L’età della ragione) ricredendosi su ciò che prima intendeva per libertà: «Egli prese un coltello sulla tavola, Ivich sanguinava, egli si in30 responsabilmente soppesando azioni e conseguenze. È una condizione esistenziale che rende possibile la vita così com’è. Così l’amico Daniel sprona Mathieu: «eccoti una magnifica occasione di fare un atto di libertà, […] sposare Marcelle», ma Mathieu sembra non capire. «Non hai che da dire una parola e cambi tutta la tua esistenza»36. L’impegno gli appare come una rassegnazione37. E ancora Jacques, il fratello: “Il bambino che nascerà è il logico risultato di una situazione in cui volontariamente ti sei messo, e tu vuoi sopprimerlo perché non vuoi accettare tutte le conseguenze dei tuoi atti. […] Tutta la tua esistenza è costruita sopra una menzogna. […] Io credevo […] che la libertà consistesse nel guardare in faccia le situazioni in cui uno s’è cacciato di sua piena volontà e nell’accettare ogni responsabilità.”38 Un primo e timido approccio a questa ridimensionata idea di libertà assale Mathieu a una mostra di Gauguin: “I quadri non afferrano” […] “ma si propongono; dipende da me che essi esistano o no, io sono libero di fronte a loro”. Troppo libero; ciò gli creava una responsabilità supplementare, si sentiva colpevole.39 ferse un colpo nel palmo, gesti, gesti,piccole distruzioni, che cosa significano, io ho creduto che questa fosse la libertà». La mort dans l’âme, Gallimard, Paris 1949; tr. it. La morte nell’anima, Mondadori, Milano 2009, cit., p. 158. «Tagliarsi la mano con una coltellata, buttar via la fede nuziale, sparacchiare sui Fridolins: e poi? Spaccare, rovinare, non era una soluzione; un colpo di testa non significa la libertà». Ivi, p. 180. [36] J.-P. Sartre, L’età della ragione, cit., p. 109. [37] Ivi, p. 122. [38] Ivi, pp. 119, 121. [39] Ivi, p. 80. 31 La colpevolezza è una delle forme della responsabilità, e, come questa, è impossibile da scacciare, a meno che l’uomo non voglia tornare a vivere da porcaccione o adolescente. Altro episodio fondamentale è quello che vede il vecchio amico Brunet tentar di convincere Mathieu ad iscriversi al partito comunista: infondo «a che serve la libertà se non per impegnarsi?»40. Mathieu realizza che Brunet «è più libero di [lui]: è d’accordo con se stesso e d’accordo col partito»41. D’altronde egli non crede nel partito e non sarebbe giusto aderirvi, ma ciò non impedisce ai suoi occhi d’ammirare in Brunet un uomo «pieno di realtà, con un vero sapore di tabacco in bocca»42; in altri termini: un uomo libero. Libero perché consapevole della portata delle sue scelte, libero perché si è scelto come uomo e come destino43. Finalmente Mathieu sembra capire: “Sono un irresponsabile.” […] “Sono anni che sono libero per nulla. Crepo dalla voglia di barattarla [la libertà] una volta per sempre con una certezza.” […] “Ho condotto una vita sdentata, […] non ho mai morso, aspettavo, mi conservavo per più tardi – e ora mi accorgo che non ho più denti.”44 Ciononostante, quest’apparente presa di coscienza non gli consente d’agire, di prendere in mano la propria vita. Mathieu rimane immobile, ancora nauseato. La sua consapevolezza non è piena: la libertà non va “barattata”, è la condizione dell’esistenza, è l’esistenza stessa. Le certezze, se si può parlare di certezze in una vita segnata dalla contingenza, vanno costruite liberamente. Mathieu non riesce a procurarsi i cinquemila franchi, arriverà a rubarli (e restituirli). Ma che fare? Sposare Marcelle? Lasciarla? [40] Ivi, p. 134. [41] Ivi, p. 136. [42] Ibidem. [43] Ibidem. [44] J.-P. Sartre, L’età della ragione, cit., pp. 137-138, 215. 32 Continuare questa vita come se nulla fosse? Cosa consiglia la sua libertà? Egli era libero, libero di tutto, libero di fare l’animale o la macchina, libero di accettare, libero di rifiutare, libero di tergiversare; sposare, piantare, trascinarsi per anni quella palla al piede; poteva fare quel che voleva, nessuno aveva il diritto di consigliarlo, vi sarebbero stati per lui il Bene e il Male solo se li avesse inventati.45 Ora è chiaro. Mathieu sa d’esser libero – «condannato a decidere senza possibilità di appello, condannato per sempre ad essere libero»46, – e sa cosa comporta. Ma non sceglierà, conscio che anche questa è una scelta; o meglio, si tormenterà nelle contraddizioni: prima lasciando Marcelle per poi rendersi conto d’averlo fatto «‘per niente’»47. Troppo tardi, Daniel deciderà per lui: Marcelle ha accettato di sposarlo e abbandonare l’idea dell’aborto. L’approdo all’età della ragione non è indolore, sa di fallimento, ma è anche una conquista che permette a Mathieu di «gustare, minuto per minuto, da conoscitore, [la sua] esistenza fallita»48. Sartre ha lanciato il suo appello: «non vi è determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà»49 e anche il fallimento è un suo progetto. In verità a Mathieu sarà concessa un’altra possibilità; infatti, «ciò che […] inoltre e più profondamente separa [Antoine da Mathieu], – ci dice Maurice Blanchot – è che questa rivelazione [la Nausea per il primo e la Libertà per il secondo] non è un nuovo inizio per Roquntin, ma dev’esserlo per Mathieu»50. [45] Ivi, p. 281. [46] Ibidem. [47] Ivi, p. 348. [48] Ivi, p. 350. [49] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 63. [50] ������������� M. Blanchot, Les romans de Sartre, in La part du feu, Gallimard, Paris 33 3. Scegliersi. Le parabole esistenziali dei personaggi conosciuti ne L’età della ragione continuano dunque il loro percorso, con la figura di Mathieu ancora in primo piano, nei due romanzi che completano il ciclo I cammini della libertà: Il rinvio e La morte nell’anima. Ne Il rinvio fa l’ingresso la sconvolgente minaccia della guerra a preannunciare un «immenso cataclisma comune»51; è qui che Sartre inizia a trasporre in narrazione la sua idea di libertà nella sua reale portata, nel dipingere un destino collettivo dell’umanità, nell’intrecciare le responsabilità reciproche degli uomini affetti e complici della sventura imminente. Ma è La morte nell’anima, nel quale la guerra è ormai realtà, che rappresenta il culmine della maturazione sartriana. Uscito nel ’49, testimonia i terribili momenti dell’occupazione nazista in Francia: Mathieu è al fronte, non si trova affatto bene nei panni di soldato, e sa che la guerra è anche suo prodotto, conseguenza delle sue azioni: siamo tutti coinvolti, tutti responsabili. Ma Pinette, suo compagno di sventure, non la pensa in questo modo: “Perché mi ci hanno preso dentro, proprio io? Dov’è la mia colpa? Credi forse che siano venuti a chiedere il mio parere?” / Mathieu alzò le spalle: / “È da quindici anni che la sentiamo arrivare [la guerra]. Bisognava pensarci a tempo, o per evitarla o per vincerla.” / “Io non sono mica un deputato.” / “Ma hai votato.” / […] Mathieu sorrise: / “Neanch’io votavo.”52 1949, (pp. 195-211), p. 203 (traduzione mia). [51] Ivi, p. 209. [52] J.-P. Sartre, La morte nell’anima, cit., p. 85. 34 Qui può leggersi un’autocritica di Sartre che, come egli stesso ammise, prima del ‘39 non votava53 – mantenendo ideali pseudoanarchici e individualistici senza tuttavia capirne la portata. Pinette è il Mathieu-Jean-Paul dell’“età dell’adolescenza”, l’uomo non ancora cosciente delle implicazioni dell’agire individuale nel vivere comune. L’uomo, una volta arrivato all’“età della ragione”, edotto sul suo “ruolo”, non potrà crogiolarsi nel quietismo, ma «sarà senza illusioni e […] farà ciò che potrà»54. Non è possibile rimanere immobili soltanto perché al singolo “cambiare il mondo” sembra impossibile: se tutti si illuminassero su ciò le cose cambierebbero. Nel frattempo il dovere e l’impegno si rifugiano nella sensibilizzazione degli animi “ignoranti”. L’avventura di Mathieu avrà un epilogo ambiguo: un’«immensa rivincita» personale, per il fallimento di uomo, per la sua ignavia, e contemporaneamente l’affermazione di una libertà pura, che prenderà la forma anche d’una liberazione – prefigurazione della liberazione dal nazismo –; un atto in cui Mathieu impegna la sua esistenza intera, senza remore, liberandosi da essa, ma allo stesso tempo impregnando l’aria del suo atto. Mathieu va incontro alla morte – come Pablo ne Il muro – e non ha paura. Ha scelto: Ho deciso che la morte era il senso segreto della mia vita, che ho vissuto per morire; muoio per dimostrare che è impossibile vivere; i miei occhi spegneranno il mondo, ne salderanno in conto per sempre.55 [53] «Durante l’intero anteguerra non ho avuto opinioni politiche e, beninteso, non ho votato». Cit. di Autoritratto a settant’anni (1975) tratta dall’introduzione a La nausea, Einaudi, Torino 2005. [54] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 76. [55] J.-P. Sartre, La morte nell’anima, cit., p. 205. 35 Mathieu si sceglie come uomo, finalmente. Diventa eroe, martire della resistenza. Non è chiaro se abbracci coraggio o ignavia, tuttavia la sua scelta non potrebbe essere più definitiva. Muore consacrandosi alla libertà che perderà per sempre. Spara contro i nazisti, assieme ai suoi compagni, resistendo per quindici interminabili minuti: il tempo necessario per morire soddisfatto. Tuttavia – come evidenziato sopra – questo finale si muove all’interno d’una nube di pessimismo e ambiguità: per Mathieu «è impossibile vivere». E perché? È la guerra? È ancora la Nausea? «Sparava sull’uomo, sulla Virtù, sul Mondo: la Libertà è Terrore»56. Era l’unica via d’uscita? L’angoscia può davvero essere il “motore” dell’azione? L’uomo può bastare a se stesso? Si può continuare a vivere conciliando angoscia e impegno? Non sarà certo un romanzo a dircelo, e questo Sartre lo sa. Le risposte a queste domande spettano alle nostre coscienze. Merito di Sartre è quello di avercele proposte. [56] Ivi, p. 228. 36 V ITA DI JEAN-PAUL SART RE Jean-Paul Sartre nacque a Parigi il 21 giugno 1905. Fu romanziere, filosofo, drammaturgo, critico letterario, giornalista. Per la sua attività intellettuale nel 1964 fu insignito del Premio Nobel che però rifiutò sostenendo l’impossibilità di dare un giudizio definitivo su uno scrittore ancora in vita. Nel ‘29, all’École Normale Supérieure di Parigi, incontra colei che gli resterà sempre accanto: Simone de Beauvoir, la quale racconta il loro rapporto in alcune opere come Memorie d’una ragazza per bene (Mémories d’une jeune fille rangée, 1958). Dal ‘31 al ‘45 insegnò filosofia nei licei di Le Havre, Laon e Parigi. Nel ‘33-‘34 vinse una borsa di studio all’Istituto francese di Berlino dove venne a contatto con la filosofia tedesca (Husserl in particolare). Nel ‘39 venne chiamato alle armi e fatto prigioniero dai tedeschi, poi liberato nel ’41: è in questi difficili anni che matura la necessità dell’engagement (impegno) letterario. Tornato in Francia partecipò alla Resistenza (era già iscritto al Partito Comunista Francese) e fondò con altri intellettuali francesi la rivista a carattere politico, sociale e culturale Les Temps Modernes, diventando così uno dei più importanti punti di riferimento culturali della Francia del Novecento. Muore a Parigi il 15 aprile 1980. 37 Opere principali Romanzi e racconti La nausea (La nausée), 1938. Il muro (Le mur), 1939. L’età della ragione (L’âge de raison), 1945. Il rinvio (Le sursis), 1945. La morte nell’anima (La mort dans l’âme), 1949. Filosofia L’essere e il nulla (L’être et le néant), “saggio di ontologia fenomenologica”, 1943. L’esistenzialismo è un umanismo (L’existentialisme est un humanisme), 1945. Critica della ragione dialettica I: Teoria degli insiemi pratici preceduto da Questione di metodo (Critique de la raison dialectique), 1960. Critica della ragione dialettica II: L’intelligibilità della storia, 1985. Critica letteraria Che cos’è la letteratura? (Qu’est-ce que la littérature ?), 1948. Teatro Le mosche (Les mouches), 1943. A porte chiuse (Huis clos), 1944. Morti senza tomba (Morts sans sépulture), 1946. Le mani sporche (Les mains sales), 1948. Il Diavolo e il buon Dio (Le Diable et le bon Dieu), 1951. I sequestrati di Altona (Les séquestrés d’Altona), 1959. Autobiografia Le parole (Les mots), 1964. 38 Trame dei romanzi citati La nausea, 1938. Antoine Roquentin è uno storico che vive da tre anni a Bouville per condurre delle ricerche sul marchese di Rollebon (un libertino del Settecento). Tra le ore passate in biblioteca, il ricordo dell’ex-fidanzata Anny e l’osservazione della piccola borghesia provinciale, tiene un diario filosofico nel quale si confessa (è questa la forma del romanzo: un diario). Ed è qui che racconta il sentimento di nausea – l’insopportabile peso di un’esistenza gratuita – che lo ossessiona. Gli unici momenti degni di essere vissuti diventano i “momenti perfetti”, gli istanti vissuti senza bisogno d’essere analizzati. Ma dura poco, nemmeno questo riesce a giustificare un’esistenza così ingombrante. Tuttavia, ascoltando la solita canzone jazz al solito Ritrovo dei ferrovieri, Antoine crede di aver trovato la soluzione: scrivere un romanzo. Questo sì, potrebbe dare un senso all’esistenza: così magari qualcuno, un giorno, avrebbe potuto leggerlo e pensare a lui. Avrebbe così vissuto per qualcosa e per qualcuno, riuscendo forse ad accettarsi, anche se soltanto “al passato”. Il muro, 1939. 1) Il muro. Durante la guerra civile spagnola (1936-1939), quando i Nazionalisti spagnoli di Franco entrarono a Madrid sconfiggendo i difensori della Repubblica, Pablo Ibbieta, prigioniero, viene condotto insieme ad altri due uomini in una cella dove viene loro comunicata la fucilazione prevista per l’alba – il titolo del racconto è infatti (anche) un riferimento al muro davanti al quale si schierano i condannati a morte. La notte di attesa è tremenda. Senonché viene concesso a Pablo di salvarsi in cambio di alcune informazioni riguardo alla posizione del suo più influente compagno Ramòn Gris. Dapprima Paul si rifiuterà di collaborare per poi fornire informazioni false nel tentativo di sviare i nemici. Ironia della sorte: le indicazioni di Paul corrispondono alla realtà. Gris viene ucciso e Paul ha salva la vita, almeno per il momento. 39 2) La camera. Eve, la moglie di un uomo divenuto folle, viene spronata dai parenti ad “abbandonare” il marito in un manicomio, ma non ha il coraggio di decidere il da farsi nella speranza che l’amato riacquisti il senno. Sembra quasi desiderare di diventare folle come il marito, separandosi così da una realtà ormai estranea. 3) Erostrato. Paul Hilbert è un misantropo. Il suo odio lo porta ad uccidere sei persone a caso, una per ogni pallottola della sua pistola. Si sente onnipotente e proprio come Erostrato, il pastore greco che nel 356 a. C. bruciò il tempio di Artemide in Efeso per rimanere impresso nella storia, decide di raggiungere la fama attraverso un gesto eclatante. 4) Intimità. Lulù ha un marito impotente, Henry, il che la fa sognare, evadere dal reale, fantasticare su viaggi sensuali con Pierre. Rimarrà incagliata nella contraddizione tra l’amore carnale, Pierre, e la “purezza” di Henry, dimenticandosi però di come stanno realmente le cose. 5) Infanzia di un capo. Lucien Fleurier, figlio di un ricco industriale, è alla ricerca della sua identità e di un significato da dare alla sua esistenza. In una sorta di romanzo di formazione Lucien passerà dal cedere alle lusinghe di un poeta pedofilo fino a macchiarsi dell’assassino di un ebreo assieme ai suoi amici coinvolti in un’organizzazione fascista. I cammini della libertà. L’età della ragione, 1945. Mathieu Delarue è un trentaquattrenne professore di filosofia costretto a rendersi conto del valore della vita quasi suo malgrado, a causa di avvenimenti imprevisti che gli sconvolgono la quotidianità. La ragazza che frequenta da anni, di cui si sta disinnamorando, gli comunica che aspetta un figlio da lui, avvenimento che avevano sempre cercato d’evitare; 40 la ricerca dei cinquemila franchi per farla abortire trascinerà Mathieu anche al furto (poi rinnegato cercando di restituire i soldi rubati), e l’incapacità di scegliere se, invece che perdere il bambino, sposare Marcelle, oppure lasciarla definitivamente, lo condurrà alla stasi, al dover rassegnarsi e vedere gli altri decidere per lui: sarà Daniel a chiedere la mano di Marcelle e convincerla a tenere il bambino. Quello di Mathieu è un riconoscimento amaro della sua libertà, del suo fallimento come uomo proprio perché incapace di darsi una forma, di scegliersi. Il rinvio, 1947. Due mesi dopo l’epilogo degli avvenimenti de L’età della ragione, Mathieu si ritrova in quella drammatica settimana (dal 23 al 30 settembre 1938) che si conclude con gli Accordi di Monaco. Il titolo rimanda al rinvio della guerra di un anno che questi accordi sanciscono. La prospettiva è qui allargata rispetto al precedente romanzo: dal microcosmo interiore di pochi personaggi alla percezione globale di una minaccia che coinvolge tutti. La morte nell’anima, 1949. I nazisti hanno occupato Parigi e Mathieu è al fronte. Non si trova affatto bene nei panni di soldato, e sa che la guerra è anche suo prodotto, conseguenza delle sue azioni: siamo tutti coinvolti, tutti responsabili. A pochi giorni dall’armistizio Mathieu si sceglie come uomo, finalmente. Diventa eroe, martire della Resistenza. Muore consacrandosi alla libertà che perderà per sempre. Spara contro i nazisti, assieme ai suoi compagni, resistendo per quindici interminabili minuti: il tempo necessario per morire soddisfatto. 41 SECONDO CAPITOLO. ALBERT CAMUS C’È UN LIMIT E A T UT TO? Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai! Genesi, 3, 19. 1. Sisifo57 in rivolta. Un mondo che possa essere spiegato, se pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra [57] «Sisifo pure vidi, che pene atroci soffriva; / una rupe gigante reggendo con entrambe le braccia. / E puntellandosi con le mani e coi piedi, / la rupe in su spingeva, sul colle: ma quando già stava / per superare la cima, allora lo travolgeva una forza violenta, / di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe maligna. / E lui a spingere ancora tenendosi: scorreva il sudore / colando giù dalle membra; intorno al capo saliva la polvere». Omero, Odissea, XI, vv. 593-599. Sisifo, personaggio della mitologia greca, leggendario fondatore e primo re di Corinto, per aver osato sfidare gli dèi viene costretto da Zeus a far rotolare un masso su per un altissima rupe, ma nel momento in cui avrebbe raggiunto la cima, il masso sarebbe rotolato giù, cosicché Sisifo avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo, in eterno. Camus chiamò il suo primo trattato filosofico (anche se egli non si definiva filosofo) Il mito di Sisifo (1942) utilizzando questo personaggio quale simbolo dell’assurdità della vita. 42 promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo.58 Nasce da qui, per Albert Camus, ogni considerazione sull’uomo degna d’ascolto, da queste parole de Il mito di Sisifo (Le mythe de Sisyphe, 1942). Il confronto tra la disarmante irrazionalità del mondo e il nostro ossessivo desiderio di chiarezza alimenta in noi il sentimento dell’assurdo. Inizieremo così a scorgere l’assurdo ovunque e svincolarci dalle nostre convinzioni metafisiche per cogliere la crudezza di una situazione insolvibile. «Un uomo divenuto cosciente dell’assurdo, è legato a questo per sempre. Un uomo senza speranza, e cosciente di esserlo, non appartiene più all’avvenire»59. Ed è sufficiente quest’ultima frase – che si potrebbe eleggere a manifesto del primo Camus – per distogliere lo scrittore da qualsiasi ideologia razionale o teleologica.60 Eppure qualcosa che ci innalzi e che ci renda resistenti al tremendo confronto, a questo divorzio, deve pur esserci se [58] A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 9. [59] Ivi, p. 32. [60] Nel 1934 Camus, ancora in Algeria, dette la sua adesione al Par- tito Comunista, il quale lo destinò alla campagna tra gli arabi; e fu a contatto con questo mondo che Camus cominciò a convincersi della necessità d’un cambiamento. Non è chiaro se in seguito agli accordi presi tra il primo ministro francese Pierre Laval e Stalin o ai successivi incidenti fra lo stesso PC e il Partito del Popolo Algerino di Messali Hadj, ma Camus, già tra il ’35 e il ’37, prese le distanze dal partito: da questo momento in poi egli attuerà attraverso i suoi scritti una feroce critica del marxismo inteso come filosofia della storia. L’impegno camusiano, dunque, sorpassato il breve sodalizio con gli ideali socialisti, sarà impegnato a dimostrar le cause dell’impossibilità di un’adesione al comunismo decostruendo dall’interno le sue fondamenta concettuali: lo storicismo hegelo-marxista (vedi L’homme révolté, Gallimard, Paris 1951; tr. it. L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1994). 