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Unità 1, Tracce di fantasia

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Unità 1, Tracce di fantasia
Volume 1, Unità 1
Unità 1
Tracce di fantasia
Esercizi di comprensione di lettura
Gianni Rodari
Lev Nickolaevič Tolstoj
Jacob e Wilhelm Grimm
Oscar Wilde
La strada che non andava
in nessun posto
I due cavalli
Il principe senza paura
Il gigante egoista
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Volume 1, Unità 1
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GIANNI RODARI
La strada che non andava in nessun posto
In questa fiaba moderna scritta da Gianni Rodari (1920-1980) la morale tradizionale viene ribaltata e la trasgressione del giovane Martino, che, solo, ha il coraggio di percorrere una strada nuova,
non viene punita ma ricompensata.
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All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la
seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.
Martino lo sapeva perché l’aveva chiesto un po’ a tutti, e da tutti aveva avuto la stessa risposta:
«Quella strada lì? Non va in nessun posto. È inutile camminarci».
«E fin dove arriva?»
«Non arriva da nessuna parte».
«Ma allora perché l’hanno fatta?»
«Non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì».
«Ma nessuno è mai andato a vedere?»
«Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…»
«Non potete saperlo se non ci siete stati mai».
Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui
non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.
Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare una mano
al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. In fondo era pieno di buche e di
erbacce, ma per fortuna non pioveva da un pezzo, così non c’erano pozzanghere. A destra e a sinistra si allungava una siepe, ma ben presto cominciavano i
boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano
una galleria scura e fresca, nella quale penetrava solo qua e là qualche raggio di
sole a far da fanale.
Cammina e cammina, la galleria non finiva mai, la strada non finiva mai, a
Martino dolevano i piedi, e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a
tornarsene indietro quando vide un cane.
«Dove c’è una cane c’è una casa», rifletté Martino, «o per lo meno un
uomo».
Il cane gli corse incontro scodinzolando, gli leccò le mani, poi si avviò lungo
la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.
«Vengo, vengo», diceva Martino, incuriosito. Finalmente il bosco cominciò a
diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande
cancello di ferro.
Attraverso le sbarre Martino vide un castello con tutte le porte e le finestre
spalancate, e il fumo usciva da tutti i comignoli, e da un balcone una bellissima
signora salutava con la mano e gridava allegramente:
«Avanti, avanti, Martino Testadura!»
«Toh» si rallegrò Martino, «io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì».
Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l’inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era bella, e
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VerificheVolume 1, Unità 1
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vestita anche meglio delle fate e delle principesse, e in più era proprio allegra
e rideva:
«Allora non ci hai creduto».
«A che cosa?»
«Alla storia della strada che non andava in nessun posto».
«Era troppo stupida. E secondo me ci sono anche più posti che strade».
«Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni, ti farò visitare il castello».
C’erano più di cento saloni, zeppi di tesori di ogni genere, come quei castelli delle favole dove dormono le belle addormentate o dove gli orchi ammassano
le loro ricchezze. C’erano diamanti, pietre preziose, oro, argento, e ogni momento la bella signora diceva:
«Prendi, prendi quello che vuoi. Ti presterò un carretto per portare il peso».
Figuratevi se Martino si fece pregare. Il carretto era ben pieno quando egli
ripartì. A cassetta sedeva il cane, che era un cane ammaestrato, e sapeva reggere le briglie e abbaiare ai cavalli quando sonnecchiavano e uscivano di strada.
In paese, dove l’avevano già dato per morto, Martino Testadura fu accolto
con grande sorpresa. Il cane scaricò in piazza tutti i suoi tesori, dimenò due volte la coda in segno di saluto, rimontò a cassetta e via in una nuvola di polvere.
Martino fece grandi regali a tutti, amici e nemici, e dovette raccontare cento
volte la sua avventura, e ogni volta che finiva qualcuno correva a casa a prendere carretto e cavallo e si precipitava giù per la strada che non andava in nessun posto.
Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro, con la faccia lunga così per
dispetto: la strada, per loro, finiva in mezzo al bosco, contro un fitto muro d’alberi, in un mare di spine. Non c’era più né cancello, né castello, né bella signora. Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova, e il primo era stato Martino Testadura.
(G. Rodari, Favole al telefono, Torino, Einaudi, 1972)
Esercizi
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Chi è il protagonista del racconto?
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Perché lo chiamano “Testadura”?
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Quale scelta fa Martino, contro l’opinione di tutti?
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Chi incontra nel bosco?
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Come viene accolto al castello?
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Che doni gli offre la signora del castello?
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Che cosa fa Martino, una volta tornato a casa?
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Perché ai fratelli non riesce lo stesso tentativo di Martino?
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Che cosa insegna questa favola?
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LEV NIKOLAEVIČ TOLSTOJ
I due cavalli
La favoletta dello scrittore russo Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910) contiene una morale: non
sempre chi fa il furbo ha il successo assicurato e la fine del cavallo della storia ne è una dimostrazione.
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Due cavalli tiravano ognuno il proprio carro. Il primo cavallo non si fermava
mai; ma l’altro sostava di continuo. Allora tutto il carico viene messo sul primo
carro. Il cavallo che era dietro e che ormai tirava un carro vuoto, disse sentenzioso1 al compagno:
«Vedi? Tu fatichi e sudi! Ma più ti sforzerai, più ti faranno faticare».
Quando arrivarono a destinazione, il padrone disse: «Perché devo mantenere due cavalli, mentre uno solo basta a trasportare i miei carichi? Meglio sarà
nutrir bene l’uno, e ammazzare l’altro; ci guadagnerò almeno la pelle del cavallo ucciso!»
E così fece.
(L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura, trad. di N. Odanov, Milano, Longanesi, 1980)
1. sentenzioso: con l’aria di pronunciare un giudizio autorevole.
Esercizi
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Riassumi in tre righe la favola dei due cavalli.
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La morale della favola è che...
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Sottolinea nel testo le sequenze narrative
Precisa se esse hanno un ruolo rilevante o meno nel racconto.
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Sottolinea le parti in discorso diretto.
Ricostruisci la struttura della favola che ti abbiamo proposto, secondo il seguente schema:
a. personaggi:
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b. azione iniziale:
c. dialogo:
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d. azione decisiva:
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e. morale: .....................................................................................................................................................................................................................
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Quali tipologie umane sono rispecchiate nei comportamenti dei due cavalli?
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Come giudichi la morale di questa favola?
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Ti sembra giustificato il comportamento del padrone?
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JACOB E WILHELM GRIMM
Il principe senza paura
La fiaba de Il principe senza paura è tratta dalla raccolta che i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm
pubblicarono tra il 1812 e il 1815, attingendo alla tradizione popolare tedesca.
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C’era una volta un principe che non voleva più stare a casa di suo padre; e
poiché non aveva paura di nulla, pensò: «Me ne andrò per il mondo in modo da
non annoiarmi, e vedrò ogni sorta di cose». Così prese congedo dai suoi genitori e se ne andò, camminando da mane a sera, senza badare dove lo portasse la
strada. Gli accadde di arrivare alla casa di un gigante e, poiché era stanco, si
sedette davanti alla porta a riposare. E, mentre il suo sguardo vagava qua e là,
vide per terra, nel cortile del gigante, dei giochi: qualche palla enorme e dei
grossi birilli. Dopo un po’, gli venne voglia di giocare, raddrizzò i birilli e si mise
a tirare le palle; quando i birilli cadevano, gridava, strillava e si divertiva. Il gigante udì il rumore, si affacciò alla finestra e scorse un uomo non più alto degli altri,
che tuttavia giocava con i suoi birilli. Allora gli gridò:
«Vermiciattolo, chi ti ha dato la forza per giocare con i miei birilli?»
