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COSA CI RENDE UMANI
60010 9 771594 123000 5 MARZO 2016 NUMERO 10 | SETTIMANALE € 2,50 COSA CI RENDE UMANI Capacità di stupirsi, simpatia per il diverso, guardare il mondo con molta più gentilezza. È la ricetta di Yann Arthus-Bertrand. Mentre l’America di Donald Trump ha paura, sbraita e minaccia ONDA PAZZA di MAURO BIANI 2 5 marzo 2016 © Illustrazione Antonio Pronostico 5 MARZO 2016 NUMERO 10 | SETTIMANALE € 2,50 60010 9 771594 123000 E DISUMANI SOMMARIO DEL NUMERO 10 - 5 MARZO 2016 Che America ci aspetta dopo il Super martedì? Dalle minacce di Donald Trump alle prudenze dell’establishment ce ne parla Corradino Mineo e Martino Mazzonis. Ma per la copertina abbiamo scelto l’ottimismo di Yann Arthus-Bertrand. Cosa ci rende umani chiede il fotografo francese a più di 2.000 persone sparse per la Terra e cosa rende invece disumani quegli americani disposti a seguire le folli imprese di Donald Trump? Chi è il popolo del candidato repubblicano lo indaga Martino Mazzonis e cosa è accaduto alla cultura e alla società americana tenta di spiegarcelo Simona Maggiorelli. Cosa è accaduto invece nel nostro Parlamento che ha imposto la fiducia sulle unioni civili stralciando la stepchild adoption ce lo racconta Luca Sappino che è andato a cercare l’attrice Valeria Solarino, in giro per l’Italia con lo spettacolo teatrale Una giornata particolare (riadattamento del celebre film di Scola) che gli ha detto: «Utero in affitto? È una pratica da regolamentare e dovremmo farlo senza chiederci se sia più usata da omosessuali o da coppie etero, perché il punto non può essere quello». In esteri Alessandro De Pascale prova a raccontarvi il piano B per la Libia e la pericolosità di un intervento che la spezzerebbe nuovamente in tre e Nicola Zolin è per noi a Idomeni, al confine con la Macedonia e scrive dei migranti che provano a forzare il muro di filo spinato. In cultura poi Pietro Greco vi parlerà di ricerca e di Renzi mentre Raffaele Lupoli presenta la nuova opera di Davide Reviati, Sputa tre volte, un capolavoro dipinto sull’adolescenza. 03 ONDA PAZZA di Mauro Biani 05 EDITORIALE di Corradino Mineo 06 LETTERE 07 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari 07 IL NUMERO 07 LA DATA COPERTINA Arthus-Bertrand: «Dovremo guardare il mondo con più gentilezza» di Florence Poulain 12 Il neoliberismo non è scienza, è politica. Anzi teologia 17 di Andrea Ventura PRIMO PIANO 12 18 21 22 25 SOCIETÀ 26 Una legge particolare di Luca Sappino 26 Valeria Solarino: «Addio parità» di Luca Sappino 27 Diritti, bisogni, desideri di Franco Mistretta 29 Utero in affitto e aborto, la (solita) falsificazione della Verità di Matteo Fago 30 Mafia, un dossier infastidisce il Pd di Ilaria Giupponi 32 Quegli “esaltati” dell’antimafia di Giulio Cavalli 34 Pedofilia, i fantasmi di Bergoglio di Federico Tulli 36 ESTERI 36 Libia? Dividi e bombarda di Alessandro De Pascale Guerra o politica, il rebus libico di Martino Mazzonis Siria, la tregua rosso sangue di Michela AG Iaccarino Hey Merkel, open the borders! di Nicola Zolin CULTURA 48 07 UP&DOWN 08 FOTONOTIZIE 10 DA PARIGI diChiara Mezzalama 11 DIRITTI di Emma Bonino 60 LIBRI di Filippo La Porta 60 TEATRO di Massimo Marino 4 L’America che ci aspetta di Corradino Mineo Spaventati e frustrati. Ecco il popolo di Trump di Martino Mazzonis Lo chiamano mass shooting di Simona Maggiorelli L’America sotto psicofarmaci di Simona Maggiorelli 5 marzo 2016 38 39 40 43 Il polo della discordia di Pietro Greco 48 La rivolta dei ricercatori di Donatella Coccoli 51 Zeichen, una questione di sensibilità di Simona Maggiorelli 52 Graphic novel, l’ultimo Reviati di Raffaele Lupoli 54 I selvaggi dei Balcani di Tiziana Barillà 58 61 ARTE di Simona Maggiorelli 62 BUONVIVERE di Francesco Maria Borrelli 62 TELEDICO di Giorgia Furlan 63 APPUNTAMENTI 64 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli 66 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti EDITORIALE di Corradino Mineo LA SINISTRA DELLA SPERANZA “Sono di sinistra come lei” mi dice un signore dai capelli bianchi, presumibilmente un pensionato. “Sì, sono stato comunista, prosegue, ma noi di sinistra saremo il 6-7 per cento dell’elettorato e senza allearci, senza fare compromessi, non potremo mai contare”. È un’opinione più diffusa in Italia di quanto si creda. Un pregiudizio che consente di trasformare in una vittoria mediatica il compromesso, con Alfano, Verdini e imposizione della fiducia, sulle unioni civili. Che permette al governo di strombazzare una ripresina dello zero virgola, oscurando gli ultimi dati sulla deflazione o il fatto che, anche dove il Pil è cresciuto in modo più netto, in Irlanda e in Spagna, la sinistra e vasti strati sociali non vogliano rassegnarsi alla crescita del precariato e alla progressiva erosione del ceto medio. Anche in Europa comincia a farsi strada l’idea che “il caso Italia” dimostrerebbe l’impossibilità per la sinistra di farsi maggioranza, se non rinunciando alle sue idee. Così in Spagna Sanchez ha scelto di allearsi con Ciudadanos, movimento che vuole rinnovare la destra, prima di chiedere a Podemos di sostenere il suo tentativo di governo. E in Francia il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron non nasconde il suo disagio nei confronti di un presidente, Hollande, che Marc Lazar accomuna nel giudizio negativo (ancora troppo socialdemocratico e perciò perdente) all’italiano Bersani. Non siamo ancora all’imitazione di un “modello italiano” né mi pare che i legislatori delle democrazie europee abbiano già deciso di imitare l’Italicum, per emancipare un