43 non ci si vuole inabissare in quel dolce crogiolarsi quotidiano dell’unico «problema filosofico veramente serio: quello del suicidio»61. Lungi dalle evasioni proposte dell’esistenzialismo, meri suicidi filosofici, offerte d’evasione, Camus arriverà all’accettazione della vita così com’è rifiutando il suicidio (fisico) e proclamando la rivolta dell’uomo in una perpetua tensione tra il suo grido e il silenzio del mondo. Già Il mito di Sisifo preannuncia il tema della rivolta – «una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità»62 –, che però sarà sviluppato appieno da Camus soltanto ne L’uomo in rivolta (L’homme révolté, 1951). La rivolta è un no all’assurdità della vita e contemporaneamente un sì al senso di positività, di bene, di giustizia col quale l’uomo accetta l’esistenza, la sua finitudine. È qualcosa di ben diverso dalla rivoluzione, movimento con cui l’uomo Camus dovette far i conti in un mondo logorato dalla minaccia d’una terza guerra mondiale. Ogni moto di rivolta dell’uomo è sintomo dell’invocazione di un valore, anche se ciò non significa che ogni valore implichi necessariamente una rivolta, e ogni rivoluzione è una sorta di generatore di disvalori. Essa è la corruzione della rivolta: il rivoluzionario tradisce la rivolta ponendosi come strumento al suo servizio affinché questa non si estingua in un grido. Egli ne pretende la perpetuità, ne forza il moto. Di certo l’opzione per l’una o l’altra – rivolta o rivoluzione – è determinata da quest’efficacia, propria soltanto della seconda. Mentre il gesto del rivoltoso nasce da una difesa della “natura” umana, procedendo dall’esperienza al valore, il rivoluzionario traspone l’idea nella concretezza storica, rinunciando a quegli stessi valori per cui combatte; così facendo, però, la sua rivoluzione non rispetterà la natura umana, giacché mira a edificarne una nuova in un nuovo sviluppo storico. [61] A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 7. [62] Ivi, p. 50. 44 È evidente come un ridimensionamento del concetto di natura abbia contribuito a plasmare il pensiero politico-sociale del filosofo/scrittore: tra uomo e mondo vige una misura, un equilibrio vitale che dev’essere salvaguardato affinché non produca, una volta distorto e manipolato dall’uomo, effetti catastrofici; ma il comunismo (l’ideologia su cui tutti, in questo delicato periodo storico, sono costretti a confrontarsi) è, al contrario, portatore di dismisura: spezza, dimenticandolo, quest’equilibrio originario. La credenza in un assoluto irreale non collima con la nostra situazione concreta, costruita su quella relazione tessuta tra noi ed il mondo; l’attuazione di tali credenze non può che forzare la “natura” umana ad esprimersi in azioni innaturali, contro se stessa. Dunque, foriero d’una vera alienazione degli uomini è, con buona pace di Marx, il comunismo stesso.63 [63] Karl Marx (1818-1883), filosofo tedesco teorizzatore del comunismo, sosteneva che l’uomo contemporaneo è alienato (e praticamente costretto a una condizione di schiavo – con l’unica differenza che era salariato) dal nuovo tipo di lavoro sviluppatosi nelle società industrializzate, dunque il lavoro in fabbrica, e dal relativo sistema produttivo capitalistico che faceva il suo esordio nelle grandi nazione europee dell’Ottocento (Inghilterra e Francia su tutte). L’operaio non vedeva riconosciuto il prodotto del suo lavoro il quale apparteneva al capitalista e non lavorava per soddisfare i suoi bisogni personali, bensì sempre quelli del capitalista. Di qui l’alienazione. L’unico modo per liberare l’uomo da questa condizione sarebbe stata la rivoluzione del proletariato – gli operai – contro la classe dominante – la borghesia. Obiettivo: il comunismo, società in cui sarebbe regnato l’egualitarismo economico, nonché l’assenza di classi dirigenti. Tuttavia, nel momento in cui in Russia si cercò di mettere in pratica la teoria marxiana attraverso la rivoluzione del 1917 guidata da Lenin, l’agognato equilibrio del sistema comunista s’incrinò (in particolare dal 1924 in poi con a capo del Partito comunista Stalin): chi non era d’accordo con le idee della nuova classe dirigente (il proletariato) venne incarcerato e mandato a lavorare nei gulag (campi di concentramento sovietici). Invece che una società di eguali si venne delineando un’ennesima dittatura questa volta – paradossalmente – dell’egualitarismo. Il regime russo si giustificò affermando che per giungere a una società realmente comunista si sarebbe dovuti passare per un periodo intermedio in cui il proletariato avrebbe dovuto prendere il potere e, in sostanza, “educare” (anche attraverso 45 Se il rivoltoso, per affrancare il valore invocato dalla sua intima rivolta, è costretto ad uccidere, con tale atto disintegrerà il valore stesso della solidarietà umana che dava calore alla sua rivolta. Il problema principale, per Camus, è proprio questo: l’uso della violenza in politica. Come fare a giustificare i processi di Mosca degli anni Trenta64? E i campi di concentramento sovietici? Nella storia considerata come assoluto, la violenza si trova legittimata; come rischio elevato, essa costituisce una frattura nella comunicazione. Deve dunque serbare, per l’insorto, il suo carattere di provvisoria effrazione, andar sempre congiunta, se non può evitarsi, a una responsabilità personale, a un rischio immediato.65 Dunque, la violenza dei processi non può trovare alcuna giustificazione: una violenza al servizio di un fine assoluto, quello del marxismo, del quale si ritiene certa la realizzazione, è senza dubbio ordinaria amministrazione, ma se, come afferma Camus, il marxismo non rispecchia la realtà umana e naturale, mantenendosi nell’utopia, la violenza non potrà esser utilizzata per sacrificare gli altri, ma soltanto se stessi «come posta di una lotta per la dignità comune»66: «chi accetta di morire, di pagare vita contro vita, quali che siano le sue negazioni, afferma con la violenza, se necessario) il popolo alla nuova ideologia, che prevedeva l’egualitarismo economico, la statalizzazione di ogni proprietà, l’ateismo, l’assenza di violenza. Ciò che non prevedeva, ed è qui la critica avanzata dai suoi detrattori, era il diritto al dissenso, possibile solo all’interno di un sistema democrazia. La rivoluzione d’Ottobre, invece, si trasformò in un totalitarismo. Ecco perché Camus, riferendosi al marxismo, e soprattutto al comunismo reale, parla di dismisura e alienazione: un uomo che non può pensare con la sua testa è, per forza di cose, un uomo alienato. [64] Tra il 1936 e il 1938 furono giudicati, per una serie di presunti reati antisovietici, membri di spicco del Pcus (Partito Comunista dell’Unione Sovietica). Furono quasi tutti condannati a morte e giustiziati. [65] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 318. [66] Ivi, p. 319. 46 ciò un valore che lo trascende in quanto individuo storico»67. Ma la rivolta deve poggiare sul reale per raggiungere, in un’inevitabile lotta, la verità; si fa «fautrice del vero realismo»68 e non deve cadere nell’utopia delle rivoluzioni del XX secolo che dall’assoluto pretendono riconfigurare il reale. Il valore emerso dalla rivolta si fa portavoce della finitudine cosciente d’una dignità umana che dev’essere preservata e difesa. E così questo valore diverrà misura. Esiste dunque un limite oltre il quale ogni impresa umana si tramuta nel suo contrario. Perciò rivolta e rivoluzione devono essere ognuna limite dell’altra, giacché la rivoluzione ha bisogno, per rifiutare il terrore organizzato e la polizia, di custodire intatto il principio di rivolta che le ha dato origine, come la rivolta stessa necessita di uno sviluppo rivoluzionario per trovare un corpo e una verità.69 Queste le due facce della dialettica rivolta-rivoluzione. È come se Camus affidasse la purezza delle intenzioni alla rivolta e la concretezza di queste, trasformate in fatti, alla rivoluzione. Il problema sta nel saper mantenere intatte le intenzioni nel passaggio tra rivolta e rivoluzione, e quindi nel non oltrepassare il limite oltre al quale le intenzioni verrebbero negate. La rivoluzione, per come è stata interpretata dal comunismo70, oltrepassa il limite e non tiene fede ai suoi ideali iniziali, quelli della rivolta, quelli che vedono l’uomo l’essere supremo per l’uomo, che inneggiano a un egalitarismo totale. Ma attuando la [67] Ivi, p. 192. [68] Ivi, p. 325. [69] ���������� A. Camus, Défense de L’Homme revolté, in Essais, Gallimard, Paris 1965; tr. it. Difesa de “L’Uomo in rivolta”, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 176. [70] Camus spiega come questa contraddizione sia un problema comune a tutte le rivoluzioni compiute dall’uomo. 47 violenza in politica – e i processi di Mosca71 ne sono un chiaro esempio – s’intacca la dignità umana, quella rivendicata dagli ideali della rivolta. Questa contraddizione può rintracciarsi nella dottrina marxista, la quale giustifica la violenza nei casi limite per il raggiungimento dello stadio ultimo della storia.72 Non è possibile, insiste Camus, instaurare il regno della libertà per mezzo della violenza. Non sarebbe possibile nemmeno se quest’ultima fosse necessaria al raggiungimento d’una società dove essa stessa troverebbe la sua fine; il problema, comunque, non sussiste, poiché Camus non può sostenere una filosofia della storia. La storia non segue un corso razionale, non dovrà dispiegarsi in un ultimo stadio idilliaco. Questo è, peraltro, quello che Camus pensava stesse dimostrando il comunismo stesso attraverso il suo fallimento. Ma egli, spesso accusato di non sapersi svincolare da posizioni astratte, cercherà di analizzare anche nel concreto i fatti storici che portarono a questo “sconfitta”. «Alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, il movimento rivoluzionario ha vissuto come i primi cristiani, nell’attesa della fine del mondo e della parusia del Cristo proletario»73. Ma la parusia74 non avvenne mai. Camus individua le cause del fallimento della “profezia” marxista, in primis, nell’infondatezza della sua filosofia della storia, ma [71] Vedi nota 64. [72] Lungi dall’essere una giustificazione di tipo morale, il marxismo ammette l’uso della violenza rivoluzionaria quale unico metodo per sovvertire il potere della classe dominante (la borghesia). Una volta passato il periodo di transizione in cui il proletariato sarebbe dovuto rimanere al potere per consolidare le conquiste della rivoluzione, si sarebbe potuto istituire la nuova società comunista – che corrisponde allo stadio ultimo della storia – nella quale sarebbe scomparso, perché non più necessario, ogni tipo di violenza. [73] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 231. [74] La parusia (che significa “presenza”, intesa in generale come presenza del divino) nella teologia cristiana indica il ritorno di Gesù sulla terra il giorno del Giudizio universale. 48 più concretamente nell’evoluzione economica, non prevista da Marx, del mondo contemporaneo; essa stessa smentisce una serie di postulati del filosofo: «capitale e proletariato sono stati ugualmente infedeli a Marx»75. L’introduzione della società per azioni alterò le dinamiche capitalistiche di fine Ottocento, che invece di accentrarsi, permisero il nascere di una nuova categoria di piccoli proprietari. Intorno alle grandi imprese proliferarono un gran numero di piccole manifatture: «i piccoli industriali formano uno strato sociale intermedio che complica lo schema immaginato da Marx»76. Oltre a tutto ciò Marx ignorò anche il fenomeno nascente del nazionalismo; le barriere non caddero grazie ai commerci e alla stessa proletarizzazione: «la lotta della nazionalità si è rivelata almeno altrettanto importante, per spiegare la storia, della lotta di classe»77. Per di più la classe proletaria non si accrebbe indefinitamente grazie alla produzione industriale che, oltre ad aumentare in misura la classe media, permise l’affrancamento del nuovo strato sociale dei tecnici. La produttività sviluppata in proporzioni smisurate indusse all’inevitabile divisione del lavoro, che il filosofo tedesco pensava potesse evitarsi. La missione cui Marx insignì il proletariato non poté dunque incarnarsi nella storia, giacché la storia stessa dimostrò di non essere quella profetizzata da Marx. Senza il riconoscimento di un limite invalicabile, garante d’una misura, oltre il quale l’atto dimentica le sue radici per tramutarsi nel suo pericoloso opposto, il determinismo comunista, con la sua logica assoluta, andrà avanti a disseminare diseguaglianza e terrore proclamando i valori dell’uguaglianza e della pace. La misura camusiana sarà dunque una misura democratica. L’egualitarismo politico democratico pone il problema dell’uguaglianza totale dei cittadini di fronte allo stato non [75] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 233. [76] Ibidem. [77] Ibidem. 49 eleggendo un egualitarismo economico come meta finale (intento comunista), seppur ritenendo anch’esso fondamentale quale parte integrante dell’egualitarismo “completo”. 2. «La felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo». Il presentimento, materializzatosi in certezza a seguito delle atrocità del XX secolo, della frattura tra uomo e natura (ormai intesa come mero oggetto a nostra infinita disposizione), turba l’animo del franco-algerino; la necessità che lo spinge a dichiarare una “guerra senz’armi” alla società matricida scaturisce dai fatti del suo secolo. Se solo fosse rimasto nella sua povertà, senza badare agli altri, senza preoccuparsi di cosa ci sia fuori, sarebbe rimasto felice come quando «all’infuori del sole, dei baci e dei profumi selvaggi, tutto [gli] sembra[va] futile»78. Ma, una volta cosciente della realtà storica, Camus, tradito dagli uomini istitutori d’un regno antinaturale, avverte l’esigenza di proporre un antidoto al mondo – la natura si esprime sui volti di tutti, ma bisogna ridestarne la coscienza. La conquista della filosofia dello scadere del XIX secolo, l’insegnamento più importante lasciatoci da Friedrich Nietzsche, la “fedeltà alla terra”79 – il non cedere alle lusinghe delle religioni, non credere in una vita dopo la morte a scapito di questa –, fu probabilmente avvertito come l’ennesimo delirio del folle venuto “troppo presto”.80 D’altronde Nietzsche [78] A. Camus, Noces, Gallimard, Paris 1938; tr. it. Nozze, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 4. [79] Nietzsche per bocca di Zarathustra ammonisce: «rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!». F. W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-85), Insel, Frankfurt 2000; tr. it. Così Parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2008, cit., p. 6. [80] Riportiamo qui l’aforisma 125 (L’uomo folle) de La gaia scienza in cui è racchiuso in nuce il fulcro della filosofia nietzscheana: «Avete 50 stesso sapeva della portata catastrofica delle sue affermazioni: sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “E forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo puntò il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì 51 l’uomo contemporaneo non avrebbe voluto sobbarcarsi il peso infame della sua “misera nobiltà”, incredibile responsabilità; necessitava d’un alibi; preferiva guardare il cielo o attendere nella più iniqua servitù la giustizia della fine della storia. Nietzsche, il profeta della terra, ci aveva avvertito del pericolo; grazie a lui non avremmo più dovuto incorrere nella tentazione di camminare con la testa rivolta troppo all’insù o troppo in là rispetto ai nostri piedi. Se la religione esorta l’uomo a cercar di svincolarsi dalla materia corrotta per abbandonarsi alla grazia di Dio, alla speranza, lo storicismo, la filosofia della storia di Hegel e Marx81, sprona a un’ambigua devozione nei confronti – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”». F. W. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, tr. it. di F. Masini, in Opere di F. Nietzsche, Adelphi 1967, vol. V, tomo 2, pp. 129-130. [81] Secondo Camus, Marx fece suo lo storicismo hegeliano – quindi la Storia come Assoluto – attualizzando la dialettica “signoria-servitù” (introdotta da Hegel ne La fenomenologia dello spirito). Eccola in sintesi: per riconoscersi l’uomo deve negare. L’autocoscienza potrà affermarsi soltanto contrapponendosi a ciò che è altro da sé. Il distinguersi dell’autocoscienza dell’uomo dal mondo naturale consiste nel desiderio – l’appetito – che egli solamente può nutrire nei confronti del mondo; e per essere, l’autocoscienza, deve necessariamente soddisfarsi nell’appagamento di questo desiderio. Dunque agirà solo per appagarsi, e negando ciò di cui si appaga. Sarà negazione, distruzio52 della storia, alla convinzione assoluta che presto verrà il tempo della resa dei conti. Dunque, i devoti e gli sfruttati saranno ne. E tuttavia l’unico modo dato all’uomo di appagarsi veramente risiede nel riconoscimento di un’altra autocoscienza, giacché distruggere un oggetto senza coscienza è proprio anche dell’animale. Solo nella società riceviamo il valore umano degno d’appagamento. Qui si istaurerà una feroce lotta tesa al completo riconoscimento di tutti con tutti, e il desiderio di questo riconoscimento non potrà che cessare quando tutti si saranno riconosciuti con tutti, e quindi alla fine della storia. In questo processo di riconoscimento, ciò che può distinguerci dall’animale è accettare e volere la morte. Ogni coscienza, per essere, ormai vuole la morte dell’altro, ma la contraddizione e l’assurdità di questa lotta non lasciano scampo: annientando l’altro non si ottiene nessun riconoscimento, perché l’altro non è più. E dunque è proprio qui che si inseriscono le figure del signore e dello schiavo. Hegel ci dice che fin dall’origine sono dati due tipi diversi di coscienza, il che permette di uscire dall’aporia sopra citata. Una di queste due coscienze, quella dello schiavo, non ha il coraggio di rinunciare alla vita e accetta così di riconoscere l’altra coscienza, quella del signore, senza però essere da quest’ultima riconosciuta. Quest’autonomia del signore tuttavia sarà soltanto negativa, giacché, essendo riconosciuta da una coscienza della quale egli non ne riconosce l’autonomia, non può esser paga fino in fondo. «Il signore non serve a null’altro, nella storia, che a suscitare la coscienza servile, la sola appunto che crei la storia. Infatti lo schiavo non è vincolato dalla propria condizione, vuole mutarla» (A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 158.). «La storia dunque s’identifica con la storia del lavoro e della rivolta. Non ci si stupirà che da questa dialettica, il marxismo-leninismo abbia tratto l’ideale contemporaneo del soldato-operaio» (Ibidem.). Ed ecco dunque svelata per Camus l’eredità di Hegel fatta propria da Marx e dai rivoluzionari marxisti contemporanei. L’intento di questi sarà instituire lo “Stato Assoluto”, l’ultimo stadio della storia, nel quale – seguendo l’insegnamento hegeliano – «lo spirito del mondo si rifletterà infine in se stesso nel riconoscimento reciproco di ognuno da parte di tutti e nella conciliazione universale di tutto ciò che è stato sotto il sole» (Ivi, p. 159). 