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Gli eroi della guerra di Troia

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Gli eroi della guerra di Troia
Giorgio Ieranò
Gli eroi della guerra di Troia­
Elena, Ulisse, Achille e gli altri
GLI EROI DELLA GUERRA DI TROIA­
Copyright © 2015 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
www.sonzognoeditori.it
Prima edizione: giugno 2015
ISBN 978-88-454-2602-5
Indice
GLI EROI DELLA GUERRA DI TROIA­
9 Prologo. È mai avvenuta la guerra di Troia­?
27
48
66
93
135
174
191
198
217
Agamennone e Menelao: i re guerrieri
Paride, un principe da favola
Elena e i pericoli della bellezza
Achille ed Ettore, la sfida infinita
Ulisse, l’eroe della nostalgia
Aiace e gli altri: il catalogo degli eroi
Ecuba e il dolore delle madri
Clitennestra: mai fidarsi di una donna
Enea e la nascita di Roma: verso il futuro
227 Epilogo. Memorie televisive
231 Per saperne di più
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Prologo
È mai avvenuta la guerra di Troia­?
T
empo fa chi avesse sostenuto che la guerra di Troia­era
un fatto storico sarebbe stato preso per matto. Lo sapevano
tutti che era una leggenda, una grande favola, un meraviglioso racconto d’amore e di guerra, un teatro di prodigi e di
avventure, un’epopea di passioni e di dolori. La bella Elena
rapita da Paride e portata in Asia, sulle rive dell’Ellesponto,
nella ricca città di Troia­, le cui mura erano state costruite dal
dio del mare in persona, Posidone. La rabbia del marito tradito, Menelao, signore di Sparta, che per riprendersi la moglie armò un esercito di guerrieri provenienti da tutta la Grecia. Eroi poderosi e leggendari: il forte Achille, l’astuto Ulisse, il coraggioso Aiace, il selvaggio Diomede, il pensoso Nestore. E poi il lungo assedio, le infinite battaglie, la polvere
intrisa di sangue, il balenare degli elmi, il cozzare delle spade, lo stridere delle ruote dei carri, il nitrire dei cavalli, il
pianto delle donne: dieci anni di guerra feroce nella pianura
di Troia­, sulle rive del fiume Scamandro. Una guerra a cui
mettono mano anche gli dei, che scendono sul campo di
battaglia con le loro armi d’oro e il fulgore della loro aura
immortale. E tutto che si risolve con un’astuzia, una furbizia
destinata a diventare proverbiale: il cavallo di legno con il
ventre gonfio di guerrieri greci, che di notte escono tra i
troia­ni in festa, convinti che il nemico si sia ritirato. E uccidono gli uomini, sgozzano i ragazzi, stuprano le donne, devastano, incendiano, saccheggiano l’antica rocca di Troia­. E
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ancora il dolore dei vinti, la desolazione delle donne troia­ne
che hanno visto morire i loro figli e mariti, e ora sono condannate alla schiavitù. La fuga dell’esule Enea, con i pochi
superstiti, verso le coste del Lazio, dove un giorno sorgerà la
gloria di Roma. E i dolorosi ritorni degli eroi greci verso le
loro case, la lunga epopea del dopoguerra. Il destino infelice
di Ulisse che vaga dieci anni per mari sconosciuti, tra mostri
e prodigi, sognando sempre la sua Itaca. E la sorte ancora
più infelice di Agamennone, ammazzato a tradimento dalla
moglie infedele, la demoniaca Clitennestra, dopo avere rimesso piede nella sua reggia di Micene.
Sono storie che tutti conoscono, le pietre angolari su cui
si è costruito l’edificio della cultura europea, anzi mondiale.
E nessuno, una volta, dubitava che fossero solo leggende,
invenzioni della fantasia collettiva, se non creazioni di poeti
individuali. Poeti come Omero, a cui gli antichi attribuivano
i due grandi canti epici che hanno consacrato nei millenni la
storia della guerra troia­na: l’Iliade (Ilio era l’altro nome di
Troia­, mutuato dal fondatore, Ilo) e l’Odissea. L’Iliade è un
poema guerresco, che avrebbe anche potuto intitolarsi Achil­
leide, poiché narra appunto le vicende di alcuni giorni soltanto nell’ultimo dei dieci lunghi anni dell’assedio: il furore
di Achille, che prima lascia il campo di battaglia, avendo litigato con Agamennone, e poi riprende a combattere per vendicare l’amico Patroclo, ucciso dai troia­ni. L’Odissea, invece,
è la storia del ritorno di Ulisse in patria, dei suoi vagabondaggi, delle sue avventure marinare, dei suoi sconfinamenti
in mondi lontani dalla civiltà, dove vivono mostri e divinità,
la maga Circe e il Ciclope Polifemo, le Sirene e la ninfa Calipso. Fino al ritorno in patria e alla vendetta contro i proci
(dal latino procus, “pretendente, corteggiatore”, che traduce
il greco mnesteres): i principi arroganti che insidiavano sua
moglie Penelope, e gli mangiavano la casa e le greggi, convinti, gli sciocchi, che il re di Itaca non sarebbe mai rientrato
in patria.
