Comments
Description
Transcript
Como_Pgt_PianoRegole_Pagine_167_222
167 1.19. Aspetti giuridici e storici della fondazione di Novum Comum1 1. Tengo a dire subito che il mio contributo al Convegno vuole essere meramente introduttivo; mira, cioè, ad inquadrare storicamente l’argomento e ad additare i problemi, specie quelli giuridici, non sempre familiari a chi giurista non è. Ripeterò, dunque, cose che ho già scritto, essendo la romanizzazione della Transpadana e le vicende di Como romana un tema cui da venti anni a questa parte mi sono dedicato quasi a tempo pieno. Del resto rispetto ai miei ultimi studi, che datano dal 1979 al 19862, nessuna novità è emersa, tale da farmi mutare opinione sui punti essenziali3. Chiedo, comunque, venia ai miei tre lettori se imporrò loro un ripasso, che latinamente mi auguro possa in ogni caso giovare, considerando la confusione che, soprattutto in sede locale, regna ancora in materia, anche relativamente a circostanze che si devono ritenere definitivamente e sicuramente acclarate. Ma prima mi si consenta di rivolgermi, tra il serio e il faceto, a quanti, specie fra i miei concittadini, reduci dalla bella Mostra di Venezia sui Celti, paiono frastornati nell’avere colà appreso che Como fu oppidum celtico, e nel trovarsi poi qui impegnati nella celebrazione della sua fondazione ad opera dei Romani. Anche al meno malizioso sarà dato di pensare che ci sia qualcosa di poco chiaro e che qualcuno (sottoscritto in primis) non la conti giusta o abbia preso un clamoroso abbaglio. E siccome da un po’ di tempo e per vari motivi4, le azioni dei Romani sono in ribasso, a differenza di quelle dei Celti, che invece paiono alle stelle (visto che, inopinatamente, sono assurti al rango di corifei della civiltà europea)5, ecco che la maggioranza è tentata di sposare la causa di questi ultimi, finendo di buon grado fra i seguaci di Asterix, il simpatico, ma storicamente improbabile, ‘Galletto’ di Goscinny e Uderzo. Ebbene, vorrei tranquillizzare i dubbiosi e, al tempo stesso, informarli su come stanno effettivamente le cose, restituendo letteralmente a Cesare ciò che è di Cesare. Ma, a parte gli scherzi, la verità è che Como ebbe sul serio due fondazioni, nel senso che due città vere e proprie vennero fondate con lo stesso nome (Comum), sia pure in epoche e luoghi diversi6. Lo aveva già intuito nel 1630 l’umanista Giorgio Merula7 e poi lo dimostrò scientificamente Pompeo Ca1 G. Luraschi, Aspetti giuridici e storici della fondazione di Novum Comum in Novum Comum 2050 - Atti del convegno celebrativo della fondazione di Como Romana, Como 8-9 novembre 1991, Como 1993, pp. 23-51. Il testo riproduce integralmente (quindi anche nella forma) la relazione letta al Convegno; vi ho aggiunto qualche nota per fornire al lettore un minimo di documentazione e di aggiornamento sullo stato del dibattito. V. anche in G. Luraschi, Storia di Como antica, Como 1999, pp. 423-460. 2 Mi limito a ricordare: Foedus, ius Latii, civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, in particolare le tre Appendici dedicate alle vicende comensi dal 196 a.C. a Cesare; L’età antica di Como nella storiografia locale dal XVI secolo ad oggi, in Atti dei Convegni celebrativi del Centenario 1878-1978, Como 1979, p. 87 ss.; La romanizzazione della Transpadana: questioni di metodo, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 47 (1981), p. 337 ss. (in Studi Rittatore Vonwiller, 2, Como 1980, p. 207 ss.); Sulle magistrature nelle colonie latine fittizie (a proposito di Frag. Atest. linn. 10-12), ibid. 49 (1983), p. 261 ss.; Le vicende edilizie di Como romana attraverso le fonti letterarie, in Archeologia urbana in Lombardia, Como 1984, p. 40 ss.; Aspetti di vita pubblica nella Como dei Plini, in Plinio, i suoi luoghi, il suo tempo, Como 1984, p. 71 ss.; Nuove riflessioni sugli aspetti giuridici della romanizzazione in Transpadana, in Atti del 2º Convegno archeologico regionale, Como 1986, p. 43 ss.. 3 In ogni caso segnalerò di volta in volta i contributi più recenti e significativi. 4 Ne ho accennato in Como 2050: origini di una città, Bergamo 1991, p. 6; e in Como, le sue radici, Como 1992, p. 8 ss.. 5 Così almeno risulta dal titolo medesimo della predetta Mostra “I Celti, prima Europa” e in più luoghi del relativo Catalogo (I Celti, Milano 1991): ad es. nelle Presentazioni di F. Benvenuti, J. Leclant e S. Moscati, nonchè nelle Considerazioni conclusive (p. 668). Ora, a me pare che una simile convinzione, certamente strumentale alla iniziativa, sia, nella sua assolutezza, insostenibile; il contributo che i Celti hanno dato alla civiltà europea è, per quantità e qualità, assai modesto e in ogni caso incomparabile con quello della civiltà greco-romana. I Celti sono solo comparsi prima! 6 Ne ho trattato, da ultimo, sia pure in maniera divulgativa, in Le due fondazioni di Como, in Quaderni Erbesi, 8 (1987), p. 67 ss.. Per i particolari v. Comum oppidum. Premessa allo studio delle strutture amministrative romane, in RAComo, 152-155 (1970-1973), p. 241 ss.; Foedus, cit. pp. 103 ss., 353 ss., 493 ss.; L’età antica di Como, cit. p. 90 ss.; Le vicende edilizie di Como romana, cit. p. 40 ss.. 7 Giorgio Merula, Antiquitatis Vicecomitum Libri X, Mediolani 1630, p. 34, dove, trattando dei fatti accaduti nel 1138, afferma: “Interea Anselmus (scil. Anselmus Pusterleus, praesul Ecclesiae Mediolanensis) comparato exercitu Novumcomum obsidet. Occiderant Novocomenses clientem Anselmi Carcano oriundum: eoque ira, et dolor Praesulis erupit, ut urbem captam crematis aedificiis funditus deleverit: civibus vero vallem habitandam concessit, et quae olim in editiore loco condita fuit, alieno loco restituitur nobilissima colonia, quam populus Rom. ad Larium lacum per Strabonem Pompeium emiserat; nec Romanis tantum, sed etiam Graecis colonis celebrata, Caecilio Poeta, et Duobus Plinijs maxime illustris”. 168 stelfranco nel 19058. La prima fondazione risale alla prima metà del V sec a.C. e coincide con il momento di massimo splendore e ricchezza della facies culturale comasca, che portò all’unificazione dei villaggi preesistenti fra i dossi e le vallecole della Spina Verde ed alla edificazione di un grande centro unitario, sui vasti pianori che si aprono sulle pendici del Monte della Croce, intorno all’attuale borgo di Prestino9. Ad un simile insediamento ben si addice l’appellativo di oppidum, intendendo come tale, da un punto di vista giuridico, una fondazione sinecistica, cioè una capitale confederale, non semplicemente sorta ma fondata come luogo di raccordo e di coesione fra le tribù e le comunità che compongono l’ethnos comense10. La seconda fondazione, quella di cui celebriamo quest’anno (1991) l’anniversario, avvenne nel 59 a.C. ad opera di Cesare, esattamente sull’area della attuale città, e soltanto di essa io dovrei qui trattare. 2. Gli amici del Comitato scientifico, tuttavia, hanno insistito affinchè accennassi brevemente agli antefatti. Lo farò per indicem segnalando semplicemente alcuni problemi. Il primo riguarda l’etnogenesi dei Comensi. Un tema che è tornato alla ribalta dopo che archeologi e linguisti hanno ipotizzato una presenza celtica, anteriore al 390 a.C. (data della prima invasione gallica storicamente documentata), presenza, a loro dire (e forse hanno ragione), ben più attiva e feconda di quanto sino ad ora non si era pensato11. Fu così che ai Golasecchiani, cioè agli eponimi della nostra cultura preistorica, dai più ritenuti di ‘sana’ razza ligure12, vennero attribuiti diversi natali o, comunque, natali misti, e Comum oppidum (da ligure o celto-ligure che era considerato per una somma di indizi eterogenei)13 finì 8 P. Castelfranco, La nécropole de Villa Nessi (Val di Vico-Côme), Côme 1905, p. 5. Le tappe successive (Baserga, Giussani, Frigerio) sono da me descritte in L’età antica di Como, cit. p. 94 ss.. 9 Per la bibliografia fino al 1979 v. G. Luraschi, Foedus, cit. p. 103 n. 2; in seguito vanno segnalati: N. Negroni Catacchio, Como preromana: scavi a Pianvalle, in RAComo, 163 (1981), p. 67 ss.; EAD., Scavi a Pianvalle (Como): i rinvenimenti di epoca La Téne, in Studi Rittatore Vonwiller, 1, Como 1982, p. 315 ss.; M. Gianoncelli, Como e il suo territorio, in Raccolta Storica, XV, Como 1982; R. De Marinis, Como, Prestino. Scavo di un abitato dell’età del ferro, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia. Notiziario 1982, Brescia 1983, p. 34 ss.; ID., Prestino (Como), in Studi Etruschi, 50 (1982), p. 506 ss.; ID., Protostoria degli insediamenti urbani in Lombardia, in Archeologia urbana in Lombardia, Modena 1984, p. 22 ss.; ID., L’insediamento preromano nell’area di Como, in Archeologia Urbana in Lombardia, Como 1984, p. 30 ss.; ID., L’abitato protostorico di Como, in Como fra Etruschi e Celti. La città preromana e il suo ruolo commerciale, Como 1986, p. 25 ss.; ID., Il V secolo alla luce delle nuove scoperte a Como e nel Mantovano, in Atti 2º Convegno archeologico regionale, cit. p. 469 ss.; U. Magri, Recenti scoperte nell’insediamento di Como preromana, in RAComo, 164 (1982), p. 111 ss.; ID., Prestino, Brecciago, S. Fermo della Battaglia, in Studi Etruschi, 50 (1982), p. 509 ss.; G. Luraschi, Le vicende edilizie, cit. p. 40 s.; ID., Le due fondazioni di Como, cit. p. 67 ss.; P. Maggi, Como preromana: ritrovamenti e problemi, in La città antica come fatto di cultura (Atti Convegno Como-Bellagio 1979), Como 1983, p. 297 ss.; ID., Il sito di Como preromana: testimonianze archeologiche, in Como fra Etruschi e Celti, cit. p. 19 ss.; R. Merlo, Vitruvio e le tecnologie costruttive arcaiche. Interpretazione degli abitati della tarda età del ferro a Como e nell’area padana centro-orientale, in RAComo, 171 (1989), pp. 52 ss., 60. 10 È la definizione che dà E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955, p. 113.; v. anche G. Luraschi, Comum oppidum, cit. p. 261 ss. e n. 266. Per l’ambiente piu` propriamente celtico v. O. Frey, Die Bedeutung der Gallia Cisalpina fu¨r die Entstehung der Oppida-Kultur, in Studien zu Siedlungsfragen der Laténezeit. Veroff. Seminars Marburg, Sonderband 3, 1984, p. 1 ss.; ID., Sviluppo urbano celtico nell’Italia del nord, in Atti 2º Convegno archeologico regionale, cit. p. 333 ss.; F. Maier, Gli oppida celtici (II-I sec. a.C.), in I Celti (Catalogo Mostra Venezia) , cit. p. 411 ss. 11 Il contributo maggiore a questa teoria è di R. De Marinis, Il periodo Golasecca IIIA in Lombardia, in Studi archeologici, 1, Bergamo 1981; ID., L’Età gallica in Lombardia (IV-I secolo a.C.): risultati delle ultime ricerche e problemi aperti, in Atti 2º Convegno archeologico regionale, cit. p. 93 ss.; ID., Liguri e Celto-Liguri, in Italia, omnium terrarum alumna (Antica Madre, collana di studi sull’Italia antica), Milano 1988, p. 159 ss.; ID., I Celti golasecchiani, in I Celti (Catalogo Mostra Venezia) cit. p. 93 ss. Fondamentale è anche l’apporto linguistico di A.L. Prosdocimi, I più antichi documenti del celtico in Italia, in Atti 2º Convegno archeologico regionale, cit. p. 67 ss.; ID., Celti in Italia prima e dopo il V sec. a.C., in Celti ed Etruschi nell’Italia centro-settentrionale, Bologna 1987, p. 561 ss.; ID., Lingua e scrittura dei primi Celti, in I Celti (Catalogo Mostra Venezia), cit. p. 51 ss. Per un diverso inquadramento cronologico (età della romanizzazione) delle risultanze epigrafiche e in particolare della stele di Prestino, v. da ultimo M.G. Tibiletti Bruno, Storia linguistica preromana nel Comasco, in RAComo, 171 (1989), p. 77 ss.. 12 Per un tentativo di valorizzare tale indirizzo dottrinale, che ebbe in Patroni, Laviosa Zambotti, Pareti, Lamboglia, Sereni gli esponenti di spicco, v. G. Luraschi, Comum oppidum, cit. p. 216 ss. [p. 81 ss.], ivi le indicazioni bibliografiche essenziali. 13 Li ho raccolti in Comum oppidum, cit. p. 231 ss. [p. 106 ss.], ma il più forte mi sembra la straordinaria diffusione in territorio comasco del “ligure onomastico”, termine usato dal Prosdocimi (Lingua e scrittura dei primi Celti, cit. p. 54) per indicare “la lingua o le lingue della Liguria degli antichi (ben più estesa, specialmente al nord, della attuale Liguria) con documentazione solo indiretta di massima onomastica o paraonomastica (geonimi e microtoponimi, come tali ‘parlanti’, e quindi, sotto certi aspetti, ancora facenti parte del lessico)”. 169 per diventare ‘tout court’ un oppidum celtico. E, francamente, questa conclusione mi sembra esagerata, anche a voler privilegiare i dati che ci provengono dalla cosiddetta cultura materiale14. Sia chiaro che non ho difficoltà ad ammettere, come del resto ho già fatto venti anni or sono15, una precoce influenza celtica nell’area in questione fin dalla tarda età del bronzo e mi sta benissimo l’adozione del termine ‘Celto-Liguri’ per indicare le genti di Golasecca, un termine, fra l’altro, che non è ignoto agli autori antichi16, i quali evidentemente si trovavano nel nostro stesso imbarazzo dovendo classificare popoli segnati da ampie e ripetute stratificazioni etnico-culturali. Quel che non mi sento di sottoscrivere è la “piena celticità delle popolazioni della cultura di Golasecca”, soprattutto se per affermarlo, ci si fonda esclusivamente sul dato linguistico, anzi, in pratica, su una sola epigrafe, quella di Prestino17. Del resto in merito alla equazione ethnos-lingua, chiaramente sottintesa dai sostenitori della predetta teoria e vero cardine della medesima, mi permetterei di avanzare qualche dubbio (anche se non è la mia materia e ben conosco il valore dei colleghi coinvolti). Sono tante le circostanze che possono propiziare l’affermazione e le fortune di una lingua, anche senza l’intervento di radicali mutamenti etnici18; penso al potere politico o religioso di una élite, all’influenza commerciale e culturale, a fenomeni imitativi e di spontanea acquisizione. Ed in ogni caso il processo di trasformazione nella lingua risulta indubbiamente più intenso che nella cultura. Mi sentirei, dunque, di parlare per Como e la sua facies non già di celticità, ma di grado di celticità19; si intende, poi, che questo grado è tutto da discutere e da quantificare, e, comunque, non appare mai tale da obliterare il substrato, che si manifesta in varie forme (onomastica, toponomastica, facies archeologica ecc.), caratterizzando fortemente l’area comasca. 3. Un altro e più importante problema attiene all’ubicazione di Comum oppidum. Non v’è dubbio che nel V sec. fosse situato sulle pendici meridionali del Monte Croce, pressappoco a quota 380-350, dove ora sorgono le frazioni di Prestino, Rondineto, Brecciago, Leno. Qui infatti, in oltre cento anni di ricerche, vanto pressochè esclusivo della Società archeologica, sono avvenuti i più cospicui e significativi ritrovamenti, che non hanno l’eguale in tutto il territorio lariano20. Le ultime e più accurate esplorazioni hanno confermato che ci troviamo di fronte ad un impianto urbano in piena regola (almeno nella sua parte centrale, quella imperniata sulle località prima citate), che quindi presupponeva una ben precisa pianificazione, la quale si tradusse nel giro di pochi anni (vi è infatti omogeneità cronologica fra i reperti) in una perfetta e razionale occupazione degli spazi ed in una coerente ed armonica edificazione delle strutture e delle infrastrutture. Lo testimoniano: l’isoorientamento delle unità abitative, che sembrano rispettare moduli standard nelle dimensioni e nelle tecniche costruttive, e perfino una certa ortogonalità21; le opere di livellamento del suolo, di drenaggio e di canalizzazione delle acque, tutte predisposte per servire ad un vasto ed articolato complesso22. 14 Per una equilibrata posizione v. ora C. Piovan, Como prima dei Romani: novità e problemi aperti, in RAComo, 174 (1992), p. 29 ss.; e su questi Atti, M.T. Grassi, Como: l’influenza insubre e la colonizzazione romana, p. 329 ss. 15 Cfr. Comum oppidum, cit. p. 231 ss.. 16 Ad es. Strab.4,6,6,203; Pseudo Aristotele, de mirabil. auscultat. 85. Per districarsi fra le fonti, imprecise e contraddittorie, è ancora utile G. Oberziner, I Liguri antichi e i loro commerci, La Spezia 1902; ma soprattutto E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955, pp. 58 ss., 73 s., 140 ss., 143 ss., 223 s., 323 ss. (sulle commistioni, le influenze, le assimilazioni fra Liguri e Celti, e in particolare sulla nascita del tipo ‘celto-ligurÈ). 17 Così ad es. D. Vitali, I Celti in Italia, in I Celti (Catalogo Mostra Venezia) cit. p. 220. 18 Questa eventualità non è ovviamente esclusa dal Prosdocimi, Lingua e scrittura dei primi Celti, p. 56, laddove immagina (tra le altre ipotesi) “un arrivo di cultura-lingua senza espansioni e invasioni”, che vuol dire “un processo di celtizzazione linguistica e culturale, quindi non una celticità compiuta ma un farsi della celticità”. 19 Per usare una felice espressione del Prosdocimi, Lingua e scrittura dei primi Celti, cit. p. 56. 20 V. la bibliografia citata alla nt. 8. 21 Impressiona che, a distanza di decine e, a volte, di centinaia di metri e nonostante l’andamento del terreno condizionasse diversamente, le strutture edilizie appaiano orientate alla stessa maniera (NO-SE) e che l’ortogonalità sia rispettata nonostante i differenti livelli su cui si estende l’insediamento. 22 Negli ultimi scavi si sono scoperti ben nove canali, tutti collegati e convergenti in un unico, imponente collettore. Sempre recentemente si è verificato che il terreno fu preventivamente livellato: solo così sarebbe stato possibile mantenere l’orientamento e la giusta pendenza della rete idrica e fognaria (v. le opere citate supra nt. 8, in particolare U. Magri e R. De Marinis). 170 Per questo ho osato parlare di ‘fondazionÈ23 e, data la singolarità della cosa in area golasecchiana, ho, a suo tempo24, addirittura, supposto che a quei Protocomensi non fosse estranea la lezione degli Etruschi. Del resto nessuno impedisce di credere che gli Etruschi, con gli oggetti, esportassero anche le idee e che queste, in ambienti particolarmente ricettivi, come fu certamente quello comense, potessero attecchire, sia pure in maniera approssimativa. Con questo non voglio dire, sia ben chiaro, che Comum ebbe un impianto di tipo ippodameo, né che fu fondata dagli Etruschi, con tanto di aratro ed aruspici. Intendo solo prospettare l’ipotesi che i criteri urbanistici etruschi siano stati in qualche modo ed alla buona imitati dai Comensi, i quali, come sappiamo, ebbero importanti e prolungati contatti con il mondo tirrenico25 4. A questo punto si pone un altro quesito, che ci avvicina al nostro tema. Fu questo l’oppidum captum nel 196 a.C. dal console Marco Claudio Marcello dopo la ben nota battaglia contro la coalizione insubrocomense, di cui ci parla, con dovizia di particolari, Livio26? Recentemente se ne è dubitato, argomentando dell’assenza o della scarsità di reperti archeologici databili al IV-III sec a.C.27. Ma io credo che l’argumentum e silentio sia troppo fragile e che ad esso si possa opporre o la casualità della lacuna, ovvero l’imperfezione della interpretazione archeologica, almeno per quanto attiene alla datazione della ceramica domestica, la vera protagonista degli scavi nell’abitato. Si può piuttosto immaginare (confortati dai reperti) che nel 196 a.C., dopo due secoli di egemonia insubre, la compagine comense versasse in condizioni di grave decadenza politica, culturale e demografica, e che di conseguenza l’oppidum avesse subito un impoverimento28 ed un ridimensionamento così drastici da renderne difficile l’individuazione. Escludo, dunque, che gli eventi successivi alla invasione gallica, nonchè quelli del 196 a.C. abbiano in qualche modo mutato l’assetto abitativo della zona, e soprattutto mi pare improponibile e puramente accademica l’ipotesi che il centro più rappresentativo possa aver trovato una collocazione diversa e, comunque, al di fuori della Spina Verde, l’esteso parco sito sulle pendici meridionali dei colli che cingono a sud-ovest la conca comasca29. 5. Del pari ritengo improbabile, per una somma di motivi giuridici, strategici, archeologici e topografici, su cui già altre volte30 mi sono intrattenuto in polemica con Caniggia31, il caro amico recentemente scomparso, 23 Non necessariamente ex novo, essendo del tutto probabile (e forse anche provato) che per far spazio al nuovo agglomerato si sia proceduto a demolizioni di edifici preesistenti, riempimenti, livellamenti. Cfr. R. De Marinis, Prestino, Via Isonzo, in Como fra Etruschi e Celti, cit. p. 113 ss. 24 G. Luraschi, Le due fondazioni di Como, cit., p. 72 ss. [p. 385 ss.]. Per P. Maggi, Como preromana, cit. p. 302 ss., sarebbe anche configurabile una delimitazione dell’oppidum, con tanto di mura e di porta, ma allo stato delle ricerche non mi sento di dargli pienamente ragione (v. Luraschi, Le vicende edilizie, cit. p. 40 e nt. 5 [p. 364]). Recentemente pure O.H. Frey, Como fra Etruschi e Celti: rapporti con il mondo transalpino, in RAComo, 171 (1989), p. 22, ha sostenuto che il Comum oppidum di cui parla Livio fosse fortificato (anche se non sa darne le prove). 25 Da ultimo sulla presenza e sull’influenza etrusca, nonchè sulle sue cause v. R. De Marinis, L’abitato protostorico di Como, cit. p. 25 ss.; ID., Prestino, Via Isonzo, cit. p. 113 ss.; ID., I commerci, in Como fra Etruschi e Celti, cit. p. 121 ss.; ID., I commerci dell’Etruria con i paesi a Nord del Po, dal IX al VI sec. a.C., in Gli Etruschi a nord del Po, 1, Mantova 1986, p. 52 ss. Vi è chi ha perfino ipotizzato la presenza in terra comasca di maestranze etrusche (di Felsina, per la precisione), v. L. Pauli, Studien zur GolaseccaKultur, in Bull. Ist. Arch. Germanico, sez. Romana, Suppl. 19, Heidelberg 1971; M. Primas, La necropoli della Ca’ Morta nei suoi rapporti culturali con le valli alpine, in Età del Ferro a Como, Como 1978, p. 50 (con qualche precisazione). 26 Liv. 33,36,9-15. 27 R. De Marinis, L’insediamento preromano nell’area di Como, cit. p. 35 ss.; ID., L’abitato protostorico, cit. p. 34 s. [Lo stesso prof. R. De Marinis mi ha cortesemente anticipato che, in seguito all’analisi in corso del materiale degli ultimi scavi, che comparirà sul prossimo numero della RAComo (1997), la lacuna nella documentazione archeologica parrebbe finalmente colmata, cosicchè troverebbero piena conferma le mie ipotesi]. 28 La ricca preda bellica accumulata dai Romani dopo la battaglia del 196 a.C., consistente in 87 insegne militari, 732 carri e molte collane d’oro, una delle quali di grande peso (Liv. 33,36,13), è dunque da presumere che appartenesse prevalentemente agli Insubri. 29 D’altronde neppure nei dintorni di Como esistono tracce consistenti dell’Età gallica (La Tène B1-B2-C1, dal secondo quarto del IV agli inizi del II secolo a.C.) (v. R. De Marinis, L’insediamento preromano, cit. p. 35); eppure Comum oppidum doveva esistere (se non altro perchè lo dice Livio) e, considerando il nome, doveva evidentemente essere ubicato in un’area geografica finitima al grande centro preromano del VI-V sec. e alla futura colonia latina. 30 Cfr. Foedus, cit. p. 124 ss. 31 Cfr. G. Caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963 (rist. 1984), p. 39 ss.; ID., Perimetri difensivi della Como romana: quesiti inerenti al riconoscimento delle strutture pianificate romane nei tessuti urbani attuali, in Le fortificazioni del lago di Como, Como 171 che i Romani ponessero mano in quel medesimo volger d’anni ad opere edilizie stabili (castra o simili) nella convalle, la quale, oltre tutto, era largamente impraticabile per il disordinato confluire di tre corsi d’acqua (Cosia, Valduce e Fiume Aperto), che, prima di sfociare nel lago, incrementavano vaste paludi. Per usufruire della zona occorreranno una radicale bonifica e soprattutto un cambiamento della situazione politicogiuridica che giustificasse e legittimasse un diretto intervento di Roma. E questo è il punto sul quale cadono quanti parlano di castra, centuriazioni32, fora33 in territorio comense già nel II sec. a.C. Solo una esatta diagnosi giuridica può condurre ad una corretta ricostruzione storico-archeologica. Molti, infatti, dimenticano che, dopo le vicende del 196 a.C., la condizione giuridica dei Comenses (come degli Insubri, dei Cenomani e delle altre popolazioni galliche sottomesse) era quella di alleati di Roma, ai quali un foedus aequum, come credo di aver dimostrato34sulla scorta di Cicerone, pro Balbo 14,32, assicurava la più piena libertà ed autonomia, essendo per definizione incompatibile con qualsiasi presenza od ingerenza ufficiale romana nel territorio alleato35. Si pensi che in tale foedus si proibiva addirittura a Roma di concedere la 1971, p. 94 ss.; ID., Ancora su Como romana, in Atti del Convegno celebrativo del Centenario della Rivista arch. Comense, Como 1974, p. 39 ss. 32 Cfr. G. Caniggia, Riconoscimento degli impianti pianificati romani nei tessuti urbani e territoriali romani. Campioni di insediamenti e strutture agricole nell’area lariana, in Atti CeSDIR, 3, Milano 1972, p. 159 ss.; ID., Riconoscimento delle strutture insediative agricole e viarie del territorio di Como romana, in Atti Convegno Centenario, cit. p. 47 ss.; la mia risposta è in Foedus, cit. pp. 9, 110 ss., 124 ss. Da ultimo v. le decisive obiezioni di metodo e di sostanza di P. Tozzi, Problemi del catasto romano nell’Italia settentrionale, in Atti 2º Convegno arch. regionale,cit., p. 177 ss. 33 E` il caso del fantomatico, quanto improbabile, Licini Forum (ne parla Plin. N.H. 3,17,124) dai più localizzato per mera assonanza terminologica in quel di Erba Incino. Le mie obiezioni sono in Foedus, p. 112 ss. 34 Foedus, pp. 23 ss., 40 ss., 96 ss.; Nuove riflessioni, cit. p. 44 ss. [p. 275 ss.]. I dubbi espressi, recensendomi, da H. Wolff, rec. in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 102 (1985), p. 553 s., mi sembrano eccessivi e, spesso, ingiustificati, ma non è il caso qui di entrare nei particolari, cui intendo, comunque, riservare un apposito lavoro; mi limito solo a contestare il ‘Leitmotiv’ cui si ispira la critica del severo collega tedesco, e cioè una vera e propria fobia per l’ipotesi; e lo faccio servendomi di una felice espressione di P. De Francisci, Primordia civitatis, Romae 1959, p. 20: “Sarei un illuso se credessi che la posizione metodologica da me scelta e le cautele da me adottate mi abbiano sempre condotto alla scoperta della verità. Sono convinto che per leggere il passato occorre quasi altrettanta sagacità e vis divinandi che per leggere il futuro e non sono ben certo di possedere in grado eminente tali qualità. Sicché sono il primo a riconoscere che, per alcuni problemi, non ho potuto fare di meglio che suggerire soluzioni probabili e, per altri, soltanto ipotesi discutibili: ma chi ha in orrore le ipotesi dovrebbe provare una buona volta a fare della storiografia senza ricorrere ad esse”. Ed il Wolff non fa certo eccezione! Per un saggio di come l’accusa possa facilmente ritorcersi contro di lui, v. infra ntt. 39,88,92. Dell’aspetto metodologico della critica del Wolff mi sono già brevemente occupato in Sull’origine dell’adtributio, in Diritto e società nel mondo romano, Como 1988, p. 57 [p. 730] nt. 47. Consensi mi sono invece giunti, sul punto specifico, da: A. Magdelain, rec. in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 47 (1981), p. 376 ss.; F. Sartori, Padova nello stato romano dal III sec. a.C. all’età dioclezianea, in Padova antica da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, p. 97 ss.; L. Labruna, Romanizzazione, foedera, egemonia, in Index, 12 (1983-84), p. 299 ss.; E. Gabba, Strutture sociali e politica romana in Italia nel II sec. a.C., in Les Bourgeoisies municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av. J-C., Naples 1983, p. 43; ID., I Romani nell’Insubria: trasformazione, adeguamento e sopravvivenza delle strutture socioeconomiche galliche, in Atti 2º Convegno arch. regionale, cit.p. 33 ss.; ID., Ticinum: dalle origini alla fine del III sec. d.C., in Storia di Pavia, 1. L’età antica, Milano 1984, p. 214 ss.; M. Capozza, La voce degli scrittori antichi, in Il Veneto nell’età romana, Verona 1987, p. 16; M.T. Grassi, I Celti in Italia, Milano 1991, p. 47 ss.; V. Vedaldi Iasbez, La problematica sulla romanizzazione della Transpadana negli studi dell’ultimo quarantennio, in Quaderni Giuliani di Storia, 1 (1985), p. 16 ss.; G. Bandelli, Momenti e forme della politica romana nella Transpadana orientale (III-II secolo a.C.), in Atti e memorie della soc. Istriana di Arch. e Storia patria, 85 (1985), p. 21 s.; L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città: Vicenza romana, in Storia di Vicenza, I, Vicenza 1987, p. 205 ss.; E. Gabba, La conquista della Cisalpina, in Storia di Roma, 2, L’impero mediterraneo.1, La repubblica imperiale, Torino 1990, p. 69 ss. Sulla romanizzazione in genere della Cisalpina si vedano gli importanti, recenti contributi di R. Chevallier, La romanisation de la Celtique du Pô. Essai d’histoire provinciale, Roma 1983; G. Bandelli, Le prime fasi della colonizzazione cisalpina (295-190 a.C.), in Dialoghi di archeologia, 2 (1988), p. 105 ss.; ID., Colonie e municipi delle regioni transpadane in età repubblicana, in La città nell’Italia settentrionale in età romana, Trieste-Roma 1990, p. 251 ss.; F. Cassola, La colonizzazione romana della Transpadana, in Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Provinzen des Römischen Reiches, Köln 1991, p. 17 ss.; E. Arslan, I Transpadani, in I Celti (Catalogo Mostra Venezia) cit. p. 461 ss.; D. Foraboschi, Lineamenti di storia della Cisalpina romana, Roma 1992 [v. ora M.T. Grassi, La romanizzazione degli Insubri. Celti e Romani in Transpadana attraverso la documentazione storica ed archeologica, Milano 1995]. 35 E. Gabba, I Romani nell’Insubria, cit. p. 34, ha opportunamente notato come perfino la rete viaria romana evitasse accuratamente di toccare il territorio degli Insubri, ovverossia della potenza egemone. Diversamente andavano le cose nella Transpadana orientale, per la maggior dimestichezza politica e culturale della regione con Roma. Cfr. da ultimo F. Cassola, La colonizzazione, cit. p. 24 ss. 172 cittadinanza a singoli membri delle comunità alleate, e ciò per impedire che si insinuassero tensioni e discriminazioni all’interno delle compagini indigene (la clausola suonava ‘ne quis a Romanis civis recipiatur’). A mio avviso, dunque, l’oppidum delle origini continuò ad esistere come centro politico rappresentativo dei Comenses anche dopo l’impatto traumatico con i Romani, e come tale sopravvisse ufficialmente sino al 59 a.C. e di fatto anche oltre, come testimoniano i reperti archeologici36. 6. Nel frattempo, però, altri e più sconvolgenti avvenimenti stavano per accadere. Nell’89 a.C., mentre ancora divampava la rivolta dei socii Italici, Roma, per salvaguardarsi le spalle e per assicurarsi l’aiuto e la fedeltà dell’intera Cisalpina (e non per paura di fantomatiche turbolenze belliche lungo le Alpi)37, concesse agli alleati del Nord lo ius Latii, cioè quella somma di diritti di cui sino ad allora avevano goduto i Latini38. Fu una operazione singolare e del tutto inedita, che comportò la trasformazione degli antichi centri indigeni (liguri, celti, veneti) in coloniae Latinae, senza che però (e qui sta la novità) vi fosse alcuna effettiva deduzione di popolazione e neppure (a quanto pare) una ristrutturazione secondo modelli urbanistici romani: per questo oggi si parla di “colonizzazione fittizia”39. Il succo del provvedimento, che i moderni chiamano lex Pompeia de Transpadanis, attribuendolo a Pompeo Strabone (che, forse, però, ne fu solo l’esecutore)40, è ben colto da Asconio (in Pis. 3 C): “... Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno, dedusse colonie in Transpadana. Ma non le costituì con nuovi coloni, bensì diede ai vecchi abitanti residenti lo ius Latii, affinchè potessero avere il diritto che ebbero le altre colonie latine”41. Fu così che nell’89 a.C. i maggiori centri cisalpini acquistarono il titolo di colonia latina senza che ne uscisse 36 Cfr. R. De Marinis, L’insediamento preromano, cit. p. 35 s.; ID., L’abitato protostorico, cit. p. 34 s. Come pensa P. Baldacci, Comum et Mediolanium: rapporti tra le due città nel periodo della romanizzazione, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d’Occident, Paris 1977, p. 105. 38 Sul contenuto dello ius Latii,v.G. Luraschi, Foedus, cit. p. 139 ss.; ID., Sulle magistrature, cit. p. 261 ss.; ID., Sulla lex Irnitana, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 55 (1989), p. 349 ss., ivi un saggio (per altro incompleto) della sterminata bibliografia suscitata dalla pubblicazione delle tavole irnitane. Per l’aggiornamento v. F. Lamberti, Tabulae Irnitanae. Municipalità e ius Romanorum, Napoli 1993, p. 17 ss.. Adde D. J. Piper, The ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum and its effect on Roman-Latin relations, in Latomus, 47 (1988), p. 59 ss.; G. Negri, Le istituzioni giuridiche, in Storia di Piacenza. 1, Piacenza 1990, p. 289 ss. [v. ora anche H. Galsterer, La trasformazione delle antiche colonie latine e il nuovo ius Latii, in Pro poplo Arimenese, Epigrafia e antichità, 14, Faenza 1995, p. 79 ss.; G. Mancini, Cives Romani municipes Latini, Milano 1996]. 39 Su tutto ciò v. Foedus, cit. pp. 139 ss., 331 ss.; con gli aggiornamenti in Nuove riflessioni, cit. p. 50 ss. [p. 282 ss.]. 40 Foedus, cit. p. 144 ss. La ‘svalutazionÈ da me proposta dell’opera complessiva di Pompeo Strabone ha trovato, come c’era da aspettarsi, consensi e critiche, le ultime soprattutto da parte di H. Wolff, rec., cit. p.554 ss., il quale, però, rivela un’altra pecca del suo procedere: si accanisce infatti contro la pars construens del mio ragionamento, che (non ho difficoltà ad ammetterlo) è in certa misura ipotetica, ma tralascia del tutto la pars destruens in cui ho tentato di confutare le teorie tradizionali, che erano ormai diventate pericolosamente tralatizie e, a loro volta, fondate sulla presunzione che tutto (ad es. lex de Transpadanis, lex de adtributione, fondazione di Laus ed Alba Pompeia, centuriazione, urbanizzazione, distrettuazione in tribù, edifici pubblici ecc.) fosse da attribuire a Pompeo Strabone solo perchè “wir kennen bisher keinen Pompeius, der sich langere Zeit in Norditalien aufgehalten und dort sicher organisatorische Maß getroffen hat, außer Cn. Strabo” (H. Wolff, op. cit., p. 555, cui ho risposto in Sull’origine dell’adtributio, cit. p. 55 [p. 728] nt. 38). Non mi sembra che un simile argomentare possa dirsi fondato sulle fonti e sia meno arbitrario del mio! D’altronde proprio il Wolff (come me in Foedus, cit. p. 145 s.) affaccia l’ipotesi che Pompeo Strabone possa avere agito non in base ad un suo provvedimento, bensì alla lex Iulia de civitate del 90 (H. Wolff, Caesars Neugründung von Comum und das sogenannte ius Latii maius, in Chiron, 9, 1979, p. 170 e nt. 2); e, se ho ben capito, gli toglie (come me in Per l’identificazione della lex Pompeia: Plin. N.H. 3,20,138, in Studia et Doc. Hist. et Iuris, 44, 1978, p. 472 ss.; Foedus, cit. p. 189 ss.; ed ancora in Sull’origine dell’adtributio, cit. p. 51 ss. [p. 724 ss.]; con il recente consenso di M. Talamanca, rec. in Bull. Ist. dir. rom., 92-93, 1989-90, p. 694) anche il merito dell’adtributio dei popoli alpini (H. Wolff, Un trentino a Passau: il monumento funebre del commerciante di vini P. Tenatius Essimnus, in Beni culturali nel Trentino. 4, Contributi all’archeologia, Trento 1983, p. 143 s. e ntt. 24,25). Quanto alla prima tesi, oggi io credo, tuttavia, che non sia più sostenibile, poichè non tiene conto dello svolgersi degli avvenimenti, che coinvolsero i Cisalpini solo sul finire del bellum Italicum, quando le operazioni militari al nord gravitavano intorno ad Asculum, ad un passo, cioè, dal confine con la Cisalpina, e quindi giustificavano un intervento in extremis e ad hoc. Penserei piuttosto alla lex Plautia Papiria (contemporanea ai fatti e di contenuto certamente più ampio e complesso di quello che ci è stato tramandato da Cic. pro Archia, 4, 7: v. G. Luraschi, Sulle leges de civitate: Iulia, Calpurnia, Plautia Papiria, in Studia et Documenta Hist. et Iuris, 44, 1978, p. 356 ss. e nt. 151) o ad altra legge ignota. Contro la tesi del Wolff si e` espresso anche H. Galsterer, Romanizzazione politica in area alpina, in La valle d’Aosta, cit. p. 81 e nt. 5. 41 “...Cn. Pompeius Strabo, pater Cn. Pompei Magni, Transpadanas colonias deduxerit. Pompeius enim non novis colonis eas constituit sed veteribus incolis manentibus ius dedit Latii ut possent habere ius quod ceterae Latinae coloniae ...” 37 173 alterata (salvo fenomeni spontanei di imitazione e di precoce integrazione)42la loro fisionomia urbanistica, etnica e perfino costituzionale43. I gravi equivoci in cui sono incorsi storici ed archeologi che hanno trattato del periodo sono dipesi, a mio avviso, da una imperfetta valutazione giuridica degli eventi dell’89, che li ha portati a supporre, quasi senza eccezioni, che Roma, per i più svariati motivi, avesse programmato, fin nei minimi particolari, una complessa ed articolata pianificazione, che avrebbe dovuto trasformare radicalmente l’assetto amministrativo, istituzionale, urbanistico ed agrario dell’intera Transpadana44. Ed invece, a giudicare dalle fonti e dai fatti, l’azione di Roma fu del tutto contingente ed improvvisata, poichè ad imporla furono le drammatiche vicende della Guerra Sociale, e non un progetto preordinato da una mente politica lungimirante. 7. In questo quadro si colloca certamente anche Comum; ed il suo caso non porrebbe problemi, uniformandosi a quello degli altri oppida cisalpini, se non vi fosse la testimonianza di un autore antico che sulle vicende comasche appare assai bene informato: alludo al geografo greco Strabone, il quale, in poche ma preziose righe (5,1,6)45, traccia la storia di Como romana dall’89 a.C. al 59 a.C. Ebbene, sono proprio le notizie che apprendiamo da lui a creare incertezze fra gli studiosi, soprattutto in merito ai primordi della città romana. 42 Così sarei tentato di spiegare le tracce monumentali (per altro rare) risalenti alla prima metà del I sec. a.C. (ad es. il santuario di Brescia) e quindi potrei trovarmi perfettamente d’accordo con M. P. Rossignani, Gli edifici pubblici nell’Italia settentrionale fra l’89 a.C. e l’età augustea, in Le città nell’Italia Settentrionale, cit. p. 337 s. Io escludo solo che la cd. lex Pompeia avesse ufficialmente promosso un piano generalizzato di edilizia pubblica. Per quanto invece riguarda i tempi ed i modi dell’affermarsi della “cultura figurativa non pubblica in Cisalpina”, cfr. G. Sena Chiesa, Recezione di modelli ed elaborazioni locali nella formazione del linguaggio artistico mediopadano, in Atti 2º Convegno arch. regionale, cit. p. 257 ss., dove, comunque, si afferma che “una romanizzazione culturale diffusa nella zona sembra svilupparsi... dalla metà del I sec. a.C. in avanti” (p. 257). Da ultimo F. Landucci Gattinoni, Il tempio repubblicano di Brescia e l’integrazione dei Cenomani nel mondo romano, in Aevum, 63 (1989), p. 30 ss.; M. Denti, I Romani a Nord del Po. Archeologia e cultura in età repubblicana e augustea, Milano 1991, p 40 ss. e passim; M.L.Grassi, Insubri e Romani: un modello di integrazione, in Sibrium,21 (1990-91), p. 279 ss.; E. Gabba, Civiltà urbana nell’Italia Transpadana, in Athenaeum, 80 (1992), p. 190 ss. 43 Sulla base di Fr. Atestinum linn. 10-12, ho supposto che in alcune colonie latine fittizie del Nord sopravvivessero, almeno sino al 49 a.C. (se non oltre), le magistrature indigene o, comunque, preesistenti alla riforma dell’89 a.C. (magi-stratus foedere vel instituto): G. Luraschi, Sulle magistrature nelle colonie latine fittizie, cit. p. 317 ss. 44 Il primo a sostenerlo in maniera coerente fu G. Tibiletti in tanti memorabili saggi, ad es: La romanizzazione della Valle Padana, in Arte e civiltà romana nell’Italia settentrionale dalla repubblica alla tetrarchia, I, Bologna 1964, p. 33 ss.; ID., Ticinum e la Valle Padana, in Athenaeum, 42 (1964), p. 572 ss.; ID., Città appassionate nell’Italia settentrionale augustea, ibid. 1976, pp. 52, 62. La tesi ebbe subito grande fortuna, e solo di recente le mie ripetute critiche sono riuscite a far breccia, aprendo nuove prospettive di studio: v. Luraschi, Foedus, cit. pp. 177 ss., 331 ss.; ID., Sulle magistrature, cit. p. 261 ss.; ID., Nuove riflessioni, cit. p. 52 ss. [p. 284 ss.]. Mi è di particolare soddisfazione il consenso di fondo che in più occasioni hanno manifestato, fra gli altri, E. Gabba, Strutture sociali, cit. p. 43 s.; ID., Ticinum, cit. p. 221 ss. e nt. 69; ID., Per un’interpretazione storica della centuriazione romana, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1984, p. 20 ss.; ID., Problemi della romanizzazione della Gallia Cisalpina in età triumvirale e augustea, in Problemi di politica augustea (Atti Convegno St. Vincent 1985), Aosta 1986, p. 23 ss.; ID., I Romani nell’Insubria, cit., p. 38 s.; V. Vedaldi Iasbez, La problematica, cit. p. 36 ss.; M. Capozza, La voce degli scrittori antichi, cit. p. 22 ss.; G. Bandelli, Il governo romano, cit. p. 47 ss.; ID., Colonie e municipi, cit. p. 263 ss. Con qualche interessante verifica: ad es. F. Sartori, Padova nello stato romano, cit. p. 122 ss.; C. Zaccaria, Il governo romano nella regio X e nella provincia Venetia et Histria, in Antichità alto-adriatiche, 28 (1986), p. 71 s.; R. Scuderi, Per la storia socio-economica del municipium di Novaria dalla romanizzazione al III secolo d.C., in Boll. Stor.-bibl. Subalpino (1987), p. 15 s. e nt. 45; E. Buchi, Assetto agrario, risorse e attività economiche, in Il Veneto nell’etàromana, I, cit. p. 106 s.; M. Rigoni, Vicenza, ibid. 2, p. 110 s.; P. Furlanetto - M. Rigoni, Il territorio vicentino, ibid. p. 138. 45 174 Ma, prima di procedere, leggiamo interamente la nostra fonte, poichè d’ora innanzi essa costituirà il più sicuro canovaccio del discorso. Per semplicità ve la propongo subito nella traduzione che a me pare l’unica possibile e che quasi mai coincide con quelle fino ad ora proposte, ivi comprese le prestigiose Les Belles Lettres46, Loeb47, e la recentissima di Anna Maria Biraschi48: “Como era una città di media grandezza, Pompeo Strabone, padre del Magno, dopo che fu devastata dai Reti delle montagne sovrastanti, la ricostituì demograficamente; in seguito Gaio Scipione pose presso (aggiunse) tremila coloni; quindi il divino Cesare ne portò altri 5000, di cui i 500 greci risultarono quelli piu` in vista; a costoro, invero, diede anche la cittadinanza e li iscrisse fra i coloni; essi tuttavia non fissarono in questo stesso luogo la residenza, ma comunque lasciarono alla fondazione il nome; infatti tutti quanti furono chiamati Neocomiti, ed il luogo, tradotto, è detto Novum Comum”. Ecco l’atto di nascita della città lariana! L’esordio, come dicevo, ci riporta all’89 a.C., ovvero, e più probabilmente, all’88 a.C., e cioè rispettivamente o all’anno del consolato o a quello del proconsolato di Pompeo Strabone49. Da esso apprendiamo: che Como, prima delle distruzioni retiche e dell’intervento di Pompeo (quindi all’inizio del I sec. a.C. circa) era un centro di media grandezza (stava, sempre secondo Strabone, ibid., alla pari con Brixia, Mantua, Regium = Bergomum ?, mentre era inferiore a Mediolanium ed a Verona); che popolazioni alpine di stirpe retica la danneggiarono gravemente, in un’epoca imprecisata, ma con ogni verosimiglianza non distante dall’89 a.C. (erroneamente si parla di 94 a.C., anno che vide l’inconcludente spedizione alpina di Lucio Licinio Crasso)50; ed infine che Pompeo Strabone la ricostituì demograficamente, la ripopolò, la restaurò. Ed è proprio sull’interpretazione di quest’ultimo punto che le opinioni divergono. Il problema è, infatti, quello di valutare la portata dell’intervento di Pompeo. I più pensano che egli abbia fondato a Comum una vera e propria colonia Latina, con una effettiva deduzione di coloni. Ma a questa ipotesi si oppone la lettera del testo greco ed in particolare il significato tecnico di συνοικίζειν, che non può essere tradotto con ‘inviare dei coloni’51, ‘fondarÈ o ‘dedurre una colonia’52, ma con ‘mettere a conviverÈ, ‘unirÈ, ‘associare, riunire in una città delle popolazioni sparsÈ, ‘operare un sinecismo’ e simili53. Se a questo aggiungiamo che l’oggetto grammaticale di συνώκισεν è la κατοικία danneggiata dai Reti appare evidente che l’azione di Pompeo ebbe di mira non già la creazione di un organismo nuovo per ubicazione, struttura e abitanti (in tal caso sarebbe stato improprio parlare di sinecismo), bensì la ricostruzione demografica del centro preromano, verso cui furono fatti confluire i veteres incolae, che, con ogni probabilità, l’incursione retica aveva disperso nelle campagne e sui monti circostanti54. Ma la tesi che sto confutando è in contrasto anche con la politica generale perseguita nell’89 a.C. da Roma e da Pompeo Strabone, il cui scopo contingente non prevedeva affatto, come risulta a chiare lettere da Asconio, una colonizzazione effettiva. Né si oppongano i casi di Laus Pompeia ed Alba Pompeia, che, a ben vedere, nessuna fonte attribuisce a Pompeo Strabone, e di cui anzi la dottrina ha da tempo proposto altri e più verosimili fondatori55. Per superare questa obiezione alcuni56 hanno ritenuto che il padre del Magno, pur senza giungere a fondare a Como una vera e propria colonia, avesse tuttavia edificato una nuova città, trasportando gli abitanti dai colli, dove sorgeva l’antico oppidum, alla riva del lago. Ma contro questa interpretazione valgono pur sempre i rilievi esegetici più sopra formulati, che, ripeto, ci impongono di connettere l’opera di Pompeo ad una realtà 46 Lasserre, 3, Paris 1967, p. 45. Jones, 2, London 1969 (rist.), p. 311. 48 A.M. Biraschi, Strabone, Geografia. L’Italia, libri V-VI, Milano 1988, p. 59. 49 Ho discusso la cosa in Foedus, cit. pp. 126 ss., 358 ss. 50 Cfr. Foedus, cit., p. 126 s. 51 Come fanno Lasserre e Biraschi, supra ntt. 46,48. 52 Così Jones, supra nt. 47. 53 Cfr. Thesaurus Graecae Linguae, 7, s.v.; Liddell -Scott, sv. Per le interpretazioni della dottrina v. Foedus, cit., p. 359 s. 54 L’archeologia parrebbe confermare la cosa riscontrando una ripresa del popolamento nell’area dell’antico oppidum proprio nella prima metà del I sec. a.C., supra nt. 36. 55 Si è pensato a Quinto Pompeo, console nell’88, o a Silla (Luraschi), Pompeo Magno (Ross Taylor), Cesare (Mommsen); per la discussione e la bibliografia v. Foedus, p. 209 ss. 56 A. Calderini, Ancora di Novum Comum, in RAComo, 130 (1949), p. 17 ss.; P. Maggi, Como: sede primitiva e ricostruzione romana, in Riv. Como (1971), 2, p.30 s. 47 175 demografica ed edilizia preesistente. Costui, del resto, nel poco tempo a sua disposizione (in pratica un anno, l’88 a.C.) e considerate le incombenze politiche, militari e giudiziarie che si trovò a dover affrontare (tra l’altro fu implicato, come mandante, nell’omicidio del suo successore, il console Quinto Pompeo, al quale non voleva cedere il comando)57, difficilmente avrebbe potuto condurre a termine una impresa tanto impegnativa, quale è quella che i moderni gli attribuiscono. Inoltre la preesistenza di una colonia pompeiana nella convalle comasca mal si concilierebbe, dal punto di vista topografico, politico e giuridico, con le successive deduzioni, alludo a quella di Scipione e soprattutto a quella di Cesare nel 59 a.C., la sola che, come vedremo, abbia dato a Comum un volto urbanistico unitario. Va detto infine, sia pure come argumentum e silentio (ma tuttavia di un certo peso, dopo le recenti, accurate esplorazioni lungo le muraed in altri siti della città)58, che nessun reperto archeologico nell’area urbana ci consente di risalire più addietro dell’età cesariana59. Per contro nell’oppidum la vita sembra continuare con una certa intensità per tutta la prima metà del I sec. a.C., mantenendo pressochè immutate le forme e le consuetudini indigene60. Ribadisco, pertanto, la convinzione che neppure gli eventi dell’89-88 a.C. riuscirono ad alterare in modo significativo il quadro degli insediamenti in terra lariana: l’oppidum, cui la legge dell’89 aveva formalmente attribuito il titolo di colonia Latina, rimase infatti sui colli dove sempre era stato; la piana paludosa prospiciente il lago continuò ad essere disabitata; quanto ai Romani, ancora una volta rinunciarono a stabilirsi nella zona, almeno in una forma che risultasse ufficiale e di una qualche consistenza. 8. Ormai, però, Comum era entrata nell’orbita politica e culturale romana, e all’Urbe non potevano certo sfuggire i vantaggi itinerari e strategici che offriva la sua posizione geografica. Se ne rese conto di lì a poco un certo Gaio Scipione (o colui che ne ispirò l’azione), il quale, stando a Strabone, portò a Como 3000 coloni. Fu questa la prima effettiva colonizzazione nell’area comasca, anche se forse ad essa, come diremo, mancarono i crismi della legittimità. Ma chi la promosse e quando? Fra le varie ipotesi credo si debba preferire quella che individua in Gaio Scipione (il cui prae-nomen è ignoto alla famiglia degli Scipioni e, quindi, con ogni probabilità, da attribuire ad un errore della nostra fonte o della tradizione manoscritta) Lucius Cornelius Scipio Asiaticus Aemilianus, il figlio primogenito di Marco Emilio Lepido, che fu luogotenente o legato del padre durante il tentativo insurrezionale del 77 a.C. Costui fu adottato da Lucius Cornelius Scipio Asiaticus (cos. nell’83 a.C.) e di conseguenza ne assunse il nome61. L’azione di Scipione, del resto, ben si inquadra nel programma di Lepido, il quale, ottenuto per il 77 il proconsolato della Cisalpina, intendeva creare in questa regione le basi clientelari, militari e logistiche per la conquista del potere (si parla di praesidia deducta atque imposita, fra cui ben potrebbe figurare Como)62. E proprio in Cisalpina Scipione, unitamente a Marco Giunio Bruto, anch’egli legato di Lepido, operò e morì nel 77 a.C., dopo essere stato sconfitto ad Alba da Pompeo63.. Sta di fatto che 3000 soldati-coloni, per un totale presumibile di 12000 persone (secondo il consueto rapporto di tre individui per ogni capo famiglia), d’estrazione romano-italica e forse anche indigena, si stanziarono nel 77 a.C. in territorio comasco. Era un bel contingente, pari, ad esempio, a quello che fu inviato a Bononia 57 Liv. per. 77; Val. Max. 9,7 m.R.2; Vell. Pat. 2,20,1; App. bell. civ. 1,63,284-285 [v. anche infra p. 728 nt. 38]. Cfr. L. Castelletti, I. Nobile, Scavi di Porta Pretoria, in Not. Soprint. Arch. Lomb., 1982, p. 59 s.; I. Nobile - A. Schöler - H. Stauble, Indagine lungo le mura romane di Como presso la Porta Pretoria. Relazione preliminare, in Archeologia urbana, cit. p. 99 ss.; R. Caimi, L. Castelletti, S.Tenderini, Como, via Perti, ibid. 1987, p. 124; M. Fortunati, Como, via Vittani 10, ibid. 1988-89, p. 117; M. Fortunati et alii, Como, via Vittani 10, ibid. 1990, p. 169 ss. Ed inoltre gli articoli di M. Fortunati e M. De Angelis D’ossat su questi Atti. 59 Questo vale ovviamente anche per il vecchio materiale oggi esemplarmente catalogato e rivisto su questi Atti da M. P. Rossignani F. Sacchi (I documenti architettonici) e G. Sena Chiesa (Il territorium di Comum: insediamenti, necropoli, popolamento, v., in particolare, il paragrafo dedicato alle necropoli urbane). Cfr. anche I. Nobile, Le necropoli romane in Como, in Archeologia urbana, cit p. 96 ss. 60 Supra nt. 36. 61 Cfr. N. Criniti, L. Cornelio Scipione Asiageno Emiliano, secondo colonizzatore di Como nel 77 a.C. (Strab. V,1,6)?, in Contributi dell’Ist. di Storia antica, 1, Milano 1972, p. 91 ss.; Luraschi, Foedus, cit. p. 365 ss. 62 Sall. hist. 1,77,17. Spunti interessanti per coinvolgere Como nella ribellione di Lepido li offrono anche Lucan. bell. civ. 8,808 e Plut. Pomp. 16, al punto che non è azzardato credere con il Criniti (op. cit. p. 96) che nel quadro di queste vicende si addivenisse ad “un attacco pompeiano alla stessa piazzaforte comense”. 63 Oros. 5,22,17. 58 176 (189 a.C.) e ad Aquileia (181 a.C.), le due ultime colonie latine dedotte in Cisalpina. Dove si trovò lo spazio per sistemarlo? Non certo sui colli, nei pressi dell’oppidum, poichè è difficile credere che dei Romano-italici si adattassero a vivere in una condizione disagevole e contraria alle loro consuetudini urbanistiche. Inoltre un numero così ingente di persone avrebbe pur dovuto lasciare qualche traccia della sua presenza in una zona rimasta pressochè integra e notoriamente prodiga di ritrovamenti di epoche ben più risalenti. Strabone, ancora una volta, si mantiene sul vago e usando il verbo προστιειναι lascia intendere soltanto che i coloni si stanziarono nei pressi della vecchia κατοικία ‘sinecizzata’ da Strabone. Io ritengo, tuttavia, che un nucleo di immigrati (ad esempio la guarnigione militare, i notabili, gli artigiani) guadagnasse le rive del lago, specialmente laddove queste erano asciutte, solatie e sufficientemente spaziose da consentire l’edificazione di un centro che rispondesse ai requisiti urbanistici romani. Si è sempre pensato con buoni argomenti (a partire da Benedetto Giovio)64 che tale sito potesse coincidere grosso modo con l’attuale borgo della Coloniola, il quale non solo ha un toponimo già di per sè eloquente, ma presenta anche, nelle strutture odierne, le tracce di una pianificazione di chiara impronta romana65. 9. E finalmente arriviamo al 59 a.C. Gli stessi motivi d’ordine economico, militare e politico che avevano indotto Lepido e Scipione a scegliere Como come meta di una deduzione, li troviamo puntualmente anche in Cesare. Nell’anno del suo consolato (appunto il 59 a.C.) si fece autorizzare da un plebiscito rogato dal tribuno ed amico Publio Vatinio a fondare sul suolo comasco una colonia66. Quel che differenziava le due iniziative era la tempra e la genialità degli uomini che erano stati chiamati a realizzarle. Alla ristretta visione di Lepido, tutto teso all’utile suo particolare e ormai lanciato in una folle quanto improvvisata sfida alla oligarchia dominante67, si contrappone il lungimirante disegno di Cesare, che inquadra la fondazione di Como in una più vasta e consapevole politica di rivalutazione della Cisalpina, in funzione soprattutto di una espansione militare e commerciale verso le terre d’oltralpe, che egli già nel 59 andava configurando68. L’evento ebbe larga ed a volte drammatica risonanza, tanto che ne parlano ben sei autori antichi [Catullo69, Cicerone70, Strabone71, Plutarco72, Svetonio73ed Appiano74], di cui due, Catullo e Cicerone, furono perfino 64 B. Giovio, Historiae patriae libri duo, Venetiis 1629, 4, p. 203. È merito di G. Caniggia averlo scoperto: Lettura di una città, cit. pp. 40,48; ID., Restauro in borgo S. Agostino, s.d. p. 28. Dubbi sono stati avanzati da M. Mirabella Roberti, Milano e Como, in La città nell’Italia settentrionale, cit. p. 482, che ritiene l’area troppo ristretta, ma, come ho detto, non bisogna pensare che tutti i coloni vi trovassero stanza. Per un approfondimento dell’intera questione, v. Foedus, cit. p. 371 s. e nt. 87. 66 Suet. Caes. 28. 67 Ottimo il ritratto che del personaggio fa G. Labruna, Il console sovversivo, Napoli 1975. 68 Sall. Catil. 54,4; Suet. Caes. 22. 69 Catull. carm. 35,3-4: “Poetae tenero, meo sodali velim Caecilio, papyre, di-cas, Veronam veniat, Novi relinquens Comi moenia Lariumque litus”. 70 Cic. ad fam. 13,35,1: “C. Avianius Philoxenus antiquus est hospes meus et praeter hospitium valde etiam familiaris; quem Caesar meo beneficio in Novocomenses rettulit. Nomen autem Aviani secutus est quod homine nullo plus est usus quam Flacco Aviario”; ad Att. 5,1,6: “Marcellus foede in Comensi. Etsi ille magistratum non gesserat (gesserit), erat tamen Transpadanus. Ita mihi videtur non minus stomachi nostro quam Caesari ferisse”. 71 Strab. 5,1,6 (213), riportato supra nt. 45. 72 Plut. Caes. 29: 65 73 Suet. Caes. 28: “Nec contentus Marcellus provincias Caesari et privilegium eripere, rettulit etiam ut colonis, quos rogatione Vatinia Novum Comum deduxisset, civitas adimeretur, quod per ambitionem et ultra praescriptum data esset”. 74 App. bell. civ. 2,26,98: 177 testimoni ed in qualche modo implicati75. Il più circostanziato è, comunque, Strabone (5,1,6,213), dal quale apprendiamo che Cesare condusse a Como 5000 coloni, fra cui v’erano 500 Greci, ai quali il nostro diede anche la cittadinanza romana, distinguendoli così da tutti gli altri coloni, che, evidentemente, non l’avevano; solo per questo, e non per una loro intrinseca nobiltà76, i Greci risultarono έπιφανέστατοι, quelli più in vista. Di uno di costoro, grazie a Cicerone77, che lo fece raccomandare a Cesare affinchè lo iscrivesse fra i Novocomenses, conosciamo anche l’identità: si chiamava Caius Avianius Philossenus e proveniva (questa è una scoperta mia cui tengo molto)78 da Calacte (oggi Caronia), un borgo della costa settentrionale della Sicilia, ad est di Halaesa; era amico e cliente, oltre che di Cicerone, anche di un ricco produttore ed importatore di grano di Pozzuoli, Caius Avianius Flaccus79, da cui prese il nome. Anch’egli era probabilmente implicato nel commercio del grano, e forse proprio per questa sua attività lo vediamo postulare raccomandazioni, alla ricerca evidentemente di appalti e di esenzioni fiscali80. Di nobiltà, comunque, nemmeno l’ombra! Anzi, a stretto rigore e a giudicare dal nome, poteva anche essere un liberto di Avianius Flaccus, ovvero, nella migliore delle ipotesi, un suo cliente81. Sempre da Strabone veniamo a sapere che, curiosamente, i Greci non fissarono a Como la loro residenza. Lo conferma il nostro Filosseno, che nel 45 a.C. è in Sicilia, in cerca di favori e di nuovi guadagni82. Di qui una ridda di congetture, che ha portato taluni83 a supporre che quei 500 greci, una volta acquisiti i benefici che a loro spettavano in quanto iscritti fra i Novocomenses, non abbiano mai messo piede nella città lariana. L’ipotesi, però, è inverosimile per vari motivi. A parte i dubbi circa la bontà della lezione manoscritta di Strabone (ού µέντοι… άλλά καί e` certamente una correlazione che non regge, meglio sarebbe ού µόνον... 75 Cfr. piu` avanti. Come invece si è sempre pensato, traducendo ‘oi epiphanéstatoi’ con ‘i piu` nobili’, ‘i piu` illustri’ o peggio ‘nobilissimi’. L’errore è stato recentemente ripetuto anche da E. Deniaux, Le passage des citoyennetés locales à la citoyenneté romaine et la constitution de clientèles, in Les Bourgeoisies municipales, cit. p. 274 ss.; Ead., Civitate donati: Naples, Héraclée, Côme, in Ktema, 6 (1981), p. 138 s., e ciò ha condizionato non poco le sue conclusioni storiche, portandola a credere, fra l’altro, che “Beaucoup plus que des commerçants...les protégés de César à Côme devaient être des notables, des gens illustres; le mot de Strabon qui les désigne doit garder toute sa valeur ‘epiphanéstatoi’”. A maggior ragione l’A. esclude che potessero essere dei liberti. Sbagliata è anche la traduzione: “500 dei quali furono i più illustri tra i Greci”: A. Calderini, Ancora di Novum Comum, cit. p. 16; P. Baldacci, Comum et Mediolanium, cit. p. 105. 77 Ad fam. 13,35,1. 78 La devo a Cic. ad fam. 13,37, del 45 a.C., in cui l’oratore raccomanda al proconsole di Sicilia Acilio Canino ‘Hippiam Philoxeni filium, Calactinum, hospitem et necessarium meum’. Credo non si possa dubitare che il Filosseno ivi menzionato sia da identificare con il Neocomense. 79 Cic. acad. 2,25,80. Sul personaggio ed il suo ambiente v. J.H. D’Arms, CIL X, 1972: a municipal notable of the augustan age, in Harvard Studies in Classical Philology, 76 (1972) p. 207 ss. 80 Cic. ad fam. 13,35, dove viene raccomandato a M. Acilio Canino, pro-console di Sicilia. Sugli interessi ed i traffici che legavano Romani ed Italici all’isola v. ora A. Fraschetti, Per una prosopografia dello sfruttamento: romani e italici in Sicilia (212-44 a.C.), in Società romana e produzione schiavistica, 1, Bari 1981, p. 51 ss., che però dimentica nella sua per altro accurata rassegna il nostro Caio Avianio Flacco. Cfr. G. Luraschi, Per una valutazione della società romana e della produzione schiavistica, in Opus, 1 (1982) p. 401 s. 81 Lo nega A.N. Sherwin White, Roman citizenship, Oxford 1973 (2 ed.), p. 231 nt. 6, che però è fuorviato dalla errata interpretazione del passo di Strabone e in particolare di ‘epiphanéstatoi’. Analogamente E. Deniaux, op. cit. supra nt. 76. 82 Cic. ad fam. 13,35. 83 Ne faccio un puntuale elenco in Foedus, cit. p. 425 s. 76 178 άλλά καί84, io credo che Cesare difficilmente avrebbe rinunciato a quel manipolo di magnogreci, al quale, nel suo piano di colonizzazione, aveva certamente riservato funzioni ben precise che esaltassero le loro incomparabili doti di navarchi (in vista dello sfruttamento della via d’acqua del Lario), di commercianti, di agricoltori particolarmente esperti nella coltivazione della vite e dell’ulivo, che Cesare voleva probabilmente introdurre o incentivare, approfittando del clima lacustre85. Ciò era sufficiente a renderli praticamente insostituibili. Inoltre per risultare “i più in vista”, dovettero pur avere il tempo di confrontarsi con gli altri, dal momento che non era un titolo nobiliare (quindi preesistente alla fondazione) a distinguerli. Solo a Como essi si segnalavano in quanto cives Romani in una colonia Latina, come dimostrerò fra breve. Eppoi una certa dimestichezza col sito è provata dal fatto che furono proprio i Greci a dare alla colonia il nome. Come spiegare allora l’affermazione di Strabone? Io sono dell’avviso che i Greci siano effettivamente giunti con tutti gli altri coloni a Como, ma che si siano fermati quel tanto che bastava per impiantare i loro empori e le loro aziende agricole e commerciali, dopo di che ripresero la più piena libertà di movimento al seguito dei loro affari ed alla scoperta di nuovi mercati86. E degli altri 4500 coloni che cosa si sa? C’è chi li vorrebbe prevalentemente transpadani o addirittura Comensi della prima ora (cioè gli abitanti dell’oppidum); chi invece, come me, li immagina arruolati fra il proletariato romano e italico (anzi centro-italico, a giudicare dall’onomastica comense), nonchè fra le sempre più folte schiere dei veterani dei triumviri87. 