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Una stupidità colpevole. Su Arendt, Jaspers ei
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Una stupidità colpevole.
Su Arendt, Jaspers e i «massacri amministrativi»
Alberto Burgio
The paper focuses on the concept of responsibility in the original perspective of Hannah Arendt’s political reflection. Through a new interpretation
of Arendt’s works it underlines the evolution of her thought with specific regard to the controversial relationship between personal responsibility and
moral guilt on the ground of a changing idea of individual autonomy.
Keywords: personal responsibility, moral guilt, Arendt, Jaspers, totalitarianism.
1. Arendt, I (1945-1958)
Quando fu reso possibile, l’impossibile divenne il male assoluto, non punibile né perdonabile, incomprensibile e inspiegabile.
H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, 1951
La riflessione (meglio, la ricerca) sui temi della responsabilità e della colpa in relazione alla storia della Germania nazista – e, in particolare, allo
sterminio pianificato degli ebrei europei – è centrale nel lavoro teorico di
Hannah Arendt durante il trentennio postbellico. Questa ricerca va considerata tale in senso proprio: non si tratta della elaborazione di una nuova
dottrina, ma di una costante interrogazione, della cui apertura fanno fede
tensioni interne, contraddizioni e riorientamenti provocati anche dall’adozione di differenti ottiche disciplinari.
Vanno prese sul serio a questo riguardo alcune affermazioni di Arendt sul
proprio lavoro. In primo luogo la dichiarazione secondo cui (contrariamente
a quanto le si sarebbe successivamente imputato da parte di critici che le ri-
«Dianoia», 18 (2013)
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volgono l’accusa di avere ritagliato la figura di Eichmann sulle tesi delle Origins of Totalitarianism)1 quanto le capitò di scoprire al processo di Gerusalemme «fu qualcosa a cui davvero non er[a] pronta»2. Che ciò risponda al vero è dimostrato (oltre che dal drastico mutamento di prospettiva: l’analisi dei
sistemi politici condotta nelle Origins cede il passo alla filosofia morale e del
diritto) dall’evolversi (tra il 1951 e il 1963) della riflessione sul male estremo
(«assoluto», «infinito» o «radicale»), sulla quale avremo modo di soffermarci. Va in questa direzione anche l’insistita puntualizzazione del carattere per
l’appunto aperto, problematico di uno dei testi-chiave della produzione arendtiana, Eichmann in Jerusalem, al quale è estranea la pretesa di fornire «una
spiegazione del fenomeno»3 o di «formulare una teoria o una dottrina»4: ciò
che il libro intende offrire, «attenendo[si] semplicemente ai fatti»5, è, più semplicemente, una sintesi del «lungo viaggio nella malvagità umana» compiuto
da Eichmann e della «lezione» impartita dal processo (EiJ, pp. 252, 288).
Si diceva di tensioni e ripensamenti, che in effetti vertono su aspetti centrali del discorso, a cominciare dalla questione dell’autonomia dei soggetti, quindi della loro responsabilità. Nel tentativo di ricostruire lo sviluppo
di questa complicata ricerca teorica sembra di poter individuare due fasi,
caratterizzate da prospettive e assunzioni teoriche diverse.
Un primo periodo abbraccia gli anni dal 1945 (quando vedono la luce
due importanti interventi: Organized Guilt and Universal Responsibility e
Approaches to the «German Problem») al ’58 (anno di pubblicazione della seconda edizione delle Origins of Totalitarianism)6. In questa fase l’ac1
Così da ultimo D. Cesarani (Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale [2004], Milano, Mondadori, 2006, p. 435), che arriva a definire «oggi quasi incomprensibile» il contributo arendtiano.
2 H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male. Conversazione radiofonica del 9
novembre 1964, a cura di U. Ludz e T. Wild (ed. it. a cura di C. Badocco), Firenze, Giuntina, 2013, p. 40; analogamente in H. Arendt, Il caso Eichmann e i tedeschi. Una conversazione con Thilo Koch (1964), in Politica ebraica, trad. it. di R. Benvenuto, F. Conte, A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2013, p. 254.
3 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (1963). Revised
and enlarged edition (1965); London, Penguin Books, 1984 (d’ora in avanti: EiJ), p. 288.
4 H. Arendt, Il pensiero e le considerazioni morali (1971), in Responsabilità e giudizio,
a cura di J. Kohn, trad. it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004, p. 137.
5 Ibidem.
6 La terza (1966), sulla quale è stata condotta la traduzione italiana (Milano, Ed. di Comunità, 1967), non introduce modifiche rilevanti rispetto alla seconda, di cui è sostanzialmente una ristampa.
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cento cade in primo luogo (Organized Guilt) sulla potenza del regime (che
«organizza la colpa», determinando la complicità generale della popolazione tedesca) e della macchina burocratica (funzionale al «massacro amministrativo» degli ebrei), nella quale risultano fatalmente arruolati tutti i
tedeschi («un intero popolo»), a dispetto (o piuttosto in forza) della loro
«normalità» (rispettabilità e apoliticità, ma anche filisteismo e indifferenza morale).
È sin da subito molto forte l’accento sulla novità costituita dal regime
nazista e dai suoi crimini, il che comporta due rischi, tra loro connessi: che,
mancando adeguate categorie di analisi, quella vicenda appaia in sostanza
incomprensibile e si sottragga al giudizio (onde i soggetti coinvolti risultano non condannabili); e che il nazismo ne venga come trasfigurato, circondato da un’aura mitica, di sinistra grandezza.
Le tesi del 1945 vengono radicalizzate, nel senso di una totale esclusione della dimensione della scelta (il che non significa che vengano perfezionate rispetto alla loro «forma rudimentale»)7 dalla costruzione dell’idealtipo
totalitario. Tesi fondamentale delle Origins è che il regime crea una nuova realtà (un «mondo fittizio»), nella quale vigono nuovi codici semantici, etici e
morali, e di conseguenza, soprattutto, si instaura una nuova antropologia: uomini «senz’anima», senza coscienza né consapevolezza: «marionette», delle quali il potere totalitario si serve a propria discrezione. Ne discende l’idea
dirompente della irresponsabilità dei singoli, i quali non sanno quel che fanno, quindi non possono essere considerati colpevoli dei loro misfatti. Come
vedremo, molto (forse tutto) cambierà a seguito del processo di Gerusalemme (e, come si dirà, anche sullo sfondo del dialogo con Jaspers).
1.1 L’«organizzazione della colpa» e i buoni padri di famiglia
Mentre la guerra è ancora in corso, Arendt scrive un primo testo di notevole
interesse8, il cui tema è precisamente la complicità della massa dei tedeschi.
Come definirla (classificarla)? E come spiegarla?
Arendt mette a fuoco in primo luogo la non accidentalità del coinvolgimento. Si è trattato di una strategia accuratamente pianificata dal regime,
7 Così D. Barnouw, Visible Spaces. Hannah Arendt and the German-Jewish Experience, Baltimore-London, The Johns Hopkins U.P., 1990, p. 145.
8 H. Arendt, Organized Guilt and Universal Responsibility (1945), in P.R. Baher (a cura di), The Portable Hannah Arendt, London-New York, Penguin Books, 2003 (d’ora in
avanti: Og), pp. 146-156.
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volta a far sì che non si trovi «nessuno cui non possa essere attribuita la definizione di criminale di guerra» (Og, p. 146). Questa «politica totalitaria»
ha avuto successo, e ciò ha evidentemente pesanti ripercussioni sul terreno della responsabilità. È un fatto che ormai in Germania «i confini che
separano i criminali dalle persone normali, il colpevole dall’innocente, sono stati completamente cancellati, al punto che nessuno, in Germania, sarà più in grado di dire se ha a che fare con un eroe ignoto o con ex-genocida» (Og, p. 149).
Detto questo, rimangono evidentemente aperti i problemi più complessi. Premesso che lo strumento per mezzo del quale è stata realizzata l’«organizzazione della colpa» è l’«enorme macchina dello sterminio amministrativo», resta da capire come si sia riusciti a coinvolgere nel suo funzionamento «un intero popolo» (Og, p. 150), tanta gente normale (perbene)
che mai avrebbe immaginato di partecipare a un’impresa criminale. Arendt
ritiene che il regime abbia fatto forza su una duplice leva: l’ansia di sicurezza, tipica del bourgeois o, più precisamente, dell’«uomo-massa», sua ultima incarnazione (Og, p. 153); e la domanda di impunità – di irresponsabilità – per qualsiasi azione compiuta in ottemperanza agli ordini superiori.
Il regime si è avvalso del tratto più caratteristico della modernità: l’antropologia del cittadino normale, buon lavoratore e rispettabile «pater
familias», preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente nei riguardi della sfera pubblica e della politica. La
macchina creata da Himmler (egli stesso un prototipo dell’antropologia borghese) si è basata precisamente sul presupposto che ogni buon padre di famiglia sia, contro ogni apparenza, pronto «a fare letteralmente di tutto» in cambio della «propria sicurezza» e della possibilità di «assicurare alla moglie e ai
figli una vita agiata» (cioè in cambio della pensione e di una buona assicurazione sulla vita): non soltanto ad abbandonare «le proprie credenze, il proprio onore e la propria dignità umana», ma anche – appunto – a degradarsi sino a divenire un «nuovo tipo di funzionario» dell’assassinio di massa, un «boia», lo «strumento di qualsiasi follia e orrore», a patto, beninteso, di «essere
pienamente esentato dalla responsabilità per i suoi atti» (Og, pp. 152-3).
Si tratta di una tesi di per sé “scandalosa”, che a guardar bene contiene in
nuce uno dei temi portanti di EiJ. Ma il punto più problematico non sta tanto
qui, quanto nel seguito del discorso, nei suoi sviluppi non sempre perspicui.
Che cosa sembra conseguire a questo primo passo? Arendt afferma che
l’«orrore estremo» (Og, p. 150) consiste proprio nel coinvolgimento di tanti uomini comuni in una colossale macchina sterminatrice, e ciò in quanto
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gli «uomini-massa» sono stati trasformati in criminali contro la loro volontà e senza che nemmeno lo sapessero. Questo concetto sottende una formula che enuncia in termini paradossali la tensione tra colpa e responsabilità. In forza del meccanismo creato dal regime, moltissimi tedeschi, scrive Arendt, «sono divenuti colpevoli senza essere in alcun modo responsabili» (Og, p. 149). In questo senso il testo afferma che chiunque, «qualunque ruolo svolgesse», fu «costretto [forced]» a prendere parte «al funzionamento di questa macchina sterminatrice», e arriva a parlare di «automi»
e «ingranaggi nella macchina dello sterminio» (Og, pp. 150-1).
Da queste premesse – ove davvero riassumessero la tesi portante dell’analisi – seguirebbe inevitabilmente il disastroso corollario della non responsabilità dei criminali nazisti, quindi l’impossibilità di fare giustizia per
il semplice fatto che la logica giuridica (il «senso della giustizia e del diritto dell’uomo occidentale») si basa su un’idea dell’imputabilità che «implica la consapevolezza della colpa» (Og, p. 151).
Se queste fossero davvero le conclusioni, si tratterebbe di un risultato
desolante. Ma a guardar bene le cose non stanno – agli occhi di Arendt –
in questi termini. È ben vero che a indurre i padri di famiglia ad arruolarsi
nella macchina dello sterminio non sono inclinazioni o moventi criminali,
ma l’arma di Himmler non è stata il terrore. Si è trattato piuttosto di uno
scambio che, se per un verso evoca la tipica strategia del demonio (Himmler, «genio satanico» [Og, p. 152], ha indotto in tentazione e sedotto il popolo tedesco), non per questo cancella la corresponsabilità di entrambe
le parti (anche di chi si è lasciato tentare). Se il regime ha offerto benefici
materiali (benessere e sicurezza), con in più la garanzia dell’impunità, a
loro volta i cittadini hanno compiuto una scelta molto “ragionevole” (comportandosi da accorti homines œconomici) e persino paradossalmente “morale” (dettata dal senso di responsabilità nei confronti della famiglia).