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Queste sono le vicende della guerra troia­na, e del suo dopoguerra. Favole belle che hanno fornito materiale per due
millenni e mezzo di poesie, romanzi, drammi e film. Nel 1856
uno dei più grandi studiosi della Grecia antica, George Grote,
ammoniva: «Stiamo attenti a non confondere i miti con la storia reale e documentabile.» E la guerra di Troia­era appunto
questo: un puro mito. Era assurdo cercarvi una verità storica.
Poi, a scompigliare quest’opinione consolidata, vennero gli
scavi di un dilettante di genio, il commerciante e avventuriero tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890), che, Iliade alla
mano, scoprì nel 1870 sulle coste dell’Ellesponto, gli odierni
Dardanelli, le rovine di una città antica e la identificò senza
esitazioni con la Troia­omerica. Schliemann è una figura affascinante, ambigua, istrionica e non priva di aspetti cialtroneschi: la sua biografia meriterebbe di essere considerata a parte, come se fosse la vita di un eroe antico. La sua scoperta
sembrò rovesciare la prospettiva consueta. Ecco, dissero molti, avete visto che non era tutta una favola? Avete visto, voi
scettici, che Troia­esisteva davvero? Anzi, nell’opinione di
Schliemann, uno degli strati archeologici della città appena
scoperta era databile esattamente nel periodo in cui la tradizione antica situava la guerra di Troia­(tra il 1194 e il 1184 a.C.,
secondo l’erudito greco Eratostene, ma altri la situavano in
epoche diverse: lo storico Duride di Samo, per esempio, datava la caduta della città molto prima, nell’anno 1334 a.C.). Gli
scavi di Schliemann sembravano insomma restituire una dimensione di verità alla leggenda, trasformavano in realtà un
luogo che si credeva esistesse solo nella fantasia poetica di
Omero. Gli eroi omerici, Achille, Ulisse, Ettore, bussavano alla porta della storia.
Ma non tutto quadrava nella ricostruzione di Schliemann.
C’erano incoerenze nei suoi approssimativi rapporti di scavo.
Gli archeologi che, nei decenni successivi, fino al 1938, lavorarono con maggiore rigore scientifico sul sito della presunta
Troia­omerica (Wilhelm Dörpfeld e Carl Blegen), arrivarono
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a conclusioni almeno in parte diverse. Le date non collimavano esattamente, come l’avventuroso tedesco pretendeva.
Lo strato archeologico che doveva coincidere cronologicamente con la guerra omerica era in realtà un piccolo villaggio poco simile alla gloriosa e potente città dell’Iliade. Nulla
permetteva di collegare con certezza e in modo diretto le
rovine scoperte da Schliemann all’epopea omerica. In un
suo saggio del 1954, Il mondo di Odisseo, l’illustre storico Moses Finley diede nuovo fiato alle ragioni di chi negava la verità storica della guerra troia­na: «La guerra di Troia­è un evento senza tempo che fluttua in un mondo senza tempo.» E
alcuni anni dopo insisteva: «Non cerchiamo di scrivere la
storia della Francia medievale basandoci sulla Chanson de Ro­
land o la storia della Germania medievale usando il Nibelun­
genlied. Perché allora dovremmo fare un’eccezione per Omero e la guerra di Troia­?»
Lasciamo dunque la guerra troia­na nel mondo senza tempo della leggenda, ammoniva Finley. Ma il grande storico era
morto da solo due anni quando, nel 1988, un altro archeologo tedesco ricominciò a scavare nel sito di Troia­, che per cinquant’anni era stato abbandonato. Si chiamava Manfred Korf­
mann, e ormai è morto anche lui (nel 2005). I suoi scavi riscattarono la memoria di Schliemann, cercando di dimostrare che Troia­era davvero una delle città più importanti del suo
tempo, verso la fine del II millennio a.C., ed era una vera metropoli, molto più ricca ed estesa di quanto si fosse immaginato. Che intorno a quella città si fosse scatenata una grande
guerra, la cui memoria era durata nei secoli, appariva credibile a Korfmann. Fino alla sua morte, l’archeologo tedesco cercò con pazienza certosina una corrispondenza tra la topografia che emergeva dagli scavi e i luoghi descritti nel racconto
omerico. La sostanziale storicità della narrazione di Omero
appariva indiscutibile. Gli scavi di Korf­mann, sponsorizzati
da una nota casa automobilistica tedesca, fecero molto rumore. Giornali e televisioni di tutto il mondo ne parlarono.
