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la rilevanza giuridica del silenzio in diritto romano
LA RILEVANZA GIURIDICA DEL SILENZIO IN DIRITTO ROMANO
Sommario: 1. Anfibologia del termine ‘silenzio’ – 2. Il silenzio come quaestio facti – 3. L’ assenza di
principi generali sulla interpretazione del silenzio nelle fonti romane – 4. Cicerone e le componenti
etiche nel fenomeno giuridico del silenzio – 5. Gli orientamenti della giurisprudenza romana: Il silenzio
nel processo – 6. Il silenzio in materia di rappresentanza – 7. Il ‘silenzio-assenso’ nel diritto delle
persone – 8. Il silenzio del proprietario – 9. L’omessa esternazione in materia contrattuale e nelle
successioni mortis causa. il cd. negozio tacito – 10. Considerazioni conclusive.
1. ANFIBOLOGIA DEL TERMINE ‘SILENZIO’
Il fenomeno del silenzio (non dire, non contraddire, non fare), prima ancora di appartenere alla
sfera giuridica, e’ un fatto dell’esperienza comune. Esso ci si presenta talora vuoto di ‘significanza’1,
talaltra non privo di valore, ma comunque, in quanto ‘segno non verbale’, sempre incerto, spesso
addirittura ambiguo2; e, dal momento che il silenzio e’ identificabile come ‘fatto relazionale’, e, nella
specie, come particolare tipo di ‘risposta’ o di ‘non-risposta’ a una domanda -esplicita o implicita- i vari
aspetti che il ‘tacere’ puo’ assumere sono strettamente dipendenti dalla na tura e dalla qualita’ della
domanda 3.
Quando, per il contesto in cui si verifica, il silenzio si pone come un ‘fatto giuridico’ autonomo
e, in quanto tale, produttore di effetti giuridici, occorre escogitare una via d’uscita per sottrarsi
all’ambivalenza di un ‘silenzio’ che si puo’ presentare con una valenza di mera negativita’ (non parlare,
non dire nulla, non esprimere alcuna volonta’), ma anche, al contrario, con una valenza ‘tecnica’ di
positivita’ (assenso, dissenso, reticenza, riserva mentale, omerta’). In questa seconda ipotesi, dunque, il
silenzio si puo’ connotare come contegno conforme a diritto, o, viceversa, come fatto antigiuridico.
Aprioristicamente, il silenzio non si puo’ tradurre né in un consenso né in un dissenso, né in alcuna
delle figure appena menzionate tra le ‘valenze di positivita’ del silenzio’; e cio’ perché chi resta silente
esprime solo - prima facie - la volonta’ di tacere. In ambito giuridico, si rende percio’ indispensabile
l’intervento dell’interprete, che ricostruisca il significato del silenzio attraverso specifiche tecniche di
‘decodificazione’. Si tratta di un compito certamente non facile, visto che il “bifrontismo dialettico”4 del
silenzio consente soluzioni polivalenti (se si escludono le poche ipotesi in cui il silenzio costituisce
‘comportamento normativamente tipizzato’5): perché, se il profilo negativo “sembra avvalorare la tesi
della insignificanza del fenomeno e quindi della sua irrilevanza (…), d’altra parte il profilo positivo
ripropone l’esigenza di rintracciare una teoria specifica del fenomeno”6.
D’altra parte, anche negli aforismi del parlare comune (originati nella sfera delle teorie
giuridiche, e poi in esse nuovamente attratti) le due impostazioni si fronteggiano. Il detto popolare ‘Chi
tace acconsente’ (che trova riscontro nella regula iuris canonista ‘qui tacet videtur consentire’7) indica
l’esigenza forte di uno “svelamento di chi si nasconde nell’ombra del tacere; l’esigenza di consegnare chi
tace alla responsabilita’ del suo silenzio”8; per contro, la massima ‘Chi tace non dice nulla’ (derivata dalla
celebre affermazione pauliana ‘qui tacet non utique fatetur, sed tamen verum est non negare9), qualificando il
silenzio come un ‘fatto incolore’, indica la norma della prudenza10 .
E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità (tr. it. Torino 1972), p. 13.
C. Morris, Segni, linguaggio e comportamento (tr. it. Milano 1963), pp. 184 ss.; E. Sapir, ibid.; A. La Torre, s.v. Silenzio (dir. priv.),
in ED. XLII (Milano 1990). pp. 543 ss..
3 Così M. S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio (Milano 1982), p. 87.
4 M. S. Goretti, op. cit., p. 2.
5 Come in materia di usucapione, di trasferimento di beni (in iure cessio), di tutela dei diritti relativi (legis actio sacramenti in
personam), su cui v. infra, §§ 5, 8, 9.
6 M. S. Goretti, op. cit., p. 2.
7 C. 43 in VI.5.12.
8 M. S. Goretti, op. cit., p. 27.
9 Paul. D. 50.17.142.
10 Cfr. M.S. Goretti, op. cit., p. 29.
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Dunque, due sono in sostanza le strade praticabili dall’interprete. La prima soluzione possibile e’
quella di fare del silenzio una quaestio facti11; da cui la diffusa opinione per cui il silenzio, in sé e per sé,
non puo’ mai assurgere al grado di ‘manifestazione di volonta’’ (a meno che l’ordinamento non
permetta di individuare il silenzio come tale: si pensi al silenzio-assenso o al silenzio-rifiuto nel campo
del diritto amministrativo moderno, quali ipotesi di silenzio con significato giuridico predeterminato12):
in questa impostazione, che viene indicata come ‘tesi della casistica’, ci si arrende, in un certo senso,
all’ambiguita’ fenomenologia del silenzio, negando la possibilita’ di una teoria del silenzio, sulle tracce
dell’enunciato pauliano ‘qui tacet non utique fatetur, sed tamen verum est non negare’; l’interprete non puo’
dunque far altro che procedere alla catalogazione casistica dello ius singulare.
La seconda via praticabile e’ quella di considerare invece il silenzio una quaestio iuris, optando per
la tesi della manifestazione di volonta’ ‘modesta’ o ‘meno piena’, che si verificherebbe da parte del tacens;
strada certamente più rischiosa della prima tanto sul piano storico, quanto sul piano dogmatico, perché
induce alla tentazione –fallace - di sfuggire alla pluralita’ casistica, per catalogare il ‘fatto’, fornendone
una identificazione razionale, prodromica alla formulazione di principi di interpretazione generale. In
altri termini, quanti si propongono di superare le ‘contraddizioni’ interne al sistema giuridico tendono
ad una identificazione unitaria del fenomeno, che sfoci nella formulazione di una teoria univoca del silenzio,
da collocarsi in un contesto di universalita’13. L’unificazione della materia implica necessariamente la
catalogazione del silenzio come fatto positivo, secondo la regola canonista ‘Qui tacet videtur consentire’.
I fondamenti di questo secondo indirizzo sono stati posti sul finire del XIX secolo, da un saggio
del Ranelletti14; discostandosi nettamente dall’orientamento del suo Maestro, Vittorio Scialoja, lo
studioso richiamava le fonti romane per scardinare la tesi tradizionale dello ius singulare e per proporre
l’elaborazione di principi generali, utili all’interpretazione del silenzio15. La ricostruzione del Ranelletti
appare chiaramente influenzata dalla concezione, allora imperante, del negozio come dichiarazione di
volonta’, e, più in particolare, dallo sforzo di temperare gli eccessi della concezione volontaristica
dell’atto di autonomia, mediante il ricorso al principio di affidamento16. In questa prospettiva, la
responsabilita’ dell’atto dipenderebbe solo dalla volontarieta’ della dichiarazione, e cio’ per il principio
della “necessita’ sociale”, a sua volta basato sul principio dell’affidamento17. Percio’, secondo Ranelletti,
il silenzio “fonda un obbligo” allorquando si possa fondatamente e ragionevolmente credere che il
silente volesse perseguire un determinato obiettivo, ma con una precisazione di fondamentale
importanza: le circostanze del caso, da cui si puo’ dedurre la sussistenza di un “silenzio qualificato”,
sono diverse, a seconda che il silenzio produca perdita di un diritto o produca obbligazioni. In ogni
caso, l’intera materia, nella impostazione del Ranelletti, risulta riconducibile a due elementi basilari,
fortemente intrecciati a valutazioni etiche: il concetto del bonus vir e il concetto dell’ interesse di colui che
tace. Si e’ poi accostato alla tesi del Ranelletti, ma rivisitandola alla luce delle considerazioni critiche del
Donatuti18, il Persico19, il quale ha affermato la giuridicita’ del fatto silenzio in concomitanza degli
elementi della scientia e della patientia.
Secondo una terza via, di recente percorsa da Sara Maria Goretti20 sulla base di una puntuale
esegesi delle fonti romane, il silenzio andrebbe inquadrato come fatto secondario rispetto a un prius. La
varieta’ interpretativa data al silenzio dipenderebbe, percio’, dal fatto che il silenzio e’ una ‘risposta’, che,
come tale, si chiarisce solo in base alla domanda, da cui prende origine e a cui si riferisce. Sicché la
E’ questo l’orientamento di Savigny, Scialoja, Bonfante, Sraffa, Simoncelli, su cui amplius infra, nel testo.
Sul valore del silenzio nel diritto amministrativo, v. soprattutto F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione (Milano
1971); P.G. Lignani, s.v. Silenzio (diritto amministrativo), in ED. XLII (Milano 1990) pp. 559 ss.; Il tema del silenzio quale
comportamento normativamente tipizzato, cui già si e’ accennato alla nt. 5 verrà trattato in chiave storica più avanti, nel
testo.
13 E’ questo l’orientamento di Ranelletti, Gabba, Pacchioni, su cui amplius infra, nel testo.
14 O. Ranelletti, Il silenzio nei negozi giuridici, in Rivista italiana per le scienze giuridiche XIII (1892), pp. 3 ss..
15 V. al riguardo le considerazioni di M. S. Goretti, pp. 33, 36.
16 In generale, su queste problematiche, v. R. Sacco, s.v. Affidamento, in ED. I (Milano 1958), pp. 661 ss.; G. Mirabelli, s.v.
Negozio giuridico (teoria), in ED. XXVIII (Milano 1978) specialm., pp. 10 ss..
17 Ibid. p. 4.
18 Su cui amplius infra, nel testo.
19 C. Persico, Del silenzio come sorgente di obbligazione, in Aii R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli XXII (1931), p. 80.
20 Op. cit., p. 202 e passim.
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diversificazione delle tipologie del silenzio e delle sue conseguenze non dipenderebbe da una
interpretazione ‘casistica’, ma dalla configurazione della ‘domanda’ a cui, di volta in volta, il silenzio
risponde. Abbiamo gia’ avuto occasione di segnalare21 come grazie a questa impostazione si sia chiarito,
sul piano della teoria generale e della logica giuridica, che, se in alcune fattispecie il silenzio assume il
significato di ‘risposta positiva’ (assenso), mentre in altre di ‘risposta negativa’ (dissenso, opposizione),
cio’ si verifica in ragione di un ‘antefatto’, da cui si origina una sorta di (implicita) ‘domanda’22. A nostro
avviso, pero’, la ricostruzione di Goretti costituisce un inquadramento solo parziale delle problematiche
sollevate dal silenzio sul piano giuridico: almeno con riferimento all’esperienza giuridica romana, va
osservato come il silenzio, pur inteso come fatto relazionale, assumeva coloritura (positiva o negativa)
non solo in base ad un ‘antefatto’ visto nella sua oggettivita’, bensi’ anche in relazione a particolari
considerazioni o valutazioni poste dall’ordinamento giuridico: in altri termini, specifiche esigenze o
particolari canoni ermeneutici (favor matrimonii, favor testamenti, pubblica utilita’, prevalente valore dato
alla volonta’ del paterfamilias rispetto a quella dei figli nel contrarre le nozze, privilegi concessi a talune
categorie sociali, particolarita’ del rapporto intercorrente tra il dominus e i suoi schiavi, etc.) potevano
determinare la specifica valenza del silenzio in determinati gruppi di fattispecie. La possibilita’ di
osservare il valore conferito al silenzio per tipologie di casi ci rimanda cosi’ alla cd. tesi della casistica,
che, a nostro parere, corretta e integrata con le importanti premesse teoriche indicate da Sara Maria
Goretti, resta il modo più corretto di affrontare il problema giuridico del silenzio nel diritto romano.
2. IL SILENZIO COME QUAESTIO FACTI
Come si accennava, in campo giuridico ha sempre prevalso nettamente, sulla scia di Savigny e di
Scialoja, la cd. tesi della casistica, che, dopo la demolizione tentata da Ranelletti, e la mediazione operata
da Donatuti, e’ stata recuperata con rinnovato vigore da Sraffa23, Simoncelli24, Borgna 25 e Perozzi26.
L’indirizzo maggioritario, che ha tratto i suoi argomenti dall’osservazione dell’esperienza giuridica
romana, propende dunque per una ‘casistica’ del silenzio, quale fatto ‘singolare’, da interpretare volta
per volta, senza volere a tutti costi rintracciare il ‘filo rosso’ di un fantomatico principio generale, sul
quale Ranelletti aveva invece tentato di costruire delle costanti di interpretazione.