Il principe alzò gli occhi, vide il gigante e disse:
«Babbeo1, credi forse di essere l’unico a possedere delle braccia robuste? Io
so far tutto quel che mi piace!»
Il gigante scese, lo guardò tutto meravigliato e disse:
«Uomo, se sei di tal fatta, va’ a prendermi una mela dell’albero della vita».
«Che cosa vuoi farne?» domandò il principe.
«Non è per me» rispose il gigante «è la mia fidanzata che la vuole; ho già girato dappertutto, ma non riesco a trovare l’albero».
«Mi basterà mettermi in cammino» rispose il principe «e sicuramente troverò l’albero; e mi parrebbe proprio strano se non riuscissi a cogliere la mela!»
Il gigante disse:
«Non è così facile come credi. Il giardino in cui si trova la pianta è circondato da una cancellata di ferro e davanti a essa vi sono, accovacciate l’una accanto all’altra, delle bestie feroci, che fanno la guardia e non lasciano entrare nessuno».
«Vedrai se non mi lasceranno entrare!» disse il principe.
«Ma se anche arrivi nel giardino e vedi la mela sull’albero, non è ancora tua:
davanti c’è un anello e bisogna infilarci la mano, se si vuole raggiungere e cogliere la mela, e questo non è ancora riuscito a nessuno».
«Oh, è riservato a me» disse il principe «io ci riuscirò!»
Prese congedo dal gigante e se ne andò per monti e valli, per campi e boschi,
finché trovò il giardino incantato. Le belve erano accovacciate all’intorno, ma
stavano a testa bassa e dormivano. Al suo arrivo non si svegliarono, ed egli le
scavalcò, salì sulla cancellata e giunse felicemente nel giardino. In mezzo vi scorse l’albero della vita con le mele rosse che luccicavano fra i rami. Il principe si
arrampicò sul tronco, e mentre stava per cogliere una mela vide un anello pendere davanti al frutto, ma poté introdurvi la mano senza fatica, e staccare la
mela. L’anello però si strinse al suo braccio, ed egli sentì una gran forza pervaderlo all’improvviso, tanto che pensò di poter dominare ogni cosa; in realtà questa forza gliela dava l’anello. Quando ridiscese dall’albero, non volle arrampicar-
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si sulla cancellata, ma afferrò il gran portone, lo scrollò e quello si spalancò con
uno schianto. Egli uscì, e il leone, che era disteso là davanti, si svegliò e lo seguì
di corsa, non feroce e selvaggio, ma con umiltà, come se il principe fosse il suo
signore, e non lo abbandonò più.
Il principe portò al gigante la mela che gli aveva promesso.
«Vedi» disse «l’ho colta senza fatica».
Il gigante si rallegrò di avere ottenuto così in fretta ciò che aveva tanto desiderato, corse dalla sua fidanzata e le diede la mela. Ella era una fanciulla bella
e accorta e, non vedendo l’anello al suo braccio, disse:
«Non credo che tu abbia colto la mela, se prima non vedo l’anello al tuo braccio».
«Oh» disse il gigante «non ho che da andare a prenderlo a casa».
E pensava di portarlo via con la forza a quell’omino debole, se non voleva
darglielo spontaneamente. Tornò a casa a pretese che il principe gli desse l’anello, ma quello non voleva.
«Dov’è la mela, deve esserci anche l’anello» disse il gigante. «Se non me lo
dai, dovrai lottare con me!»
Lottarono a lungo, ma il gigante non poté nuocere al principe, divenuto fortissimo grazie alla virtù magica dell’anello. Allora il gigante escogitò un’astuzia
e gli disse:
«La lotta ci ha fatto venire caldo: bagniamoci nel fiume e rinfreschiamoci,
prima di ricominciare».
Il principe, che non conosceva la slealtà, andò con lui al fiume, si tolse i vestiti, e anche l’anello dal braccio, e si tuffò nell’acqua. Subito il gigante afferrò
l’anello e corse via; ma il leone, che seguiva sempre il suo padrone, si accorse
del furto, l’inseguì e glielo strappò. Allora il gigante andò su tutte le furie, tornò al fiume e, mentre il principe era occupato a rivestirsi, lo agguantò e gli cavò
gli occhi.