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Ancora una volta gli eroi omerici reclamavano il loro posto
nella storia.
Così, oggi, sono in molti a pensare che la guerra di Troia­
sia accaduta davvero. Sostenerlo non è più un’eresia o una
bestemmia. Siamo tornati a pensarla come gli antichi greci.
Come lo storico ateniese Tucidide che, nel V secolo a.C., dava
per scontato che il racconto di Omero si riferisse a fatti realmente accaduti più di mezzo millennio prima. Anche se Tucidide ammoniva che, ovviamente, Omero non era da prendere alla lettera: come tutti i poeti, abbelliva e ingigantiva la
realtà. Rispetto ai tempi in cui Schliemann compì i suoi scavi, molti altri aspetti della storia del Mediterraneo antico del
II millennio a.C. sono usciti dall’ombra. Abbiamo scoperto
nuove testimonianze sulla fase più antica della civiltà greca,
la cosiddetta epoca “micenea” (dal nome del suo centro più
importante, la città di Micene, dove secondo il mito regnava
Agamennone): una civiltà di guerrieri e pirati, ricchi e potenti, sottoposti al governo di sovrani arroccati nei loro palazzi,
che dominò l’Egeo tra il 1600 e il 1200 a.C. Ma abbiamo migliorato anche la conoscenza di quanto accadeva sull’altra
sponda dell’Egeo, in Anatolia, l’odierna Turchia. Per esempio, abbiamo decifrato, nel 1917, la scrittura del grande impero degli ittiti, rivale dei Faraoni di Egitto. Scoprendo che
anche gli ittiti, come i greci, appartenevano alla grande famiglia dei popoli indoeuropei. E ritrovando, negli archivi imperiali di Hattusha, capitale del regno ittita, parole che sembrano rimandare al mondo di Omero: il popolo degli Ahhijiawa
(forse gli achei?), la città di Wilusa (Ilio?), dove regnava un
Alaksandus (forse Alessandro, altro nome del principe troia­
no Paride?). Ma sono ancora molte le cose che non conosciamo di quell’epoca in cui la fantasia dei greci situava la guerra
di Troia­. Per esempio, come siano caduti in rovina sia i regni
micenei sia l’impero ittita resta per noi ancora un mistero, un
grande punto interrogativo. Forse hanno giocato un ruolo le
scorrerie dei misteriosi “Popoli del mare” che troviamo citati
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in alcuni documenti egizi dell’epoca. Ma le testimonianze
sono troppo vaghe per permetterci di ricostruire un quadro
preciso.
È difficile pretendere di dire verità assolute e indiscutibili
su un’epoca tanto remota. Nella presentazione della traduzione italiana di un libro dello storico americano Barry Strauss
(La guerra di Troia­, Laterza, Roma-Bari 2007) si legge: «Oggi
sappiamo – così ci raccontano le nuove fonti dell’archeologia
e della storiografia – che Troia­era una città ricca e potente,
vassallo dell’impero ittita, e che il conflitto fu il culmine di una
lunga faida tra greci e troia­ni per il potere, la ricchezza e l’onore.» Ma possiamo davvero essere così categorici? Possiamo
affermare, in assoluta tranquillità, che la favola di Elena e del
suo tradimento nascondeva la realtà di una guerra nata tra
due potenze rivali per il controllo del commercio nel Mediterraneo orientale, attraverso il dominio su un luogo strategico come lo stretto dei Dardanelli? E, se pure ammettiamo
che dietro il racconto di Omero ci sia una verità storica, possiamo considerare un poema epico come un qualsiasi altro
documento, soltanto un po’ più impreciso? La poesia epica ha
le sue leggi, le sue convenzioni, le sue finzioni, che non sono
quelle della storiografia. L’Iliade e l’Odissea nascono da una
lunga tradizione di canti incentrati intorno al mondo degli
eroi e degli dei. Agamennone, Achille, Ulisse, Elena sono personaggi complessi, la cui storia mitologica non si riduce alle
battaglie della guerra troia­na.