10. Ma veniamo agli aspetti più strettamente giuridici della fondazione, che, come dicevo, pongono non pochi e difficili problemi. A promuoverla fu, secondo quanto afferma Svetonio88, una lex Vatinia, databile forse fra la seconda metà di maggio e l’inizio di giugno del 59 a.C. Ma quale lex Vatinia? Quella de provincia Caesaris, che conferì a Cesare per un quinquennio il governo della Cisalpina e dell’Illirico (cui si aggiunse la Narbonese), ovvero una apposita lex Vatinia de colonia Comum deducenda? Io ritengo che sia vera la seconda ipotesi, per una somma di motivi di cui vi faccio grazia, ma che troverete puntualmente nelle mie pubblicazioni89. Un altro e più importante problema lo pone ancora Strabone. Come abbiamo visto, egli lascia intendere che fra i coloni vi fosse una differenza di condizione giuridica. Dice, infatti, la nostra fonte: “ai Greci fu data anche la cittadinanza”. Dunque essi ebbero qualcosa in più rispetto agli altri coloni. Ebbene, vi è un solo modo di spiegare la circostanza: supporre che la colonia fondata da Cesare fosse una colonia Latina e non una colonia romana, come invece generalmente si crede, e che a Cesare sia stata data la facoltà di concedere singillatim la cittadinanza ad un certo numero di coloni, come già era accaduto a Mario, in virtù della lex Appuleia del 100 a.C.90. Cesare ne avrebbe subito approfittato per privilegiare i 500 greco-siculi, in cambio delle loro prestazioni qualificate in campo politico (clientele, propaganda) e professionale (commercio, agricoltura). Con ogni probabilità (lo si evince da Svetonio)91 egli abusò di questo suo diritto, eccedendo nelle attribuzioni di cittadinan84 Cfr. J. Béranger, rec. in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, 50 (1982) p. 207 s. Per tutti gli indizi che lo fanno credere cfr. Foedus, cit. p. 424 ss.; nonchè Furono 500 greco-siculi i primi colonizzatori del Lario in Communitas, 3-4 (1977-78) p. 5 ss. [p. 406 ss.]. Quanto al particolare interesse di Cesare per la coltivazione dell’ulivo, potrebbe essere significativo il fatto che egli imponesse un tributo in natura di tre milioni di libbre all’anno di olio a Leptis (bell. Afr. 97,3), il che “si può considerare tanto un sintomo dell’insufficienza della produzione interna, quanto una causa di decadenza di essa”: F. De Martino, Economia dell’uliveto nell’Italia romana, in Parola del Passato, 254 (1990), p. 346. 86 Sui motivi che spingevano Greci ed orientali in genere a brigare per ottenere la cittadinanza v. da ultimo G. Mancinetti Santamaria, La concessione della cittadinanza a Greci e orientali nel II e I sec. a.C., in Les Bourgeoisies municipales, cit. p. 131 e passim. 87 La rassegna delle varie opinioni e gli indizi che confortano la mia sono in Foedus, cit. p. 424 e nt. 88. 88 Suet. Caes. 28. 89 Per tutte v. Foedus, cit. p. 379 ss. [v. anche supra ntt. 50, 51]. Anche sul punto il Wolff, op. cit. p. 562 s. tenta di contraddirmi ma senza corredare le sue obiezioni di alcuna prova e soprattutto senza prendere in considerazione le mie ragioni, che vengono liquidate, secondo il suo solito, come mere ed infondate ipotesi. Così però non si progredisce ed ognuno finisce per restare della propria opinione, con grave disorientamento del lettore. 90 Cic. pro Balb. 21,48. 91 Suet. Caes. 28, che, parlando di cittadinanza data per ambitionem et ultra praescriptum, lascia chiaramente intendere che i nemici di Cesare lo accusarono di essere andato oltre le prescrizioni della legge e di avere agito per fini esclusivamente clientelari e propagandistici. Ora sembra crederlo anche Chr. Meier, Giulio Cesare, Milano 1993, p. 338 (trad. ital. di Caesar, Berlin 1982). 85 179 za92; a farne le spese fu un malcapitato Comense93, che, trovandosi, chissà perchè, a Roma ed avendo commesso chissà quale illecito, dovette subire l’onta di una sonora fustigazione da parte del console Marco Claudio Marcello, acerrimo avversario di Cesare, che disconobbe così, implicitamente, a quel nostro antico concittadino la qualifica di civis. Questo episodio suscitò un grande scalpore, tant’è che ne accennano ben tre autori: Cicerone94, Plutarco95 ed Appiano96. 11. Ma Como fu davvero una colonia Latina o è soltanto un’ipotesi, tra l’altro, minoritaria97? Non potendo qui affrontare come si deve la questione, cui ho dedicato, a suo tempo, una quantità di pagine98, mi limito a richiamare la posizione delle fonti: la latinità è sostenuta a chiare lettere da Appiano99, come pure, in maniera implicita ma inequivocabile, da Cicerone100 e, a ben vedere, da Strabone101. Plutarco e Svetonio parrebbero, invece, affermarne la romanità; tuttavia una attenta esegesi, che naturalmente mi guardo bene dal proporre102, potrebbe facilmente recuperarli alla tesi qui accolta o almeno neutralizzarli. Comunque la prova più limpida che Como fu colonia Latina è data, a mio avviso, dal fatto che se essa fosse stata colonia civium Romanorum, dopo il 49 a.C. (cioè dopo la estensione della cittadinanza all’intera Cisalpina), la sua qualifica costituzionale sarebbe rimasta invariata, così come accadde per le altre colonie romane dell’Italia settentrionale (Eporedia, Parma, Mutina). Invece noi sappiamo dalle fonti letterarie e soprattutto da quelle epigrafiche che Como divenne municipium, proprio come tutte le altre colonie latine fittizie della Transpadana (Milano, Pavia, Verona, Brescia, Mantova, Novara, Vercelli ecc.)103 e come nel 90 a.C., con la lex Iulia de civitate, lo divennero le colonie latine effettive di Ariminum, Cremona, Placentia, Bononia e A92 Per H. Wolff, Caesars Neugründung von Como, cit. p. 180 ss., sono altri i motivi che inficiarono la legittimità dell’operazione, come vedremo appena più sotto (nt. 92). 93 Assai discussa ne è l’origine etnica: fu uno dei 500 Greci, oppure un colono qualunque, indigeno o immigrato? E la qualifica giuridica? Fu un decurione (Plut. Caes. 29), un magistrato (App. bell. civ. 2,26,98) o né l’uno né l’altro? Cic. ad Att. 5,11,2 lascia nel dubbio, anche per l’incertezza della lezione manoscritta: etsi magistratus non gesserat oppure non gesserit? Io ne tratto ampiamente in Foedus, cit. p. 456 ss.. Parzialmente difformi sono le conclusioni cui giungono, fra gli altri, H. Wolff, Caesars Neugründung von Comum, cit. p. 179 ss.; G. Mancini, Irni municipium latinum, in Index, 18 (1990) p. 374 s.; J. Béranger, rec. cit. p. 207 s. Il Wolff, in particolare, immagina che fosse un decurione (come in effetti dice Plut. Caes. 29) e che l’irregolarità da parte di Cesare fosse consistita in una sorta di applicazione abusiva ed ante litteram del Latium maius (che appunto prevedeva la donatio civitatis ai decurioni oltre che ai magistrati); ma la tesi è del tutto ipotetica, contraria alle fonti che trattano dell’episodio e, a ben vedere, anche improbabile, considerando la sporadicità del caso e soprattutto l’anacronistico ricorso ad un istituto che si spiega solo ad impero inoltrato, quando se ne hanno le prime sicure tracce letterarie ed epigrafiche (v. Foedus, cit. p. 321 ss.). Del mio stesso avviso è H. Horstkotte, Dekurionat und Römisches Bürgerrecht nach der Lex Irnitana, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 78 (1989) p. 170 e nt. 10. La tesi del Wolff fu già, per altro, di J. S. Reid, On some questions of roman public law, in Journ. of Roman Studies, 1 (1911) p. 75, contro cui ho preso posizione in Foedus, cit. p. 410 s. e nt. 33, con argomentazioni che possono valere anche nei confronti del Wolff. 94 Cic. ad Att. 5,11,2. 95 Plut. Caes. 29. 96 App. bell. civ. 2,26,98. 97 Anche se in questi ultimi anni (forse un pò per merito mio) la tesi della latinità di Como va prendendo sempre più piede: cfr. H. Wolff, Caesars Neugründung von Comum, cit. p. 169 ss.; ID., rec. cit. p. 562; V. Vedaldi Iasbez, La problematica sulla romanizzazione, cit. p. 39 s.; G. Bandelli, Colonie e municipi, cit., 264; G. Mancini, Irni municipium latinum, cit. p. 374 s. Per la romanità rimane Denieaux, Le passage, cit. p. 273 s.; J. Béranger, rec., cit. p. 208, che però ha frainteso la mia traduzione di Strabone, come lui stesso ha riconosciuto in un cortese scambio epistolare; Ed. Frezouls, Á propos de la tabula Clesiana, in Ktema, 6 (1981) p. 241 e nt. 14. 98 Cfr. La lex Vatinia de colonia Comum deducenda ed i connessi problemi di storia costituzionale romana, in Atti Convegno Centenario, cit. p. 371 ss.; Foedus, cit. p. 401 ss. 99 App. bell. civ. 2,26,98: “Cesare fondò ai piedi delle alpi la città di Novum Comum secondo il diritto latino”. 100 Cic. ad Att. 5,11,2 allude chiaramente ad una fra le più tipiche prerogative dello ius Latii:lo ius adipiscendae civitatis per magistratum; su cui v. Foedus, cit. p. 301 ss. con gli aggiornamenti di cui alla nt. 37; con in più G. Mancini, Irni municipium latinum, cit. p. 374 s. 101 Strab. 5,1,6 con quanto ho detto sopra. [A chi mi ha opposto che ai 500 Greci la civitas fu data proprio per poterli iscrivere in una colonia Civium Romanorum, quale appunto doveva essere Como, rispondo che così facendo Cesare per evitare una illegalità (quella di iscrivere dei peregrini in una colonia romana) ne avrebbe commessa una ben più grave (quella di concedere la cittadinanza romana senza alcuna autorizzazione né da parte del popolo né del senato)]. 102 Mi limito a rinviare a Foedus, cit. pp. 406 ss., 430 ss.; con l’adesione di H. Wolff, Caesars Neugründung von Comum, cit. p. 172 ss.; ed i dubbi di J. Béranger, rec., cit. p. 208 s. 103 Per i particolari v. Foedus, cit. p. 486. 180 quileia104. Ci si è chiesti: perchè Cesare, potendo liberamente scegliere lo status giuridico della colonia, optò per la latinità, certamente meno prestigiosa e gratificante? Una risposta esauriente mi porterebbe troppo lontano; dirò solo che a suggerire il comportamento di Cesare fu un accorto calcolo politico, ispirato alla massima prudenza e ad un sano conservatorismo105; in poche parole egli rinunciò a fondare una colonia romana per non creare una ‘enclavÈ di cittadini romani in terre di diritto latino, quali erano il Comasco e la Transpadana, e quindi insinuare un motivo di odiosa ed impopolare discriminazione fra popolazioni di cui aveva grande bisogno per realizzare i suoi ambiziosi progetti106. Quando i tempi saranno maturi, e precisamente nel dicembre del 49 a.C., allorchè, liquidata ogni resistenza pompeiana in Italia, assumerà la dittatura, non esiterà un sol giorno a soddisfare, tutto in una volta, i suoi pazienti e fedeli sudditi del Nord, concedendo all’intera Cisalpina la cittadinanza romana107. 12. Un cenno merita il nome della fondazione: Strabone ci dice, cito testualmente, che furono i Greci “a lasciare alla fondazione il nome: infatti tutti quanti furono chiamati Neocomiti, ed il luogo, tradotto, è detto Novum Comum”. Ciò a ben vedere significa che tale denominazione si impose quando la deduzione era già avvenuta, e che ad inventarla non furono i fondatori ma la minoranza di coloni greci. È dunque legittimo chiedersi quale fosse il nome ufficiale, cioè quello previsto dalla lex Vatinia. La risposta la danno le epigrafi, che parlano sempre e soltanto di Comum. Il fatto che in alcune fonti letterarie (specie contemporanee agli eventi: Catullo e Cicerone)108 compaiano Novum Comum e Novocomenses, rivela solo che al tempo della fondazione, e forse anche oltre109, questi erano i nomi con cui normalmente venivano chiamati la città lariana ed i suoi abitanti, anche per la notorietà e la diffusione che ad essi diedero i 500 Greci110. 13. Vediamo ora di precisare meglio i tempi e le modalità della fondazione. Lo iussus deducendi, come si è detto, risale al maggio-giugno 59 a.C., quando fu rogata la lex Vatinia; ed è probabile che i lavori (assai impegnativi) di bonifica e di predisposizione dell’area dove sarebbe sorta la colonia iniziassero già in quell’anno. La cerimonia ufficiale, invece, potrebbe essere avvenuta nel 58 a.C., soprattutto se si suppone (come mi pare legittimo, considerando l’importanza dell’evento) che Cesare vi avesse partecipato di persona. Difficilmente lo avrebbe potuto fare nel 59, quando gli impegni assorbenti del consolato ne imponevano la 104 Cfr. G. Luraschi, Sulle leges de civitate, cit. p. 332 e nt. 42. Qualità che sono in tanti a riconoscergli, al punto che R. Syme, La rivoluzione romana (trad. ital.), Torino 1962, p. 61, non esita ad affermare che Cesare “fu molto più conservatore e romano di quanto molti hanno immaginato”. Cfr. anche A.N. Sherwin White, Roman citizenship, cit., p. 230 ss.; e da ultimo E. Ferenczy, Rechtshistorische Bemerkungen zur Ausdehnung des römischen Bürgerrechts und zum ius Italicum unter dem Prinzipat, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II,14 (1982) p. 1020 ss.; ID., Zur Caesars Bürgerrechtspolitik, in Studi Sanfilippo, IV, Milano 1983, p. 209 ss. [v. ora G. Luraschi, La questione della cittadinanza nell’ultimo secolo della repubblica, in Studia et documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), p. 55 ss. = in Res publica e princeps (Atti Convegno internazionale di diritto romano. Copanello 25-27 maggio 1994), Napoli 1995, p. 84 ss.]. 106 Ne ho trattato ampiamente in Foedus, cit., p. 489 ss. 107 Si discute quale fosse la legge: certamente non la lex Roscia, come da più parti si riteneva, e neppure la lex Rubria, più probabile una lex Iulia, non necessariamente quella dell’epigrafe patavina (CIL, V, 2864). Cfr. Foedus, cit. p. 394 ss.; Sulle magistrature, cit. p. 290 ss.; U. Laffi, La lex Rubria de Gallia Cisalpina, in Athenaeum, N.S. 74 (1986), p. 12 s.; G. Bandelli, Colonie e municipi, cit., p. 266. Contra H. Wolff, rec. cit., p. 563, che però fraintende e semplifica il mio pensiero, attribuendomi ‘tout court’ l’opinione che la lex de civitate del dicembre del 49 e la lex Iulia dell’epigrafe di Padova fossero senz’altro la stessa cosa; io invece come prima ipotesi avevo sostenuto, contro la communis opinio, che si dovesse ad una lex Iulia la naturalizzazione della Cisalpina e solo in subordine e dubitativamente che que sta potesse coincidere con la legge menzionata nell’epigrafe. Oggi ho definitivamente abbandonato quest’ultima tesi, anche perchè vi sono buone possibilità che l’iscrizione sia d’epoca più tarda, addirittura del 69 d.C. (W. Harris, The era of Patavium, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 27 , 1977, 283 ss., ma mi sembra eccessivo), per cui pare più probabile che la lex Iulia municipalis ivi menzionata rifletta un provvedimento “contenutisticamente e geograficamente circoscritto”, rientrando nel novero di quelle “leggi specifiche a questo o a quel municipio ovvero a gruppi di municipi per qualche verso accomunati, con cui si concedevano privilegi, onori, facoltà speciali a determinate magistrature”: v. Luraschi, Sulla lex Irnitana, cit. pp. 357, 354 s. e nt. 37; e da ultimo F. Lamberti, Tabulae Irnitanae, cit. p. 204 e nt. 9. 108 Supra ntt. 69, 70. 109 A giudicare da Suet. Caes. 28. 110 Su tutto ciò v. Foedus, cit. p. 465 s. 105 181 presenza a Roma. Nel 58, invece, durante il suo primo anno di proconsolato, ebbe più di un’occasione per soggiornare in Cisalpina fra una campagna militare e l’altra. A voler essere precisi si potrebbe suggerire la metà di marzo, quando vi transitò per raggiungere a marce forzate Genaba ed assumere il comando della legio X111, ovvero alla fine di aprile (perchè non il 21, natale di Roma?), quando ritornò ad Aquileia per arruolare nuove truppe112, ovvero, e con maggiori probabilità, dall’ottobre in avanti, quando lasciato Labieno in Gallia, attraversò di nuovo le Alpi per svernare nell’Italia settentrionale. Sarebbe interessante stabilire con esattezza il giorno, come è stato fatto, ad esempio, per Pavia113. Le principali opere edilizie, e prime fra tutte le mura, furono in ogni caso completate entro il 54 a.C., se Catullo, morto probabilmente in quell’anno, potè celebrarle nel carme 35 (datato in genere al 56 a.C.), in cui invita l’amico Cecilio ad andare a Verona “Novi relinquens Comi moenia Lariumque litus”114; e non mi so convincere all’idea, assai diffusa115, che questo splendido verso celi solo una figura retorica. Lo dico incidentalmente, ma io credo che anche il carme 17, quello che si apre con l’invocazione alla colonia (Novum Comum?), dai più datato proprio al 59 a.C., rifletta una realtà comasca116. 14. Ma il vero problema su cui vorrei intrattenermi ancora prima di concludere, è un altro; esso coinvolge diritto, archeologia, filologia, urbanistica, quindi un po’ tutte le discipline qui così autorevolmente rappresentate; mi rivolgo, pertanto, ai colleghi, per avere collaborazione e suggerimenti. Ci si chiede: Cesare fondò una nuova colonia su terreno vergine oppure si limitò ad incrementare e ad ampliare un centro preesistente, creando nuovi quartieri? Strabone per qualificare l’operato del console del 59 a.C. usa il verbo έπισυνοικίζειν, che letteralmente significa “condurre nuovi abitanti, una nuova colonia, colonizzare di nuovo”, e non contribuisce certo a risolvere la questione, poichè rimane da scoprire dove abbia portato questi abitanti: a rinforzare uno dei centri che già esistevano (la colonia fittizia di Pompeo Strabone o la colonia di Scipione) ovvero a costituire una nuova città? Più esplicito appare Appiano, il quale servendosi del termine οίκίζειν, che per antonomasia indica l’‘edificarÈ, il ‘fondare ex novo’, conforta decisamente la seconda delle eventualità prospettate. In questo senso depone anche il nome che i Greci avrebbero dato alla colonia, Novum Comum:se valgono gli esempi analoghi ed in particolare quelli relativi al mondo romano, esso dovrebbe testimoniare, nel modo più chiaro e diretto, della netta separazione geografica, urbanistica e demografica che intercorreva fra la fondazione cesariana e qualunque altro insediamento preesistente117. Per la verità alcuni hanno tentato di spiegare in altra maniera la suddetta denominazione: sono ovviamente coloro che, come dicevo in principio118, attribuiscono a Pompeo Strabone, fin dall’89 a.C., il primo impianto urbano nella convalle. Per essi l’intervento di Cesare sarebbe semplicemente consistito in un ampliamento del vecchio nucleo mediante l’aggiunta di nuovi quartieri, che, in quanto tali, avrebbero giustificato (secondo l’uso greco) l’appellativo di Novum dato alla città nel suo complesso. A sostegno di questa opinione vi è un solo vero argomento, di carattere filologico (ed è naturalmente del 111 Caes. de bell. gall. 1,7,1. Ibid. 1,10,3. 113 Ricavo la notizia da G. Tibiletti, La struttura topografica antica di Pavia, in Atti Convegno Centro storico di Pavia 1964, Pavia 1968, p. 9, ora in Storie locali dell’Italia Romana, Como-Pavia 1978, p. 211: le date indicate dal Taramelli sono il 12 novembre o l’11 febbraio. Non è escluso che anche per Como si possa giungere a stabilire con una certa precisione la data di fondazione, dal momento che recentemente si sta occupando della cosa il prof. Giuliano Romano, docente di astrofisica presso l’Università di Padova. Un primo sopralluogo è tuttavia risultato infruttuoso, come risulta da un cenno cortese del collega patavino (6 giugno 1993) che riferisce quanto segue: “Dal centro della città vi è solamente una direzione che punta sul tramonto del sole nei giorni 22 febbraio e 24 settembre (giuliani). Giorni che non coincidono con nessuna importante festa romana... Considerando pertanto i risultati di queste misure, e valutando la questione tenendo presente le abitudini romane, ritengo che nella fondazione di Como romana...non ci sia alcun riferimento astronomico. Le due date sopra riportate possono essere puramente casuali. Probabilmente la città com’è stata costruita dai romani, ha un impianto che per criteri pratici era il più adatto ad una buona abitabilità offrendo il minor numero di problemi (displuvio delle acque, venti, salubrità etc.) senza alcun riguardo a criteri di carattere astronomico”. Eppure le date indicate potrebbero ben conciliarsi con gli eventi storici; per di più sono significativamente prossime a quelle proposte per Pavia. 114 Cfr. Foedus, cit. p. 493 ss.. 115 Da ultimo H. Wolff, rec. cit., p. 563, che però non tiene conto delle mie ragioni (Foedus, p. 494 s.). Cfr. A. Corso, Ambiente e monumenti della Cisalpina in Catullo, in Aquileia Nostra, 57 (1986), c. 577 ss. 116 Cfr. Foedus, cit. p. 131 nt. 121. 117 Ibid. p. 496 s. 118 Supra nt. 56. 112 182 prof. Paolo Maggi): la apparente correlazione che nel passo di Strabone vi è tra συνώκισεν ed έπισυνώκισεν, rispettivamente riferiti a Pompeo ed a Cesare, che consentirebbe di ipotizzare una stretta connessione fra l’operato dei due. Con tutto il rispetto per il mio caro professore, non ne sono convinto; per me infatti l’ έπισυνοικίζειν di Cesare può benissimo correlarsi al συνοικίζειν di Strabone, senza per questo presupporre che i due abbiano agito in un medesimo contesto topografico e giuridico: in pratica, Pompeo attuò il suo sinecismo sui colli, raccogliendo la popolazione indigena; Cesare, invece, lo realizzò nella convalle, deducendo nuovi coloni ed assorbendo la fondazione scipioniana; la relativa vicinanza dei siti e l’omogeneità dei protagonisti (entrambi consoli o proconsoli) giustifica appieno l’uso del verbo έπισυνοικίζειν, il quale, per giunta, serve a sottolineare la continuità ideale tra la colonia fittizia di Strabone e la colonia latina effettiva di Cesare, entrambe fondate secondo i crismi della ufficialità e della legalità, a differenza di quella di Scipione, che, nella vicenda, si inserisce come un fuor d’opera, avendo quale protagonista (se vale la mia identificazione) un ribelle o comunque un semplice legato, come tale giuridicamente incapace di procedere ad una fondazione; non a caso Strabone usa per indicarne l’azione un verbo generico, atecnico e poco impegnativo, quale è προστιυειναι. Contro la tesi suddetta vi è, comunque, una critica di fondo che ho già fatto119, ma che vorrei ribadire: innanzi tutto se una città fosse preesistita a quella di Cesare, l’operato di quest’ultimo difficilmente avrebbe avuto nelle fonti la risonanza che sappiamo. È a Cesare e a nessun altro prima di lui che è fatta risalire sicuramente e per legge una deduzione di coloni a Como; una deduzione, si noti, che con i suoi 5000 uomini si collocava fra quelle più numerose in senso assoluto120. Come si può, dunque, ragionevolmente supporre che un evento di tanta importanza avesse come conseguenza edilizia solo la nascita di nuovi quartieri, e, dal punto di vista giuridico, si riducesse ad un semplice incremento coloniario? Fra l’altro sarebbe stato un incremento immotivato e, quanto a consistenza (5000 uomini), del tutto inusitato121. D’altronde l’impianto urbanistico, per la perfetta scelta del sito, per la sua unica (almeno su tre lati) e possente cerchia muraria (che vorrei una buona volta datata dagli amici archeologi)122, per i suoi limpidi isolati e, soprattutto, per le opere di bonifica, che comportarono la deviazione simultanea di tre torrenti e il prosciugamento di ampie paludi, non lascia dubbi circa l’ispirazione unitaria che lo generò, ispirazione la cui paternità difficilmente può attribuirsi a Pompeo Strabone o a Scipione, ai quali, oltre tutto, come sappiamo, mancò il tempo e l’incentivo per progettare e, specialmente, per realizzare una simile impresa. Fu con Cesare, dunque, che la città assunse subito e per sempre il suo splendido aspetto (che è, in fondo e nonostante tutto, quello odierno). Le vicende successive appaiono, su quel corpo armonico e compatto, come dei ritocchi di modesta portata che in genere si risolsero nella occupazione degli spazi vuoti del pomerio e di una fascia esterna alle mura123. 15. Un cenno, prima di chiudere, ai motivi che indussero Cesare a fondare a Como una colonia, si badi, l’unica colonia da lui sicuramente dedotta in Cisalpina negli anni del suo proconsolato (58-50)124. 119 Foedus, cit. p. 497 ss. Credo sia inferiore solo a Placentia, Cremona, Alba e Venusia, tutte con 6000 coloni. 121 Rammento, a titolo di confronto, l’entità dei supplementi inviati a Cosa (1000 uomini: Liv. 33, 24,8), a Placentia e Cremona (6000 uomini da dividersi fra le due colonie: Liv. 37,46,9), ad Aquileia (1500 uomini: Liv. 43,17,1) ecc. 122 Le opinioni oggi sono discordi; chi le ritiene di età cesariana (F. Frigerio, M. Mirabella Roberti), chi posteriori (N. Degrassi), chi anteriori (P. Baldacci). I recenti scavi non hanno chiarito il dilemma (supra nt. 58). 123 Sulla forma urbis v. da ultimo L. Castelletti - I. Nobile, Como, in Archeologia urbana, cit., p. 99 ss.; G. Luraschi, Le vicende edilizie di Como romana, cit. p. 40 ss. [p. 363 ss.]; A. Citterio, Urbanistica di Como Romana, in Archeologia urbana, cit. p. 53 ss.; M. De Angelis D’Ossat, Como (Comum). L’organizzazione urbanistica, in Milano capitale dell’impero romano (286-402 d.C.), Milano 1990, p. 163; M. Mirabella Roberti, Milano e Como, cit. p. 479 ss.; e su questi Atti: M. Mirabella Roberti, Note su strade ed edifici di Como Romana; M. De Angelis D’Ossat, Como: rilettura di una città; M. Fortunati Zuccala, Urbanistica di Novum Comum: Via Vittani. L’indagine archeologica: dati e considerazioni; S. Maggi, Como romana: la forma urbis. Problemi e proposte di studio. 124 Non sarei così sicuro che Tergeste sia una fondazione cesariana anteriore al 52 a.C., nonostante App. Illyr. 12; Hirt. de bell. Gall. 8,24,3 e il forte saggio di A. Fraschetti, Per le origini della colonia di Tergeste e del municipio di Agida, in Sic. Gymn., 28,2 (1975), p. 319 ss.; che ha trovato d’accordo V. Vedaldi Iasbez, La problematica, cit. p. 41; G. Bandelli, Colonie e municipi, cit. p. 264 s.; ID., Il governo romano, cit. p. 55 ss. A rendermi dubbioso è la stringente osservazione di U. Laffi, L’amministrazione di Aquileia in età romana, in Antichità altoadriatiche, 30 (1987) p. 53 e nt. 52, secondo cui il fatto che Tergeste (come Pola, del resto) compaia nell’elenco che Plinio fa delle colonie della Regio X (N.H. 3,18,127) esclude che tali fondazioni possano risalire a Cesare, poichè è 120 183 Furono, secondo me, motivi di ordine economico, militare e politico. Innanzi tutto non sfuggì a Cesare la ricchezza e la fertilità di un suolo per gran tratto vergine e largamente disponibile per le sue generose assegnazioni125. Per giunta alcuni prodotti, come le Comacinae pernae (i prosciutti di Como), avevano ormai ottenuto fama universale, anche per la propaganda che ne fecero gli autori antichi, a cominciare da Varrone126. Un discorso analogo vale per la metallurgia, i cui manufatti gareggiavano per qualità con quelli di Bilbili e Tarragona, in Spagna. È vero che lo dice Plinio il Vecchio cent’anni dopo127, ma è anche vero che non mancano indizi (oserei dire prove) per ritenere che questa attitudine fosse appannaggio dei Comensi fin dall’epoca preromana128. Pregiate merci di esportazione dovevano poi essere il marmo, la pietra ollare, il legname, il vino e l’olio, quest’ultimo prodotto da artigiani specializzati, i caplatores o capulatores, di cui solo a Como, in tutta la Cisalpina, è attestata la presenza129. Ma il movente decisivo della fondazione fu senz’altro la posizione geografica del territorio comense, itinerariamente e strategicamente importante sia quale copertura difensiva della pianura130, sia in previsione di una espansione militare e commerciale transalpina, che già nel 59 Cesare andava configurando, come ci assicurano Sallustio131 e Svetonio132. In sostanza un tragitto relativamente breve, per giunta agevolato dalla via d’acqua del Lario, avrebbe consentito, attraverso i facili valichi del S. Bernardino, del Maloja e del Julier (appena più impegnativi erano il Septimer e lo Spluga), di raggiungere da una parte la valle dell’Inn, dall’altra Coira e, quindi, la zona da cui si dipartivano le valli del Reno e del Danubio, in poche parole il cuore dell’Europa133. sicuro che l’elenco “non comprende le colonie cesariane e in genere quelle anteriori al periodo triumvirale, salvo il caso che non siano state rifondate in età triumvirale o augustea”. Comunque, anche a voler consentire sullo status di Tergeste (che fra l’altro è nell’Illirico), sarei fermo nell’escludere che il cenno di Irzio a coloniae civium Romanorum della Gallia Togata (la quale, tra l’altro, potrebbe identificarsi non solo con la Transpadana, ma anche con l’intera Cisalpina, che, specie ai margini, non è poi così lontana dai potenziali incursori; in tal caso il problema non si porrebbe), che, nel 52 a.C., avrebbero rischiato di subire qualche decursio barbarorum, possa essere preso alla lettera, così da immaginare una Transpadana dotata di un imprecisato, ma evidentemente cospicuo (se per proteggerle si scomoda una intera legione), numero di colonie romane, assolutamente ignote alle fonti letterarie ed epigrafiche. Mi chiedo: perchè mai Cesare si sarebbe dovuto preoccupare solo delle coloniae civium Romanorum, e non dei municipia (ad es. della vicina e più importante Aquileia, che, giustamente, M. Crawford, Ateste and Rome, in Quaderni Ticinesi di Numismatica ed antichità classiche, 18,1989, p. 192, non esita ad inserire fra le colonie citate da Irzio), delle colonie latine fittizie, dei fora ecc? Vi è, dunque, la possibilità che Irzio abbia unificato sotto una sola categoria delle realtà giuridiche diverse (coloniae civium Romanorum, coloniae Latinae, municipia, proprio come, ad es., in de bell. civ. 3,87,4; lo nega G. Bandelli, Il governo romano, cit. p. 56); oppure che abbia volontariamente e polemicamente considerato civium Romanorum tutte le città transpadane come risposta alle odiose contestazioni (tra cui il disconoscimento della civitas ad alcuni Neocomensi, con susseguente, plateale fustigazione di uno di loro) della fazione senatoria capeggiata da Marco Claudio Marcello (supra § 10 alla fine). Sarebbe stato, insomma, un atto unilaterale di parte cesariana, così come lo fu lo iussus ai Transpadani di “creare quattuorviros” (Cic. ad Att. 5,2,3), proprio per sottolineare che Cesare, almeno nel 51 a.C., li considerava tutti cittadini romani (cfr. Foedus, cit. pp. 433 ss., 479 ss.; v. anche M. Capozza, La voce degli scrittori antichi, cit. p. 26). 125 Cfr. Foedus, cit. p. 373 e ntt. 94-96. Fra l’altro parte dei terreni, grazie alla colonizzazione di Gaio Scipione, dovevano essere già organizzati e, quindi, immediatamente sfruttabili, creando le condizioni ideali per la nuova deduzione, specie se ad essa parteciparono soprattutto (come io penso) dei veterani. Cfr. E. Gabba, Per una interpretazione storica della centuriazione romana, in Athenaeum, N.S. 63 (1985), p. 280; ID., Problemi della romanizzazione, cit. p. 32 s.; G. Luraschi, Nuove riflessioni, cit. p. 63 s. [p. 297 s.] e nt. 105. 126 Varr. de re rust. 2,4,10-11. 127 Plin. N.H. 34,41,144. 128 Cfr. le opere citate supra alla nt. 9; adde N. Negroni Catacchio - M. Giorgi - S. Martinelli, Contributo allo studio dei centri protourbani: una fornace per la lavorazione dei metalli a Pianvalle (Como), in La città come fatto di cultura, cit. p. 329 ss.; N. Negroni Catacchio, Pianvalle, in Como fra Etruschi e Celti, cit., p. 90 s.; ibid. Le attività artigianali: la metallurgia, p. 93 ss. (S. Martinelli); F. Ricci, I metalli, ibid. p. 127 s. 129 Cfr. G. Luraschi, Aspetti di vita pubblica, cit. p. 24 ss.. 130 Erano particolarmente temute le disastrose incursioni dei popoli alpini, di cui proprio Como aveva fatto drammatica esperienza. Che Cesare se ne preoccupasse risulta da Hirt. de bell. Gall. 8,24,3. 131 Sall. Catil. 54,4. 132 Suet. Caes. 22. 