Il povero principe adesso era cieco e non sapeva che fare. Il gigante gli si
avvicinò di nuovo con intenzioni cattive. In silenzio, prese il cieco per mano,
come qualcuno che volesse guidarlo, e lo condusse in cima a un’alta rupe. Poi
lo abbandonò e pensò: «Se fa ancora due passi, si uccide cadendo, e io posso
prendergli l’anello». Ma il fedele leone non aveva abbandonato il suo padrone;
lo trattenne per il vestito e, a poco a poco, lo fece tornare indietro. Quando il
gigante tornò per derubare il morto, lo trovò vivo e vegeto.
«Possibile che non si riesca a mandare in malora un essere umano così misero!» disse furioso fra sé e sé; prese nuovamente il principe per mano, e lo ricondusse all’abisso per un’altra via. Ma il leone si accorse del proposito malvagio e,
fedelmente, salvò il suo padrone anche da quel pericolo. Quando giunsero sull’orlo del precipizio, il gigante abbandonò la mano del cieco per lasciarlo solo;
allora il leone gli si scagliò addosso con tutta la sua forza, sicché il mostro precipitò nell’abisso e si sfracellò.
Poi l’animale allontanò di nuovo il suo padrone da quel luogo, e lo condusse
a un albero, vicino al quale scorreva un limpido ruscello. Il principe si mise a
sedere, mentre il leone si distese e gli spruzzò l’acqua in viso. Qualche goccia si
posò sui suoi occhi e li bagnò, e il principe si accorse che la vista gli tornava,
poiché aveva scorto una luce e poteva distinguere qualcosa accanto a sé. Era
1. Babbeo: sciocco.
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un uccellino che passò accanto al suo viso e urtò contro il tronco dell’albero,
proprio come se fosse cieco. Allora si lasciò cadere nell’acqua, vi si bagnò, poi
si alzò in volo e volò sicuro rasente agli alberi, proprio come se avesse riacquistato la vista. Il principe comprese che si trattava di un segno divino, si chinò
sull’acqua e vi bagnò il volto. E quando si drizzò, aveva di nuovo i suoi occhi,
chiari e limpidi come non erano mai stati.
Il principe ringraziò Dio per quel miracolo e continuò a girare il mondo con
il suo leone. Un giorno giunse davanti a un castello incantato. Sulla porta c’era
una fanciulla di bella persona e di viso leggiadro, ma tutta nera. Gli rivolse la
parola e disse:
«Ah, se tu potessi liberarmi dal maleficio che qui mi tiene in suo potere!»
«Che cosa devo fare per liberarti?» domandò il principe.
La fanciulla rispose:
«Devi passare tre notti nel salone del castello incantato, senza che nel tuo
cuore entri la paura. Se sopporterai senza un lamento le torture che ti faranno,
sarò libera; non potranno comunque toglierti la vita».
Disse il principe:
«Tenterò con l’aiuto di Dio: non temo nulla a questo mondo».
Così entrò allegramente nel castello, si sedette nel salone e attese che si
facesse notte. Tutto tacque fino a mezzanotte, poi scoppiò un gran baccano e
da tutti gli angoli sbucarono dei piccoli diavoli. Fecero finta di non vederlo,
sedettero in mezzo alla stanza, accesero un fuoco e si misero a giocare. Quando uno perdeva diceva:
«Non è giusto: c’è qui qualcuno che non è dei nostri, e la colpa è sua se perdo!»
«Aspetta, che vengo, tu, là dietro la stufa!» diceva un altro.
Le urla erano sempre più forti, e nessuno avrebbe potuto ascoltarle senza
aver paura. Il principe tuttavia non ne ebbe affatto. Alla fine i diavoli saltarono
in piedi e gli si scagliarono addosso; ed erano tanti che egli non poté difendersi. Lo trascinarono a terra, lo pizzicarono, lo punzecchiarono, lo picchiarono e
lo torturarono, ma egli sopportò tutto senza avere paura e senza un lamento.