Quanti si sono lasciati arruolare nella macchina dello sterminio hanno
fatto una scelta: è questo il nocciolo implicito ma essenziale (destinato a
importanti sviluppi) di questo primo intervento arendtiano sui crimini nazisti. Benché Arendt parli qui, un po’ confusamente, di colpe senza responsabilità (una contradictio in adjecto); benché col nazismo sia effettivamente sorta una nuova fenomenologia del crimine, quella della stragrande maggioranza dei tedeschi è ancora una vera e propria – classica –
complicità. La colpa è stata sì «organizzata», ma nulla impediva ai cittadini tedeschi di resistere alla tentazione e di rifiutare lo scambio. Nulla, quindi, impedisce di considerarli colpevoli e di punirli.
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Come stiamo per vedere, le posizioni di Arendt su questi temi cambieranno ben presto e un’opera che la renderà celebre di lì a qualche anno offrirà un quadro molto diverso da questo, ambivalente e ancora aperto, tracciato nel gennaio del 1945.
1.2 L’idealtipo totalitario
Organizzando gli spunti sin qui emersi, le Origins offrono un’analisi sistemica del regime «totalitario». L’ottica è teorico-politica; il risultato, un modello idealtipico (anche in forza dell’insistita equiparazione tra III Reich e
Urss staliniana, dalla quale Arendt prenderà successivamente le distanze)9.
L’accento cade con forza sulla radicale novità del «totalitarismo», che
inaugura una nuova epoca politico-storica. L’atomismo della società di
massa è messo a fuoco in primo luogo per le sue conseguenze sul piano della psicologia di massa. E già a questo proposito è dato registrare un primo
scarto rispetto alle precedenti analisi. Gli individui appaiono preda di un
frustrante «sentimento di superfluità»10, nel quale si radica la loro totale
disponibilità al sacrificio. È dunque la perdita di interesse per se stessi – non
un calcolo dei vantaggi basato sulla morale borghese – a render conto ora
della fedeltà acritica di individui isolati, inconsistenti e indifferenti. E a
spingere verso il parossismo dell’azione, non importa se «eroica o criminale» (Ot1, p. 324).
Anche il dominio assoluto del capo totalitario modifica profondamente il quadro all’insegna del trionfo dell’arbitrio e dell’irrazionalità. Nelle
sue mani si concentra il monopolio del potere e della responsabilità (Ot1,
pp. 387, 362) e tale condizione si riflette esemplarmente nelle nuove logiche della violenza repressiva, imperniata sulle categorie di potential enemy e possible crime (Ot1, pp. 402, 404). Su questa base il regime promuove una pratica persecutoria sganciata dall’oggettività delle azioni, mirata
contro crimini semplicemente possibili in quanto riferiti alla «natura» del
nemico interno. Ma tipica del nuovo potere è, agli occhi di Arendt, la creazione di una nuova realtà, nella quale la menzogna e la finzione si realizzano (Ot1, p. 394) scalzando la “vecchia” realtà e degradandola ad apparenza. È soprattutto la costante capacità di «realizzare le proprie ideologie
9
H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale (1965-1966), in Responsabilità e giudizio, cit., pp. 44-5.
10 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace and Company, 1951 (d’ora in avanti: Ot1), p. 304.
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e menzogne pratiche» (Ot1, p. 333) a caratterizzare il totalitarismo; ed è la
capacità di «tradurre in realtà le proprie menzogne con straordinaria magnificenza» (Ot1, p. 326) a rendere unico il potere dei capi totalitari.
Veniamo qui a un punto decisivo dell’analisi arendtiana. Alla costruzione del «mondo fittizio» da parte del sistema totalitario – alla creazione
di nuovi codici cognitivi ed etici – consegue la perdita di contatto con la realtà e la chiusura dell’esperienza dentro un recinto illusorio, cementato dalla finzione e dall’ideologia. L’elaborazione della realtà totalitaria «ha successo quando le persone hanno perso contatto con il prossimo e con la realtà circostante»11. Ne discendono immediatamente l’impossibilità di distinguere tra il vero e il falso, quindi la perdita della capacità di esperienza e di pensiero (Ot2, p. 474). Il senso comune è annichilito da un «supersenso ideologico» (Ot1, p. 432) nel quale tutto si tiene all’insegna degli a
priori della nuova visione del mondo. La realtà si duplica e il mondo fittizio generato dal potere totalitario imprigiona gli individui senza lasciare
loro vie di scampo. Precisamente su questa chiusura Arendt pone l’accento, insistendo con forza sull’assenza di consapevolezza che caratterizza la
posizione di tutte le componenti della popolazione tedesca negli anni del
nazismo.
L’imprigionamento in una realtà fittizia riguarda in primo luogo l’«élite» del movimento (SA, SS e «reparti d’assalto» [Ot1, pp. 358, 360]), la cui
«intera educazione mira ad abolire la capacità di distinguere tra vero e falso, tra realtà e finzione» (Ot1, p. 372). L’isolamento dalla realtà coinvolge,
scendendo lungo la struttura gerarchica del sistema, anche i membri ordinari del partito e il suo gruppo militante, che la «violenza organizzata» dell’organizzazione «protegge» dal contatto diretto con «la realtà del mondo
non-totalitario» (Ot1, pp. 361, 356). In modo analogo l’estraniazione dalla
realtà e la creazione di una nuova realtà fittizia concernono il popolo, la
massa destinataria della propaganda, deprivata di qualsiasi criterio di distinzione tra vero e falso, quindi indotta a credere a tutto: «la propaganda
di massa ha scoperto che il suo destinatario era pronto in ogni momento a
credere al peggio, non importa quanto assurdo; e non opponeva resistenza
contro qualsiasi inganno, poiché considerava comunque menzognera qualsiasi affermazione» (Ot1, pp. 369-70). Dove tutto è menzogna, tutto è potenzialmente verità.
11 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, second enlarged edition, London, George
Allen & Unwin Ltd., 1958 (d’ora in avanti: Ot2), p. 474.
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1.3 Assoluto, imperdonabile, incomprensibile
La vera novità del totalitarismo consiste dunque nella revoca della realtà
(della verità) e nella creazione di una realtà fittizia, incardinata in nuovi
codici semantici e valoriali. Il che per forza di cose avviene, come si è visto, senza la consapevolezza della stragrande maggioranza degli individui
(compresa l’élite del regime). È questo lo sfondo nel quale si pone ora la
questione della responsabilità e, a monte, il tema della nuova antropologia
dei criminali totalitari: uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà
e di coscienza, effettivamente «colpevoli irresponsabili», per riprendere il
problematico lessico del saggio del 1945.
Queste conclusioni sono esplicitate nell’analisi dell’istituzione totalitaria per eccellenza. Nei Lager – i «laboratori» (Ot1, p. 414) in cui il potere totalitario verifica la propria onnipotenza – ha luogo la sperimentazione della nuova umanità destinata a sostituirsi all’attuale. Di là dalla loro apparente «inutilità», i Lager innovano soprattutto sul terreno antropologico, operando una «trasformazione della stessa natura umana» (Ot1,
pp. 338-9, 432) finalizzata alla creazione del prototipo del «cittadino»
totalitario. Il punto è che, a parere di Arendt, questa logica folle («paranoica» [Ot1, pp. 431-2]), incentrata sull’idea della superfluità dell’umanità stessa (cioè sul male assoluto, «strettamente legato all’invenzione di
un sistema in cui tutti gli esseri umani sono in pari misura superflui» [Ot1,
p. 433]), sfugge agli individui incaricati di tradurla in realtà: col duplice
risultato che essi risultano privi di consapevolezza (quindi di responsabilità in ordine alle proprie azioni) e che la medesima condizione di strumenti eterodiretti coinvolge indistintamente tutti gli attori – sia le vittime,
sia i loro carnefici – accomunati dall’assoluta incapacità di comprendersi e di comprendere.
Nel microcosmo del Lager, permeato dall’onnipotente potere totalitario, vede dunque la luce l’uomo nuovo creato dal nazismo. Si tratta indubbiamente della novità più orribile: di un essere umano senza psiche,
ridotto a corpo, a puro ente fisico, a un fascio di reazioni animali atto al
meccanico adempimento delle funzioni prescritte (Ot1, p. 428). L’uomo
totalitario è, in altre parole, un «morto vivente» (Ot1, p. 416) le cui azioni – totalmente eteronome (non per caso Arendt parla di «sinistre marionette dal volto umano» e di «marionette senza la minima traccia di spontaneità» [Ot1, pp. 426, 428]) – sfuggono a qualsiasi tentativo di analisi
psicologica. Ma se questa è la realtà della società totalitaria; se il prototipo del «“cittadino” modello di uno Stato totalitario» (Ot1, p. 427) è un
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essere senz’anima, senza pensiero né coscienza, un animale umano pervertito, privo di spontaneità e di autonomia, la cui unica libertà consiste
– per citare le Conversazioni a tavola di Hitler – «nel “preservare la specie”» (Ot2, p. 438); da ciò discende in primo luogo, di necessità, la nonpunibilità di tutti i suoi crimini, che egli ha compiuto senza volerli né
comprenderli e che per ciò stesso si sottraggono a qualsiasi punizione legittima. «Nel loro sforzo di dimostrare che tutto è possibile, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che vi sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare» (Ot1, p. 433).
L’analisi approda così a un drammatico scacco per quanto concerne la
questione della colpa e dell’imputabilità. Persino i carnefici nei campi (anzi, loro per primi, in quanto creature di nuovo tipo, psicologicamente indecifrabili, prive di criteri di giudizio e della possibilità di comprendere e
giudicare adeguatamente i propri crimini) sono irresponsabili e incolpevoli, in quanto inconsapevoli. La radicalizzazione rispetto alla posizione del
1945 appare evidente. Già in Organized Guilt si parlava di «automi» (Og,
p. 150), ma ci si riferiva al tempo stesso a una scelta (in relazione allo scambio tra complicità irresponsabile e sicurezza). Ora di scelte non vi è più
traccia e gli uomini sono ridotti in senso proprio a creature eterodirette, dimodoché, ove assunte come una pertinente descrizione dell’accaduto, queste pagine offrirebbero un’efficace argomentazione difensiva per i carnefici (e da questo punto di vista sorprende che le Origins siano state pressoché unanimemente accolte con favore).
Del resto, a dare la misura di quanto paradossale sia questa prospettiva
analitica, è l’ulteriore conseguenza che da essa discende. La tesi sostenuta
nelle Origins vuole che la sperimentazione antropologica realizzata nel Lager coinvolga in pari misura il carnefice e la sua vittima, trasformata essa
stessa – beninteso, suo malgrado – in un aguzzino. Ne segue che la stessa
incomprensibilità concerne le azioni di entrambi, non riconducibili ad alcuna consistenza psicologica. «Noi tentiamo d’intendere psicologicamente il comportamento dei deportati nei campi di concentramento e degli uomini della SS, mentre ciò che è essenziale capire è che la psiche può essere distrutta anche senza la distruzione dell’uomo fisico», sicché «il risultato finale […] è costituito da uomini privi di anima, cioè da uomini che non
si lasciano comprendere psicologicamente» (Ot1, p. 415).
L’intera realtà del Lager – «un mondo dotato di tutti i dati sensibili della realtà ma privo della struttura della consequenzialità e della responsabilità» (Ot1, p. 418) – appare incomprensibile. La sua logica misteriosa, im-
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mersa in «un’aria di folle irrealtà», in un’«atmosfera di follia e irrealtà»
(Ot1, p. 417), sfugge tanto ai deportati quanto ai loro assassini, «uomini
perfettamente normali» (Ot1, p. 426). «Il risultato è che è stato istituito un
luogo nel quale gli uomini possono venire torturati e massacrati senza che
né i torturatori né i torturati e men che meno un estraneo possano comprendere che ciò che sta accadendo non è altro che un gioco crudele o un
sogno assurdo» (Ot1, p. 418).
La sconcertante equiparazione tra vittime e carnefici è la conseguenza estrema – aberrante benché logica – della stessa tesi totalitaria, dell’idea di un sistema di potere impersonale e fine a se stesso. Laddove tutti si muovono in un sogno assurdo, a nessuno è lecito attribuire qualsivoglia responsabilità. Muovendo dai presupposti della tesi totalitaria,
Arendt giunge a ipotizzare la perdita di senso delle nozioni di colpevolezza e innocenza («colpa e innocenza divengono nozioni prive di senso»), finendo con l’approdare proprio a quell’affermazione di generale
non-colpevolezza («tutti gli individui coinvolti sono soggettivamente innocenti» [Ot2, p. 465]) contro cui si impegnerà con forza negli anni successivi.