53 premiati, i pagani e gli sfruttatori castigati. Ma «il corpo ignora la speranza» direbbe Camus parafrasando il suo modello antimetafisico Nietzsche, «esso non conosce che il pulsare del sangue»82. Nietzsche voleva dirci questo: non si può negare l’unica realtà possibile a favore di qualcosa di irreale, che ci snatura, e, a dispetto di quel che sostengono i credenti delle fedi sopracitate, rende ancor più infima l’esistenza dell’uomo. Non chiede l’ennesimo sforzo d’autopersuasione per abdicare la ragione e saltare nelle braccia d’un nuovo dio, ma di ritrovare noi stessi; ci siamo perduti ed è il momento di imparare la strada per non perderci più, perché non ci si può perdere rimanendo fedeli a ciò che si è. 2.1. Mediterraneo. Per introdurre la cultura del limite e della misura camusiana, è ancora necessario il confronto col pensiero nietzscheano. Ne La Nascita della Tragedia (1872) Nietzsche illustra quel che confluirà in una vera e propria rivoluzione filosofica ed estetica – la reinterpretazione della grecità – volta ad una profonda critica della cultura contemporanea. L’immagine della grecità di cui si nutre fino ai giorni nostri la tradizione europea è dominata dall’idea di armonia, bellezza, equilibrio e misura83. Ma questa, per Nietzsche, non è la Grecia ma soltanto l’Atene del V secolo a. C., riguardante solo un certo genere di prodotti artistici: l’architettura e la scultura. Fu il cristianesimo a fissare l’antichità nei suoi tratti classici, secondo Nietzsche già esemplificativi di decadenza e ascrivibili alla traiettoria nichilistica della storia, giacché non più appartenenti ad un movimento pienamente vitale. Opposta a questa tendenza [82] A. Camus, Nozze, cit., p. 30. [83] Equilibrio e misura in questa accezione non paragonabili agli stessi termini proposti da Camus. 54 apollinea dell’armonia e della misura classica sono i miti tragici e la diffusione dei culti orgiastici e misterici, i quali ci rimandano a un’idea diversa di grecità, a un suo necessario ridimensionamento, mostrandoci l’altro fuoco che vive in essa: il sentimento dionisiaco. È qui che è racchiuso il cosiddetto pessimismo greco, il “meglio non essere nati” recitato dai poeti arcaici e il relativo bisogno dell’uomo di entrare in contatto con le recondite forze della natura, come a suggellare un rapporto originario unico in grado di salvarlo dalla sofferenza della vita, dal suo incrollabile mistero. Liberare gli istinti repressi da un’ingombrante umanità, avvicinarsi al divino per sentirsi parti integranti dell’equilibrio cosmico, sono gli imperativi di chi si lascia guidare da Dioniso. Apollineo e dionisiaco rappresentano dunque una dualità che caratterizza profondamente l’anima greca. Il mondo degli dèi olimpici, il mondo del sogno, è quello prodotto dall’impulso apollineo, mentre l’esperienza del caos, dell’ebbrezza, è frutto del dionisiaco. Questi due aspetti sono anzitutto un rapporto di forze che trova dimora nell’intimità del singolo. Per Nietzsche tutta la cultura umana è frutto del “gioco” di questi due impulsi. La più grande manifestazione di questo “gioco” la si scorge nella tragedia attica: «il dramma è la rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci»84. Il prodotto artistico dell’impulso dionisiaco, per Nietzsche, è la musica; ed è proprio dalla musica che avrebbe origine la tragedia. Ma non tutta la tradizione tragediografa manterrà questi connotati: fu Euripide a porre fine a quest’equilibrio trasformando il mito tragico in un susseguirsi di vicende razionalmente concatenate e realistiche. E Nietzsche ci spiega anche il motivo per cui il tragediografo sentì l’esigenza di privilegiare l’apollineo a scapito del dionisiaco: il suo realismo non è altro che la conseguenza dell’ottimismo teoretico [84] F. W. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus Dem Geiste der Musik (1872), Cambridge University Press, 2010; tr. it. La Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano 1994, cit., p. 61. 55 proposto da Socrate: ciò che merita di essere rappresentato sulla scena è appunto la struttura razionale della vita. Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così, accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa valere l’esigenza del “conosci te stesso” e del “non troppo”, mentre l’esaltazione di sé e l’eccesso furono considerarti i veri demoni ostili della sfera non apollinea, quindi qualità dell’epoca preapollinea, dell’età titanica, e del mondo extra apollineo, cioè del mondo barbarico.85 Se esiste una struttura razionale dell’universo, come Socrate e tutta la successiva filosofia classica ci insegnano, allora il tragico non ha più senso. All’uomo “corrotto” da Socrate ora serve qualcosa che possa rendergli tollerabile il caos della vita, un’esasperata rassicurazione metafisica cercata nelle essenze, sintomo, per Nietzsche, d’una cultura decadente, quella che innesterà il processo del nichilismo europeo. Ed è qui che si innesta il pensiero camusiano, proprio in questa perdita del sentimento vitale che legava l’uomo della Grecia arcaica alla natura. Sulla scorta di Nietzsche86, Camus identifica la mancanza di equilibrio vitale dell’uomo, arrivata intatta sino a noi attraverso le rivendicazioni di religioni e ideologie, in questo sbilanciamento verso il polo della ragione soffocatrice degli istinti, ossia nella vittoria dell’apollineo sul dionisiaco.87 Anche per Camus sono stati proprio i greci arcaici, [85] F. W. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, cit., p. 37. [86] Si racconta che Camus portasse sempre con sé, nella sua borsa, una copia de La gaia scienza di Nietzsche regalatagli dal suo insegnate di filosofia Jean Grenier, nel 1933, quando ancora viveva in Algeria. Venne poi ritrovata tra gli oggetti che lo scrittore aveva con sé il giorno in cui si schiantò in auto (era il 4 gennaio 1960). [87] Non si può però affermare che Camus riconduca questo disequilibrio vitale a Socrate (come invece fa Nietzsche), forse più a Platone. Infatti, per capire a fondo il concetto di limite camusiano, dobbiamo tornare al santuario 56 “preapolinnei”, o meglio ancora quei greci che seppero trovare un accordo tra Apollo e Dioniso, a concepire un pensiero che rendesse possibile un modo autenticamente umano di abitare la terra, che, sì, convivesse con la presenza degli dèi, ma senza confondere umano e divino, senza rubare all’uomo la gioia dei sensi solo perché portatori di inganni e conflitti – in definitiva la vita è questa, non può (non deve) essere repressa. Sono stati loro ad “inventare” il Mediterraneo, inteso come la ricerca della misura, il fecondo equilibrio tra ragione e natura. Il cedere dell’uomo alle lusinghe d’una finalità, d’una razionalità, religiosa o storicista che sia, lo ha indebolito e condotto allo smarrimento. Camus identifica questo momento di mistificazione come l’imporsi della storia sulla natura: [Nella storia] si compiono venti secoli di vana lotta contro la natura in nome di un dio storico dapprima, e poi della storia divinizzata. Senza dubbio, il cristianesimo non ha potuto conquistare la propria cattolicità88 se non assimilando di Apollo a Delfi, sulla cui facciata era scritto “conosci te stesso” assieme alla precisazione “nulla di troppo” (quelli che poi diverranno i motti della filosofia socratica). Conoscere se stessi, infatti, non significa altro che conoscere i propri limiti, sapere fin quanto ci si può sporgere dal precipizio senza rischiare di cadere. Platone narra che Socrate durante i simposi bevesse tantissimo, tanto quanto gli altri commensali; ma mentre questi si ubriacavano, egli rimaneva lucido, perché sapeva di non aver ancora raggiunto il suo limite, di poter ben sopportare tutto quel vino. Conoscere e accettare i propri limiti, renderli misura della vita, non è dunque un mortificare la carne o lo spirito, abbandonare sensi e piaceri, anzi, è saperli vivere al meglio, pienamente, in tutte le loro possibilità di espressione autentica. [88] Camus ci dice che l’incontro del cristianesimo, inizialmente dottrina chiusa che ignorava le concessioni, con la cultura mediterranea, diede inizio ad una nuova dottrina: il cattolicesimo. Questa nuova filosofia ebbe modo di “abbellirsi” e rifinirsi adattandosi all’uomo. E fu ancora un mediterraneo, Francesco d’Assisi, a far del cristianesimo interiore e tormentato un inno alla natura e alla semplicità. Inoltre Camus sostiene che il solo tentativo di separare dal mondo il cristianesimo fu opera d’un nordico, Lutero, che col Protestantesimo strappò il cattolicesimo dal Mediterraneo. Su questo tema vedi il 57 quanto poteva del pensiero greco. Ma sperperata la sua eredità mediterranea, la Chiesa ha messo l’accento sulla storia a detrimento della natura, ha fatto trionfare il gotico sul romanico e, distruggendo in se stessa un limite, ha sempre più rivendicato la potenza temporale e il dinamismo storico.89 Da queste parole emergono due termini chiave del pensiero camusiano: limite e Mediterraneo. È questo limite, garante d’una misura, eredità della cultura mediterranea, l’oggetto di rivendicazione del filosofo. Ma la misura di cui egli parla non ha niente a che vedere con l’armonia apollinea, ordine illusorio, usurpatrice del “gioco” vitale – reale – che lega l’uomo, perenne Anteo, alla natura, premurosa madre. Il concetto di misura di Camus è senz’altro più affine all’armonia nietzscheana tra razionale e irrazionale, apollineo e dionisiaco. La misura nasce dalla rivolta dell’istinto represso e non può viversi che per suo tramite. È costante conflitto, perpetuamente suscitato e signoreggiato dall’intelligenza. Non trionfa dell’impossibile né dell’abisso. Qualunque cosa facciamo, la dismisura serberà sempre il suo posto entro il cuore dell’uomo, nel luogo della solitudine.90 Necessario alla misura è il confronto con la dismisura: un limite esiste solo se può esser superato; sta poi all’uomo scegliere. Evidente che optando per una vita senza misura, senza limiti, l’unico traguardo raggiungibile è la mistificazione della natura, della nostra “natura” di uomini, a favore del trionfo dell’ipostatizzazione dell’irreale che ci domina e manovra dall’alto – in realtà siamo noi che ci autoreprimiamo –, e delle saggio camusiano La culture indigène. La nouvelle culture méditerranéenne, in Jeune Méditerranée, aprile 1937, 1, in Essais, Gallimard, Paris 1965; tr. it. È possibile una nuova cultura mediterranea?, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2010. [89] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 327. [90] Ivi, p. 329. 58 teleologie91, ideologie92 e religioni93 che allontanano l’uomo dalla realtà sostituendola con illusioni e armonie che però si scontrano coi bisogni primariamente umani. Il limite da non superare, in questo caso, corrisponde alla stessa possibilità di una vita piena, fatta dell’accordo tra ragione e sentimento, libertà di capire (e sognare) e necessità di vivere coi mezzi di cui siamo a disposizione. Superando il limite, da una parte o dall’altra, alteriamo questa misura originaria, il tutto a nostro svantaggio. Perché la misura camusiana è quell’unico sentimento che ci permette di mantenere l’autenticità del rapporto vitale con la natura, di capire noi stessi e trovare le nostre radici sepolte. L’uomo del XX secolo, evidentemente, non è stato fedele a se stesso: «tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito non è quello di scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in noi e negli altri»94. [91] Quelle dottrine improntate su uno scopo di futura e sicura realizzazione, cui tutto dipende. Il cristianesimo, ad esempio, è una teleologia (dal greco télos, scopo e lógos, discorso, pensiero), poiché interpreta l’esistenza umana come momentaneo passaggio sulla terra in attesa della fine dei tempi e dell’inizio della vera vita accanto a Dio, o della dannazione eterna. Anche l’hegelismo e il marxismo sono teleologie (o meglio filosofie della storia): vedi nota 81. [92] Come ad esempio il marxismo, ma anche il fascismo e ogni altro tipo di sistema di idee totalitario che non ammette critiche. [93] Stiamo parlando, nella fattispecie, del cristianesimo. Nietzsche e Camus, pensatori occidentali, vennero così educati e vissero personalmente solo questa religione. [94] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 329. 59 2.2. La felicità del suolo. Nozze a Tipasa (Noces à Tipasa), la prima “confessione” della raccolta camusiana Nozze (Noces, 1939), si apre a una visione panteistica d’un paesaggio mediterraneo in cui confluiscono in assoluta armonia storia, natura e mito. In questo luogo simbolico, quasi magico, i resti della civiltà perduta – le rovine romane portate alla luce dagli scavi – appaiono in perfetta simbiosi con la bellezza della natura: In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell’odore degli assenzi, nel mare corazzato d’argento, nel cielo d’un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre.95 Dalla fertilità e brillantezza della natura scaturisce quella ricchezza di sensazioni e impressioni che conducono l’uomo, immerso in quei luoghi, all’estasi, all’appagamento di tutti i desideri di corpo e anima. Quest’intensità di vita, questa pienezza, si riflette nelle numerose metafore che Camus utilizza per rendere tangibile la sensualità e la semplice grandezza dei momenti narrati. Con il fragoroso sospirare del mondo e la descrizione dell’acqua marina che scorre sul suo corpo, Camus proietta il lettore in un’atmosfera d’ubriachezza sensuale pronta a celebrare la festa pagana del corpo. Qui l’essere si realizza completamente nell’esaltazione della vita, lontano dal bisogno di significato e unità. Mediatore, il corpo si apre all’esperienza e all’iniziazione spirituale, a una sorta d’illuminazione di carattere (quasi) mistico. Questa felicità, dunque, non va cercata fra gli uomini, ma la si incontra nel momento in cui si vive in perfetta assonanza con la natura che ci circonda. Le parole di Camus, che ci narrano della sua stessa esperienza, sono certamente le migliori per rievocare questo sentimento: [95] A. Camus, Nozze, cit., p. 3. 60 Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo, turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie labbra. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere l’amore.96 Questa è l’unica felicità possibile per Camus, l’amore più grande che possa travolgerci. Solo nel matrimonio tra uomo e natura può celarsi la nostra realizzazione. «Sentire i propri legami con una terra, il proprio amore per alcuni uomini, sapere che c’è sempre un luogo in cui il cuore troverà la sua armonia, ecco già molte certezze per una sola vita umana»97. E come si evince da quest’ultima frase, la felicità, oltre che realizzazione, è punto di partenza; è già insita in noi, per nostra stessa “natura”. Il compito dell’uomo è riconoscerla, e di qui la sua realizzazione. La felicità, per Camus, prorompe dall’accettare con naturalezza la trasparenza, l’immediatezza delle cose, senza cercare di assegnarne forzatamente un significato. Solo in questo modo potremo trovar noi stessi in questo mondo sfuggente e inafferrabile. La capacità di meravigliarsi per il mondo e godere dei momenti più semplici e naturali, che l’uomo contemporaneo sorvola puntando lo sguardo oltre, alla ricerca d’un fine esterno, è l’unica che ci permette di superare la sofferenza e la frustrazione – quella sensazione derivante dall’assurdo di cui sono costituiti i nostri pensieri in relazione al mondo. Ne L’estate a Algeri (L’eté à Alger, terzo saggio di Nozze) Camus, con la descrizione di Algeri e degli algerini, celebra la lode alla gioia semplice, che è quella del vivere nel presente in piena armonia con la natura. La patria dell’anima di cui parla Camus non si trova in un altro mondo o in una dimensione metafisica, ma, sempre seguendo le orme di Nietzsche, in questa stessa realtà terrena. Contro le astrazioni denigratorie [96] Ivi, p. 9. [97] Ivi, p. 25. 61 della natura, promulgate nel corso dei secoli dall’ambizione assolutistica e sovraterrena dell’uomo, Camus ne L’estate a Algeri dice: Imparo che non esiste felicità sovrumana, né eternità fuori della curva dei giorni. Questi beni irrisori ed essenziali, queste verità relative sono le sole che mi commuovano. Le altre, le “verità ideali”, non ho abbastanza anima per capirle. Non che sia necessario esser bestia, ma non trovo senso nella felicità degli angeli.98 È il secondo saggio, Il vento a Djemila (Le vent à Djémila), che per mezzo della suggestione d’una città attraversata dal vento evoca a Camus una meditazione sulla morte. Djémila è un altro villaggio della costa algerina particolarmente caro a Camus, sul quale, come per Tipasa, sorgono rovine romane testimoni di un glorioso passato; resti che si innestano perfettamente nella conformazione del paesaggio creando un’armonia inebriante per i sensi di quell’uomo ancora in grado di meravigliarsi. Anche qui vi è spazio per la celebrazione della simbiosi tra uomo e natura: Il vento mi foggiava a immagine dell’ardente nudità che mi era intorno. E, pietra fra le pietre, la sua stretta fugace mi dava la solitudine d’una colonna o d’un olivo nel cielo d’estate… Ben presto, sparso ai quattro angoli del mondo, dimentico, dimenticato da me stesso, io sono questo vento e, nel vento, queste colonne e questo arco, queste pietre che sanno di caldo e queste montagne pallide intorno alla città deserta.99 «Creare delle morti coscienti»100 è il desiderio camusiano che emerge da questo saggio, in modo da «diminuire la distanza che ci separa dal mondo, e entrare senza gioia nel compimento, coscienti delle immagini che esaltano un mondo [98] Ivi, pp. 25-26. [99] Ivi, pp. 12-13. [100] Ivi, p. 16. 62 perduto per sempre»101. L’ebbrezza di vita di Camus acquista ancor più potenza nel momento in cui egli si fa cosciente della sua finitezza, dell’effimerità di quest’unica vita terrena. Così l’uomo, spogliato da false aspettative ultraterrene, potrà “sposare” la natura e finalmente ritrovare la felicità. Una felicità finita e fugace per il singolo individuo ed eterna, o perlomeno lunga quanto la vita della nostra specie, per l’umanità. Infine, nell’ultimo saggio Il deserto (Le désert) – questa volta ambientato in Toscana –, Camus ripercorre tutti i temi trattati nei tre saggi precedenti alludendo in termini espliciti alla “fedeltà alla terra” proclamata da Nietzsche: Firenze! Uno dei pochi luoghi d’Europa in cui ho capito che nel cuore della mia rivolta dormiva un consenso. Nel suo cielo misto di lacrime e di sole imparavo a dire di sí alla terra e a ardere nella fiamma cupa delle sue feste… Come consacrare l’accordo dell’amore e della rivolta? La terra!102 Con queste parole viene suggellato l’equilibrio tanto agognato dall’uomo camusiano: quel sottile equilibrio tra l’amore, che potremmo identificare con l’apollineo, e la rivolta all’assurdo, il dionisiaco. Il tema delle “nozze” uomo-natura, così sentito e amato dal romanziere filosofo, trova spazio in gran parte della sua produzione letteraria. E così nel romanzo che lo portò alla ribalta nel ‘42, Lo straniero (L’étranger), si hanno continue allusioni ai luoghi della costa algerina, allo splendore e al calore del sole, ai bagliori dei raggi solari riflessi dal mare, alla spiaggia infuocata, agli odori inebrianti. Tuttavia nel passaggio tra Nozze e Lo straniero sembra che Camus si lasci momentaneamente alle spalle il suo radiante ottimismo per affrontare più da vicino la tragicità e assurdità dell’esistenza. Un ritorno all’ottimismo, alla possibilità d’un equilibrio vitale, anche se con caratteristiche diverse, [101] Ibidem. [102] Ivi, p. 39. 63 sopravverrà solo col completamento del suo percorso filosofico: la consapevolezza del valore della rivolta de L’uomo in rivolta. Ma Lo straniero non si dimentica affatto del rapporto vitale tra uomo e natura; esso rimane sempre sulla scena, a tratti da antagonista, tentatore che incrina l’equilibrio naturale e trascina gli avvenimenti nel tragico: Tutto quel calore pesava sopra di me e contrastava il mio andare… Mi tendevo tutto per vincere il sole e quella ubriachezza opaca che esso riversava su di me. A ogni sciabolata di luce sprizzata dalla sabbia, da una conchiglia candida o da un frammento di vetro, mi si contraevano le mascelle.103 La conclusione di questo disaccordo tra il protagonista Meursault e la natura (ostile) che lo avvolge saranno i quattro colpi di pistola riversati sul corpo inerte del marocchino disteso sulla spiaggia: Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.104 E poi il processo, l’adattamento alla vita della prigione, e infine la non rassegnazione e la scoperta d’una nuova esistenza. Sì, perché in prigione Meursault ritroverà la quiete trasformando il suo inconscio sentimento dell’assurdo in rabbia contro il cappellano105 che avrebbe voluto salvargli l’anima. [103] A. Camus, L’étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 73. [104] Ivi, pp. 75-76. [105] Riferimento alle speranze offerte dalla religione. 