Verso mattina sparirono, ed egli era così spossato2 da non potersi muovere. Ma
allo spuntar del giorno venne da lui la fanciulla nera. Teneva in mano una bottiglietta in cui era l’acqua della vita; lo lavò con quell’acqua, e subito ogni dolore sparì, ed egli si sentì fresco e sano. Ella gli disse:
«Hai superato facilmente una notte, ma ne hai ancora due davanti a te».
Poi se ne andò, e mentre si allontanava, egli notò che i suoi piedi erano diventati bianchi. La notte seguente tornarono i diavoli, e ricominciarono il loro gioco; ma ben presto si scagliarono sul principe e lo picchiarono con violenza, molto più crudelmente della prima notte, sicché il suo corpo era pieno di ferite. Ma
poiché egli sopportò tutto in silenzio, dovettero lasciarlo; e quando spuntò l’aurora, comparve nuovamente la fanciulla che lo risanò con l’acqua della vita.
Quand’ella se ne andò, egli vide con gioia che era diventata tutta bianca, meno
la punta delle dita.
Ora egli doveva superare solamente una notte, ma era la peggiore. I diavoli
tornarono.
«Sei ancora qui?» gridarono. «Ti tortureremo da mozzarti il fiato».
2. spossato: sfinito.
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Lo punsero e lo picchiarono, lo gettarono di qua e di là e gli tirarono braccia
e gambe, come se volessero squartarlo. Ma egli non diede un lamento e non ebbe
paura, e si consolava pensando che tutto ciò sarebbe passato e che la fanciulla
sarebbe stata liberata dal maleficio. Ma quando i diavoli sparirono, egli giaceva
immobile e privo di sensi; non poté neanche alzare gli occhi per vedere la fanciulla che entrava e lo bagnava con l’acqua della vita. E d’un tratto scomparve
ogni dolore, ed egli si sentì fresco e sano come se si fosse appena svegliato dal
sonno. E quando aprì gli occhi, vide accanto a sé la fanciulla, bianca come la
neve e bella come il sole.
«Alzati!» diss’ella «e brandisci per tre volte la tua spada sulla scala, così tutto sarà libero».
E quand’egli l’ebbe fatto, tutto il castello fu sciolto dall’incantesimo e la fanciulla era una ricca principessa.
Entrarono i servi e dissero che nel salone la tavola era preparata e il pranzo
già servito. Si sedettero, mangiarono e bevvero insieme, e la sera furono celebrate le nozze in grande esultanza.
(Jacob e Wilhelm Grimm, Favole, trad. di E. Ceva Valla, Milano, Rizzoli, 1980)
Esercizi
1
Sottolinea nel testo le sequenze narrative e precisa se esse hanno un ruolo rilevante o meno nel racconto.
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Sottolinea quindi le sequenze descrittive e quelle riflessive: ti sembrano importanti nel contesto della storia?
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Sottolinea le parti in discorso diretto e riscrivile in discorso indiretto.
In questa fiaba fabula e intreccio coincidono?
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Vi sono analessi e/o prolessi significative? Se sì, in quali punti?
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A quanti movimenti è la fiaba che ti è stata presentata?
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Riesci a rintracciare in essa alcune funzioni di Propp? Quali?
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8
Il principe protagonista è un eroe «cercatore» o «vittima». Motiva la risposta.
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9
Indica i ruoli dei personaggi che agiscono in questa fiaba:
a. eroe:
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b. principessa: ............................................................................................................................................................................................................
c. falso eroe: ..............................................................................................................................................................................................................
d. antagonista:
e. aiutante:
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f. donatore: .................................................................................................................................................................................................................
g. mandante:
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10 In quale spazio è ambientata la fiaba? Si tratta di uno spazio e di un tempo precisi, oppure vaghi e indeterminati?