centro, colorato di sinistra, dal “ricatto” delle sinistre, ma è vero che il segretario del Pd trova interlocutori anche oltre confine. Il punto è che non è vero. Non c’è una maledizione storica per la quale la sinistra non possa riunire intorno a sé una maggioranza ampia, non possa provocare entusiasmi e suscitare speranze fra giovani, pensionati, artigiani, scienziati, professionisti, imprenditori persino. Se in Italia non è accaduto è perché troppo forte è rimasto il retaggio della doppiezza comunista. Il Pci era partito nazionale, pronto al dialogo e al compromesso, ma al tempo stesso forza di osservanza sovietica, che dava al termine “sinistra” un significato escatologico, con la promessa di una nuova Gerusalemme il cui spazio, purtroppo, era occupato dalla dittatura staliniana, poi dalla costruzione del muro a Berlino, infine dai carri armati a Praga. Così certo “noi di sinistra” restiamo pochi e pazzi e dobbiamo camuffarci. Left ha un’altra idea di sinistra. Per noi è di sinistra credere nella ricerca scientifica, su cui nessun governo - neppure l’attuale, come dimostra Greco - ha mai investito davvero. Per noi è significa battersi per l’Europa, cedendole parte della nostra sovranità in cambio di una politica fiscale unitaria e solidale. È di sinistra trasformare l’immigrazione - che è una costante della Storia umana - da motivo di paura in risorsa per il futuro. È promuovere una conferenza nazionale, con operai e imprenditori, per porre un semplice interrogativo: quale politica industriale serva al Paese, cosa produrre, con che impegno per l’innovazione. Sinistra è battersi per i diritti e per le tutele sociali, perché senza diritti e senza tutele l’Europa non sarebbe l’Europa. Non potrebbe andar fiera della sua radicale contrapposizione alla barbarie wahabita e salafita. Né troveremmo la forza per combattere il terrorismo senza diventare simili ai terroristi. Sinistra è pensare a nuovi consumi collettivi e a beni comuni, tema anticipato trenta anni fa da Berlinguer e che ora fa capolino negli ambienti meno incolti o più innovativi dello stesso capitalismo. È dare una possibilità ai giovani e non trattare esodati e pensionati come prodotti di scarto o gregge da mungere. Sinistra è anche proporre “molta più gentilezza” come fa Yann Arthus-Bertrand nella storia di copertina. Perché mai questa sinistra non potrebbe vincere le elezioni? 5 marzo 2016 5 Lettere DIRETTORE Corradino Mineo [email protected] VICE DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Bonaccorsi [email protected] [email protected] REDAZIONE Tiziana Barillà [email protected] Donatella Coccoli [email protected] Ilaria Giupponi [email protected] Raffaele Lupoli [email protected] Simona Maggiorelli [email protected] Luca Sappino [email protected] La mafia e la corruzione è ovunque, inutile nasconderlo TEAM WEB Martino Mazzonis [email protected] Giorgia Furlan [email protected] GRAFICA Alessio Melandri (Art director) [email protected] Antonio Sileo (Illustrazioni) Monica Di Brigida (Photoeditor) [email protected] Progetto grafico: CatoniAssociati EDITORIALENOVANTA SRL Società Unipersonale c.f. 12865661008 Via Ludovico di Savoia 2/B 00185 - Roma tel. 06 91501100 [email protected] Amministratore delegato: Giorgio Poidomani REDAZIONE Via Ludovico di Savoia, 2B - 00185 - Roma tel. 06 91501230 - [email protected] PUBBLICITÀ Federico Venditti tel. 06 91501245 - [email protected] ABBONAMENTI Dal lunedì al venerdì, ore 9/18 [email protected] STAMPA Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche S.p.a. Coordinamento Esterno: Alberto Isaia [email protected] DISTRIBUZIONE Press Di Distribuzione Stampa Multimedia Srl 20090 Segrate (Mi) Registrazione al Tribunale di Roma n. 357/1988 del 13/6/1988 Iscrizione al Roc n. 25400 del 12/03/2015 QUESTA TESTATA NON FRUISCE DI CONTRIBUTI STATALI Copertina: © Humankind Production CHIUSO IN REDAZIONE IL 2 MARZO 2016 ALLE ORE 10 6 I mafiosi non sono solo Messina Denaro, Riina o Provenzano. Soggetti collusi con la mafia, che utilizzano gli stessi metodi, sono ormai ovunque. La nostra penisola è invasa da una mafia onnipresente che lucra, porta interessi, ha relazioni e complicità impensabili, progetta, pianifica e spesso occupa e gestisce i gangli vitali della società senza usare alcuna violenza ma utilizzando la sua arma più potente: il denaro. A questa mafia si affianca e s’innesta, imitandone i contenuti in tutto e per tutto la cosiddetta “mafia bianca” e cioè quella dei colletti bianchi, fortissima in tutte le amministrazioni dello Stato (Comuni, Province, Regioni, Università, Ospedali e così via). Questa mafia - sempre esistita - nomina, elegge, assume, dirige e, di conseguenza, governa il territorio. Ecco perché il binomio “Italia-Mafia” è una realtà constatabile nelle cronache quotidiane. La mafia è ovunque, inutile nasconderlo. Oggi, la parola “mafia” è diventata sinonimo di corruzione, essa prolifera nella collusione, nelle contiguità, in quei contatti stretti con il cosiddetto “mondo dei colletti bianchi”, dell’imprenditoria, dei professionisti e soprattutto della politica. In Italia, abbiamo, ad esempio, la “mafia” dei baroni universitari, dove regnano incontrastate raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli completamente ignorati. Non possiamo non denunciare la “mafia” della sanità, dove circola molto denaro pubblico, un gran numero di appalti e numerose nomine. Il terreno ideale dove mafia, politica e corruzione s’insinuano facilmente, mettendo radici profonde attraverso nomine e appalti pilotati, creando così enormi danni ai cittadini, aumentando, di fatto, le spese e diminuendo i