133 Cfr. G. Luraschi, Il praefectus classis cum curis civitatis nel quadro politico ed amministrativo del basso impero, in RAComo, 159 (1977) p. 151 ss. [p. 570 ss.]; ID., Aspetti di vita pubblica, cit. pp. 71 s., 95; G. Coradazzi, La via Regina nella storia, nelle strutture, nei documenti, in RAComo, 173 (1991) p. 37 ss. 184 Un ruolo determinante giocarono anche le ragioni politiche e clientelari134, che suggerirono a Cesare di costituire in terra lariana una consistente riserva di uomini valorosi e sicuramente fedeli, dei quali si sarebbe potuto servire (come puntualmente accadde)135 per scopi politici, propagandistici e soprattutto elettorali, magari anche per controbilanciare l’egemonia di Milano, città che gli fu sempre ostile e che con Como si contendeva il voto della tribù Ufentina, in cui entrambe le città erano iscritte136. Infine non escluderei l’attrattiva dei luoghi, l’amoenitas locorum, che non poteva lasciare insensibile il grande Romano e quanti come lui amavano il bello137. E fu una vera fortuna per Como se Cesare la fece rientrare nei suoi piani, poichè io sono convinto che altrimenti sarebbe scomparsa, come scomparvero o decaddero gravemente alcuni fra i più illustri centri liguri, celti, etruschi, veneti; cito per tutti Golasecca, Spina, Parra, Marzabotto, Bagnolo San Vito, Melpum, Villanova ecc. In questa prospettiva sarà dunque facile comprendere l’importanza del 59 a.C. e, quindi, la legittimità delle nostre celebrazioni; essa non fu una delle tante date che scandirono la storia di Como, bensì quella decisiva, che ne segnò splendidamente la nascita e, quel che più conta, i destini. Cesare. Busto in ardesia verde. Egitto, inizio del I secolo d.C. (Berlino, Pergamonmuseum). 134 Da ultimo v. E. Deniaux, Civitate donati, cit. p. 139 ss.; EAD., Le passage, cit. p. 272 ss.; G. Mancinetti Santamaria, La concessione della cittadinanza, p. 133 ss.; N. Rouland, I rapporti clientelari, in La rivoluzione romana, Napoli 1982, p. 150 ss. 135 Cfr. Hirt. de bell. Gall. 8,50; 8,51; 8,52,1-2. 136 Foedus, cit. p. 506. 137 Cfr. Plin. 9,7,3. Il tema della amoenitas è presente anche nella letteratura successiva e contribuirà a creare “il mito del Lario”: v. Claudian. bell. Get. 319 ss.; Ennod. ep. 1,6,4; Cassiod., var. 11,14; Paul. Diacon. versus in laude Larii lacus, 9 ss. (MGH, Poetarum Latinorum medi aevi, I: poetae Latini aevi Carolini, 1, Berolini 1881, p. 42 s.). Cfr. G. Miglio, Il mito del Lario, Milano 1959; A. Grilli, Como ed il paesaggio prealpino in Plinio il Vecchio, in Plinio: i suoi luoghi, il suo tempo, Como 1984, p. 115 ss. 185 Planimetria degli insediamenti preromani e romani (da G. Caniggia, con qualche ritocco). 186 Viale Lecco. Planimetria delle terme. Viale Lecco. Le terme: particolare dello scavo da via Dante 187 1.20. Aspetti di vita pubblica nella Como dei Plini138 1. L’età in cui vissero i due Plini (23/24 -113 d.C.) fu quella che coincise con la stagione più felice (e non solo nell’evo antico) della città di Como. Sorta per volere di Cesare come colonia Latina nel 59 a.C. ebbe dal suo fondatore l’impronta che ne segnò per l’avvenire i destini, quale centro strategico, itinerario, commerciale e turistico di primaria importanza, aperto su orizzonti che, già nelle intenzioni del proconsole delle Gallie, dovevano trascendere l’ambito padano-italico per proiettarsi verso le terre d’oltralpe, nel cuore dell’Europa139. I frutti di tanta lungimiranza si colsero soprattutto nel primo secolo dell’era nostra, dopo che Augusto, debellati definitivamente i popoli delle Alpi, guadagnò alla pax Romana l’intera regione alpina, avvicinando, grazie alla ritrovata sicurezza dei traffici ed alla transitabilità dei valichi, la Cisalpina ai confini settentrionali dell’Impero. Como venne così ad essere «il luogo di convergenza di numerose strade da Milano, da Bergamo e da Novara nel punto in cui si inizia la navigazione longitudinale del lago, che si concludeva a Summus Lacus, ove cominciava la via trasversale della Raetia per l’alta valle del Reno»140. Tanto bastava per assicurare alla città prosperità e fama; e a buon diritto Plinio il Giovane, scrivendo al prosuocero Calpurnio Fabato, poteva compiacersi del fatto che la sua patria fosse tutta un fiorire: «gaudeo... quod patria nostra florescit»141. La sua affermazione trova, del resto, una puntuale conferma nei dati di scavo che ci hanno restituito, specie in questi ultimi anni, reperti assai significativi per valore artistico ed importanza storica. Anzi, alcuni sono sicuramente ascrivibili all’epoca dello scrittore comasco e forse addirittura legati alla sua persona. Mi riferisco: alla villa suburbana di Via Zezio142, che, pur nelle condizioni in cui ci è stata conservata, lascia intravvedere i gusti personali di Plinio, se non addirittura i tratti caratteristici dell’amoenissimum suburbanum di Caninio Rufo, un possidente comasco amico del nostro143; alle complesse strutture di Viale Lecco, che hanno fatto 138 G. Luraschi, Aspetti di vita pubblica nella Como dei Plini in Plinio, i suoi luoghi, il suo tempo, Como 1984, pp. 71-105; v. anche in G. Luraschi, Storia di Como antica, Como 1999, pp. 461-504. 139 Per la storia giuridica e politica di Como in età repubblicana, v., per tutti, Luraschi, Foedus, ius Latii, civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979. 140 Mansuelli, Urbanistica ed architettura della Cisalpina romana, Bruxelles 1971, p. 58 s. Sugli itinerari che passavano per Comum, cfr. Giussani, Il valico dello Spluga nel corso dei secoli, in «RAComo», 99-101 (1930), p. 26 ss.; N. Degrassi, Il ponte romano di Olginate e la strada da Bergamo a Como, in «RAComo» 127 (1946), p. 5 ss.; Passerini, Il territorio insubre in età romana, in Storia di Milano, I, Le origini e l’età romana, Milano 1953, p. 141 ss.; Sironi, Note topografiche per il territorio dei municipia di Mediolanum e Comum, in Archeologia e storia della Lombardia pedemontana occidentale [Atti convegno Varenna], Como 1969, p. 199 ss.; A.T. Sartori, I confini del territorio di Comum in età romana, in Atti CeSDIR I, Milano-Varese 1967/68, p. 289 ss.; Martegani, Note sulla via Mediolanum-Comum, in Arch. Stor. Lombardo, 98-100 (1974), p. 383 ss.; A.T. Sartori, Un ‘longus pons’ sul lago di Annone, in Atti CeSDIR, 7 (1976), p. 577 ss.; Mirabella Roberti, Itinerari per la Brianza romana, in Storia di Monza e della Brianza, 4, 1, Milano 1977, pp. 13 ss., 67 ss.; S. Maggi, L’insediamento romano nel territorio di Comum, in «RAComo», 164 (1982), p. 208 ss. e passim [Per un aggiornamento sulla viabilità nel territorio Comense v. il volume L’antica Via Regina. Tra gli itinerari stradali e le vie d’acqua del Comasco, Como 1995; nonché infra Via Regina: inquadramento storico, p. 661 ss.]. 141 Plin. ep. 5,11,2 142 Cfr. Luraschi, La villa romana di via Zezio in Como, in «Riv. Como», 3 (1976) p. 24 ss.; ID., Como romana: le mura e la villa di via Zezio, in Como nell’antichità, Como 1977, p. 57 ss.; Scarfì, La villa romana di via Zezio, in Studi Rittatore Vonwiller, 2, Como 1980, p. 436 ss. 143 Cfr. Plin. ep. 1,3. Le coincidenze fra la descrizione pliniana ed i reperti accennati sono davvero sorprendenti: non foss’altro per quella porticus verna semper, che appare in entrambi i casi l’elemento di spicco. Ad esso aggiungerei l’euripus ed il lacus (da intendersi come piccolo bacino d’acqua, non come Larius) subiectus et serviens, dei quali è facile immaginare (attraverso le strutture superstiti e qualche documento posteriore) la presenza nell’area del ritrovamento (v. Luraschi, La villa, p. 4 s. [504]; Scarfì, p. 453 s. e passim). Ed ancora il balineum quod plurimus sol implet et circumit; ed infatti, non solo abbiamo tracce perspicue di un ambiente termale (mattoni per suspensurae, alveoli per il riscaldamento delle pareti ecc.), ma anche l’ubicazione del complesso pare l’unica in tutta la convalle che possa assicurare una costante e completa esposizione al sole. E non è tutto, perfino la qualifica di altus secessus, che Plinio attribuisce al suburbano di Caninio, ben potrebbe alludere (come a suo tempo mi faceva notare l’amico prof. Angelo Roncoroni) alla sua posizione elevata rispetto alla città. Per non parlare della imponenza e della ricchezza che traspaiono dai resti di Via Zezio, i quali non possono che riferirsi ad «un committente di elevata posizione sociale e di grandi possibilità economiche» (Scarfì , La villa, p. 452), caratteristiche che s’attagliano perfettamente a Caninio Rufo (oltre che a Plinio), ma forse a ben pochi altri Comensi. 188 pensare144 a un edificio termale di notevole impegno ed estensione, quale poteva essere quello che Plinio donò, per testamento, ai suoi concittadini145; ai quattro parallelepipedi di marmo splendidamente decorati a bassorilievo, con scene mitologiche, storiche, atletiche, culturali146, rinvenuti con altro materiale di reimpiego (architravi finemente scolpiti, capitelli, piedistalli ecc.) nella torre tardo-imperiale o barbarica147 addossata alle mura cittadine in Via Cinque Giornate. Sono, questi ultimi, pezzi di importanza eccezionale non solo per Como, ma per tutta l’arte provinciale romana148. Si è ritenuto, non senza qualche contrasto149, che fossero destinati a reggere le colonne del porticato di una biblioteca e che la loro datazione debba aggirarsi intorno agli inizi del II sec. d.C.150. Ad avvalorare la supposizione ha contribuito il rinvenimento, nel medesimo contesto, di una base di statua con iscrizione dedicata a Plinio il Giovane nell’anno del suo consolato (100 d.C.)151. Proprio questa fortunata circostanza ha suggerito l’ipotesi che l’edificio cui accedevano le basi sia da identificare con la biblioteca che Plinio donò, in vita, ai suoi concittadini152. Questi monumenti, unitamente agli altri scoperti dal XVI sec. ad oggi nel centro urbano e nel contado153, sono la prova più eloquente dell’alto grado di sviluppo artistico, economico e culturale raggiunto dalla città lariana nel lasso di tempo qui considerato. Per capire più a fondo le cause e i meccanismi di un simile sviluppo occorre analizzare ora, sia pure per indicem, gli aspetti salienti della vita pubblica della città154. 2. Il nome ufficiale era Comum. Si era, dunque, spenta l’eco della denominazione Novum Comum, con cui i 500 coloni greco-siculi avevano battezzato, secondo la loro consuetudine, la fondazione cesariana per distinguerla dal vecchio oppidum indigeno, eretto nell’89 a.C. a colonia Latina ‘fittizia’ da Pompeo Strabone155. Nel 49 a.C., con la naturalizzazione della Cisalpina, il centro lariano assunse la qualifica di municipium e 144 Cfr. Mirabella Roberti, L’urbanistica romana di Como e alcune recenti scoperte, in Atti del Centenario di fondaz. della Riv. arch. comense, Como 1974, p. 31 ss. [D. Caporusso-P. Blockley, Como, Viale Lecco. Qualche elemento circa i resti del complesso monumentale romano, in RAComo, 177 (1995), pp. 39-56]. 145 CIL V, 5262. 146 Per l’interpretazione delle scene v. le opinioni non sempre coincidenti di P. Maggi, Como romana: i marmi figurati di via Cinque Giornate, in Como nell’antichità, cit., p. 71 ss.; e Scarfì, Recenti rinvenimenti archeologici in Lombardia, in «Ann. Benacensi» 3 (1975), p. 11 ss. [A. Frova, Temi mitologici nei rilievi romani della Cisalpina, in Scritti G. Massari Gaballo e U. Tocchetti Pollini, Milano 1986, pp. 173-193; B.M. Scarfì, Le quattro basi figurate di Via 5 Giornate, in Novum Comum 2050 (Atti del Convegno celebrativo della fondazione di Como romana, Como 1991), Como 1993, pp. 151-162]. 147 Per la datazione e la descrizione delle mura e della torre, v. Gianoncelli, Dati e problemi relativi alle mura romane di Como, in Atti del Centenario, cit., p. 83 ss.; Luraschi, Il praefectus classis cum curis civitatis nel quadro politico ed amministrativo del basso impero, in «RAComo», 159 (1977), p. 168 [p. 584 s.] e ntt. 102-104; ID., Como romana, p. 47 ss.. 148 Così Scarfì , Recenti, p. 13. 149 V. la nota seguente. 150 In tal senso si sono espressi gli autori citati supra alla nt. 9. Altri amici archeologi, richiesti di un parere, hanno proposto una datazione assai più tarda (fine III sec. - età costantiniana). Quanto alla destinazione v’è chi ha pensato ad una edicola funeraria (M. Torelli). 151 Cfr. Susini, in «Epigraphica», 33 (1971), p. 184; Marinoni, Una nuova dedica a Plinio il Giovane, in Atti CeRDAC, 9 (1977-78), p. 75 ss. 152 Cfr. Plin. ep. 1,8,2, dove viene ricordato anche il discorso pronunciato dallo scrittore davanti ai Comaschi in occasione della inaugurazione. V. anche CIL V, 5262. 153 Per una esauriente rassegna rimando a Bertolone, Ed. arch. della Carta d’Italia al 100.000, foglio 32 (Como), Firenze 1954; ivi la bibliografia, che in genere ha come punto di riferimento principale le annate della «RAComo». A queste ultime rinvio, invece, per le scoperte successive al 1954, le quali, almeno per quanto riguarda l’ager Comensis, sono state oggetto di una felice sintesi da parte di S. Maggi, L’insediamento romano, cit. Ad integrazione della «RAComo» vanno infine tenute presenti le altre pubblicazioni della Società` arch. comense: Oblatio [Studi Calderini], Como 1971; Atti del Centenario, cit.; Bianchi-Luraschi, La necropoli romana della Mandana (Capiago-Intimiano), Como 1977; I Romani nel Comasco [Catalogo della mostra], Como 1980; Studi Rittatore Vonwiller, 2, cit.; Storia di Capiago Intimiano, 2-3, Como 1982-83 [v. la nota d’aggiornamento a p. 495 s.]. 154 Sull’argomento si veda l’esemplare contributo di A. Biscardi, Como ed il diritto pubblico romano, in Atti del Centenario, cit., p. 337 ss.; nonché Luraschi, L’eredità di Roma nel territorio comasco. Le istituzioni politiche, sociali, economiche e religiose, in «Quaderni Erbesi», 3 (1980), p. 53 ss. Il carattere dello studio che qui presento (riproducendo pressoché letteralmente il testo della conferenza tenuta in occasione delle celebrazioni pliniane) non mi consente di approfondire la vasta e complessa problematica che il tema è in grado di suscitare. Mi limiterò, dunque, ad indicare spunti che mi paiono meritevoli di riflessione. Quanto alla documentazione, essa terrà conto solamente delle fonti indispensabili a comprovare le mie affermazioni, senza pretesa alcuna di completezza. 155 Sulle vicende accennate e sulla questione del nome, v. Luraschi, Foedus, pp. 103 ss., 401 ss., 493 ss. 189 come tale è sempre ricordato nelle fonti letterarie ed epigrafiche156. Quanto ai confini bisogna dire che essi, con ogni probabilità, mutarono nel tempo, seguendo le sorti della città e le esigenze della politica romana. Certo raggiunsero la massima estensione all’epoca della fondazione della colonia, a danno, si intende, di Mediolanum, che era tradizionalmente repubblicana (e tale rimase almeno fino all’età augustea)157 ed apertamente contraria a Cesare, ma anche di Bergomum e di Novaria. È però difficile stabilirli con precisione. Io credo, tuttavia, che, negli anni 50 a.C., essi toccassero a nord il crinale alpino, comprendendo per intero le attuali terre del Canton Ticino158; ed ancora le valli del Liro e della Mera, inclusa fors’anche la Bregaglia svizzera sino al Maloja (la lunga contesa con i Bergalei sta a dimostrare che le rivendicazioni territoriali di Comum non dovevano essere del tutto infondate)159, ed almeno il primo terziere della Valtellina160. Comaschi dovevano essere pure il ramo lecchese del Lario e la Valsassina, nonché tutto il territorio ad occidente dell’Adda. A meridione il confine seguiva alcuni elementi naturali quali colline, boschi, torrenti, snodandosi lungo una linea che, nella massima espansione del centro lariano, doveva passare (da occidente ad oriente) per Castel Seprio (Sibrium), Tradate, i boschi di Uboldo, le Groane, Agliate, Casatenovo161. Alla colonia cesariana appartenevano, con ogni probabilità, anche l’attuale Varesotto sino all’Olona162 e forse la riva sinistra del Verbano, con in più il Locarnese163. Prove sicure che confermino una simile estensione della pertica comense, come dicevo, non ve ne sono; anche perché le epigrafi, che in casi del genere sono spesso di qualche aiuto, risalgono tutte ad età di molto po156 Non v’è prova alcuna che possa avvalorare l’ipotesi di un cambiamento di status in età pliniana, come pensa l’Andina, L’epigrafe di L. Minicius Exoratus, in «RAComo», 128-129 (1947-48), p. 28 ss.; seguito da Biscardi, Como, p. 349 ss.; entrambi argomentano dalla ben nota epigrafe conservata a Menaggio (CIL V, 5239), la quale, riportando il cursus honorum di tal L. Minicius Exoratus, verosimilmente comasco, gli attribuisce, fra le altre, dapprima la carica di quattuorvir aedilicia potestate, poi quella di duovir iure dicundo. La doppia titolatura ha, dunque, indotto gli autori sopra citati ad immaginare che il quattuorvirato si riferisse alla fase municipale della città, mentre il duovirato a quella coloniale, cui Como sarebbe pervenuta grazie ai buoni uffici di Plinio il Giovane. Solo che di questa trasformazione costituzionale non v’è assolutamente traccia né in Plinio (che pure amava vantarsi della sua munificenza verso la madrepatria), né in alcuna altra fonte successiva. Semmai troviamo conferme della persistenza dello status municipale (cfr. ad es. Plin. ep. 2,1,8; 5,14,1; CIL, V, 5267). Inoltre un’epigrafe con ogni probabilità coeva o forse anche posteriore a quella di Menaggio (poiché ricorda un personaggio che fu flamine di Tito e di Nerva, mentre Minicio Exorato fu flamine soltanto di Tito) attesta che sia a Como, sia a Milano, almeno negli anni immediatamente successivi al regno di Nerva, esistevano i IVviri iure dicundo (v. «RAComo», 92-93, 1927, p. 144 s.). Quanto al duovirato che compare nel marmo menaggino ritengo sia suscettibile di una diversa spiegazione (infra nt. 64). 157 Tanto è vero che ancora in età augustea a Milano era conservata la statua di Bruto, il Cesaricida: Plut. Dionis et Bruti comp., 5. Cfr. Tibiletti, Città appassionate nell’Italia settentrionale augustea, in «Athenaeum», 1976, p. 63, ora in Storie locali dell’Italia romana, Como-Pavia 1978, p. 131. 158 Già lo pensava l’Oberziner, Le guerre di Augusto contro i popoli alpini, Roma 1910, p. 50 ss. Cfr. ora Luraschi, Origine e sviluppo di una comunità di valle (a proposito del volume ‘Il patto di TorrÈ), in «SDHI», 48 (1982), p. 497 ss.. 159 Cfr. CIL V, 5050. È possibile, del resto, immaginare che il nomen dei Bergalei si estendesse anche nell’attuale Engadina e che, per motivi politici o strategici, la sua unità originaria fosse stata spezzata da Roma, così come accadde per gli Anauni, i Sinduni e i Tulliasses menzionati nella medesima Tabula Clesiana «quorum partem delator adtributam Tridentinis, partem ne adtributam quidem arguisse dicitur...» Avremmo avuto in tal caso dei Bergalei compresi nella pertica comense o ad essa adtributi (come lo erano Ausuciates, Aneuniates di Olonio, Subinates, Braecores Gallianates ecc.), e dei Bergalei indipendenti, con i quali ultimi dovette appunto sorgere la ben nota controversia (cfr. A.T. Sartori, I confini del territorio di Comum in età romana, in Atti CeSDIR, I, 1967-68, p. 288). D’altronde non mi so convincere all’idea che una valle breve, angusta e profondamente povera come quella della Mera, fra il Maloja e Chiavenna, potesse sopportare una divisione all’incirca dove è oggi il confine italo-svizzero [v. ora anche M. Ariatta, Il confine meridionale della Raetia, 1, in RAComo, 172 (1990), pp. 201-227; 2, ibidem, 175 (1993), pp. 154-187; EAD., L’adtributio nelle valli dell’Adda e della Mera, in Boll. Soc. Storica Valtellinese, 43 (1990), pp. 1-24]. 160 Cfr. Luraschi, Comum oppidum. Premessa allo studio delle strutture amministrative romane, in «RAComo», 152-155 (1970-73), p. 271 s. [p. 171] e nt. 347. 161 Quanto alla identificazione dei confini meridionali la mia ipotesi si avvicina a quella del Sartori, I confini, p. 284 ss. Cfr. M.V. Antico Gallina, A proposito del confine settentrionale del municipium di Mediolanum, in Sibrium,16 (1982) p. 133 ss. [v. ancora M.V. Antico Gallina, L’assetto territoriale di Comum: alcune ipotesi di lavoro, in Novum Comum 2050. Atti Convegno celebrativo della fondazione di Como romana, Como 1993, pp. 291-314]. 162 Sui confini occidentali è particolarmente attendibile la ricostruzione del Sironi, Note topografiche, p. 193 ss. 163 Cfr. oltre all’Oberziner (supra nt. 21), Stähelin, Die Schweiz in römischer Zeit, Basel 1948³, p. 165; Chilver, Cisalpine Gaul, Oxford 1941, p. 46; Luraschi, Origine, p. 499 [infra p. 706 ss.]. Cfr. anche G. Walser, Römische Inschriften in der Schweiz, 3, Wallis, Tessin, Graubünden Meilensteine aus der ganzen Schweiz, Bern 1980, p. 114 (almeno nel commento di CIL V, 8938). Contra, da ultimo, R. Frei Stolba, Die römische Schweiz: ausgewählte staats-und verwaltungsrechtliche Probleme im Frühprinzipat, in ANRW, II, 5.1, Berlin-New York 1976, pp. 311-318. 190 steriore. A favore della tesi proposta depongono, tuttavia, la geografia del territorio164, la storia ecclesiastica e medievale, nonché alcune esigenze di fondo della romanizzazione. Per quanto, ad es., riguarda i confini settentrionali è facile immaginare che i Romani volessero raggiungere lo spartiacque165 per impedire o prevenire le incursioni dei popoli retici, che tanto danno avevano provocato ai centri pedemontani e particolarmente a Como, intorno al 90 a.C.166. Il controllo dei valichi, inoltre, avrebbe favorito l’apertura di quelle vie di comunicazione transalpine di cui la nuova realtà politica ed economica dell’Impero difficilmente avrebbe potuto fare a meno. Per quanto attiene, invece, ai confini meridionali la loro ampiezza si giustifica, a mio avviso, considerando la grandissima importanza che Comum assunse nella prima metà del I sec. a.C., tanto da diventare meta di una ingente ed inusitata colonizzazione, la quale, a conti fatti (cioè sommando i 3000 coloni di Scipione ed i 5000 di Cesare ed attribuendo a ciascuno di essi almeno tre familiari), avrebbe comportato una immigrazione di ben 32.000 persone circa167. Davvero troppe per un territorio già relativamente popolato168 e per giunta largamente montagnoso. È dunque verosimile immaginare che per i nuovi venuti si trovassero spazi coltivabili tutt’attorno all’antico territorio comense e sempre più lontano dalla città, specialmente laddove, come nella Brianza e nel Varesotto, esistevano tratti pianeggianti o comunque sfruttabili dal punto di vista agricolo169. Morto Cesare, la rivincita dei Milanesi e dei municipia finitimi, nonché il venir meno delle esigenze strategiche (il confine era ormai attestato sul Reno e sul Danubio) e la minor impellenza di quelle economiche dovettero comportare non poche mutilazioni alla pertica comense che perse, verosimilmente, il Verbano, con il Sopraceneri, la Bregaglia, forse la riva sinistra del lago di Lecco, la Valsassina e parte della Brianza (probabilmente la zona ad oriente del Lambro ed a sud dei laghi di Pusiano e di Annone)170. 3. La forma urbis, nelle sue linee essenziali, doveva essere più o meno quella che Cesare, nel 59 a.C., diede alla colonia, con il suo pressoché perfetto impianto ortogonale, articolato in insulae quadrate (mt. 70 x 70) e cinto da mura possenti, ancor oggi per larghi tratti visibili171. Solo l’ampiezza dell’area abitata dovette nel 164 Dato questo che, a mio avviso, va tenuto in grande considerazione soprattutto alla luce di quanto, circa la determinazione dei confini, dicono i gromatici, cfr. ad es., Sic. Flacc. de cond. agr., p. 163, 20 La. (riportato infra nt. 27). 165 Come è noto oggi tale opinione (che ebbe a suo tempo autorevoli sostenitori: Mommsen, Oberziner, Solmi, ed ora è stata ripresa dal Wielich) è assolutamente minoritaria, dopo che gli studi di Stähelin, E. Meyer, Passerini, Garzetti, Tibiletti, Laffi, Frei Stolba, Cavanna ecc. hanno sostituito il ‘mito del valico’ a quello dello spartiacque. La maggior parte di costoro ritiene, infatti, che il confine fra Raetia ed Italia seguisse pressappoco quello oggi esistente fra Italia e Svizzera. Ma io, come già ebbi a sostenere (Origine, p. 497 ss.) [infra p. 706 ss.], per una serie di motivi archeologici, storici, giuridici, etnologici, economici ecc., non riesco proprio ad immaginare un confine che tagli a mezzo il Verbano e le valli (ad es. la Bregaglia). Del pari improbabile mi sembra però anche l’ipotesi che il limite fra l’Italia e la provincia corresse nella piana di Magadino (tra Locarno e Bellinzona), dove, per giunta, non v’era alcun elemento geografico su cui tale confine si sarebbe potuto appoggiare (ha ragione sul punto il Passerini, Il territorio insubre, p. 129 nt. 1). Il problema, comunque, nel suo complesso potrebbe trar luce da quanto dicono i gromatici circa la determinazione dei confini, cfr. ad es. Sic. Flacc. de cond. agr. p. 163, 20 La.: territoria inter civitates, id est inter municipia et colonias et prefecturas alia fluminibus finiuntur, alia summis montium iugis ac divergiis aquarum, alia etiam lapidibus positis praesignibus. Laddove esistevano, dunque, catene montuose erano i crinali e gli spartiacque a segnare il confine! 166 Cfr. Strab. 5,1,6. 167 Ricordo che Cremona e Placentia, nel 218 a.C., ebbero 6000 coloni (cui se ne aggiunsero altri 3000 nel 190 a.C.), Bononia ed Aquileia 3.000, per citare solo alcune coloniae Latinae dell’Italia settentrionale. Di molto inferiori erano, comunque, i contingenti della maggior parte delle fondazioni simili nell’Italia peninsulare e, soprattutto, delle coloniae civium Romanorum. 168 È nota a tutti la ricchezza e la capacità espansiva della facies protostorica comasca, quella, per intenderci, che ha nella necropoli della Ca’ Morta (oltre alle tante altre disseminate nel territorio lariano) la stazione di maggior prestigio. 169 Ne danno ampia testimonianza le necropoli, che si rinvengono sempre più fitte ai margini della campagna comasca, la toponomastica, caratterizzata dai tipici prediali romani e da una terminologia indicante il ‘novalÈ, cioè il terreno strappato al bosco e alla palude, nonché le tracce della centuriazione. Cfr. Luraschi, Foedus, p. 373 ss. e ntt. 94-96, ivi la bibliografia e le fonti; cui aggiungi, da ultimo, S. Maggi, L’insediamento romano, cit. [nonché le opere citate supra alla nt. 16]. 170 Sui confini in età imperiale, cfr., tra gli altri, Mommsen, CIL V, pp. 557, 558 s., 587, 606; Passerini, Il territorio insubre, p. 123 ss.; A.T. Sartori, I confini, p. 275 ss.; Sironi, Note topografiche, p. 193 ss.; Baldacci, Comum et Mediolanium: rapporti tra le due città nel periodo della romanizzazione, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d’occident, Colloques intern. du Centre National de la recher che scientifique, 542, Strasbourg 1971, Paris 1977, p. 99 ss.; Gianoncelli, Como e il suo territorio. Le vicende degli ordinamenti territoriali comaschi dall’epoca romana agli albori dell’età moderna, in Raccolta della Soc. Storica Comense, 15, Como 1982, p.35 ss. e passim [nonché le opere citate supra alle ntt. 21-28]. 171 Cfr. supra nt. 10. 191 frattempo mutare, essendosi ricompresa nel perimetro urbano la zona più prossima al lago, almeno sino alle attuali Vie Garibaldi, Juvara e Grimoldi (mt. 650 x 445 circa)172, per far posto ad alcuni impianti specialistici (teatro, anfiteatro, basilica, porto ecc.) e per soddisfare le accresciute esigenze demografiche della città, la cui popolazione libera, proprio in età pliniana (precisamente fra il 111 ed il 113), doveva ammontare, secondo una stima recente, a ben 14.700 - 17.000 unità173. Grazie alle fonti letterarie, epigrafiche, archeologiche e topografiche siamo anche in grado di abbozzare un quadro dei più significativi edifici pubblici. V’era un tempio dedicato a Giove, che Plinio giudica degno di ospitare una antica statua corinzia di bronzo raffigurante un vecchio ignudo, che egli donò ai Comensi, a condizione che la collocassero su un piedistallo di marmo da cui risultassero il nome del donatore ed i suoi titoli174. Lo stesso Plinio aveva inoltre inaugurato un tempio alla Eternità di Roma e degli Augusti175, con portici ed ornamenti, dopo che il padre, Lucio Cecilio Secondo176, ne aveva iniziato la costruzione per onorare la memoria della figlia Cecilia. A Calpurnio Fabato, prosuocero dello scrittore, si deve invece un bellissimo portico (speciosissima porticus), intitolato a se medesimo ed a suo figlio premorto (cioè al padre della terza moglie di Plinio), nonché una somma di denaro per la decorazione delle porte della città177. V’erano, poi, i due edifici di cui già parlammo, entrambi dovuti alla munificenza di Plinio: la biblioteca178, per costruire la quale lo scrittore comasco sborsò 1.000.000 di sesterzi179, aggiungendovene altri 100.000 per le spese di mantenimento180; e le terme, cui Plinio destinò 500.000 sesterzi per l’arredo e la manutenzione181. Di terme e di balinea ne dovevano però esistere più d’uno, a giudicare dalle epigrafi182 e dai reperti archeologici183; così pure si dica dei Nymphaea184 e dei templa. Quanto a questi ultimi è assai probabile che, oltre a quello di Giove, ve ne fossero: uno dedicato a Mercurio nell’area della attuale chiesa di S. Carpoforo, sulla strada che da Milano conduceva a Como185; un altro, non localizzabile, a Marte, dal momento che una epigrafe ne ricorda il custode (aeditumus)186; mentre più tardi, per ordine di Diocleziano e di Massimiano, ne verrà eretto uno al Dio Sole187. Il materiale architettonico rinvenuto a più riprese nel sottosuolo comasco permette di immaginare una grande ricchezza e varietà di edifici pubblici e privati, dove il marmo, non soltanto locale (cioè quello di Musso- 172 Molti sono gli aspetti oscuri e controversi della forma urbis; ne discutono da tempo: Frigerio, Antiche porte di città italiche e romane, in «RAComo», 108-110 (1934-5), p. 5 ss.; Caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963; ID., Perimetri difensivi della Como romana: quesiti inerenti al riconoscimento delle strutture pianificate romane nei tessuti urbani attuali, in Le fortificazioni del lago di Como [Atti Convegno Varenna 1970], Como 1971, p. 94 n.; ID., Ancora su Como romana, in Atti del Centenario, cit., p. 39 ss.; Mirabella Roberti, L’urbanistica romana, p. 17 ss.; Gianoncelli, Dati e problemi, p. 71 ss.; Luraschi, Foedus, pp. 130 ss., 493 ss.; ID., Como romana, p.47 ss.. 173 Cfr. Duncan Jones, The economy of the Roman Empire. Quantitative Studies, Cambridge 1974, p. 274; ma forse pecca per difetto, v. Luraschi, Appunti di storia e di diritto su Como romana (89-49 a.C.), in «Per. Soc. Stor. Comense», 45 (1974-77) p. 143 ss. 174 Plin. ep. 3,6. Certamente Plinio voleva che risultasse il consolato, che gli consentiva di accedere al massimo rango del senato, e forse anche la cura alvei Tiberis. Cfr. Sherwin White, The letters of Pliny. A historical and social commentary, Oxford 1966, p. 225 s. 175 Suppl. Ital. 745 (Pais). La lettura ‘Augustorum’ invece di ‘Augusti’ è stata recentemente proposta da G. Alföldy, Ein Tempel des Herrscherkultes in Comum, in «Athenaeum», 71 (1983), p. 362 ss. Alla stessa vicenda probabilmente si riferisce anche Suppl. Ital. 746. 176 Ormai sull’identificazione del padre naturale di Plinio il Giovane v’è largo accordo in dottrina, cfr. ad es. Sherwin White, The letters, p. 70; G. Alföldy, Ein Tempel, p. 363 e nt. 4. 177 Plin. ep. 5,11. 178 CIL V, 5262. Probabilmente è la stessa biblioteca cui si allude in Plin. ep. 1,8,2. 179 Lo si evince da Plin. ep. 5,7,3; cfr. Mommsen, Gesammelte Schriften, 4, Berlin 1906, p. 434 e nt. 6. 180 CIL V, 5262. 181 Ibidem. 182 Oltre a CIL V, 5262, v. CIL V, 5279. 183 Cfr. Baserga, Bagni e terme in Como romana, in «RAComo», 123-124 (1940), p. 37 ss. 184 Suppl. Ital. 747. 185 Vi si rinvennero infatti ben tre epigrafi dedicate al dio: CIL V, 5254; 5255; 5256. 