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GIUDIZIO
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Volume 1, Unità 1
OSCAR WILDE
Il gigante egoista
Il racconto dello scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900) è tratto dalla raccolta Il principe
felice e altri racconti, pubblicata nel 1888. La narrazione semplice e avvincente sembra rimandare
al mondo delle fiabe: Wilde scrisse queste storie per i suoi figli ai quali, con racconti raffinati e squisitamente letterari, colmi di frequenti allusioni a simboli cristiani, vuole parlare della vita. Il richiamo agli elementi fiabeschi resta comunque solo il punto di partenza per una storia che ne imita il
tono, l’ambientazione e l’andamento narrativo ma che, in realtà, non conserva più nulla della funzione originaria della fiaba e delle sue origini popolari.
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Ogni pomeriggio, al ritorno da scuola, i bambini solevano andare a giocare
nel giardino del Gigante.
Era un giardino grande e bellissimo, tappezzato di soffice erba verde. Qua e
là sull’erba occhieggiavano fiori simili a stelle, e vi erano dodici peschi che a primavera si coprivano di delicati boccioli di rosa e di perla, e in autunno producevano frutti opulenti1. Gli uccelli sedevano sugli alberi e cantavano con tanta
dolcezza che i bambini interrompevano spesso i loro giochi per starli ad ascoltare.
«Come siamo felici, qui!» dicevano gli uni agli altri.
Un giorno il Gigante tornò. Era stato in visita da un suo amico, l’orco di Cornovaglia, e ci era rimasto sette anni. In capo a sette anni, avendo detto tutto
quello che aveva da dire, poiché la sua conversazione era limitata, decise di rientrare nel proprio castello. Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino.
«Che cosa fate qua?» gridò con una voce terribilmente burbera, e i bambini
scapparono via di corsa.
«Il mio giardino è il mio giardino, – disse il Gigante – chiunque deve capirlo,
e non permetterò a nessuno di giocarci all’infuori di me». Perciò vi costruì tutt’attorno un muro altissimo, e fece affiggere un cartello:
I TRASGRESSORI
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Era un Gigante molto egoista.
I poveri bambini non avevano più un posto dove giocare. Tentarono di giocare
sulla strada, ma la strada era piena di polvere e irta di pietre taglienti, e a loro non
piaceva. Avevano presa l’abitudine di gironzolare attorno alle alte mura, quando le
loro lezioni erano terminate, parlando del bel giardino che vi era nascosto dentro.
«Come eravamo felici, lì!» dicevano gli uni agli altri.
Poi venne la Primavera, e tutta la contrada era profumata di giovani fiori e cinguettante di uccellini. Nel giardino del Gigante Egoista, però, era tuttora inverno. Gli uccelli non si curavano di andarvi a cantare poiché mancavano i bambini,
e gli alberi si dimenticarono di germogliare. Una volta un bel fiorellino mise la testa
fuor del prato, ma quando vide il cartello gli dispiacque talmente per i bambini,
che si rificcò subito a dormire. Le sole persone contentissime della situazione erano la Neve e il Gelo. «La Primavera ha dimenticato questo giardino, – gridavano
1. opulenti: ricchi, rigogliosi.
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– perciò noi ci abiteremo tutto l’anno». La Neve coprì l’erba del suo ampio mantello candido, e il Gelo dipinse d’argento tutti gli alberi. Poi invitarono a restare
con loro il Vento del Nord, e questi venne. Era tutto impellicciato, e non fece che
soffiare tutto il giorno in giardino, abbattendo i comignoli.
«Che posto delizioso, – disse – dobbiamo invitare la Grandine a venirci a trovare». Così venne anche la Grandine. Ogni giorno, per tre ore consecutive, tambureggiò sul tetto del castello finché ruppe quasi tutti i tegoli, e poi si mise a
correre in giro per il giardino con una rapidità incredibile. Era vestita di grigio,
e il suo respiro era come ghiaccio.