Gia’ nel 1885, ripercorrendo in chiave storica il problema del valore giuridico del silenzio,
Vittorio Scialoja richiamava espressamente la posizione di Savigny, secondo il quale il silenzio era un
fatto in sé ‘nullo’ (‘chi tace non dice niente’). Lo studioso italiano arricchiva pero’ il recupero della
posizione tradizionale con una intuizione di grande originalita’: nel diritto romano sarebbero coesistite
due distinte categorie di atti giuridici, governate da regole differenti e aventi “per carattere l’una la
volonta’ come causa direttamente efficace, l’altra la responsabilita’ come elemento essenziale per gli
effetti giuridici della dichiarazione”27. Scialoja individuava in questa particolarita’ la ragione per cui ci
sono giunti testi giurisprudenziali romani “nei quali l’interpretazione e’ fondata sopra principi differenti,
che variano a seconda della diversa natura dei negozi giuridici”28.
Cosi’, pur riconducendo il problema del silenzio alla categoria di ius singulare, Scialoja indicava tre
ipotesi di silenzio, con il risultato di circoscrivere fortemente l’ambiguita’ del fenomeno: il silenzio come
non-fatto, il silenzio come manifestazione tacita di volonta’, il silenzio (tacere) come volonta’ espressa.
Questa terza ipotesi veniva riferita dallo studioso a taluni atti giudiziari, intesi come ‘domande’ nei
confronti delle quali il silenzio si configura quale ‘risposta’: “Il silenzio puo’ essere anche tacita
V. le considerazioni da noi svolte nella segnalazione bibl. in Labeo 29 (1983), pp. 354 ss..
Dedica infatti particolare attenzione alle ricerche di Goretti –pur rilevandone alcuni limiti- A. La Torre, op. cit., pp. 543 ss.,
specialm., pp. 546, 552 ss..
23 A. Sraffa, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Giurisprudenza italiana IV (Torino 1893), pp. 353 ss..
24 V. Simoncelli, Il silenzio nel diritto civile, in Rendiconti del R. Ist. lombardo di Lettere e Scienze XXX s. II (1897), pp. 253 ss..
25 G. Borgna, Del silenzio nei negozi giuridici (Cagliari 1901).
26 S. Perozzi, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Rivista di diritto commerciale (1906) II, pp. 509 ss..
27 V. Scialoja, Responsabilità e volontà nei negozi giuridici, Prolusione al Corso di Pandette alla Università di Roma (Roma 1885), p.
23.
28 V. Scialoja, Teoria degli atti e dei negozi giuridici, in Lezioni anno 1892-93 (Roma 1950) 5° rist. (con Prefazione di S. Riccobono),
p. 49.
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manifestazione di volonta’ o anche un’espressa dichiarazione di volonta’, e questo dipende dalle
circostanze concomitanti il silenzio; cosi’ se uno si trova in tali circostanze, che se non volesse una
determinata cosa, dovrebbe necessariamente parlare, evidentemente continuando a tacere, dimostra di
avere quella volonta’; e siccome le circostanze che possono attribuire questo carattere al silenzio
possono essere di diverso genere, puo’ essere che esse siano tali che il silenzio giunga perfino ad essere
una volonta’ espressa (…). Cio’ avviene frequentissimamente negli atti giudiziari, nei quali uno e’
espressamente tenuto a dire se vuole una cosa o non la vuole: in tal caso l’inazione, il silenzio, significa
accettazione”29. In definitiva, “Il giudicare nei singoli casi di volonta’ tacita, tacitamente manifestata, vi
sia o no una dichiarazione, e’ un giudizio di fatto, cioe’ bisogna vedere caso per caso se esista o no
quella logica e necessaria connessione tra il fatto esterno e l’animo dell’agente, sicché lo stesso fatto
puo’ darsi benissimo che in un caso si possa ritenere manifestazione tacita di volonta’ e in un altro no,
per il variare delle circostanze”30. Il silenzio, dunque, facti quaestio est; e – annotava il Riccobono alle
Lezioni di Scialoja - proprio perché il tacere e’ questione di fatto, non e’ possibile predeterminarne regole
precise e universalmente valide di interpretazione.
Nel 1900 il Bonfante, che gia’ si era interessato in precedenza del problema del silenzio,
sollecitato dallo osservazioni fortemente critiche del Perozzi rispetto alla impostazione tradizionale,
tornava sul tema per controargomentare, in sostegno della ‘tesi casistica’. Tuttavia, nella costruzione di
Bonfante e’ facilmente ravvisabile qualche elemento di ambiguita’: pur schierandosi per lo ius singulare, lo
studioso non sfuggiva alla tentazione di qualificare il silenzio in senso generale, come “assentimento
passivo”. Dopo aver sottolineato la differenza tra il ‘fatto’ dell’esperienza comune (come egli appunto
considerava il silenzio) e il ‘fatto giuridico’, lo studioso ribadiva la totale assenza di rilevanza del silenzio
nel mondo del diritto, specie nei confronti della manifestazione di volonta’, inquadrando poi il silenzio
quale ‘negativita’’31. Pertanto, nella massima pauliana in D. 50.17.142, lo studioso non vedeva alcuna
ambiguita’, ma una necessaria duplicita’ d’interpretazione, per il principio dello ius singulare: il silenzio
equiparato al non –assentire (non utique fatetur) si riferirebbe ai rapporti giuridici in cui occorre il fateri,
non invece a quelli in cui basta il non-negare, perché a questi ultimi l’ordinamento, in caso di silenzio,
riconnette determinate conseguenze32.
Sulla stessa linea, almeno in linea approssimativa, si collocano i gia’ citati studi di Donatuti,
caratterizzati da una più accentuata considerazione delle fonti romane, sulla cui base lo studioso tentava
di dimostrare che il silenzio, mentre non era mai valso come vera e propria manifestazione di volonta’,
poteva soltanto denotare tolleranza (patientia)33; il ‘ritorno’ alla costruzione bonfantiana e’ nella
particolare interpretazione resa dal Donatuti del concetto romano di patientia, intesa appunto come una
voluntas ‘imperfetta’ e ‘più debole’. In tal modo, Donatuti da un lato conferiva rilevanza all’elemento
psicologico nell’interpretazione dei fatti giuridici (aspetto che invece Bonfante aveva considerato
estraneo alle problematiche giuridiche), dall’altro lato dimostrava la parziale giuridicita’ del ‘fattosilenzio’. Questa tesi, in sostanza, costituiva un tentativo di mediare tra i due orientamenti contrapposti:
perché se per un verso Donatuti tentava di rintracciare una sistemazione teorica della questione del
silenzio, unificandone i vari casi sotto la categoria del pati, finiva poi per ricondurre tutte le fattispecie
esaminate al concetto di ius singulare.
3. L’ ASSENZA DI PRINCIPI GENERALI SULLA INTERPRETAZIONE DEL SILENZIO NELLE
FONTI ROMANE
La mancanza di esteriorizzazione della volonta’, per mezzo di parole, gesti o di comportamenti
concludenti (cd. inespressione della volonta’), costitui’ senz’altro un aspetto problematico nella
V. Scialoja, Teoria cit., p. 69.
Ibid.
31 V. sul punto le considerazioni di M. S. Goretti, op.cit., pp. 42 ss..
32 P. Bonfante, Il silenzio nella conclusione dei contratti (II Studio), in Rivista di diritto commerciale IV (1907) I, pp. 105 ss., 109, anche
in ID. Scritti giuridici varii III. Obbligazioni, comunione e possesso (Torino 1921), pp. 174 ss..
33 G. Donatuti, IL silenzio come manifestazione di volontà, in Studi Bonfante IV (Milano 1930), pp. 464 ss., anche in Studi di diritto
romano I (Milano 1976), pp. 391 ss..
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interpretazione dell’atto sin dall’eta’ romana; ed e’ proprio nel diritto romano che si trovano i primi
elementi della disputa, propria dell’eta’ moderna, sul punto se nei casi discordanza tra volonta’ e
manifestazione si debba dare prevalenza alla prima, ovvero alla seconda, che genera l’affidamento34. Sin
dall’eta’ più antica si e’ comunque reso evidente che il problema interpretativo sorge solo quando nel
fatto-silenzio siano coinvolte due (o più) parti: non si e’ mai richiesta una dichiarazione dell’animus
possidendi, o dell’animus derelinquendi35.
L’indagine, sul piano dogmatico, va impostata diversamente a seconda che ci si interroghi
sull’efficacia riconosciuta al silenzio con riferimento al diritto romano, o all’eta’ moderna e
contemporanea; e, nell’ambito delle diverse fasi storiche, se il ‘fatto-silenzio’ rilevi nell’ambito della sfera
privatistica (al cui interno occorre distinguere i negozi inter vivos dai negozi mortis causa) o pubblicistica.
Con riguardo alla nostra epoca, nel campo del diritto pubblico la rilevanza giuridica del silenzio attiene
prevalentemente alle ipotesi di mancata conclusione del procedimento amministrativo36. Mentre nella
branca privatistica il problema più frequente e’ quello di verificare se l’efficacia del silenzio alteri la
concezione del contratto, ‘diminuendo’ il requisito del consenso; in altri termini, la rilevanza
riconosciuta al silenzio imporrebbe di rinunziare “a un consenso ponderato e serio”, per accontentarsi
di un consenso “più debole”, di un “assentimento puramente negativo, passivo” (con implicazioni
anche in materia di responsabilita’ extracontrattuale)37.
Per quanto concerne la tematica del silenzio nel diritto romano, il punto nevralgico e’ costituito
dal modo in cui l’antico ordinamento intendeva il concetto di ‘manifestazione della volonta’’: mentre
nella fase storica più risalente si esigeva negli atti una volonta’ manifestata ore vel re, cioe’ con atti
esteriori che identificassero una estrinsecazione razionale, cosciente e formalmente inequivocabile,
viceversa nell’eta’ imperiale, per il progressivo rilievo riconosciuto all’elemento psicologico – la cui
ricerca divenne addirittura esasperata in eta’ bizantina - si radico’ la tendenza a ritenere sufficiente,
almeno in alcuni ambiti, la semplice riconoscibilita’ del volere. Ma questo cammino si differenzio’ non
poco in ragione della natura dell’atto: mentre in ordine ai negozi inter vivos gli interpreti furono a lungo
restii alla ricerca della volonta’ interna dell’autore, per quanto concerne i negozi mortis causa gia’ la
giurisprudenza dell’eta’ preclassica si mostro’ incline a rispettare il più possibile lo spirito dell’autore,
anche al di la’ dell’elemento obiettivo, costituito dalla dichiarazione38.
La ricostruzione delle valenze giuridiche del silenzio in chiave storica va dunque
necessariamente scandita sul piano diacronico. Occorre percio’ non dimenticare che nell’eta’ romana
arcaica la prescrizione di forme solenni per il compimento degli atti oscurava ogni indagine sulla
volonta’ dell’autore; tracce di questa concezione originaria si possono ravvisare anche nella fase storica
successiva, quando si affermo’ la necessita’ di prendere in considerazione (specie in materia
testamentaria) la volizione dei soggetti: questa non fu considerata come un elemento del tutto distinto
dalla manifestazione, talché l’autore dell’atto di autonomia inter vivos, anche se realmente non aveva fino
in fondo voluto cio’ che aveva manifestato, dov eva essere ritenuto responsabile della sua esternazione,
su cui i terzi avevano fatto affidamento. Derivo’, da questa impostazione, la irrilevanza tanto della
riserva mentale (reservatio mentis), tanto, almeno fino alla prima eta’ classica, del cd. negozio tacito39.
L’intento comunemente perseguito dalla letteratura precedente nell’affrontare l’esegesi delle
fonti romane e’ stato quello di rispondere al quesito basilare se (e, eventualmente, quando) il silenzio
fosse considerato dai Romani come una manifestazione di volonta’; e si e’ poi passati a verificare, in
caso di risposta affermativa, se tale ‘manifestazione di volonta’’ fosse concepita come del tutto
‘normale’ e ‘piena’. Secondo l’orientamento alquanto ambiguo del Bonfante e del Donatuti, il silenzio,
Ampiamente, sul punto, R. Sacco, op. cit., pp. 661 ss., con bibl..
Cfr. P. Bonfante, Scritti III cit., p. 178.
36 Si l. soprattutto P.G. Lignani, op. cit., pp. 559 ss..
37 Così P. Bonfante, Il silenzio nella conclusione dei contratti (I Studio), in Foro italiano XXV (1900), anche in ID. Scritti III cit., pp.
150 ss., specialm. pp. 152 ss..
38 Sullo sviluppo storico della considerazione della volontà negoziale nei suoi rapporti con la manifestazione, v. soprattutto
S. Riccobono, Origine del domma della volontà nel diritto romano, in ACIR. 1 (1934), pp. 177 ss.; C.A. Maschi, Volontà tipica e
volontà individuale nei negozi ‘mortis causa’, in Scritti Ferrini Milano I (Milano 1947), pp. 99 ss.; efficace sintesi in A. Guarino, Dritto
privato romano, 11° ed. (Napoli 1997), pp. 408 ss., nt. 32.1.1.