64 Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora.106 Questa «dolce indifferenza del mondo» è il silenzio avvilente che caratterizza il nostro sentimento dell’assurdo, che si contrappone alle nostre domande gridate contro un cielo insensibile; e di qui la rivolta tesa alla rivendicazione della nostra dignità, la quale verrà riconosciuta soltanto nella compenetrazione tra uomo e natura, nel tacito accordo fra i due. Camus, tramite il simbolo letterario di Meursault, riduce le bestialità del XX secolo a questo essenziale disaccordo tra uomo contemporaneo e natura e a quell’imporsi di principi irreali che snaturano ciò che di naturale, per definizione, esige l’uomo nella ricerca della felicità. È come se la forza di gravità ad ogni nostro movimento, consapevole o no, s’annullasse per permetterci la libertà di vivere il mondo in una sorta di tensione atmosferica. Le ambiguità permangono e se non fosse così, se definissimo un concetto stabile di natura, ne elimineremmo seduta stante il carattere dinamico, evolutivo, ossia ciò che più la contraddistingue. Quel che ci rimane è questa certezza nell’ambiguità. La certezza che se non possiamo far a meno di riflettere sulle cose, essendo animali riflessivi, dobbiamo almeno ammettere che la natura, il nostro suolo, si trova al di là d’ogni riflessione essendo ciò che ci permette di concretizzarla. L’appello di Camus, se vogliamo estenderlo alla prassi, alla quotidianità, spinge alla meditazione sulla nostra condizione umana, alla salvaguardia della nostra dignità attraverso un pesato interscambio con l’ambiente. [106] A. Camus, Lo straniero, cit., pp. 149-150. 65 3. Assurda libertà. Se per Camus la dialettica uomo-natura appare inscindibile – l’essere umano è natura, elemento tra gli elementi, in equilibrio nel e col mondo –, tuttavia nel momento in cui l’uomo scorge nei suoi gesti la minaccia dell’assurdo, questo equilibrio originario sembra sgretolarsi. La ragione dello smarrimento è legata allo scarto che intercorre tra il bisogno insoddisfatto di risposte e il silenzio frustrante dell’universo. Se fossi albero tra gli alberi o gatto tra gli animali, questa vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non sussisterebbe, perché farei parte del mondo. Io sarei quel mondo, al quale mi oppongo ora con tutta la mia coscienza e con tutta la mia esigenza di familiarità.107 Dunque il problema sorge con la nostra coscienza, dalla capacità, propria solo all’uomo, di poter penetrare la sua condizione assurda, colpevole dello spezzarsi dell’“incantesimo” che lo manteneva in un equilibrio menzognero. Ciononostante, l’acquisita coscienza della gratuità della vita non può separarci realmente dalla natura, poiché resteremo irreducibilmente parte di essa, in uno scambio reciproco imprescindibile ai fini della vita stessa; la scissione può avvenir solo nella nostra mente. L’assurdità più clamorosa, che assumerà il volto dell’assurdo solo dopo la liberazione della nostra coscienza da false speranze, è la morte. Essa si presenta come la distruttrice d’ogni nostra pretesa di libertà. Ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità di una possibile morte. Pensare al domani, fissarsi uno scopo, avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà… [107] A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., pp. 48-49. 66 Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà.108 Appare qui, pertanto, una prima considerazione sulla libertà, la quale verrebbe negata dalla morte che incombe prepotentemente sull’uomo. Se la morte avesse realmente questo potere – negare la libertà di essere dell’uomo – saremmo condannati a una vita insensata nell’unica triste prospettiva della fine. Ma questa prima approssimazione del problema della liberà umana, che si pone l’uomo ormai entrato in contatto con l’assurdo, non risulta soddisfacente. Infatti, contemporaneamente a questa sensazione d’impotenza «l’uomo assurdo capisce che fino a questo momento era legato a un postulato di libertà, sulla cui illusione viveva»109. L’uomo, prima della “rivelazione”, immaginava degli scopi nella vita, si conformava ad essi per poi farsi schiavo della sua stessa libertà. In realtà non era affatto libero. Nella misura in cui spero o mi do pensiero di una verità che mi sia propria, di un modo di essere o di creare, nella misura in cui ordino la mia vita e provo, con ciò stesso, di ammettere che essa abbia un senso, mi creo barriere entro le quali rinchiudo la mia vita.110 Ecco l’illuminazione dell’assurdo: «non esiste un domani»111. Scopriamo d’esser liberi, profondamente liberi, molto più di quanto credevamo prima d’imbatterci nell’assurdo. Quest’ultimo, negando ogni nostra propensione a una libertà eterna, non fa altro che riconsegnarci, esaltandola, la nostra libertà d’azione: «questa privazione di speranza e di avvenire [108] Ivi, p. 53. [109] Ibidem. [110] Ivi, p. 54. [111] Ibidem. 67 significa un accrescimento nelle disponibilità dell’uomo»112. Tale libertà sarà limitata, avendo termine con la morte, ma non più imprigionata in un senso, in una direzione fittizia. Scorgiamo così infinite possibilità di essere. Appare dunque chiaro come per Camus l’uomo non debba sottrarsi all’assurdo e nemmeno costruirsi false prospettive atte a scioglierlo – e ciò non è possibile se non con fini superiori inventati su misura. L’uomo deve, al contrario, mantener questa tensione tra il suo indomabile desiderio di conoscere le configurazioni segrete della natura e l’impossibilità di soddisfarlo, tra il suo grido disperato e l’estenuante silenzio del mondo. Questo lo potrà fare solo attraverso la rivolta: solo così «il corpo, la tenerezza, la creazione, l’azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo insensato. L’uomo vi ritroverà infine il vino dell’assurdo e il pane dell’indifferenza, di cui nutre la sua grandezza»113. Negando schopenhauerianamente114 il suicidio, Camus consegna all’uomo contemporaneo il privilegio di essere un “condannato a morte” – il contrario del suicida, ovvero un uomo cosciente delle proprie possibilità e profonda libertà –, che nonostante tutto non accetta il suo limite mantenendosi in costante rivolta, capace dell’esaltazione della vita terrena, l’unica, nella liberazione, attraverso la consapevolezza della morte, «da tutto ciò che non sia l’appassionata attenzione»115. [112] Ivi, p. 53. [113] Ivi, p. 49. [114] Come Schopenhauer afferma che il suicidio, lungi dall’essere la negazione della volontà, ne rappresenta in realtà il compimento, Camus sostiene l’inutilità del suicidio come mezzo per risolvere l’assurdo. «Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio… è l’accettazione del proprio limite». Ivi, p. 51. [115] Ivi, p. 54. 68 Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta un’esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello di un’intelligenza alle prese di una realtà che la supera.116 La tensione dell’assurdo aumenta, paradossalmente, il nostro sentimento d’appartenenza al mondo. L’uomo, svelata la sua contingenza, è condannato a vivere alla perenne presenza dell’angoscia; tuttavia la maggior parte degli uomini persisterà nella costruzione di scale di valori e obiettivi da portare a termine. Questa una delle conseguenze possibili della rivolta: il non arrendersi all’abisso del non senso, il continuare a crearsi, inventarsi nelle piccole cose, sebbene la nostra coscienza abbia ben salda l’unica certezza possibile: non c’è fondamento; se qualcosa ha per me un senso è solo grazie alla mia capacità di conferirglielo. In ogni caso, qualunque siano le conseguenze della “libertà assurda” camusiana, quel che è certo è che la potenza del ragionamento assurdo non perderà di vitalità nel cuore umano; rimarrà, nell’uomo consapevole, il termine di paragone privilegiato, il suo afflato, la possibilità di una vera valutazione della grandezza dell’esistenza. Ogni libera scelta comporta limiti all’agire se si vuole che azioni e decisioni abbiano un senso per il futuro. Propria di Camus è la volontà di “creare” uomini liberi consapevoli; consegnar all’uomo contemporaneo la sua essenziale corresponsabilità nello sviluppo della storia personale e universale. È necessario aver coscienza della propria libertà e, soprattutto, della responsabilità che ciò comporta nell’azione individuale. Immediato il rimando alla misura camusiana, a quel concetto di limite che occupa così tanto spazio nella riflessione sull’uomo del Pied-Noir117. [116] Ivi, p. 51. [117] Pied-Noir (Piede Nero), nel linguaggio corrente francese, significa “rimpatriato”, ed in particolare fa riferimento ai francesi d’Algeria rimpatriati a partire dal 1962. 69 In uno dei pochissimi riferimenti alla libertà de L’uomo in rivolta egli scriverà: La libertà, “questo nome terribile scritto sul carro degli uragani”, è al principio di tutte le rivoluzioni. Senza di essa, la giustizia sembra inimmaginabile al ribelle. Eppure viene il momento che la giustizia esige la sospensione della libertà. Il terrore, piccolo o grande, viene allora a coronare la rivoluzione.118 Qual miglior esempio della rivoluzione per sensibilizzar l’uomo sulle possibili conseguenze dell’uso improprio della libertà? Per Camus noi siamo potenzialmente tutti liberi in egual modo, ma abbiamo la responsabilità di “mantener l’equilibrio” – è necessario un equilibrio ai fini della convivenza degli uomini e della salvaguardia del rapporto uomo-natura. Nel momento in cui dovessimo abusare di questa libertà, alimentando la dismisura, superando il naturale limite “impostoci” dalla coesistenza dell’altro, giungeremmo alla negazione stessa della libertà; affermeremmo forse un’effimera libertà personale al prezzo, però, della libertà altrui. E – per prendere l’esempio di Camus – nella rivoluzione questo si concretizzerebbe in terrore. Se per Camus, al di là e per mezzo della consapevolezza dell’assurdo, lo scopo dell’uomo consiste in una “fedeltà alla terra” di stampo nietzscheano, nell’esaltazione della nostra relazione privilegiata, perché cosciente, con la natura, e dunque, per concludere, nella salvaguardia della nostra misura propria – quella che ci rende propriamente uomini –, che non può esser considerata a prescindere dal rapporto con gli altri, il nostro impegno dovrà essere volto al mantenimento di questa misura, nel non oltrepassare il limite superato il quale un atto negherebbe se stesso. La libertà è senza dubbio il nostro bene più prezioso, senza il quale non potremmo capir la gioia del creare e del crearci; appunto perché così profonda, se utilizzata male, può diventare pericolosa e contraddizione di se stessa. [118] A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 121. 70 V ITA DI AL BERT CAMUS Albert Camus nacque il 7 novembre 1913 in Algeria a Mondovi, oggi Dréan. Fu romanziere, filosofo, drammaturgo, giornalista. Vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1957 «per la sua importante produzione letteraria, che con perspicace zelo getta luce sui problemi della coscienza umana nel nostro tempo» (motivazione dell’Accademia Svedese). Crebbe con la madre e la nonna (il padre morì in guerra). Grazie all’aiuto del suo professore Jean Grenier e a una borsa di studio si laureò in Filosofia all’Università di Algeri, finendo gli studi da privatista, nel ’36, a causa della tubercolosi. Nel ’34 dette la sua adesione al Partito Comunista, il quale lo destinò alla campagna tra gli arabi, ma già tra il ’35 e il ’37 ne prese le distanze: da questo momento in poi attuerà attraverso i suoi scritti una feroce critica del comunismo (soprattutto per l’uso della violenza). Iniziò la sua carriera scrivendo per un giornale locale algerino, ma emigrò presto in Francia dove, da attivista (contro l’occupazione nazista), scrisse per Paris-Soir. Partecipò poi alla Resistenza avvicinandosi al giornale partigiano Combat. A causa dell’entrata nell’ONU della Spagna franchista lasciò il suo posto all’UNESCO. Morì il 4 gennaio 1960 in un incidente automobilistico avvenuto nella cittadina di Villeblevin. 71 Opere principali Romanzi Lo straniero (L’étranger), 1942. La peste (La peste), 1947. La caduta (La chute), 1956. La morte felice (La mort heureuse), 1971, postumo. Il primo uomo (Le premier homme), 1959, ma 1994, postumo e incompiuto. Filosofia e saggi autobiografici Il rovescio e il diritto (L’envers et l’endroit), 1937. Nozze (Noces), 1938. Il mito di Sisifo (Le mythe de Sisyphe), 1942. L’uomo in rivolta (L’homme révolté), 1951. L’estate (L’été), 1954. Teatro Caligola (Caligula), 1944. Il malinteso (Le malentendu), 1944. Lo stato d’assedio (L’état de siège), 1948. I giusti (Les justes), 1950. Trama de Lo straniero (1942) Meursault, uomo di origini francesi che vive ad Algeri, apprende della morte della madre. La notizia non lo prova più di tanto: giunto all’ospizio in cui si trova la salma rifiuta addirittura di vederla. Nei giorni successivi al funerale inizia una relazione con una donna, ex collega di ufficio, conosciuta in spiaggia. Marie, questo il nome della donna, si innamora di lui e vuole sposarlo, ma Meursault pare essere interessato solo ad una relazione superficiale. Meursault si ritroverà, praticamente per caso, ad uccidere un arabo disteso sulla spiaggia. La pistola gli era stata data da un suo amico, Raymond Synthès, un magazziniere che aveva schiaffeggiato e picchiato la sorella dell’arabo, provocando in questi un desiderio di vendetta. Meursault viene 72 arrestato. Durante il processo viene discusso, più che l’assurdo assassinio, il fatto che Meursault sembri non provare alcun tipo di rimorso, e, nonostante i tentativi dell’avvocato difensore, Meursault viene condannato a morte. Rifiuta anche il confronto col cappellano che avrebbe voluto redimerlo, ma la collera che sfoga nei confronti di quest’ultimo, in qualche modo, lo purificherà, riconciliandolo con l’indifferenza del mondo. 73 TERZO CAPITOLO. ANDRÉ GIDE E SE IO T I BUT TASSI GIÙ DAL T RENO? E vanno ad ammirare le montagne altissime e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi e l’orizzonte dell’oceano sconfinato e il girotondo delle stelle: e trascurano se stessi, gli uomini, e non si meravigliano che io parli di tutte queste cose senza vederle con gli occhi. Agostino (Confessioni, X, 8.15). 1. Vita nova. La figura di Gide influenzò generazioni di scrittori francesi – che dopo di lui cercarono respiro all’interno di una letteratura e un mondo in profonda trasformazione –, in alcuni casi lasciando tracce inconfondibili. Si potrebbe considerare quest’autore, facendo forse un torto alla sua originalità, come il trait d’union fra due differenti concezioni dell’arte (e della letteratura in primo luogo): nella sua lunga avventura letteraria, Gide, raggiunse un sofferto equilibrio che prese le mosse da una concezione giovanile dell’arte come pura creazione dal 74 valore intrinseco, come seconda natura disinteressata (o come natura vera e propria di cui l’artista è medium), dunque non eterogenea, non piegata dalla realtà; è questo l’ideale simbolista o parnassiano (per parlare dei movimenti contemporanei a Gide) – sebbene egli dichiarò sempre la sua estraneità alle loro affettazioni e velleità astrattive –, di un finale ottocentesco ancor intriso di sapore romantico; per poi approdare, quasi subito, a un far letteratura dettato dalla più intima esigenza introspettiva, che, però, s’impone come attività pratica, formativa, all’interno della crescita e sperimentazione di sé – Blanchot, a proposito di ciò, parlerà di “Letteratura d’esperienza”. Attraverso un’autoanalisi disinibita Gide metterebbe a nudo gli aspetti più oscuri e indecifrabili del proprio essere anelando alla vera realizzazione dell’esistenza: l’accettazione di sé, di tutto ciò che riguarda il corpo e lo spirito. L’opera gidiana – afferma Maurice Blanchot – risponde a quel bisogno della letteratura contemporanea di essere qualcosa di più che letteratura: un’esperienza vitale, uno strumento di scoperta, un mezzo per l’uomo di sperimentarsi, di scandagliarsi e di oltrepassare così, in questo tentativo, i propri limiti.119 Limiti che sono, evidentemente, quelli imposti dalla società, da costumi e pregiudizi, nemici della natura mai assentatasi dal percorso umano: il profondo e celato rapporto – celebrato da Gide nella sua attività creatrice – tra uomo e natura, intima all’uomo contemporaneo di spogliarsi dell’artificiosità di una morale costruita sul dolore, per recuperare una sorta di ebbrezza primordiale memore dei legami vitali che ci alimentano costantemente. Ma le due concezioni letterarie, coesistenti nella complessa esperienza gidiana, non si escludono, bensì tendono a fondersi [119] ������������� M. Blanchot, Gide et la Littérature d’expérience, in La part du feu, Gallimard, Paris 1949; tr. it. Gide e la letteratura d’esperienza, in Così sia ovvero Il gioco è fatto, SE, Milano 2001, (pp. 119-132), cit. pp. 121-122. 75 armonicamente nel nesso vita-scrittura proprio dell’autore francese. Per Gide l’opera letteraria mantiene quel valore “superiore”, avvolto dalla gioia creatrice contemplatrice di se stessa attribuitole dall’arte tradizionale, concedendo però allo spirito dell’artefice una comunione di sorte con essa: la letteratura diventa un cammino che porta a diventare ciò che si è. È indubbio che colui che si chiede, al momento di prendere la penna: di che utilità sarà ciò che sto per scrivere? Non è uno scrittore nato e meglio farebbe a rinunciare immediatamente a esprimersi.120 Dunque, la letteratura non avrà alcun impegno prestabilito – né quello d’esser filosofica né socialmente e politicamente situata – se non quello d’esser vera, ossia espressione libera. Avrà a che fare con la materia reale – lungi da Gide rannicchiarsi nei mondi fantastici e surrealisti –, ma non con fini dettati dall’esterno: lo scopo è e rimane interno al nesso vita-opera dell’autore. Se gli avvenimenti mi incalzano sono pronto ad affrontarli. E cercherò di farlo senza disonorarmi, cercherò di non tremare troppo di fronte all’orrore. Ma non venite a chiedermi di falsare la voce e di introdurre nei miei scritti qualche opportunistico fremito…121 Di qui la distanza dall’engagement (impegno), che pur risente, nelle psicologie dei personaggi dei romanzi sartriani, dell’influsso gidiano122. Per usare la terminologia di Sartre, [120] ��������� A. Gide, Ainsi soit-il ou Les jeux sont faits, Gallimard, Paris 1952; tr. it. Così sia ovvero Il gioco è fatto, SE, Milano 2001, cit., p. 90. [121] Ivi, p. 86. [122] Lo stesso Sartre ammette che «tutto il pensiero francese degli ultimi trent’anni, volente o nolente, quali che fossero le sue altre coordinate, Marx, Hegel, Kierkegaard, si doveva anche definire in rapporto a Gide». J.-P. Sartre, Gide vivant, in Situations IV, Gallimard, Paris 1964; tr. it. Attualità di Gide, in 76 Gide si manterrebbe indefesso nell’“età dell’adolescenza”, assorta in quel celebre atto gratuito – che spesso banalizza ferocemente, cercando di racchiuderla in un’etichetta, la sua intera opera –; non riuscirebbe a superare il sentimento di smarrimento che segue alla coscienza della Nausea, del riconoscimento dell’assurdità, della completa gratuità e contingenza della vita. Il suo è un gioco che necessiterebbe di un’ulteriore presa di posizione sul reale. La stessa letteratura sarebbe per lui atto gratuito, spirito materializzato volto al diletto dei fruitori; senza cause (se non la propria libera volontà creatrice) né conseguenze. Eppure si è avuto modo di spiegare come l’esperienza gidiana sia un continuo compromettersi dell’autore, testimonianza di una lacerazione, di una lotta contro se stessi e i propri residui pregiudiziali; per Gide costituirà una vera e propria purificazione. Più la scrittura diventa mezzo di autocomprensione e superamento di sé, più i connotati di un’arte gratuita, dell’art pour l’art (l’arte per l’arte), sbiadiscono. Ciò considerato resta netta la divergenza con il futuro impegno sartriano, il quale non potrà far a meno di un lucido e costante confronto con le attuali contingenze politico-sociali. Tuttavia c’è un avvicinamento gidiano a questo modo d’intendere la letteratura concentrato in alcuni episodi letterati della maturità: le denunce contro lo sfruttamento umano e il feroce colonialismo contenute nel Viaggio in Congo (Voyage au Congo, 1927) e Ritorno dal Ciad (Le retour du Tchad, 1928); le deluse considerazioni su un comunismo reale più repressivo di quel che si credeva del Ritorno dall’URSS (Retour de l’U.R.S.S., 1936); e l’esplicito tentativo di Corydon (1920) di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema sociale, che agli occhi di Gide avrebbe dovuto definitivamente smettere di esser considerato tale, dell’omosessualità. In questi episodi Gide, entrato pienamente nell’“età della ragione”, prende coscienza del forte impatto che l’attività letteraria permette sulle coscienze dei lettori. La compromissione degli scritti Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano 2009, (pp. 444-447), cit., p. 444. 