servizi essenziali. Esiste poi la “mafia dei professionisti” (avvocati, magistrati, poliziotti, commercialisti, architetti, ingegneri, medici etc.), pronta a mettere a disposizione le proprie conoscenze, per guadagnarci denaro o favori, aiutando la criminalità organizzata ad evadere il fisco, garantendo la latitanza e la cura dei boss 5 marzo 2016 mafiosi, aggiustando i processi, riciclando il denaro sporco. Non ultima, c’è la mafia degli imprenditori, fondamentale nella costruzione del potere delle mafie in Italia. Collusi con le organizzazioni criminali, gestiscono gli appalti, il lavoro nero, i traffici di rifiuti tossici, l’immigrazione e qualsiasi attività in grado di creare profitto. Non di rado questa tipologia d’imprese gestisce, in nome e per conto delle mafie, l’occupazione e il voto di scambio. La più pericolosa di tutte è la “mafia politica”, poiché contribuisce a sviluppare e a consolidare il potere mafioso, assicurandogli l’impunità, la legittimazione, il predominio, facendo funzionare le istituzioni in modo da accettare e favorire soggetti e attività direttamente o indirettamente collegati con i mafiosi, erogando denaro pubblico alle mafie e ai loro alleati, criminalizzando le istituzioni con l’uso di metodi e comportamenti puramente mafiosi. Questa mafia incide sulla democrazia, sulle libere elezioni, sulle nomine ai vertici dello Stato. Nel nostro Paese, ormai, si usa il metodo mafioso per esercitare qualsiasi forma di potere. Abbiamo troppo spesso esercitato un’antimafia predicatoria senza mai farla seguire da una pratica realmente combattiva ed efficace. Il breve quadro tracciato presenta molti elementi che ci inducono a pensare che siamo di fronte a una forma di potere in cui l’illegalità è rovesciata in legalità e questo va oltre la collusione di qualche politico con qualche boss o la commissione di uno o più reati da parte di singoli rappresentanti delle istituzioni. Stiamo vivendo uno dei periodi più difficili dell’Italia repubblicana e se vogliamo sopravvivere, dobbiamo ricostruire le basi della democrazia e dello Stato di diritto. Abbiamo assoluto bisogno di formare la nostra gioventù a essere libera, indipendente e consapevole sperando che ciò porti a sconfiggere le tante mafie. Come diceva Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Non ci resta che agire e sperare. Vincenzo Musacchio Giurista, direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise di PAOLO CACCIARI COMMERCIO EQUO E SOLIDALE: ORA C’È IL SUPER MARCHIO La sfida non ha esiti scontati: quanto è condizionabile il mercato e quanto invece è il mercato a condizionare i comportamenti degli operatori del Fair trade? In altri termini è giusto affidare i prodotti certificati equi e solidali agli scaffali delle grandi reti commerciali e ai marchi multinazionali come Nestlé, Starbucks, Unilever, Kimbo… che possono così aumentare i propri profitti e abbellire la propria immagine con un tocco di eticità? Per contro: perché i piccoli produttori di caffè, cioccolata, tè, banane, zucchero, riso, fagioli, cotone e di tante altre commodities e altre manifatture artigiane, che rispettano i principi del Fair trade, non dovrebbero poter allargare i mercati finali? Su questo instabile crinale si muove da cinquanta anni la World Fair trade organization che raggruppa 450 organizzazioni in 70 diversi Paesi e che è riuscita recentemente a compiere un grande passo in avanti varando un marchio comune mondiale per i prodotti “Fair trade garantiti” (Label for genuine fair traders, www.wfto.com). Una sorta di sovra-marchio che tutela maggiormente produttori e consumatori e mette fine alla proliferazione delle etichette. Il sistema di garanzia si basa sul rispetto di standard di qualità (del processo produttivo e del prodotto) e intende applicare i principi del commercio equo e solidale: creare opportunità per i piccoli produttori che operano in aree economicamente svantaggiate; assicurare la trasparenza lungo tutte le filiere produttive; riconoscere il giusto prezzo del lavoro, il pagamento anticipato e il mantenimento delle culture e delle professionalità tradizionali; combattere il lavoro minorile, il lavoro forzato e le discriminazioni di genere; promuovere la salute, la sicurezza e le capacità di auto sostentamento delle comunità locali; rispettare l’ambiente attraverso l’uso sostenibile delle materie prime, dell’energia, del suolo. In Italia hanno accettato il nuovo marchio le principali reti del commercio equo e solidale: Agices-equo garantito (che organizza più di 250 punti vendita), Altro mercato Ctm (che coordina più di 80 organizzazioni eque e solidali), Asso botteghe del mondo (80 botteghe). Insieme a Fair trade Italia hanno dato vita ad un forum per ridefinire le strategie di lungo periodo. Contrariamente ai Paesi del nord e del centro Europa, dove il fatturato del Fair trade cresce nonostante la crisi dei consumi, nel nostro Paese i risultati economici sono deludenti: meno 6 per cento. Da anni si attende una legge nazionale che regolamenti il settore. Massimo Renno, di AssoBdm, pensa sia necessario che il mondo del Fair trade debba «ricostruire i propri linguaggi e valori, avendo più attenzione nell’andare assieme, piuttosto che commerciare per conto proprio». L’invito è a costruire con i “consumatori difettosi”(quelli cioè che non si omologano alle tendenze del mercato) pratiche di transizione economica alternative “fuori mercato”. LA DATA IL NUMERO GIUGNO 23 2016 4 È il giorno della Brexit, il referendum con il quale i cittadini britannici dovranno decidere se rimanere o no nell’Unione europea. Il dibattito a Londra negli