Gli altri protagonisti della saga troia­na, accanto agli eroi,
sono i cantori. I poeti che, attraverso i secoli, hanno prolungato la leggenda della gloriosa città dell’Asia saccheggiata e distrutta a causa del tradimento di una donna. Primo fra tutti,
ovviamente, Omero, l’autore (vero o presunto) dell’Iliade e del­
l’Odis­sea. Ancora una volta persone ed eventi tanto lontani da
noi sono avvolti in una nebbia impenetrabile. Ci s’interroga
da millenni sulla storicità della guerra di Troia­ma ci s’interroga da sempre anche sulla storicità di Omero. È davvero esistito
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un poeta con questo nome? E davvero è l’autore dei due poemi che gli sono attribuiti, peraltro insieme a tanti altri, andati
perduti? E quando, e come, furono composte l’Iliade e l’Odis­
sea? Sulla vita di Omero abbiamo solo notizie leggendarie che
già agli antichi apparivano lacunose e insufficienti. Gli venivano attribuite, oltre ai due grandi poemi, anche varie opere minori, come la eroicomica Battaglia dei topi e delle rane (Batraco­
miomachia) che tanto divertì il giovane Giacomo Leopardi, o
come gli Inni omerici, collezione di canti in onore delle divinità.
Si discuteva dove fosse nato esattamente Omero. Forse a Chio,
isola dell’Egeo nord-orientale? Oppure a Smirne, in Asia Minore? Lo scrittore Luciano, dissacrante e irriverente autore
della Storia vera (il titolo è ironico perché si tratta di una collezione di fandonie), si fa gioco di tutte queste dispute narrando
un incontro con Omero nell’Isola dei Beati: «Sì, lo so cosa dicono i greci» è la versione di Omero. «Ma io sono nato a Babilonia: in realtà mi chiamo Tigrane.» Un modo scherzoso per
dire che la verità non la sapremo mai. Di Omero si narrava che
fosse cieco. Si pretendeva che fosse morto uccidendosi per la
disperazione di non essere riuscito a rispondere a un indovinello postogli da alcuni pescatori. L’indovinello diceva: «Quello che noi abbiamo preso, l’abbiamo lasciato; quanto non abbiamo preso, ce lo portiamo.» La risposta, che a Omero non
venne in mente, è: le pulci. Quelle che i pescatori erano riusciti
a trovare le avevano tolte, le altre erano rimaste loro addosso.
La cecità e il rapporto con gli indovinelli sono dettagli
che caratterizzano spesso nella tradizione greca figure eccezionali come i sapienti o i profeti. Comunque, a parte queste
vaghe e favolose notizie biografiche, sappiamo poco altro su
Omero. L’unico punto fermo e indiscutibile è che i poemi
omerici vennero messi per iscritto nella seconda metà del VI
secolo a.C. ad Atene, ai tempi del tiranno Pisistrato. Ma il
grande storico greco Erodoto (484-425 a.C.) ci dice di essere
sicuro che Omero era vissuto quattrocento anni prima di lui,
quindi nel IX secolo a.C. E, come abbiamo visto, i greci data15
vano le vicende della guerra di Troia­ancora più indietro nel
tempo, tra il XIV e il XII secolo a.C. Quando vengono messi
per iscritto ad Atene, in un’edizione per così dire “ufficiale”,
i poemi omerici hanno dunque una lunga storia alle spalle.
Ma cosa possiamo dire di questa storia? Come si sono formati i testi dell’Iliade e dell’Odissea? Chi ha composto davvero i due poemi? Anche in questo caso le idee degli studiosi e degli eruditi sono andate cambiando nel corso del tempo. Nel Settecento, nella sua Scienza Nuova, il grande filosofo napoletano Giovan Battista Vico sostenne che “Omero”
era solo un nome convenzionale dietro il quale si nascondeva la fantasia di tutto un popolo. Per Vico, l’Iliade e l’Odissea
non erano il frutto di un singolo genio creativo ma un’opera
collettiva che riassumeva la fantasia mitologica dei greci.
Molti, nei secoli a venire, hanno immaginato un grande fiume di tradizioni popolari sulla guerra di Troia­confluite poi
nei due poemi che conosciamo: tradizioni trasmesse oralmente attraverso i secoli, di generazione in generazione, e
poi trasformate e raccolte da uno o più compilatori in poemi
organici. A quest’idea hanno dato nuova forma gli studi di
un geniale filologo statunitense, Milman Parry (1902-1935).
Parry comprese che la cosiddetta “questione omerica” non
poteva essere risolta lavorando solo a tavolino sui testi. Perciò, negli anni tra il 1933 e il 1935, percorse l’Europa in cerca
di cantori che ancora, ai suoi tempi, svolgessero lo stesso
lavoro di Omero: celebrare in forma epica grandi eventi e
battaglie del passato. Parry scovò gli eredi di Omero nei Balcani, nell’allora Jugoslavia. Erano cantori analfabeti come
Avdo Mededović, un serbo del Sangiaccato di Novi Pazar,
capaci di improvvisare poemi più lunghi dell’Iliade e del­
l’Odis­sea messe insieme, in sessioni di recitazione che duravano giorni interi. Non scrivevano nulla: si affidavano solo
alla memoria, componendo su due piedi, nelle feste dei pae­
si, i loro racconti epici che rievocavano, per esempio, la battaglia di Kosovo Polje (Campo dei Merli), quando, il 28 giu16
gno 1389, i serbi si erano opposti eroicamente agli invasori
ottomani.