Ma appunto, la ricerca arendtiana non si ferma alla posizione raggiunta con le Origins: al contrario, arriverà a conclusioni opposte. Decisivi, nella fase successiva, si riveleranno i temi della coscienza del soggetto (anche
nel Lager), quindi della responsabilità; e la questione (già emersa, una prima volta, nel saggio del 1945 sulla «colpa organizzata») della libera scelta di quanti presero variamente parte allo sterminio. Vedremo come si produce questo ribaltamento delle tesi esposte nelle Origins (indispensabile
per mettere a valore l’intuizione della novità dei crimini – e dei criminali
– amministrativi, senza avviarla sul binario morto dell’irresponsabilità),
attraverso quali percorsi e in forza di quali dispositivi concettuali. Ma, prima di cercare una risposta nei successivi scritti arendtiani (a partire del secondo testo-chiave: Eichmann in Jerusalem), apriamo una parentesi su un
elemento molto influente: il dialogo con Jaspers, di cui Arendt era stata allieva e che rimane (sino alla morte dello stesso Jaspers) un fondamentale
punto di riferimento.
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2. Intermezzo. Il dialogo con Jaspers
Dovunque Jaspers giunga e prenda la parola, tutto diventa luminoso: ha una franchezza, una fiducia, una libertà di parola che non ho conosciuto in nessun altro.
Conversazione radiofonica con Günter Gaus, 28 ottobre
1964
Il dialogo con Karl Jaspers accompagna, si può dire, l’intero sviluppo del
lavoro teorico arendtiano. Nel contesto di questo scambio, interrotto dall’emigrazione di Hannah e dalla guerra e ripreso all’indomani del conflitto, i temi della colpa e della responsabilità occupano un posto di rilievo. Rileggendo i testi – in particolare le lettere del maestro all’allieva, poi all’amica, e la Schuldfrage jaspersiana, apparsa nel 1946 – si è colpiti dall’emergere di alcuni motivi che diverranno cruciali nella seconda fase della ricerca arendtiana. È il caso della dimensione umana (pur pervertita) dei
carnefici nazisti e dei loro misfatti, contro ogni deriva irrazionalistica, esposta al rischio di paradossali trasfigurazioni (dal demoniaco al divino il passo è breve, sullo sfondo di suggestioni religiose); è il caso della centralità
del dialogo interiore quale istanza determinante ai fini di una condotta rispettosa dei fondamentali principi morali; è soprattutto il caso dell’idea
della desolante vuotezza e assenza di senso della violenza nazista – l’idea
della banalità del male – che Jaspers per primo enuncia proprio al fine di
distogliere l’interlocutrice da qualsiasi approccio metafisico nella considerazione dell’accaduto, e per ancorarne l’analisi a una prospettiva immanentistica. L’impressione generale che si ricava ripercorrendo l’intero scambio e rileggendo le pagine della Schuldfrage in questo contesto è che Jaspers abbia esercitato una funzione maieutica, propiziando nella riflessione dell’allieva rettifiche e ripensamenti decisivi e favorendo, soprattutto, il
riconoscimento della centralità del problema della libertà e della scelta (già
implicitamente focalizzato nel testo del 1945 sulla «colpa organizzata») e
della conseguente ineludibilità del tema della responsabilità individuale e
collettiva.
In questo senso gli scarti cronologici (il fatto che i passaggi cruciali del
dialogo, di cui cogliamo eco nella seconda fase della ricerca arendtiana, si
collocano negli anni Quaranta, salvo rimanere vivi anche nei decenni successivi) non sembrano costituire un ostacolo insormontabile. I percorsi del
pensiero sono spesso tortuosi e i ritmi delle sue mutazioni talvolta lenti.
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La vita della mente scorre su piani diversi, in tensione reciproca. E non di
rado capita che un motivo o un’ipotesi teorica prendano forma e si facciano strada negli strati più profondi, attraverso un lavorio in parte inconsapevole, mentre la superficie del discorso si attiene ad altre logiche, destinate ad essere poi criticate e accantonate.
2.1 Colpe individuali e colpe collettive
Il 10 dicembre 1945 Jaspers scrive ad Arendt una lettera nella quale si complimenta per i saggi sulla «questione tedesca» e sulla «colpa organizzata»12.
Di lì a pochi mesi pubblica la Schuldfrage, in cui raccoglie le lezioni sulla «situazione spirituale in Germania» (un’evidente ripresa del tema trattato quindici anni prima) tenute a Heidelberg all’inizio del 1946, dopo essere stato
reintegrato nell’organico accademico tedesco dal quale era stato espulso per
effetto di una legge del 1937 che vietava l’insegnamento ai tedeschi «ariani»
coniugati con ebrei. Naturalmente un esame approfondito dell’opera sarebbe qui impossibile. Siamo costretti a darne per acquisita la lettura e a limitarci a una rapida sintesi degli aspetti più importanti per ciò che riguarda il
confronto con Arendt e lo sviluppo interno della ricerca arendtiana.
Considerando in particolare l’analisi della trattazione di quella che Jaspers definisce «colpa morale», la Schuldfrage si direbbe – a prima vista –
attraversata dalla tensione tra due prospettive contrapposte: da un lato
un’istanza soggettivistica e relativistica; dall’altro, l’assunzione di un quadro di riferimento fondato su presupposti oggettivistici di matrice giusnaturalistica. In realtà è quest’ultima posizione a valere in modo univoco, non
soltanto sul terreno giuridico, politico e, per dir così, cosmologico (per
quanto attiene, cioè, alla colpa che Jaspers definisce «criminale», «politica» e «metafisica»), ma anche in ambito morale, dove le colpe sono tali
anche se il soggetto coinvolto non le riconosce e non sono sempre soltanto individuali. È vero che, presentando la tipologia della colpa, Jaspers scrive che «sul piano morale si può dare colpa solo a se stessi […] o a un altro con il quale si condivide una battaglia di affetti», desumendone che
«nessuno può giudicare moralmente l’altro, a meno che non lo faccia in
forza di un legame interiore come se si trattasse di se stesso»13. Ma ciò non
12
H. Arendt, K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, hrsg. von L. Köhler, H. Saner, München-Zürich, Piper, 1985, p. 62.
13 K. Jaspers, Die Schuldfrage, Heidelberg, Lambert Schneider, 1946 (d’ora in avanti:
Sf), p. 37.
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gli impedisce di riferirsi alla colpa morale dei tedeschi (una colpa morale
collettiva) consistente nell’aver «sostenuto questo regime e [nell’]avervi
collaborato» (Sf, p. 46). Né lo trattiene dal focalizzare a più riprese il nesso tra morale e politica. Il grande pogrom del 1938 costituisce ai suoi occhi «soprattutto una colpa morale e politica», che ricade anche su quanti,
«senza scomporsi, proseguirono nella loro attività, nelle loro relazioni e
svaghi, come se non fosse accaduto nulla» (Sf, p. 65). E sussiste anche
«qualcosa come una colpa morale collettiva [eine moralische Kollektivschuld] nel modo di vivere di una popolazione del quale partecipo come
singolo e dal quale traggono spunto le realtà politiche» (Sf, p. 68).
Non si tratta di contraddizioni, ma del coerente sviluppo di una riflessione fondata su premesse desunte dalla posizione kantiana. La coscienza
individuale, che Jaspers considera unica istanza competente in tema di colpa morale (Sf, p. 37) non è sinonimo di arbitrio. È la voce della ragione
che parla dentro ciascuno di noi, dettando gli imperativi universalmente
validi della legge morale e, all’occorrenza, rivolgendo accuse implacabili.
L’autonomia del soggetto è tutt’altra cosa dalla licenza di sfuggire al giudizio ricorrendo a espedienti o invocando sottigliezze causidiche. È piuttosto il riconoscimento del dovere e degli obblighi che ne discendono, ragion per cui la responsabilità personale non viene mai meno, quali che siano la pressione dell’ambiente e la coercizione dei poteri costituiti.
Di qui la cruciale importanza che agli occhi di Jaspers assume, in materia
di colpa ed espiazione, il momento del dialogo interiore – un tema, vedremo,
di grande rilievo nella seconda fase della ricerca arendtiana. Il modo in cui,
«nella nostra più riposta interiorità» (Sf, p. 30), rispondiamo alla voce della
coscienza e alle accuse che provengono «da dentro» fonda la «nostra autocoscienza» (Sf, p. 45), decidendo non soltanto della nostra «dignità di uomini» (Sf, p. 29) ma anche del diritto all’autodeterminazione nei rapporti esterni con gli altri soggetti individuali e collettivi. Dalla scelta che ciascuno compie su questo terreno – dal fatto che il singolo accolga o meno la sfida della
coscienza e si disponga a «riflettere seriamente» (Sf, p. 23) – dipende, in una
parola, il «ridestarsi» della stessa «libertà politica» (Sf, p. 69), la quale difatti «comincia allorché, nella maggioranza della popolazione, il singolo si sente responsabile per la politica della propria comunità» (Sf, p. 104).
2.2 Nessuna idea, nessuna sostanza
Questa autorevole presa di posizione del proprio maestro sul tema della
colpa della Germania Arendt terrà nel massimo conto. Come pure mostre-
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rà di fare tesoro di altri più diretti suggerimenti, affidati allo scambio epistolare. Conviene qui concentrarsi su un solo breve passaggio del carteggio, tra l’estate e l’inverno del 1946, che ci sembra decisivo per mettere a
fuoco l’evoluzione interna della ricerca arendtiana.
A commento della Schuldfrage e in merito un tema che sappiamo essenziale ai suoi occhi, Arendt scrive a Jaspers (il 17 agosto 1946) di ritenere «opinabile» la definizione della politica nazista come «colpa criminale», essendo in gioco delitti inauditi, incomprensbili «sul piano giuridico»: per «una colpa che si pone al di là del delitto» non esiste, a suo parere, una «pena commisurata», ragion per cui non si può in questo caso «dare avvio assolutamente a nulla sul piano umano e politico»14. La risposta di
Jaspers (19 ottobre 1946) è altrettanto ferma e si rivelerà determinante nel
prosieguo del discorso arendtiano: «il Suo modo di vedere non mi convince appieno – scrive – perché una colpa che eccedesse qualsiasi colpa criminale assumerebbe inevitabilmente una forma di “grandezza” – di grandezza satanica – che è tanto estranea alla mia percezione del nazismo quanto lo è il discorso sul “demoniaco” in Hitler e simili»15. E a questo punto
(forse inconsapevolmente riprendendo l’idea di un’«abissale vacuità» evocata da Hannah negli Approaches to the «German Problem»)16 conclude:
«Mi sembra – giacché questa è la verità – che si debbano prendere le cose
in tutta la loro banalità [Banalität], in tutta la loro piatta nullità», in quanto «non vi alcuna idea né alcuna sostanza [Wesen] in questa faccenda»17.
Della replica di Arendt non occorre dar qui conto puntualmente. Basti
ricordare che – con una delle sue rare e parziali marce indietro – ella ammette di avere corso il rischio segnalato da Jaspers («ammetto senz’altro
che, per come ho esposto la cosa sinora, sono andata pericolosamente vicino all’idea di una “grandezza satanica”, che rigetto senz’altro») e di convenire sulla necessità di scongiurarlo («Una cosa è sicura: va combattuta
ogni costruzione di miti dell’orrore, e finché non ci si sarà sbarazzati di simili formulazioni sarà impossibile comprendere pienamente ciò che è accaduto»)18. È esplicito il riferimento al proprio lavoro, in particolare alla
prospettiva destinata a strutturare l’analisi del «totalitarismo» nazista. E,
14
H. Arendt, K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, cit., p. 91.
Ivi, pp. 98-99.
16 H. Arendt, Approcci alla “questione tedesca” (1945), in Archivio Arendt 1. 19301948, a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 144.
17 H. Arendt, K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, cit., p. 99.
18 Ivi, p. 106.
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come sappiamo, ancora per lungo tempo i caveat di Jaspers non prevarranno. Lo spettro del demoniaco aleggia sulle pagine delle Origins19, minacciando di precludere (o di rendere inconsistente) il discorso sulle responsabilità del regime e degli addetti alla sua macchina sterminatrice. Ma,
considerando le cose ex post, non è possibile non dedurre dalla pur sommaria rievocazione del dialogo tra il maestro e l’allieva che le posizioni del
primo abbiano influito e lavorato a fondo, certo non incontrastate, nella
mente della seconda. Finendo col condizionarne – o perlomeno con il favorirne – una profonda trasformazione, nel senso, come vedremo subito,
della riabilitazione univoca della questione della responsabilità come ineludibile criterio di comprensione e giudizio della condotta umana, individuale e collettiva.