39 Così A. Guarino, oluc.; sull’ambigua categoria del cd. negozio tacito, v. infra, nel testo.
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pur essendo una quaestio facti, poteva essere riguardato come una manifestazione di volonta’, ma del
tutto particolare: le attestazioni di eta’ romana indurrebbero a credere che il comportamento del tacens
fosse inteso come una manifestazione di volonta’ ‘anomala’, o – come ha precisato il Donatuti - di
volonta’ ‘attenuata’. Ma, verosimilmente, alla concezione romana della ‘volonta’’ -che, si ripete, era
inizialmente indistinguibile dalla manifestazione esterna- mal si adattano le distinzioni moderne tra
volonta’ ‘normali’, ‘piene’, ‘anomale’, ‘attenuate’. D’altronde, le fonti romane non sembrano consentire
soluzioni univoche sul problema dell’interpretazione del silenzio, perché prospettano all’interprete una
casistica variabilissima: non e’ un caso che il problema non sia mai stato trattato in modo organico, né
in sede di studio scientifico dalla giurisprudenza romana classica, né, sul piano normativo, dalle
costituzioni imperiali.
Manco’ del tutto, nel diritto romano, la formulazione di un unico principio generale sull’efficacia
giuridica del silenzio. Nondimeno, non sono mancati tentativi di attribuire al diritto romano
l’elaborazione di regole precise nella interpretazione del silenzio. Ad esempio, si e’ rilevato come la gia’
citata massima del diritto canonico Qui tacet consentire videtur (C. 43 in VI.5.12) trovi riscontro nelle fonti
romane, e in particolare in un passo giurisprudenziale conservato nei Digesti giustinianei – sul quale
avremo occasione di soffermarci più avanti -, relativo al comportamento della figlia sottoposta alla
potesta’ del pater : colei che non si ribellava alla scelta paterna doveva reputarsi consenziente (D.
23.1.12: …quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur). Risulta con evidenza come la massima del
diritto canonico costituisca una generalizzazione assolutamente estranea allo spirito del testo romano: in
D. 23.1.12, l’interpretazione del ‘silenzio’ come consenso (‘chi tace acconsente’) era inscindibilmente
legato al caso di specie della nubenda e trovava la sua ratio nella particolare struttura potestativa della
famiglia romana, per la quale, anche in occasione del matrimonio dei figli, aveva rilievo pressoché
esclusivo la volonta’ del paterfamilias. Questa era l’unica ragione per cui, ai fini della validita’ degli
sponsali, ci si accontentava della ‘mancata opposizione’ da parte della figlia. Esulava, dunque, dalle
intenzioni del giureconsulto romano l’enunciazione di un principio di carattere generale.
Considerazioni non dissimili valgono in ordine al valore attribuibile al secondo ditterio. Si deve
prevalentemente alla dottrina amministrativistica moderna 40 l’idea, basata su una lettura forzata delle
fonti romane, che i Romani applicassero in tema di silenzio un principio generale – ma ben diverso dal
precedente -, enunciato da Paolo nel l. 56 ad edictum e sistemato dai compilatori giustinianei in D.
50.17.142 (Qui tacet, non utique fatetur: sed tamen verum est eum non negare). Il testo e’ apparentemente
sibillino, tanto che gia’ il Dernburg 41 lo dichiaro’ ambiguo come un oracolo; e cio’ da’ conto anche della
valutazione tutt’altro che univoca da parte della romanistica moderna. Nell’orientamento attualmente
prevalente, il contenuto del brano confermerebbe l’interpretazione del silenzio come quaestio facti,
benché una folta schiera di studiosi propenda piuttosto per vedere nelle asserzioni di Paolo gli elementi
della regula iuris.
E’ stato anche osservato che il testo, estratto dai compilatori giustinianei dal l. 56 ad edictum,
originariamente rivestiva un significato opposto a quello che ha poi assunto una volta collocato nei
Digesti: chi tace di fronte all’azione dell’avversario implicitamente confessa42 (benché non sempre il
silenzio possa identificarsi con un ‘consenso’). Nella collocazione che il brano ha ottenuto all’interno
del Corpus iuris civilis, si evidenzia come il giurista severiano, esaminando il comportamento di colui che,
interrogato in giudizio, tace, intendesse precisare i contorni e le conseguenze di due diverse situazioni:
da un lato quella del confessus che risulta iudicatus, quodammodo sua sententia damnatur; dall’altro lato quella
del tacens, il quale, con il suo mutismo, tenta di evitare ogni responsabilita’ (sia quella del confessus, sia
quella dell’obiettore)43. Cosi’, da un lato il giureconsulto severiano Paolo contestava che il tacens dovesse
essere immancabilmente considerato confessus, in quanto una sbrigativa interpretazione del silenzio come
‘consenso’ avrebbe potuto dare luogo ad una finzione giuridica (cd. ficta confessio: ‘parla, altrimenti sei
considerato reo confesso’); per altro verso, il giurista ammetteva che l’indefensus (colui che resta inerte di
Cfr. soprattutto Ranelletti, op. cit., pp. 3 ss..
H. Dernburg, Pandette, I (tr.it. Torino 1903) § 98, n. 14.
42 Lo nota A. Guarino, op. cit., pp. 408 ss., nt. 32.1.1.
43 Così M.S. Goretti, op. cit., p. 158.
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fronte all’azione dell’avversario), tacendo, dimostrava di non volere assumere alcuna iniziativa e percio’
veniva sanzionato.
Resta invece dubbio se il giurista individuasse la ratio di questa disciplina nel fatto che l’indefensus,
con la sua inerzia, implicitamente sembrava ammettere le ragioni della parte attrice. Diversamente, si
potrebbe ipotizzare che Paolo volesse ricondurre la sanzione alla volonta’ di non fare e di non dire, non
alla identificazione del silenzio come assenso44. E, per vero, questa rappresentazione dell’indefensus come
parte inerte (e non implicitamente consenziente rispetto alle affermazioni della parte attrice) potrebbe
risultare avvalorata dalla definizione ulpianea in D. 50.17.52 (non defendere videtur non tantum qui latitat, sed
et is qui presens negat se difendere aut non vult suscipere actionem). Ma, a nostro avviso, e’ troppo sottile, e
comunque priva di rilievo pratico-giuridico (percio’ verosimilmente estranea al pensiero giuridico
romano) la distinzione tra silenzio come ‘manifestazione di volonta’’ e silenzio come ‘indice’ di volonta’.
Quel che ci interessa e’ piuttosto rimarcare il senso del rilievo del giurista, secondo il quale non e’ vero,
in assoluto, né che il tacens consente sempre, né che il tacens non vuole mai dire nulla: Paolo, con questa
affermazione solo apparentemente ‘sibillina’, richiama l’interprete alla necessita’ di esaminare il contesto
in cui, caso per caso, si colloca il silenzio.
In definitiva, anche se il contenuto del testo pauliano non riveste importanza determinante per
la questione generale, almeno nel senso che in esso non si propongono né si enunciano regole
universalmente valide per l’interpretazione del silenzio in ambito giuridico, e’ tuttavia innegabile che una
regola nel testo viene enunciata, anche se la sua applicazione era in origine circoscritta al caso di specie
della confessione in giudizio. Il criterio indicato dal giurista romano era probabilmente gia’ conosciuto e
praticato nei diritti greci: si richiama al riguardo il regime della proclesis eis basanon in diritto attico, ove il
rifiuto di acconsentire alla basanos di uno schiavo da assumere come testimone si risolveva in un
elemento di prova a favore dell’avversario45.
L’importanza del brano che abbiamo appena esaminato non e’ sfuggita a buona parte della
civilistica moderna, che ha assunto D. 50.17.142 quale paradigma del valore giuridico del silenzio nella
medesima fattispecie esaminata da Paolo. Cosi’, l’impostazione romana e’ passata ai codici moderni46. In
applicazione dell’art. 218, 2° comma, dell’abrogato Codice di procedura civile italiano del 1865, il
silenzio si qualificava nell’ambito delle prove, grazie all’elaborazione di una figura finzionistica di
‘confessione’ (ficta confessio): “quando la parte … ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti
dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo”. Il silenzio si poneva allora come ‘segno’ di
positivita’ giuridica, fatto qualificante e produttore di effetti giuridici (onere della prova). Poi, a seguito
di vivaci discussioni, sollecitate dagli studi di Scialoja47 (e tenute soprattutto presenti le peculiari esigenze
del processo civile odierno, incentrato sul principio della libera persuasione del giudice), il legislatore ha
ceduto alla tentazione di sopprimere tout court il problema, assegnando al silenzio (inteso come fatto
non-significante) valore adiaforetico48. Nell’attuale ordinamento, pertanto, il medesimo silenzio non e’
più riconosciuto come autonomo elemento di prova (art. 232, comma 1, c.p.c. it. vig.: “se la parte …
rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il collegio, valutato ogni altro elemento di prova, puo’
ritenere come ammessi i fatti dedotti dall’interrogatorio”). In sostanza, l’abolizione dell’art. 218 del
c.p.c. del 1865 ha determinato “come era prevedibile, nella giurisprudenza e negli studi sul processo
civile, la scomparsa del problema come tale, proprio perché il legislatore aveva decretato ‘adiafora’ il
silenzio nei riguardi degli effetti probatori”49.
Eppure, se si travalica l’ambito procedurale, si puo’ notare come il legislatore non sempre ha
adottato lo stesso orientamento. Sicché e’ parso a taluni50 di potere affermare che tracce di una
imperfetta conoscenza o consapevolezza della problematica sottesa ai profili giuridici del silenzio
traspaiono dal fatto che nel nostro ordinamento il medesimo fenomeno (silenzio) appare interpretato, e,
Propende per questa interpretazione M. S. Goretti, op. cit., pp. 161, 165 ss..
Lo ricorda A. Biscardi, Prefazione a M. S. Goretti, op. cit., IX.
46 G. Scaduto, Sulla ‘ficta confessio’ dell’interrogando, in Rivista di diritto processuale civile II (1925), p. 3.
47 Il quale approfondì il problema, in chiave storica, della possibilità o meno di formulare una teoria del silenzio quale fatto
giuridico.
48 Così M. S. Goretti, op. cit., pp. 2, 31, A. Biscardi, Prefazione cit., p. 9.
49 M. S. Goretti, op. cit., p. 2.
50 V. soprattutto M. S. Goretti, op. cit., p. 31.
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di conseguenza, disciplinato, nell’ambito di diversi istituti, in modo diverso, o addirittura
contraddittorio: ad es., mentre per l’art. 1399 c.c. it. vigente il silenzio nella rappresentanza non
costituisce ratifica, per l’art. 1926 c.c. it. vigente il silenzio dell’assicurato vale come adesione. Ma ecco il
punto: queste differenze esistenti all’interno del nostro ordinamento vanno interpretate come aporie,
oppure come consapevole assegnazione di un diverso rilievo del fatto-silenzio nell’ambito dei diversi
istituti giuridici? La varieta’ interpretativa data al silenzio e’ davvero segno di mancato coordinamento
tra le diverse branche del nostro sistema giuridico, o, piuttosto, deriva da una opportuna
diversificazione dei canoni ermeneutici, in ragione delle peculiarita’ degli istituti, dei rapporti, degli
interessi in gioco? Il quesito e’ stimolante, anche perché, come tra breve constateremo, anche il diritto
romano si presenta ricco di siffatte apparenti contraddizioni nelle medesime materie.
4. CICERONE E LE COMPONENTI ETICHE NEL FENOMENO GIURIDICO DEL SILENZIO
Come si e’ più sopra accennato, riteniamo che, ai fini di una corretta ricostruzione in chiave
storica del rilevo giuridico del silenzio, occorra fare ancora prevalente riferimento alle ricerche del
Savigny, il quale, seguito in Italia da parte della civilistica51, aveva rilevato l’impostazione casistica delle
fonti romane e quindi la tendenza della giurisprudenza ad esaminare il rapporto giuridico concreto,
separando nettamente il consentire, il velle, il fateri, dal non nolle, dal non contradicere, dal non negare, dalla
scientia, dalla patientia, il tutto in ragione della natura dell’atto e del rapporto coinvolti nel ‘fatto-silenzio’.
Nelle fonti giuridiche romane il fenomeno del ‘silenzio’ si esprimeva dunque in svariati modi; e’
cio’ sembra significativo della determinazione degli antichi giureconsulti di segnalare e di descrivere “in
concreto un certo comportamento o una certa realta’ attraverso le varie modulazioni del particolare”52;
le espressioni più ricorrenti erano le verbali silere, tacere, non dicere, non contradicere, non prohibere, pati, talora
venivano utilizzati i termini tacens, invitus. Le stesse formule espressive potevano assumere un significato
più specifico in determinati contesti. Silere, in CI. 11.59(58).8, indicava lo stato di inerzia del proprietario
fondiario di fronte al possesso esercitato da un terzo (omni possessionis et dominii carebit iure qui siluit);
l’espressione silentio ac taciturnitate in CI. 7.32.10 significava che, ai fini del legittimo esercizio tanto del
possesso quanto della detenzione, occorreva l’acquiescenza di eventuali controinteressati53. L’evidente
assenza di una terminologia unitaria e ‘tecnica’ per la qualificazione del silenzio in ambito giuridico e,
per conseguenza, il ricorso ad una molteplicita’ di forme espressive - che riteniamo originata anche dalla
diversita’ dei casi contemplati - sembrano costituire un ulteriore elemento in favore della tesi casistica
della questione del silenzio54.