186 CIL V, 5306 [su cui v. G. Alföldy, Ein editumus magister in Comum, in ZPE, 47 (1982), pp. 193-200]. 187 «RAComo», 92-93 (1927), p. 119 n. 14; doveva però trattarsi di una edicola di piccole dimensioni, a giudicare dalla modestia dell’epigrafe che ne commemora la costruzione, il che conferma la scarsa presa che i culti orientali ebbero in terra comasca. Cfr. da ultimi Ianovitz, Il culto solare nella X regio, Milano 1972, p. 37 s.; A. Roncoroni, La religione, in Storia di Capiago Intimiano, 2, Como 1982, p. 145 s. 192 Olgiasca)188, era largamente impiegato per raffinati rivestimenti, assai spesso decorati a bassorilievo189, e dove pavimenti a mosaici ed eloquenti strutture murarie lasciano intravvedere un’edilizia urbana e suburbana di lusso190. L’attenta lettura della topografia cittadina ha consentito infine di individuare con grande verosimiglianza il teatro, nel luogo dove un tempo era il rione ‘Cortesella’ (tra Piazza Perretta e Via Plinio)191. Meno sicura è, invece, l’ubicazione del Foro (Piazza S. Fedele?)192 e della basilica od altro edificio simile (fra Via Muralto e Via Fontana?)193. 4. Comum era, dunque, un municipium. Ebbe, cioè, quel tipo di organizzazione giuridica che fu il cardine dell’amministrazione romana e, come bene ha riconosciuto il Mommsen, costituì uno fra i lasciti più fecondi che l’Occidente abbia ricevuto da Roma194. Certamente l’istituzione municipale rappresentò la forza dello Stato romano, in ogni epoca della sua storia, realizzando quel decentramento amministrativo, quella reale autonomia, quella solidale partecipazione di tutti alla cosa pubblica, su cui solo poteva reggersi il governo di un Impero così vasto, e la costituzione del municipium si fondava su tre elementi195: I) Populus (municipes, cives, Comenses)196, cioè l’insieme degli uomini atti a portare le armi. La sua volontà si esprimeva nei comitia, ai quali i cittadini partecipavano divisi in dieci curie. I comizi eleggevano i magistrati ed i sacerdoti197 e collaboravano con il senato alle dediche di edifici pubblici ed al conferimento di onori198. La procedura di convocazione e di voto ci è stata dettagliatamente tramandata dalla lex municipii Malacitani, cioè dallo statuto che la città spagnola di Malaga ebbe da Domiziano199. I Comenses erano inoltre ascritti, insieme con i Milanesi ed altre popolazioni italiche, alla tribus Oufentina (nelle epigrafi OVF), una delle 35 circoscrizioni territoriali in cui, a suo tempo, era stato suddiviso, per fini elettorali, censitari e militari, il territorio italico200 e Roma medesima; II) Magistratus. A loro spettava il governo della città; venivano eletti dai comitia ogni anno. I requisiti per l’eleggibilità erano: l’ingenuità (cioè l’essere nati liberi), il non essere incorsi in cause di infamia, l’età non inferiore ai 25 anni, l’aver prestato garanzie reali e personali di una buona amministrazione (rem publicam salvam fore)201. L’ufficio era gratuito, e anzi comportava per chi lo rivestiva esborsi non indifferenti sia a favore dell’erario (all’atto della assunzione della carica) sia per gli stipendi dei subalterni e per le opere pubbliche e gli spettacoli, che normalmente i magistrati si accollavano per dar lustro al loro mandato. Nei municipia in genere ed a Como in particolare il potere era detenuto da due coppie di ma188 Cfr. l’esauriente indagine della Zezza, I materiali lapidei impiegati in età romana nell’area compresa tra il Ticino e il Mincio, Milano 1982, p. 62 ss., secondo cui la «ricchezza delle soluzioni decorative» rivelata dai marmi lariani «porterebbe a ritenere che nel Comasco sorse probabilmente un vero e proprio centro di scalpellini». Ed io credo abbia colto nel segno, considerando anche la splendida fioritura (appena più tardi) dei Magistri Comacini ed Intelvesi. 189 Ne è esempio insigne il cd. fregio dei cavalieri, conservato al Museo Civico e recentemente studiato da S. Maggi, Analisi cronologico-stilistica del rilievo con cavalieri di Como, in «RAComo», 161 (1979), p. 147 ss. [v. fig. a p. 65]. 190 Per la rassegna delle scoperte v. le fonti citate supra alla nt. 16. 191 Cfr. Caniggia, Lettura di una città, p. 48 ss. 192 V. al riguardo la diversa opinione di Caniggia e Mirabella Roberti, opp. citt. supra alla nt. 35. 193 Cfr. Caniggia, Lettura di una città, p. 48 ss., non senza qualche ragione. 194 Cfr. Humbert, Municipium et civitas sine suffragio. L’organisation de la conquête jusqu’à la guerre sociale, Rome 1978, p. IX. 195 Per i particolari rinvio all’esauriente trattazione del De Martino, Storia della costituzione romana, 2, Napoli 1973², pp. 82 ss., 113 ss.; 3, p. 339 ss.; 4, Napoli 1975, p. 687 ss. [v. ora C. Zaccaria, L’amministrazione delle città nella Transpadana (note epigrafiche) in Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Provinzen des Römischen Reiches, Mainz am Rhein 1991, p. 50 ss.]. 196 Ad es. CIL V, 5279; 5651 (municipes); CIL V, 5246 (cives); Suppl. Ital. 743 (Comenses); cfr. anche civitas Comensium (CIL V, 5261). 197 Cfr. CIL V, 5600, dove si ricorda un tale che divenne sexvir gratuitus (v. infra) suffragio populi. Si tenga presente, tuttavia, l’annotazione del Mommsen (CIL V, p. 602) che rammenta come, di solito, la creatio dei seviri spettasse ai decurioni. 198 Cfr., ad es., Suppl. Ital. 743: imp. Caesari / C. Vibio Afinio / Gallo / Veldumniano / Volusiano / Pio Felici Aug. / Tr. pot. II cos. PP / Comenses / Devotiss. Numi(ni) / Maiestatique eius. 199 Cfr. CIL II, 1964 (= Fontes iuris Romani Antejustiniani, 1², Firenze 1941 [abbr. FIRA], p. 208 ss.). 200 Sulla tribus Oufentina, così chiamata dal fiume Ufente nel territorio di Priverno, dove venne costituita nel 318 a.C., cfr. Ross Taylor, The voting districts of the Roman Republic, Rome 1960, pp. 55 s., 66 s., 90 s., 96, 129, 306. 201 Cfr. Lex Malac. 53; 54; 60. Con il commento di Hardy, Three Spanish Charters and other Documents, in Roman Laws and Charters, Oxford 1912, p. 100 ss. 193 gistrati chiamati rispettivamente quattuorviri iure dicundo e quattuorviri aedilicia potestate202. Solo ai primi competeva la pienezza del comando, ed infatti avevano il diritto di convocare il senato cittadino (di cui parleremo tra poco) ed il popolo, di amministrare le finanze comunali, di presiedere al culto pubblico, di rendere giustizia penale e civile, sia pure in certi limiti di materia e di valore (le leggi repubblicane, ad es., stabilivano per alcune cause civili il limite di 10.000 sesterzi, per altre di 15.000)203. In determinati casi dovevano deferire la questione ad un collegio di iudices204. Di quest’ultimo ufficio è traccia preziosa (perché rara) in un’iscrizione rinvenuta ai margini della pertica comense (Capiate), che ricorda appunto un iudex ex selectis205. Non potevano, in ogni caso, irrogare pene capitali. A loro spettavano insegne e prerogative particolari (ornamenta), quali la toga praetexta, la sella curule, i littori (senza scure), i portatori di fiaccole, posti riservati negli spettacoli ecc. Ai quattuorviri aedilicia potestate era invece affidata la cura urbis (una sorta di sovrintendenza su edifici pubblici, templi e vie), la cura annonae (l’approvvigionamento di grano) e la cura ludorum (l’allestimento dei giochi). Ogni cinque anni venivano eletti dei magistrati (quinquennales) con l’incarico di redigere il censo dei cittadini e di nominare i decurioni. In caso di morte o di assenza dei magistrati ordinari poteva essere chiamato a sostituirli un praefectus. A tale magistratura potrebbe forse far riferimento un’epigrafe comasca (purtroppo mutila), che, se l’integrazione coglie nel segno, dovrebbe ricordare, in una forma per altro inconsueta206, un praefe[ctus] civita[tis]; III) Ordo decurionum. Era il senato del municipio, che aveva come sua sede la curia. Constava di un numero di membri (decuriones)207 stabilito dallo statuto cittadino ed in genere oscillante fra gli 80 ed i 100. Erano scelti e nominati dai quinquennales tra gli ex magistrati che avessero compiuto i 25 anni e rispondessero ad una serie di severi requisiti fra cui quello di possedere un censo non inferiore a 100.000 sesterzi, come risulta da Plinio (ep. 1,19,2), il quale però, forse, si riferiva soltanto alla situazione comasca208. I membri del collegio erano ordinati secondo una gerarchia fondata sulla carica gerita in prece202 Per i primi v. CIL V, 5220; 5221; 5267; 5289; 5291; 5294; 5312; 5443 (?); 5463; 5518; 5646; 5739; Suppl. Ital. 745; 1287; «RAComo», 92-93 (1927), p. 144; per i secondi v. CIL V, 5279; 5289; 5291; 5294; 5300; 5312; 5443 (?); 5646; esistono poi dei quattuorviri nude dicti, v. CIL V, 5307; Suppl. Ital. 747; 748 (?) [v. ora anche R. Frei Stolba, Un nuovo quattuorvir di Como: l’iscrizione rinvenuta a Sonvico (TI), in RAComo, 172 (1991), pp. 229-233]. L’unica eccezione potrebbe essere rappresentata dall’epigrafe di Menaggio (CIL V, 5239), dove, come abbiamo visto (supra nt. 19), nel cursus honorum di L. Minicius Exoratus, accanto al quattuorvirato edilizio, compare anche il duovirato giurisdizionale. Per spiegare l’anomalia sono state proposte due ipotesi: una già l’abbiamo scartata (supra nt. 19), l’altra, avanzata dal Degrassi (Quattuorviri in colonie romane e in municipi retti da duoviri, in Mem. Acc. Naz. Lincei, 8,2, 1949, pubbl. 1950, ora in Scritti vari di antichità, 1, Roma 1962, p. 120 s.), presuppone che Minicio Exorato fosse un milanese e non un comasco, per cui la doppia titolatura sarebbe stata giustificata dal fatto che, nel frattempo, Milano avrebbe mutato status, diventando colonia. A questa tesi si può opporre che se Minicio Exorato fosse stato un milanese la sua origine, in base alla ben nota regola, sarebbe stata indicata sul marmo, proprio perché questo era destinato a ricordare pubblicamente (che fosse posto in terreno privato non risulta da nulla) l’onorato in un territorio (quale è l’attuale borgo lariano di Rezzonico) lontano dalla madrepatria e per giunta pertinente ad un municipio diverso. Inoltre un duovirato a Milano in età flavia contrasterebbe con l’epigrafe di cui in «RAComo», 92-93 (1927), p. 143 (supra nt. 19) e con CIL V, 5908 (cfr. Passerini, Il territorio, p. 257), che attestano l’esistenza del quattuorvirato almeno sino a Traiano. Io credo che, più semplicemente, si possa interpretare la doppia titolatura con il desiderio del lapicida o dei committenti di distinguere nell’ambito del cursus honorum la carica maggiore (IIvir iure dicundo) da quella minore (IVvir aedilicia potestate). Casi del genere non mancano certo, v. ad es. CIL II, 1470; 4466; XI, 1217; 1943; 1944 ecc. Cfr. comunque Luraschi, Sulle magistrature nelle colonie latine fittizie (a proposito di Frag. Atest. linn. 10-12), in «SDHI», 49 (1983), p. 308 s. e nt. 199 [ID., Aspetti giuridici della romanizzazione del Bruzio, in «SDHI», 52 (1986), pp. 511-513]. 203 Cfr. Lex de Gall. Cis. 21,3; 19 (FIRA, 1², p. 173 s.); Frag. Atest. 6 (FIRA, 1², p. 177). 204 Cfr. Lex Colon. Genet. Iul., 123 (FIRA, 1², p. 192). 205 Cfr. «RAComo», 92-93 (1927), p. 144 206 Di solito si parla di praefecti iure dicundo o aedilicia potestate, ovvero di praefectus pro duoviro. Il titolo in questione potrebbe anche far pensare ad un praefectus civitatium, al capo cioè di una delle prefetture alpine istituite da Augusto, magari di quella retica (cfr. ad es. la notissima iscrizione dell’arco di Susa dove compare M. Iulius Cottius praefectus ceivitatium Segoviorum, Segusinorum ecc.: CIL V, 7231). Bisogna però dire che le lettere ancora leggibili parrebbero escludere una simile ipotesi, avvalorando piuttosto una interpretazione del genere: praefe[ctus] / civita[tis] / idest u[rbis] (o urbanus); il che, a ben vedere, complica ulteriormente le cose [v. ora S. Lazzarini, Sul supposto praefectus civitatis comense, in Novum Comum 2050, cit., pp. 333-341]. 207 Cfr. ad es. CIL V, 5239; 5257; 5259; 5260 (?); 5265; 5313; «RAComo», 56-58 (1908), p. 33 s. 208 Erano inoltre richiesti: la cittadinanza, l’ingenuità o, comunque, l’essere nato libero, la residenza, la condotta irreprensibile, l’esercizio di una professione non disdicevole (tali erano considerate, ad es., quella di gladiatore, impresario di pompe funebri, attore ecc.). Cfr. Tab. Heracl. 108 ss. (FIRA, I², p. 148 ss.). 194 denza209. In casi eccezionali si poteva essere iscritti in un determinato rango anche senza aver rivestito la magistratura corrispondente: così accadeva per gli adlecti, alla cui categoria apparteneva un anonimo comense, adlectus in ordinem ab imp. Caes. T. Aelio Hadriano Antonino Augusto Pio210, ed un titolato individuo (comasco o milanese che fosse), il quale, dopo essere stato flamen divi Titi, flamen divi Nervae, pontifex, augur, IVvir iure dicundo, per due volte a Comum, IVvir iure dicundo a Mediolanum, iudex ex selectis, concluse la sua brillante carriera quale adlectus inter quinquennales nella curia milanese211. Ad alcuni benemeriti personaggi era addirittura concesso di entrare in senato pur non provenendo affatto da una magistratura, costoro erano chiamati pedanei. I poteri dell’ordo, che le fonti chiamavano splendidissimus, erano assai vasti e comportavano un controllo sulla intera vita cittadina: emanava decreti che vincolavano i magistrati (in caso di trasgressione era comminata una pena pecuniaria di 10.000 sesterzi)212, fissava feste e cerimonie, formulava voti213, condizionava la nomina dei sacerdoti214, attribuiva onori215, rappresentava all’esterno la comunità, riceveva ed inviava ambasciatori, svolgeva determinate funzioni giurisdizionali (in relazione alle multe inflitte dai magistrati, alla giurisdizione volontaria ecc.), aveva poteri in materia finanziaria e patrimoniale, che andavano dal controllo del bilancio alla distribuzione fra i cittadini dei munera publica, all’accettazione dei lasciti e delle donazioni. Di quest’ultima competenza ci rende edotti Plinio, ep. 5,7, laddove incarica l’amico comense Calvisio Rufo di presenziare alla seduta della curia per offrire, a nome di entrambi, i 400.000 sesterzi che Saturnino (un Comense che li aveva istituiti eredi) aveva destinato per legato alla cittadinanza, contravvenendo alla legge secondo cui: nec heredem institui nec praecipere posse rem publicam constat. Il tono dell’epistola dà anche la misura dell’ossequio e del prestigio di cui godeva l’ordo decurionum. L’appartenenza ad esso, d’altronde, comportava una somma di onori e di privilegi (ornamenta decurionalia); tra i primi ricordiamo i segni distintivi del vestiario (abiti e calzari speciali), posti riservati in teatro e nei giochi, accesso ai pubblici banchetti, ecc.; fra i secondi una maggior quota nella divisione delle sportulae (donativi) e una serie di immunità penali, quali, ad es., l’esenzione da pene feroci ed infamanti, come la crocifissione, la condanna alle miniere, al circo, alla fustigazione, e, più tardi, con Adriano, dalla pena di morte216. Queste ambite prerogative potevano essere in tutto o in parte attribuite dal senato a persone che avessero ben meritato nei confronti della cittadinanza: è il caso di P. Atilius Septicianus, insegnante di grammatica latina, cui l’ordo Comensium decretò gli ornamenta decurionalia quale riconoscimento per l’attività svolta in campo culturale, ma anche e soprattutto per il fatto che lasciò tutte le sue sostanze al comune217. Onori analoghi vennero attribuiti ad un anonimo sexvir che fu anche scriba publicus218; IV) completano il quadro amministrativo della città i pubblici impiegati (apparitores), subalterni dei magistrati. A Como sono testimoniati, oltre agli scribae, che fungevano da segretari e godevano certamente di una posizione privilegiata, come prova il caso appena citato, i viatores219, sorta di fattorini, che avevano il compito di recapitare i messaggi e gli ordini scritti; gli actores, ovvero gli amministratori della cassa comunale (ad uno di loro, infatti, Plinio trasferisce la proprietà di una sua tenuta affinché con la rendita [vectigal] fossero allevati i ragazzi e le ragazze della città)220, i mensores 221, che potevano avere 209 Cfr., ad es., l’albo della città di Canusium (CIL IX, 338), che prevedeva, nell’ordine: quinquennales in carica, patroni, ex quinquennales, ex duoviri, ex aediles, ex quaestores, pedani (di cui parleremo tra poco) e praetextati, cioè i figli dei decurioni ammessi ad assistere alle sedute. 210 CIL V, 5265. 211 Cfr. «RAComo», 92-93 (1927), p. 144. 212 Lex Colon. Genet. Iul. 128. 213 CIL V, 5246: Fortunae / obsequenti / ord. Comens. / voto pro / salute civium / suscepto. 214 CIL V, 5278: Lucius Minicius Exoratus... flamen divi Titi Aug. Vespasiani consensu decurionum. 215 A privati benemeriti: CIL V, 5265; 5278; o agli imperatori: CIL V, 5259; 5261; «RAComo», 51-52 (1906), p. 57 ss. 216 Su tutto ciò , v. fra gli altri, Garnsey, Social status and legal privilege in the Roman Empire, Oxford 1970, pp. 83 ss., 107 ss., 135 s., 140 s., 145 ss., 166 s., 202 s., 242 s.; Langhammer, Die rechtliche und soziale Stellung der Magistratus municipales und der Decuriones, Wiesbaden 1973, pp. 35 ss., 188 ss., 202 ss. e passim. 217 CIL V, 5278. 218 CIL V, 5314. 219 CIL V, 5282 220 Plin. ep. 7,18,2. 195 i compiti più diversi, connessi, in ogni caso, con la valutazione di quantità e misure di beni mobili ed immobili, gli aeditumi 222, cui era affidata la custodia dei templi e, nel caso specifico, di quello dedicato a Marte, gli haruspices 223, preposti all’interpretazione della volontà degli dei, attraverso l’esame delle viscere degli animali sacrificati ovvero di altri fenomeni e prodigi. A Como è presente pure un quaestor che, secondo la ragionevole lettura che dell’epigrafe224 fa il Pais, si sarebbe dovuto occupare della amministrazione e della distribuzione della sacra pecunia alimentaria (cioè, in pratica, della beneficenza). Dovevano poi esistere - anche se le epigrafi comensi non li menzionano - gli accensi (assistenti con mansioni varie), i librarii (archivisti, amanuensi), i praecones (araldi), i lictores (portatori di fasces senza la scure - simbolo del potere civile), i tibicines (flautisti), i servi publici ecc. 5. L’organizzazione municipale, come l’ho appena descritta, ebbe momenti di grande splendore ed opulenza nel primo secolo dell’Impero. L’autonomia era piena e si estendeva ad ogni aspetto della vita cittadina, con esclusione, si intende, della suprema direzione politica e militare, che spettava al governo centrale. Il clima nei municipi era quello della più attiva e responsabile partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica; solo così, d’altronde, poteva esservi una reale autonomia225. L’amor patrio era vivissimo e spesso sfiorava il campanilismo. Ne dà ampia testimonianza Plinio che fa un gran parlare della sua piccola patria, con il tono di chi ad essa è profondamente affezionato, tanto da considerarla, ad un tempo, madre e figlia226. Di essa vanta le bellezze naturali227 ed artistiche, alle quali ultime anch’egli, come abbiamo visto228, ha contribuito, dotandola da vivo o per testamento, di un tempio, di una biblioteca, di un edificio termale, di una preziosa statua, per citare solo i doni dei quali ci è giunta casualmente notizia229. A questi sono da aggiungere: la generosa beneficenza (alimenta) a favore dei fanciulli e delle fanciulle comaschi (500.000 sesterzi)230; il legato di 1.866.000 sesterzi per il mantenimento dei suoi cento liberti231 e, poi, dei poveri della città232; le somme destinate alla manutenzione ed all’abbellimento degli edifici da lui donati (500.000 sesterzi per le terme e 100.000 sesterzi per la biblioteca)233; il contributo per l’assunzione di un maestro che, insegnando in città, evitasse ai giovani comensi di andare a studiare a Milano234. Inoltre, come si è visto, brigò affinché fosse riconosciuto al municipio il diritto di percepire un legato di 400.000 sesterzi disposto illegalmente da Saturnino235; ed ancora difese le ragioni della sua Como in un giudizio di cui sfuggono i termini precisi236. Infine non mancò occasione per aiutare i suoi concittadini: così fece con Romazio Firmo, cui diede 300.000 sesterzi per raggiungere la somma di 400.000 sesterzi, indispensabile per accedere all’ordo equester237; e con Metilio Crispo, al quale fece conseguire il grado di centurione, donandogli in aggiunta 40.000 sesterzi per l’equipaggiamento238. 221 CIL V, 5315 [Sui mensores v. da ultimo L. Maganzani, Gli agrimensori nel processo privato romano, Como 1996; EAD., Misurazioni del suolo per l’esercito, in Labeo, 42 (1996), p. 456 ss.]. 222 CIL V, 5306. 223 CIL V, 5294. 224 Suppl. Ital. 748. 225 Così Polverini, Le città dell’impero nell’epistolario di Plinio, in Contributi dell’Istit. di Filologia classica Univ. Cattolica, Sez. Storia antica, 1 Milano 1963, p. 175. 226 Plin. ep. 4,13,5. 227 Plin. ep. 1,3; 2,8; 4,30; 9,7. 228 Supra testo e ntt. 37, 38, 40, 41, 42, 43, 44. 229 Il fatto che la conoscenza di alcune delle più grosse donazioni sia nell’epistolario puramente casuale ha fatto pensare al Polverini, Le città, p. 173 s., che quelli noti non siano che alcuni di più numerosi esempi. A riprova cita le altre donazioni di cui ci è giunta notizia solo attraverso le epigrafi (supra testo e ntt. 38, 43, 44). 230 Plin. ep. 1,8,10; 7,18; CIL V, 5262. Secondo Duncan Jones, The economy, p. 27, dovevano servire per 175 giovani (100 maschi e 75 femmine); cfr. anche Mrozek, Prix et rémunération dans l’occident romain, Gdànsk 1975, p.92 ss. 231 CIL V, 5262. 232 Dopo la morte dei liberti quel che rimaneva doveva servire per allestire un epulum annuale a favore della plebs urbana. 233 Supra ntt. 43, 44. 234 Plin. ep. 4,13,3 ss. 235 Plin. ep. 5,7. 236 Plin. ep. 2,5,3. 237 Plin. ep. 1,19. 238 Plin. ep. 6,25. 196 Come Plinio, fatte le debite proporzioni, si comportarono anche i suoi familiari sia che appartenessero ai Cecili239, ai Plini240 od ai Calpurni241, nonché i suoi più facoltosi amici242. Il motto per i ricchi Comenses doveva dunque essere: «rei publicae suae negotia curare... laude dignissimum est»243. Questo stato di cose, che dobbiamo ritenere generale244, contribuì certo ad incrementare la floridezza ed il benessere di Como e delle altre città dell’Impero, ma a lungo andare fu anche uno dei più gravi motivi della loro decadenza. La beneficenza ‘ad oltranza’, infatti, impedì l’esercizio da parte degli enti locali di una sana ed accorta politica finanziaria. Del resto mancava loro la possibilità di assicurarsi, con una imposizione fiscale diretta, delle entrate regolari su cui contare per far fronte alle esigenze locali245. La prosperità di una città finì, dunque, per dipendere dagli interventi privati che da soli provvedevano alla straordinaria e spesso anche alla ordinaria amministrazione246. Una simile prassi ostacolò quasi dovunque il formarsi di una classe esperta di amministratori e rese ancor più palese l’incapacità congenita dei governanti municipali, di solito privi di una specifica preparazione; nei loro confronti regnava la massima diffidenza. Lo dimostra Plinio, allorché, volendo contribuire con una somma di denaro a dotare Como di un insegnante, afferma: «Prometterei anche l’ammontare completo, se non temessi che, una volta o l’altra, questa mia donazione potesse essere guastata da maneggi illeciti, cosa che vedo capitare in molti luoghi dove gli insegnanti sono stipendiati dall’autorità pubblica. A questo inconveniente si può reagire con un solo rimedio: affidare unicamente ai genitori il diritto di assunzione ed aumentare il loro coscienzioso impegno di valutare saggiamente mediante l’obbligo di una partecipazione finanziaria»247. Ed ancora, a Caninio Rufo che chiede consiglio sul come assicurare, anche dopo la morte, la continuità di una donazione a favore dei Comaschi, Plinio risponde: «Potresti erogare la somma all’amministrazione comunale, ma c’è da temere che venga sperperata. Potresti dare terreni, ma come proprietà pubblica saranno trascurati. Per mio conto non trovo altro accorgimento più adatto allo scopo di quello a cui mi sono attenuto io stesso. Si tratta di questo: per assicurare i cinquecentomila sesterzi che avevo promesso di devolvere come contributo per l’allevamento di ragazzi e ragazze di famiglie libere, vendetti formalmente all’assessore alle finanze cittadine una mia tenuta che valeva assai di più; poi la ricuperai, ormai sottoposta ad una contribuzione che ammontava a trentamila sesterzi. Con questo procedimento il capitale dato all’amministrazione comunale è al sicuro ed il provento è sottratto a qualsiasi incertezza; per quello poi che concerne il podere, esso troverà sempre un padrone che lo voglia mettere a frutto, in quanto il suo prodotto è assai superiore alla contribuzione a cui è sottoposto. Vedo bene che io ho in realtà sborsato notevolmente di più della somma che ho ufficialmente donata, poiché l’obbligo della contribuzione ha fatto cadere il prezzo di quella stupenda tenuta; ma è pur necessario anteporre l’interesse pubblico a quello privato ed un bene duraturo ad uno passeggero, e bisogna provvedere con solerzia molto maggiore alle proprie donazioni che non alle proprie sostanze»248. A tal punto era giunta l’insipienza e la corruzione nelle amministrazioni cittadine che anche lo Stato cercò di 239 Rammento che L. Cecilio Cilone (che fu ascendente di Plinio, nonno o prozio) lasciò per testamento ai Comensi 40.000 sesterzi «ex quorum reditu quotannis per Neptunalia oleum in campo et in thermis et balineis omnibus quae sunt Comi populo praeberetur». Cfr. anche Suppl. Ital. 745, da cui risulta che il padre di Plinio, L. Cecilio Secondo iniziò la costruzione a Como di un tempio all’Eternità di Roma e degli Augusti, dotato di portici e di ornamenti. Del resto lo stesso Plinio ricorda in ep. 1,8,5 la munificenza dei suoi genitori. 240 Cfr. Plin. ep. 1,8,5. 241 Calpurnio Fabato, come sappiamo, aveva donato un porticato e promesso di adornare le porte della città (Plin. ep. 5,11). 242 Penso a Saturnino che lasciò ai Comensi un quarto della propria eredità (Plin. ep. 5,7); o a Caninio Rufo che manifestò a Plinio la sua intenzione di assicurare anche dopo la sua morte la donazione fatta ai Comenses per l’allestimento periodico di un banchetto pubblico (Plin. ep. 7,18). 243 Plin. ep. 7,15,2; il concetto viene ribadito in 9,30,1. 244 Cfr. i casi citati dal Polverini, Le città, p. 174 ss. e note, cui aggiungerei quello di M. Fabius Praesens, un cavaliere mantovano, che lasciò alla città di Mantova 400.000 sesterzi, più altri 100.000 per allestire una scuola (CIL V, 4059). 245 Cfr. Polverini, Le città, p. 176. Come è noto le entrate ordinarie erano rappresentate dai redditi provenienti dai beni di proprietà municipale, dai proventi delle tariffe di alcuni servizi (acqua, bagni pubblici ecc.), dai dazi e dai pedaggi su strade e ponti, eventualmente dalle tasse portuali, dalle sanzioni pecuniarie, dalle multe, dagli interessi sui capitali, dalle somme versate, all’atto della nomina, da magistrati, senatori, sacerdoti (v. Staccioli, Pompei vita pubblica di una antica città, Roma 1979, p. 37) 246 Era d’ordinaria amministrazione, ad es., la manutenzione delle terme e delle biblioteche; eppure noi vediamo che a tali bisogni provvede Plinio. 247 Plin. ep. 4,13,6-7 (trad. F. Trisoglio). 248 Plin. ep. 7,18 (trad. F. Trisoglio). 197 porvi rimedio, inviando, dapprima in via straordinaria, poi stabilmente, dei commissari imperiali, curatores rei publicae, con l’incarico, appunto, di controllare, fra l’altro, le finanze dei comuni249. A Como ne sono attestati quattro250: di uno P. Clodius Sura, curator rei publicae Comensium datus ab imp. Hadriano, sappiamo che era originario di Brescia e che aveva esercitato il medesimo incarico a Bergamo, sotto Traiano251. Poi, a limitare vieppiù le autonomie cittadine, verranno gli iuridici ed infine i correctores, di cui pure è traccia nelle iscrizioni comensi252. Questi fatti, unitamente alla crisi economica e politica del III secolo253, all’affievolirsi del senso civico, alla fuga dalle responsabilità di governo, al sempre più rapace fiscalismo degli organismi centrali, segnarono la fine della città come cellula autonoma e vitale dello Stato254 e furono tra le cause più profonde della decadenza dell’Impero e della civiltà antica. 6. All’interno del municipium v’era una pluralità di gruppi sociali. I) Al vertice troviamo una élite rilevante sul piano ‘nazionalÈ. Ad essa appartenevano tutti coloro che avevano fatto carriera a Roma nell’ordo senatorius ovvero in quello equester. Per accedere al primo occorreva, fra l’altro, un censo minimo di 1.000.000 di sesterzi. Il rango senatorio è rappresentato a Como da Plinio il Giovane, il cui patrimonio è stato stimato intorno ai 20.000.000 di sesterzi: cifra non eccezionale se si pensa, ad es., che un Cn. Cornelio Lentulo raggiungeva i 400.000.000 di sesterzi; Seneca i 300.000.000; Trimalcione, il liberto protagonista del Satyricon, i 30.000.000255. Per l’ammissione all’ordo equester bastavano, invece, 400.000 sesterzi. Tra gli equites comensi ricordiamo Plinio il Vecchio, Calpurnio Fabato e Romazio Firmo, un decurione di Como, al quale, come si disse, Plinio donò i 300.000 sesterzi che gli mancavano per divenire cavaliere. Fra costoro veniva, in genere, scelto il patronus della città, cioè colui che avrebbe dovuto sostenere a Roma gli interessi dei municipes. Tale fu, ad es., per Como, Calpurnio Fabato256. II) Vi era poi una élite cittadina, alla quale appartenevano tutti i magistrati, gli ex magistrati e i decurioni. III) Più vaghi sono i contorni di quella che oggi potremmo chiamare la borghesia, la quale raccoglieva artigiani e commercianti257, militari258, liberi professionisti259, impiegati pubblici260, ricchi liberti261. L’organo rappresentativo di questa categoria sociale era, in genere, il collegio degli Augustales262, ovvero dei sexviri 249 Cfr. da ultimo Sargenti, Problemi di vita municipale nella normativa imperiale da Traiano ai Severi, in Atti del Centenario, cit., p. 401 ss. 250 CIL V, 8921; «RAComo», 46 (1902), p. 72; CIL V, 5126; «RAComo» 92-93 (1927), p. 119. 251 CIL V, 5126. 252 Cfr. «RAComo», 92-93 (1927), p. 119 n. 14, con l’ampio studio di A. Degrassi, Corrector Italiae in un’epigrafe di Como, in Munera [Scritti Giussani], Como 1944, p. 165 ss., ora in Scritti vari, p. 193 ss.; ID., Postilla a corrector Italiae, in «RAComo», 127 (1946), p. 34 ss., ora in Scritti vari, p. 207 ss. [Oggi, forse a ragione, si tende a negare che almeno l’istituzione del curator rei publicae abbia avuto finalità limitatrici della autonomia cittadina, configurandosi piuttosto come un supporto della medesima, v. per tutti G. Camodeca, Ricerche sui curatores rei publicae, in ANRW, II, 13 (1980), pp. 453-534; M. Sartori, Osservazioni sul ruolo del Curator rei publicae, in Athenaeum, 77 (1989), pp. 5-20]. 253 Su cui v. per tutti Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III sec. d.C., Bari 1973, praecipue pp. 145 ss., 157 ss., 273 ss., 365 ss. 254 Sono giuste al riguardo le considerazioni del Polverini, Le città, p. 179. 255 In merito a queste valutazioni cfr. Duncan Jones, The economy, pp. 20-32, 239 ss., 242 s. 256 CIL V, 5267; di un altro patrono, L. Atilius Corumbus, si parla in CIL V, 5277. 257 Tali potrebbero, ad es., essere stati i personaggi legati a questo o a quel collegio professionale, soprattutto se costoro risultano anche insigniti del titolo di sexviri odi Augustales: v. CIL V, 5275; 5295; 5287; 5310; 5446; 5447 ecc. 258 Cfr. ad es. CIL V, 5269; 5713 (infra nt. 173). 