3. Arendt, II (1963-1975)
Ciò che mi preme è comprendere.
Conversazione radiofonica con Günter Gaus, 28 ottobre
1964
Il punto intorno al quale l’analisi arendtiana dei nuovi crimini ha ruotato fin
qui è il paradosso di una colpevolezza irresponsabile, attribuibile – ma non
imputabile – ad agenti totalmente eterodiretti non soltanto perché ignari
del fine al quale i propri misfatti tendevano, ma anche perché privi della
stessa capacità di comprendere la propria condizione e di comprendersi in
essa. E in questa misura addirittura equiparabili alle loro vittime.
Sino alle Origins questa rappresentazione sembra, in virtù della sua radicalità, l’unica adeguata a restituire l’inedita e inaudita (quindi incomprensibile) atrocità del totalitarismo nazista. Ma la stringente logica della rappresentazione sistemica spinge inesorabilmente verso un esito intravisto già nel saggio sulla «colpa organizzata» e che, a partire dal 1963,
19
E non soltanto: si legga in particolare L’immagine dell’inferno (1946) [in Archivio
Arendt 1. 1930-1948, cit., p. 232], dove Arendt già sostiene che la perversa malvagità dei
nazisti «oltrepassa i limiti della comprensione umana» (il corsivo è nel testo) e che, non essendo più «il frutto del comportamento umano», quanto è accaduto nell’«inferno» del Lager «distrugge la base stessa su cui si costruisce la storia, ossia la nostra capacità di comprendere un evento».
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Arendt denuncia a più riprese, con cognizione di causa. «Dove tutti sono
colpevoli, nessuno, in ultima analisi, può essere giudicato» (Og, p. 150).
La tesi, in apparenza intransigente, della colpevolezza generale è destinata a ribaltarsi, per la sua indeterminatezza, nella sanzione di una generale
innocenza.
Nelle pagine di EiJ e negli scritti successivi questo tema torna con insistenza, inducendo anche una presa di distanza dalla concezione jaspersiana della «colpa metafisica»20. E non è inverosimile che motivi l’insoddisfazione di Arendt nei confronti dei risultati precedentemente raggiunti.
Sta di fatto che il quadro che emerge nella seconda fase della sua ricerca
(a partire dagli anni Sessanta, dopo la scoperta della «banalità del male» e
dei suoi artefici in occasione del processo ad Adolf Eichmann) appare ribaltato rispetto a quello disegnato in precedenza. E che, con ogni probabilità, a determinare tale rovesciamento è l’assunzione di una diversa prospettiva teorica (e, insieme, di un’altra strumentazione analitica e concettuale).
Grazie al contesto giudiziario (verrebbe da dire: grazie al clima del processo penale); grazie anche al fatto che il processo di Gerusalemme coinvolge un singolo imputato (non – come a Norimberga – un gruppo, dal quale prendere facilmente distanza) e che si svolge lontano dalle emozioni collettive dell’immediato dopoguerra, l’analisi assume ora il punto di vista proprio del discorso giuridico. Quindi focalizza questioni cruciali sul terreno filosofico oltre che psicologico, per concentrarsi sulla personalità dei carnefici, sulle loro motivazioni, sulla loro coscienza. E muove dall’assunto (nel
quale sembra di avvertire distintamente l’eco della lezione jaspersiana) della loro responsabilità: una responsabilità di nuovo tipo (come effettivamente nuovi sono i crimini totalitari e i loro artefici), nella quale si incontrano
paradossalmente consapevolezza e ottusità, idiozia e intelligenza.
Letto in questa chiave – focalizzando il tema della responsabilità dei
carnefici nazisti e della legittimità delle punizioni loro inflitte – EiJ appa20 Cfr. tra i molti luoghi: EiJ, pp. 251 (dichiarare «tutti colpevoli» equivale a «sottrarsi
alla pressione dei reali problemi attuali») e 297 (l’idea di una «colpa collettiva del popolo
tedesco» comporta l’effetto perverso di «rendere superfluo il giudizio» «in termini di responsabilità morale individuale» e di giustificare a priori «la condotta di gruppi o individui» riconducendola a presunti processi storici generali). Si vedano anche Responsabilità
personale sotto la dittatura (1964) e Responsabilità collettiva (1968), entrambi in Responsabilità e giudizio, cit., rispettivamente alle pp. 18 e 127-128. Sul tema jaspersiano della
«colpa metafisica» cfr. H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 47; H.
Arendt, Il caso Eichmann e i tedeschi, in Politica ebraica, cit., p. 255.
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re tutto sommato più rassicurante delle Origins, a dispetto della ridda di polemiche divampate all’indomani della sua pubblicazione. Motivate, del resto, perlopiù da ragioni spurie, lato sensu politiche (legate principalmente
– è noto – alla questione del «collaborazionismo» dei Consigli ebraici, oltre che all’uso politico del processo da parte del governo Ben-Gurion) e,
forse, anche dal conformismo che suole caratterizzare la ricezione di tesi
eterodosse21.
3.1 La «grandezza» del diritto
Un deciso rovesciamento della prospettiva analitica si annuncia sin dalle
prime pagine di EiJ. Il motivo – l’occasione – è la definizione dei problemi posti dal processo penale e, più precisamente, dei compiti della giurisdizione, la quale deve definire la colpa personale dell’imputato. Materia
del processo (del giudizio e della sentenza) è ciò che «un individuo, una
persona in carne ed ossa», ha fatto: «le sue azioni», ove comprovate, costituiscono le sue colpe (EiJ, pp. 20, 5). Al centro della scena campeggia
la persona dell’imputato, sottolinea Arendt focalizzando la distanza di questa prospettiva dall’ottica funzionalistica propria dell’analisi sociologica:
«nella misura in cui si tratta di crimini – e questo è ovviamente il presupposto di ogni processo – tutti gli ingranaggi del macchinario, per quanto irrilevanti, tornano immediatamente ad essere, in tribunale, dei perpetratori,
cioè esseri umani» (EiJ, p. 289). Chiamando le persone a rispondere dei
propri atti, il processo muove dunque dal presupposto intenzionalistico della loro consapevolezza e libera decisione (in una parola, della loro responsabilità). In questo senso si pone il problema della loro coscienza, con l’as21
Per una prima approssimazione alle polemiche sorte a seguito della pubblicazione
del libro di Arendt e tuttora aperte, si vedano, in una vastissima bibliografia, F. Arnold
Krummacher (a cura di), Die Kontroverse. Hannah Arendt, Eichmann und die Juden, München, Nymphenburger Verlag, 1964; J. Robinson, And the Crooked Shall Be Made Straight.
The Eichmann Trial, the Jewish Catastrophe and Hannah Arendt’s Narrative, New YorkLondon, Macmillan, 1965; R.L. Braham, The Eichmann Case. A Source Book, New York,
World Federation of Hungarian Jews, 1969; W. Laqueur, Hannah Arendt in Jerusalem. The
Controversy Revisited, in L.H. Legsters (a cura di), Western Society After the Holocaust,
Boulder, Westview Press, 1983; B. Sharp, Modesty and Arrogance in Judgement. Hannah
Arendt’s Eichmann in Jerusalem, Westport (CT)-London, Praeger, 1999; Y. Lozowick, Hitlers Burokraten. Eichmann, seine willigen Vollstrecker und die Banalität des Bosen, Zürich,
Pendo Verlag, 2000; S.E. Aschheim, Hannah Arendt in Jerusalem, Berkeley-Los Angeles,
California U.P., 2001; D.E. Lipstadt, The Eichmann Trial, New York, Nextbook/Schocken,
2011.
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sunto che essa «funzion[i] a pieno regime»22. Così nel caso del processo di
Gerusalemme. A tema è «il problema della coscienza di Eichmann» (EiJ,
p. 284), che i giudici (e la stessa Arendt) si prefiggono in primo luogo di
comprendere.
Non si saprebbe immaginare un più netto rovesciamento prospettico rispetto all’impostazione precedente. Si potrebbe dire: diritto (e morale) vs
teoria politica (e scienze sociali): un salto di paradigma le cui conseguenze sono ben riassunte in una battuta che Arendt pronuncia conversando con
Joachim Fest: si tratta di adottare l’ottica (propria del diritto) che, a chi dice «ero solo un burocrate», consente (e impone) di replicare «perché hai
fatto certe cose?»23. Non è difficile avvertire in queste parole un certo sollievo. Nell’imporre in partenza la prospettiva intenzionale dell’autodeterminazione degli agenti (di per sé, ovviamente, discutibile, ma irrinunciabile in quest’ottica – e in generale nelle scienze umane – ai fini della comprensione dei comportamenti umani)24, la prospettiva giuridica libera l’analisi da una sorta di prigione (la cappa deterministica inerente all’approccio
sistemico) e ristabilisce il discorso su basi nuove, forse più solide. Si capisce quindi che Arendt voglia celebrare la «grandezza» del diritto e delle
«norme giuridiche e morali», grazie alle quali «perfino un semplice ingranaggio […] ridiventa una persona»)25.
Naturalmente questo non significa abbracciare l’estremo opposto: ignorare l’influenza dei cosiddetti fattori situazionali. Nulla impedisce di tenere presente il contesto nel quale gli attori agiscono. Anzi, non considerarlo impedirebbe qualsiasi ricostruzione pertinente dei loro comportamenti.
Solo, tutto ciò è ora focalizzato fuori da ogni ipotesi funzionalistica, in
22
H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, cit., p.
48; analoghe espressioni ricorrono nelle Risposte a Samuel Grafton (1963), in Politica
ebraica, cit., p. 238.
23 H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 50.
24 Si veda in proposito M. De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004, cap. V (in particolare pp. 136-137), che, rifacendosi ai lavori di D. Davidson
(in particolare gli Essays on Actions and Events [1980] e le Inquires into Truth and Interpretation [1984]), fonda la «prospettiva agenziale» su un argomento (detto «dell’abduzione») secondo il quale «è razionale accettare l’idea della libertà umana, in quanto essa è implicata dalle spiegazioni delle scienze umane» che a loro volta costituiscono le «migliori
spiegazioni» del comportamento umano. Per una sintesi della discussione sul rapporto tra
determinismo e responsabilità si veda, in questo numero di «Dianoia», M. Lalatta Costerbosa, I volti della responsabilità. Per una tipologia, § 2.
25 H. Arendt, Responsabilità collettiva, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 128.
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un’ottica più realistica – di certo meno schematica – di quella assunta nelle Origins. E non è escluso che proprio in virtù di quest’altra prospettiva
Arendt si ponga finalmente all’altezza delle più feconde intuizioni sottese
agli scritti della prima fase, e riesca a definire in modo plausibile la nuova
antropologia criminale generata dal nazismo.
Il punto è che i contesti incidono in quanto situano, condizionano e (a
proposito dei nuovi codici semantici ed etici) connotano. Ma non determinano – nel senso che non azzerano la consapevolezza (lo spazio della riflessività), quindi i margini di libertà degli individui. Quanto ai nuovi codici, essi non si sostituiscono mai in toto alla realtà (né ai codici precedenti). Possono influenzare, orientare (o fuorviare), ma non si traducono in
fattori immediatamente coercitivi, quindi non cancellano la responsabilità.
Nemmeno per Eichmann la nuova codificazione etica e la «regola linguistica» che l’accompagna blindano l’orizzonte. Anche nel suo caso la “vecchia” coscienza persiste, si pone in conflitto con la “nuova” e genera travaglio («crisi di coscienza») e bisogni (di giustificazione e assoluzione). Arendt
lo afferma molto chiaramente laddove, ricostruendo le reazioni di Eichmann
al cospetto di una camera a gas in un bosco vicino a Lublino («anche per me
ciò era mostruoso» [EiJ, p. 87]), osserva che «il sistema» (e la sua nuova
Sprachregelung) «non era uno scudo infallibile contro la realtà» (EiJ, p., 86).
Insomma, il carnefice «commette i propri crimini in circostanze che quasi gli
impediscono di sapere o sentire che sta facendo del male»» (EiJ, p. 276).