Tra le più antiche testimonianze romane sul valore giuridico del silenzio va annoverata la
trattazione ciceroniana del problema nel terzo libro del de officiis. La discussione dell’Arpinate verteva
sulla reticenza nella compravendita. Di questa, l’Arpinate adduceva alcuni esempi55.
Il primo concerneva il caso di un onesto commerciante (vir bonus), il quale aveva trasportato a
Rodi, in tempo di carestia, una gran quantita’ di grano, con il proposito di venderlo a prezzo
particolarmente elevato, approfittando della penuria della merce e pur essendo venuto a sapere
dell’imminente arrivo a Rodi di numerose navi cariche di frumento. Ed ecco il problema giuridico:
all’atto della vendita, il commerciante poteva legittimamente tacere del prossimo arrivo di ingenti
quantita’ di grano? Secondo Diogene al vir bonus era consentito tacere, dal momento che lo ius civile
imponeva solo di denunziare i vizi della merce (e l’imminente maggiore quantita’, sul mercato, del
frumento che stava per essere messo in vendita con prezzo maggiorato non poteva essere considerato
vitium), mentre Antipatro evidenziava l’inganno nascosto nel non-parlare (15-50). Cicerone, dal canto
suo, per bocca di Antipatro, assimilava il silenzio alla reticenza; questo passaggio consentiva all’oratore
V. Simoncelli, Il silenzio nel diritto civile, in RIL., p. 30, s. II (1897), p. 253 ss..
M. S. Goretti, op. cit., p. 62.
53 Il testo e’ di difficile e controversa interpretazione: v. amplius la nostra esegesi in La tutela del possesso in età costantiniana
(Napoli 1998), pp. 240 ss..
54 Contra M. S. Goretti 67, ma l’assenza di terminologie specifiche e tecniche da parte dei giuristi romani e’ costantemente
indizio di una visuale casistica degli istituti: v. ad es. le considerazioni che abbiamo già svolto, su ampia base testuale, in La
tutela del possesso in età costantiniana, pp. 240 ss. e passim.
55 Su cui si v. l’accurata esposizione di M. S. Goretti, op. cit., pp. 69 ss..
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di identificare il silenzio con la dissimulatio, la quale richiamava a sua volta la celebre definizione del dolus
malus di Aquilio Gallo (aliud simulatum, aliud actum). Ed ecco la conclusione: Quod si Aquiliana definitio vera
est, ex omni vita simulatio dissimulatioque tollenda est (15.61). Dunque, Cicerone, reputando la reticenza una
risposta consapevole, attribuiva una precisa responsabilita’ a colui che aveva taciuto (il silenzio, in
quanto ‘risposta’ consapevole, era un fatto turpe); mentre, secondo la tesi della parte avversa, sarebbe
stata da escludersi la responsabilita’ del tacens, in quanto nessuna domanda era stata posta a chi aveva
taciuto (il silenzio si reputava lecito, in quanto non costituiva ‘risposta’, non essendo stata posta alcuna
domanda).
La seconda esemplificazione proposta dall’Arpinate era incentrata sulla distinzione tra ‘celare’ e
‘tacere’, e riguardava il caso del bonus vir che avesse alienato una casa con difetti (aliqua vitia) di non poco
conto (13.54), dei quali lui solo era a conoscenza. Si poneva allora il quesito: l’aliena nte, all’atto della
vendita, era tenuto a parlare o poteva legittimamente tacere? Antipatro assumeva che il tacere sarebbe
equivalso a un inganno, ma Diogene replicava che il soggetto, pur fuorviato dal silenzio, non era pero’
stato costretto da nessuno ad acquistare, essendosi limitato il venditore ad offrire la sua merce (13.55).
Ma in questa fattispecie, con tutta evidenza, il silenzio non si profilava come un non-fatto: l’alienante
aveva maliziosamente occultato cio’ che sapeva (13.57: Neque enim id est celare quidquid reticeas, sed cum quod
tu scias id ignorare emolumenti tui causa velis eos, quorum intersit id scire). In definitiva, l’argomentazione
ciceroniana si articolava su due poli: la concezione del silenzio come comportamento positivo, “un fare
nel non-fare”56, e il richiamo al ‘principio dell’affidamento’ (16.65: Melius aequius in fiducia inter bonos bene
agere).
Il ricorso al ‘principio dell’affidamento’ risulta ancora più esplicito nel terzo esempio di
reticenza, concernente una sentenza emessa dal giudice Marco Catone (padre dell’Uticense). La
questione verteva sulla vendita di una casa sul Celio; ne era proprietario Tiberio Claudio Centumalo, al
quale gli auguri avevano intimato la demolizione di quelle parti del fabbricato che impedivano
l’osservazione degli auspici. Centumalo aveva omesso di rappresentare tale situazione all’acquirente,
Publio Calpurnio Lavorio; e questi, dopo avere ricevuto dagli auguri l’intimazione alla demolizione e
dopo avervi ottemperato, aveva convenuto in giudizio Centumalo ex fide bona. Catone, ritenendo
l’alienante responsabile per avere taciuto, lo aveva condannato, cum in vendendo rem eam scisset et non
pronuntiasset (16.66). Nel commentare il caso, Cicerone non nascondeva la difficolta’ di valutare sul
piano giuridico la coloritura del silenzio dell’alienante: l’abitazione di Centumalo non era affetta da vizi
occulti e, d’altra parte, lo ius civile non sanzionava indiscriminatamente ogni tipo di reticenza (16.67:
huiusmodi reticentiae iure civili comprehendi non possunt); tuttavia, soggiungeva l’Arpinate, le ipotesi di reticenza
che si potevano ritenere sanzionate dallo ius civile implicavano l’obbligo della diligenza (quae autem
possunt, diligenter tenentur). Cosi’, la sentenza di Catone (pertinente a un iudicium bonae fidei) si era
opportunamente richiamata all’obbligo, specifico del venditore, di non tacere le circostanze di cui si era
a conoscenza (16.66), quando lo richiedesse la norma sociale dell’affidamento57.
Da quanto esposto risulta chiara, a nostro parere, la propensione dell’oratore per una
individuazione casistica della rilevanza etico-giuridica del silenzio. E’ pur vero che nei segnalati luoghi
dell’opera ciceroniana non manca l’indicazione di criteri utili all’interpretazione del silenzio: negli
esempi illustrati, si e’ constatato come, laddove non soccorressero specifiche prescrizioni dello ius civile,
il richiamo alla diligentia o alla bona fides si saldavano con “un principio sociale di attesa per un
comportamento di bonus vir”58, assimilabile al moderno principio dell’affidamento. Ma occorre tenere
ben presente che le esemplificazioni addotte dall’Arpinate attenevano tutte alla materia della
compravendita, che in diritto romano era governata dal principio di buona fede, e, ancora più in
particolare, alle implicazioni della reticentia nel corso delle trattative. Il costante richiamo operato da
Cicerone alla sfera etica, nella valutazione giuridica del silenzio, e’ dunque riconducibile alle peculiarita’
delle obligationes consensu contractae (tutelate con azioni processuali bonae fidei dal pretore romano sullo
scorcio dell’eta’ repubblicana), nel cui ambito si inseriva appunto l’emptio venditio. Queste le ragioni per
cui, a nostro avviso, non e’ possibile generalizzare le considerazioni morali e tecnico-giuridiche svolte
M. S. Goretti, op. cit., p. 82.
In tal senso M. S. Goretti, op. cit., p. 83.
58 M. S. Goretti, op. cit., p. 87, della quale, però, non condividiamo le conclusioni.
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dall’oratore a tale proposito, né, per conseguenza, asserire che Cicerone intendesse tracciare una ‘teoria
generale del silenzio’.
5. GLI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA ROMANA: IL SILENZIO NEL PROCESSO
Pure in assenza di un principio generale sulla valenza giuridica del silenzio, dalle fonti risulta
chiaro che i Romani non equipararono il tacere al parlare: diversamente da quanto sostenuto dal
romanista Pacchioni59, in diritto romano il silenzio non valeva a costruire validamente l’atto, se non in
casi eccezionali previsti dai mores, da disposizioni normative, o da una consolidata interpretazione
giurisprudenziale. Per conseguenza, ogni caso di inespressione della volonta’ dotata di effetti costituiva
ius singulare, benché poi la giurisprudenza romana ne abbia considerevolmente esteso gli ambiti originari
di applicazione60; il silenzio, dunque, si equiparava alla volonta’ espressa, negli effetti giuridici, per il caso di
specie (“hic accipimus”, “hic sufficit”). Secondo la gia’ esposta teoria del Bonfante61, si potrebbe riconoscere
una volonta’ anche in queste figure anomale, una sorta di assentimento puramente negativo, passivo
(cioe’ una “volonta’ più debole, una configurazione quasi anomala e incompleta del processo volitivo”,
ciononostante dotata di efficacia giuridica62): in questi casi ci troveremmo di fronte alla involuzione di
un antico consenso pieno.
Verificheremo tra breve come il criterio, molto semplice, cui i Romani si ispirarono fu quello
per cui, di regola, ai fini della valida costituzione di atti e rapporti occorreva il fateri63: dall’intreccio
inscindibile (almeno fino ad eta’ classica inoltrata) sussistente nel diritto romano tra volonta’ e
manifestazione esteriore, consegui’ l’esclusione della possibilita’ che una volizione, per quanto seria essa
fosse, avesse rilevanza giuridica ove non si accompagnasse ad un qualche segno esteriore e
inequivocabile della sua esistenza e del suo contenuto. Anche i negozi a forma libera implicavano
comunque una manifestazione rivelatrice della volonta’ interna. Il ‘silenzio’, o, più in generale, la
‘inespressione della volonta’’ (cioe’ la mancanza di esteriorizzazione della stessa, a mezzo di gesti o di
comportamenti concludenti), non era indicativo di nulla e percio’ impediva la nascita del negozio a vita
giuridica. Dal che, si e’ gia’ accennato, non soltanto derivo’ la irrilevanza della ‘riserva mentale’ (reservatio
mentis), ma derivo’ altresi’, almeno in diritto preclassico e classico, la esclusione del cd. ‘negozio tacito’,
cioe’ del negozio dedotto presuntivamente dal fatto che un soggetto avesse interesse a porlo in essere e
non avesse in alcun modo manifestato la volonta’ di rinunciarvi64.
I Romani individuarono pero’ numerosi atti e rapporti per la valida costituzione dei quali si
ritenne sufficiente non negare; in particolari fattispecie, l’ordinamento giuridico connetteva al silenzio
determinate conseguenze. Tra queste, va annoverato il caso tipico del silenzio in giudizio (più sopra gia’
illustrato), preso in considerazione dal giureconsulto severiano Paolo, in un brano conservato in D.
50.17.142: di fronte all’interrogazione del magistrato, la parte era tenuta a fornire una risposta e, se
taceva, si considerava rea confessa65. Dunque, in rapporto al principio del contraddittorio, la taciturnitas
veniva interpretata alla luce di criteri specifici.
Si puo’ affermare che in tutto l’ambito processuale il silenzio si coloriva di particolari significati.
Una delle più antiche azioni processuali poste a tutela dei vincoli obbligatori, la legis actio sacramenti in
personam, era strutturata in modo tale da prevedere, dopo l’affermazione del proprio diritto di credito
effettuata dall’attore, la negazione del convenuto, oppure il suo silenzio. Al tacere si conferiva dunque un
significato giuridico predeterminato, trasformando il silenzio in un comportamento normativamente
tipizzato. Tanto risulta dalle formule riprodotte da Valerio Probo nell’opera de notis iuris66 (quando
G. Pacchioni, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Riv. dir. comm. 1906, II, pp. 23 ss..
Sulla ‘funzione legistativa’ esercitata dalla giurisprudenza romana, P. Bonfante, Scritti III cit. pp. 151166, e, soprattutto,
ID., La giurisprudenza nello svolgimento del diritto. Prolusione pubblicata in Temi veneta XX (1893).
61 Nota pubblicata nel Foro italiano XXV (1900), p. 467.
62 P. Bonfante, Scritti III cit., p. 175.
63 Sullo stretto collegamento sussistente nel diritto romano (almeno fino ad età imperiale) tra volontà e manifestazione, v.
quanto già esposto supra, nel testo.
64 A. Guarino, op. cit., pp. 408 ss., nt. 32.1.1.
65 P. Bonfante, Scritti III cit. 181.
66 Cfr. A. Biscardi, Lezioni sul processo romano antico e classico (Torino 1968), p. 78.
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negas…; quando tu neque ais neque negas). Purtroppo la fonte non precisa il seguito della formula, né,
dunque, quali conseguenze gli antichi Romani collegassero al silenzio del debitore in giudizio; ma
l’ipotesi più attendibile e’ che il non-parlare o il non-negare del convenuto fossero equiparati alla
confessio. Tale conclusione sembra avvalorata dal testo della lex Rubria67, che, illustrando l’ipotesi di
indefensio nella condictio certae pecuniae, indicava quali presupposti della condanna la confessione (confessio) e
il non rispondere in giudizio (non rispondere in iure)68. La ratio di questa equiparazione era nel fatto che in
entrambe le ipotesi il convenuto non si difendeva come stabilito (uti oportet)69.