77 gidiani – come si è cercato di dimostrare più sopra – è sempre stata totale, risultando quasi un intimo diario esperienziale dell’autore; tuttavia, questi casi particolari di testimonianza diretta di situazioni politico-sociali (e morali) propongono altresì un Gide engagé (impegnato) nella vera accezione sartriana. La differenza tra Gide e Sartre risiede nel fatto che le opere del primo, quelle sopracitate, sono appunto testimonianze vere e proprie, esplicite, e non narrative – ad eccezione di Corydon, opera di “fantasia” costruita sul modello del dialogo socratico –: Gide, al contrario di Sartre, non utilizza il romanzo (o il racconto) in un cosciente impegno volto al miglioramento delle condizioni dell’esistenza umana. Eppure, il suo tentativo di rovesciamento della morale comune è palpabile in ogni sua opera, ma la dimensione individualistica e intimistica, in cui spesso si inseriscono i personaggi gidiani, collocano il suo autore su un piano differente rispetto all’engagement. Gide non è filosofo, non vuol esserlo, non divide la sua produzione letteraria in narrativa e trattatistica filosofica: la sua opera è tendenzialmente omogenea e si concentra sulla narrazione, sul racconto o romanzo. Tuttavia, essendo sterminata, l’opera gidiana conta anche opere d’altro tenore – si vedano appunto i resoconti dei viaggi e altri scritti di natura trattatistica; ma non vi è un’elaborazione teoretica, come avverrà per esempio in Sartre o Camus, di una filosofia personale. Se per filosofo intendiamo colui che teorizza una particolare visione del mondo, Gide non può esser considerato tale, ma se intendiamo, invece, colui che, attraverso qualunque genere di letteratura (o arte in generale), veicola uno sguardo coerente e personale sul valore dell’esistenza, allora anche Gide – e lo stesso potrebbe dirsi ad esempio per Dostoevskij – è ascrivibile all’ambito filosofico. Di certo, a prescindere da questo, alle spalle di Gide vi è il sorgere e consolidarsi di un contesto filosofico che lo scrittore francese abbraccia entusiasticamente, seppur in una continua tensione spirituale. E di certo l’esperienza letteraria gidiana, comunque la si voglia considerare, influenzò la Francia del Novecento non soltanto letterariamente ma anche filosoficamente – sulla questione morale di sicuro. 78 Le convinzioni e posizioni filosofiche di Gide emergono sensibilmente dai suoi scritti, a partire dai primissimi lavori, sostenute – come già detto – dalla necessità di autocomprensione e accettazione di sé. Vi è una completa fusione tra vita-pensiero e pratica letteraria dell’autore, per cui ogni opera si ergerà a portavoce del sentimento filosofico che in quel momento domina il suo modo di agire. Non è possibile determinare quanto egli avesse coscienza della portata dell’appello personale a cui dedicava i suoi scritti e di quanto questo avrebbe potuto irrompere nella realtà per trasformarla, tuttavia possiamo esser certi che volesse mostrarsi all’umanità come testimone dei benefici dell’applicazione alla vita d’una particolare filosofia da lui “sperimentata”. Attraverso la letteratura e la filosofia, Gide comprende come i suoi tormenti, le turbe mentali che lo avevano cresciuto, fossero frutto di un’educazione fondata su una morale convenzionale, repressiva, e su una tensione religiosa portata al parossismo, le quali, invece che mantenere l’uomo nella sua condizione naturale – e pertanto equilibrata –, cercavano il suo innalzamento a Dio recidendo i legami vitali con la natura. Loro prodotto non poteva che essere un uomo malato, estraneo a se stesso; e se l’uomo in questione si ritrova altresì emarginato dalla società per la sua tendenza omosessuale, la situazione assumerà tinte ancor più fosche. Gide avverte il bisogno di recuperare una serenità perduta, fino ad allora mai conosciuta se non nella propria immaginazione, di lasciar al corpo la propria espressione naturale, dar libero sfogo all’istintualità che da tempo rivendica una riemersione tra le censure causate dalla morale. In questa prima fase di intima liberazione la filosofia di riferimento non può che essere quella di Nietzsche, che, allo scadere del XIX secolo, già suscitava accesi dibattiti in Europa. Gide fu tra i primi in Francia a trasmettere, con mezzi non convenzionali quali il lirismo letterario – giacché «per ben parlare di Nietzsche bisogna essere più passionali e meno scolastici»123 –, quello che lui chiama “niceismo”. In una [123] ��������� A. Gide, Lettres à Angèle, Mercure de France, Paris 1900; tr. it. Lettere 79 lettera del 1898 – quindi con il filosofo tedesco ancora in vita – Gide esprime esplicitamente l’entusiasmo per il pensiero di Nietzsche, il quale riempie di vita gioiosa [gli uomini], con essi vive nel mezzo delle rovine e vi semina a più non posso. Mai è così esuberante di vita come quando si tratta di mandare in rovina cose mortali e tristi. Allora ogni pagina è saturata da una energia creatrice: indistinte novità vi si agitano; sa prevedere, sa presentire e chiama a raccolta e ride. – opera stupenda? No, ma prefazione d’opere stupende. Dunque Nietzsche demolisce? Suvvia! Vi dico che costruisce, è tutto indaffarato a costruire.124 Nietzsche non è semplicemente il decostruttore dell’impalcatura platonico-cristiana della vita, bensì colui che permette una “rinascita”, la costruzione di valori nuovi dettati dalla ritrovata “fedeltà alla terra”, dal coraggio dell’accettazione della “morte di Dio” – o meglio della sua “mancata nascita”. E dunque l’«energia creatrice» di cui parla Gide è quella che erompe da un uomo finalmente padrone di se stesso, consapevole delle sue radici terrene, della sua “nobile miseria”. I nutrimenti terrestri (Les nourritures terrestres, 1897) – la cui pubblicazione precede di un solo anno le “considerazioni nietzscheane” sopracitate – sono l’esempio più affascinante di questa “rinascita”, vera e propria “purificazione” gidiana. Non è un romanzo, poiché manca d’un preciso intreccio di avvenimenti, bensì uno sfogo lirico, la narrazione della liberazione dello spirito e del corpo dall’oppressione della tradizione; perfetto “manuale edonistico” incentrato sullo sprigionamento del fervore istintivo. Agire senza giudicare se l’azione sia buona o cattiva. Amare senza giudicare se sia il bene o il male. Natanaele, io ad Angela, in Incontri e pretesti, Bompiani, Milano 1945, (pp. 71-104), cit., p. 81. [124] Ibidem. 80 t’insegnerò il fervore. […] Ciò che di più bello ho conosciuto sulla terra / Ah! Natanaele! è la mia fame.125 L’interlocutore di Gide, Nathanaël, è lo scrittore stesso prima della “scoperta della natura”, ovvero l’uomo malato, represso da una morale meschina e menzognera, neutralizzatrice delle passioni terrene e del primigenio rapporto uomo-natura. Qui Gide si colloca al di là del bene e del male riflettendo liricamente la sua personale «rieducazione degli istinti»126 e la riscoperta di sé sperimentata nel primo viaggio in Algeria del ‘93. Dalla sua autobiografia leggiamo: La morale con la quale ero vissuto fino a quel giorno, cedeva da poco a non sapevo bene quale cangiante visione della vita. Cominciavo a intravedere che il dovere non era lo stesso per ciascuno, e che anche Dio poteva avere in orrore l’uniformità contro cui protestava la natura, ma cui tendeva, mi sembrava, l’ideale cristiano, nella sua pretesa di mortificare la natura stessa. […] Invero ero inebriato dalla diversità della vita.127 L’allontanamento di Gide dalla religione sarà graduale: l’ateismo vero e proprio verrà abbracciato soltanto nell’ultima fase della sua vita; ancora nel ’26 Gide può confessare: «non dissi addio al Cristo senza una specie di schianto; per questo oggi dubito di averlo mai abbandonato»128. Per il momento, il giovane scrittore, considera l’attuale morale puritana a cui venne rigorosamente educato attuazione non fedele dell’insegnamento di Cristo; ed è proprio – paradossalmente – il pensiero nietzscheano ad assumersi, secondo Gide, le [125] ��������� A. Gide, Les nourritures terrestres, Mercure de France, Paris 1897; tr. it. I nutrimenti terrestri, Garzanti, Milano 2004, cit., pp. 93, 110. [126] ������������������������ Cfr. p. 299 di A. Gide, Si le grain ne meurt, Nouvelle Revue Française, Paris 1926; tr. it. Se il grano non muore, Bompiani, Milano 1990. [127] Ivi, pp. 266-267. [128] Ivi, p. 279. 81 conseguenze di una piena realizzazione del protestantesimo. Infatti accogliere il pensiero nietzscheano «è possibile solo a cervelli da lunga pezza preparati a riceverlo da[l] […] protestantesimo o da un innato giansenismo, […] [i quali] conservano tutto il calore della fede»129. Perché Nietzsche è un credente: ha fede nella vita; distrugge, ma ancor più costruisce. La reinterpretazione gidiana di Nietzsche gli è utile per combattere la menzogne della morale convenzionale, senza però intaccare il piano metafisico, momentaneamente saldo; lo scetticismo ateo appare ai suoi occhi ancora troppo arido per realizzare quell’immersione – richiesta dalla crisi spirituale che lo ossessiona – nella natura viva. Tuttavia Gide «non cred[e] più al peccato»130 e, durante l’esperienza algerina, troverà il vero benessere nella voluttà131: Capivo finalmente quanto orgoglio si celasse in tale resistenza a ciò che cessavo di chiamare tentazione poiché ormai smettevo di fortificarmi contro di lei.132 È questa la felicità, il desiderio definitivo dell’uomo: «la mia felicità è fatta di fervore. Attraverso indistintamente ogni cosa, io ho perdutamente adorato»133. Per la prima volta Gide sperimenta la gioia dell’innocenza; il sentimento della colpa ha a che fare con una morale non più sua. Nel viaggio in Algeria la natura di Gide riemerge dall’assopimento dell’infanzia per manifestarsi nella sua veste originaria: il piacere della carne e la libera e desiderata esperienza dell’omosessualità. Gide recupera il fondamentale equilibrio che lo fonde con la natura lasciando cadere gli [129] A. Gide, Lettere ad Angela, cit., p. 80. [130] A. Gide, I nutrimenti terrestri, cit., p. 115. [131] Cfr. A. Gide, I nutrimenti terrestri, p. 121. [132] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 293. [133] A. Gide, I nutrimenti terrestri, cit. p. 145. 82 ostacoli pregiudiziali che ancora vivevano in lui. L’ambiente africano, che gli permette di «abbeverarsi di luce» in un’«estasi sensuale»134, si fa complice di questa rinascita: «mi sembrava perfino di esistere per la prima volta, uscito dalla vallata dell’ombra della morte, di nascere alla vita vera»135. Il calore della terra predispone l’animo gidiano all’accoglimento della sua verità. La narrazione di questa “nuova vita” prenderà forma anche e soprattutto ne L’immoralista (L’immoraliste), primo vero e proprio romanzo di Gide apparso nel 1902, che narra del viaggio di nozze – con l’Africa come tappa fondamentale – di Michel e Marceline. Troppo autobiografico per non esser anche questo un tentativo di autoanalisi dell’autore, e, nello stesso tempo, necessità di comunicare la gioia della libertà conquistata. Anche qui sarà la natura africana, il sole cocente, le carezze del vento, i canti degli uccelli e i giochi all’aria aperta dei fanciulli ad influire profondamente sulla disposizione d’animo del protagonista: L’aria era luminosa. Le cassie, i cui fiori spuntano assai prima delle foglie, la imbalsamavano: a meno che non venisse da ogni parte quella specie d’odore leggero, incognito che mi pareva entrare in me da più sensi e mi incantava. […] Mi divertivo ad ogni rumore. Mi ricordo d’un arbusto la cui scorza da lontano mi pareva d’una consistenza così bizzarra che dovetti alzarmi per andarla a palpare. Più che toccarla la carezzavo: ci trovavo un rapimento… […] Dovevo forse nascere alla vita in quel mattino?136 Michel si sente guarire, non solo dalla malattia che lo aveva colpito durante il viaggio, ma anche dalla sua vita precedente straripante di pensiero, il quale mai gli permise di sentire [134] Ivi, p. 204. [135] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 302 . [136] ��������� A. Gide, L’immoraliste, Mercure de France, Paris 1902; tr. it. L’immoralista, Jandi Sapi, Roma-Milano 1945, cit., p. 52. 83 realmente; arriva addirittura a rinnegar la sua statica vita da studioso, dedicata alla teoria, che sempre gli precluse lo stupore di fronte all’azzurro del cielo. La natura viva gli ricorda le pretese dei suoi sensi sullo spirito, le perentorie esigenze delle sensazioni, della corporeità; «tutto il [suo] essere affluiva verso la pelle»137. Michel-André, nella sua vita in Francia, «avev[a] preso la decisione di dissociare il piacere dall’amore»138 proiettando nella figura della sposa Marceline-Emanuelle tutta la venerazione spirituale possibile, che non avrebbe potuto, e dovuto, collidere con la passione carnale. Il risultato di questa scissione esperienziale, dettata dall’educazione puritana, non fece altro che reprimere il bisogno sensoriale di Michel-André. Ed ecco come l’insopprimibile naturalità dell’uomo riemerge dall’offesa proprio nel momento di contatto con le radici forzatamente dimenticate: In un’anfrattuosità di quelle rocce scorreva dell’acqua chiara. […] Tre volte c’ero andato, m’ero coricato, disteso sull’argine, pieno di sete e pieno di desideri. […] Quel […] giorno avanzai, deciso, sino all’acqua più pura che mai, e senza più riflettere, mi ci tuffai tutto intero. […] Lasciai l’acqua e mi distesi sull’erba. Là crescevano mente odoranti. Le colsi, ne spremetti le foglie, ne sfregai tutto il mio corpo umido ma bruciante. Mi guardai lungamente, senza più vergogna alcuna, con gioia.139 Michel-André, a Biskra, ritrova la gioia del corpo, la genuinità del piacere, «un forsennato desiderio di vivere»140. L’attrazione per i ragazzi algerini non verrà più mascherata o giudicata dalle artificiosità di una morale caduca. Da ora in poi Gide sarà un altro uomo, non estraneo al modello nietzscheano dell’übermensch (oltreuomo), o meglio dello “spirito libero”. [137] Ivi, p. 74. [138] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 278. [139] A. Gide, L’immoralista, cit., p. 75 . [140] A. Gide, Se il grano non muore, cit., p. 308. 84 2. La vita è capriccio? Gide non ha solo scritto, ma «ha vissuto – dice Sartre – […] le sue idee, e una soprattutto: la morte di Dio»141. E infatti sarà la presa di posizione avversa alle istituzioni e tradizioni morali, che si facevano portavoce di Dio, a permettere a Gide d’assaporare il suo nuovo respiro, mentre l’idea di Dio sopravvivrà nel suo animo ancora per molti anni. Ma la “morte di Dio” non ha soltanto il risvolto positivo della “rigenerazione” dell’esistenza, ma anche quello negativo della perdita di punti di riferimento, quello che Nietzsche identificò col nichilismo. Dipende dalla forza dell’uomo, dalla sua volontà, se abbandonarsi all’angoscia o canalizzare l’energia per risorgere. Gide affronterà anche quest’ulteriore aspetto mutuato dal pensiero nietzscheano – per il quale viene oggi maggiormente ricordato – introducendo nei suoi lavori narrativi la formulazione e dimostrazione dell’atto gratuito. L’abbandono del fondamento della morale tradizionale, che rendeva l’esistenza necessaria – causata e diretta a un fine –, provoca nell’uomo uno spaesamento vertiginoso, quella «specie di nausea» di cui parlerà Sartre; I nutrimenti terrestri e L’immoralista narrano già della possibilità di una vita priva di condizionamenti etici e storici, regolata sul “principio del piacere”, ma è con I sotterranei del Vaticano (Les caves du Vatican) del ‘14 che Gide darà spazio al “capriccio” a cui questa liberazione può condurre. Il primo passo è sempre quello della presa di coscienza: Per la prima volta, un dubbio spaventoso sorgeva in lui […], un dubbio sulla sincerità di quei sorrisi, sul valore di quell’approvazione, sul valore delle sue opere, sulla realtà del suo pensiero, sull’autenticità della sua vita.142 [141] J.-P. Sartre, Attualità di Gide, in Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, il Saggiatore, Milano 2009, cit., p. 446. [142] ��������� A. Gide, Les caves du Vatican, Nouvelle Revue Française, Paris 1914; 85 Che il senso della vita non sia quel che ci viene raccontato? I dubbi iniziano a pervadere il visconte Julius de Baraglioul, scrittore affermato, tra i protagonisti di questo romanzo. Sarà lui a formulare la teoria dell’atto gratuito (prefigurando lo sconcertante episodio di chiusura) dopo aver saputo dal cognato Amédée Fleurissoire, incontrato fortuitamente in Piazza San Pietro in Vaticano, dell’imprigionamento del Santo Padre nei sotterranei di Castel Gandolfo e della sua sostituzione con un sosia. Juluis era appena stato ricevuto dal papa – da lui creduto tale – per rivolgere l’appello d’aiuto da parte d’un amico convertito, caduto in disgrazia dopo la radiazione dalla massoneria; Amédée, invece, era lì per la crociata, altrettanto segreta, di liberazione del pontefice. Prima dell’incontro tra i due, Gide avverte il lettore dell’imbroglio messo in scena da Protos, abile truffatore, che, travestendosi da prete, aveva inventato la storia del rapimento per ottenere denaro (che a suo dire avrebbe aiutato la liberazione del papa) da qualche ingenua, devota, e soprattutto ricca famiglia. Ma Julius, informato dal cognato del grave episodio, non mostra alcuna preoccupazione per le sorti della Chiesa: ad infastidirlo è solo il tempo perso con un impostore. Liquida la questione portando il cognato a far colazione, e qui gli confesserà la «rivelazione»143 che lo colse durante il colloquio col Santo Padre, al punto di distrarsi e ritrovarsi a «pensare a qualcos’altro»144: tr. it. I sotterranei del Vaticano, Feltrinelli, Milano 2007, cit., p. 32. [143] Ivi, p. 129. [144] Ibidem. 86 “Il profitto non è la sola motivazione della condotta umana; […] ci sono azioni disinteressate. […] Quando dico disinteressato, intendo gratuito. E penso che il male, ciò cui diamo il nome di male, può essere tanto gratuito quanto il bene.” / “Ma, in tal caso perché farlo?” / “Appunto! per lusso, per spreco, per giuoco. Perché sostengo che le anime più disinteressate non sono necessariamente le migliori, nel senso cattolico della parola; anzi, dal punto di vista cattolico l’anima più degna è quella che sa far meglio i suoi conti.”145 Gide enuncia la teoria dell’atto gratuito per bocca di Julius e prepara il lettore a qualcosa di sconvolgente: il delitto senza scopo, pago esclusivamente dell’idea della riuscita. Lafcadio Wluiki, scopertosi figlio illegittimo del morente conte Juste-Agenor de Baraglioul e fratellastro di Julius, dopo aver riscosso l’eredità a lui dovuta, parte da Parigi verso l’Italia con l’intento d’imbarcarsi alla volta di nuovi mondi. Sul treno per Napoli incontra Fleurissoire, il quale diverrà, suo malgrado, l’oggetto dei suoi esperimenti e diletti. Quel “vecchio” sconosciuto lo irrita, gli ispira fantasticherie da assassino: chi sospetterebbe di Lafcadio de Baraglioul se, per mano sua, quella “cavia” sprofondasse nel buio della notte, tra le rotaie del treno? L’episodio verrebbe etichettato come disgrazia, suicidio; le investigazioni cercherebbero invano un movente per l’omicidio, ma Lafcadio non ne ha, ed è solo «il movente, il motivo del delitto, […] ciò che tradisce il criminale»146. A disorientare il lettore è l’invocazione d’innocenza che sia Julius che Lafcadio attribuiscono al misfatto compiuto senza motivazioni: tolto l’interesse cade la colpa. A muovere Lafcadio è, infatti, solo il saggiar il disinteresse nella realtà, trasferir la fantasia sulla carne; sperimentare sé stessi, la propria potenza; consacrar la libertà. «Non tanto degli avvenimenti sono curioso, quanto di me [145] A. Gide, I sotterranei del Vaticano, cit., p. 128. [146] Ivi, pp. 129-130. 