Quasi. Resta comunque, sempre, un margine di consapevolezza che impedisce il dileguare della responsabilità. Tutto ciò mette fuori gioco la tesi dell’onnipotenza del potere totalitario. Il contesto è una concausa, non un quadro coattivo. Un sistema totalitario costituisce «un’attenuante, morale e giuridica» (in considerazione del fatto che «solo coloro che si erano completamente ritirati dalla vita pubblica» avrebbero potuto restare immuni da «ogni
responsabilità giuridica e morale»)26, non prende il posto delle persone poiché non riesce nell’intento di trasformarle in puri e semplici strumenti.
3.2 «Crisi di coscienza» e libero arbitrio
Documenti della consapevolezza di compiere atti criminosi sono quelle
che Arendt chiama «crisi di coscienza»: frangenti in cui Eichmann si vede
26 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., pp. 27, 29.
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posto dinanzi a secche alternative morali e alla necessità di prendere posizione, di assumere iniziative, di scegliere (persino contravvenendo agli ordini). EiJ presenta diversi esempi, più o meno fondati sul piano storiografico27. Ma su uno di questi – peraltro decisivo – c’è poco da discutere. Qualsiasi dubbio sulla legittimità dello sterminio ebraico viene fugato in occasione della conferenza del Wannsee, alla quale Eichmann presenzia (stando alle sue dichiarazioni) in qualità di verbalizzatore. Decisivo gli appare
il fatto che a decidere siano «i personaggi più eminenti, i papi del Terzo
Reich»: «in quel momento – racconta a Gerusalemme – mi sentii una specie di Ponzio Pilato, perché mi sentii libero da ogni colpa» (EiJ, p. 114).
Come si potrebbe comprendere questa ricerca di clausole liberatorie se non
come spia del bisogno di essere giustificati nella commissione di crimini
riconosciuti come tali?
Difatti al processo Eichmann sostenne di essere riuscito, al Wannsee, a
«sedare la propria coscienza» (EiJ, p. 116), con ciò implicitamente riconoscendo di avere compiuto una libera scelta, in piena consapevolezza e a
valle di un conflitto morale. Si trattò di una decisione, che reintegra in toto la responsabilità. Su questo nesso essenziale e sulla libertà dei carnefici, Arendt torna più volte, come vedremo. Una delle pagine più limpide in
proposito le capita di scriverla commentando, tre anni dopo la pubblicazione di EiJ, il processo di Francoforte contro gli aguzzini di Auschwitz.
L’attacco alle contraddizioni della teoria delle rotelle dell’ingranaggio (qui
definita «teoria dell’ometto insignificante») è frontale. Si pretende che gli
imputati fossero stati «costretti a fare ciò che avevano fatto», e nello stesso tempo si sostiene che «non erano in grado di capire che stavano compiendo atti criminali»: «ma se non erano in grado di capirlo […] perché allora era stato necessario costringerli?»28. Senza contare il surplus di vio-
27 Una prima volta «fu costretto dalle circostanze a prendere l’iniziativa, a vedere se era
in grado di “partorire un’idea”» (EiJ, p. 72), quando, nel settembre del ’39, si accorge della impraticabilità dell’«emigrazione forzata» e cerca altre soluzioni (progetto Nisko di trasferimento in un’area della Polonia occupata; progetto Madagascar; creazione di Theresienstadt); lo stesso avviene nel settembre del ’41, quando Eichmann (che «non aveva mai
preso una decisione in prima persona» [EiJ, p. 94]) cerca di salvare, inviandolo a Lodz, un
convoglio di ventimila ebrei della Renania (la sua terra natale) e di cinquemila «zingari»,
destinato ancora più a est (cioè allo sterminio immediato): in quelle settimane, commenta
Arendt, la coscienza di Eichmann «funzionò normalmente» [EiJ, p. 95], secondo la moralità tradizionale. Sulla fondatezza di queste valutazioni, cfr. Cesarani, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale, cit., pp. 95-98, 117-118, 134, 336, 355.
28 H. Arendt, Auschwitz sotto processo, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 202.
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lenza da parte dei perpetratori, le tante atrocità non «dettate da ordini superiori» né prescritte – anzi, ipocritamente vietate – dagli «assassini dal
colletto bianco» come Eichmann «o dagli effettivi ideatori della “soluzione finale”»29. Il Lager fu un luogo di orribili «divertimenti» da ascrivere all’arbitrio criminale dei carnefici. La verità è che «ad Auschwitz ciascuno
era libero di decidere se essere buono o cattivo», al punto che un ruolo
spesso decisivo lo giocava il «fattore umorale»: «la morte spadroneggiava
ad Auschwitz, ma la morte conviveva con il caso – con la casualità più arbitraria e offensiva, quella associata all’umore dei servitori della morte»30.
Così, tutto il discorso sull’obbedienza, sistematicamente richiamato da
chi invoca la pretesa impossibilità di sottrarsi agli ordini superiori (una tesi
che Jaspers considera del tutto priva di valore [Sf, p. 31]), viene ora riformulato in termini spiazzanti. «In politica obbedienza e sostegno coincidono»(EiJ, p. 279); «in faccende di carattere politico o morale» l’obbedienza
semplicemente «non esiste»31. Gli esseri umani (gli «adulti» – nozione in verità alquanto problematica, sulla quale occorrerebbe soffermarsi) non sono
mai realmente costretti a fare (o a omettere) qualcosa; alla base di ogni azione (o omissione) c’è una scelta (più o meno condizionata), nella misura in
cui agire implica sempre la decisione di agire. In quella che appare la più
netta presa di distanza dalle tesi delle Origins, ora Arendt giunge ad affermare (riprendendo Madison) che «tutte le forme di governo, anche le più autocratiche, e perfino le tirannie, si basano sul consenso»32.
3.3 Banalità e stupidità morale
In questo quadro, torna centrale l’analisi dei moventi, dell’insieme di ragioni che inducono Eichmann ad arruolarsi nella macchina del crimine nazista e ad «obbedire» fedelmente ai comandi criminali, sino a divenire uno
dei massimi «funzionari dello sterminio». Si tratta di moventi umanissimi,
del tutto normali (in questo senso analoghi a quelli individuati in Organized Guilt), che qui ci limitiamo a ricordare fugacemente. Sul piano psicologico Arendt ritiene che Eichmann fosse mosso principalmente dalla va-
29
Ivi, pp. 205-206.
Ivi, pp. 214-216.
31 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 40.
32
Ivi, p. 39.
30
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nità, che condivise con tanti altri capi nazisti un narcisismo malato, per dir
così ancorato a un Sé grandioso non ricondotto al principio di realtà. Agì
quindi in buona misura per fare carriera, oltre che per un malinteso «idealismo» consistente nell’assunzione feticistica dell’ideologia dominante. Sul
piano culturale influì indubbiamente sulla sua condotta l’etica militarista
dell’«obbedienza cadaverica», che a sua volta richiama un aspetto specifico del patriottismo tedesco, il riferimento al Vaterland, «terra-padre» e «padre-patria», caratterizzato da molti elementi propri del padre «cattivo» e
«terrificante», «dio fallico e sadico» che esige di «essere obbedito, ammirato e imitato anche nei suoi attacchi sadici» contro gli oggetti «buoni»33.
Ma ovviamente, ci si fermasse qui, si sarebbe spiegato ben poco. Rimarrebbe tutta la sproporzione tra moventi spiccioli e crimini inauditi. E, con essa, la domanda con cui ancora siamo costretti a fare i conti. Com’è stato possibile ciò che è avvenuto? Come spiegare l’orrore di un paese intero – di uno
Stato moderno, di un’amministrazione civile, di un esercito, di tutta una popolazione – mobilitato nello sterminio industralizzato di popoli (gli ebrei, in
primis; ma anche «zingari» e slavi) degradato al rango di «razza inferiore»?
Veniamo così al cuore dell’ipotesi arendtiana. La sua chiave teorica, il contributo più originale della sua ricerca, non per caso frequentemente frainteso, risiede nel tentativo di focalizzare una nuova desolante configurazione
della coscienza: quella che Arendt chiama «stupidità», e che consiste in una
specifica – benché tutt’altro che infrequente – ottusità morale.
Si tratta di una tesi complessa34, che può essere adeguatamente compresa soltanto in una prospettiva filosofica. Per intenderla, occorre fare
33
R. Money-Kyrle, Verso uno scopo comune: un contributo psicoanalitico all’etica
(1944), in Scritti 1927-1977, trad. it. a cura di M. Mancia, Torino, Bollati Boringhieri, 2002,
p. 197; Id., Alcuni aspetti dello Stato e del carattere in Germania (1951), ivi, p. 234.
34 Con buona pace di Z. Bauman, secondo il quale «Arendt non è mai stata tanto banale come quando ha definito Eichmann banale» (cfr. E. Donaggio, Dissonanze del totalitarismo. Banalità del male o servitù volontaria?, in «Psicoterapia e Scienze Umane», XLVII
(2013), 2, p. 243, che rimanda alla discussione della relazione A Natural History of Evil presentata da Bauman al Convegno internazionale «Storia, modernità e male politico» – Firenze, 24-25 gennaio 2012): una critica – questa di Bauman – ad effetto, vacua e supponente,
nella quale risuona una nota decisamente sgradevole: non tanto perché la battuta è rivolta
a chi non può difendersi, quanto in ragione del fatto che senza i lavori di Arendt (le Origins
e EiJ) difficilmente vi sarebbe stato l’unico libro significativo di Bauman, Modernità e Olocausto (senza considerare che è di derivazione arendtiana anche l’idea della «superfluità degli esseri umani» sulla quale Bauman è tornato più volte in suoi scritti recenti).
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chiarezza in primo luogo sull’idea nota (forse non conosciuta) che ha reso
celebre EiJ. Che cos’è la «spaventosa, indicibile e impensabile banalità
del male» (EiJ, p. 252) nella quale, secondo Arendt, riassume il cuore della «lezione» di Gersualemme? Come sappiamo la storia di questa idea comincia ben prima del 1963. Ora possiamo aggiungere che essa si intreccia
con la riflessione sul concetto kantiano di «male radicale». Fino al 1958
Arendt ne ribadisce l’attualità, limitandosi a rivolgere a Kant una critica
parziale: a suo giudizio, Kant non è stato all’altezza della propria intuizione in quanto ha cercato di «razionalizzare» il male radicale (Ot2, p. 459),
con ciò relativizzandolo, operazione del tutto impropria in relazione a quanto accaduto nei Lager. In quanto veramente radicale, il male perpetrato dai
nazisti sulla base dell’idea della superfluità degli esseri umani non è riconducibile ad alcunché di razionale (ed è quindi, come sappiamo, incomprensibile).
Resta che sin qui Arendt è ancora in linea con l’assunto secondo cui il
male estremo, assoluto è, in quanto tale, radicale. Questa posizione cambia decisamente per l’impatto con il processo Eichmann, che a giudizio di
Arendt dimostra come il male estremo sia in realtà privo di senso e di profondità (quindi di radici). In questo senso «banale». Il cambiamento viene
esplicitato nella lettera a Gershom Scholem (24 luglio 1963), dove Arendt
dichiara di avere in effetti «cambiato idea» e di non voler parlare più di
male radicale: «quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo»35.
Nelle intenzioni di Arendt, banale significa dunque, in primo luogo36,
superficiale, vuoto, insensato37. La caratteristica propria del male è l’in-
35 «Eichmann a Gerusalemme». Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt (1963), in H. Arendt, Ebraismo e modernità, trad. it. a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 227. Analoghe puntualizzazioni in Id., Risposte a Samuel Grafton,
in Politica ebraica, cit., pp. 243-244; Il caso Eichmann e i tedeschi, ivi, p. 253; H. Arendt,
J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 41; H. Arendt, Quaderni e diari 19501973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, 2011 (ed. it. a cura di C. Marazia), Vicenza, Neri
Pozza, p. 513 (annotazione del gennaio 1966).
36 C’è anche un secondo significato (banale = normale), sul quale Arendt non è univoca: cfr. EiJ, p. 288; H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 40, vs. EiJ,
pp. 26-7, 276.