Con riferimento alla interrogazione in giudizio se si fosse erede (interrogatio in iure an heres sit),
Ulpiano affermava che chi taceva, di fronte alla domanda del magistrato, era equiparato a chi negasse di
essere erede, dal momento che chi non rispondeva dimostrava disprezzo per il pretore (…quia praetorem
contemnere videtur) ed era percio’ considerato contumace (contumax : Ulp. D. 11.1.11.4).
Abbiamo informazioni sufficientemente precise anche per cio’ che concerne la cd. volontaria
giurisdizione, dove una particolare valenza assumeva il silenzio nel rito della in iure cessio, antichissimo
processo fittizio volto a realizzare il trasferimento dei beni. Secondo la descrizione di Gaio (2.24),
l’acquirente affermava, al cospetto del proprietario alienante, che la res (una cosa inanimata, una animale,
uno schiavo) era sua per il diritto dei Quiriti (… ‘hunc ego hominem ex iure Quirirtium meum esse aio’…),
quindi il magistrato chiedeva all’alienante se volesse effettuare la contravindicatio (cioe’ affermare la
proprieta’ del bene, con le stesse parole gia’ proferite dall’acquirente); colui che intendeva trasferire la
proprieta’ del bene, a questo punto, o negava esplicitamente di volere contravindicare, o semplicemente
taceva (…quo negante aut tacente…) e infine il pretore pronunciava l’addictio, cosi’ suggellando la fattispecie
traslativa70. Dunque, l’esplicito rifiuto di contravindicare era - secondo quanto attesta Gaio - perfettamente
equivalente al silenzio e veniva concepito come risposta alla domanda del magistrato71; tuttavia, gli
effetti traslativi non dipendevano direttamente dal negare o dal tacere dell’alienante, bensi’ dall’addictio
effettuata dal pretore. Nella in iure cessio, il silenzio dell’alienante era rilevante, come manifestazione di
volonta’ (‘comportamento normativamente tipizzato’), in quanto contegno significativo della volonta’ di
effettuare una cessio, che pero’ si realizzava solo a seguito del provvedimento magistratuale.
Al riguardo, occorre ancora una volta ricordare come, nell’esperienza giuridica romana, la
questione del silenzio investa più genericamente il tema della manifestazione della volonta’: per il
prevalente formalismo degli atti più antichi, l’esigenza di ricercare la volonta’ delle parti negoziali si fece
strada molto lentamente ed era per lo più l’ordinamento a ricondurre determinate conseguenze ai
contegni assunti dai soggetti. Basti ricordare che il requisito del consenso era richiesto, ancora in eta’
classica, solo per i quattro contratti introdotti dal pretore romano (compravendita, locazione, mandato,
societa’), mentre per contrarre le altre obbligazioni (re, verbis, litteris) l’elemento essenziale dell’atto era
costituito, rispettivamente, dal trasferimento del bene, dalle scritturazioni, dalla pronunzia di frasi
determinate. Risalendo indietro fino all’arcaica societa’ patriarcale, persino l’elemento della volonta’, ai
fini della validita’ dell’atto, risultava privo di essenzialita’, in quanto assorbito dalla forma.
Percio’, un rapido esame degli atti di autonomia privata di origine più antica dimostra che la
considerazione per la volonta’ degli autori (e, quindi, per la sua espressione) era assai scarsa, dandosi
peso prevalente alla osservanza delle formalita’ gestuali prescritte. Si e’ ricordato che tanto nella
mancipatio – e specie nella particolare applicazione della manumissio vindicta - quanto nella in iure cessio (che
avevano la forma della confessio in iure), il compimento dell’atto risultava connesso all’inerzia di una delle
parti negoziali: il silenzio dell’alienante, di fronte alla rivendica del bene da parte dell’acquirente. Ma in
tali particolari casi72 di silenzio, o, meglio, di inerzia, questa particolare significazione di volonta’ non era
meramente eventuale, bensi’ necessariamente implicata dalla struttura stessa delle fattispecie, che
risultavano congegnate in modo tale da riconnettere alla mancata reazione di fronte alla rivendica della
FIRA., I, 2° ed. (1941), pp. 173 ss..
Lett. in G. Negri, Appunti sull’ ‘indefensio’ nella ‘condictio certae pecuniae ex lege Rubria’, in Atti del III Conv. di Studi Veleiati
(Milano 1977), pp. 223 ss.; M. S. Goretti, op. cit., pp. 168 ss..
69 Così G. Provera, Il principio del contraddittorio nel processo civile romano (Torino 1970), pp. 101, 103, 105; diversamente G.
Negri, op. cit., pp. 223 ss., il quale vede nel silenzio una ‘collaborazione al rito processuale’ (nel non difendersi).
70 A. Biscardi, Lezioni sul processo romano cit., p. 58; G. Provera, op. cit., p. 45.
71 Lo rileva M. S. Goretti, op. cit., p. 163.
72 Cui adde D. 23.1.12 pr. e Vat., p. 194.
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controparte negoziale il prodursi di determinati effetti: l’omissione di reazione denotava acquiescenza,
cioe’ volonta’ di consentire, attraverso un ‘comportamento concludente’73, all’addictio magistratuale.
L’inerzia (il silenzio) dell’alienante costituiva, insomma, vero e proprio elemento di perfezionamento
della fattispecie: come rilevo’ il Ferrini, nelle sue Pandette74, e’ questo “l’unico esempio … di silenzio
preordinato a manifestazione di volonta’, che le fonti ci offrono”.
6. IL SILENZIO IN MATERIA DI RAPPRESENTANZA
In questo ambito, risulta particolarmente significativo un testo giurisprudenziale del III sec.
d.C., conservato dai compilatori giustinianei in D. 3.3.8 pr.-1 (Ulp. 8 ad ed.). Nel passo, relativo alla
nomina del procuratore, dopo la descrizione del caso di specie, Ulpiano enunciava il principio generale
che governava la materia: ‘nessuno puo’ essere costituito procuratore contro la sua volonta’’ (invitus). Il
termine invitus -precisava il giureconsulto - non stava ad indicare solo chi dichiarasse la sua opposizione,
ma anche il soggetto che non consentisse, o del quale non si potesse dimostrare il consenso (invitum
accipere debemus non eum tantum qui contradicit, verum eum quoque qui consensisse non probatur). In questa
particolare fattispecie, dunque, il silenzio non produceva alcun effetto giuridico (ma lo si poteva
equiparare – quanto agli effetti - ad una manifestazione di dissenso75), in quanto, ai fini della nomina del
procuratore, si richiedeva una manifestazione di volonta’ inequivocabile.
Diverso valore giuridico assumevano il silenzio del procuratore giudiziale con mandato e il
silenzio del defensor: da D. 3.3.15 (Ulp. 8 ad ed.) e da D. 3.3.40.4 (Ulp. 9 ad ed.) risulta che taluni obblighi
nascevano in capo al procuratore alla sola condizione che egli fosse stato consapevole e non contradicente;
similmente, per il defensor il silenzio generava obblighi, a meno che non si riuscisse a dimostrare la sua
contraria voluntas. La ratio dell’efficacia qui attribuita al silenzio (equiparato all’assenso) e’ chiara: in queste
fattispecie il silenzio si prospetta come “fatto secondario, nascente cioe’ da un antefatto: nel primo caso
il mandato di cui il procurator e’ investito, nel secondo l’intervento volontario di colui che si presenta
come defensor”76.
Caratteri non diversi rivestiva il silenzio nell’ambito delle azioni adiettizie (in particolare, actio
exercitoria e actio tributoria), il cui presupposto era costituito dalla autorizzazione prestata dall’avente
potesta’ alla conduzione di determinate attivita’ commerciali da parte dei sottoposti (praepositio). Ma la
giurisprudenza opto’ presto per una interpretazione estensiva dell’editto: l’avente potesta’ rispondeva
dell’attivita’ del magister navis purché di questa fosse consapevole e tollerante (D. 14.1.1.5: … ceterum si scit
et passus est eum in nave magisterio fungi, ipse eum imposuisse videtur…)77. Analogamente, il dominus era tenuto in
base all’actio tributoria purché sciens, cioe’ – precisa Ulpiano - purché risultasse, se non addirittura il suo
assenso (voluntas), almeno la patientia, la mancata espressione di volonta’ contraria (D. 14.4.2-3: …
scientiam hic eam accipimus, quae habet et voluntatem; sed, ut ego puto, non voluntatem, sed patientiam: non enim velle
debet dominus, sed non nolle. Si igitur scit et non protestatur et contra dicit, tenebitur actio tributoria). La
responsabilita’ del dominus nasceva dunque dalla mancata protesta, dall’acquiescenza, benché la semplice
scientia non fosse assimilabile alla praepositio. Non si trattava pero’ di un principio generale, legato a un
canone ermeneutico universalmente valido. Ulpiano e’ molto chiaro sul punto: questa interpretazione
del termine scientia era circoscritta alla fattispecie in esame (scientiam hic eam accipimus…).
Tale conclamata varieta’ di valenze giuridiche non significa pero’ che vi fosse, in diritto romano,
‘contraddittorieta’’ nella casistica del silenzio. Al contrario, come bene e’ stato messo in luce da
Bonfante, i giuristi romani si mostrarono perfettamente consapevoli del fatto che sussistevano taluni
atti e rapporti per la valida costituzione dei quali occorreva il fateri, mentre altri ve ne erano per cui
bastava il ‘non negare’, affinché si producessero determinati effetti giuridici: erano questi i rapporti in
cui, benché la ‘manifestazione di volonta’’ fosse quella – oggettiva - del tacere, risalendo all’antefatto,
Così P. Bonfante, Scritti III cit., p. 180; A. Guarino, op. cit., p. 408 nt. 32.1.1.
Op.cit., p. 150 (n. 111).
75 Contra M. S. Goretti, op. cit., p. 108 (per la lettura del brano in esame, pp. 87 ss. e 106 ss.), la quale rileva, ma sotto altro
profilo, che la fattispecie illustrata non era equiparabile a una manifestazione di dissenso, per difetto di causalità.
76 M. S. Goretti, op. cit., p. 92.
77 Sul testo, G. Donatuti, op. cit., pp. 405 ss..
73
74
12
sulla guida di un ‘principio di affidamento’ ante litteram, o ispirandosi ai principi regolatori della materia
specifica (ad es. favor testamenti, pubblica utilita’, privilegi legati a particolari professioni, etc.), mediante
un ragionamento induttivo-deduttivo si poteva assegnare al silenzio una determinata valenza, ed
eventualmente addossare al tacens talune conseguenze del suo atteggiamento: era dunque attraverso una
operazione logica, e non arbitraria, che si poteva privare il silenzio della sua intrinseca ambiguita’78.
Le stesse considerazioni valgano nella lettura di Ulp. D. 50.17.60 (Semper qui non prohibet pro
se intervenire, mandare creditur. sed et si quis ratum habuerit quod gestum est, obstringitur mandati
actione), in cui la mancata prohibitio comportava la valida costituzione del contratto consensuale di
mandato; e di Ulp. D. 27.7.4.3 (Fideiussores a tutoribus nominati si praesentes fuerunt et non
contradixerunt et nomina sua referri in acta publica passi sunt, aequum est perinde teneri, atque si iure
legitimo stipulatio interposita fuisset), testo dal quale si evince che la presentia e la patientia dei
fideiussori del pupillo nominati dai tutori producevano gli stessi effetti della promessa nella forma di
stipulatio.
In ambedue i testi il silenzio e’ chiaramente individuato come risposta (silenzio-assenso), ma
alquanto differenti appaiono le finalita’ di questa interpretazione. Nella prima fattispecie, traspare
l’esigenza di tutelare, con l’azione che spetta al mandatario nei confronti del mandante, colui che avesse
subito sacrifici patrimoniali, per spirito di amicizia o per corrispondere a un dovere morale verso una
persona non assente e non dissenziente (cd. mandato tacito79). Nel secondo caso il silenzio non viene
colorito di significato a seguito di una indagine sull’intimo volere del tacens, ma con il precipuo scopo di
tutelare “l’aspettativa di coloro che sulla manifestazione fanno assegnamento, interpretandola secondo
la normale valutazione sociale”80. La fattispecie, in dettaglio, e’ la seguente: il tutore nomina Tizio
garante, il quale non solo non si oppone (ed avendo presenziato all’atto della nomina sarebbe stato in
condizioni di farlo), ma tollera che il suo nome venga iscritto in atti pubblici. Ed ecco il problema
giuridico: il semplice pati (passi sunt) conferisce validita’ alla nomina del garante da parte del tutore?
Secondo il diritto classico, la fideiussione esige la forma, non essendo sufficiente la volonta’; ma con
riguardo al caso illustrato, il giurista severiano asserisce che l’estraneo presente e tacens si deve
considerare obbligato come fideiussore. La ratio di questa soluzione non e’ esplicitata, se non da un
generico richiamo all’aequitas. E’ possibile che la giurisprudenza romana si sia richiamata al favor
pupillorum - cosi’ come, sulle orme del Borgna, suggeriva Bonfante - ma qui sembra in gioco, più ancora
dell’interesse del pupillo, l’esigenza di tutelare la posizione dei creditori del pupillo, indotti a far credito
all’incapace dall’esistenza di un fideiussore81.