ultimi giorni si è fatto sempre più vivace. A sinistra si pensa ad un’Europa unita ma senza la condanna dell’austerity. Lo ha detto Jeremy Corbyn, il leader del Labour, che tre settimane fa ha incontrato Alexis Tsipras. Ma la notizia è che Jeremy il socialista si è visto con l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis che diventerà il suo consulente. Con l’obiettivo di un’Europa che entrambi sognano più democratica. Sono i quesiti del referendum abrogativo della legge 107. Ad aprile parte la raccolta delle firme e se venisse raggiunto il numero legale il referendum si terrà nel 2017. Il Comitato promotore è stato ufficialmente costituito e ne fanno parte, oltre al Comitato Lip, molte sigle sindacali tra cui Flc-Cgil, Cobas, Gilda, Unicobas, Usb, le associazioni di studenti Uds, Link, il Coordinamento nazionale scuola della Costituzione e altri comitati. I quattro quesiti riguardano: lo School bonus, i poteri del dirigente scolastico, l’alternanza scuola-lavoro e il comitato di valutazione. UP DOWN Tsipras, no ai muri Le ruspe di Hollande «Non vogliamo che il nostro Paese diventi il limbo di anime perse». Alexis Tsipras non ci sta ai muri contro i migranti. Ma soprattutto, perché sottostare ai veti europei se poi la piccola Grecia - in piena crisi - viene lasciata sola nell’emergenza? Il governo greco ha inviato alla Commissione europea un piano urgente per accogliere le masse di migranti dalla Turchia e per offrire una soluzione a quanti vengono respinti al confine macedone. Il governo greco si rivolge a Bruxelles chiedendo aiuti finanziari e lanciando l’appello all’Italia e alla Spagna per fare fronte comune. Le ruspe tra i lacrimogeni e le cariche della polizia cancellano a Calais la “Giungla”, la tendopoli dei rifugiati che tentano di raggiungere l’Inghilterra. Il governo francese ha assicurato che tutti coloro che verranno mandati via saranno ospitati in containers o nei centri di accoglienza sparsi per il Paese. Ma le Ong sono scettiche, sostenendo che i posti a disposizione sono insufficienti per accogliere la massa di migranti. Così il governo di François Hollande dà prova ancora una volta di aver scelto politiche migratorie miopi, dopo il caso delle frontiere chiuse nell’estate scorsa a Ventimiglia. 5 marzo 2016 7 © Andy Rain, Ernesto Arias/Epa Ansa PICCOLE RIVOLUZIONI FOTO NOTIZIA IRAN VINCONO ROHANI E LE DONNE Sorrisi sotto il velo. Davanti al seggio di Ershad, nei pressi di una moschea, a Teheran, due donne iraniane mostrano i documenti di identità mentre aspettano in fila che arrivi il loro turno per votare. È il 26 febbraio 2016, giorno delle elezioni per il rinnovo del Parlamento (il Majlis) e dell’Assemblea degli Esperti, l’organo incaricato anche dell’elezione della Guida suprema, la più alta carica politica e religiosa della Repubblica Islamica dell’Iran. Il voto ha decretato la vittoria del fronte dei riformisti moderati del presidente Hassan Rohani e dell’ex capo di Stato Hashemi Rafsanjani. Gli oltre 33 milioni di iraniani che si sono recati alle urne hanno decretato la sconfitta dei conservatori isolazionisti, soprattutto nella capitale Teheran. E il nuovo Parlamento iraniano vedrà tra i suoi banchi anche 15 donne: una presenza record dai tempi della rivoluzione del 1979, che ha trasformato la monarchia iraniana in una Repubblica islamica. Foto di Abedin Taherkenareh, Epa Ansa PARERI DA PARIGI di Chiara Mezzalama Les jours, l’informazione francese diventa un’ossessione. Per la verità C on un euro ci si può abbonare per un mese al “sito pilota” di Les Jours, un nuovo giornale online francese in fase sperimentale. L’abbonamento passerà poi a nove euro mensili o a cinque per disoccupati, studenti o fauchés, squattrinati. Les jours è un gruppo di giornalisti, molti ex di Libération, fotografi, grafici, per un totale di diciassette persone. L’idea è di fare informazione in modo “ossessivo”, fissarsi cioè su alcuni temi cruciali dell’attualità e seguirli nel tempo, con ostinazione, testardaggine, contrastando il flusso continuo e effimero di notizie che attraversano le nostre esistenze senza lasciare traccia. Il modello è quello delle serie televisive, gli articoli sono perciò chiamati episodi, possono essere letti singolarmente oppure tutti insieme, come si leggerebbe una lunga inchiesta. Sono come i fili di una storia che s’intreccia seguendo la trama dell’attualità ma senza esserne tiranneggiati. La scelta dei temi, le “ossessioni”, si dimostra interessante: cosa succede a Parigi e in Francia dopo gli attentati del 13 novembre 2015? Chi sono i “revenants” (che era il titolo di una famosissima serie francese di qualche anno fa), i combattenti dell’esercito islamico che decidono di tornare in Francia, spesso con moglie e figli a carico? Cosa succede in una classe di terza media di una scuola di un quartiere misto di Parigi, il quartiere La Chapelle, nel diciottesimo arrondissement? E la COP21, dopo l’accordo firmato, come prenderà corpo? Queste e altre ossessioni si troveranno su Les jours. Nel fare l’abbonamento, ho pensato al bisogno di andare a fondo su certi argomenti così come al limite che tutti abbiamo nella capacità di ricevere e tenere dentro molta dell’informazione che ci viene rovesciata addosso ogni giorno. Ho pensato alla necessità di fare una scelta nella massa di fatti, opinioni, commenti che passa attraverso le nostre vite 10 5 marzo 2016 fino a nausearci, a renderci indifferenti talvolta per pigrizia e ignoranza, talvolta per legittima difesa. L’articolo di Ida Dominijanni su Internazionale sulla morte di Giulio Regeni mi ha illuminato. Si chiede la giornalista «quanti