259 Infra testo e ntt. 166, 167, 168, 169. 260 Cfr., ad es., CIL V, 5306; 5314. 261 Infra testo e nt. 133. 262 Cfr., ad es., «RAComo», 92-93 (1927), p. 150 s. 198 (et) Augustales263, ovvero dei sexviri ‘tout court’264265, una sorta di confraternita, la cui origine è da cercare nel culto imperiale. I membri erano scelti ogni anno dai decurioni e all’atto della nomina dovevano versare una ingente summa honoraria, dalla quale, tuttavia, potevano essere dispensati (si parla allora di sexviri gratuiti) dagli stessi decurioni (CIL V, 5311) o, eccezionalmente, dal popolo (CIL V, 5660: sexvir gratuitus suffragio populi). Avevano insegne e prerogative, come la toga listata di porpora, due littori, il bisellium ecc. A Como sono assai ben rappresentati, comparendo in una sessantina di epigrafi. Fra le componenti appena menzionate della società comense non v’erano chiusure rigide. Anzi in più di un caso dal sevirato vi fu chi giunse alla magistratura suprema266, al decurionato267, addirittura al cavalierato268, segno evidente che a Como vigeva una certa larghezza di vedute in fatto di promozione sociale. IV) Infine v’era la plebs, cioè il popolo minuto, fatto di lavoratori salariati, piccoli artigiani, parassiti269. La condizione di costoro non era certo brillante, ma nemmeno disperata, poiché alle loro esigenze primarie provvedevano le liberalità pubbliche e private270. V) Un posto a sé occupavano gli schiavi. Di essi va detto subito che, almeno in età pliniana, la loro condizione era, per certi riguardi, migliore di quella del lavoratore libero salariato: se non altro avevano assicurato vitto, alloggio ed istruzione; inoltre spesso rimaneva ad essi del tempo per lavorare ‘in proprio’, e, quindi, rimpinguare quel peculium che, in molti casi, consentiva loro di ‘comperarÈ la libertà. È un fatto che proprio nell’epoca qui considerata le manumissioni erano frequentissime, come testimonia Plinio, il quale non solo confessa la sua facilitas manumittendi271, ma si compiace con il prosuocero Calpurnio Fabato del fatto che abbia egli proceduto ad un’ampia affrancazione (manumissio vindicta) di schiavi, alla presenza del proconsole Calestrio Tirone e di tutto il popolo comasco plaudente272. È nota, del resto, la grande umanità con cui Plinio trattava i servi (ne aveva almeno 500)273: si guardava bene dall’incatenarli274, soffriva sinceramente per le loro malattie e per le morti premature275, riconosceva ad essi facoltà giuridiche inusitate, quali ad es. quella di testare: permitto servis quoque quasi testamenta facere eaque ut legitima custodio276; offriva loro lunghi e costosi viaggi a scopo terapeutico in Egitto o nella pianura 263 Con la congiunzione ‘et’ v., ad es., CIL V, 5248; 5276; 5288 (?); 5295; 5298; 5301; 5302; 5303; 5305; Suppl. Ital. 750; 754 (?); «RAComo», 92-93 (1927), p. 83 n. 8; p. 118 n. 13; p. 129 n. 26. Senza la congiunzione v. CIL V, 5257; 5275; 5286; 8903; Suppl. Ital. 752. 264 Cfr. CIL V, 5267; 5271; 5273; 5274; 5277; 5280; 5281; 5285; 5287; 5290; 5292; 5293; 5294; 5297; 5299; 5300; 5306; 5308; 5309; 5310; 5311 (sexvir gratuitus); 5313; 5314; 5446; e 5447 (sexviri urbani); 5600 (sexvir gratuitus); 5713; 8902; Suppl. Ital. 749; 753; «RAComo», 48-49 (1904), pp. 60 e 75; «RAComo», 92-93 (1927), p. 116 n. 10; p. 117 n. 11; 118 n. 12; p. 127 n. 23; p. 137. 265 Probabilmente le varie espressioni appena ricordate celano una medesima realtà istituzionale. 266 Cfr. CIL V, 5267; 5294. 267 Cfr. CIL V, 5257; 5313; 5713. 268 Esemplare in tal senso è il cursus honorum di Calpurnio Fabato, CIL V, 5267: L. Calpurnius L.f. Ouf. / Fabatus /VIvir IIIIvir i.d. Praef. Fabr. / trib. iterum leg. XXI Rapac. / et Nation. Gaetulicar. sex / quae sunt in Numidia / flam. Divi Aug. patr. munic. / T.F.I. 269 Di essi è forse rimasta traccia nelle epigrafi raccolte e studiate da A.T. Sartori, Umili ‘Comenses’, in Oblatio, cit., p. 771 ss. 270 Ad essi, come vedemmo (supra testo e ntt. 93, 94, 95, 105) si indirizzò la beneficenza di Plinio, di Cilone e di Caninio Rufo. In questo senso l’iniziativa privata fu preceduta ed affiancata, su un piano più generale, dalle Institutiones alimentariae promosse dagli imperatori a partire forse proprio da Traiano, cui si devono i due più famosi provvedimenti in materia, la Tabula Ligurum Baebianorum (CIL IX, 1455) e soprattutto la Tabula di Veleia (CIL XI, 1147). Cfr., per tutti, Duncan Jones, The economy, p. 288 ss., che segnala almeno 49 città dell’impero in cui sono attestate istituzioni alimentari (p. 337 ss.). Sugli scopi della beneficenza imperiale si leggano le acute osservazioni del Mazza, Lotte sociali, p. 176 ss.; nonché Kunderewicz, Disposizioni testamentarie e donazioni a scopo di beneficenza nel diritto giustinianeo, in «SDHI» 47 (1981), p. 47 ss. 271 Plin. ep. 8,16,1. 272 Plin. ep. 7,16; 7,32. In effetti sono assai numerose nel Comasco le epigrafi che ricordano liberti o libertini (molti appartengono proprio alla gens Plinia): CIL V, 5272, 5290, 5315; 5327; 5350; 5362; 5360; 5381; 5391; 5448; 5663; Suppl. Ital. 758; 787; 800; 801 (?); 807; 809; «RAComo», 56-58 (1908), p. 33; «RA-Como», 92-93 (1927), p. 118 n. 12; p. 126 n. 22; p. 128 n. 23. A questi sono probabilmente da aggiungere gli individui cui è attribuito un nome unico ovvero cognomina di formazione ellenizzante. 273 Lo si deduce dal fatto che per testamento ne affrancò 100 e che ex lege Fufia Caninia era espressamente permesso ai proprietari che avessero da 100 a 500 schiavi di liberarne 1/5. Cfr. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 1967 (trad. ital. ed. 1941), p. 85. 274 Plin. ep. 3,19,7. 275 Plin. ep. 8,1,1-3; 8,16,1; 8,19,1. 276 Plin. ep. 8,16,1. 199 provenzale del Fréjus277; si intratteneva spesso e volentieri dopo cena a conversare con i più dotti278, ecc. Fra gli schiavi attestati dalle epigrafi comasche alcuni risultano preposti a mansioni ben precise; abbiamo infatti un actor (amministratore), con il suo vicarius279, un vilicus (fattore)280, un saltuarius (guardiaboschi), che fu alle dipendenze del celebre Lucio Virginio Rufo281. 7. E veniamo brevemente al mondo dell’economia e del lavoro, cui altri, in questi stessi Atti, daranno un giusto rilievo. Io mi limiterò a sottolineare, quasi a corollario di quanto ho sin qui detto, che Como dovette partecipare della prosperità di cui andava famosa sin dal II sec. a.C. la Transpadana. L’economia lariana si segnalava, tuttavia, per la produzione dei prosciutti (le Comacinae pernae di cui parla Varrone)282 e forse anche di vino e di olio283. Quanto all’artigianato, la lavorazione dei metalli aveva una rinomanza ‘internazionalÈ, grazie all’acqua di Como, che risultava particolarmente adatta alla tempra284. Ma il dinamismo dell’economia comense trova conferma soprattutto nel numero, davvero inusitato, delle associazioni d’arte e mestieri (collegia). Tra quelle che più frequentemente compaiono nelle epigrafi ricordo: i fabri, ovvero gli artefici in genere, una sorta di operai variamente specializzati285; i centonarii286, straccivendoli e materassai ad un tempo, che confezionavano coperte, vestiti, imbottiture per scopi bellici ecc., utilizzando le pezze (centones). Con questi manufatti (oltre che con l’acqua, si intende) erano soliti partecipare (assieme a fabri, dolabrarii e scalarii, con cui compaiono spesso associati nelle epigrafi)287, allo spegnimento degli incendi. Ed ancora i dendrophori, commercianti in legname288; i dolabrarii, carpentieri e forse anche lapicidi289; gli scalarii, costruttori di scale290; i nautae, battellieri e traghettatori291; i negotiatores e mercatores, commercianti, i quali si dimostrano a tal punto intraprendenti da costituire un corpus splendidissimum negotiatorum Cisalpinorum et Transalpinorum, che si può dire controllasse i traffici dell’Occidente, avendo empori a Como, Milano, Aquileia, Lione, Avenches (Aventicum) e Buda (Aquincum)292. Legati probabilmente ad officia militaria erano i tesserarii e la schola vexillariorum293. Tipicamente comasco (almeno avendo riguardo alla Cisalpina) pare, invece, il collegium caplatorum o capulatorum, che riuniva gli addetti 277 Plin. ep. 5,19,6-7. Plin. ep. 9,36,4. 279 CIL V, 5318. 280 CIL V, 5668. 281 CIL V, 5702, ai margini della pertica comense. 282 Varr. de re rust. 2,4,10-11. Su cui V. Alfonsi-Roncoroni, Catone fr. 39 Peter, in «Parola del passato», 183 (1978), p. 414 ss. 283 Cfr. le tarde, ma pur sempre significative, testimonianze di Claudiano, bell. Get. 319-325; Ennodio, ep. 1,6,4-7; Cassiodoro, var. 11,14,3 riportate alla nt. 155. Che al commercio o alla produzione dell’olio fosse interessato il territorio lariano è provato inoltre dal collegio dei caplatores (infra testo e nt. 155) e dalla scritta dipinta in rosso su un’anfora rinvenuta a Chiavenna, che suona: Oliva nigra ex dulci excellens, cui segue il nome del produttore L.C. Xysti (CIL, V, 8111) [fig. a p. 679]. 284 Cfr. Plin. N.H. 34,41,144. 285 CIL V, 5272; 5287; 5304; 5310. Plinio (ep. 10,33) li cita a proposito del-lo spegnimento degli incendi. 286 CIL V, 5272; 5383; 5446; 5447; 5658; 5914. 287 Ad es., CIL V, 5272; 5446. 288 CIL V, 5275; 5296. 289 CIL V, 5446. 290 CIL V, 5446. 291 CIL V, 5295; 5911; «RAComo», 48-49 (1904), p. 77. Cfr. Baserga, Intorno al collegium nautarum di Como romana, in «RAComo», 86-87 (1924), p. 55 ss.; nonché, da ultimo, Boffo, Per la storia della antica navigazione fluviale padana. Un collegium nautarum o naviculariorum a Ticinum in età imperiale, in «Rend. Acc. Lincei», 32 (1977), p. 623 ss. [v. ora L. Di Salvo, Economia privata e pubblici servizi nell’impero romano. I corpora naviculariorum, in Kleio, 5 (1992), p. 797 ss.]. 292 CIL III, 10548; XIII, 2029; 5071; 11480; fra tutte va però segnalata CIL V, 5911, la quale parla di un [...negotiato]ris Cisalpin. et Transalpin. patr(oni) coll(egi) naut(arum) Comens(ium), che, secondo il Passerini, Il territorio insubre, p. 282, dovrebbe ricordare un «commerciante di largo raggio d’azione e di grandi possibilità e probabilmente non specializzato nel commercio di questo o di quel genere di mercanzia, ma dedito forse al traffico di merci diverse, così come fanno anche attualmente alcune ditte appunto di trasporti». Cfr. anche Luraschi, Foedus, pp. 176 s., 355 s., 504 e nt. 52, ivi la bibliografia. A mercatores sia pure sotto forma di cognomina, si allude in CIL V 5269, ed in «RAComo», 92-93 (1927), p. 117 n. 11 [v. ora A. Kolb - J. Ott, Ein collegium negotiatorum Cisalpinorum et Transalpinorum in Augusta Rauricorum? in ZPE, 73 (1988), p. 107 ss.; G. Walser, Corpus mercatorum Cisalpinorum et Transalpinorum, in MH, 48 (1991), pp. 169-175]. 293 CIL V, 5272, sempre che quello dei tesserarii non sia un officium connesso con il collegium fabrum (v. Mommsen, CIL V, p. 565); cfr. però Tac. hist. 1,25; Veg. 2,7: artifex tesserarum in militia qui acceptam ab imperatore aut tribuno tesseram per contubernia nunciabat. 278 200 alla fabbricazione dell’olio294. Vale, forse, la pena di aggiungere che questi collegia nulla hanno a che vedere con le corporazioni medievali o con le attuali associazioni sindacali; lo scopo politico appare secondario295, come pure quello professionale ed economico (ad es. non curavano l’istruzione degli affiliati, ammettevano nel loro seno anche persone che esercitavano un mestiere diverso da quello cui si intitolava il collegio)296. Il fine ufficiale e primario del sodalizio era piuttosto religioso: i suoi membri veneravano infatti divinità comuni, cui tributavano sacrifici e banchetti sacri297. Inoltre, versando una quota annua di iscrizione, ogni socio si assicurava dignitose onoranze funebri a spese del collegio298. In genere si riunivano una volta al mese per 294 «RAComo», 40 (1897), p. 19. Sull’epigrafe, per molti aspetti interessante, v. Baserga, I capulatores. Ossia una nuova corporazione professionale di Como romana, in «RAComo», 46 (1902), p. 72 ss.; A.T. Sartori, Un’iscrizione comasca dimenticata, in Atti CeSDIR, 4, 1972-73, p. 161 ss., il quale, tuttavia, è propenso a credere che i caplatores ivi menzionati siano da connettere con una attività pre- o paramilitare, quale poteva essere quella dei «selezionatori» della gioventù locale; ed infatti nell’epigrafe si parla ripetutamente di schola iuvenum seu caplatorum. Pur riconoscendo il peso delle argomentazioni dell’amico Sartori, io rimango fedele alla interpretazione tradizionale, anche perché non sono convinto che la produzione locale d’olio fosse così insignificante come vorrebbe lui. Il confronto con l’epoca odierna non regge, considerando l’intensa urbanizzazione delle rive del Lario (proprio laddove, stando alle fonti ed alle coltivazioni superstiti, probabilmente erano un tempo ubicati gli uliveti) ed il degrado di molte zone (specie lungo l’antica Via Regina, la quale indubbiamente ricalca il tracciato romano), che ora sono preda del bosco e delle sterpaglie, ma che una volta, come rivelano le tracce di terrazzamenti artificiali, dovevano essere intensamente coltivate. Solo così, d’altronde, si spiegano le testimonianze d’ogni epoca relative alla presenza dell’ulivo sulle sponde del lago: Claudian. bell. Get., 319 ss.: protinus, umbrosa vestit qua litus oliva / Larius et dulci mentitur Nerea fluctu / parva puppe lacum praetervolat; Ennod. ep. 1,6,4: Cui (scil. Como) calamitatis genus est, riparum Larii confinia canis ornasse nemoribus, ut subridens inlecebrosa visione dominantibus blanda fecunditatem fronte mentiatur et in perniciem possessoris pulchritudinem nutriat execrandam (l’accenno agli uliveti è in cana nemora); Cassiod., var. 11,14,3: cuius (scil. Larii lacus) ora... quasi quodam cingulo Palladiae silvae perpetuis viriditatibus ambiuntur; super hunc (lacum) frondosae vineae latus montis ascendunt; Paul. Diacon. versus in laude Larii lacus, 9 ss.: cinctus oliviferis utroque es margine silvis; / numquam fronde cares. Per altre conformi testimonianze v. Miglio, Il mito del Lario, 1, Milano 1959. Che non ne parlino i Plini non fa eccessiva meraviglia: sporadici, infatti, e del tutto incidentali sono nelle loro opere i cenni descrittivi del paesaggio comasco, ed ancor più rari e casuali sono quelli relativi alla economia. Ma anche a voler ammettere, con il Sartori, che fossero davvero pochi i fabbricanti d’olio lariani (ne ipotizza una ventina, numero che non è poi così esiguo, pur se disperso in un vasto territorio; quanti saranno stati, d’altronde, in Como gli scalarii, i dolabrarii, i dendrophori ecc.?), non vedo perché non potessero ugualmente riunirsi in associazione, considerando i vantaggi che, comunque, ne sarebbero derivati (infra testo e ntt. 156, 158, 159, 165) e di cui l’epigrafe comense costituisce la prova lampante, ricordando la generosissima munificenza inter vivos e mortis causa, nonché la protezione, di Iucundus Faustinianus. Dal punto di vista giuridico, poi, come è noto, valeva la regola secondo la quale «tres faciunt collegium» (D. 50,16,85). Né va dimenticato il carattere ‘aperto’ dei collegia romani (infra testo e nt. 157), ai quali potevano accedere anche gli estranei all’arte ed alla professione cui era intestato il sodalizio. «Pare anzi che sia stato sempre possibile agli artigiani o ai mercanti poco numerosi in una località farsi accogliere nelle associazioni di mestiere più o meno affini, e rivestirvi finanche funzioni direttive» (De Robertis, Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, 2, Bari 1971, p. 32). Cfr. CIL VI, 2854; V, 908; III, 3554 e 3569; III, 11223; III, 11189; IX, 3938; D. 50,6,6 (5),12. Si può dunque, ad es., immaginare che i caplatores raccogliessero non solo gli operai specializzati addetti alla separazione dell’olio dalla feccia, ma anche ogni altro lavoratore implicato nella coltivazione dell’ulivo, nella raccolta e nella spremitura dei frutti, nel trasporto e nella confezione del prodotto finito. E neppure escluderei l’ipotesi che la denominazione schola iuvenum seu caplatorum possa celare una unione tra iuvenes e caplatores, entrambi, per diversi motivi, a corto di affiliati. Cfr. sui collegia iuvenum, Giuliano, Gioventù e istituzioni nella Roma antica. Condizione giovanile e processi di socializzazione, Roma 1979. [Che i collegia iuvenum siano sempre e comunque collegati alla milizia parrebbe escluderlo il fatto che ad essi erano ammesse anche le donne, v. M.D. Saavedra-Guerrero, Iuvenae en los collegia del Occidente romano, in Atene e Roma, 41 (1996), pp. 24-31. Che cosa avrebbe allora accomunato i due sodalizi? Ad es. il momento conviviale o quello ginnico-sportivo o quello religioso o quello funerario o magari anche quello tecnico-professionale. Eppoi non sempre le associazioni fra collegia rispondono a motivi precisi o, se ci sono, a volte a noi sfuggono. Fra l’altro almeno le prime due attività presuppongono un largo consumo di olio]. 295 Anche se, quando appoggiavano compatti un candidato, un certo peso politico nelle elezioni municipali dovevano pur averlo, almeno a giudicare dalle ben note scritte elettorali pompeiane, cfr., ad es., CIL IV, 710: C(aium) Cuspium Pansam aed(ilem) aurifices universi rog(ant) (per Gaio Cuspio Pansa come edile, tutti gli orefici chiedono il voto). 296 Cfr. De Robertis, Storia delle corporazioni, p. 35 ss.; 2, p. 5 ss. 297 Ad es. i nautae Comenses - come quelli del Reno e della Gallia (CIL XII, 2597) - erano probabilmente devoti a Nettuno ed agli Aquatiles, di cui è testimoniato a Como il culto (CIL V, 5279). I nautae del Verbano pare, invece, venerassero il Sole (v. Roncoroni, La religione, p. 145 s.). In ambito più vasto era nota la dedizione dei Dendrophori a Dioniso, Demetra e Attis, nonché alla Magna Mater, che onoravano trasportando in processione rami d’albero. 298 De Robertis, Storia delle corporazioni, 2, p. 17 ss. La consuetudine di affidare ai collegia la gestione delle onoranze funebri è ben testimoniata a Como da CIL V, 5272: Albiniae Vetti fil(iae) Valerianae, pudi[cissimae fe]min(ae), P. Appi[us P.l. Euty]ches (?)......ad cuius [memoriam cole]ndam huic colleg(io) de[dit... ex c]uius summae red[itu magistri coll(egii) quodannis] die natal(is) eius III id......sportul(as) ex (denariis) CC in[ter praesentes arbit]r(atu) suo divid(ant), oleum et propin(ationem) ex (denariis) DCCL praebeant; item lectisternium tempore parentalior(um) ex (denariis) CC memoriis eiusdem Valerianae et Appi Valerian(i) fil(i) eius per 201 una modesta cena, il cui costo gravava a turno sui singoli associati299. L’organizzazione interna si fondava su una gerarchia ben precisa: a capo vi era un magister300, coadiuvato da un curator301 e, per la parte finanziaria, da un quaestor o arcarius302, al servizio d’ordine erano addetti scribae e viatores. V’erano poi dei patroni, nobili protettori, scelti di solito al di fuori del collegio, che fungevano da organo di collegamento fra la corporazione e lo Stato o il municipio303. Si è giustamente notato come, in ultima analisi, al di là delle finalità dichiarate, la funzione socialmente più utile che le associazioni professionali si trovarono a svolgere fu quella di migliorare, nel complesso, la condizione ed il tenore di vita dei ceti più umili della popolazione, che, grazie all’istituzione, poterono conseguire molteplici vantaggi d’ordine economico e spirituale, nonché godere della protezione e delle liberalità di ricchi patroni304. Rimanendo nel mondo del lavoro va detto ancora che esistevano i liberi professionisti. A Como sono ricordati: un topiarius, giardiniere, il quale riuscì forse ad impiantare una scuola, dal momento che fu un suo allievo ad onorarlo305; un medicus, che morì a soli 22 anni e 6 mesi306; un grammaticus Latinus307; e forse un architectus o mensor308. Tra i lavoratori possiamo considerare anche i soldati, siano essi legionari309 o pretoriani310, dal momento che la leva era ormai da tempo volontaria e stipendiata. Troviamo Comenses che militarono nelle legioni di Dalmazia, Dacia, Mesia e Pannonia311. Alcuni morirono giovani e lontano dalla patria, altri tornarono, occupando, a volte, posti di prestigio nell’ambito delle strutture politiche cittadine312. 8. Un cenno, prima di concludere, merita la religione. Scorrendo le fonti antiche, comprese le lettere di Plinio, si ha netta la sensazione che già nel primo secolo dell’Impero, le coscienze fossero preda del più radicale laicismo, che sfociava sovente nell’aperta professione di ateismo, ovvero nell’indifferenza e nella disperazione313. Impressiona il numero dei suicidi314. Ne furono coinvolti anche i Comensi: due coniugi - narra Pli- offic(ium) tesserarior(um) quodannis ponatur et parentetur; item coronae myrt(eae) ternae et tempore rosal(iorum) Iul(io) ternae eis ponantur, micatae de [l]iliis ex (denariis) L profundantur. Item Appius Eutychianus maritus eiusdem Valerianae scholae vexillarior(um) largitus est (sestertium) XXX (milia) n(ummum), ex cuius summae reditu quodannis die s(upra) s(cripto) natalis eius ante statuam lectist(ernium) ex (denariis) CCL ponant, sport(ulas denarios) CCL inter praesent(es) sibi divid(ant), oleum et propin(ationem) per rosam praebeant. L(ocus) d(atus) d(ecreto) c(ollegii) f(abrum) c(entonariorum). 299 Staccioli, Pompei, p. 36. 300 CIL V, 5272; 5310. 301 CIL V, 5446. 302 CIL V, 5304; 5446; 5447. 303 CIL V, 5275, 5295 (?); 5911. 304 De Robertis, Storia delle corporazioni, 2,40. 305 CIL V, 5316. Cfr. Baserga, L’arte dei giardini nel Comasco nell’età imperiale romana, in «RAComo», 82-84 (1922), p. 132 ss. 306 CIL V, 5317. 307 CIL V, 5278. A mio avviso non v’è motivo di credere (con il Mommsen, CIL V, p. 565, seguito dai più), che costui, pur nativo di Como, esercitasse altrove la sua arte. È vero che Plinio (ep. 4,13) dice che i giovani comensi si recavano a Milano per studiare, ma nulla impedisce di credere che l’epigrafe in questione rispecchi una situazione posteriore, quando, grazie proprio ai buoni uffici di Plinio (che interessò della cosa perfino Tacito) ed alla iniziativa dei genitori comaschi, anche la città lariana fu probabilmente dotata di un insegnante di rango [v. ora A. Grilli, Cultura e scuola a Como in età romana, in Novum Comum 2050, cit., p. 265 nt. 2]. 308 Cfr. «RAComo», 92-93 (1927), p. 117 n. 11, con l’interpretazione che ne ha dato il Frigerio, Antichi strumenti tecnici a proposito di una stele funeraria romana del Museo di Como, in «RAComo», 105-7 (1932-33), p. 61 ss. [v. supra nt. 84]. 309 CIL III, Suppl. 4-5, 14998; 14349,2; V, 5218; 5451; 5713; e fors’anche CIL V, 5610; 5595; 5594; 5451 (tutte provenienti dalla attuale provincia di Varese), v. Bertolone, in «RAComo», 102-104, 1931, p. 77 ss. Fra i graduati ricordo: CIL V, 5266; 5267; 5270; Suppl. Ital. 745; «Année Epigraphique», 1907, p.67 n.248. Cfr. sull’argomento Nagy, Stele di un legionario nativo di Como in Aquincum, in Munera, Como 1944, p. 147 ss.; Ceruti, Legionari di Comum nell’esercito romano, in «RAComo», 139 (1957), p. 11 ss. 310 CIL V, 5268; 5269; VI, 2717; 3884; «RAComo», 92-93 (1927), p. 114; Suppl. Ital. 744. Fra gli ufficiali v. CIL V, 5266; 5267; Suppl. Ital. 745. 311 Sono rappresentate, fra le altre, la legio II Adiutrix; la legio XI Claudia; la legio VIII Augusta; la legio III Italica; la legio XIII Gemina; la legio IV Flavia (da una epigrafe inedita in corso di pubblicazione sulla «RAComo» ad opera di Lazzarini-Sartori). [Epigrafe di legionario rinvenuta in Como, in RAComo, 167 (1985), p. 171 ss.]. 312 Così accadde ai due fratelli Mocetii, che divennero VIviri e decuriones (CIL V, 5713). 313 Su tutto ciò v. Sirago, Involuzione politica e spirituale nell’impero del II sec., Napoli 1974, p. 35 ss. 202 nio315 - si gettarono nel lago, non potendo sostenere il peso di una malattia inguaribile di cui l’uomo era affetto. D’altronde come la pensavano in fatto di religione gli stessi Plini? Per il Vecchio l’anima non è affatto immortale, il crederlo è dementia. E Dio chi è? Il mundus o caelum aeternum, immensum. Un Dio che crea, ma che non ama, che non si cura dell’uomo316. Per Plinio il Giovane, invece, la religione è tradizione, poesia, instrumentum regni, occasione di lustro per le cerimonie che consente di allestire317. È, insomma, un coacervo di cose terrene senza luce alcuna di soprannaturale. In compenso però proprio Plinio, il raffinato scrittore, l’abile avvocato, l’uomo politico ed economicamente arrivato, cede alla superstizione. Lo vediamo, infatti, occuparsi seriamente dell’interpretazione dei sogni318, ma soprattutto credere penosamente ai fantasmi, circa i quali chiede insistentemente lumi all’amico Licinio Sura319. Di fronte al cristianesimo, poi, egli ebbe un atteggiamento di «stupita incomprensione»320. Al di là di queste manifestazioni, per altro assai diffuse, il sentimento religioso, per fortuna, sopravviveva, ed anzi, a volte, specie nelle epigrafi, risulta fresco e spontaneo, spesso proteso verso la suprema speranza321 e l’esaltazione delle più nobili virtù322. Nel pantheon dei Comenses largo spazio avevano le divinità ereditate dalla tradizione indigena, alcuna delle quali ebbero a subire l’interpretatio Romana323. Così accadde a Mercurio324, a Silvano, alle Matronae325, alle Iunones, agli Dii e alle Deae, alle Lymphae, alle Vires, agli Aquatiles, alle Nymphae326, alle Adganai327, alle Fatae (o Fata)328, allo stesso Giove (senz’altro quando gli sono attribuiti appellativi topici)329, e forse 314 Cfr. Gourevitch, Suicide among the sick in classical antiquity, in «Bull. History of medicine», 43 (1969), p. 501 ss. Plinio medesimo ne ricorda alcuni, ep. 1,12,3 (Corellio Rufo); 1,22,8 (Aristone, che però poi rinunciò al proposito); 3,7 (Silio Italico); 6,24 (due anonimi Comensi). 315 Plin. ep. 6,24. 316 Cfr. Alfonsi, Il dio di Plinio il Vecchio, in Comum [Studi Frigerio], Como 1964, p. 3 ss. 317 Cfr. Polverini, Le città, p. 167 ss. 318 Ai sogni pare credere Svetonio, v. Plin. ep. 1,18. 319 Plin. ep. 7,27. 320 Plin. ep. 10,96. Cfr. Polverini, Le città, p. 168. 321 Tale appare ad es. l’invocazione che leggiamo in CIL V, 5279 (è l’epigrafe di L. Cecilio Cilone): Aetas properavit: faciendum fuit. Noli plangere, mater. Mater rogat quam primum ducatis se ad vos. 322 Cfr., ad es., homo bonus, coniux piissima, filius desideratissimus, mater dulcissima, amicus optimus, anima dulcissima, coniux incomparabilis, mater sanctissima, anima simplicissima, filia innocentissima ecc. Splendidi sono anche gli epitafi che leggiamo in CIL V, 5320; 5343; 5701. Essi contrastano palesemente con lo squallore e la volgarità che traspare dal carmen execratorium di un marito tradito (Suppl. Ital. 732) (v. L. Alfonsi, Un’elegia comasca di età imperiale, in Riv. Cult. Class. Mediev., 18, 1976). 323 Sull’argomento cfr. Roncoroni, La religione, p. 132 ss. [Ed ora A. Mastrocinque, Culti di origine preromana nell’Italia settentrionale, in Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Provinzen des Römischen Reiches, Mainz a. Rhein 1991, p. 217 ss.]. 324 Cfr. Caes. de bell. Gall. 6,17: Galli deum maxime Mercurium colunt. L’origine celtica del culto risulta evidentissima dalle due are di Müraja (Murus)in Val Bregaglia, dove a Mercurio è attribuito l’appellativo di Cissonius, ben noto in Renania e ad Aventicum (v. Festorazzi, Sulle nostre conoscenze del mondo romano nel Chiavennasco, in Archeologia e storia nella Lombardia pedemontana occidentale, cit., p. 122) [infra nt. 195]. 325 È mia opinione che tale culto, unitamente a quello delle altre divinità femminili (Deae, Iunones, Vires, Adganai, Fatae, Nymphae, Lymphae) così numerose in territorio comasco, perpetuasse una antica e ben radicata tradizione (più ligure che celtica) ‘matriarcalÈ (esclusivamente in ambito religioso, si intende). Cfr. Luraschi, Comum oppidum, pp. 227 ss., 251 ss. [p. 140, per l’aggiornamento v. nt. 224]. Mi conforta il consenso di Alfonsi, Como e tre suoi momenti di vita in tre autori latini, in Atti del Centenario, p. 327 ss.; e di Roncoroni, Religione, p. 144 e nt. 42 326 L’epigrafe che le ricorda (CIL V, 5224) e soprattutto il profilo di due piedi inciso sul marmo, mi inducono a credere che nei pressi del luogo del ritrovamento (Carate Urio sul Lago di Como) esistesse un santuario dove i fedeli andavano per chiedere grazie e sciogliere voti. Sulla simbologia del piede, che richiama antiche incisioni protostoriche disseminate sui colli che circondano Como, cfr. Guarducci, Le impronte del ‘Quo vadis’ e monumenti affini, figurati ed epigrafici, in «Rend. Atti Pont. Acc. Roman. di Archeologia», 19 (1942-43), pp. 304344, secondo cui la simbologia accennata sarebbe da identificare con ex voto di pellegrini, che avrebbero voluto esprimere: il ricordo della via percorsa; una presenza ideale nel santuario; l’itus et reditus; miracolose guarigioni ecc. [Per una interpretazione del tutto nuova v. ora A.T. Sartori, Le iscrizioni romane. Guida all’esposizione, Como 1994, p. 75 (sn 02)]. 327 CIL V, 5671; su cui v. Meneghetti, Probabile natura e sopravvivenza delle divinità celtiche Adgane, in «Athenaeum», 38 (1950), p. 166 ss.; Passerini, Il territorio insubre, p. 207; Roncoroni, Religione, p. 141. 328 Suppl. Ital. 739. Sulla cui identificazione si discute da tempo, cfr. per tutti Viglienghi, Un’epigrafe controversa, in «RAComo», 158 (1976), p. 147 ss. (che però non tiene conto dell’epigrafe qui citata). 329 Ad es. il Giove Reinimo di un’ara di Chiavenna, v. Giussani, in «RAComo», 94-95 (1928), p. 37 ss., che coesisteva, nel medesimo ambiente, con Giove Eleo, v. Giussani, in «RAComo», 63-64 (1912), p. 49 ss. 203 anche a Minerva, Diana ed Ercole330. Tutto preromano e tipicamente comasco doveva essere il culto di Paronnus331, come pure legati all’ambiente indigeno erano i Genii dei vari vici332. Da una sommaria indagine333 risulta che in Como città la divinità più venerata era Mercurio334, cui seguivano Giove335, Silvano336, le Matronae337e le Iunones338; infine, con un’unica testimonianza, Minerva339, Marte340, Fortuna341, Dii e Deae342, Fatae343, Nettuno344 e Aquatiles345. Nell’ager Comensis (inteso in senso lato), il primo posto spettava a Giove346, che precedeva Mercurio347, le Matronae348, Ercole349, Diana350, Minerva351, Dii e Deae352, Silvano353, Venere354 e, con una sola presenza, Iunones355, Apollo356, Marte357, Fortuna358, Liber Pater220bis. Ad essi sono da aggiungere le varie divinità locali che ho più sopra ricordato359. Non v’è traccia, sino ad ora, di Giunone, Vulcano, Saturno, Bacco e dei culti di origine orientale, eccezion fatta per quello del Sole (Mitra?), che è attestato però solamente in età dioclezianea360. Un certo peso doveva avere il culto imperiale, almeno a giudicare dalla popolarità degli augustales e dei fla- 330 V. ancora Roncoroni, Religione, p. 135 s., 141 s. Suppl. Ital. 741. L’epigrafe fu rinvenuta in un luogo presso Breccia (Como) da sempre chiamato campo Paronno. 332 Cfr. CIL V, 5216; 5227 (Genii Ausuciatium). 333 Non sempre infatti sono stati sciolti i dubbi circa la provenienza delle epigrafi e la loro interpretazione, né, come ho detto, ho potuto fondarmi su una esatta delimitazione dei confini della pertica comense, infine la ricerca delle iscrizioni comasche non comprese nel CIL è stata, per forza di cose, approssimativa. Sia pure con queste mende credo che il risultato non si discosti molto dal vero, anche perché ha riscontri puntuali in altre città della regio XI, ad es. Brescia, su cui v. Garzetti, Epigrafia e storia di Brescia romana, in Atti del Conv. intern. per il XIX centenario della dedicazione del Capitolium e per il 150º anniversario della sua scoperta, 1, Brescia 1975, p. 35 ss. 334 CIL V, 5254; 5255; 5256; Suppl. Ital. 740 [Su cui v. da ultimo P. Conti, Per una localizzazione del culto di Mercurio nella Regio XI, in Boll. storico Prov. Novara, 85 (1994), pp. 97-224]. 