7. IL ‘SILENZIO -ASSENSO’ NEL DIRITTO DELLE PERSONE
Il valore pratico del riconoscimento di efficacia al silenzio (cd. dottrina del silenzio) e’ nel fatto
che si fornisce un mezzo semplice e comodo del decidere, risparmiando all’interprete l’analisi del
rapporto giuridico82. Abbiamo fin qui verificato che i Romani optarono invece per la soluzione casistica,
certamente più impegnativa, in quanto comportava la necessita’ di una approfondita analisi delle varie
tipologie di atti e di rapporti, nonché l’esigenza dell’attenta valutazione degli interessi in gioco.
Sulla base di tali considerazioni, il diritto romano attribui’ al silenzio il valore di assenso in una
serie di rapporti familiari83.
La fattispecie più eclatante potrebbe essere vista nel matrimonio, che i Romani consideravano
contratto non a seguito di un rito iniziale, bensi’ in forza dell’intimita’ e della comunanza di vita palesate
dai coniugi (affectio maritalis). Ma l’affectio maritalis non era propriamente assimilabile al semplice tacere, al
Ampiamente, su questi aspetti, M. S. Goretti, op. cit., pp. 92 ss..
Cfr. G. Donatuti, op. cit., pp. 404 ss..
80 M. S. Goretti, op. cit., pp. 98 ss..
81 Per una più particolareggiata lettura del testo, M. S. Goretti, op. cit., pp. 100 ss..
82 Lo ricorda P. Bonfante, Scritti III cit., p. 164.
83 Sintetica, ma esauriente trattazione in P. Bonfante, Scritti III cit., pp. 181 ss., sulle cui conclusioni si avanzano qui alcune
riserve.
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79
13
non nolle, al non contradicere, perché, al contrario si traduceva in ‘comportamenti concludenti’, quali il
dividere la stessa mensa, il mostrarsi abitudinariamente insieme in pubblico, etc.
La rilevanza del ‘silenzio’ va piuttosto saggiata in altri, più circoscritti ambiti del diritto di
famiglia. In materia di sponsali, il non-contradicere, da parte della figlia, era espressamente equiparato al
consenso (D. 23.1.12 pr. : quae patris voluntati non repugnat consentire intellegitur; D. 23.1.7.1: intellegi … patrem
consentire, nisi evidenter dissentiat). La ratio di questa disciplina era nella prevalente considerazione, in cui i
Romani tenevano, nella materia matrimoniale, la volonta’ del paterfamilias, mentre alla figlia sottoposta
alla potesta’ paterna era solo accordata la facolta’ di ‘dissentire’, opponendosi alla scelte paterne.
In linea generale, secondo i Romani per il matrimonio del figlio occorreva il consenso del padre,
affinché non nascesse un suus heres contro la sua volonta’. Non mancarono, pero’ le eccezioni alla
regola. Tanto risulta da Triph. D. 49.15.12.3 (filius, quem habuit in protestate captivus, uxorem ducere potest,
quamvis consentire nuptiis pater eius non posset; nam utique nec dissentire): il figlio sottoposto alla potesta’ di un
prigioniero di guerra poteva nel frattempo sposarsi, anche se il padre non era in grado di prestare il suo
consenso alle nozze, né di opporvisi. Il silenzio di chi era assente, e quindi ignaro (insciens), si profilava
come “impossibilita’ di consenso e di dissenso”84, tuttavia, in deroga ai principi generali (deroga dovuta
al favor matrimonii) si ammetteva la validita’ del matrimonio contratto in assenza del consenso che
avrebbe dovuto prestare il padre captivus.
Se per il matrimonio del figlio occorreva di regola il consenso del padre, nel diritto romano
classico per la figlia bastava la mancata opposizione paterna. Il silenzio del pater furiosus o demens era
pero’ assoggettato ad una interpretazione particolare, in quanto il fenomeno andava valutato alla luce
della disciplina della curatela (cura). Il non contradicere del padre affetto da patologia mentale era
equiparato al consenso in ipotesi di nozze della figlia, ma tale silenzio andava integrato dagli atti del
curatore in ordine alla dote e alla donazione prenuziale; con riguardo, invece, alle nozze del figlio, la
questione fu dai Romani lungamente discussa (…apud veteres agitabatur), finché in eta’ imperiale non si
soppresse la discriminante tra figli e figlie, unificando la disciplina. Tanto risulta da una costituzione
giustinianea del 530 (CI. 5.4.25.1: Et filiam quidem furiosi marito posse copulari … sufficere enim putaverunt, si
pater non contradicat…in filio autem familias dubitabatur… sancimus …ut non solum dementis sed etiam furiosi liberi
cuiuscunque sexus possint legitimas contrahere nuptias…), in cui emerge lo sforzo dei giuristi di affermare (in
applicazione del favor matrimonii) l’assimilazione al consenso anche del silenzio di un padre incapace di
intendere e di volere, evitando che il non contradicere di un pazzo fosse, in quanto tale, considerato privo
di effetti (costituzione di matrimonio legittimo). In materia matrimoniale, dunque, il silenzio del pazzo
era ‘atto’ valido, mentre in altre fattispecie (Ulp. D.8.2.5; D. 23.2.45.5; D. 47.2.48.3) il silenzio del pazzo
veniva considerato irrilevante (‘non-atto’), in quanto assimilato al silenzio dell’infans e dell’ignorans.
Quanto esposto consente di individuare – benché in via ipotetica - la ratio della diversita’ di
trattamento: quando da un fatto, che il soggetto era in grado di evitare, poteva derivare nocumento allo
stesso, l’ordinamento richiamava l’attenzione dell’interessato, imponendo una espressione
inequivocabile di volonta’; diversamente, il silenzio poteva avere valore di assenso. Alla stessa
conclusione (silenzio-assenso) si giungeva nell’ipotesi in cui il soggetto, che avrebbe dovuto esprimere il
suo consenso in ordine al compimento di un atto che l’ordinamento incoraggiava, fosse in qualche
misura incapace di intendere e di volere: cosi’, per il favor matrimonii, al fine di evitare al figlio
l’impossibilita’ di contrarre valido matrimonio (per mancato consenso di un padre, infermo di mente al
punto tale da non potere esprimere né un consenso né un dissenso), si equiparava il silenzio
dell’infermo al consenso.
Al fine presumibile di favorire la condizione legittima degli infanti, il silenzio del marito di
fronte alla denuncia di stato interessante della donna divorziata valeva come riconoscimento della prole
futura; le parole del giurista accentuano il significato del senatoconsulto Planciano, che penalizzava il
silenzio del marito (D. 25.3.1.4: poena autem mariti ea est … debebit igitur respondere). E’ questo uno dei casi
in cui il silenzio – equiparato all’assenso a titolo di sanzione a carico del coniuge che non avesse reagito
- generava obbligazione.
84
M. S. Goretti, op. cit., p. 114.
14
Da un testo giurisprudenziale della tarda eta’ classica risultano tracce di una disputa
giurisprudenziale circa l’espressione della volonta’ della figlia in ordine all’esercizio dell’azione dotale85
(Ulp. D. 24.3.2.2: Voluntatem autem filiae, cum pater agit de dote, utrum sic accipimus, ut consentiat an vero ne
contradicat filia? Et est ab imperatore Antonino rescriptum filiam , nisi evidenter contradicat, videri consentire patri).
Ulpiano si chiedeva, per l’ipotesi che il padre di una donna divorziata volesse agire nei confronti del
marito per il recupero della dote (con l’actio de dote), come dovesse essere interpretato l’atteggiamento
della donna: era necessario un espresso consenso, oppure era sufficiente il suo silenzio? Il giurista
richiamava al riguardo un rescritto imperiale, con il quale si era stabilito che, se la figlia non avesse
espresso la sua opposizione in modo evidente, la sua non-opposizione sarebbe valsa come consenso:
soluzione probabilmente ispirata alla tendenza – invalsa in eta’ classica - ad evitare che la dote rimanesse
presso il marito dopo il divorzio86.
Forse ispirata alla finalita’ di favorire il corretto svolgimento del contraddittorio in sede
processuale, sfruttando il vincolo di solidarieta’ sussistente tra i familiari, e’ l’affermazione contenuta in
D. 3.3.40.4: era valida la rappresentanza giudiziale da parte dei prossimi congiunti, purché non risultasse
la volonta’ contraria dell’interessato (non exigimus ut habeant voluntatem vel mandatum, sed ne contraria voluntas
probetur).
In un altro gruppo di testi, la ratio alla base del valore giuridico assegnato al silenzio era costituita
dalla pubblica utilita’. Nell’interesse della comunita’, si ‘riduceva’ il consenso del padre al decurionato
del figlio, reputandosi sufficiente il non contradicere del pater (Ulp.D. 50.1.2 pr.). E cio’ benché
l’assunzione della carica da parte del figlio comportasse per il padre una gravosa conseguenza: quando il
filiusfamilias era nominato decurione, il padre, che presenziasse alla cerimonia, diveniva ipso iure
mallevadore per gli oneri gravanti sul figlio, a meno che non si opponesse alla nomina. Da due testi
risulta che la contraria volonta’ paterna andava addirittura dimostrata: CI. 10.62 (60).1 e Paul. D.
50.2.7.3, in cui si prescriveva che l’opposizione fosse fatta manifesta apud acta praesidis vel apud ipsum
ordinem vel quo alio modo.
Ancora per ragioni di pubblica utilita’, si riteneva che se il soggetto nominato tutore, assente
all’atto della nomina, ne fosse poi venuto a conoscenza, per sottrarsi al compito assegnatogli avrebbe
dovuto produrre le sue giustificazioni con le formalita’ richieste; viceversa, il silenzio sarebbe stato
inteso come accettazione (CI. 5.37.19, a. 294: Tutor licet absens decreto datus, si sciens se sollemniter non
excusaverit, administrationi constituitur obnoxius). Tale equiparazione del silenzio all’accettazione aveva
l’evidente finalita’ di evitare che l’atteggiamento inerte costituisse una comoda scappatoia per sottrarsi ai
gravosi obblighi connessi con la tutela87.
Ancora in materia di rapporti familiari e parafamiliari giova richiamare quanto gia’ esposto sopra
in tema di actio tributoria (D. 14.5.1.3 e D. 14.4.1.3), per la quale la responsabilita’ per gli atti dei
sottoposti nasceva, in capo all’avente potesta’, dalla semplice patientia, senza che occorresse la voluntas88;
e cio’, verosimilmente, per la considerazione, da parte del pretore romano, della piena capacita’ di fatto,
nell’ambito delle operazioni economiche, di figli e schiavi adulti e maturi, ma formalmente sottoposti a
potesta’ altrui (cd. mera capacita’ di agire89). Infine va ricordata la fattispecie illustrata in materia di
rappresentanza (D. 27.7.4.3) e relativa alla validita’ della fideiussione dell’estraneo presente e tacente a
vantaggio del minore, in evidente applicazione del favor pupillorum, ma anche in attenta e opportuna
considerazione delle aspettative dei suoi creditori.
Quanto esposto sulla valutazione del ‘silenzio’ nell’ambito del diritto delle persone consente
alcune considerazioni supplementari. Secondo quanto gia’ rilevato da Bonfante90, talora l’attribuzione di
determinate valenze giuridiche al silenzio costitui’ il frutto di un lento processo di involuzione storica,
che aveva ridotto l’originaria esigenza di un consenso manifestato nei modi rituali ad una semplice
acquiescenza, resa manifesta da un atteggiamento silente, inerte; mentre, al contrario, in certi atti o
rapporti, a soggetti cui originariamente non era richiesto alcun consenso, né esplicito né implicito, si
Per l’esegesi del passo, cfr. P. Bonfante, Scritti III cit. 182; M.S. Goretti, op. cit., pp. 186 ss..
In tal senso G. Donatuti, op. cit., p. 147.
87 M. S. Goretti, op. cit., pp. 194 ss..
88 P. Bonfante, Scritti III cit., pp. 155, 182.
89 Ampia trattazione in A. Guarino, op. cit., pp. 366 ss..
90 Scritti III cit., pp. 154, 183.
85
86
15
impose, in progresso di tempo, una manifestazione di volonta’. Tanto risulta, con evidenza, dalla
disciplina di alcuni dei rapporti familiari appena illustrati. In eta’ arcaica non si teneva in alcun conto la
volonta’ del figlio e della figlia, sia nel matrimonio che negli sponsali; ma gia’ in eta’ classica si richiedeva
la volonta’ del figlio e la mancata opposizione della figlia (D. 23.1.7.1; D. 23.1.12 pr.)91. Viceversa, la
volonta’ in origine essenziale del padre si ando’ progressivamente riducendo, fino a giungere in
particolari situazioni al mero silenzio, al non dissentire (D. 49.15.12.3): i giuristi ebbero anzi cura di
precisare che il criterio del silenzio era stato imposto per publica utilitas o civili ratione. Cosi’, al figlio del
furioso fu consentito di concludere le nozze, purché il padre non vi si opponesse. Ugualmente, mentre
in antico non si reputava necessaria la volonta’ del figlio per l’adozione, Giustiniano richiese la volonta’
dell’adottando, anche se nella forma ‘limitata’ del non contradicere (D. 1.7.5; I. 1.12). Per il consenso della
figlia all’esercizio dell’azione dotale da parte del padre, i giuristi discussero se il consenso doveva essere
pieno, attivo, positivo, o mero assentimento passivo (utrum sic accipimus ut consentiat an vero ne contradicat92)
e l’opinione prevalente fu che bastasse il non contradicere. E ancora, per ridurre al minimo la violazione
del credito ex sc. Macedoniano, se da un lato la giurisprudenza fece sopravvivere l’obbligazione naturale,
dall’altro lato ridusse alla mera scientia, al non contradicere il consenso del paterfamilias, dato il quale cessava
il senatoconsulto (D. 14.6.12 e 16).