87 stesso»147 pensa Lafcadio nei minuti che precedono l’atto; Gide fa sprofondare nel solipsismo e nel culto di sé il suo personaggio, l’individualità domina l’intero episodio: sono i suoi pensieri, la sua segreta interiorità, a chiedere al lettore la complicità d’un gesto assurdo, gratuito, “ingiusto”. Ancora indeciso, Lafcadio, si affida alla sorte, al gioco: «se posso contare fino a dodici, senza affrettarmi, prima di vedere una luce nella campagna, il tapiro è salvo. Cominciamo: uno; due; tre; quattro (piano, piano!); cinque; sei; sette; otto; nove… Dieci, una luce…»148. Tutto si compie. Egli diviene la consacrazione vivente dell’“illuminazione” di Julius, il quale, ancora ignaro di tutto, ci viene mostrato intento a creare un personaggio – per il suo prossimo romanzo – che incarni le sue nuove idee. Le notizie sui giornali dell’inspiegabile morte del cognato lo ispireranno, mentre Lafcadio, accortosi (ritrovando un biglietto tra gli oggetti personali della vittima) della parentela che legava Fleurissoire a Julius, è invaso «da un desiderio irresistibile di rivedere il fratello, una sfrenata curiosità di assistere alle ripercussioni di quel fatto sulla sua mente calma e logica»149. Lafcadio aveva bisogno di commettere quel delitto per affermare la propria libertà e Julius ha bisogno di un personaggio come Lafcadio per oltrepassare i limiti imposti dalla tradizione, dai suoi valori e dal senso comune. Agire gratuitamente è un modo di sentire le vibrazioni dell’esistenza, di affrancare una libertà occlusa. Noi siamo liberi, completamente liberi e assurdi, gratuiti, contingenti. Alla gratuità di quest’esistenza corrisponde la gratuità dell’azione che riesce ad assumere tratti nobili: capacità di librarsi, accettare il proprio destino. Esprimere la propria potenza, per il semplice bisogno umano d’esprimerla, è la realizzazione completa di una libertà sempre [147] Ivi, p. 139. [148] Ivi, pp. 139, 140. [149] Ivi, pp. 142-143. 88 in bilico. Kirillov150 si uccide per diventare Dio, Lafcadio uccide per sentirsi onnipotente, ma contemporaneamente innocente; entrambi sperimentano la “morte di Dio”, lo sgretolarsi di un terreno e il dubbio angosciante che, una volta sgretolato del tutto, all’uomo resterà un’unica scelta: disperarsi o accettare. Lafcadio ha già accettato, forse senza sceglierlo, di assumersi gli oneri di un’esistenza completamente gratuita in un mondo altrettanto gratuito; forse, così, la vita avrà un sapore meno anonimo. Gide condivide col lettore i suoi dubbi: esiste qualcosa che l’uomo ha soffocato per secoli sotto montagne di macerie e che ora è necessario riesumare? Qual è la vera “natura” dell’uomo? Il disinteresse, il “capriccio”, è prodotto della noia del mondo borghese o è l’autenticità primordiale dell’uomo? I sotterranei del Vaticano trova la sua ragion d’essere nell’innovativo fascino letterario proposto dal suo autore, nel dono che egli crede di lasciare disinteressatamente al lettore; tuttavia esso rimane un intento di marca nietzscheana – cosciente o meno – di demolizione della morale tradizionale, o perlomeno di critica nei confronti di una società chiusa, snaturante. Gide è tra i primi in Francia, in ambito letterario, a maturare ed esaltare quegli interessi filosofici – esploratori dell’ambiguità e precarietà della condizione umana – che diventeranno i fuochi dell’esistenzialismo filosofico e letterario novecentesco; le influenze di Nietzsche, su un piano prettamente filosofico, e Dostoevskij, su quello narrativo, conducono lo scrittore a una messa in discussione dell’ordine stabilito, all’estenuante ricerca di una nuova dimensione per l’uomo insoddisfatto del mondo, costretto a sopportare una realtà arbitraria e decadente, ma spacciata per l’unica possibile; contro la menzogna, per la libertà. Ma la libertà che propone l’opera gidiana è quella dell’individuo, la protesta di un uomo svincolato dalla realtà effettuale; «Gide [150] Uno dei personaggi del romanzo I demoni (1873) di Fëdor Dostoevskij. 89 non sa che cosa sia una situazione»151. I suoi personaggi vivono limitati dalla loro interiorità, dalla loro smania di realizzazione personale, la quale sembra raggiungibile attraverso una semplice presa di coscienza: l’accettazione di sé; essi vivono e pensano solo per sé, non per l’avvenire dell’umanità, se non marginalmente, come esito secondario. È Gide stesso che racconta la sua esperienza di “redenzione” attraverso i suoi alter ego letterari; André-Lafcadio è uno, astratto, conosce soltanto i problemi del suo malessere spirituale, e non, ad esempio, la sofferenza provocata dal suo disinteresse, dal suo “capriccio”, il dolore “assurdo” provato dai famigliari di Fleurissoire. Non crede e non sa che i suoi atti muovono il mondo intero, condizionano l’avvenire e i gesti degli altri, plasmano l’umanità come vorrebbe che sia. Questa è, invece, la teoria dell’umanismo sartriano, è l’engagement, la consapevolezza del potere delle parole, e dunque il loro utilizzo calibrato, atto a consapevolizzare l’uomo della responsabilità di ogni suo gesto libero. Gide, poiché elude la situazione socio-politica concreta, si colloca dalla parte opposta dell’impegno, nella gratuità che non tiene conto delle conseguenze, che agisce per puro “piacere”. Ciononostante anche in Gide si va formando un umanismo, diverso da quello sartriano, ma anche e soprattutto da quello autocelebrativo. Sì, si tratta pur sempre di celebrare l’uomo, ma non in quanto culturalizzato, bensì redento, ossia lo spirito libero nietzscheano; colui che prende le distanze dalla tradizione per ricongiungersi alla natura; una celebrazione che qualche tempo dopo, Camus, lettore di Gide, avrebbe liricamente interpretato come «la felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo»152. L’atto gratuito è la conseguenza dell’assurdo che invade la nostra quotidianità, quella dell’individuo che si confronta con la “morte di Dio”. Non è detto che questa conduca [151] J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1990, cit. p. 92. [152] A. Camus, Nozze, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 7. 90 all’accettazione “misurata” della propria condizione come per il Gide de I nutrimenti terrestri o il Michel de L’immoralista; può invece portare all’eccesso, all’esperimento estremo, all’anarcoindividualismo come esemplificato nella figura di Lafcadio. Gide, mosso da una tensione interna, offre al lettore varie possibilità di realizzazione di un’esistenza autentica, per poi optare – per se stesso – verso una cosciente trasvalutazione dei valori tradizionali e una purificazione attraverso la liberazione del piacere “proibito”. Compie tutto questo, in primo luogo, per se stesso, per cristallizzare la sua conquista personale; tuttavia, come effetto secondario, l’opera gidiana si offre come riflessione sulla condizione umana, sui suoi pregiudizi e su come combatterli. È una testimonianza che mette a disposizione di tutti i segreti appresi in un tormentoso viaggio. Il Gide scrittore sarebbe rimasto in quell’“età dell’adolescenza” di cui parla Sartre, incapace – forse volontariamente – di superare la dimensione dell’“uomo solo”153; un uomo in perpetua lotta contro i propri pregiudizi e quelli della società, in perenne contrapposizione all’altro. L’influenza gidiana sul romanzo esistenzialista francese – perlomeno della sua prima fase, quella che precede L’esistenzialismo è un umanismo – è facilmente rintracciabile: opere come La nausea e Lo straniero sono gli esempi più significativi. Anche Meursault, protagonista del romanzo di Camus, compie il suo atto gratuito: [153] Non è da dimenticare, però, il vero e proprio engagement gidiano delle requisitorie scritte a seguito dei viaggi in Congo, Chad e U.R.S.S.: non romanzi, ma pur sempre letteratura. 91 il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.154 Meursault spara sul corpo inerte del marocchino disteso sulla spiaggia. Lo fa senza un motivo apparente, vinto dall’«ubriachezza opaca del sole»155. Attraverso la narrazione di quest’atto assurdo Camus presenta al lettore la vita come gratuità, smarrimento, estrema libertà d’azione. Il delitto è immotivato, ma l’avversione degli elementi naturali ai danni di Meursault potrebbe esser interpretata come la rappresentazione del possibile disaccordo tra uomo e natura, la vittoria di storia e cultura su questa. Camus, come Gide, utilizzerà la letteratura come testimonianza, come esperienza di rinascita alla vita “misurata”, a quella “fedeltà alla terra” nietzscheana intenta a ridimensionare la corrotta mentalità umana – Nozze è uno degli episodi più riusciti. La dismisura, l’idealizzazione del mondo, la supremazia delle ideologie o le menzognere rassicurazioni metafisiche – tutte racchiuse nell’esemplificazione metaforica dell’atto gratuito di Meursault – portano inevitabilmente a tragici scenari. Quest’aspetto, così fondamentale in Camus, è meno approfondito in Gide: il Pied-Noir, impegnato in prima persona nella resistenza contro totalitarismi e conseguenti dismisure imperanti, presta maggior attenzione ai pericoli dell’atto gratuito – da questo punto di vista egli è più affine al Sartre della conferenza sull’esistenzialismo, sebbene originalità e divergenze rimangano comunque numerose e insormontabili. Tuttavia, anche l’atto gratuito di Lafcadio ha in sé i risvolti negativi dell’abuso di potenza, della sopraffazione immotivata di un uomo libero nei confronti di un uomo altrettanto libero; Lafcadio, però, agisce per “gioco”, per misurare la sua potenza, non è mosso da alcuna forza misteriosa, da nessun “accecamento” [154] A. Camus, Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., pp. 75-76. [155] Ivi, p. 76. 92 momentaneo. Meursault non è lucido, Lafcadio sì. Camus e Gide mostrano, attraverso i loro romanzi, le possibili conseguenze della “morte di Dio”, ma senza darne coscienza ai personaggi, creati solo in funzione della loro parte. I saggi filosofici camusiani – Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta –, però, gettano luce sull’intento del romanziere, per cui la non piena coscienza della vita come contingenza da parte di Meursault è completata dall’interpretazione del suo autorefilosofo e da quella del lettore, mentre per i lettori di Gide, al contrario, l’interpretazione resta inevitabilmente aperta: egli ci mostra i fatti, senza giudizi di valore. Roquentin, protagonista de La nausea di Sartre, a differenza di Meursault e Lafcadio, sente la Nausea invaderlo, e sa che cosa significa. Il mio temperino è sul tavolo. L’apro. Perché no? In ogni modo porterà un piccolo cambiamento. Poso la mano sinistra sul block-notes e mi vibro un bel colpo sulla palma. Il gesto era troppo nervoso; la lama è scivolata, la ferita è superficiale. Sanguina.156 Roquentin si ferisce senza motivo, la vista del «sangue che ha cessato finalmente di essere [lui]»157 gli ricorda l’impossibilità d’evasione di cui quest’esistenza è custode. Il suo atto è gratuito, non è foriero di altro dolore, se non superficiale, ma è cosciente della sua gratuità, del suo muoversi per mezzo d’un corpo fragile e contingente. Sartre si identifica con Roquentin, Gide e Camus non fanno altrettanto con Lafcadio e Meursault, limitandosi a narrare possibili scenari dell’assurdo; entrambi però rivendicano la riscoperta della “felicità terrena”, immergendosi completamente nelle proprie opere: I nutrimenti terrestri e Nozze sono i loro “manuali” di gioia e libertà. [156] J.-P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 137. [157] Ibidem. 93 Gide è stato un innovatore, romanziere anti-romanziere, uomo assetato di vita ed esperienze; la fecondità letteraria della sua analisi interiore, del superamento dei propri limiti, è dovuta al coraggio d’addentrarsi nei lati oscuri della sua persona per uscirne ancor più fortificato. Ne I falsari (Les fauxmonnayeurs), romanzo del ’25 che riflette nei personaggi vari significativi aspetti della personalità gidiana, egli ci ricorda, per bocca dello scrittore Édouard, che: in arte e, in particolare, in letteratura, contano solo quelli che si lanciano verso l’ignoto. Non si scoprono terre nuove senza accettare di perdere prima di vista e per molto tempo ogni terra sconosciuta.158 [158] ��������� A. Gide, Les faux-monnayeurs, Gallimard, Paris 1925; tr. it. I falsari, Bompiani, Milano 2010, cit. p. 332. 94 V ITA DI ANDRÉ GIDE André Gide nacque a Parigi il 22 novembre 1869. Fu scrittore e drammaturgo. Nel 1947 vinse il premio Nobel per la Letteratura «per la sua opera artisticamente significativa, nella quale i problemi e le condizioni umane sono stati presentati con un coraggioso amore per la verità e con una appassionata penetrazione psicologica» (motivazione dell’Accademia Svedese). Tra l’85 e l’88 visse un periodo di esaltazione religiosa, frutto della sua educazione puritana, che condivise con la cugina Madeleine (la quale divenne sua moglie nel ’95). Ma nel ’93, durante un viaggio tra Tunisia, Algeria e Italia con l’amico pittore Paul Laurens, riscoprì il piacere dei sensi (fatto che influirà molto sulla sua produzione letteraria successiva), nonché un’omosessualità poi confessata in Corydon. Con Copeau, Ghéon, Schlumberger e Rivière fondò la Nouvelle Revue Française, che nel periodo tra le due guerre divenne la più prestigiosa rivista letteraria europea. Con il viaggio in Congo (1925-1926), e la conseguente denuncia dello sfruttamento colonialista, iniziò la sua presa di coscienza politica che lo portò nel ‘32 ad aderire al comunismo, anche se dopo il viaggio in Unione Sovietica (1936) ne criticherà aspramente i metodi. Nel ’35, assieme allo scrittore André Malraux, presiedette al primo Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Morì a Parigi il 19 febbraio 1951 e venne sepolto vicino alla moglie Madeleine nel piccolo cimitero di Cuverville, nel dipartimento della Seine-Maritime. 95 Opere principali. Romanzi e racconti. I quaderni di André Walter (Les cahiers d’André Walter), 1891. Paludi (Paludes), 1895. I nutrimenti terrestri (Les nurritures terrestres), 1897. L’immoralista (L’immoraliste), 1902. Il ritorno del figliol prodigo (Le retour de l’enfant prodigue), 1907. La porta stretta, (La port étroite), 1909. Isabelle, 1911. I sotterranei del Vaticano (Les caves du Vatican), 1914. La sinfonia pastorale (La symphonie pastorale), 1919. I falsari (Les faux-monnayeurs), 1925. La scuola delle mogli (L’école des femmes), 1929. Saggi. Lettere a Angela (Lettres à Angèle), 1900. Dostoevskij,1923. Corydon, 1924. Viaggio in Congo (Voyage au Congo), 1927. Ritorno dal Ciad (Le retour du Tchad), 1928. Ritorno dall’URSS (Retour de l’U.R.R.S.), 1936. Pagine d’autunno (Feuillets d’automne), 1949. Teatro. Filottete o il Trattato delle tre morali (Philoctète ou le Traité des trois morales), 1899. Saül, 1904. Edipo, (Oedipe), 1930. Persefone (Persèphone), 1934. Teseo (Thésée), 1946. Autobiografia e diari. Se il seme non muore (Si le grain ne meurt), 1926. Pagine del Diario 1929-1932 (Pages de Journal 1929-1932), 1934. 96 Nuove pagine del Diario 1932-1935 (Nouvelles Pages de Journal 1932-1935), 1936. Diario 1889-1939 (Journal 1889-1939),1939. Diario 1942-1949 (Journal 1942-1949),1950. Così sia ovvero Il gioco è fatto (Ainsi soit-il ou les jeux sont faits), 1952. Trame dei romanzi (o racconti) citati. I nutrimenti terrestri, 1897. Più che un romanzo si tratta di un poema in prosa, un’alternanza di riflessioni e sogni espressi in forma lirica, i cui temi principali sono il fervore, la gioia dei sensi e il felice contatto con la natura. Il narratore si rivolge a Nathanaël per raccontargli le proprie esperienze e gli insegnamenti appresi dal maestro Ménalque (che assomiglia molto ad Oscar Wilde, col quale Gide aveva effettivamente da poco fatto amicizia). L’immoralista, 1902. È la confessione fatta ad alcuni amici di un giovane filologo, Michel, il quale ha sposato Marceline, donna alla quale era molto legato ma che non ha mai amato veramente. Durante il viaggio di nozze in Nord Africa Michel si ammala di tubercolosi e rischia di morire, ma le cure della moglie, e soprattutto la compagnia dei giovani del luogo, riescono a salvarlo. Questa esperienza lo rinnova, lo apre alla vita semplice del corpo, soffocata fino ad allora da una morale tradizionale reprimente e da una professione dedita esclusivamente allo studio. I due tornano in Francia, ma lontani da Parigi e dalla vita accademica, stabilendosi in una fattoria della Normandia che permette loro di vivere in modo semplice e a contatto con la natura. Michel inizia una relazione segreta col giovane Charles ed è felice. Ma dovrà presto tornare a Parigi per tenere la sua prima lezione durante la quale incontra Ménalque nelle cui idee ritrova le sue, quelle maturate col viaggio in Nord Africa. E così, approfittando della debilitazione della moglie incinta, tornerà 97 con lei in quei luoghi convincendola che sia proprio quella la soluzione migliore per ritrovare la salute. Tuttavia Marceline, trascurata dal marito, morirà durante il viaggio. I sotterranei del Vaticano, 1914. La nobile famiglia parigina de Baraglioul viene aggirata da un gruppo di truffatori che, travestiti da preti, vanno diffondendo la falsa notizia del rapimento del papa (ad opera della Massoneria), nascosto nei sotterranei di Castel Gandolfo e sostituito da un impostore, per estorcere alle ricche e devote famiglie denaro che sarebbe servito per la sua liberazione. Nel frattempo il giovane Lafcadio Wluiki scopre di essere il figlio illegittimo del morente conte Juste-Agenor de Baraglioul e fratellastro di un famoso scrittore, il visconte Julius de Baraglioul. Alla morte del vero padre, Lafcadio riceve così la sua parte di eredità e parte per nuove avventure. Intanto Amédée Fleurissoire, cognato di Julius, dalla sua città, Pau, prende un treno diretto a Roma con l’obiettivo di salvare il papa. Arrivato in piazza San Pietro incontra lo stesso Julius che era andato dal Santo Padre a chiedere un aiuto per un amico convertito caduto in disgrazia. Qui Julius gli racconta la sua nuova rivelazione dell’“atto gratuito”. Fleurissoire, convinto dai truffatori a raggiungere Napoli, si ritrova sul treno con Lafcadio, il quale lo uccide senza motivo, buttandolo giù dal treno, a conferma della possibilità dell’atto gratuito di cui sopra. Successivamente Protos, il truffatore, dopo aver strangolato l’amante, colpevole di averlo denunciato, viene arrestato con l’accusa di essere l’omicida di Fleurissoire. Il fratellastro Julius consiglia a Lafcadio di pentirsi del suo gesto, ma Geneviève, la figlia di Julius, confessa i suoi sentimenti a Lafcadio, il quale abbandona così ogni idea di redenzione per approfittare delle gioie dell’amore. 98 QUARTO CAPITOLO. NICHILISMI Quant’è profondo l’influsso di Nietzsche nella letteratura filosofica francese del Novecento? Il nichilismo, quali forme letterarie assume? MAEST RO NIET ZSCHE 159 Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere è, accanto a lui, su uno stesso gradino di perfezione... E affermando questo, affermiamo ancora sempre troppo: relativamente parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più pericolosamente aberrante dai suoi istinti. Friedrich Nietzsche, l’anticristo. André Gide e Jean-Paul Sartre hanno in comune la capacità d’esplorare le trame delle frustrazioni figlie della società contemporanea, il coraggio d’osare e raccontar i meandri disordinati dell’esistenza, sovente avvertita come carico eccessivamente penoso per le piccole spalle degli uomini. Entrambi coinvolti, in diversa misura, in quella corrente [159] Saggio apparso per la prima volta nel 2012 su Etica e Letteratura: Stefano Scrima, Gli ammiratori di Nietzsche. La morale del “suolo” nelle esperienze letterarie di Gide e Sarte, in “Etica e Letteratura”, settembre 2012. URL: http://www.etica-letteratura.it/el-interventi.asp?Item=7. 