37 A giudizio di Arendt la violenza nazista è stata demonizzata nel tentativo di «trovare un significato storico» assente nell’agire di criminali che «non erano spinti dai mo-
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consistenza: un’idea che sembra rimandare alla «abissale vacuità» di cui
parlano già gli Approaches to the «German Problem», e alla «piatta nullità» evocata da Jaspers nella lettera del 19 ottobre 1946. Ma in questa equivalenza tra banalità e vuoto si annida un pericolo, all’origine di tanti equivoci. Dal fatto che il male sia privo di senso discende che nella sua banalità vi sia soltanto assenza – che in questo vuoto non vi sia alcun pieno? Se
queste conclusioni fossero corrette, non sarebbe possibile ragionare in termini di colpa e di responsabilità. Infatti da qui discendono le ricorrenti accuse rivolte ad Arendt di avere costruito un edificio giustificatorio a vantaggio di Eichmann e dei suoi simili. Ma le cose non stanno affatto così. Il
pieno c’è, ed è precisamente quella peculiare stupidità morale su cui si tratta di intendersi.
Difficile a questo riguardo non è tanto capire in che cosa questa forma
di stupidità consista: come funzioni, come si manifesti. In proposito i testi
sono chiari e i concetti tutto sommato intuitivi. Evidentemente è qui in gioco – a giudizio di Arendt – una forma di «sconsideratezza»38 o di «idiozia»39
nutrita da povertà di spirito, da meschinità40. E s’immagina agevolmente
che questa sindrome si caratterizzi per l’astrattezza del ragionamento, in
forza della quale (come Hegel ebbe modo di osservare)41 ogni singola determinazione è assunta come a sé stante, enucleata dal contesto, quindi deprivata di senso. Quando Eichmann (e, come lui, quasi tutti gli imputati nei
processi contro i nazisti) insiste sul fatto di non avere personalmente compiuto azioni delittuose («Non ho mai ucciso un essere umano. Non ho mai
tivi malvagi e omicidi a cui siamo abituati – e non uccidevano per uccidere, ma perché
faceva parte della loro carriera». H. Arendt, Il caso Eichmann e i tedeschi, in Politica
ebraica, cit., p. 254.
38 Di «sconsideratezza» (oltre che di «fiduciosa ottusità») parla J. Fest in una lettera ad
Arendt del 5 gennaio 1971 (H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., pp. 8687) a proposito di Albert Speer, argomento di uno loro scambio epistolare (settembre 1970febbraio 1971); agli occhi di Arendt la sconsideratezza è «una risposta alquanto insufficiente, ma probabilmente l’unica corretta» (ivi, p. 88).
39
Arendt usa questo termine nel colloquio con Fest a proposito dell’idea (appunto schematica e superficiale) secondo cui ogni fonte di tentazione sarebbe male e viceversa, il che
durante il nazismo indusse molti ad agire in modo criminale sentendosi in pace con la coscienza (H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 40).
40 H. Arendt, Il caso Eichmann e i tedeschi, in Politica ebraica, cit., p. 254.
41
Cfr. G.F.W. Hegel, Wer denkt abstrakt? (1807), in Werke in zwanzig Bänden, hrsg. von
E. Moldenhauer und K.M. Michel, Bd. 2 (Jenaer Schriften 1801-1807), Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 575-581.
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dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo» [EiJ, p. 22]), è vero che
tenta anche di circoscrivere le proprie responsabilità nel quadro di una accorta strategia difensiva42. Ma non si tratta soltanto di astuzia e ipocrisia, altrimenti non aggiungerebbe di avere «soltanto aiutato e favorito» lo sterminio (ibidem). Come osserva Gitta Sereny a proposito dei ragionamenti di
Franz Stangl, comandante di Bełżec e Treblinka, e delle sue reazioni alle domande dell’interlocutrice, alla base di una «errata» (ma tradizionale e consolidata) «concezione della responsabilità», secondo la quale la responsabilità attiene ad «azioni momentanee, spesso isolate, e a pochi individui»,
opera precisamente la propensione a parcellizzare la realtà: a ritenere «che
la cosa decisiva, per la legge, e perciò per l’intera condotta delle cose umane, [sia] ciò che un uomo fa anziché ciò che egli è»43.
Torna alla mente quella sindrome – «la sterilità interiore, la mostruosa
miscela di rigore nel dettaglio e indifferenza per l’intero, l’indecente solitudine dell’uomo in un deserto di particolari» – che Musil considera tipica della moderna cultura europea e del suo crollo morale44. In effetti, si ha,
in questi casi, l’impressione di urtare contro un ostacolo, di avere a che fare con persone davvero ottuse, incapaci di rendersi conto della realtà, a dispetto della loro normale intelligenza. Con degli ebeti. Nel dialogo con
Fest, Arendt evoca la sensazione di «parlare a un muro», che riconduce all’incapacità di «“pensare mettendosi al posto degli altri”» (cioè, in termini kantiani, di «pensare largo»)45. Lo stupido morale è colui il quale non
42
Sulla non veridicità delle dichiarazioni di Eichmann al processo e sulla loro coerenza con una strategia difensiva accuratamente predisposta insistono D. Cesarani, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale, cit., pp. 289, 296-298, 336, 381; C. Gerlach, The Eichmann Interrogations in Holocaust Historiography, in «Holocaust and Genocide Studies»,
XV (2001) 3, pp. 429, 432-433, passim e K. Pätzold, E. Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942 (1992), trad. it. di A. Michler, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 19-22, 136-137, che nondimeno considerano
Arendt la «più acuta osservatrice del processo di Gerusalemme» (ivi, p. 78).
43
G. Sereny, In quelle tenebre (1974), trad. it. di A. Bianchi, B. Fonzi, Milano, Adelphi, 1975, p. 166.
44 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften. Erstes Buch (1930), in Gesammelte Werke
in neun Bänden, hrsg. von A. Frisé, Bd. 1 (Kapitel 1-80), Hamburg, Rowohlt, Reinbek bei,
1981, p. 40; a questa idea si collega quanto Musil osserverà nella conferenza Sulla stupidità a proposito della stupidità «intelligente», la forma «di gran lunga più pericolosa» in quanto contrastante «non all’intelletto, ma allo spirito e […] anche al sentimento». R. Musil,
Über die Dummheit (1937), in Gesammelte Werke in neun Bänden, cit., Bd. 8 (Essays und
Reden), pp. 1286, 1289.
45 H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 42.
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guarda mai le cose «dal punto di vista dell’altro»(EiJ, p. 48) e se stesso come un altro, come uno tra gli altri. A fargli difetto è innanzi tutto quella
particolare forma di immaginazione che sorge dall’esercizio della reciprocità e dal prendere distanza, grazie all’esperienza dell’incontro (o dello
scontro) con l’altro, dal proprio particulare. È qualcuno che, per dir così,
si barrica dentro la propria persona, il che è del tutto coerente con la propensione a scomporre la realtà in tanti segmenti isolati. Questo «cieco egocentrismo»46 connota anche Eichmann, il cui comportamento nel corso del
processo appare ad Arendt caratterizzato da una sorta di impermeabilità
autistica: «nessuna comunicazione con lui era possibile, non perché mentisse, ma perché era protetto dalla più sicura difesa contro le parole e la
presenza altrui, quindi contro la realtà stessa» (EiJ, p. 49). Di qui – benché
non si possa escludere che la chiusura di Eichmann fosse semplicemente
una difesa contingente, dovuta all’attacco di cui era fatto oggetto – l’inettitudine al «linguaggio comune» (EiJ, p. 86) e la necessità di rifugiarsi nelle frasi fatte, in slogan e clichè (EiJ, p. 48).
In termini classici (kantiani e, a monte, rousseauiani) non è qui compromesso l’intelletto astratto (l’organo della conoscenza) né la razionalità strumentale (bussola per l’abilità e l’efficienza), bensì la ragione in senso proprio (l’organo del pensiero e del giudizio morale, sede di elaborazione delle
finalità ultime) o la conscience (sede dell’amore per il bello e il buono, per
l’«ordine naturale delle cose»). Ma con tutto questo non si è ancora detto l’essenziale, che riguarda ancora una volta, inaspettatamente, proprio la consapevolezza delle persone e la loro libertà – temi apparentemente fuori gioco in
quanto parrebbe intuitivo (e in un certo senso lo è) che chi è stupido è per
forza di cose ignaro, inconsapevole (quindi giocoforza non responsabile).
Il punto è che qui è in gioco una stupidità che non inficia l’intelletto, che
non ostacola il raziocinio, che non pregiudica la capacità d’intendere e di
volere. Allora bisogna cercare di capire che cosa Arendt dice soprattutto dove impiega espressioni apparentemente incoerenti e persino insensate. In
EiJ leggiamo che, quando gli fu chiesto «se la direttiva di evitare “brutalità non necessarie” non suonasse alquanto ironica, considerato che si trattava di gente destinata a morte certa», Eichmann «nemmeno capì la do-
46 Così (a proposito dell’atteggiamento dei tedeschi nell’immediato dopoguerra) ne I postumi del dominio nazista: reportage dalla Germania (1950), in Archivio Arendt 2. 19501954, trad. it. a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 27.
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manda, tanto saldamente radicata nella sua mente era l’idea che peccato
imperdonabile fosse non già uccidere, bensì causare sofferenze inutili»;
sicché «durante il processo diede segni di autentico sdegno quando alcuni
testimoni raccontarono di crudeltà e atrocità compiute dalle SS» (EiJ, pp.
108-9). Il punto torna poco dopo, ne La responsabilità personale sotto la
dittatura: «fu lo stesso Eichmann a sottolineare più volte in proposito che
le direttive erano chiare: “Evitare ogni inutile sofferenza”. Quando gli fu replicato, durante gli interrogatori di polizia, che queste parole sembravano
piene di sarcasmo, visto che si parlava di gente mandata a morire, egli non
comprese neppure che cosa gli stava dicendo l’ufficiale di polizia. La coscienza di Eichmann si ribellava all’idea di crudeltà, ma non a quella di
omicidio»47.
Si stenta a raccapezzarsi, si ha l’impressione di un cortocircuito. Tanto più che nel Postscript alla seconda edizione di Ei (tratto dalla «Prefazione» all’ed. tedesca del 1964) queste conclusioni sono generalizzate e
portate al paradosso: «per dirla in parole povere, [Eichmann] semplicemente non capì mai che cosa stava facendo», benché «in linea di principio sapesse molto bene di che cosa si trattava» (EiJ, p. 287). Pressappoco quanto Arendt dice a proposito degli effetti del «sistema linguistico»
nazista, teso a impedire ai carnefici non di «ignorare ciò che facevano»,
ma di «identificarlo con la loro vecchia, “normale” conoscenza di che
cosa sono assassinio e menzogne» (EiJ, p. 86). Evidentemente la questione ruota intorno a una peculiare forma di comprensione. Che cos’è
questo «non capire» quanto è di per sé evidente? Che cos’è soprattutto
un non capire “sapendo benissimo” di che cosa si tratta? In realtà il rebus non è molto complicato, se solo si prendono sul serio i ripetuti accenni di Arendt al fatto che questa stupidità è essenzialmente diversa da
quella di cui si suole parlare; e che quindi è sbagliato partire dall’assunto che lo stupido morale non capisca nulla di quel che gli succede e di
quel che fa. Il suo non capire capendo è molto semplicemente un non
voler capire. Lungi dall’escludere consapevolezza e volontà («l’intenzione di fare del male», propria della mens rea [EiJ, pp. 277, 17]), l’ottusità morale le suppone entrambe, e quindi fonda la piena responsabilità dei criminali nazisti.
47
H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 35.