8. IL SILENZIO DEL PROPRIETARIO
In un gruppo di testi giurisprudenziali (D. 8.2.27.1; D. 8.5.11; D. 12.2.26.4; D. 10.3.28),
concernenti la contitolarita’ del diritto di proprieta’, il silenzio veniva interpretato come nonopposizione, per il mancato esercizio dello ius prohibendi93. In tali contesti, la ratio di questo canone
ermeneutico puo’ essere individuata nell’ esigenza di non paralizzare l’amministrazione del bene
comune, mentre lo strumento di realizzazione di tale finalita’ era evidentemente costituito da argomento
logico: se il socius non si avvaleva dello ius prohibendi, se ne poteva arguire che egli acconsentiva a che si
effettuasse cio’ che non aveva impedito, pur potendo farlo.
Appunto come ‘risposta’ rispetto a questo tipo di ‘domanda-antefatto’ veniva connotato il
silenzio del condomino in Pap. D. 10.3.28, relativo all’ipotesi in cui il comproprietario non si fosse
avvalso dello ius prohibendi: una volta condotta a termine la costruzione che avrebbe potuto impedire, il
condomino non poteva più farla abbattere. Anche con riferimento a questa fattispecie, il giureconsulto
aveva cura di distinguere il silenzio dell’assente (che equivaleva ad assenza di consenso) dal silenzio di
colui che, pur potendo esercitare il diritto di veto, non lo aveva fa tto (…si, cum prohibere poterat, hoc
praetermisit…: in cui l’uso del verbo praetermittere suggerisce che il giurista pensasse più a una negligenza
che non ad una determinazione di non-contradicere). L’esercizio dello ius prohibendi veniva cosi’ a
configurarsi alla stregua di un onere: colui che non se ne prendeva carico, ne subiva le sgradite
conseguenze, nella specie l’edificazione di un opus che avrebbe potuto impedire. Cio’ non comportava,
pero’, che il silenzio di chi non-contradicet si configurasse come vero e proprio assenso, tant’e’ che chi
praetermisit di esercitare il diritto di veto restava legittimato all’azione per danni: Papiniano precisava
appunto che l’azione per danni veniva riconosciuta in caso di mancato esercizio dello ius prohibendi, ma
non allorquando si fosse prestato il consenso (…sin autem facenti consensit, nec pro damno habet actionem)94.
L’atteggiamento inerte e ‘tollerante’ (pati) produceva conseguenze giuridiche anche in tema di
difesa della proprieta’ (Pomp. D. 39.3.1995): se il proprietario di un fondo tollerava la costruzione di un
opus, da parte del vicino, che cagionasse un flusso di acque a lui nocivo, perdeva il diritto alla tutela
processuale specifica (actio aquae pluviae arcendae). La fattispecie e’ stata inquadrata da taluni Autori come
una ipotesi di ‘decadenza’96, da altri – a nostro avviso più correttamente - di ‘rinunzia’ al diritto97.
Ulpiano precisava che la facoltà di dissentire era concessa alla figlia se il padre le proponeva persona indegna o turpe;
sembra che Giuliano richiedesse invece la volontà espressa della figlia (D. 23.1.11).
92 E’ interessante notare la contrapposizione concettuale.
93 Ampia trattazione, con riferimenti bibl., in M.S. Goretti, op. cit., pp. 115 ss..
94 Lo sottolinea M. S. Goretti, op. cit., pp. 118 ss.
95 Sul testo, M. S. Goretti, op. cit., pp. 134 ss..
96 Così G. Borgna, op. cit., p. 22.
97 M. S. Goretti, op. cit., p. 135.
91
16
Tra le applicazioni più macroscopiche della rilevanza giuridica del ‘silenzio’ del proprietario –
per l’incidenza nella pratica - e’ senz’altro da annoverarsi la materia dell’usucapione: gia’ nel V sec. a C.,
nelle XII tavole fu sancita la regola secondo cui l’uso di un bene da parte di un soggetto che non ne
fosse proprietario poteva condurre all’acquisto del diritto di proprieta’, se congiunto con l’acquiescenza
del proprietario (usus-auctoritas)98.
La patientia del proprietario rilevava anche – in quanto fonte di responsabilita’ - a proposito degli
illeciti commessi dagli schiavi99. I Romani, se in linea generale negavano che la mera scientia del delitto
altrui potesse dare luogo ad obligatio ex delicto (e cio’ persino nell’ipotesi in cui il soggetto sciens si trovasse
nella situazione di potere impedire la commissione del delitto100), criterio opposto seguivano in ordine
alla scientia domini, vale a dire, per il caso in cui il proprietario fosse consapevole del proposito di un
proprio servo di delinquere. Dalla lettura di Ulp. D. 9.4.2 e di Paul. D. 9.4.4101, risulta che se il dominus
era a conoscenza del proposito delittuoso del sottoposto, il suo atteggiamento inerte costituiva fonte di
responsabilita’ e non gli consentiva, di conseguenza, di sottrarsi alla condanna (per responsabilita’ suo
nomine); il proprietario insciens, invece, poteva liberarsi dalla responsabilita’ per l’illecito commesso dal
servo mediante consegna nossale del medesimo alla parte lesa (noxae deditio).
Nella materia penale collegata ai delicta servi, l’inerzia concretata nel non prohibere –
comportamento negativo - veniva assimilata, dunque, al comportamento positivo del permittere, anche in
considerazione del particolare rapporto che legava il proprietario allo schiavo, mero strumento in suo
potere: il proprietario, se voleva, poteva vietare di delinquere, al proprio servo, con assoluta autorita’102.
Ci risulta, al riguardo, l’elaborazione di un principio generale, da parte della giurisprudenza romana
classica (Ulp. D. 47.6.1.1: … Is autem accipitur scire, qui scit et potuit prohibere; scientia enim spectare debemus,
quae habeat et voluntatem). Il silenzio, l’inerzia dell’avente potesta’, il quale, pur sapendo, nulla faceva, non
interveniva, equivaleva alla connivenza, o, addirittura, celava un tacito iussum103. La scientia-patientia
veniva configurata pertanto, dalla giurisprudenza romana “come atto giuridico rilevante e fonte di
obbligazione”104, se il silenzio, l’inerzia, attenevano al rapporto servus-dominus; mentre era irrilevante, e
quindi non dava luogo ad alcuna responsabilita’, la scientia del proposito dell’estraneo di delinquere.
9. L’OMESSA ESTERNAZIONE IN MATERIA CONTRATTUALE E NELLE SUCCESSIONI MORTIS
CAUSA. IL CD . NEGOZIO TACITO
Si e’ gia’ più sopra segnalato come, in sede di ricostruzione storica del tema in esame, sia da
ritenersi inopportuno l’inquadramento di talune antiche ipotesi di silenzio giuridicamente rilevante nelle
ambigue categorie della ‘manifestazione tacita’ e del ‘negozio tacito’, coniate dalla civilistica moderna105.
Risale alla dottrina del XIX secolo la distinzione tra il ‘consenso espresso’ (manifestato a viva
voce, mediate scritti, o segni) dal ‘consenso tacito’, quest’ultimo evidenziabile medianti atti positivi o
negativi106. Fra i primi andrebbe appunto annoverato il silenzio107. In tempi recenti, la tradizionale
distinzione tra dichiarazione espressa e tacita e’ parsa equivoca, ed e stata percio’ sostituita da quella tra
‘dichiarazione’ e ‘manifestazione’108. Tuttavia, l’esame dei testi romani si e’ svolto in un’epoca in cui era
Altri ragguagli sulla materia infra, § 9.
V. al riguardo quanto da noi già esposto in La ‘familia’ nell’editto di Lucullo, in Atti dell’Acc. Di Scienze Morali e Politiche 92
(1981), pp. 7 ss. [= L. Solidoro Maruotti, Problemi di storia sociale nell’esperienza giuridica romana (Napoli 1994), pp. 53 ss.,
specialm. pp. 85 ss.]; e, per gli aspetti specificamente legati alle valenze giuridiche del silenzio, M. S. Goretti, op. cit., pp. 145
ss..
100 Paul. D. 50.17.109: Nullum crimen patitur is qui non prohibuit, cum prohibere potest.
101 Su cui si l. soprattutto B. Albanese, Sulla responsabilità del ‘dominus sciens’ per i delitti del servo, in BIDR. 70 (1967), pp. 119 ss.;
M. S. Goretti, op. cit., pp. 145 ss..
102 B. Biondi, ‘Actiones noxales’ (Cortona 1935), p. 750.
103 B. Albanese, op. cit., pp. 154 ss..
104 M. S. Goretti, op. cit., p. 152; v. anche quanto da noi esposto in La ‘familia’ cit..
105 Cfr. P. Bonfante, Scritti cit., p. 158.
106 Si l. soprattutto B. Windscheid, Diritto delle Pandette II (tr. it. Torino 1925), pp. 200 ss., con altra bibl.; C. Fadda-P.E.
Bensa, Note a B. Wndscheid, Pandette II cit., IV, pp. 420 ss..
107 V. ad es. G. Lomonaco, Delle obbligazioni e dei contratti in generale I (Napoli 1924), pp. 119.
108 M. Giorgianni, s.v. Volontà (dir. priv.), in ED. 46 (1993), p. 1061.
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99
17
ancora imperante la prima dicotomia, e cio’ ha dato luogo a non poca confusione, specie nel momento
in cui si e’ tentato di riferire alla categoria della ‘manifestazione tacita’ un certo numero di fattispecie.
L’esclusione del ricorso alla categoria moderna del ‘negozio tacito’ si rende necessaria, dunque,
per gli equivoci che ne potrebbero altrimenti derivare: e infatti, mentre i giuristi romani consideravano
tacito sinonimo di legale109, la scienza giuridica del XIX sec. ha qualificato ‘consenso tacito’ ogni
manifestazione di volonta’, che non sia verbale o scritta e che non sia diretta, ma che si debba indurre
dagli atti o dal contegno dei soggetti, dalla interpretazione del contratto, secondo i peculiari caratteri del
rapporto o dell’istituto, o secondo gli usi e lo spirito delle clausole contrattuali.
Se si vuole rimanere aderenti al dettato delle fonti, occorre tenere presente che i Romani
qualificavano tale ultimo atteggiamento non come ‘consenso tacito’, ma, al contrario, come ‘consenso
fattuale’, consentire re (D. 17.2.4; D. 2.14.2). Dunque, a rigore, le fattispecie riconducibili ad un consentire re
dovrebbero esulare da una trattazione sul silenzio; e cio’ perché la manifestazione re, ‘fattuale’, e’ cosa
ben diversa dal silenzio inteso come ‘inespressione’, inerzia, omissione. Proprio sulla base di questa
considerazione, i Romani riconobbero assai per tempo al ‘consenso fattuale’ (consentire re), in alcuni
istituti, piena rilevanza: l’accettazione del compendio ereditario mediante ‘comportamento da erede’ (pro
herede gestio) fu riconosciuta accanto alla solenne accettazione dell’eredita’ (cretio) e forse addirittura in un
periodo storico anteriore, rispetto alla dichiarazione verbale110.
Altre fattispecie previste dalla giurisprudenza romana, recentemente inquadrate nella figura del
‘negozio tacito’, venivano invece originariamente ricondotte al concetto dell’acquiescenza. Si e’ gia’
constatato che il pati, la patientia, la tolleranza erano concetti e termini ricorrenti nella materia del
silenzio, che spesso denotavano fatti produttivi di effetti, talora in connessione con il decorso del tempo
(come, ad es., in materia di usucapione). Cosi’, in alcuni testi romani la patientia si configurava come
manifestazione di volonta’ cui l’ordinamento riconnetteva determinate conseguenze, sia in base a un
principio soggettivo di ‘responsabilita’’, sia in base a un principio oggettivo di ‘affidamento’: non-dire,
non-fare, equivaleva allora a ‘tollerare’111; sara’ sufficiente, al riguardo, ricordare quanto gia’ esposto in
materia di obbligazioni contratte dai sottoposti a potesta’ altrui e di cd. mandato tacito112. In materia
contrattuale, come ha sottolineato il Bonfante113, fu soprattutto la pratica costante di aggiungere
determinate clausole a far si’ che la presunzione di volonta’ si sostituisse alla volonta’: effetti che
costituivano in origine il prodotto della volonta’ di volta in volta manifestata divennero “conseguenze
legali, naturali o necessarie”114.