giorni e quanto cinismo ci vogliono perché il caso Regeni sia soppiantato…», quanti giorni di tortura ha dovuto subire prima di morire, quanti giorni ci sono voluti per ritrovarlo in un fosso… quanti giorni, quanti giorni... Ecco, questa dovrebbe proprio essere una di quelle vicende che diventa un’ossessione, per la sua gravità, per l’orrore, per ciò che rappresenta oggi nei rapporti di forza tra l’occidente e i suoi “amici” o “nemici”, per ciò che Regeni rappresenta per l’Italia, uno studioso, impegnato, espatriato. Ci vuole coraggio per Un giornale online in fase cercare la verità, ci sperimentale con un unico vuole tenacia, quasi obiettivo: fissarsi su alcuni una forma di fede. Di temi cruciali dell’attualità solito il coraggio ce e seguirli nel tempo. lo hanno soltanto i Dovremmo fare la stessa cosa parenti delle vittime. per la morte di Giulio Regeni Spero, ma forse dovremmo tutti esigere, che non sia così anche in questo caso, anzi che questa tragedia sia un’occasione, seppure dura, inaccettabile, di capire qualcosa di quello che sta succedendo in Egitto, dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, l’avvento di Morsi, la sua caduta e il ritorno dei militari con Al Sisi. Ma questo vale anche per la Libia, la Tunisia, l’Algeria, Paesi che si affacciano sul nostro stesso mare, il mare che è diventato un cimitero a causa della nostra ignoranza, indifferenza, o peggio correità. Sapere cosa succede sull’altra sponda del Mediterraneo dovrebbe essere la nostra ossessione, così come la intendono i giornalisti di Les jours. Un dovere ma anche la condizione della nostra stessa salvezza, come esseri umani e come “vicini”. DIRITTI di Emma Bonino «Partorirai con dolore» e abortirai sotto tortura L’idea purtroppo è sempre questa L a mia impressione è che la depenalizzazione dell’aborto clandestino abbia automaticamente fatto scattare il reato amministrativo e la sanzione che oscilla tra i 5 e i 10mila euro. La gravità di questa scelta mi sembra intuitiva. Probabilmente è dovuta a sciatteria e a automatismi, poiché è chiaro che se si depenalizza l’aborto clandestino e se ne fa un reato amministrativo con multa, automaticamente tutti i reati compresi in quel capitolo passano a quel tipo di multa. Ed è del tutto evidente che questo ha effetti molto negativi, pensate a quelle donne che dovessero avere delle complicazioni per un aborto, per evitare la multa potrebbero scegliere di evitare anche di rivolgersi all’ospedale. Ma la cosa più grave è che se si guarda la relazione del ministro della Salute Lorenzin, si evince che il ricorso all’aborto clandestino è, in stragrande maggioranza, dovuto al fenomeno dell’obiezione di coscienza che ha assunto livelli insopportabili. Il 70% dei ginecologi, il dato è nazionale, ha sollevato l’obiezione di coscienza, con percentuali totali, oltre il 90 per cento, in regioni come, per esempio, il Molise o le Marche. Il 35% degli ospedali italiani, poi, non applica proprio la legge, fa la cosiddetta “obiezione di struttura”, cioè l’intera struttura non pratica interruzioni di gravidanza, violando la legge perché la legge - non dimentichiamolo stabilisce che indipendentemente dall’obiezione di coscienza individuale, la struttura è tenuta a trovare delle soluzioni affinché la 194 venga applicata. Quindi, l’obiezione di struttura è totalmente illegale perché non applica la legge e in più all’interno di queste non riesci a sapere quanti obiettori cisono perché è l’intera struttura a fare obiezione. Se poi aggiungiamo che a questa situazione si è aggiunto le difficoltà che incontra l’aborto farmacologico, la situaiozne si fa grave. La Ru 486 (la pillola abortiva), oggi copre circa il 9% delle interruzioni di gravidanza e questo dato così basso rispecchia ovviamente la difficoltà di accedere a questa metodica. Per esempio, sempre nelle Marche è impossibile usare la Ru 486, non la danno proprio. In più le linee guida del Ministero dicono che chi vuole la Ru486 si deve sottoporre a tre giorni di ricovero. Capite bene che mentre l’interruzione di gravidanza normale (chirurgica) si fa in day hospital - ammesso che uno ci riesca! - è chiaro che molto spesso è complicato “scegliere” di ricoverarsi tre giorni. Tutti questi ostacoli all’applicazione della legge, al primo posto l’obiezione di coscienza sia individuale che di struttura, hanno automaticamente portato all’allargarsi di sacche di clandestinità e se aggiungiamo la sciatteria del Decreto depenalizzazioni, il giro è fatto! La verità è che a forza di non andare avanti, Se a tutti gli ostacoli che incontra facciamo battaglie di oggi l’applicazione della legge retroguardia... è chia- 194, sommiamo la sciatteria di ro che la 194 nel ’78 questo Decreto depenalizzazioni, nasceva da un com- il giro è fatto! È inevitabile promesso perché di- l’allargarsi delle sacche chiarava che l’aborto di clandestinità non era punibile se fatto nelle strutture pubbliche, mentre rimaneva reato se fatto nelle private. Compromesso che oggi andrebbe superato. Ed invece abbiamo a che fare con tutti questi piccoli ostacoli burobratici, o non burocratici, che messi insieme restituiscono il quadro di una situazione davvero preoccupante. Perché a monte c’è l’idea che “partorirai con dolore” e abortirai sotto tortura, e se vuoi morire dignitosamente sei costretto a pellegrinare altrove. Ed è sempre così. L’idea rimane quella che i problemi (anche sociali) si risolvono con i carabinieri, i divieti, le multe... mentre dai dati che abbiamo detto, impressionanti quelli sulla Lombardia (anche su corriere.it), l’aborto clandestino è, in molti casi e in molte parti d’Italia, l’unica soluzione (testo raccolto da ila.bo.) possibile. 