Parry, con il suo collaboratore e allievo Albert Lord, notò
che i cantori jugoslavi usavano artifici analoghi a quelli di
Omero. C’erano alcune scene ed episodi tipici, che venivano
riproposti secondo uno schema fisso: la vestizione del guerriero, i duelli, la descrizione di un sogno. E c’erano alcune
espressioni invariabili, le cosiddette “formule”, che occupavano sempre la stessa posizione in un verso e descrivevano
un eroe o una situazione: per esempio, in Omero, “l’aurora
dalle dita di rosa”, “il mare color del vino”, “il piè veloce
Achille”. Queste espressioni erano, per così dire, i mattoni
della poesia omerica: come un poeta moderno usa le parole,
così un cantore epico usava le formule. Ogni cantore aveva il
suo repertorio di scene tipiche e di formule: ricombinandole
e variandole era in grado di creare opere complesse. Parry si
convinse che uomini come Avdo Mededović replicavano ciò
che aveva fatto Omero a suo tempo. Anche Omero, secondo
lo studioso americano, creava i suoi poemi mentre li recitava,
sulla base di storie mitologiche tramandate oralmente da
una generazione all’altra. Poi, un giorno, qualcuno mise
queste improvvisazioni per iscritto, forse trascrivendole durante una recitazione, e nacquero i poemi omerici come li
leggiamo oggi. A favore di quest’idea giocava anche una circostanza: c’è un periodo della storia greca, all’incirca tra il
1200 e l’800 a.C., durante il quale non è stata trovata alcuna
testimonianza di scrittura. Sembra che la scrittura, conosciuta in Grecia tra il 1600 e il 1200 a.C., come testimoniano le
tavolette di argilla trovate negli archivi dei palazzi micenei,
sia scomparsa per alcuni secoli. Rinascendo poi, solo intorno
all’800 a.C., in una forma del tutto nuova: non più una scrittura sillabica, dove cioè a ogni segno corrisponde una sillaba,
come quella micenea, ma una scrittura alfabetica, dove a
ogni segno corrisponde un suono, come la nostra. Questa
nuova forma di scrittura i greci la copiarono dall’alfabeto fe17
nicio, adattandone le lettere alla loro lingua. Ma se prima, per
quattro secoli, non usavano la scrittura, come avrebbero potuto mettere per iscritto un’Iliade e un’Odissea? Del resto,
Omero non era cieco secondo la tradizione? E come fa un
cieco a scrivere?
Questa teoria dell’oralità è stata per lungo tempo vincente. Anche perché corrispondeva allo spirito dei nostri tempi:
la radio e poi la televisione ci avevano aperto un’epoca di
nuova oralità, in cui le cose dette a voce tornavano a essere
altrettanto importanti, se non più importanti, di quelle messe per iscritto. Il rischio di questa visione del mondo omerico,
almeno nei suoi esegeti più zelanti, era che un poeta come
Omero venisse ridotto a un ricombinatore di formule e di
schemi, al tramite passivo di una tradizione popolare. C’era
il pericolo, insomma, che si perdesse di vista il fatto che Iliade
e Odissea sono anche, e soprattutto, grandi capolavori, e non
solo documenti di una tradizione orale. A furia di domandarsi come poetava Omero si rischiava di mettere tra parentesi
proprio la sua poesia. Si finiva col non leggerlo più, come se
i poemi omerici fossero solo uno sterminato eserciziario per
filologi e antropologi della comunicazione. La “questione
omerica”, di cui mai si verrà a capo, stava soffocando Omero.
Come capita in ogni campo di studi e un po’ in tutte le cose
della vita, negli ultimi anni il pendolo ha così iniziato a oscillare in senso contrario: alla ventata “oralistica” di Parry e
Lord è seguita una reazione opposta. Per esempio, un grande studioso italiano, Vincenzo Di Benedetto, ha scritto un
libro intitolato Nel laboratorio di Omero (Einaudi, Torino
1997). La parola “laboratorio” è usata non a caso nel titolo:
Di Benedetto voleva proprio dare l’immagine di un poeta nel
suo studiolo, di un autore che scriveva e che solo scrivendo
poteva inventare la struttura magnificamente bilanciata e lo
stile straordinariamente evocativo dell’Iliade e dell’Odissea.
Pensate a quest’ultimo poema: nei primi quattro libri domina il personaggio del figlio Telemaco, disperatamente in cer18
ca del padre; Ulisse, il protagonista, compare invece dopo
che l’abbiamo lungamente aspettato e, solo dopo un’ulteriore attesa, veniamo finalmente a conoscere le sue disavventure, ma le conosciamo in forma di flash-back, raccontate da
lui stesso. Insomma, c’è una straordinaria sapienza compositiva: possiamo attribuirla, dice Di Benedetto, insieme a tutti
gli altri anti-oralisti, a un povero cantore analfabeta come
quelli jugoslavi?