«Non riesco a capire perché la Primavera tarda tanto a venire» diceva il Gigante Egoista, mentre sedeva alla finestra a guardare il suo giardino freddo e bianco. «Spero che il tempo cambi presto».
Ma la Primavera non venne mai, e nemmeno l’Estate. L’Autunno portò in ogni
giardino frutti dorati, ma nel giardino del Gigante non ne portò neppur uno. «È
troppo egoista» disse. Così laggiù regnava sempre l’Inverno, e il Vento del Nord
e la Grandine, e il Gelo, e la Neve danzavano senza posa tra gli alberi.
Un mattino il Gigante stava poltrendo in letto quando intese una musica dolcissima. Suonava così melodiosa alle sue orecchie che pensò fossero i musicanti del Re che passavano di lì. In realtà non era che un piccolo fanello2 che cantava fuor della sua finestra, ma da tanto non udiva più un uccello cantare nel
suo giardino che gli parve la più meravigliosa musica del mondo. Poi a un tratto la Grandine smise di ballargli sulla testa, e il Vento del Nord cessò di mugghiare, e un profumo delizioso gli giunse dalla finestra spalancata.
«Credo che la Primavera sia arrivata, finalmente!» disse il Gigante e balzò giù
dal letto e guardò fuori.
Che cosa vide?
Vide uno spettacolo meraviglioso. Da una piccola breccia nel muro i bambini erano strisciati in giardino, e ora sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero c’era un bambino. E gli alberi erano così contenti di rivedere i bambini che
subito si erano ricoperti di boccioli e ora agitavano dolcemente le loro braccia
sulle teste dei bambini. Gli uccelli volavano tutt’attorno e cinguettavano felici,
e i fiori facevano capolino sul prato e ridevano. Era una scena deliziosa, solo in
un angolo del giardino era ancora inverno. Era l’angolo estremo, e in esso stava un ragazzino. Era tanto piccolo che non arrivava a toccare i rami dell’albero,
e vi girava tutt’attorno, piangendo disperatamente. Il povero albero era ancora
coperto di gelo e di neve, e il Vento del Nord gli soffiava e sbuffava sopra.
«Sali, ragazzino» diceva l’albero, e abbassava i suoi rami verso terra quanto
più poteva, ma il bimbo era troppo piccino.
Allora, mentre guardava, il Gigante si sentì sciogliere il cuore.
«Come sono stato egoista! – si disse. – Adesso capisco perché la Primavera
non veniva mai da me. Metterò quel povero bambino in cima all’albero, e poi
abbatterò il muro e d’ora innanzi il mio giardino sarà per sempre il campo di giochi dei bambini». Era proprio molto dispiaciuto di quello che aveva fatto.
Perciò scese abbasso piano piano, aprì il portone senza far rumore e uscì in
giardino, ma quando i bambini lo videro ne ebbero così paura che scapparono via
tutti, e il giardino ripiombò un’altra volta in preda all’inverno. Soltanto il ragazzino non fuggì, poiché aveva gli occhi talmente gonfi di lagrime che non vide venire il Gigante. E il Gigante gli si avvicinò di soppiatto, lo prese dolcemente nella
2. fanello: uccello simile al cardellino.
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sua grossa mano e lo posò sull’albero. E subito l’albero si coprì di bocci, e gli uccelli vennero e presero a cantare tra i rami, e il ragazzino tese le braccia e cinse il
collo del Gigante e lo baciò. E gli altri bambini, quando capirono che il Gigante
non era più cattivo, ritornarono di corsa, e con loro venne la Primavera. «È il vostro
giardino, adesso, bambini!» disse il Gigante, e prese una grande scure e abbatté
il muro. E quando la gente si recò al mercato, a mezzogiorno, vide il Gigante che
giocava coi bambini nel più bel giardino che mai fosse esistito.
Giocarono tutta la giornata, e la sera si recarono dal Gigante a salutarlo.