5 marzo 2016 11 12 5 marzo 2016 Aminata, Burkina Faso © Humankind Production DA HUMAN A TRUMP. PERCHÉ? Come comporre la ricerca dell’umanità “universale” con la cronaca più incalzante? La cronaca che racconta di un vincitore e candidato dei Repubblicani come Donald Trump, miliardario xenofobo, brutale, e del popolo pronto a seguirlo... e la ricerca di Yann ArthusBertrand che gira il mondo da trent’anni e che in Human chiede a più di duemila persone “what make us human?” (cosa ci rende umani?), cosa ci rende liberi? che significato ha la vita? La risposta, anzi le risposte, sembrano dirci che non c’è violenza sufficiente - che sia di un padre, di un kalashnikov, della guerra, della religione, della fame, del capitalismo, della corruzione, del consumismo - che riesca a cancellare le lacrime di una donna orientale che chiede al suo amato “Per favore rendimi felice. Amami. Parlami, gentile. Parlami”, o quelle di un padre (americano) che ha tutto “ma non ha la bacchetta magica per aggiustare il cervello di suo figlio depresso”. O il sorriso di un migrante che alla polizia risponde: “Quando sono nato non sono uscito dalla pancia di mia madre con i documenti. Sono cittadino del mondo, ho diritto di vivere dove desidero”. Solo una rivoluzione del pensiero, sembra dirci il regista-fotografo, può cambiare il mondo. Suggerimento prezioso che speriamo contagi anche gli americani. ila.bo. DOVREMO GUARDARE IL MONDO CON MOLTA PIÙ GENTILEZZA Due anni, 60 Paesi e 63 lingue. Più di duemila volti che ci guardano dritti negli occhi e ci raccontano “cosa ci rende umani”. In Italia in questi giorni c’è Human, la nuova opera di Yann Arthus-Bertrand di Florence Poulain 5 marzo 2016 13 Korkodi, Ethiopia © Humankind Production F otografo, reporter, regista e ambien- come una donna a cavallo che corre fra talista francese, Yann Arthus-Ber- i campi e le montagne della Mongolia. trand è noto per le sue spettacolari Il film, presentato fuori concorso a Vefoto aeree della terra. Ora, nel suo nuo- nezia nel settembre scorso e proiettato vo film Human, si rivolge alle persone alle Nazioni Unite alla presenza di Ban che abitano questo mondo: cosa ci ren- Ki Moon, arriva in Italia in questi giorni. de umani? perché la guerra e la povertà E Left ha intervistato il suo artefice. esistono ancora nel mondo? Perché si Lei è famoso per essere un ambientalilascia il proprio Paese per cercare una sta militante. Perché un ambientalista vita altrove? Perché ci sono ancora delle si interessa dell’uomo? disuguaglianze? Yann Arthus-Bertrand Oggi quando si parla di ecologia, si parla non pretende di dare risposte. Paragona dell’uomo, di cambiare modello di ciil suo lavoro a quello di un giornalista. «Viviamo in Io non credo nella rivoluzione politica, un mondo difficile e com- non è sufficiente. Né in quella scientifica plicato», racconta, «il mio e nemmeno in quella solo economica. lavoro è di fare un ponte Siamo all’interno di un modo fra quello che mi raccon- di pensare capitalistico senza etica tano le persone e il pubblico che guarderà». Ed è questa la forza vilizzazione. Come dice l’ex presidente e l’originalità dell’opera: essere andati a uruguayano José Mujica, si tratta di fercercare risposte nei racconti di donne, mare questa corsa alla crescita. È questo uomini e bambini in più di 60 Paesi nel che uccide il pianeta. Io non credo nelmondo. «Quello che la gente mi ha dato la rivoluzione politica: i politici fanno il è formidabile», è stupito. Più di duemila loro lavoro ma non è sufficiente. E non volti e voci che una dopo l’altra raccon- credo nella rivoluzione scientifica, pertano frammenti della loro storia, davanti ché non è l’eolico né i pannelli solari che allo stesso sfondo nero. La voce narrante prenderanno il posto del petrolio che non c’è, solo musica e immagini aeree consumiamo. Non credo nemmeno alla mozzaffiato a intervallare le interviste, rivoluzione economica: siamo all’inter14 5 marzo 2016 no di un modo di pensare capitalistico senza etica. Per questo parlo di una rivoluzione spirituale, nel senso di etica e morale. È nel cuore della gente che dobbiamo andare a cercare. C’è un dato che è nuovo nella storia dell’umanità: il futuro è incerto. Siamo davanti a problemi difficili da risolvere che nessun Paese può affrontare da solo: cambiamenti climatici, crisi economiche, rifugiati, crescita della popolazione. Il problema sarà: come vivere insieme. Dovremo guardare il mondo con meno scetticismo e molta più gentilezza. È utopico, forse, ma in fin dei conti il mio film parla di questo, e la soluzione potrebbe essere questa. L’idea del film le è venuta dopo un incontro con un contadino del Mali che le ha mostrato tutta la sua umanità. Il film però comincia con il racconto di un uomo condannato all’ergastolo per aver ucciso moglie e figlio. Secondo lei, come si perde l’umanità e come la si ritrova? L’umanità non si perde. Può essere positiva o negativa. Siamo capaci dell’attentato al Bataclan e allo stesso tempo di un’onda di empatia dal mondo intero per le vittime. Questa è una contraddizione profonda all’interno della quale Mai, Japan © Humankind Production viviamo tutti. Io vivo nel Paese dei diritti dell’uomo, con delle Ong fantastiche, Medici senza frontiere, Azione contro la fame, eccetera, e però il mio Paese è il terzo venditore di armi nel mondo. Lei dice che Human è la voce di tutti noi. Ci sono delle testimonianze che colpiscono per la loro profondità. Nella parte che tratta della condizione femminile, in mezzo a racconti agghiaccianti, c’è una voce maschile che dice parlando