Appunto cosi’ emerse, nel diritto romano, la nuova figura del ‘pegno tacito’115, sulla base della
considerazione che la convenzione di pegno potesse ritenersi implicita nell’ambito di determinati
rapporti intercorrenti tra le parti. Si ammise percio’, nel corso dell’eta’ tardo-classica, che il pegno si
costituisse tacitamente in favore del locatore, sui frutti del fondo rustico locato (Pap. D. 20.2.7) e, con
riguardo ai fondi urbani, sulle cose in essi introdotte dall’inquilino (Nerat. D. 20.2.4 pr.); ancora, si
ammise il pignus tacitum sull’edificio ristrutturato, in favore di coloro che avessero prestato le somme
occorrenti per la ricostruzione (Pap. D. 20.2.1 pr.). Puo’ essere interessante notare che la giurisprudenza
classica fece ricorso alla locuzione pignus tacitum per segnalare una sorta di acquiescenza da parte del
controinteressato, il quale non aveva espressamente reietto un requisito negoziale imposto
(dispositivamente) dall’ordinamento (‘naturale negotii’)116.
Nella materia della locazione, ricorrevano i casi della rilocazione tacita e dell’obbligazione del
magazziniere (horrearius). Queste fattispecie sono state prevalentemente catalogate dalla romanistica
moderna come ‘manifestazioni tacite di volonta’’, ma nel senso che l’effetto giuridico che ne conseguiva
veniva desunto dai fatti, re. Si e’ poi anche sostenuto che, nelle due ipotesi appena segnalate, il silenzio
non avrebbe avuto rilievo solo quale ‘comportamento concludente’ (come nell’ipotesi della pro herede
Così P. Bonfante, Scritti III cit., p. 159.
Cfr. P. Bonfante, Scritti III cit,, p. 159.
111 In tal senso M.S. Goretti, op. cit., pp. 125 ss..
112 V. supra, § 6.
113 Scritti III cit., p. 156.
114 Ibid.
115 Su cui v. W. Schuller, Zum ‘pignus tacitum’, in Labeo 15 (1969), pp. 267 ss..
116 Lo rileva A. Guarino, Diritto privato romano cit., p. 394 nt. 32.1.1.
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gestio), perché era l’ordinamento giuridico a ricondurre al silenzio determinate conseguenze (nel
particolare senso che la causa del rinnovo contrattuale di locazione e della nascita dell’obbligazione in
capo al magazziniere era individuabile proprio nel silenzio). Da parte nostra, riteniamo opportuno
chiarire che tale differenza teorica rilevata tra il silenzio nella in iure cessio e il silenzio nella rilocazione
non trova alcun riscontro nelle riflessioni dei giuristi romani; né poteva essere diversamente,
considerato che furono del tutto estranee all’elaborazione giuridica dei Romani tanto la categoria del
‘negozio tacito’, quanto la nozione di ‘manifestazione tacita della volonta’’.
Se si vuole risalire alle concezioni romane, e’ percio’ senz’altro preferibile rispettare l’originario
impianto casistico proposto dagli antichi giureconsulti, limitandosi a segnalare i risultati raggiunti in
quella prospettiva. Il magazziniere (locator horrei) che aveva tollerato il carico di oggetti (oro, argento,
perle), pure anteriormente esclusi nel propositum, diveniva titolare di obbligazione, perché tacendo aveva
acconsentito (Labeo D. 19.2.60.6); e se il vincolo contrattuale di locazione si scioglieva ipso iure quando
il proprietario moriva o usciva di senno, viceversa nell’ipotesi in cui il dominus vivo e sano di mente non
avesse dato disdetta, si verificava in favore del locatario una ‘rilocazione tacita’ (Ulp. D. 19.2.13.11; D.
19.2.14). Ma qui l’efficacia del silenzio risulta variamente limitata: la rilocazione tacita era valida solo per
un anno, anche se il contratto iniziale prevedeva un termine più lungo; inoltre essa era ammessa per i
fondi rustici, mentre veniva esclusa per i fondi urbani117.
Il silenzio in questi casi era, dunque, fonte di obbligazione. Una eco dell’antica impostazione e’
ancora ravvisabile nelle codificazioni dell’eta’ moderna: il Segré118 ha richiamato, a tale riguardo, l’art.
1592 c.c. abr. (art. 1597 c.c. vigente), sostenendo che la rilocazione tacita non consiste in una semplice
proroga del termine, bensi’ in un contratto nuovo, fondato sul silenzio. Quanto alla ratio della disciplina, il
Borgna 119 vi ha visto l’esigenza di chiarire un’ambiguita’ non tollerabile in ambito giuridico, dal
momento che il silenzio potrebbe consentire di speculare a spese altrui: percio’, l’ordinamento assimila
“negli effetti la tolleranza del locatore alla rinunzia al propositum perché egli non possa trarre dal suo
silenzio argomento a difendersi di non aver fatto buona custodia”120. Sul piano, invece, della logica
giuridica, la Goretti121 ha sostenuto che anche in queste fattispecie si e’ di fronte a una ‘domanda
implicita’ cui si risponde con il silenzio. Ma, a ben vedere, nei casi illustrati l’‘antefatto’ risulta molto
poco evidente: sembra rilevarlo anche il Segre’, il quale, configurando la rilocazione tacita come “un
nuovo contratto fondato sul silenzio”122, si ricollega – con riguardo alle due fattispecie qui in esame alla tesi del silenzio come consenso (‘silenzio qualificato’).
Frequente, ma poco approfondito da romanisti e civilisti, e’ poi il caso – gia’ segnalato - in cui
l’efficacia del silenzio fosse congiunta con il decorso di un tempo determinato123. La maggiore
incidenza, nella pratica, del rilievo riconosciuto al silenzio col decorso del tempo va senza dubbio
ravvisata nell’istituto dell’usucapione. Gia’ nella legislazione decemvirale, l’uso di un bene da parte di un
paterfamilias che non ne fosse proprietario, congiunto con l’acquiescenza del dominus (usus-auctoritas),
comportava l’acquisto del bene mobile da parte del possessore nel giro di un anno, del bene immobile
dopo il decorso di un biennio (Ulp. Fr. Vat. 19.8: …Usucapio est … dominii adeptio per continuationem
possessionis anni vel biennii: rerum mobilium anni, immobilium biennii) ; mentre, dopo la riforma intervenuta
nella prima meta’ del VI sec. d.C. (CI. 7.31.1, a. 531), l’inerzia del proprietario, congiunta al possesso
altrui, pacifico, ininterrotto, esercitato in buona fede e sorretto da una giusta causa, conduceva
all’acquisto, da parte del possessore, della proprieta’ del bene mobile nell’arco del trennio, del bene
mobile dopo dieci anni (se i soggetti risiedevano nella stessa civitas), dopo venti anni (se risiedevano in
luoghi diversi)124.
Cfr. P. Bonfante, Scritti III cit., p. 184.
Studi sul concetto del negozio giuridico (Torino 1900) 90 nt., p. 172.
119 Op. cit., p. 83.
120 Ibid.
121 Op. cit., p. 129.
122 O.l.c..
123 Cenni in P. Bonfante, Scritti III cit., p. 184.
124 Trattazione più dettagliata, con esegesi testuali e ragguagli bibl., in L. Vacca, La riforma di Giustiniano in materia di ‘usucapio’ e
di ‘l.t.p.’ fra concezioni dommatiche classiche e prassi postclassica, in BIDR. 35/36 (1993/1994) pp. 146 ss..
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In tema di successioni mortis causa, abbiamo gia’ ricordato come sia stata ricondotta alla figura
della ‘tacita manifestazione di volonta’’ (piuttosto che come mera ipotesi di ‘silenzio’) la pro herede gestio,
cioe’ il comportamento tale da far presumere la volonta’ di accettazione dell’eredita’. In questa
fattispecie e’ pur vero che la volonta’ si manifestava tacitamente, senza espressioni verbali, ma la
volonta’ del soggetto non si deduceva da un atteggiamento inerte e privo di significati: al contrario, la
pro herede gestio consisteva in un comportamento attivo (gestio) e inequivocabile circa la volonta’ di essere
erede, che si traduceva dunque in una volonta’ manifestata ‘tacitamente’, ma re, mediante atti
concludenti.
Ancora in materia successoria, va segnalata l’ipotesi di mancata istituzione, o di mancata
diseredazione espressa, dei diretti discendenti (praeteritio degli heredes sui), da parte del testatore. In diritto
romano si osservava la regola per cui il testamento in cui gli heredes sui non fossero né istituiti, né
espressamente diseredati, doveva essere considerato invalido, con conseguente apertura della
successione legittima. All’atteggiamento omissivo del testatore, dunque, l’ordinamento giuridico
riconnetteva conseguenze ben determinate. Se ne evince che l’ ‘esprimersi’ in ordine alla condizione
giuridica dei sui era un obbligo cui il testatore non si poteva sottrarre (per l’antico principio heredes sui aut
instituendi aut exheredandi sunt). La regola si poneva come un severo richiamo alla responsabilita’ del
testatore nei confronti dei diretti discendenti. La praeteritio del suus costituiva atto illegale, inosservanza
di “un onere di legalita’ attinente alla funzione del testamento”, che era quella di regolare la successione
familiare e quindi anche la condizione giuridica dei sui ”125; percio’, il silenzio, qui equiparato alla
inosservanza di un onere, implicava la sanzione della nullita’ del testamento.
Diversa era pero’ la disciplina prevista per la medesima fattispecie, qualora il testamento venisse
redatto da un militare (testamentum militis)126: la praeteritio degli heredes sui doveva essere interpretata come
volonta’ di diseredazione da parte del testatore e le disposizioni di ultima volonta’ del militare potevano,
per conseguenza, essere considerate valide (CI. 6.21.9:…tacite eum exheredare intellegi…; I. 2.13.6; D.
38.2.12; D. 38.2.47.4; CI. 6.21.10). Le ragioni di questa soluzione opposta, rispetto a quella
precedentemente segnalata, sono da vedersi nel regime giuridico privilegiato di cui godevano i militari in
Roma, e, più specificamente, nel riconoscimento ai militari di testare validamente anche senza le
formalita’ prescritte ai civili. La scarsa conoscenza del diritto da parte dei soldati, nonché l’impossibilita’
di consultare esperti in occasione della redazione del testamento furono probabilmente le cause che
indussero ad attribuire alla praeteritio dei sui da parte dei militari un significato ‘comune’: chi non
istituisce erede qualcuno intende diseredarlo.
10. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Da tutti gli esempi fin qui illustrati, risulta chiaro che, di regola, il silenzio non equivaleva
affatto, concettualmente, alla volonta’ nei debiti modi manifestata, ma veniva concepito come una
forma del tutto eccezionale di esternazione della volonta’. A tale riguardo condividiamo pienamente,
pertanto, l’opinione di Bonfante127, secondo cui l’estrinsecazione della volonta’ e il silenzio non sono
mai stati due tipi ‘fungibili’, e non si sono mai confusi in un concetto unico. Esclusi i casi in cui il
silenzio era contemplato dall’ordinamento come un vero e proprio elemento di perfezionamento
dell’atto (come, ad es., per la in iure cessio), i giureconsulti romani avevano cura di non confondere
silenzio e volonta’, né sul piano espressivo, né sul piano logico-giuridico: li hanno anzi costantemente
contrapposti (voluntas-patientia, voluntas-non nolle, etc.) come due tipi, sia in occasione di enunciazioni di
carattere generale, sia nell’ambito dei singoli istituti. Il non negare, il non dissentire, il non contradicere, il non
nolle non potevano essere omologati al velle o al consentire.
Dunque, nella generalita’ dei rapporti si richiedeva la voluntas manifestata nei modi rituali, ma in
alcuni ambiti giuridici, sulla base di particolari considerazioni di opportunita’, si ammetteva la ricerca
E. Betti, Diritto romano I (Padova 1935), p. 411.
Cfr. M.S. Goretti, op. cit., p. 198.
127 Scritti III cit., pp. 156 ss. e 179 ss.; come si e’ già segnalato, non ci sembrano invece del tutto condivisibili e
generalizzabili alla totalità delle fattispecie prese in considerazione le conclusioni, cui l’A. giunge, circa l’identificazione del
silenzio con una forma di ‘consenso attenuato’.
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dell’intima volizione tra le pieghe di un atteggiamento ‘inerte’128. Non che i Romani non ritrovassero
eventualmente una volonta’ anche in colui che tace: ma gli antichi giureconsulti gia’ distinguevano bene,
al riguardo, l’atteggiamento di chi, pur non esprimendosi verbalmente, o per iscritto, assumeva
atteggiamenti inequivocabili, attraverso il compimento di ‘atti concludenti’ (era proprio questo il senso
della massima consensus facit nuptias, nonché della disciplina della pro herede gestio), dal comportamento del
tutto neutro, inerte, omissivo, di colui il quale non poneva in essere alcun tipo di attivita’ per svelare il
suo volere. Se nel primo caso l’osservazione del contegno del tacens offriva elementi sufficienti per
individuarne la volonta’ con precisione, per quanto concerne la seconda ipotesi la giurisprudenza
romana si limito’ a elaborare una serie di canoni interpretativi, finalizzati ad assegnare al silenzio, in
taluni circoscritti ambiti, una determinata valenza (positiva o negativa); ma cio’, chiaramente, solo in via
presuntiva, perché, ove non vi fossero ‘comportamenti concludenti’, sussisteva pur sempre il rischio di
equivocare sulle reali intenzioni del tacens.
Laura Solidoro Maruotti
Professore ordinario nell’Universita’ degli Studi di Salerno
128
Cfr. P. Bonfante, Scritti III cit., p. 156.
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