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3.4 Volere non capire, volere non sapere
Arendt lo dice in modo esplicito (benché, evidentemente, non abbastanza
chiaro), in primo luogo insistendo sul fatto che non è in questione, qui, alcun deficit cognitivo, nessuna organica «incapacità di intendere e di volere». Eichmann non era una persona «mentalmente debole», affetta da «turbe mentali» (EiJ, p. 26). Non era uno «stupido» nel senso corrente del termine. Non recava la «cicatrice» di cui parlano le pagine conclusive di Dialettica dell’illuminismo, procurata dal brutale rifiuto che «spezza» la speranzosa volontà di sapere48. Eichmann «era semplicemente privo di pensiero», il che «lo predisponeva a divenire uno dei più grandi criminali dell’epoca» (EiJ, pp. 287-8). Che cosa significa, in questo discorso, thoughtlessness («mancanza di pensiero»)49? Significa mancanza di convinzioni
proprie, frutto di giudizi elaborati in autonomia; significa impiego delle
idee correnti senza vagliarne la fondatezza né interrogarsi sulle loro implicazioni; significa acritica conformità agli usi prevalenti: significa, in una
parola, elusione precisamente di quel dialogo interiore di cui parla Jaspers,
rifiuto di «riflettere seriamente». E poiché il «pensiero» di cui si tratta non
implica conoscenze né doti intellettuali particolari (come le «idee della ragione» di cui parla la prima Critica kantiana e come il «pensare largo» di
cui si occupa la terza, anche questo pensiero è alla portata di tutti); poiché
la predisposizione al «dialogo silente con se stessi» è «trasversale rispetto
alle differenze di tipo sociale, culturale o educativo»)50, il fatto di non esserne privi non dipende dal caso o da circostanze esterne avverse. Discende dai percorsi mentali che ciascuno sceglie di seguire o di evitare, dallo stile della propria vita interiore, dall’abitudine di esercitare il giudizio o di
arrendersi all’ignavia della ragione, finché – «col passare dei mesi e degli
anni» (EiJ, p. 135) – quest’abitudine non si consolida e non diventa una
«seconda natura».
In una parola, è qui in gioco un limite voluto e costruito, figlio di una
decisione – questa sì radicale – che matura nel tempo, in forza della prati48
Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (19472), trad. it. di L.
Vinci, Torino, Einaudi, 1966, pp. 273-4.
49 Così anche in H. Arendt, La vita della mente, trad. it. di G. Zanetti, Bologna, il Mulino, 2004, p. 84.
50 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 37; e ancora: «la facoltà di pensare […] va attribuita a tutti, senza farne un privilegio di pochi»; il pensiero «non è una prerogativa di pochi, ma una facoltà onnipresente
in ciascuno di noi» (Il pensiero e le considerazioni morali, ivi, pp. 144, 162).
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ca del compromesso e della corruzione, e di un ostinato rifiuto della solidarietà. La stupidità morale è «scandalosa» perché non discende da un’impossibilità materiale, ma dalla «mancata volontà di immaginarsi davvero
nei panni degli altri, avendo un’idea di cosa capita loro»51. E se per un verso è chiaro che non è propria dello stupido la malvagità del demonio, la
sua non è nemmeno semplice cattiveria, bensì una prigionia consapevole e
deliberata. Lo stupido morale compie una scelta, decide di esser tale. È un
soggetto attivo, artefice della propria condizione, complice del contesto nel
quale opera. In questo senso Arendt afferma che quanti si «allinearono» ai
nuovi codici finirono «nelle loro stesse trappole»52 e scrive che il male
estremo – banale perché privo di significato – è innanzi tutto opera di «esseri umani che si rifiutano di essere persone», che hanno «rinunciato volontariamente a ogni qualità o attributo personale» e restano «cocciutamente»53 sordi al dubbio o al rimorso.
L’idea che tiene insieme queste diverse formulazioni è quella, in pari
misura problematica e feconda, dell’autoinganno. Di un’«abitudine all’autoinganno» divenuta «quasi un presupposto morale per la sopravvivenza» EiJ parla del resto in modo esplicito (p. 52). E il tema – centrale
già nel reportage del 1950, che focalizza attentamente i meccanismi di difesa e adattamento (diniego della realtà, tabuizzazione e rimozione; derealizzazione, proiezioni e stereotipizzazioni) attivi nella «fuga dalla realtà e dalla responsabilità» dei tedeschi alle prese con l’«incubo di distruzione e orrore» del dopoguerra54 – emerge anche nel carteggio con
Jaspers, nel quale non per caso ricorrono espressioni paradossali. Arendt
parla, per esempio (9 agosto 1963), di un «volere (o meno) ammettere di
51
H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., pp. 43, 41.
H. Arendt, “Che cosa resta? Resta la lingua”. Una conversazione con Günter Gaus
(1964), in Archivio Arendt 1. 1930-1948, cit., p. 49.
53 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, cit., pp.
95-96.
54 H. Arendt, I postumi del dominio nazista: reportage dalla Germania (1950), in Archivio Arendt 2. 1950-1954, cit., p. 23. Vale la pena di osservare che l’analisi di quello che
definisce «un rifiuto semiconscio ad abbandonarsi al dolore o un’autentica incapacità di
provare alcunché» e «un profondo, ostinato e a volte maligno rifiuto di affrontare e prendere atto di ciò che è realmente accaduto» (ibidem) induce qui Arendt a definire i tedeschi
«morti viventi» (p. 28), espressione che, come abbiamo visto, di lì a poco (nelle Origins)
userà per definire le «nuove creature» generate dal nazismo nel laboratorio dei Lager (il
che porta in qualche modo a ritenere che la mutazione antropologica sia effettivamente avvenuta).
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sapere ciò che si sa»55; Jaspers evoca a sua volta (12 agosto 1963) il «bisogno di non sapere nulla»56. Volere non sapere o negare a se stessi di sapere sono paradossi analoghi a quelli considerati in precedenza a proposito della comprensione volutamente parziale (limitata e astratta) dello
stupido morale. Paradossi che restituiscono plasticamente la struttura di
uno sconcertante, osceno mix di consapevolezza e idiozia; di raziocinio
e ottusità; di volontà e sconsideratezza; di lucidità e assenza d’immaginazione; d’intelligenza e incapacità di comprendere. Della quale si può
parlare soltanto in un senso molto specifico, tutt’altro che intuitivo, nella misura in cui è una «incapacità» coltivata, frutto di un apprendistato e
di una conversione.
3.5 «Guardare all’intera vicenda da un punto di vista morale»
È questo il vero cuore teorico dell’analisi arendtiana: non tanto il concetto di
«banalità del male», che non cessa di destare scandalo presso chi si rifiuta di
capirlo, quanto l’idea della colpevole stupidità morale dei perpetratori: l’idea
che Eichmann fosse indiscutibilmente colpevole dei propri abomini, non solo per il fatto di essersi reso «strumento volontario nell’organizzazione dello
55
«Ob sie [i congiurati del 20 luglio] sich selber eingestehen wollten, daß sie wußten,
was sie wußten […]». H. Arendt, K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, cit., pp. 553-554.
56 «[…] man brauchte, nichts zu erfahren […]». Ivi, p. 556. Il tema dell’autoinganno e della scelta – per dirla con Arendt «semiconscia» – di vie di fuga dalla realtà al fine di non sapere o di negare a se stessi di sapere è da tempo al centro della ricerca storiografica sul nazismo: si vedano, tra gli studi più recenti, D. Bankier, The Germans and the Final Solution. Public Opinion under Nazism, Oxford, Basil Blackwell, 1992; C. Koonz, The Nazi Conscience,
Cambridge (Mass.)-London, The Belknap Press of Harvard U.P., 2003; P. Longerich, «Davon
haben wir nichts gewusst!». Die Deutschen und die Judenverfolgung 1933-1945, München,
Pantheon, 2007; P. Fritzsche, Vita e morte nel Terzo Reich (2008), trad. it. di M. Cupellaro, Roma-Bari, Laterza, 2010; A. Burgio, Il conflitto tra morali nella Germania nazista, in Shoah,
modernità e male politico, a cura di Renata Badii e Dimitri D’Andrea, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 263-283; Id., Dire il vero mentendo. Sulla memorialistica dei carnefici, in corso di pubblicazione negli atti del Convegno «Storia e memoria. Raccontarsi e raccontare il passato» (Trieste, 9-10 maggio 2013), a cura del Laboratorio della Memoria della Provincia di
Trieste. Si collega a questo insieme di questioni il problema della «scissione della coscienza»
focalizzato, in relazione alla Germania nazista e post-nazista, da A. e M. Mitscherlich in Germania senza lutto. Psicoanalisi del postnazismo (1967), trad. it. di P. Monaci e R. Torsini, Firenze, Sansoni, 1970; più in generale, sui meccanismi di difesa e di adattamento si vedano R.B.
White, R.M. Gilliland, I meccanismi di difesa (1975), trad. it. di A. Giuliani, Roma, Astrolabio, 1977; P. Parin, L’Io e i meccanismi di adattamento (1977), in «Psicoterapia e Scienze
Umane», XL (2006), 3, pp. 379-408.
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sterminio», ma anche perché era in primo luogo responsabile della sua stessa «incapac[ità] di distinguere il bene dal male» (EiJ, pp. 279, 26).
La volontà e la libera scelta dei carnefici sono dunque il fulcro di tutta
questa analisi, frutto del ribaltamento della prospettiva sistemica adottata
in precedenza. Della portata del riorientamento Arendt si mostra pienamente consapevole, oltre che desiderosa di sottolinearla. Già rispondendo
a Scholem pone l’accento sulla necessità di spostare l’asse del discorso per
misurare l’incidenza della libertà dei carnefici (ne comprenderemo l’importanza «quando cominceremo a giudicare non il sistema, ma l’individuo,
le sue scelte e le sue ragioni»)57. Il concetto torna, più o meno negli stessi
termini, nei saggi filosofici degli anni Sessanta. Osservando come le «scienze politiche e sociali» tendano ad assumere come un dato acquisito l’«insopprimibile tendenza» della burocrazia «a ridurre gli uomini a meri funzionari», Arendt afferma che, per impedire lo «scaricabarile delle responsabilità», occorre «considerare questi fattori solo come circostanze, magari attenuanti, di ciò che gli uomini in carne e ossa fanno o hanno fatto»58.
Proprio l’impatto con il processo di Gerusalemme le ha permesso di «capire al volo che tutta questa faccenda di ingranaggi» (in sostanza la materia indagata nelle Origins) «aveva ben poca consistenza in quel contesto, e
che bisognava guardare tutto da un punto di vista diverso»59.
Ma è soprattutto nelle risposte che appronta nel settembre del 1963 per
un’intervista chiestale da Samuel Grafton che Arendt chiarisce la questione, non senza coinvolgere autocriticamente, con ammirevole onestà intellettuale, le sue stesse analisi precedenti. «Esiste una teoria molto diffusa, a
cui anche io ho dato il mio contributo, secondo la quale questi crimini si
sottraggono alla possibilità del giudizio umano e mettono in crisi la struttura delle nostre istituzioni giudiziarie»60. È un fatto che, quando si descrive un «sistema nel suo complesso», ci si occupa «di un “tipo”, anziché di
individui», e si riducono le persone a piccole o grandi rotelle. Di fronte a
questo modello, il processo penale ha un «grande vantaggio», quello di
«farci trovare inevitabilmente di fronte alla persona e alla colpa personale,
57 «Eichmann a Gerusalemme». Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, (1963), in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., p. 225.
58 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, cit., pp.
48-49.
59 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., pp. 25-26.
60
H. Arendt, Risposte a Samuel Grafton, in Politica ebraica, cit., pp. 238-239.
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alle motivazioni e alle decisioni individuali, a particolari che in un altro
contesto, il contesto della teoria, non hanno rilievo»61. In questo quadro, di
estrema chiarezza, va posta l’affermazione più esplicita del radicale mutamento di strumentazione analitica e teorica verificatosi nella sua ricerca.
Laddove Arendt dichiara senza mezzi termini che «i procedimenti giuridici hanno costretto tutti, anche gli scienziati della politica, a guardare all’intera vicenda da un punto di vista morale»62.
3.6 Un popolo di «stupidi»?
Dunque alla domanda «com’è stato possibile?» Arendt risponde: a causa
della stupidità morale di tanti. Fu questa, a suo giudizio, la fonte del «crollo morale avvenuto nel cuore dell’Europa»63, che portò il nazismo al potere e consentì il trionfo dell’orrore. Ma, ammesso che soddisfi sul piano filosofico, questa risposta pone un problema sul terreno storico – un problema che Arendt non si pone in forma esplicita, ma che circola nei suoi interventi, se è vero, com’è vero, che è possibile rinvenire in essi una risposta.
Per avere un senso, l’ipotesi della stupidità morale quale causa primaria della «disintegrazione» della società tedesca e della sua «completa e definitiva distruzione»64 deve spiegare perché proprio la Germania fosse sede di
una pandemia morale di questo genere65; perché proprio in Germania la coscienza fosse «andata dispersa» (EiJ, pp. 103) – cioè fossero andati drammaticamente in crisi i «modelli di equità» e «di giustizia» che costituiscono di norma il quadro di riferimento comune dell’azione sociale66 – causando la «débâcle morale di un’intera nazione» (EiJ, p. 110). In una battuta, occorre capire perché nella prima metà del Novecento la stupidità fosse
61
Ivi, p. 238.