della sua amata: «Posso vi- Mujica è l’unico politico che ho inserito. Ha una profondità di pensiero e una cultura enorme, ma quello che mi stupisce è che le sue parole le senti vere. Gli altri non riescono ad andare oltre le frasi fatte CHI È Yann Arthus-Bertrand è un fotografo e un celebre specialista di immagini aeree. Ha scritto diversi libri, tra cui La terra vista dal cielo. Nel 2009 ha realizzato il suo primo film, Home. Questo documentario sul pianeta è stato visto da più di 600 milioni di persone nel mondo. È disponibile gratuitamente su YouTube. Poi ha ideato 7 miliardi di Altri, un ritratto dell’umanità di oggi. Questa grande mostra è stata inaugurata al Grand Palais di Parigi nel 2009, ma continua a viaggiare per il mondo. È stato il primo passo nel percorso (trentennale) che lo ha portato a realizzare Human. Arthus-Bertrand è anche conosciuto per il suo impegno nella battaglia per l’ambiente. Nel 2011, ha realizzato il film Planet Ocean con Michaël Pitiot, ma già dal 2005 e dalla creazione della GoodPlanet Foundation, è impegnato nella lotto contro i cambiamenti climatici e sul fornte dell’educazione ambientale. www.yannarthusbertrand.org © Humankind Production vere senza di lei, però non posso essere senza di lei». È possibile “essere” in un mondo dove le donne sono maltrattate e considerate “non” uguali? Il mio prossimo film, Woman, è sulle donne. Era ovvio che dopo questo film ne dovessi fare uno sulle donne. Le donne sono molto più sensibili, hanno pensieri più profondi di quelli degli uomini: forse perché hanno meno ambizioni materiali e lavorative. Sono più essenziali. Quan5 marzo 2016 15 Abdulrahman, Afghanistan © Humankind Production 16 5 marzo 2016 Persaw, Thailand © Humankind Production do si lavora sulle donne, si leggono libri su quello che succede nel mondo, dalla schiavitù sessuale nel Daesh, all’India, al Bangladesh, ed è spaventoso. Uno dei problemi più grandi al mondo è che non abbiamo dato la parola alle donne. La vera parità non esiste ancora. Le persone intervistate nel suo film appartengono in maggioranza alla popolazione più povera del pianeta. Ho più di duemila interviste da 65 Paesi diversi. Ci siamo accorti che gli analfabeti, quelli che hanno provato fame e paura, hanno molto di più da raccontare di quelli che vivono nel comfort. Il film voleva rivolgersi a loro. È un film politico, di denuncia. Torniamo sull’intervista all’ex presidente dell’Uruguay, José Mujica. Cosa l’ha colpita? José Mujica fa parte di quegli uomini grandi, come Gandhi e Mandela, gente che avresti voglia di avere come dirigenti. È il solo politico che ho inserito tra le interviste, Facciamo parte di un’enorme orchestra perché aveva veramente che suona una sinfonia, soprattutto nei qualcosa da dire. Ho in- Paesi democratici. Qualcuno ha uno tervistato altri personag- strumento più grande, altri più piccolo, gi pubblici, come Ban Ki l’importante però è che suoniamo tutti Moon, Bill Gates, però alla fine tutti questi hanno difficoltà ad a fermare le guerre, non si riesce a sconandare oltre le frasi fatte, non passa nes- figgere Daesh o a fermare i massacri in suna emozione. Anche Bill Gates, che è Ruanda e Cambogia... un po’ il mio eroe, non riesce a comuni- Nel film, tra le interviste, colpisce care nulla di personale, di intimo. Mujica quella a un uomo molto ricco che vuoinvece ha una profondità di pensiero, le sempre più ricchezza, ma poi scopuna cultura enorme, è uno che ha capito pia a piangere quando parla del figlio tutto. Quello che mi stupisce è che le sue depresso... parole le senti vere. Alla proiezione del È un uomo molto ricco e lo dice bene: i film di Venezia la gente lo ha applaudito soldi non servono all’essenziale. Quanmoltissimo, ma alla fine non ci facciamo do uno non ha niente, come in Mali o in nulla con le sue parole, quasi non cre- Niger, ti sembra che i soldi siano importanti. Una volta che ne hai a sufficienza dessimo a quello che va denunciando. Lui parla di decrescita e lei aggiunge per le cose essenziali, invece, non servo“rivoluzione spirituale”. Mi può spiega- no più. In fondo, riuscire nella vita professionale è semplice, in quella privata è re meglio? Decrescita e rivoluzione spirituale vanno complicato. È importante essere preseninsieme per me. Non si può avere la pri- ti al momento giusto, saper dire le cose ma se non capiamo che per essere di più giuste. L’intervistato non sa farlo ma è dobbiamo avere di meno. È la contraddi- questa l’essenza dell’uomo: essere umazione della nostra epoca. Ma quello che ni e cercare di migliorare il mondo attordavvero sconvolge è che non si riescano no a sé. Il mondo cambia, ognuno con- tribuisce a modo suo. Facciamo parte di un’enorme orchestra che suona una sinfonia, soprattutto nei Paesi democratici. Qualcuno ha uno strumento più grande, altri più piccolo, l’importante però è che suoniamo tutti la sinfonia della vita, cosa che ora non accade. I direttori d’orchestra oggi sono i politici e non sanno dirigere l’orchestra. Non è un segreto, è scritto sul suo sito, che Human è finanziato dalla fondazione Bettencourt Schueller. La Bettencourt è una delle persone più ricche del mondo. Non teme che ciò possa depoliticizzare il suo messaggio? In Francia abbiamo ricevuto pesanti critiche per questo. Ma quando si fa un film si lavora sempre con dei produttori, con soldi che vengono dalle banche e tutti sappiamo qual è la logica che le guida. Una fondazione, in genere, è più generosa e a me ha consentito di fare il film che volevo e che nessun’altra produzione mi avrebbe finanziato. È un film senza diritti, che si può vedere gratuitamente e distribuire