99 filosofico-letteraria che prese il nome di esistenzialismo: Sartre a tutti gli effetti, fino a diventarne il caposcuola francese, Gide, invece, solo marginalmente; celebrato piuttosto come precursore dello sguardo esistenzialista che si fa narrazione, e traghettatore della Francia di fine Ottocento verso il nuovo fervore letterario europeo. Condivisero, con occhi differenti, le esperienze più significative del XX secolo: il primo abbracciò la resistenza – si tratta d’impegno intellettuale – con l’energia dei suoi quarant’anni, mentre il secondo, ultraottantenne, non poté che assumere a riguardo il disincanto d’un uomo giunto al termine delle sue fatiche. Del resto l’evoluzione dell’engagement sartriano è dovuta anche a questo, alle particolari contingenze che legarono l’uomo alla realtà. Gide visse una giovinezza diversa, quella d’una generazione che si apprestava, con l’entusiasmo positivistico da lui rinnegato, a viver l’ebbrezza del nuovo secolo, quello che, nonostante le promesse di rigoglio indefinito, sarebbe diventato il vero e proprio teatro dell’assurdo, o il mattatoio della storia. La differenza tra questi due giganti, oltre il ruolo giocato dalla letteratura nella società – lo scrittore ha sempre, nolens volens, responsabilità sensibilizzante nei confronti del lettore (Sartre); l’opera d’arte risponde all’intima necessità dell’esperienza di sé (Gide) – si incontra nella funzione assunta dalla filosofia nelle loro rispettive produzioni letterarie. Sartre fu filosofo oltre che romanziere – questo è pacifico –, Gide no: pervicace homme de plume non teorizzò mai una propria filosofia, non scrisse il suo L’essere e il nulla; si “limitò” ad accogliere gli impulsi filosofici proposti dal contesto culturale dell’epoca, i più affini alle sue esigenze spirituali. Occorre anzitutto fare una considerazione preliminare a sostegno delle “incursioni” qui proposte: dopo Nietzsche il mondo non fu più lo stesso. Egli è il confluire di vie precedentemente abbozzate, lasciate seccare o mal seminate, scordate sotto terra fino all’arrivo del filosofo di Röcken, che con aforismi e “martello” ri-scolpì i lineamenti del pensiero occidentale. Conosciamo bene la fortuna del corpus nietzscheano – la letteratura non sfuggì ai suoi aculei. 100 Si può dire così che Sartre, nato nel 1905, ebbe modo di tesaurizzare gli insegnamenti nietzscheani che accompagnarono tutta la riflessione filosofico-culturale della prima metà del Novecento europeo. La stagione post-nietzscheana avvertì infatti obbligato il confronto con questo autore capitale (si veda la cosiddetta Nietzsche-Renaissance), cuspide e frattura della tradizione filosofica dominante. Ciò significa che Sartre poté nutrirsi di un’atmosfera rigenerata, di un mondo dal suolo più fermo – o più sdrucciolevole? –, cosciente del suo inestimabile valore, insostituibile; d’una “fedeltà alla terra”, unica possibile dimensione dell’esistenza, eletta a nuova morale. Significa un’antimetafisica come punto di partenza, una libertà riscoperta in tutta la sua potenza “condizionante”. Non si vuol qui affermare un “niceismo” sartriano, bensì suggerire un suggestivo confronto fra alcuni tratti fondamentali del pensiero nietzschenao (uno su tutti la “morte di Dio”) – senza i quali non si potrebbe comprendere del tutto Sartre e la sua generazione – e alcuni punti fermi dell’autore de La nausea. La liaison intellettuale tra Gide e Nietzsche fu, per motivi cronologici, meno “scontata”: necessitò d’un abbandono entusiastico da parte del letterato francese alle coinvolgenti brame d’emancipazione scorte in superficie agli scritti del filosofo, i quali cominciavano a circolare in Europa negli ultimi decenni del XIX secolo. La lettura gidiana di Nietzsche, naïf e poco approfondita, risulta il perfetto viatico per l’abluzione dalla morale tradizionale, sia in termini esperienziali che letterari. Se Sartre si ritrovò al cospetto d’un Nietzsche rielaborato e ormai confezionato dalla critica, che pretese di conoscerlo fino in fondo, Gide ebbe la “fortunata” possibilità di crearsi un Nietzsche personale, epurato da molti dei suoi aspetti (che poi diventarono) caratteristici per esser esaltato come il filosofo dell’«energia creatrice». In una lettera del 1898 leggiamo: [Nietzsche] riempie di vita gioiosa [gli uomini], con essi vive nel mezzo delle rovine e vi semina a più non posso. Mai è così esuberante di vita come quando si tratta di mandare in rovina cose mortali e tristi. Allora ogni pagina è saturata da una 101 energia creatrice: indistinte novità vi si agitano; sa prevedere, sa presentire e chiama a raccolta e ride. – opera stupenda? No, ma prefazione d’opere stupende. Dunque Nietzsche demolisce? Suvvia! Vi dico che costruisce, è tutto indaffarato a costruire.160 Fu questa la filosofia di Gide, quella che poté salvarlo dall’imputridirsi della morale puritana che lo stava risucchiando nelle sabbie del peccato; bastò questo allo scrittore francese per esaurir l’esigenza d’una propria edificazione filosofica: tutta la sua opera, a vari livelli, da I nutrimenti terrestri a L’immoralista, da I sotterranei del Vaticano all’autobiografia Se il seme non muore (Si le grain ne meurt), sarà permeata da questa volontà di liberazione e accettazione della vita, che trovò nel suo Nietzsche lo slancio filosofico iniziale. Leggiamo questi passi esemplificativi dal breve romanzo autobiografico L’immoralista: L’aria era luminosa. Le cassie, i cui fiori spuntano assai prima delle foglie, la imbalsamavano: a meno che non venisse da ogni parte quella specie d’odore leggero, incognito che mi pareva entrare in me da più sensi e mi incantava. […] Mi divertivo ad ogni rumore. Mi ricordo d’un arbusto la cui scorza da lontano mi pareva d’una consistenza così bizzarra che dovetti alzarmi per andarla a palpare. Più che toccarla la carezzavo: ci trovavo un rapimento… […] Dovevo forse nascere alla vita in quel mattino?161 Il protagonista del romanzo, Michel, alter ego dello scrittore, viene rapito dall’ebbrezza sprigionata al contatto con la natura, dalla riscoperta febbrile della corporeità. Gide nasce a nuova vita, purificato, cogliendo appieno la portata dell’insegnamento nietzscheano. [160] ��������� A. Gide, Lettres à Angèle, Mercure de France, Paris 1900; tr. it. Lettere ad Angela, in Incontri e pretesti, Bompiani, Milano 1945 (pp. 71-104), cit., p. 81. [161] ��������� A. Gide, L’immoraliste, Mercure de France, Paris, 1902; tr. it. L’immoralista, Jandi Sapi, Roma-Milano 1945, cit., p. 52. 102 Torniamo a Sartre. Instancabile scrittore – filosofo, romanziere, critico letterario, giornalista – non scrisse mai di Nietzsche, o perlomeno mai gli dedicò studi o articoli monografici. Ma ora si potrebbe obiettare: nemmeno Gide scrisse di Nietzsche, salvo qualche lettera privata! È vero, ma Gide non si dava né alla critica né alla filosofia162, Sartre sì. È un paradosso: trattare degli influssi nietzscheani su un filosofo “indifferente” a Nietzsche. Alcuni sostengono che Sartre non “elaborò” mai un suo Nietzsche a causa d’una sorta di complesso d’inferiorità che lo paralizzava di fronte ai contemporanei più esperti in materia (ad esempio Bataille). Usciamo dall’impasse cercando d’attirar l’attenzione esclusivamente sulle opere narrative dei due autori francesi (la gran parte della produzione gidiana e una considerevole di quella sartriana), il che permette di concentrarci, in questo caso, sulle intersezioni filosofiche che saturano i romanzi di Sarte prescindendo dal Sartre filosofo. Cioè a dire: leggiamo i romanzi di Sartre e chiediamoci che cosa, contenutisticamente e in parte anche stilisticamente, non potrebbe esser stato proposto ante Nietzsche. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno. Quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.163 Che cos’è la Nausea se non la “morte di Dio”? Il lampo di coscienza che squarcia la nostra illusa quotidianità intrisa fino all’unghia di morale tradizionale, quel mostro decadente “inventato” da Socrate e Platone e poi riadattato dal [162] Invero anche la lunga carriera di Gide contò episodi di critica letteraria e filosofica (soprattutto conferenze) e d’impegno sociale (i famosi resoconti dei suoi viaggi). Ciò non è sufficiente a sradicare il letterato francese dal suo ambito principale, il romanzo e il racconto. [163] �������������� J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris, 1938; tr. it. La nausea, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 14. 103 Cristianesimo, il fautore del regno della repressione. La Nausea è l’apice del nichilismo, il momento in cui l’uomo scorge la possibilità, se non il dovere, di scacciare i falsi demoni a favore d’una trasvalutazione di tutti i valori; valori ascendenti, per la vita, il sangue, la carne, il corpo in tutte le sue manifestazioni, per la terra, la potenza, ma anche per il male, il dolore e le tenebre. Accettare la vita, rimaner fedeli alla terra, madre e sorella. Far trionfare le ragioni del corpo, delle mani con le quali sentiamo l’esistente opporsi e, nello stesso tempo, darsi a noi. Roquentine (protagonista de La nausea) disprezza gli abitanti della cittadina di Bouville, i quali tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.164 «Amorfi», «vacui» e «tristi», d’origine e destino non divini e celestiali, bensì bestie geniali, miseramente belli, e tuttavia sperduti nell’infezione di false credenze. I porcaccioni di cui parla Roquentine-Sartre sono gli stessi sbalorditi e sogghignanti frequentatori del mercato, quelli “interrotti” dall’uomo folle nietzscheano, ovvero tutti gli uomini incapaci di sostenere il tremendo peso dell’esistenza, incapaci di darsi forma. Essi sono di troppo giacché nascono e muoiono senza ragione, sono liberi e gratuiti, legati soltanto alla loro natura. Il senso di Nausea, il disincanto, penetra anche nelle personalità dei personaggi sartriani che seguono a La nausea, dai racconti de Il muro alla tetralogia incompiuta I cammini della libertà; ma ciò che di nuovo emerge nei tre romanzi – L’età della ragione, Il rinvio e La morte nell’anima – che compongono quest’ultima, è la volontà d’approdare all’“età della ragione”, responsabilizzarsi dopo la caduta dalla torre d’avorio della tradizione, sempre cieca alle esigenze del reale. [164] Ivi, p. 177. 104 Le contingenze storiche fanno “contrarre” la Nausea a Mathieu (protagonista della trilogia) la quale permette al giovane professore di filosofia – anche qui alter ego dello scrittore – di riconsiderare la sua vita, morderla, come l’odore del cadavere putrefatto di Dio dà allo spirito libero la possibilità di riappropriarsi della sua esistenza, all’inseguimento di nuovi valori terreni. Mathieu, a differenza delle mire superumane di Nietzsche, fallisce nel suo intento, permane “triste” nel pantano dell’inettitudine. D’altronde la guerra non permette di pensare e Mathieu-Jean-Paul non ha mai ambito ad uscire dalla storia. Le differenze fra Nietzsche e Sartre sono evidenti, ma altrettanto evidenti sono i nessi che li legano. Sartre fu, non immeritatamente, il massimo esponente dell’existentialisme anche e soprattutto per il suo impegno filosofico, per il suo tentativo teoretico di penetrare le insondabili profondità della condizione umana. A differenza di Gide, egli volle elaborare un punto di vista prettamente personale sull’esistenza, seppur non estraneo agli esistenzialismi tedeschi di Heidegger e Jaspers, che sarebbe dovuto esser altrettanto foriero – come la proposta letteraria gidiana – d’un rinnovamento critico dell’approccio alla vita, lontano dalle consolazioni metafisiche e da false speranze di riscatto ultraterreno. Romanzo e filosofia, in entrambe le esperienze letterarie qui ricordate, intrecciano legami essenziali, seppur dinamici, custodi d’un messaggio che la cultura contemporanea non dovrebbe dimenticare sugli scaffali impolverati delle biblioteche. 105 OGGI LA MAMMA È MORTA >> << Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, il tuo Dio, ti ha ordinato, affinché i tuoi giorni siano prolungati e affinché venga a te del bene sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà. Deuteronomio 5: 16. Muore la madre e con lei la tradizione; cade l’ultimo baluardo, invincibile per noi, ma non per le stagioni. Il mondo si stinge, si sfuoca il contorno e le Apocalissi fan visita ai pensieri, ma solo per apparir ancor più inutili – dazio troppo amaro da pagare. Quando si pensa alla morte della madre il ricordo corre subito alle pagine de Lo straniero (1942) di Albert Camus, il cui incipit recita: «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti”. Questo non dice nulla: è stato forse 106 ieri»165. Non importa. La mamma è morta, che importa quando? e cos’altro può più importare? La sottile ombra d’incanto che riluceva nel cuore del figlio è ormai evaporata. Non è assurdo, oltre che orribile, vedere morire la propria madre? ricordandoti così il tuo destino: polvere nella sua polvere? Il protagonista del romanzo di Camus, Meursault, nasce – per noi – con questa morte: non sappiamo quasi nulla di lui prima di quest’avvenimento. Qualche flashback tuttavia ci fa credere che non sia stata la perdita della madre a renderlo così indifferente in materia di sentimenti – i veri colori della realtà –, eppure l’ex abrupto camusiano – scaraventare il lettore nello sbigottimento per l’apatia di Meursault di fronte al lutto – non può esser solo caso. È bensì gran mossa letteraria, e ancor di più filosofica. Camus, ne Il mito di Sisifo (1942), lo dice a gran voce: il mondo è assurdo, la vita è assurda. Non c’è Dio, e perché dovrebbe? Nietzsche ha danzato sul suo cadavere. I valori sui quali i nostri avi plasmarono le condotte, per noi senza-Dio, sono crollati come montagne di marzapane. “Tutto è permesso” metteva in bocca – più che altro in testa – Dostoevskij a Ivan Karamazov. Gratuito è vivere e ogni gesto regalato al vento. Il nichilismo, l’abbraccio del nulla come destino, inonda i nostri campi rendendoli incoltivabili. La figura della madre rappresenterebbe soltanto l’ultimo simbolo d’una tradizione imputridita dai miasmi del lutto divino. Camus lo sa e la utilizza come escamotage letterario, conferendo al suo romanzo altissima caratura filosofica – non serve Il mito di Sisifo per rendersene conto. Pur essendo Meursault sostanzialmente inconsapevole di tutto ciò – un nichilista ignaro –, in lui agisce la mano dello scrittore lucido e la coscienza generale d’una generazione dai piedi inchiodati a terra. La sua è una rappresentazione artistica, è un dipinto, non può avere coscienza di sé. Una volta morta anche la madre, l’ultimo valore che conferiva [165] A. Camus, L’étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. Lo straniero, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 7. 107 senso al nostro peregrinare esistenziale, la vita e la forza di credere saranno definitivamente vinte. Eppure Camus – basti leggere Nozze (1938), ma anche L’uomo in rivolta (1951) – troverà il modo di trarre giovamento (anche) dall’assurdo. Un altro Albert, quasi sconosciuto, di qualche anno più giovane di Camus, un altro scrittore francofono del Novecento, anche lui invischiato nelle sabbie immobili del nichilismo, ma molto di più, Albert Caraco, esordisce così in quella sorta di diariocommiato che è Post Mortem (1968): La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche tempo, la sua fine me la restituisce alla memoria […]. Mi chiedo se le voglio bene e sono costretto a rispondere: No, le rimprovero di avermi castrato, poca cosa davvero, ma insomma… […] e poi mi ha messo al mondo e io professo l’odio per il mondo.166 La morte della madre conquista anche qui il primissimo pensiero dell’opera, ma in questo caso anche la gran parte dei restanti: Post Mortem è infatti una riflessione, a caldo, sull’esistenza dello stesso Caraco a seguito della perdita dell’amata-odiata madre. «La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche tempo», sembra una frase di Meursault, di un Meursault forse un po’ più educato; ma quel «mi chiedo se le voglio bene e sono costretto a rispondere: No» rivela un Caraco, (a differenza di Meursault) non più personaggio romanzesco o alter ego camusiano, lontano dall’indifferenza167 e dall’inconsapevolezza: [166] A. Caraco, Post mortem (1968), Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne 2012; tr. it. Post Mortem, Adelphi, Milano 1984, cit., p. 9. [167] Tuttavia nel Bréviaire du chaos Caraco scriverà: «La natura del mondo è l’assoluta indifferenza, e dovere del filosofo è quanto meno essere simile alla natura del mondo, continuando a essere l’uomo che non potrà smettere di essere.» A. Caraco, Bréviaire du chaos, Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne 108 ha i sentimenti chiari, odia il mondo e per questo anche la porta attraverso cui venne – forzatamente – alla luce: la madre. Il vivere è un gioco odioso, laido intrattenimento d’un Dio che non esiste; post mortem non saremo che ricordi sporchi, terriccio silenzioso. L’antidoto – per sopportare una vita che, nonostante tutto, persevera nel suo stato di malattia: la coscienza del nulla, il dolore, l’amore per un’umanità condannata – è l’odio; odio per tutto, compresi se stessi. Fu verso il ’60 che la Signora Madre si fece malinconica, il che le diede un magnifico aspetto, e questo cambiamento, di cui non approfondii la causa, me la rese più cara, le ombre della morte sono le spezie dell’amore e la vita eterna sarà la scuola della freddezza assoluta. Si ama un essere che l’avvenire minaccia, e tanto più lo si ama quanto più è minacciato, Dio non ama e non può essere oggetto d’amore, l’amore divino è un non-senso, la cosa migliore è certo non amare nessuno, e per arrivare a questo dobbiamo cominciare da noi stessi. Chi professa l’odio di se stesso spezza i legami sensibili.168 Caraco, estremamente lucido, vede la morte della madre come una liberazione, un peso in meno che gli avrebbe lasciato, piano piano, imparare a morire; poiché è la morte l’unica verità: «noi tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio, e mai falliamo la mira»169. Accetta la vita così com’è, non spera di trovar conforto tra le nuvole candide, ma nemmeno vede un senso, al contrario del Pied-Noir Camus, nel godere della «felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo»170, in spiagge di sole ed estati profumate; attende semplicemente la fine, con inumana coerenza e vezzo letterario – le uniche nozze 1982 (postumo), tr. it. Breviario del caos, Adelphi, Milano 1998, cit., p. 24. Il suo obiettivo è dunque l’indifferenza. [168] A. Caraco, Post Mortem, Milano 1984, cit., p. 33 (corsivo mio). [169] A. Caraco, Breviario del caos, Milano 1998, cit., p. 9. [170] ���������� A. Camus, Noces, Gallimard, Paris 1938; tr. it. Nozze, in Estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2010, cit., p. 7. 109 che conosce sono quelle tra caos e morte («domani la morte celebrerà le sue nozze con in caos»171 scrive nel suo Breviario del caos (Bréviaire du chaos, 1982)). Egli «viveva per cortesia, per i suoi genitori»172, come ricorda il suo editore Vladimir Dimitrijević, e una volta sciolti questi due ultimi lacci vitali, anche la sua frustrazione avrebbe potuto cessare di “sprecare” pagine e pagine d’inchiostro. Infatti, se per Camus la figura materna è l’unico punto di riferimento, per Caraco incombe anche quella del padre: il lutto materno è soltanto l’inizio della fine (totale, fisica e morale, non dedita alle “delizie” del nichilismo). La letteratura camusiana prescinde dalla figura paterna, forse perché Lucien Auguste Camus morì quando il figlio non aveva neanche un anno, mentre la carachiana pende (totalmente, perché qui vita e letteratura si fondono) da essa: «il Signor Padre dorme nella stanza accanto, come se volesse imparare a morire; lui è l’ultimo legame che mi tiene attaccato a questo mondo, e se un bel mattino non dovesse svegliarsi, lo seguirei di buona grazia»173. A pochi giorni dalla morte del padre Caraco si tagliò la gola. In un appunto, isolato, destinato a far parte della sua autobiografia-romanzo rimasta incompleta – Il primo uomo (Le premier homme, 1994) –, Camus ci lascia scritto: «Sua madre è cristo»174: la madre di Jacques Cormery, ovvero la madre di Albert Camus è Cristo, il simbolo d’un’intera tradizione che vanta pretese ultraterrene, divine. Morta la madre, non resta nulla, anzi resta il nulla, il nichilismo. [171] A. Caraco, Breviario del caos, Milano 1998, cit., p. 96. [172] V. Dimitrijević, Nota a A. Caraco, Post Mortem, Milano 1984, cit., p. 128. [173] ����������� A. Caraco, Ma confession, Éditions L’Âge d’Homme, Lausanne 1975, cit., p. 16. [174] A. Camus, Le premier homme, Gallimard, Paris 1994 (postumo); tr. it. Il primo uomo, Bompiani, Milano 2011, cit., p. 308. 