Difficile, anche in questo caso, arrivare a una conclusione
certa. Forse la verità sta nel mezzo. Forse anche senza la
scrittura, a quei tempi, si poteva fare grande poesia: noi non
ne siamo più capaci, perché senza la pagina scritta, o senza
lo schermo di un computer, ci sentiamo persi, ma i greci del
tempo di Omero erano, per così dire, diversamente abili nel
giocare con le parole. Del resto, è un fatto che, per lunghissimo tempo, i greci preferivano comunicare la loro poesia
oralmente, recitandola e cantandola nelle feste pubbliche o
private, piuttosto che per iscritto. Saffo, Pindaro, Eschilo
non erano autori che venissero letti: erano poeti che si andava ad ascoltare nei simposi, in piazza o nei teatri. Anche i
poemi epici erano affidati alla voce di cantori professionali,
gli aedi (aoidoi) o rapsodi (rhapsodoi, cioè “cucitori di canti”),
che si esibivano in performance paragonabili, per intensità
emotiva e spettacolarità, al concerto di una popstar. Platone,
nel suo dialogo Ione, descrive le esibizioni di questi cantori
epici, abbigliati in modo sfarzoso, con vesti multicolori e
diademi d’oro sul capo, che piangono e si esaltano come invasati quando raccontano le imprese di Achille o le sofferenze di Ulisse. Il pubblico li ascolta incantato. Si lascia sedurre
dal ritmo della narrazione, segue con timore e tremore i momenti più terribili della storia, e spesso anche gli ascoltatori
piangono, commuovendosi per i dolori degli eroi. Platone,
pur non amandole, testimonia la sconvolgente e irrazionale
bellezza di queste performance epiche, la loro forza emotiva,
la loro seduzione estetica. Ma già lo stesso Omero attesta
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come la poesia epica venisse recitata in pubblico, e non frui­
ta attraverso la lettura, quando tratteggia le figure dei cantori Demodoco e Femio, che, rispettivamente alla corte dei
Feaci e nel palazzo di Itaca, rapiscono l’attenzione del pubblico, raccolto nelle grandi sale in ombra. Anche il loro canto
rallegra e sconvolge gli uomini. Demodoco si esibisce rievocando appunto la guerra di Troia­e fa piangere Ulisse che
invano cerca di soffocare le lacrime nel mantello. È una raffinata miniatura meta-poetica, un autoritratto che lo stesso
Omero inserisce nel suo canto. Ed è una celebrazione sottile
del mestiere dei cantori. Sono loro i signori della parola: incantano il cuore degli uomini perché conoscono il passato
dell’umanità, le grandi imprese degli eroi, le vicende sublimi
di un mondo perduto. Le conoscono perché hanno un rapporto privilegiato con le Muse, le signore della Memoria: è la
Musa che squarcia per il poeta il velo del tempo e gli concede, tramite il canto, di salvare dall’oblio le mirabili gesta di
Achille o di Ulisse.
Quanto abbiamo detto finora riguarda sia l’Iliade sia l’O­
dissea. Ma già gli antichi erano consapevoli che i due poemi
erano molto diversi. Rispetto agli splendori di morte e di selvaggia violenza che caratterizzano l’Iliade, l’Odissea appariva
già ai greci un poema più romanzesco e meno guerresco, più
“femminile” e meno virile. Il mondo domestico e l’universo
delle donne hanno in effetti nella storia di Ulisse un ruolo
fondamentale: la moglie Penelope, con tutta la dimensione
casalinga di Itaca; la nutrice Euriclea, che riconosce Ulisse
facendogli il bagno; la dea Atena, che è la fata protettrice
dell’eroe; Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, descritta nel suo
piccolo mondo di ragazza; la maga Circe, che consiglia a
Ulisse di scendere nel regno dei morti per ritrovare la via del
ritorno; Calipso, la ninfa misteriosa che ama Ulisse e lo trattiene per anni nella sua isola. Un grande filologo settecentesco, Richard Bentley, diceva: «Omero ha composto l’Iliade
per gli uomini e l’Odissea per l’altro sesso.» A ben vedere, in
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realtà, non mancano inserti femminili anche nell’Iliade (come nel sesto canto, quasi tutto incentrato intorno alle donne: Ecuba, Elena, Andromaca). Forse consapevole di questo
lato femminile di entrambi i poemi, uno scrittore antico, Tolomeo Chenno, vissuto al tempo dell’impero romano, raccontava che in realtà sia l’Iliade sia l’Odissea erano opera non
di Omero ma di una ragazza egiziana, di nome Fantasia.