335 CIL V, 5245; 5250; 5251. 336 CIL V, 8900; 8901; Suppl. Ital. 742. 337 CIL V, 5249; 5253 (?); «RAComo», 48-49 (1904), p. 69. 338 CIL V, 5248; 5249; «RAComo», 92-93 (1927), p. 129 n. 26. 339 «RAComo», 35 (1892), p. 18. 340 CIL V, 5270. 341 CIL V, 5247. 342 CIL V, 5245. 343 Suppl. Ital. 739. 344 CIL V, 5258 [Per nuove consistenti tracce del culto di Nettuno, v. F. Sacchi, I documenti architettonici di Como Romana. Catalogo degli elementi architettonici, in Novum Comum 2050, cit., p. 98 ss.]. 345 Ibidem. 346 CIL V, 5213; 5217; 5222; 5225; 5251; 5441; 5449; 5456; 5463; 5647; 5661, 5669; 5670; 5678; 5699; 5702; «RAComo», 21 (1882), p. 18; «RAComo», 56-58 (1908), p. 29 ss.; «RAComo», 63-64 (1912), p. 49; «RAComo», 92-93 (1927), pp. 150 s., 163; «RAComo», 94-95 (1928), p. 37 ss.; «RAComo», 111-113 (1936), p. 81; «RAComo», 123-124 (1940), p. 15 ss. 347 CIL V, 5257; 5442; 5451; 5452; 5464; 5650; 5672; 5673; 5700; 5706; 5711; Suppl. Ital. 845; «RAComo», 18 (1882), p. 18; «RAComo», 53-55 (1907), p. 166; «RAComo», 102-104 (1931), p. 77. 348 CIL V, 5226; 5227; 5252; 5450; 5638; 5671; 5689; «RAComo», 92-93 (1927), p. 157; «RAComo», 99-101 (1930), p. 130 ss. 349 CIL V, 5645; 5686; 5687; 5688 (tutte e tre queste ultime provengono da Fino Mornasco, il che lascia presumere l’esistenza nella zona di un sacello dedicato alla divinità); 5693; 5694; Suppl. Ital., 724; «RAComo», 92-93 (1927), p. 152. 350 CIL V, 5209; 5668; Suppl. Ital. 832; «RAComo», 48-49 (1904), p. 84; «RAComo», 53-55 (1907), p. 170 ss.; «RAComo», 99-101 (1930), p. 124 ss. 351 CIL V, 5665; 5674; Suppl. Ital. 840; «RAComo», 102-104 (1931), p. 65. 352 CIL V, 5240; 5661; 5669; «RAComo», 48-49 (1904), p. 84; «RAComo», 111-113 (1936), p. 73. 353 CIL V, 5457; 5707. 354 «RAComo», 36 (1893), p. 18; «RAComo», 53-55 (1907), p. 162. 355 CIL V, 5450. 356 «RAComo», 133 (1952), p. 117. 357 CIL V, 5240. 358 CIL V, 5246. 220bis [«RAComo» 171 (1989), p. 214]. 359 CIL V, 5671 (Adganai); 5216 (Genius Asc...); 5227 (Genii Ausuciatium); 5224 (Nymphae); 5648 (Lymphae e Vires); Suppl. Ital. 741 (Paronnus). 360 Supra testo e nt. 50. Tale culto è comunque testimoniato al margine della pertica comense, forse fra i nautae del Verbano, cfr. Roncoroni, Religione, p. 145. 331 204 mines preposti al culto dei singoli imperatori361, nonché da alcune attestazioni specifiche362. Fra i sacerdoti, in territorio comense, sono ricordati oltre agli haruspices ed ai flamines, di cui parlammo, i pontifices363, gli augures364, una sacerdotessa Divae Matidiae365, un antistes Dei Elei366. Il sacerdozio entrava spesso a far parte del cursus honorum municipale367. Le epigrafi ci tramandano anche le festività religiose: particolarmente suggestivi dovevano essere i Rosalia (a Como in luglio)368, i Parentalia (dal 13 al 21 febbraio)369 e di Neptunalia il 23 luglio370 (*). (*) Per un aggiornamento, ancorché sommario, delle scoperte e della bibliografia, oltre ai contributi specifici citati di volta in volta, si vedano i preziosissimi Notiziari della Soprintendenza archeologica della Lombardia dal 1981 al 1994, nonché i volumi: I Romani nel Comasco, Como 1980, ivi, fra l’altro, lo studio di M. Sapelli sulla necropoli di Mariano Comense; Storia di Capiago Intimiano, vol. 2 (1982); vol 3 (1983), ivi lo studio di E. Vassalle sulla necropoli della Mandana; vol. 4 (1984), ivi lo studio di I. Nobile sulla necropoli di Villa Soave; Archeologia urbana in Lombardia, Como, Como 1984; Atti del 2º convegno archeologico regionale. La Lombardia fra protostoria e romanità, Como 1984, Como 1986; Archeologia a Cantù dalla Preistoria al Medioevo, Como 1991, ivi lo studio della necropoli di Mirabello, a cura di F. Butti Ronchetti (p.39 ss.) e di L. Verga, C. Dellacà, A. Mazzola, C. Niccoli (p. 49 ss.); Carta archeologica della Lombardia, 3, Como: la città murata e la convalle (a cura di M. Uboldi), Modena 1993; Novum Comum 2050 (Atti del Convegno celebrativo della fondazione di Como romana, Como 1991), Como 1993, ivi per una rassegna ed una esemplare valutazione dei vecchi e nuovi dati di scavo v. G. Sena Chiesa, Il territorio di Comum: insediamenti, necropoli e popolamento, pp. 185-220. Cfr. anche M.V. Antico Gallina, L’assetto territoriale di Comum: alcune ipotesi di lavoro, ibid. p. 291 ss. Tra gli studi più recenti su necropoli, ville e abitati del territorio comasco segnalo inoltre: M. Giorgi, S. Martinelli, Necropoli romana a Rovello Porro, in RAComo, 163 (1981), p. 255 ss.; C. Piovan, G. Pagani, Necropoli della romanizzazione scoperta ad Appiano Gentile, in RAComo, 164 (1982), p. 221 ss.; F. Butti Ronchetti, La necropoli romana della Cascina Benedetta di Lurate Caccivio, in RAComo 167 (1985), p. 5 ss.; EAD., Edificio romano in località Fontanone (Mariano Comense), in RAComo, 169 (1987), p. 67 ss.; M. De Angelis D’Ossat, Mariano Comense, vicus romano, in Notiziario della Soprintendenza archeologica della Lombardia, 1990, p. 73 ss.; A. Mazzola, I materiali della necropoli di Fino Mornasco (località Socco), in RAComo, 174 (1992), p. 45 ss.; D. Caporusso, Grandate, piana di Lazzago (Co): recupero di tombe romane, in RAComo, 177 (1995), p. 283 ss.; D. Caporusso, P. Blockley, Gera Lario (CO): chiesa di S. Vincenzo martire, scavi archeologici e restauro di mosaico romano, in RAComo 178 (1996); D. Caporusso, Alcune considerazioni sulla villa romana di Gera Lario e sulla continuità di insediamento in età altomedioevale, ibidem. Per il territorio erbese v. infra p. 639**; per il Canturino v. infra p. 659**. Per le iscrizioni basti il quadro di insieme che hanno recentemente tracciato: A. Sartori, Epigrafia e città antica, in Archeologia urbana in Lombardia, cit., p. 60 ss.; M.G. Bernasconi, Le urne funerarie di Comum: forme e contenuti del messaggio epigrafico, in RAComo, 169 (1987), p. 165 ss.; M. Reali, Le iscrizioni latine del territorio comense settentrionale, in RAComo, 171 (1989), p. 208 ss., da cui, fra l’altro, ho appreso (p. 228 s.) dell’esistenza di un procurator Augusti, che completa dunque il campionario dei funzionari operanti nel territorio comasco; M. Motta, Epigrafia cristiana della Media Lombardia: caratteristiche locali, in RA361 Dei primi abbiamo già parlato, fra i secondi ricordo: flamen divi Augusti (CIL V, 5266; 5267); flamen divi Titi Augusti Vespasiani (CIL V, 5239); flamen divi Titi Augusti (CIL V, 5667); flamen divi Titi item flamen divi Nervae («RAComo», 92-93, 1927), p. 143; flamen divi Traiani (CIL V, 5312). 362 CIL V, 5252; Suppl. Ital. 745 (su cui v. supra testo e nt. 38). 363 CIL V, 5312; Suppl. Ital. 745; «RAComo», 92-93 (1927), p. 144. 364 CIL V, 5266; 5291; «RAComo», 35 (1892), p. 18. 365 CIL V, 5647 (era addetta al culto della nipote di Traiano). 366 «RAComo», 63-64 (1912), p. 48 ss. 367 Cfr., ad es., la carriera esemplare di M. Mansuetius Crescens (CIL V, 5294) che fu harispex, VIvir, IIIIvir aedilicia potestate e IIIIvir iure dicundo. 368 CIL V, 5272 (riportata supra nt. 160). 369 Ibidem. 370 CIL V, 5279. 205 Como, 175 (1993), p. 243 ss.; A. Sartori, Quadro dell’epigrafia comasca, in Novum Comum 2050, cit. p. 231 ss.; ID., Le iscrizioni romane. Guida all’esposizione, Como 1994. Da ultimo v. l’interessante lavoro di U. Agnati, Epigrafia, diritto e società. Studio quantitativo dell’epigrafia latina di zona insubre (Bibl. di Athenaeum 34), Como 1997, di cui per altro non ho potuto tener conto. Per le scoperte successive al 1983 si veda: A. Sartori, Una nuova stele da Galliano di Cantù, in RAComo, 166 (1984), p. 123 ss.; S. Lazzarini-A. Sartori, Epigrafe di legionario rinvenuta a Como, ibid. 167 (1985), p. 171 ss.; R. Frei Stolba, Un nuovo quattuorvir di Como: l’iscrizione rinvenuta a Sonvico (TI), ibid. 172 (1990), p. 229 ss.; M. Reali, Ara romana murata nella recinzione del cimitero di Grugana (Comune di Calco-Como), ibid. 175 (1993), p. 295 ss.; ID., Due epigrafi urbane ritrovate a Bellagio (CO): una rilettura di CIL VI, 18894, 34588, ibid. 176 (1994), p. 83 ss.; A. Sartori, Anonimo Comense, ibid. p. 111 ss.; M. Tosi, Frammenti di romanità a Venegono: una nuova testimonianza epigrafica, ibid. 177 (1995), p. 57 ss.; A. Sartori, Un’epigrafe su misura, ibid. p. 89 ss.; ID., Ignoto, ma benemerito, forse. Un’epigrafe latina dal Battistero di S. Giovanni in Como, ibid. p. 203 ss. Sulla forma urbis si vedano le ricostruzioni generali proposte da A. Citterio, Urbanistica di Como romana, in Archeologia urbana in Lombardia, Como, Como 1984, p. 53 ss.; G. Luraschi, Le vicende edilizie di Como romana attraverso le fonti letterarie, ibid. p. 40 ss. (qui a p. 363 ss.); M. De Angelis D’Ossat, Como. L’organizzazione urbanistica, in Milano capitale dell’impero, cit. p. 163; M. Mirabella Roberti, Milano e Como, in La città nell’Italia settentrionale in età romana, Trieste-Roma 1990, p. 479 ss.; M. De Angelis D’Ossat, Como: rilettura di una città, in Novum Comum 2050, cit. p. 53 ss.; M. Mirabella Roberti, Note su strade ed edifici di Como romana, ibid. p. 17 ss.; P. Maggi, I monumenti di Como romana: le testimonianze scritte, ibid. p. 143 ss.; S. Maggi, Como romana: la forma urbis problemi e proposte di studio, ibid. p. 163 ss. Per le più recenti ed importanti scoperte nell’ambito cittadino si veda: M. Fortunati Zuccala Et Alii, Urbanistica di Novum Comum: Via Vittani, in Novum Comum 2050, cit. p. 59 ss.; M.P. Rossignani-F. Sacchi, I documenti architettonici di Como romana, ibid. p. 85 ss.; G. Luraschi, Anfiteatro a Como, in RAComo, 175 (1993), p. 113 ss. (qui a p. 505 ss.); D. Caporusso, P. Blockley, Rinvenimento di una colonna in granito presumibilmente tardo-antica e di stratigrafia posteriore, ibid. 176 (1994), p. 385 ss.; Idem, Como: scavi archeologici in via Adamo del Pero n. 11 e alcune considerazioni sul battistero paleocristiano, ibid. p. 177 (1995), p. 101 ss.. I marmi rinvenuti come materiale di reimpiego nella torre tardo-imperiale o barbarica di Via Cinque Giornate. 206 Bassorilievo di Via Cinque Giornate: pugilatore. Bassorilievo di Via Cinque Giornate: il vecchio poeta e la musa. 207 Bassorilievo di Via Cinque Giornate: il giovane poeta e la musa. Bassorilievo di Via Cinque Giornate: Ares e Afrodite. 208 Bassorilievo di Via Cinque Giornate: Dioniso e Efesto (satiro?). Bassorilievo di Via Cinque Giornate: Fedra e la nutrice. 209 Base di statua con iscrizione dedicata da M. Cassius Comicus a Plinio il Giovane, nell’anno del suo consolato (100 d.C.). Veduta aerea della attuale città murata che riproduce fedelmente le strutture dell’impianto romano. 210 Epigrafe che ricorda Lucio Cecilio Secondo, con ogni probabilità il padre di Plinio il Giovane, e lo stesso Plinio il Giovane, attribuendo loro rispettivamente l’inizio e la conclusione dei lavori per la costruzione di un tempio, con portici e ornamenti, all’Eternità di Roma e degli Augusti. Epigrafe funeraria di Sesto Cecilio Aggeo, che fu seviro e liberto di Sesto, e della di lui moglie Cecilia Flora, anch’essa liberta di Sesto. La sigla finale H.M.H.N.S. sta a indicare che il monumento (cioè la tomba) non passerà all’erede. 211 Epigrafe tarda dedicata a Giocondo Faustiniano vir perfectissimus, curatore della città di Como, patrono della scuola dei Iuvenes Caplatores, nei confronti della quale egli fu assai prodigo. Stele di Caio Castricio Vittore, nato a Como, soldato della 2ª legione Adiutrix, della centuria di Marco Turbo, che morì in Pannonia, ad Aquincum, all’età di 38 anni, dopo aver prestato servizio per 14 anni. 212 Ara votiva dedicata da C. Virio Massimo alle Giunoni e alle Matrone, in seguito ad una visione. Iscrizione votiva, dedicata da Naice alle Ninfe in seguito a una visione. È evidente il profilo inciso di due piedi. Proviene da Carate Urio, dove forse esisteva un tempietto dedicato alle dee delle acque e dei boschi. 213 1.21. Le vicende edilizie di Como romana attraverso le fonti letterarie371 1. La prima notizia utile ai fini di una ricostruzione delle vicende «edilizie» di Como antica ci proviene da Livio (33,36,9): Marcellus Pado confestim traiecto in agrum Comensem, ubi Insubres Comensibus ad arma excitis castra habebant, legiones ducit ... Castra eo die Gallorum expugnata direptaque et Comum oppidum post dies paucos captum; castella inde duodetriginta ad consulem defecerunt. Il passo si riferisce alla ben nota vittoria che il console Marco Claudio Marcello, nel quadro delle operazioni volte alla riconquista della Transpadana, conseguì nel 196 a.C., presso Como, a danno di una improvvisata coalizione insubro-comense. Tralasciando gli aspetti storico-militari della vicenda372, quel che qui interessa porre in rilievo è la qualifica di oppidum che Livio attribuisce a Comum. Dal contesto appare evidente che, sotto il profilo politicogiuridico, con essa lo storico latino mostra di riconoscere alla località il ruolo di capitale sinecistica dei Comenses, da intendersi come il centro di raccordo e di coesione fra le comunità che contribuivano a formarne il nomen373, comunità che erano verosimilmente rappresentate dai ventotto castella cui si fa menzione nel passo liviano, come risulta dal fatto che, preso l’oppidum, ad essi non rimase che la resa374. Ma dove era ubicato Comum oppidum e quali erano i suoi connotati strutturali? Sono quesiti che in Livio non trovano risposta; ed anzi, quanto al secondo, credo sia imprudente fondarsi sul termine oppidum, di per sé vago e polivalente375, per argomentare in via comparativa ed evocare, ad es., le rocche murate dell’Italia centro-meridionale ovvero le colline fortificate della Gallia. Per dissuaderci basterebbe, d’altronde, la perentoria affermazione di Polibio (che descrive una realtà cronologica ed etnica assai vicina a quella sulla quale stiamo indagando) secondo cui «tutti i Celti padani abitavano in villaggi non fortificati»376. Più espliciti e, direi, decisivi al fine della soluzione dei problemi che ci siamo posti appaiono i dati archeologici. Oltre cento anni di ricerche hanno infatti inequivocabilmente dimostrato che la storia di Comum oppidum si svolse non nella convalle, dove è la attuale città, ma sulle colline che la cingono a sud-ovest377. 371 Luraschi G., Le vicende edilizie di Como romana attraverso le fonti letterarie in Archeologia urbana in Lombardia, Como 1984, pp. 40-52; ; v. anche in G. Luraschi, Storia di Como antica, Como 1999, pp. 363-382. 372 Di essi ho ampiamente trattato in Comum oppidum. Premessa allo studio delle strutture amministrative romane, in RAComo, 152-155 (1970-73), p. 261 ss.; e soprattutto in Foedus, ius Latii, civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, p. 103 ss.; a quest’ultima opera rimando sin d’ora per una più completa ed ampia documentazione delle tesi che mi accingo ad esporre. 373 Questa è, del resto, la definizione che in ambiente ligure o comunque cisalpino meglio si attaglia al termine oppidum, v. per tutti Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955, p. 113 e passim; Luraschi, Comum oppidum, p. 257 ss. [p. 143 ss.], ivi la bibliografia. Troppo riduttive ed eccessivamente imperniate sull’aspetto fortificatorio paiono, invece, le definizioni che troviamo nelle fonti latine, cfr. Cic. de rep. 1,26,41; Varr. de l.L. 5,32,141; Isid. 15,2,5-6 ecc. 374 Sul concetto di castellum v. Luraschi, Il castellum nella costituzione politica dei Ligures Comenses, in Le fortificazioni del Lago di Como, Como 1971, p. 123 ss. [p. 223 ss.]; ID., Castella e castellieri protostorici. Un problema di interpretazione delle fonti storicoletterarie, giuridiche e archeologiche, in I Corso di storia dell’architettura castellana, 26-28 marzo 1971, Milano 1972, p. 19 ss. 375 Cfr. ad es. Bruna, Lex Rubria. Caesars Regelung für die richterlichen Kompetenzen der Munizipalmagistrate in Gallia Cisalpina, Leiden 1972, p. 238 ss. 376 Pol. 2,17,9: «ώκουν δέ κατά κώµας άτειχίστους». Il riferimento credo possa valere genericamente per tutti gli abitanti della Padania e specialmente per quelli dell’Insubria, nel cui ambito Polibio mostra di non distinguere fra Galli e Liguri. Cfr. Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica sull’Italia settentrionale nella Roma del II sec. a.C., in Athenaeum, fasc. spec. per il Convegno in mem. di P. Fraccaro, Pavia 8-10 sett. 1975, Pavia 1976, p. 44 ss. Del resto il quadro archeologico degli insediamenti protostorici comaschi non consente, sino ad ora, di immaginare una vera e propria cinta muraria (ma semmai opere settoriali di rinforzo e di protezione). Ed anche il muro a secco rinvenuto a Prestino (pur notevole per la lunghezza) credo sia inadatto per dislocazione, conformazione e consistenza (non consente, ad esempio, un alzato in pietre) a fungere da struttura fortificatoria dell’oppidum, come suppone invece P. Maggi, Como preromana: ritrovamenti e problemi, in La città antica come fatto di cultura (Atti del Convegno di Como e Bellagio 16/19 giugno 1979), Como 1983, p. 303. 377 Per la verità già l’umanista Giorgio Merula (Antiquitatis Vicecomitum Libri X, ed. Mediolani 1630, p. 34) aveva intuito che la Como antica doveva essere collocata in un luogo diverso e più elevato rispetto alla città romana. Ma la felice supposizione rimase inascoltata, finchè Pompeo Castelfranco, nel 1905, con ben altro bagaglio di prove, non ebbe a propugnare la tesi secondo cui la collocazione dei primitivi insediamenti andava cercata sulle colline che cingono Como, mentre l’area dove sorge la città attuale sarebbe stata edificata per la prima volta dai Romani (Castelfranco, La nécropole de Villa Nessi Val di Vico Côme, Côme 1905, p.5). Dopo di lui la tesi fu accolta ed ulteriormente confortata da: Baserga, Scoperte preistoriche nei dintorni di Como, in RAComo, 63-64 (1912), 214 Qui nel corso del VI e soprattutto del V sec. a.C., in concomitanza con il massimo splendore della cultura indigena, sorse (o meglio fu fondato, tanto ne appare unitaria e coerente la realizzazione) un centro demico, il quale, per l’ampiezza e la razionale articolazione delle strutture e delle infrastrutture, ha tutti i requisiti per essere assimilato ad un vero e proprio impianto urbano378. È questo l’oppidum di cui parla Livio? Certamente sì, anche se quando lo conquistarono i Romani era ormai, da almeno due secoli, in piena decadenza politica, demografica e culturale, avendo risentito negativamente della concorrenza e della egemonia politica degli Insubri della vicina Milano. È anche probabile che nel 196 a.C. l’area effettivamente abitata fosse alquanto ridotta rispetto alla primitiva estensione, se è vero che gli ultimi accurati scavi379 non hanno rivelato tracce di III e II sec. a.C.380. Tale area, comunque, doveva sorgere nell’ambito di quello che fu il vecchio insediamento, e lì continuare ad esistere come centro politico rappresentativo dei Comenses (ormai pacifici e fedeli alleati di Roma)381, almeno sino al 59 a.C., quando Cesare dedusse nella convalle la colonia Latina di Novum Comum382. Escludo, pertanto, che gli eventi del 196 a.C. abbiano in qualche modo mutato l’assetto abitativo della zona; come pure ritengo assai improbabile, per una somma di motivi giuridici, strategici, archeologici e topografici su cui già altre volte mi sono intrattenuto383, che i Romani ponessero mano in quel medesimo volger d’anni ad opere edilizie stabili (castra o simili)384 nella convalle, la quale, oltre tutto, era largamente p. 26 ss.; Giussani, Una tomba al Pissarottino di Brunate, in RAComo, 67-69 (1913), p. 9; Frigerio, Del sito di Comum e di quello di Novum Comum, in Atti e memorie del I Congresso storico lombardo, 1, Milano 1937 (che però dà all’oppidum una ubicazione improbabile); Rittatore VonwilleR, Como preromana, in Atti del Convegno di studi sulla città etrusca e italica preromana, Bologna 1970, p. 275 ss.; ID., La civiltà del ferro in Lombardia, Piemonte, Liguria, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, 4, Roma 1975, pp. 278, 295 ss.; Luraschi, Martinelli, Piovan, Frigerio, Ricci, Insediamenti di Como preromana: strutture ed aspetti, in RAComo, 150151 (1968-69), p. 201 ss.; IID., Insediamenti di Como preromana: aggiornamento, ibid. 152-155 (1970-73), p. 133 ss.; Luraschi, Comum oppidum, p. 241 ss. [p. 118 ss.]; P. Maggi, Como preromana, p. 297 ss. Unica voce contraria è quella di Gianoncelli, Como e il suo territorio, in Raccolta Storica, vol. 15, Como 1982. Sull’intera vicenda v. Luraschi, L’età antica di Como nella storiografia locale dal XVI secolo ad oggi, in Atti Convegno Centenario fondazione Soc. Stor. Comense, Como 1979 (pubbl. 1980), p. 87 ss. [p. 39 ss.]. 378 L’area interessata dai reperti è vastissima, comprendendo le località di S. Fermo, Prestino, Camerano, Rondineto, Casate, Brecciago, Vergosa, Leno, nonché le pendici dei colli Monte della Croce, S. Eutichio e Baradello sino al crinale. V’è da credere, tuttavia, che il centro protourbano si estendesse su un ampio terrazzo a mezza via tra il monte ed il piano (nel tratto compreso tra le curve di livello a quota 350 e 380), in condizioni di facile agibilità e pur tuttavia di discreta sicurezza. Tutt’attorno v’erano le necropoli, i luoghi di culto, i quartieri destinati a sacerdoti ed artigiani (Pianvalle, ad es.), i castella ecc. Per il censimento e la descrizione dei reperti v. Luraschi Et Alii, Insediamenti (1968-69) e Aggiornamento (1970-73); cui sono da aggiungere per gli scavi più recenti: Ricci, Nota su Pianvalle, in RAComo 156-7 (1974-75), p. 73 ss.; Rittatore Vonwiller, Scavi di Casate (Como) -1972. Premessa, in Atti Convegno celebrativo Centenario RAComo, Como 1974, p. 147 ss.; Siani, Scavi di Casate: 1972, ibid., p. 151 ss.; Tibiletti Bruno, Galli a Como, ibid., p. 255 ss.; Negroni Catacchio, I ritrovamenti di Casate nel quadro del Celtismo padano, ibid., p. 167 ss.; EAD., Como preromana: scavi a Pianvalle. Relazione preliminare, in RAComo, 163 (1981), p. 67 ss.; EAD., Scavi a Pianvalle (Como): i rinvenimenti di epoca La Tène, in Studi Rittatore Vonwiller, I, 1, Como 1982, p. 315 ss.; Negroni Catacchio, Giorgi, Martinelli, Contributo allo studio dei centri protourbani: una fornace per la lavorazione dei metalli a Pianvalle (Como), in La città antica, p. 329 ss.; Magri, Recenti scoperte nell’insediamento di Como preromana. Relazione preliminare, in RAComo, 164 (1982), p. 111 ss.; ID., in Studi Etruschi, 50 (1982), pp. 509 ss., 517 s.; De Marinis, ibid. p. 506 s.; ID., in Notiziario 1981, a cura della Soprintendenza arch. Lombardia, I, 1 (1982), p. 46 ss.; ID., Notiziario 1982, Milano 1983, p. 37 ss. 379 Mi riferisco soprattutto agli scavi di Prestino, con le relazioni preliminari di De Marinis e Magri (opp. citt. alla nota precedente), ma anche Pianvalle pare avesse registrato un abbandono nel III-II sec. a.C. (cfr. Negroni Catacchio, in RAComo, 163, 1981, p. 91). 380 Tracce che però compaiono appena ai margini dell’abitato, a conferma che la vita nell’oppidum (o in una parte di esso) non cessò del tutto: alludo ai ricchi e copiosi reperti di Casate, che testimoniano dell’esistenza, proprio nel periodo qui considerato (fine III metà I sec. a.C.), di un santuario all’aperto o, forse meglio, di una necropoli, che potrebbe essere stata quella del superstite centro indigeno, ormai fortemente celtizzato. Cfr. gli artt., di Siani, Negroni Catacchio, Tibiletti Bruno, citt. alla nota 7. Il dubbio che i reperti di Casate possano celare una necropoli è stato di recente avanzato, con buoni argomenti, da Piovan, Pagani, Necropoli della romanizzazione scoperta ad Appiano Gentile, in RAComo, 164 (1982), p. 227. 381 Lo si evince da Cic. pro Balb. 14,32, su cui v. Luraschi, Foedus, pp. 23 ss., 108 ss.. 382 V. infra §4. 383 Cfr. La lex Vatinia de Colonia Comum deducenda ed i connessi problemi di storia costituzionale romana, in Atti Convegno Centenario, cit., p. 365 ss. [p. 307 ss.]; e soprattutto Foedus, p. 124 ss. 384 Come pensa, invece, il Caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963, p. 39 ss.; ID., Perimetri difensivi della Como romana: quesiti inerenti al riconoscimento delle strutture pianificate romane nei tessuti urbani attuali, in Le fortificazioni del Lago di Como, cit. p. 94 ss.; ID., Ancora su Como romana, in Atti Convegno Centenario, cit., p. 39 ss. Per la critica puntuale v. Mirabella Roberti, L’urbanistica romana di Como e alcune recenti scoperte, ibid., p. 17 ss. 215 impraticabile per il disordinato confluire di tre corsi d’acqua (Cosia, Valduce e Fiume Aperto), che, prima di sfociare nel lago, incrementavano vaste e frequenti paludi385. Per usufruire della zona occorreranno una radicale bonifica e soprattutto un cambiamento della situazione politico-giuridica che giustificasse e legittimasse un diretto intervento di Roma. 2. Un passo avanti in tal senso fu senza dubbio segnato dai fatti occorsi nell’89 a.C. Roma in quell’anno, mentre ancora divampava la rivolta dei socii Italici, per salvaguardarsi le spalle e per assicurarsi l’aiuto e la fedeltà dell’intera Cisalpina, concesse agli alleati del Nord lo ius Latii, cioè quella somma di diritti di cui sino ad allora avevano goduto i Latini. Fu una operazione curiosa e del tutto inedita, che comportò la trasformazione degli antichi centri indigeni (celti, liguri, veneti) in coloniae Latinae, senza che però (e qui sta la novità) vi fosse alcuna effettiva deduzione di popolazione e neppure (a quanto pare) una ristrutturazione secondo i modelli urbanistici romani delle comunità destinatarie: per questo oggi si parla di «colonizzazione fittizia». Il succo del provvedimento, dai moderni attribuito a Pompeo Strabone (che, forse, però, ne fu solo l’esecutore) e quindi noto come lex Pompeia, è ben colto da Asconio (in Pis. 3 C.): ... Cn. Pompeius Strabo, pater Cn. Pompei Magni, Transpadanas colonias deduxerit. Pompeius enim non novis colonis eas constituit sed veteribus incolis manentibus ius dedit Latii, ut possent habere ius quod ceterae Latinae coloniae, id est ut petendi (petendo? gerendo?) magistratus civitatem Romanam adipiscerentur. Fu così che nell’89 a.C. i maggiori centri cisalpini (fossero essi a sud ovvero a nord del Po) acquistarono il titolo di colonia Latina senza che ne uscisse alterata la loro fisionomia urbanistica ed etnica386. E Comum? Il suo caso non porrebbe problemi, uniformandosi a quello degli altri oppida cisalpini, se non vi fosse la testimonianza di una fonte che sulle vicende comasche appare assai bene informata387: alludo al geografo greco Strabone, il quale, in poche ma preziose righe, traccia la storia di Como romana dall’89 (88) a.C. al 59 a.C. Ebbene, sono proprio le notizie che apprendiamo da lui a creare discordia fra gli studiosi, soprattutto in merito ai primordi della romanizzazione. Ma, prima di procedere, leggiamo interamente la nostra fonte, poiché d’ora innanzi essa costituirà il più sicuro canovaccio del mio discorso. È bene proporre anche la traduzione, dal momento che non sempre quelle avanzate paiono corrette388. «Como dapprima fu agglomerato di media grandezza, Pompeo Strabone, padre del Magno, dopo che fu danneggiata dai Reti della montagna, la ricostituì demograficamente; poi Gaio Scipione vi pose presso (collocò nei suoi pressi) 3.000 individui; il divino Cesare, infine, portò 5.000 nuovi coloni, di cui i 500 (dei) Greci risultarono quelli più in vista; a costoro, invero, diede anche la cittadinanza e li iscrisse fra i coloni: essi tuttavia non fissarono in questo stesso luogo la residenza, ma comunque lasciarono alla fondazione il nome; infatti tutti quanti furono chiamati Neocomiti, ed il (nome del) luogo, tradotto, è detto No385 V. da ultimo Di Salvo, Appunti sull’assetto idrogeologico della conca di Como in funzione degli insediamenti, in appendice a Gianoncelli, Como e la sua convalle, Como 1975, p. 117 ss. 386 Su tutte le questioni più sopra accennate, cfr. Luraschi, Foedus, pp. 139 ss., 215 ss., 331 ss., 353 ss.; ID., Sulle magistrature nelle colonie latine fittizie (a proposito di Frag. Atest. linn. 10-12), in Studia et documenta historiae et iuris, 49 (1983), p. 261 ss.. 387 Da ultimo Tozzi, I laghi dell’Italia settentrionale e la nozione di continuità lacustre-fluviale presso i Romani, in Atti della giornata di studio: Angera ed il Verbano orientale nell’antichità, 11 sett. 1982, Milano 1983, p. 132 ss. 388 Ne ho dato un saggio in Foedus, pp. 358 ss., 414 ss.. 216 vum Comum». L’esordio, come dicevo, ci riporta all’89 a.C. ovvero, e più probabilmente, all’88 a.C., e cioè rispettivamente o all’anno del consolato o a quello del proconsolato di Pompeo Strabone. Da es-so apprendiamo: che Como, prima delle distruzioni retiche e dell’intervento di Pompeo (quindi all’inizio del I sec. a.C. circa) era un agglomerato di media grandezza (stava, sempre secondo Strabone, alla pari con Brixia, Mantua, Regium-Bergomum?, mentre era inferiore a Mediolanum ed a Verona)389; che popolazioni alpine di stirpe retica, in un anno imprecisato, ma con ogni verosimiglianza non distante dall’89 a.C., la danneggiarono gravemente; ed infine che Pompeo Strabone la ricostituì demograficamente, la ripopolò. Ed è proprio sull’interpretazione di quest’ultimo punto che le opinioni divergono. Il problema è, infatti, quello di valutare la portata dell’intervento di Pompeo. I più pensano che egli abbia fondato a Comum una vera e propria colonia Latina con una effettiva deduzione di coloni390. Ma a questa ipotesi si oppone la lettera del testo greco ed in particolare il significato tecnico di «synoikízein», che non può essere tradotto con «fondare» o «dedurre una colonia», ma con «mettere a convivere», «unire», «associare, riunire in una città delle popolazioni sparse» e simili391. Se a questo aggiungiamo che l’oggetto grammaticale del «synoikízein» è la«katoikía» danneggiata dai Reti appare evidente che l’azione di Pompeo ebbe di mira non già la creazione di un organismo nuovo per ubicazione, struttura e abitanti (in tal caso sarebbe stato improprio parlare di sinecismo), bensì la ricostituzione demografica (e forse anche edilizia)392 del centro preromano verso cui furono fatti confluire i veteres incolae, che, con ogni probabilità, l’incursione retica aveva disperso nelle campagne e sui monti circostanti. Ma la tesi che sto confutando è in contrasto anche con la politica generale perseguita da Roma e da Pompeo Strabone nell’89 a.C., il cui scopo contingente, come risulta a chiare lettere da Asconio, non prevedeva affatto una colonizzazione effettiva della Transpadana393. Per superare questa obiezione altri394 hanno ritenuto che il padre del Magno, pur senza giungere a fondare a Como una vera e propria colonia, avesse tuttavia edificato una nuova città, trasportando gli abitanti dai colli dove sorgeva l’antico oppidum alla riva del lago. Ma contro questa interpretazione valgono pur sempre i rilievi esegetici più sopra formulati, che, ripeto, ci impongono di connettere l’opera di Pompeo ad una realtà demografica ed edilizia preesistente. Costui, del resto, nel poco tempo a sua disposizione (in pratica un anno, l’88 a.C.) e considerate le incombenze politiche militari e giudiziarie che si trovò a dover affrontare, difficilmente avrebbe potuto condurre a termine una impresa tanto impegnativa, quale è quella che i moderni gli attribuiscono. Inoltre la preesistenza di una colonia pompeiana mal si concilierebbe, dal punto di vista topografico, politico e giuridico, con le successive deduzioni, alludo a quella di Scipione e soprattutto a quella di Cesare nel 59 a.C., la sola che, come vedremo, abbia dato a Comum un volto urbanistico assolutamente unitario e addirittura un nome, Novum Comum, che presuppone, a mio avviso, una netta frattura con ogni organismo precedente. Va detto, infine, sia pure come argumentum e silentio (ma tuttavia di un certo peso, dopo le recenti, accurate 389 Dobbiamo dunque ritenere che il centro lariano, dopo la crisi politica, culturale e demografica che aveva caratterizzato i secc. IV, III e II a.C., fosse, intorno al 100 a.C., in lenta ripresa, come del resto sembrano rivelare gli scavi di Pianvalle e soprattutto quelli di Casate. 