110 Le letterature di Camus e Caraco, inscindibili dalle loro esperienze di uomini (nel secondo caso in modo esplicito), condividono questo: la morte della madre come simbolo del nichilismo che regna fuori e dentro di loro. Che il nichilismo venga inteso come liberazione da un’ingiusta tirannia divina – le esperienze letterarie che seguono a Lo straniero testimoniano quest’apertura a un’esistenza spoglia – o come composta disperazione – riassunta da un ultimo gesto estremo – del nonsenso della vita, non può nascondere, tuttavia, un’intuizione comune, traccia ipersensibile di una contemporaneità senza più padri né figli. 111 V ITA DI AL BERT CARACO Albert Caraco nacque a Istanbul l’8 luglio 1919. Fu filosofo e scrittore. Trascorse l’infanzia tra Vienna, Praga e Berlino. La famiglia, di origine ebraica, fu presto costretta ad abbandonare la Germania e si trasferì a Parigi dove Caraco frequentò l’École des Hautes Études Commerciales. Successivamente acquisirono la cittadinanza dell’Honduras trasferendosi in Argentina e poi in Uruguay, convertendosi, per opportunità, anche al cattolicesimo. Dopo il ’46 tornarono di nuovo a vivere a Parigi. Ma Caraco, pur ottenendo premi e onorificenze per le sue opere, fu sempre snobbato da critica e editori, e tuttora, a molti anni dalla morte, è ben poco conosciuto (anche se la casa editrice Adelphi ha tradotto alcune delle sue opere più significative). Visse in completa solitudine e morì suicida nel ’71, il giorno dopo la morte del padre. Opere citate. Post mortem, 1968, 1985. La mia confessione (Ma confession), 1975. Breviario del caos (Bréviaire du chaos), 1982. 112 APPENDICE A BBIAMO T UT T I RAGIONE Rotola, rotola, rotola come il mio amore inutile. Gianni Meccia, Il barattolo. Ci vuole tempo per interiorizzare i cambiamenti, che, sotterranei, emergono solo quando i bollori dell’entusiasmo cedono alle lusinghe della stanchezza. Gli uomini, soggiogati dalla tirannia del tempo, un inizio e una fine che si inseguono senza posa e che ciclo dopo ciclo assistono a quella costante ricombinazione degli elementi che fa sì che nell’eterno fluire ci sia sempre qualcosa di nuovo – non aveva tutti i torti Eraclito quando diceva che il tempo è un fanciullo che gioca a dadi –, si ritrovano in mano idee e convinzioni dure come la pietra e pericolose come il fulmicotone. E proprio questo ritrovarsi in mano materia spirituale da noi non direttamente coltivata ci 113 conduce alla critica (o perlomeno dovrebbe farlo, sempre che il nostro fine sia quello di affinare le tecniche di convivenza), doverosa e puntuale, di ogni comportamento. La si può chiamare filosofia, anche se poi, troppo spesso, questa finisce per prendere le difese delle varie ideologie (che, come si sa, nel loro statuto non contemplano il mettersi in discussione). La filosofia, che sia indagine su noi stessi e sul mondo o portavoce di una peculiare visione di esso, non ha come mezzo di trasmissione soltanto il (forse ormai desueto) trattato di seicento e passa pagine o la lezione universitaria: oggi sono la televisione, il cinema e l’arte in tutte le sue manifestazioni i veicoli privilegiati. Ma uno su tutti – il romanzo –, lettura apparentemente innocua, è lo strumento sul quale si vuol qui porre l’attenzione. La sua pervicacia è sconosciuta al video e all’arte figurativa, ma anche allo stesso trattato filosofico, sovente di difficile accesso. Il romanzo si fa portavoce delle esigenze di un’epoca (magari solo allo scadere della stessa, ma ciò non ne riduce il valore) e, contemporaneamente, “educa” i suoi lettori all’interpretazione del loro tempo, i quali non sempre hanno i mezzi e la voglia di analizzare i propri comportamenti e quelli di chi li circonda. Il romanzo – il bel romanzo, ovviamente – sprona, sconvolge, fa riflettere. Ne sanno qualcosa le generazioni del primo Novecento, invischiate in vicende belliche e di mutamento politico economico e sociale di assai complicata decifrazione, che si rispecchiarono (anche loro malgrado) nei personaggi dei romanzi di Kafka, Proust, Gide, Svevo. La mentalità, le convinzioni, le idee erano cambiate, e andavano cristallizzandosi nell’inchiostro di quelle pagine romanzesche che tanto parlavano, forse anche inconsapevolmente, del “nuovo spirito” occidentale. Un cambiamento su tutti: la consapevolezza della fragilità (in alcuni casi da intendersi anche, paradossalmente, come potenza – perché sono caduti i vecchi ostacoli) umana; Dio si è nascosto dietro l’angolo, e qualcuno, addirittura, giurerebbe sia morto. È Antoine Roquentin, il protagonista de La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre, colui che svela al mondo ciò che il mondo non 114 ha il coraggio di confessare nemmeno a se stesso: la gratuità della vita, l’assurdità dei nostri gesti quotidiani, in breve: il nostro essere di troppo. Sartre-Roquentin non è certo né il primo né l’ultimo ad immergersi negli abissi delle esistenze contemporanee, ma probabilmente è colui che maggiormente è rimasto nell’immaginario collettivo quando si pensa, appunto, alla nausea esistenziale, quel sentimento di alienazione dalla vita che contraddistingue questo tempo dalle instabili fondamenta. Roquentin, infatti, ci dice che gli uomini, nella fattispecie quei porcaccioni di Bouville, «tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi»175. Quindi, tutti gli uomini sono di troppo ma se lo nascondono a vicenda, non ci pensano, forse smettono di chiederselo, mentre pochi eletti – e da chi? – espiano la colpa di essere nati, e lo fanno per tutti, sperimentando una terribile nausea. Tutto diventa fatto di nausea. La consapevolezza del terreno screpolato, dell’assenza di significato, dev’essere stata una rivelazione per i lettori de La nausea che, ancora confusi – e non sapevano che il “bello” doveva ancora arrivare176 –, cercavano di sedare il loro senso di vomito con aspirine e intrugli della nonna, o meglio ancora con alcol e vizi consumati nella migliore delle ipotesi tra il Café de Flore e il Deux Magots di Saint-Germain-des-Prés. Ma sarà l’impegno letterario (o artistico) l’unica possibilità di fuga dalla ripugnanza per se stessi ed il mondo immaginata da Antoine mentre ascolta la solita canzone al Ritrovo dei Ferrovieri. Solo così si può dare un senso al nauseante scorrere dei giorni: immaginando il lettore innamorato della tua opera, giustificazione di una vita intera [175] J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. it. B. Fonzi, La nausea, Einaudi, Torino 2005, p. 177. [176] La nausea è del 1938, un anno dopo scoppierà la Seconda Guerra Mondiale, le cui atrocità vennero a galla soltanto alla fine del conflitto, dopo il 1945. 115 passata a cercare giustificazioni all’ingiustificabile. E tuttavia Antoine non può sconfiggere la Nausea, essa lo possiede; vive per lui. Ma, come abbiamo ricordato all’inizio, le cose dentro di noi cambiano, spesso senza che nemmeno ci sia il tempo per accorgersene. I tempi cambiano, le epoche si susseguono, e con loro significati, esigenze e convinzioni. La Nausea esistenziale diventò “di moda” e parte integrante del modus vivendi occidentale, fino a che, come accadde col “Dio morto” del primo Novecento, non si fece anch’essa innocua – sensazione che si avverte, ad esempio, leggendo Hanno tutti ragione (2010) di Paolo Sorrentino. La storia è ambientata nel secondo Novecento, ma la coscienza che la sottende è la nostra, quella del tempo in cui il romanzo è stato scritto, quella che anche sforzandoci non riusciamo bene a decifrare, proprio perché la stiamo vivendo. Ed è come al solito un romanzo a venirci incontro svelando il lato oscuro del formalismo (che non è solo dell’italiano) al quale l’uomo soggiace come sotto incantesimo. Tony Pagoda, il cantante napoletano protagonista del romanzo di Sorrentino, dichiara, senza fronzoli, senza alcuna pretesa giustificativa: «eccedono, gli uomini che non hanno nulla da perdere, fino alla nausea. Ma la differenza tra me e il resto del mondo è che io, dentro allo stato di nausea, ci sto una meraviglia. Non la vivo come un problema, la nausea»177. Se Roquentin scopre la Nausea per poi rimanerne succube, Pagoda la calpesta, l’ha già interiorizzata e ha tutte le intenzioni di ribaltare la sua condizione di essere di troppo a proprio vantaggio; d’altronde, come dice egli stesso, “non ha niente da perdere”. Tony non può non vivere nella nausea, eredità dei tempi fagocitati dalla contemporaneità, non può non aver una coscienza abituata ad una vita assurda che si barcamena tra effimeri significati come la famiglia e la carriera. Nessun Cristo lo salverà, ma non è poi così grave. La pienezza dell’istante (che facilmente si concretizza in vizio, perlomeno secondo i canoni [177] P. Sorrentino, Hanno tutti ragione (2010), Feltrinelli, Milano 2013, cit., p. 223. 116 morali dell’Occidente) è quella che conta, non il compiuto dell’opera, sterile emanazione – morta – di sé. Ma attenzione, egli non è un semplice Don Giovanni, un Casanova rivisitato o un marchese De Sade lascivo e spregiudicato, perché questi non conobbero la Nausea, o almeno non il suo stato terminale raggiunto soltanto col Secolo Breve. Perché una volta provata la Nausea non si torna più indietro. L’assurdo è la parola chiave, l’assurdo mischiato all’inutilità dei giorni. La cocaina, la frivolezza sentimentale, lo sdoganamento del corpo, la fama – insomma: la bella vita – vanno bene se è questa la condotta – una come un’altra – che ci fa sopportare “serenamente” il peso dell’esistenza. Una come un’altra, sì, e non è un caso che il romanzo di Sorrentino si intitoli Hanno tutti ragione: una volta che gli assoluti sono stati consumati e digeriti, per poi riaffiorare soltanto come pallidi ricordi tra i rigurgiti della Nausea, chi può più sostenere di aver ragione? perché aver ragione significa che c’è qualcuno che non ce l’ha, che c’è chi vive nella menzogna. Non è così: è molto più plausibile che tutti abbiano ragione, o perlomeno che tutti abbiano le proprie ragioni per comportarsi in un modo invece di un altro. Tony Pagoda lo sa (anche se il percorso verso questa consapevolezza, all’interno del romanzo, sarà graduale), e ha accettato se stesso. C’è però un prezzo da pagare: l’idiosincrasia col mondo ancora lontano da queste conclusioni: «per questo sono inadatto al mondo. Per questo sono solo»178. La consapevolezza di Tony Pagoda non lascia spiragli all’alternativa. Arrivato alla stanchezza della routine, con la moglie che vuole il divorzio, il successo sulla via del declino e uno scheletro nell’armadio da nascondere, Pagoda decide di semplificare il suo stile di vita trasferendosi in Brasile, raggiunto inizialmente per una piccola tournée con la sua band, optando così per il completo anonimato. La vita al limite non gli dà più l’emozione d’un tempo, ed è ora di cambiare con esso. Sarà nei successivi diciotto anni brasiliani che affiorerà in lui la definitiva sensazione che abbiano tutti ragione: perché dovrebbe essere lui ad aver ragione, lui che ha cambiato vita, lui [178] Ibidem. 117 che se avesse vissuto mille anni avrebbe cambiato vita almeno altre venti volte? E questo vale per tutti. È qui che la Nausea smette di nauseare riaffiorando sulla pelle come lieve prurito. Non sappiamo che fine abbia fatto Antoine Roquentin, rimasto seduto al Ritrovo dei Ferrovieri a contemplare l’idea di scrivere un romanzo che avrebbe potuto rendere accettabile, o forse addirittura riempire, il suo senso di vuoto. Sappiamo invece com’è invecchiato Tony Pagoda, che dopo quasi vent’anni tornò in Italia sedotto da un’offerta irrifiutabile. Ma non facciamoci illusioni: «non sto tornando per nostalgia. Torno, perché non ho niente di meglio da fare. Perché si scaricano, dopo un certo tempo, tutte le consistenze»179. A consistenze scariche, dunque, Tony Pagoda si prepara alla morte. È diventato vecchio e ha scoperto, finalmente, qual è sempre stato il senso della sua vita: diventare vecchio. Vivere, e prendersi tutto dalla vita. La Nausea non fa più paura, l’abbiamo digerita: sappiamo di essere gratuiti e con una scadenza senza data, ma ineluttabile. I tempi cambiano e ci si abitua a tutto, anche all’assenza di significato, soprattutto quando non si ha niente da perdere. E noi, oggi, cosa abbiamo da perdere? Nota su Paolo Sorrentino. Paolo Sorrentino, scrittore, regista e sceneggiatore, è nato a Napoli il 31 maggio 1970. Con il lungometraggio Il divo (2008), che ripercorre la storia di Giulio Andreotti, avviene la sua consacrazione: vince il Premio della Giuria a Cannes. Il suo romanzo d’esordio Hanno tutti ragione (2010) si classifica terzo al Premio Strega del 2010. [179] Ivi, p. 272. 118 Opere principali. Romanzi. Hanno tutti ragione, 2010. Racconti. Tony Pagoda e i suoi amici, 2012. Lungometraggi. L’uomo in più, 2001. Le conseguenze dell’amore, 2004. L’amico di famiglia, 2006. Il Divo, 2008. This Must Be the Place, 2011. La grande bellezza, 2013. Trama di Hanno tutti ragione, 2010. La carriera di Tony Pagoda, cantante melodico napoletano di successo, è ormai sulla via del declino e a complicare le cose ci si mette anche la moglie che vuole il divorzio. Questo porterà Pagoda, dopo una breve tournée in Brasile, a decidere di mollare tutto e stabilirsi dall’altra parte del mondo per ricominciare una nuova vita, prima a Rio e poi a Manaus. Vive tranquillo in Brasile per diciotto anni, ma arriva il 1999 e un onorevole italiano è pronto a pagare una cifra esorbitante perché torni in Italia a cantare a casa sua, per la sua famiglia, la sera dell’ultimo dell’anno. Pagoda accetterà trascorrendo così i suoi ultimi anni a Roma. 119 DIZIONARIO MINIMO Angoscia. Con il filosofo danese Søren Kierkegaard (18131855) il concetto di angoscia entra nella terminologia filosofica quale sentimento fondamentale della vivenza umana in rapporto all’esistenza e soprattutto alla morte: l’uomo prova angoscia, ossia smarrimento, forte preoccupazione, perché si rende conto della sua finitezza e della sua condizione di mera possibilità nel mondo che l’accoglie, nonché della tragica prospettiva della morte che lo attende. Per Martin Heidegger (1889-1976) è proprio grazie all’esperienza dell’angoscia che l’uomo può compiere le scelte più significative, perché conscio della sua finitezza e della reale possibilità della morte. Assurdo. Nella filosofia e letteratura contemporanea l’assurdo è la condizione stessa dell’uomo. Mancando punti di riferimento universali, l’esistenza dell’uomo viene concepita come libera possibilità di realizzazione nelle trame di una realtà in incessante divenire. Naturale che il sentimento dell’assurdo provochi, al pari del sentimento dell’angoscia, un forte senso di straniamento che può anche condurre al desiderio della morte, il non dover più affrontare le difficoltà di una vita priva di certezze e significati prestabiliti. 120 Atto gratuito. Nella letteratura europea (Fëdor Dostoevskij, André Gide) di fine Ottocento / inizio Novecento l’atto gratuito è quell’atto compiuto, per l’appunto, gratuitamente, senza un fine prefissato, ma soltanto per il “gusto” (che non significa necessariamente che provochi piacere in chi lo compie) di farlo. Ad esempio Lafcadio, personaggio de I sotterranei del Vaticano (1914) di André Gide (1869-1951) uccide un uomo gratuitamente, e lo fa con lucidità; mentre Meursault, protagonista de Lo straniero (1942) di Albert Camus (1913-1960) uccide sì gratuitamente, ma il suo atto è confuso, annebbiato. Ad ogni modo l’atto gratuito è frutto della mancanza di certezze del mondo contemporaneo e soprattutto della mancanza di una morale universale e condivisa che nella storia dell’uomo è sempre stata garantita da (e identificata in) Dio. Engagement. Termine francese entrato nel linguaggio comune (anche italiano), soprattutto con Sartre e gli intellettuali francesi militanti durante la Seconda Guerra Mondiale, per designare un “impegno” (è questa la traduzione) di tipo sociale e politico, oltre che prettamente letterario e culturale. Uno scrittore engagé (impegnato) è uno scrittore che attraverso i suoi scritti attua una critica – esplicita (articoli di giornale, saggi) ma anche implicita (romanzi, teatro, poesia) nei confronti della società. Esistenzialismo (ateo). È una corrente filosofica, ma anche letteraria e artistica, che trova espressione nel XX secolo. L’idea portante di questi filosofi è che l’esistenza dell’uomo preceda l’essenza (in contrapposizione alla concezione comune, opera del cristianesimo, ma anche della filosofia greca, di un’essenza comune – magari divina – che designi l’essere uomo, dalla quale egli poi prenderà forma con la sua esistenza particolare). Risultato di questo ribaltamento è una piena libertà e responsabilità dell’uomo nei confronti della sua vita e di quella degli altri. Alcuni celebri precursori dell’esistenzialismo sono considerati Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij e André Gide, mentre come autori 121 principali in Francia troviamo Jean-Paul Sartre (1905-1980) e Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), ma anche Albert Camus (1913-1960), il quale però ne prendeva le distanze, mentre in Germania Martin Heidegger (1889-1976) e Karl Jaspers (18831969). Fedeltà alla terra. Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), nel suo Così parlò Zarathustra (1883-85), scrive: «rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!». Rimanere fedeli alla terra significa dunque vivere pienamente questa vita terrena senza farsi condizionare (e alienare, sempre secondo Nietzsche) da dottrine religiose o sovraterrene, che hanno come punto di riferimento il Cielo (cristianesimo), o il dopo la morte (sempre cristianesimo e qualunque altra religione), ma anche per esempio l’ultimo stadio della storia (hegelismo, marxismo…), piuttosto che la vita stessa, unico bene in nostro possesso – e quindi da non sprecare. La fedeltà alla terra diviene necessaria dopo la scoperta della morte di Dio. Morte di Dio. La morte di Dio è la consapevolezza fatta propria da Nietzsche della morte nell’età contemporanea occidentale dell’universalità dei valori. Non c’è più un Dio garante dell’ordine dell’universo e delle vite degli uomini, – perché piano piano, nel corso dei secoli, ridimensionato a semplici illusione e speranza umane (ovviamente non per tutti) – e dunque nemmeno di valori universali condivisi da tutti. La morte di Dio è strettamente collegata al nichilismo, di cui è una sorta di fondamento. Nausea. Termine filosofico-letterario entrato nel linguaggio comune, con il significato di “noia esistenziale”, con il romanzo La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre. Più precisamente il protagonista de La nausea Antoine Roquentine prova un senso di disgusto, di nausea appunto, nel momento in cui la riflessione lo porta a rendersi conto dell’assoluta gratuità, e quindi, per certi versi, assurdità dell’esistenza. 122 Nichilismo. Da nihil (nulla). Termine che compare per la prima volta in Germania alla fine del Settecento. È la mancanza di solide fondamenta della società, la corrosione dei valori tradizionali d’Occidente che seguono all’“annunciazione” nietzscheana della morte di Dio. Di conseguenza nichilismo è diventata la filosofia stessa del filosofo tedesco, ma anche ogni atteggiamento privo di speranze per un futuro che si sa già intriso di morte – di nulla. Trasvalutazione dei valori. In Nietzsche è la creazione di nuovi valori, esaltatori dell’uomo e della sua condizione terrena, contro i valori della morale tradizionale (in sostanza del cristianesimo). Obiettivo ultimo di Nietzsche: la creazione di oltreuomini, ossia uomini capaci di sopportare il peso di un’esistenza fine a se stessa, gioiosa ma allo stesso tempo tremendamente dolorosa. 123 BI BLIOGRAF IA Jean-Paul Sartre J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. it. a cura di B. Fonzi, La nausea, Einaudi, Torino 2005. J.-P. Sartre, Le mur, Gallimard, Paris 1939; trad. it. a cura di E. G., Il muro, Mondadori, Milano 1989. J. P. 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