Omero avrebbe scoperto i due manoscritti durante un suo
viaggio in Egitto, in un tempio di Menfi, e li avrebbe pubblicati a suo nome.
Sono storielle che gli antichi si raccontavano con consapevole e scanzonata ironia. Anche se alcuni moderni sembrano
averle prese sul serio. Un brillantissimo scrittore e saggista
dell’Inghilterra vittoriana, Samuel Butler, sosteneva, nel suo
libro L’autrice dell’Odissea (1897), che il poema di Omero era
stato scritto da una ragazza che si è poi autoritratta nel personaggio di Nausicaa. Del resto, argomentava Butler, solo una
donna avrebbe potuto cogliere con tanta finezza certi moti
dell’animo femminile (mentre gli uomini sono notoriamente
rozzi). Solo una donna avrebbe potuto mettere in bocca a
Ulisse queste parole di congedo dai Feaci: «Possiate rendere
felici le vostre spose.» Solo una scrittrice avrebbe fatto incontrare a Ulisse, nel regno dei morti, le donne famose del passato prima degli uomini illustri. Solo una donna poteva co­
strui­re una splendida architettura di avventure fantastiche
come l’Odissea intorno a una lunga e tenace fedeltà coniugale. Butler era anche convinto che Nausicaa fosse di Trapani:
ma su questo forse pesava il fatto che lo scrittore, come molti
inglesi colti, era di casa in Sicilia, dove, soprattutto dopo la
pubblicazione del suo libro, veniva sempre ricevuto con tutti
gli onori dalle autorità locali e ingozzato di granite e pastarelle. Quest’idea di un’autrice femminile dell’Odissea fu comunque fortunata e sopravvisse anche nel romanzo di Robert
Graves, La figlia di Omero (1955).
Finora abbiamo parlato di Omero. Ma Omero non fu l’u21
nico a raccontare la guerra di Troia­. Ci sono molti altri autori
che oggi nessuno legge ma che sono preziosi perché raccontano avventure non riportate dall’Iliade e dall’Odissea. Poeti
epici minori e narratori dell’età romana, come Quinto Smirneo, Colluto, Darete Frigio o Ditti Cretese, nomi che oggi
non dicono nulla ai più, autori talvolta fantomatici e leggendari, ma che, per esempio, gli uomini del Medioevo ritenevano fonti importanti. E poi ci sono i poeti tragici, Eschilo, Sofocle ed Euripide, che riscrivono a loro modo le saghe della
guerra troia­na. Ci sono i mitografi come Apollodoro o Igino,
meticolosi compilatori di leggende più o meno stravaganti e
peregrine, che a volte attingono a testi antichissimi e per noi
perduti. Ci sono anche scrittori raffinati come il caustico Luciano, nato intorno al 120 d.C. nella città siriana di Samosata
(odierna Samsat, in Turchia), che in alcuni suoi Dialoghi allestisce incantevoli teatrini con gli eroi della guerra troia­na.
O come Filostrato, vissuto al tempo dell’imperatore Eliogabalo, nel III secolo d.C., autore di un testo intitolato Eroico,
dove ci s’immagina che il fantasma del primo guerriero morto a Troia­, Protesilao, appaia a un vignaiolo, e incominci a
raccontare gli eroi omerici a modo suo, smontando tutta la
retorica dell’epopea e svelando i lati più oscuri e meno nobili di ciascuno. Anche a questi autori faremo riferimento. Perché questo libro non vuole essere solo l’ennesimo racconto
della guerra di Troia­secondo Omero. Vuole essere anche il
racconto di tutto quello che in Omero non c’è ed è sparso tra
centinaia di testi, a volte oscuri e bizzarri, spesso frammentari ed enigmatici.