390 Cito per tutti Hardy, Some problems in Roman History, Oxford 1924, pp. 48, 136 s.; Ewins, The enfranchisement of Cisalpine Gaul, in Papers of the British School at Rome, 23 (1955), p. 80; da ultimo Tibiletti, L’età più antica di Como secondo le fonti letterarie, in Atti Convegno Centenario, cit., pp. 312; 320; ID., Per la storia di Comum nel I sec. a.C., in RAComo, 159 (1977), pp. 137, 143, entrambi gli artt. sono ora in Storie locali dell’Italia romana, Pavia-Como 1978, pp. 238, 246, 261, 267. 391 Cfr. Thesaurus Graecae Linguae, 7, s.v.: «una colloco», «habitare facio»; Liddell-Scott, s.v.: I) «make to live with»: II) «combine» or «join in one city»; «unite into a city-state»; «unite in one building»; III) «join in peopling» or «colonizing a country»; IV) generally, «unite», «associate». 392 Non dobbiamo tuttavia pensare ad un impegno diretto dei Romani; essi con ogni probabilità si limitarono a promuovere e ad organizzare la ricostruzione, la cui attuazione fu però lasciata alle maestranze indigene, le quali dovettero operare nei modi a loro consueti. Gli unici imprestiti romani potrebbero essere stati gli embrici, le tegole ed i mattoni, che troviamo in gran copia negli strati superficiali dell’insediamento protostorico. 393 Potrebbero fare eccezione Alba Pompeia e Laus Pompeia, che secondo alcuni ripeterebbero appunto il nome da Pompeo Strabone; ma altre e più convincenti ipotesi sono lecite, le ho raccolte e commentate in Foedus, pp. 209 ss., 363 s. [v. anche a pp. 287, 343 e nt. 33, 438 s. e nt. 54]. 394 Ad es. Calderini, Ancora di Novum Comum, in RAComo, 130 (1949), p. 17 ss.; P. Maggi, Como: sede primitiva e ricostruzione romana, in Riv. Como (1971), 2, p. 30 s. 217 esplorazioni lungo le mura)395, che nessun reperto archeologico nell’area urbana ci consente di risalire più addietro dell’età cesariana. Per contro nell’oppidum la vita sembra continuare con una certa intensità per tutta la prima metà del I sec. a.C., mantenendo pressoché invariate le forme e le consuetudini indigene396. Ribadisco, pertanto, la convinzione che neppure gli eventi dell’89-88 a.C. riuscirono ad alterare in modo significativo il quadro degli insediamenti in terra lariana: l’oppidum, cui la legge dell’89 a.C. aveva formalmente attribuito il titolo di colonia Latina, rimase infatti sui colli dove sempre era stato; la piana paludosa prospiciente il lago continuava ad essere disabitata, se si esclude la fascia di terra asciutta a ridosso delle alture, che fu per tempo interessata da un certo popolamento397; quanto ai Romani ancora una volta essi rinunciarono a stabilirsi nella zona, almeno in una forma che risultasse ufficiale e di una qualche consistenza398. 3. Ormai, però, Comum era entrata nell’orbita politica e culturale romana, e all’Urbe non potevano certo sfuggire i vantaggi itinerari e strategici che offriva la sua posizione geografica. Se ne rese conto di lì a poco Gaio Scipione (o colui che ne ispirava l’azione), il quale, stando a Strabone, portò a Como 3.000 persone. Fu questa la prima effettiva colonizzazione nell’area comasca, anche se forse ad essa, come diremo, mancarono i crismi della legittimità. Ma chi la promosse e quando? Fra le varie ipotesi399 credo si debba preferire quella che individua in Gaio Scipione (il cui praenomen è ignoto agli Scipioni e quindi, con ogni probabilità, da attribuire ad un errore della nostra fonte o della tradizione manoscritta) Lucius Cornelius Scipio Asiaticus (Asiagenus) Aemilianus, il figlio primogenito di Marco Emilio Lepido, che fu luogotenente o legato del padre durante il tentativo insurrezionale del 77 a.C. Costui fu adottato da Lucius Cornelius Scipio Asiaticus (cos. nell’83 a.C.) e di conseguenza ne assunse il nome400. L’azione di Scipione, del resto, ben si inquadra nel programma di Lepido, il quale, ottenuto per il 77 il proconsolato della Cisalpina, intendeva creare in questa regione le basi clientelari, militari e logistiche per la conquista del potere. E proprio in Cisalpina Scipione, unitamente a Marco Giunio Bruto, anch’egli legato di Lepido, operò e morì nel 77 a.C., dopo essere stato sconfitto ad Alba da Pompeo401. Quanto alla deduzione dei 3.000 coloni a Comum essa potrebbe rientrare senz’altro nel piano strategico che il princeps senatus Marcio Filippo, nella celebre orazione tramandata da Sallustio402, attribuisce al console ribelle, piano che prevedeva appunto la deduzione o la imposizione di presidi armati (praesidia deducta atque imposita) nelle terre da lui controllate. Questo, d’altronde, è il ruolo che meglio si attaglia alla fondazione comense di Scipione, poiché, come dicevo, difficilmente essa avrebbe potuto assumere i connotati giuridico-costituzionali di una colonia in piena regola, trattandosi di una iniziativa priva delle dovute autorizzazioni (da parte del senato e del popolo romano) e quindi del tutto illegale. Sta di fatto che 3.000 veterani-coloni, per un totale presumibile di 12.000 persone (secondo il consueto 395 Alludo soprattutto agli scavi nei pressi della Porta Pretoria, di cui hanno dato notizia Castelletti-Nobile, in Notiziario 1982, a cura della Soprintendenza archeologica della Lombardia, Milano 1983, p. 59; ma anche agli scavi lungo le mura di Via Cinque Giornate, ancora inediti per quanto riguarda la gran copia di reperti ceramici da essi restituita, v. comunque Gianoncelli, Dati e problemi relativi alle mura romane di Como, in Atti Convegno Centenario, cit., p. 83 ss. 396 Cfr. gli Autori citati alla nota 8. 397 Tombe d’età protostorica furono infatti rinvenute a S. Agostino, loc. La Prudenziana, ed in Via Benzi, cfr. Giussani, Tombe preistoriche nei sobborghi di Como, in RAComo, 96-98 (1929), p. 17 ss. 398 Non posso ovviamente escludere la presenza di privati (imprenditori, commercianti, artigiani) e, specialmente dopo la costituzione della provincia della Gallia Cisalpina (81 a.C.), di qualche stabile rappresentante del governo di Roma, con tutto il suo «entourage». 399 Si è pensato a Lucio Cornelio Scipione Asiatico, che fu console nell’83 a.C., ma che avrebbe colonizzato Como negli anni della sua pretura o propretura (fra l’87 e l’85-84 a.C.) (così Baldacci, Comum et Mediolanium: rapporti tra le due città nel periodo della romanizzazione, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d’occident. Colloques internationaux du Centre National de la recherche scientifique, n. 542, Strasbourg 1er-4 octobre 1971, Paris 1977, p. 108 ss.); oppure ad un non meglio individuato C. Cornelius C.f., che compare in un’epigrafe di Mesambria e che fu prefetto della città nel 72-71 a.C.: costui avrebbe operato a Como nell’81-80 a.C. (v. Tibiletti, Storie locali, cit. pp. 265 s., 268, 269 s.). Per la critica di tali opinioni, v. Luraschi, Foedus, p. 366 ss.. 400 Cfr. Criniti, L. Cornelio Scipione Asiatico Emiliano secondo colonizzatore di Como nel 77 a.C. (Strab. V,1,6)? in Contributi dell’Istituto di Storia antica, 1, Milano 1972, p. 91 ss.; Luraschi, La lex Vatinia, p. 369 ss. [p. 314]; ID., Foedus, p. 365 ss. 401 Cfr. Oros. 5,22,17. 402 Sall. Hist. 1,77 M. 218 rapporto di tre individui per ogni capofamiglia), d’estrazione romano-italica e forse anche indigena, si stanziarono nel 77 a.C. in territorio comasco. Era un bel contingente, pari, ad es., a quello che fu inviato a Bononia (189 a.C.) e ad Aquileia (181 a.C.), le due ultime colonie latine dedotte in Cisalpina. Dove si trovò lo spazio per sistemarlo? Non certo sui colli, nei pressi dell’oppidum, poiché è difficile credere che dei Romano-italici si adattassero a vivere in una condizione disagevole e contraria alle loro consuetudini urbanistiche. Inoltre un numero così ingente di persone avrebbe pur dovuto lasciare qualche traccia della sua presenza in una zona che è notoriamente prodiga di ritrovamenti di epoche ben più risalenti. Strabone, ancora una volta, si mantiene nel vago e usando il verbo «prostíthemi» lascia intendere soltanto che i coloni si stanziarono nei pressi della vecchia «katoikía». Io ritengo, tuttavia, che un nucleo di immigrati (ad es. la guarnigione militare, i notabili, gli artigiani) guadagnasse le rive del lago, specialmente laddove queste erano asciutte, solatie e sufficientemente spaziose da consentire l’edificazione di un centro che rispondesse ai requisiti urbanistici romani. Si è sempre pensato con buoni argomenti che tale sito potesse coincidere grosso modo con l’attuale borgo della Coloniola403, il quale non solo ha un toponimo già di per sé assai eloquente (potrebbe indicare infatti la piccola colonia di Scipione contrapposta alla grande colonia di Cesare), ma presenta anche, nelle strutture odierne, le tracce di una pianificazione di chiara impronta romana404. 4. Gli stessi motivi d’ordine economico, militare e politico che avevano indotto Lepido e Scipione a scegliere Como come meta di una deduzione, li troviamo puntualmente anche in Cesare, quando nel 59 a.C. (l’anno del suo consolato) si fece autorizzare da un plebiscito rogato dal tribuno Publio Vatinio a fondare sul suolo comasco una colonia di diritto latino405. Quel che differenziava le due iniziative era la tempra e la genialità degli uomini che erano stati chiamati a realizzarle. Alla ristretta visione di Lepido, tutto teso all’utile suo particolare e ormai lanciato in una folle quanto improvvisata sfida alla oligarchia dominante406, si contrappone il lungimirante disegno di Cesare, che inquadra la fondazione di Como in una più vasta e consapevole politica di rivalutazione della Cisalpina, in funzione soprattutto di una espansione militare e commerciale verso le terre d’oltralpe. L’episodio, che ebbe larga ed a volte drammatica risonanza, è ampiamente trattato dagli autori antichi, alcuni dei quali (Cicerone e Catullo) ne furono perfino testimoni. Il più circostanziato è, comunque, Strabone (5,1,6,213) dal quale apprendiamo che Cesare condusse a Como 5.000 coloni, fra cui v’erano 500 Greci, ai quali il nostro diede anche la cittadinanza romana, distinguendoli così da tutti gli altri coloni, che, invece, come risulta da Appiano407, erano dotati solo della latinità, essendo la colonia di diritto latino408. Di uno di questi Greci conosciamo, grazie a Cicerone409, anche l’identità, si chiamava Caius Avianius Philossenus e proveniva da Calacte (oggi Caronia), un borgo sulla costa settentrionale della Sicilia, ad est di Halaesa410. Sempre da Strabone veniamo poi a sapere che furono i Greci a dare alla città il nome di Novum Comum. Svetonio411, dal canto suo, ci assicura che la deduzione dei coloni avvenne per impulso di una rogatio Vatinia, alle cui prescrizioni però Cesare non seppe attenersi scrupolosamente, tanto da provocare la censura e la reazione degli anticesariani capeggiati dal console M. Claudio Marcello. A questo aspetto della vicenda, che si concluse con una sonora fustigazione di un malcapitato Comense, accennano anche 403 Il primo a sospettarlo fu Benedetto Giovio, Historiae patriae libri duo, Venetiis 1629, pp. 4, 203. A ragione il Caniggia vi ha visto «interventi di lottizzazione omogenea imperniati su un percorso di margine all’impianto centuriale romano» (Lettura di una città, pp. 40, 48; Restauro in Borgo S. Agostino, Como s.d., p. 28). Adatti ad un insediamento erano però anche il Borgo Vico, il Borgo di S. Rocco, il Borgo di S. Martino ecc. 405 Su tutte le questioni storiche e giuridiche relative alla legge ed alla qualifica costituzionale della colonia, v. Luraschi, La lex Vatinia, p. 363 ss. [p. 370 ss.]; ID., Foedus, p. 401 ss.; da ultimo, H. Wolff, Caesars Neugründung von Comum und das sogenannte ius Latii maius, in Chiron, 9 (1979), p. 169 ss. [v. anche p. 442 ss.]. 406 Sulla complessa personalità di Lepido v. ora Labruna, Il console sovversivo, Napoli 1976. 407 App. bell. civ. 2,26,98: 404 408 La questione è da tempo dibattuta, se ne vedano i termini ed i protagonisti nelle opere citate alla nota 34. Cic. ad fam. 13,35,1: C. Avianius Philoxenus antiquus est hospes meus et praeter hospitium valde etiam familiaris; quem Caesar meo beneficio in Novocomenses rettulit. 410 L’ho dedotto da Cic. ad fam. 13,37. 411 Suet. Caes. 28: Nec contentus Marcellus provincias Caesari et privilegium eripere, rettulit etiam ut colonis, quos rogatione Vatinia Novum Comum deduxisset, civitas adimeretur, quod per ambitionem et ultra praescriptum data esset. 409 219 Cicerone412, Plutarco413 e Appiano414. Ma vediamo quali furono i tempi e le modalità della fondazione cesariana. Lo iussus deducendi, come s’è detto, risale al 59 a.C., ed è probabile che i lavori di bonifica e di predisposizione dell’area dove sarebbe sorta la colonia iniziassero già in quell’anno. La cerimonia ufficiale, invece, potrebbe essere avvenuta fra l’ottobre del 58 a.C. e l’aprile del 57 a.C., quando Cesare, da pro-console, ebbe modo, nelle pause della guerra gallica, di soggiornare in Cisalpina. Le principali opere edilizie e prime fra tutte le mura furono in ogni caso completate entro il 54 a.C., se Catullo, morto probabilmente in quell’anno, poté celebrarle nel carme 35415, in cui invita l’amico Cecilio ad andare a Verona Novi relinquens Comi moenia Lariumque litus416. Il vero problema connesso alla deduzione è però un altro. Ci si chiede: Cesare fondò una nuova colonia su terreno vergine oppure si limitò ad incrementare e ad ampliare un centro preesistente, creandovi nuovi quartieri? Strabone per qualificare l’operato del console del 59 a.C. usa il verbo «episynoikízein», che letteralmente significa «condurre nuovi abitanti», e non contribuisce certo a risolvere la questione, poiché rimane da scoprire dove abbia portato questi abitanti: a rinforzare uno dei centri che già esistevano (la colonia fittizia di Pompeo Strabone o la «colonia» di Scipione) ovvero a costituire una nuova città? Più esplicito appare Appiano417, il quale servendosi del termine «oikízein», che per antonomasia indica l’«edificare», il «fondare ex novo»418, conforta decisamente la seconda delle eventualità appena prospettate. Ancor più probante in questo senso è, a mio avviso, il nome che i Greci avrebbero dato alla colonia, Novum Comum: ebbene, se valgono gli esempi analoghi ed in particolare quelli relativi al mondo romano419, esso dovrebbe testimoniare, nel modo più chiaro e diretto, della netta separazione geografica, urbanistica e demografica che intercorreva fra la fondazione cesariana e qualunque altro centro preesistente. Per la verità alcuni hanno tentato di spiegare in altra maniera la suddetta denominazione: sono ovviamente coloro che attribuiscono a Pompeo Strabone, fin dall’89 a.C., il primo impianto urbano nella convalle420. Per essi l’intervento di Cesare sarebbe semplicemente consistito in un ampliamento del vecchio nucleo mediante l’aggiunta di nuovi quartieri, che, in quanto tali, avrebbero giustificato l’appellativo di Novum dato alla città nel suo complesso421. A sostegno di questa opinione si adducono i casi in cui i Greci usarono le denominazioni «Neapolis»o«Nea» per indicare non solo le città veramente nuove, ma anche le parti nuove di antiche città. Ma secondo me, a parte ogni altra considerazione422, gli esempi non sono pertinenti, poiché essi riguardano soltanto fondazioni greche, le quali, come si sa, avevano caratteristiche giuridiche 412 Cic. ad Att. 5,11,2. Plut. Caes. 29. 414 App. bell. civ. 2,26,98. 415 Il carme viene in genere datato al 56 a.C. Cfr. Pighi, Catullo veronese, in Prolegomeni al Catullo veronese, 1, Verona 1961, p. 11. Sulla possibilità che anche il carme 17 (datato dai più al 59 a.C.) sia ambientato nei primordi della fondazione di Novum Comum v. Luraschi, Foedus, p. 131, n. 121. 416 Sull’importanza della testimonianza di Catullo, che non può essere considerata alla stregua di una semplice figura retorica, v. Ewins, Enfranchisement, p. 80 n. 29; Mirabella Roberti, Urbanistica, p. 29 s.; Tozzi, L’antico corso del fiume Garza e Catullo, c. LXVII, vv. 32-33, in Rend. Ist. Lomb., 107 (1973), p. 497, che afferma: «È significativo che Como fosse tra i primi centri del territorio transpadano a disporre di mura, in seguito alla deduzione cesariana di 5.000 coloni nel 59 a.C., così che queste potevano a buona ragione in quel tempo costituire un carattere distintivo». Le mura di Como sono ritenute d’età cesariana da Frigerio, Antiche porte di città italiche e romane, in RAComo, 108-110 (1934-35), p. 23 s.; Mirabella Roberti, Urbanistica, p. 30; contra N. Degrassi, in EAA, 2, p. 778, che le crede d’epoca più tarda, anche se erette nello stesso luogo delle precedenti; il Baldacci, Comum et Mediolanium, p. 113, affaccia invece la possibilità che la loro costruzione sia iniziata prima di Cesare. 417 App. bell. civ. 2,26,98. 418 Cfr. Liddell-Scott, s.v.: «Found as a colony» or «new settlement», e come esempio riferisce proprio il nostro passo. 419 Ne ricordo alcuni fra i più significativi: Aufidena Nova (Castel di Sangro), che dista circa 10 km da Aufidena Vetus (presso l’attuale Alfadena, nel Sannio); Astigi Nova, nella Betica, situata sul fiume Singilis, più a valle di Astigi Vetus; Falerii Novi (ora S. Maria dÈ Falleri) che fu edificata nella pianura, in sostituzione della Falerii Veteres (Civita Castellana), che sorgeva sopra un colle a nord del Soratte; Volsinii Novi (Bolsena) a circa 20 km di distanza da Volsinii Veteres (forse Orvieto); Fabrateria Nova, sulla via Latina, presso S. Giovanni Incarico, a 20 km circa da Fabrateria Vetus (Ceccano), ed ancora Novae Aquilianae, Nova Castra, Nova Petra e forse Nova Sparsa, tutte nell’Africa settentrionale; Nova Augusta e Nova Classis in Spagna. 420 Cfr. gli Autori citati alle note 20 e 24. 421 Così Calderini, Ancora di Novum Comum, p. 19. 422 Per la quale rimando al mio Foedus, pp. 359 ss., 493. 413 220 ed edilizie del tutto dissimili da quelle romane: per le prime, ad es., era assolutamente normale giustapporsi a centri preesistenti, adattandosi ai siti, non così, invece, per le seconde, che preferivano gli spazi liberi e pianeggianti, dove i condizionamenti erano minimi e dove le loro finalità militari, economiche e demografiche potevano agevolmente esplicarsi. La tesi, comunque, non convince anche perchè se una città fosse preesistita a quella di Cesare, l’operato di quest’ultimo difficilmente avrebbe avuto nelle fonti romane la risonanza che sappiamo. È a Cesare e a nessun altro prima di lui che è fatta risalire sicuramente e per legge una deduzione di coloni a Como, una deduzione che, si noti, con i suoi 5.000 individui (almeno 20.000 persone) si collocava fra quelle più numerose in senso assoluto423. Come si può, dunque, ragionevolmente supporre che un evento di tanta importanza avesse come conseguenza edilizia solo la nascita di nuovi quartieri e, dal punto di vista giuridico, si riducesse ad un semplice incremento coloniario? Tra l’altro sarebbe stato un incremento, quanto a consistenza (5.000 uomini), del tutto inusitato424 e immotivato. Eppoi mi pare veramente improbabile che al contingente di gran lunga più numeroso fra quanti giunsero in terra comasca (penso ai pochi Pompeiani dell’89 a.C. - se pur vi furono - e ai 3.000 uomini di Scipione), e forse anche più numeroso della stessa popolazione indigena, venisse destinata soltanto una fascia di corti evidentemente periferiche rispetto al nucleo del supposto centro precesariano, corti che, secondo una recente ipotesi425, sarebbero state disposte lungo il lato orientale della città, addirittura fuori delle mura! D’altronde l’impianto urbano, per la perfetta scelta del sito426, per la sua unica (almeno su tre lati)427 e possente cerchia muraria, i suoi limpidi isolati e, soprattutto, per le opere di bonifica che comportò (deviazione simultanea di tre torrenti e prosciugamento di alcune paludi), non lascia dubbi circa l’ispirazione unitaria che lo generò, ispirazione la cui paternità difficilmente può attribuirsi a Pompeo Strabone o a Scipione, ai quali, oltre tutto, come sappiamo, mancò il tempo e l’incentivo per progettare e, specialmente, per realizzare tanta opera. 5. Resta da chiarire, prima di concludere, quali rapporti si instaurassero fra i coloni insediati in Novum Comum e gli indigeni, e se e per quanto tempo coesistette accanto alla colonia di Cesare l’oppidum preromano «sinecizzato» da Pompeo Strabone. Io ritengo che già con la deduzione di Scipione fosse iniziato un intenso processo di assimilazione economica e culturale fra i nuovi venuti ed i veteres incolae. La fondazione cesariana non fece che accelerare tale processo, spostando definitivamente il «centro direzionale» da Comum a Novum Comum e convogliando nella zona cospicui interessi commerciali e militari, in previsione di uno sfruttamento della via d’acqua del Lario e della apertura di nuovi mercati oltralpe. La colonia costituì, dunque, un irresistibile polo di attrazione per le popolazioni locali, che gradatamente, ma anche con una certa rapidità, vi si trasferirono. Per qualche tempo è tuttavia probabile che nel vecchio oppidum la vita continuasse, sia pure a ritmo ridotto; ma sicuramente entro lo scadere del proconsolato cesariano (50 a.C.) la trasfusione dell’antico ceppo nel 423 Superava ovviamente tutte le coloniae civium Romanorum e, su oltre una quarantina di coloniae Latinae, era inferiore solo ad Alba (6.000), Venusia (20.000, ma meglio 6.000), Cremona e Placentia (6.000). 424 Ricordo a titolo d’esempio gli incrementi inviati a Cosa (1.000 individui: Liv. 33,24,8), a Placentia ed a Cremona (3.000 individui: Liv. 37,46,9), ad Aquileia (1.500 individui: Liv. 43,17,1). 425 Caniggia, Lettura di una città, p. 43; a cui replica Gianoncelli, Dati e problemi, p. 90 ss. 426 Gode infatti di un’ottima esposizione e sfrutta nella maniera più opportuna la disponibilità di spazio fra i due contrafforti alla estremità del lago, adattandosi con studiata precisione all’area, asciutta e centrale rispetto alla convalle, ricavata in seguito alla deviazione dei torrenti Valduce, Cosia e Fiume Aperto, i quali, contemporaneamente, assunsero la funzione di vallo naturale a protezione della città. Cfr. le giuste annotazioni al riguardo di Mansuelli, Urbanistica ed architettura della Cisalpina romana, Bruxelles 1971, p. 72. Ed ancora va considerata la scelta della pendenza ideale, anche se minima, dell’impianto, al fine evidente di consentire un regolare deflusso delle acque di superficie e sotterranee (v. Di Salvo, Appunti, p. 117 ss.). 427 L’incertezza riguarda il lato verso il lago. Tre (o forse quattro) sono gli allineamenti in discussione: a) via Ballarini -angolo Portici Plinio; b) via Carcano (all’altezza di Casa Asti, numero civico 4) -Via Macchi; c) via Garibaldi - via Juvara; d) e forse anche via Fontana - via Bianchi Giovini. Lungo questi tracciati furono, infatti, rinvenuti tratti di mura o fondazioni di torri, di cui è però difficile, per l’approssimatività della documentazione, stabilire la data e, talvolta, perfino le caratteristiche strutturali, il che rende vana ogni possibilità di confronto con i resti meglio noti ed ancor oggi visibili della cortina muraria. Per un accurato repertorio dei ritrovamenti v., comunque, Gianoncelli, Dati e problemi, p. 71 ss. 221 nuovo dovette essere completata428. Si potrebbe a questo punto prospettare una difficoltà: come collocare nella nuova sede l’ingente massa di individui rappresentata dalle 3.000 famiglie di Scipione (circa 12.000 persone), dalle 5.000 di Cesare (20.000 persone) e dagli indigeni? La fondazione cesariana, la cui area s’aggirava, con ogni probabilità, sui 26-27 ettari429, allineandosi con quelle di Cremona e di Piacenza, secondo calcoli statistici generalmente accettati, che ipotizzano una certa dimensione delle case430 ed una loro densità nelle insulae431, tenendo conto degli spazi vuoti interni, dei passi, degli accessi ecc.432, avrebbe potuto contenere un massimo di 8.0009.000 abitanti, distribuiti in circa 2.000 case-famiglia433. Certamente, dunque, anche Novum Comum, come Cremona e Piacenza434, non fu progettata per accogliere tutta la popolazione dedotta ed esistente in loco. Nella città e forse in qualche villa suburbana trovarono senz’altro posto i coloni più ragguardevoli per censo e per cariche, l’élite locale, il presidio militare, i commercianti, gli artigiani. Altri occuparono le zone più accoglienti del suburbium435; altri ancora, per raggiungere le terre loro assegnate, si dispersero nel vasto territorio, costituendo piccole comunità rurali (vici), di cui fanno fede i reperti archeologici, le tracce di centuriazione e la toponomastica436; altri, infine, tentarono la via del Lario vuoi per impiantare empori sulle rive del lago o lungo gli itinerari che cominciavano ad aprirsi a traffici sempre più redditizi, vuoi per intraprendere attività agricole specializzate, quali la coltivazione dell’ulivo e della vite, che si avvalevano 428 Nell’area dell’insediamento protostorico viene meno ogni traccia della presenza indigena, l’oppidum fu dunque abbandonato; tanto è vero che (come hanno rivelato gli scavi più recenti) i Romani, di lì a poco, intrapresero una sistematica opera di demolizione delle antiche strutture per far posto a grandiose spianate, dove forse furono impiantate officine e aziende agricole (cfr. gli scavi di Brecciago e di Prestino -Via Isonzo, su cui v. le relazioni di De Marinis e Magri, citate alla nota 7. 429 A questa misura sono giunto considerando il perimetro delle mura cittadine di m. 445 x 610 e quindi individuando nel muro rinvenuto in via Carcano un tratto della cortina d’età cesariana verso il lago. Fra l’altro questa congettura consentirebbe di includere nella città il teatro, sito con ogni probabilità a ridosso delle mura nell’angolo settentrionale dell’impianto urbano, dove era la località chiamata «Cortesella» (cfr. Caniggia, Lettura di una città, p. 48 s.), e ciò in armonia con la prassi generalmente seguita in Cisalpina (cfr. Bejor, L’edificio teatrale nell’urbanizzazione augustea, in Athenaeum, 67, 1979, p. 126 ss., praecipue p. 131). Altri hanno invece proposto perimetri di m. 500 x 700 (Pais, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, 1, Roma 1918, p. 27); m 445 x 560 (Frigerio, Antiche porte, v. la pianta allegata); m 445 x 650 (Mirabella Roberti, Urbanistica, p. 17). Occorrerebbe in ogni caso procedere ad accurate misurazioni sul terreno. 430 Cfr. Tibiletti, Storie locali, p. 220, che per Pavia (ma le dimensioni per lui dovrebbero essere standard) propone la misura di m. 4,5 x 4,5 oppure 4,5 x 9 (pressoché identiche erano quelle di Aosta m. 4,41 x 8,82); Caniggia, Lettura delle preesistenze antiche nei tessuti urbani medievali, in Atti CeSDIR, 5, 1973-74, Milano 1975, pp. 336, 340 parla invece di m. 6 x 6 ovvero di m. 3 x 6; ma anche così le nostre conclusioni non cambierebbero di molto. 431 Le insulae comensi, secondo i vari autori, avrebbero avuto le seguenti dimensioni: m. 70 x 70 (Caniggia, Lettura di una città; p. 45); m. 75 x 75 (Mansuelli, Urbanistica, p. 72); tra i 70 e gli 80 m. circa di lato (Castagnoli, Ippodamo di Mileto e l’urbanistica a pianta ortogonale, Roma 1956, p. 93); tra i 75 ed i 78 metri di lato (Mirabella Roberti, Urbanistica, p. 18). Bisogna però dire che non tutte paiono delle medesime dimensioni. Si può comunque ragionevolmente ritenere che potessero ospitare 250-260 persone [v. infra p. 521 nt. 77]. 432 Meticolosi ed assolutamente verosimili sono al riguardo i calcoli e le ipotesi formulate per Pavia (ma il dato credo si possa tranquillamente estendere) dal Tibiletti, Storie locali, p. 221 s. e pianta a p. 209. Per Como non ho naturalmente computato lo spazio del foro, del porto, del teatro, della basilica e delle terme, elementi questi che possono essere, sia pure con una certa approssimazione, individuati. Si vedano i preziosi suggerimenti del Caniggia, Lettura di una città, cit.; e del Mirabella Roberti, Urbanistica, cit. [Ed ora di S. Maggi, Como Romana: la forma urbis. Problemi e proposte di studio, in Novum Comum 2050 (Atti del Convegno celebrativo della fondazione di Como romana), Como 1993, p. 171 ss.]. 433 E` interessante notare, a conforto della verosimiglianza dei dati raggiunti, che nel censimento del 1881 (per tanti versi significativo) nella città murata figuravano 10.865 abitanti e 2.995 famiglie. Il Duncan Jones, The economy of the Roman Empire. Quantitative Studies, Cambridge 1974, p. 267, fondandosi soltanto sui coloni dedotti da Cesare (che per lui furono 4.500, dovendosi detrarre i 500 Greci non residenti), indica come cifra approssimativa per la popolazione libera di Como e del suo territorio 15.700 unità (vi dobbiamo però aggiungere i coloni di Scipione e gli indigeni). A questo risultato egli perviene supponendo che gli adulti maschi fossero 2/7 (28.6%) dell’intera popolazione libera. 434 Cfr. Tozzi, Storia padana antica. Il territorio fra Adda e Mincio, Milano 1972, p. 16 s. 435 Attorno alla città sono infatti visibilissime le tracce dell’intervento pianificatorio romano sia nelle strutture edilizie sia in quelle agrarie (cfr. Caniggia, Lettura di una città, p. 44). Acute considerazioni al riguardo sono anche in Mansuelli, Urbanistica, p. 105. Più in generale sullo sviluppo del suburbium nelle città dell’Italia settentrionale v. F. Sartori, Verona Romana, in Verona e il suo territorio, I, Verona 1960, pp. 189, 212; Tozzi, Storia padana antica, p. 135. 436 Si veda, da ultimo, l’esauriente indagine di S. Maggi, L’insediamento romano nel territorio di Comum, in RAComo, 164 (1982), p. 125 ss. 222 delle particolari condizioni geomorfologiche e climatiche della zona437. Fu con Cesare, comunque, che la città assunse il suo aspetto definitivo (che è, in fondo, quello odierno). Le vicende successive appaiono, su quel corpo armonico e compatto, come dei ritocchi di modesta portata che in genere si risolsero nella occupazione degli spazi vuoti del pomerio e di una fascia esterna alle mura, il cui perimetro, tuttavia, nel tratto prospiciente il lago, dovette subire, con ogni probabilità, ripetuti ampliamenti per far posto ad alcuni impianti specialistici (porto, basilica, portici ecc.)438 e per soddisfare le accresciute esigenze demografiche della città, la cui popolazione libera, almeno in età pliniana (precisamente fra il 111 ed il 113), doveva ammontare, secondo una recente stima, a ben 14.700-17.000 unità439. Da Caniggia, “Lettura di una città: Como”, con aggiunte e correzioni dell’Autore. 437 Cfr. Luraschi, Foedus, pp. 175 ss., 352 ss., 423 s., 504. Cfr. le ipotesi formulate alle note 57 e 59. 439 Cfr. Duncan Jones, The economy, p. 266 s. 438