«Ma dov’è il vostro piccolo compagno, – chiese loro il Gigante – il ragazzino
che io ho messo sull’albero?» Il Gigante lo amava più di tutti poiché gli aveva
dato un bacio.
«Non sappiamo, – risposero i bambini – è andato via».
«Dovete dirgli di venire senza fallo domani» disse il Gigante. Ma i bambini gli
spiegarono che non sapevano dove abitasse, poiché non lo avevano mai veduto
prima, e il Gigante ne provò una profonda tristezza.
Ogni pomeriggio, quando la scuola era terminata, i bambini venivano a giocare col Gigante, ma il ragazzino che il Gigante amava nessuno lo vide più. Il
Gigante era molto affettuoso con tutti gli altri bambini, tuttavia si struggeva di
rimpianto per quel suo primo piccolo amico, e spesso parlava di lui. «Come mi
piacerebbe vederlo!» ripeteva spesso.
Passarono molti anni: il Gigante era diventato vecchio e debole. Non aveva
più la forza di giocare, perciò rimaneva seduto in un’immensa poltrona e osservava i bambini intenti ai loro giochi, e ammirava il suo giardino. «Ho molti fiori
bellissimi, adesso, – soleva dire – ma i bambini sono i fiori più belli».
Un mattino d’inverno, mentre si vestiva, diede un’occhiata fuor della finestra. Ormai non odiava più l’Inverno, poiché sapeva ch’esso era soltanto la Primavera addormentata, e che in quel periodo i fiori si riposavano.
A un tratto si fregò gli occhi per la meraviglia e tornò a guardare e a riguardare più volte. Era veramente uno spettacolo straordinario. Nell’angolo più remoto del giardino c’era un albero tutto ricoperto di squisiti boccioli bianchi. Aveva rami d’oro da cui pendevano frutti d’argento, e sotto di esso stava il ragazzino
ch’egli aveva tanto amato.
Fuor di sé dalla gioia il Gigante si precipitò abbasso e corse fuori in giardino.
Attraversò il prato a passi rapidi e si avvicinò al bambino, ma quando gli fu da
presso il suo viso si invermigliò di collera ed egli disse:
«Chi ha osato ferirti?» poiché le palme delle mani del bambino recavano l’impronta di due chiodi, e il segno di due chiodi era impresso sui suoi minuscoli
piedi.
«Chi ha osato ferirti? – ripeté il Gigante – dimmelo, ché io prenderò la mia
grossa spada e lo ucciderò!»
«No, non devi, – rispose il bambino – poiché queste sono le ferite dell’Amore».
«Chi sei tu?» domandò il Gigante, e un misterioso timore lo invase, ed egli si
inginocchiò davanti al piccolo bambino.
E il bambino sorrise al Gigante e gli disse:
«Una volta tu mi hai lasciato giocare nel tuo giardino, oggi verrai con me nel
mio giardino, che è il Paradiso».
E quando i bambini vennero come il solito quel pomeriggio trovarono il Gigante disteso sotto l’albero, morto, tutto coperto di candidi petali.
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(O. Wilde, Racconti, Milano, Rizzoli, 1982)
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Esercizi
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Qual è l’avvenimento decisivo del racconto?
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2
Rispetto alla situazione di partenza, quella finale ti sembra:
a un lieto fine, perché: ........................................................................................................................................................................................
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b un finale tragico, perché: ..............................................................................................................................................................................
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3
Chi è, secondo te, il misterioso bambino che il Gigante trova sotto l’albero?
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4
Sottolinea nel testo i passaggi che ti fanno capire che si tratta di un bambino straordinario.
5
Quali mutamenti opera nel Gigante il ritrovamento del bambino straordinario?
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6
Qual è, secondo te, la “morale” del racconto?
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La storia de Il gigante egoista ti sembra solo una fiaba oppure può contenere spunti interessanti anche per
chi ha superato l’infanzia? Quali?
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Come definiresti questa storia?
a Una fiaba.
b Un racconto con una morale.
c Un racconto con tratti fiabeschi.
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