Navigando al largo dell’immenso continente di Omero,
tra i mari estremi della letteratura antica, costeggiando Filostrato e Quinto Smirneo, potremo tornare con una diversa
consapevolezza alla domanda iniziale: sono davvero esistiti
Achille, Ulisse, Elena, Agamennone? Forse no, non sono mai
esistiti. Sono solo attori di un mito, riplasmati dalla fantasia
dei poeti e passati attraverso secoli di riscritture letterarie. In
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alcuni casi, magari, sono controfigure romanzesche di divinità antichissime, come sembra esserlo Elena. Di certo, sono
personaggi che per i greci appartenevano alla schiera infinita degli eroi, creature a metà tra il mondo dei mortali e quello degli immortali, oggetti di culto e di venerazione. Come
tutti gli eroi, anche quelli della guerra troia­na hanno compiuto molte imprese, hanno vissuto tante avventure. In molti
casi la loro vicenda non si riduce alla partecipazione all’impresa troia­na. Ciascuno di loro ha la sua storia, il suo carattere, la sua biografia, se di biografia si può parlare per i personaggi del mito, le cui vicende i greci narravano in forme sempre diverse e talvolta contraddittorie. E poi non ci sono solo i
grandi eroi, quelli che tutti conoscono. Ci sono figure minori,
tessere piccole, ma sempre significative, del mosaico del mito. Non c’è solo Achille, ma anche il giovanissimo e bellissimo Troilo, che lo stesso Achille avrebbe ucciso dopo averlo
violentato. Non c’è solo Ulisse, c’è anche Protesilao, il primo
greco morto sul suolo troia­no, riapparso poi, per una grazia
degli dei, come fantasma alla sua sposa che voleva riabbracciarlo. Non c’è solo il re Agamennone, c’è anche il poveraccio
Tersite, soldato semplice, rozzo e plebeo, che grida il suo disprezzo verso i potenti. E chi si ricorda di Epistrofo di Argo o
di Agapenore d’Arcadia? Eppure, alla guerra di Troia­c’erano
anche loro.
Di tutti questi eroi, illustri o sconosciuti, vincitori o vinti,
vorremmo dare conto in questo libro. Per entrare ancora una
volta, attraverso la porta magica del mito, nel mondo della
cultura greca. Per tentare di vedere le cose con la mentalità e
l’immaginazione degli antichi, esercizio difficile ma necessario. Per cui questo non è l’ennesimo libro sulla guerra di Troia­
e sulla sua storicità, questione che, lo confessiamo, alla fine ci
appassiona assai poco. È un tentativo di delineare un profilo
a tutto tondo di quegli eroi di cui parla Omero, di seguirli
anche al di là della guerra troia­na, fuori dal campo di battaglia, rievocando anche le loro avventure meno note e più
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oscure, quelle avvenute quando i riflettori dell’epopea omerica erano spenti. Questo è dunque un libro sul mito e va letto
insieme ai libri già apparsi presso questo editore, Eroi e Olym­
pos, che parlavano rispettivamente di eroi e di divinità. Perché
c’è anche un lato divino, sovrumano e sovrannaturale, della
saga troia­na che va sempre tenuto presente. Qualcuno ha
detto che dall’Iliade si potrebbero togliere tutte le divinità e la
storia resterebbe uguale. Lo ha detto, e lo ha fatto, per esempio, il romanziere Alessandro Baricco, nella sua riscrittura in
prosa di Omero: l’Iliade, ha sostenuto, è solo una storia di passioni umane. Sì, lo ammettiamo, Omero non ha fatto la Scuola Holden, l’istituto di avviamento alla scrittura creativa validamente gestito da Baricco, per cui ha i suoi limiti come scrittore. Ma dire che nell’Iliade le divinità sono superflue significa
non capire il mondo omerico e forse neppure il nostro mondo. Nessuna passione è mai soltanto umana. Ogni grande
avventura o disavventura è attraversata dal lampo di qualcosa
che supera l’umano. È un’esperienza che ciascuno di noi fa
nella vita, sperimentando le stesse passioni degli eroi omerici:
la rabbia, l’odio, l’amore. Ciascuno di noi se ne rende conto
almeno una volta nella vita, se non altro nel momento in cui
muore, e l’Altro viene a visitarlo. Per questo le storie di Omero sono sempre giocate su due piani, l’umano e il divino, che
non si escludono, ma si compenetrano a vicenda. La presenza
di quell’altro mondo, dell’Olimpo, fa risaltare quanto di struggente, di precario, di doloroso c’è nel nostro mondo, quello
degli uomini.
Alla fine, con molta presunzione, di questo andremo alla
ricerca nelle pagine che seguono. Non inseguiremo la verità
su una battaglia accaduta forse due millenni e mezzo fa sulle
rive dei Dardanelli, per una qualche disputa sul commercio
dell’oro o del pellame. Ma cercheremo una verità ancora più
sfuggente e indecifrabile. Tenteremo di capire cosa possono
significare ancora, per le nostre vite, le strane storie del mito
greco. Lo faremo con leggerezza, senza pretendere di riscri24
vere l’Iliade e l’Odissea (solo un presuntuoso, o un Baricco,
potrebbe pensare di gareggiare nella narrazione con il sommo Omero) ma mettendoci piuttosto, con molta umiltà, sulla
scia di autori come il delizioso Filostrato, con il suo ironico
controcanto all’epopea omerica. Viaggeremo con Elena che
nasce da un uovo, con Aiace che è reso folle da Atena, con
Ulisse minacciato da Ciclopi e Sirene. Eroi che forse non sono esistiti ma vivono da sempre nella nostra immaginazione.
Personaggi che forse non sono mai vissuti ma di sicuro non
sono mai morti.
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