H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 47.
63 H. Arendt, Il caso Eichmann e i tedeschi, in Politica ebraica, cit., p. 251.
64 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 21.
65
In EiJ (e non solo) Arendt insiste a più riprese sul fatto che «la schiacciante maggioranza della popolazione tedesca credette in Hitler» sino alla fine del conflitto, e definisce
«materia esplosiva» il tema della «pervasiva rete di complicità» in Germania, vasta al punto che senza gli ex-nazisti, nella Rft «non ci sarebbe mai stata nemmeno un’amministrazione». (EiJ, pp. 98, 18).
66 E. Jaques, Ansie psicotiche e senso di giustizia (1970), in H. Hartmann, E. Jaques, E.
Kris, R. Money-Kyrle (a cura di), Morale e valori, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 119.
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la cifra morale prevalente tra i tedeschi, la forma della loro mentalità diffusa. È così che torna prepotentemente una questione emersa già negli anni
Quaranta. E anche a questo proposito la posizione che Arendt assume a valle del processo di Gerusalemme registra mutamenti molto significativi.
In Organized Guilt Arendt si è chiesta se alla base dell’avvento del nazismo e del consenso di massa ai suoi crimini vi sia qualcosa di essenzialmente tedesco. E, pur concedendo che la tipologia umana del bourgeois che per
«calcoli privati» si lascia trasformare in un «criminale amministrativo» possa aver trovato «condizioni particolarmente favorevoli» in Germania, paese refrattario al «patriottismo» e alle «classiche virtù del comportamento civico»;
pur alludendo a «veri vizi nazionali», contrapposti a quelle virtù (Og, p. 153),
ha sostenuto che per capire quanto è avvenuto «non serviranno speculazioni
sulla storia tedesca e sul cosiddetto carattere nazionale tedesco», poiché il nazismo costituisce la manifestazione estrema di un fenomeno – la scissione tra
«esistenza privata» e «virtù civica» – «moderno e internazionale» (internazionale in quanto moderno), non specificamente tedesco (anzi anti-tedesco,
perché «anti-nazionale») (Og, pp. 151, 153, 148). Queste convinzioni appaiono addirittura rafforzate negli Approaches to the «German Problem», nella
misura in cui l’essenza del nazismo è posta qui nello sradicamento dalla storia nazionale: se anche è vero che «la situazione della Germania» (in particolare per le disastrose conseguenze sociali del trattato di Versailles) «si prestava particolarmente alla rottura completa con la tradizione», a caratterizzare la
«rivoluzione» hitleriana fu la «disintegrazione» del «carattere nazionale tedesco», la sua completa messa al bando rispetto alla politica del Reich67.
Negli anni Sessanta Arendt rivede a fondo questi giudizi, nel senso che,
pur continuando a respingere l’«interpretazione ad hoc» (EiJ, p. 297) volta
a coinvolgere nella condanna del nazismo la storia tedesca «da Lutero a Hitler»68 (dove sembra di poter cogliere un’allusione a Thomas Mann), ora si
guarda bene dall’escludere l’esistenza di tratti peculiari della mentalità, della psicologia collettiva e della cultura dei tedeschi che possano avere inciso
in quella tragica vicenda. Anche a questo riguardo le sue considerazioni richiamano la posizione di Jaspers. Riflettendo sulla questione, la Schuldfrage mette a fuoco in particolare due fattori, tra loro connessi: il feticismo del67
H. Arendt, Approcci alla “questione tedesca” (1945), in Archivio Arendt 1. 19301948, cit., pp. 145-6.
68 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 18.
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l’obbedienza (l’idea della «miracolosa sacralità del comando, derivante dalla tradizione militare» [Sf, p. 59]) e la caratteristica apoliticità tedesca («noi
tutti in Germania siamo stati educati per lungo tempo in particolare all’obbedienza, al sentimento dinastico, all’indifferenza e alla irresponsabilità rispetto alla realtà politica» [Sf, p. 68]). E su questa base traccia una linea di
continuità tra l’ethos collettivo dei tedeschi e le loro scelte politiche a sostegno del nazismo, affermando che «nelle condizioni spirituali della vita tedesca era data la possibilità di un simile regime» (Sf, p. 71).
Mostrando di condividere tali conclusioni, Arendt mette l’accento sulla parossistica deferenza all’autorità e sull’operatività dell’«obbedienza cadaverica» quale dispositivo funzionale alla delega morale (in conformità a
una paradossale riformulazione del kantismo, trasformato in un’etica dell’eteronomia e della sottomissione acritica)69. In EiJ riconosce che è «effettivamente molto comune in Germania» la «bizzarra idea» secondo cui
sarebbe un obbligo morale inderogabile «identificare la propria volontà col
principio che sta dietro la legge» e quindi «andare al di là della mera obbedienza», agendo addirittura «come se si fosse autori delle leggi alle quali si obbedisce» (EiJ, pp. 136-7). Tale «curioso concetto di “dovere”» era
«molto diffus[o] in Germania», e «questa idealizzazione, addirittura folle,
dell’obbedienza» appare effettivamente «specifica dei tedeschi»70. Durante la guerra, la peculiarità di uno zelo intransigente nel sottostare all’autorità e nell’eseguirne alla lettera i comandi si manifestò, con esiti particolarmente tragici, proprio a fronte delle misure adottate dal regime nella fase più avanzata delle deportazioni e dello sterminio. EiJ pone ripetutamente
l’accento sul fatto che – mentre «negli altri paesi persino gli antisemiti con69
Non ha invece spazio, nella ricostruzione arendtiana, l’ipotesi di un ruolo determinante dell’antisemitismo tra i fattori culturali e psicologici della violenza di massa nella
Germania nazista. Benché in alcuni scritti degli anni Trenta Arendt non manchi di interrogarsi sulle ragioni per cui la Germania diviene (nel periodo dell’emancipazione degli
ebrei, 1780-1869) «il paese classico dell’antisemitismo» (H. Arendt, Antisemitismo [19371938], in Politica ebraica, cit.) e «proprio in Germania [è] stato possibile escludere gli
ebrei dall’intera vita della nazione» (Id., La questione ebraica [1937-38], in Politica ebraica, cit, p. 40); a suo parere «né il destino toccato agli ebrei d’Europa né la creazione delle fabbriche della morte si possono spiegare e comprendere pienamente alla luce dell’antisemitismo», che «ha solo preparato il terreno» (Id., Le tecniche delle scienze sociali e lo
studio dei campi di concentramento [1950], in Archivio Arendt 2. 1950-1954, cit., p. 11);
anche nel caso di Eichmann l’antisemitismo fu a giudizio di Arendt pressoché ininfluente, non essendo egli mosso da un «insano odio contro gli ebrei» né da un «fanatico antisemitismo» (EiJ, p. 26).
70 H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., p. 42.
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vinti […] mostravano una deplorevole tendenza a rifuggire da misure “radicali”» (EiJ, p. 156) (Arendt sottolinea l’«innata comprensione» e «spontanea umanità» di danesi e italiani e la straordinaria solidarietà verso i perseguitati manifestata dal popolo bulgaro [EiJ, pp. 179, 188]) – in Germania la macchina dello sterminio poté avvalersi del vasto consenso della popolazione tedesca, la quale difficilmente «avrebbe potuto essere meno attenta» alla sorte delle vittime (EiJ, p. 156).
Non è difficile intuire perché l’obbedienza acritica (la tendenza a concepire la sottomissione in termini di onore e fedeltà) e il disinteresse per la
politica (la propensione a rinchiudersi nella sfera privata del buon pater familias, per riprendere le considerazioni del lontano 1945) possano tradursi in una stupidità morale la cui essenza risiede, come sappiamo, nella dismissione dell’autonomia di giudizio e nella delega della responsabilità
(dismissione e delega di certo favorite da tradizioni e modelli prescrittivi
ma, si badi, non imposte, poiché mai una tradizione è tassativa, come mai
un contesto è di per sé determinante). Non sorprende quindi che l’idea che
probabilmente qualcosa di specifico vi fosse nella mentalità e nella psicologia di tanti tedeschi all’epoca in cui il nazismo raccolse il consenso della popolazione e poi realizzò il progetto genocidario emerga con particolare forza quando Arendt rievoca un episodio tratto dal diario di Ernst Jünger – un episodio che mette a fuoco precisamente il nesso tra stupidità e
«caratteri nazionali».
Jünger racconta che il furto di cibo destinato ai cani compiuto da alcuni prigionieri russi (siamo nel maggio del 1942) viene considerato dal suo
barbiere prova del fatto che si tratta di «furfanti»; e commenta lapidario: «Si
ha spesso l’impressione che il borghese tedesco abbia un diavolo in corpo»71. L’episodio colpisce Arendt, che lo cita sia nel reportage del 1950
sia, quattordici anni dopo, a memoria, nella conversazione radiofonica con
Joachim Fest72. I termini che impiega in entrambi i luoghi appaiono significativi. Nel reportage il racconto di Jünger ha la funzione di esempio di
quella che Arendt definisce «una sorta di dilagante stupidità pubblica da cui
non ci si può attendere che si giudichino correttamente nemmeno gli eventi più banali»; nella conversazione con Fest l’episodio – preso ad esempio
di una stupidità morale «scandalosa», identica a quella mostrata da Ei71
E. Jünger, Strahlungen, Tübingen, Heliopolis-Verlag Ewald Katzmann, 1949, p. 117.
H. Arendt, I postumi del dominio nazista: reportage dalla Germania (1950), in Archivio Arendt 2. 1950-1954, cit., p. 27; H. Arendt, J. Fest, Eichmann o la banalità del male, cit., pp. 41-2.
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chmann – è definito «specifico dei tedeschi»: proprio qui, mentre ribadisce
di «non pens[are] che il popolo tedesco sia particolarmente brutale» e di
«non cred[ere] in generale a tali caratteri nazionali», Arendt nondimeno
afferma che «è tedesco» il rifiuto di mettersi nei panni altrui e di chiudersi ostinatamente nella propria particolarità.
Naturalmente queste osservazioni portano su un terreno insidioso, a rischio di derive potenzialmente razziste. Occorre quindi la massima cautela. È necessario soprattutto non sganciare mai l’analisi dal riferimento al
quadro storico concreto. Ma nemmeno sembra corretto escludere in partenza l’esistenza di «connessioni tra modalità pedagogiche, tradizioni e circostanze di vita da un lato e caratteristiche psichiche, tratti di carattere e
modelli di comportamento dall’altro»73 ed evitare di chiedersi se, nel caso
della tragica vicenda storica di cui la Germania è stata protagonista, riferimenti culturali e valori morali condivisi, trasmessi attraverso l’educazione
e i sistemi di relazione, abbiano influito, legittimando, agli occhi della grande maggioranza dei tedeschi, comportamenti criminali di inedita portata.
A meno di non considerare casuale che il nazismo sia sorto in Germania e
che a sostenerne sino in fondo le scelte siano stati in primo luogo i tedeschi,
gli austriaci e i cosiddetti «tedeschi etnici», questo resta un problema aperto, con il quale si ha l’obbligo di fare i conti.
[email protected]
73 Così G.P. Matthey, P. Parin, Diversità tipiche fra i membri della piccola borghesia tedesca meridionale e svizzera. Una indagine etnopsicanalitica (1976), in «Psicoterapia e
Scienze Umane», IX (1977) 3, p. 1; degli stessi autori si veda anche, al riguardo, Psychoanalyse und politische Macht. Thesen zur Psychoanalyse politischer Verhältnisse, in «Widerspruch. Beiträge zur sozialistischen Politik», IX (1989) 18, pp. 6-19. Sul tema cfr. G. Róheim, Psychoanalysis and Anthropology: Culture, Personality and the Unconscious, New
York, International Universities Press, 1950; G. Devereux, Essais d’ethnopsychiatrie générale, Paris, Gallimard, 1970; Id., Ethnopsychanalyse complémentariste, Paris, Gallimard,
1972; P. Parin, La dipendenza dal potere. Appunti per una politologia psicoanalitica (2009),
in «Psicoterapia e Scienze Umane», XLVI (2012) 1, pp. 35-64; A. Burgio, Il nazismo come malattia dell’“anima tedesca”, in «Psicoterapia e Scienze Umane», XLVI (2012) 2, in
particolare pp. 204-205.
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