ovunque, dal Ruanda all’Europa dell’Est. Ci consente di mandare un messaggio “di umanità” per il mondo. © © Human The Movie IL NEOLIBERISMO NON È SCIENZA, È POLITICA. ANZI, TEOLOGIA Questa teoria concepisce “uomini economici” che cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perché gli economisti dovrebbero uscire da questo schema di Andrea Ventura* L’ idea che troviamo alla base della teoria economica dominante è che gli uomini sono come degli atomi mossi dalla spinta alla massimizzazione della propria utilità. In questa teoria il mercato non è visto come un’istituzione la quale, assieme ad altre, concorre a determinare il funzionamento dei nostri sistemi sociali, ma costituisce il nesso sociale fondamentale. Sul mercato, infatti, il conflitto tra gli interessi economici individuali si trasformerebbe in un armonico ordine sociale e ciascuno sarebbe in grado di compiere le proprie scelte in piena libertà. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione del ruolo pubblico nell’economia, flessibilità del lavoro, sono politiche che discendono tutte da un unico presupposto: per il benessere umano è necessario ampliare i mercati ed eliminare ogni ostacolo loro funzionamento. Questa è l’essenza del neoliberismo. Prima della crisi del 2008 si poteva ancora pensare che questa teoria, per quanto errata, facesse parte della scienza. I cri- tici di essa si concentravano principalmente sulla sua scarsa coerenza logica e sulla sua difformità rispetto all’esperienza storica; i sostenitori ponevano invece l’accento sul carattere formale e matematicamente strutturato delle sue proposizioni. Diffusa era comunque la considerazione secondo la quale, a differenza delle scienze della natura, per gli economisti fosse impossibile compiere degli esperimenti di laboratorio e verificare anche per questa via la validità delle diverse strutture di pensiero. Dopo quella data, dopo i disastri provocati da politiche economiche ispirate alle stesse idee che quella crisi hanno generato, si sente dire spesso che abbiamo assistito a qualcosa di simile a un esperimento controllato: con esso sarebbe stato definitivamente dimostrato che la teoria economica dominante non funziona. Certo, se si continua a guardare a essa come teoria scientifica, assistiamo a un indubbio fallimento. Il fatto è che invece il neoliberismo è una teoria poli5 marzo 2016 tica, o meglio una teologia, e come tale sembra ancora funzionare. A esso, infatti, continuano a ispirarsi partiti, governi, istituzioni pubbliche nazionali e internazionali; è sulla base di questa teoria che sono formulate politiche pubbliche e riforme istituzionali. In altri termini la teoria economica neoliberista non serve a spiegare la realtà, come può essere una scienza della natura. Essa svolge invece funzioni di controllo sociale e di dominio, sia appunto per le politiche che propone, sia per la cultura economicista che contribuisce a diffondere. Se poi così facendo si generano miseria, crisi e disgregazione sociale, è sempre a essa che si ricorre per trovare soluzioni, magari suggerendo che le politiche indicate non sono state applicate in modo abbastanza radicale. Gli uomini, dice questa teoria, sono uomini economici, dunque cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perché gli economisti dovrebbero uscire da questo schema di comportamento? Abbiamo qui un vero e proprio corto circuito: il sostegno teorico alle tesi neoliberiste e il perseguimento del proprio tornaconto personale diventano guida al pensiero e all’azione di troppi economisti. Essi si trovano dunque perfettamente a loro agio nel sostenere politiche funzionali ai gruppi di potere dominanti. Al contempo, l’impoverimento del settore pubblico e la crescente concentrazione della ricchezza in mani private rendono l’intera produzione scientifica e culturale sempre più dipendente dagli interessi di gruppi e fondazioni che operano sulla base di un orizzonte privatistico. È urgente costruire su nuove basi antropologiche e culturali un’opposizione che sia in grado di spezzare questa soffocante TINA, “there is no alternative”, che la teoria dominante propone ma che l’esperienza storica non ha mai confermato. *economista, Università degli studi di Firenze, autore de La trappola, radici storiche e culturali della crisi economica (2012) 17 HILLARY E DONALD VINCENTI E PERPLESSI Il super martedì elettorale consegna il Partito repubblicano al ciclone Trump. La Clinton conquista il voto della borghesia nera, delle minoranze e conquista il Sud. Sanders si consola vincendo in 4 Stati di Corradino Mineo H illary Clinton fra i democratici, Donald Trump per i repubblicani. A prima vista il super tuesday sembra aver detto questo. La destra americana dovrà dunque allinearsi dietro un candidato che elogia il Ku kux Klan, che si propone di cacciare i musulmani, che a chi lo contesta chiede con odio “Are You from Mezico?” Un candidato presidente «le cui parole ti metterebbero in imbarazzo se le pronunciasse tuo figlio», come ha notato Ted Cruz, che da presidente sarebbe - sempre secondo Cruz - «un disastro per i repubblicani, per i conservatori, per la nazione»? Un sondaggio Cnn dice che il palazzinaro, showman e bancarrottiere a novembre, quando si sceglierà il presidente, verrebbe battuto nettamente da Hillary Clinton: 52% contro 44. Ancora più secca, 55 a 43%, sarebbe la sconfitta di Trump se il candidato democratico fosse Bernie Sanders. Non c’è da meravigliarsi se il partito di Nixon, di Reagan, dei Bush si dibatta sull’orlo di un crisi di nervi. Trump lo sa e nelle ultime ore, prima del super martedì, si è persino cimentato nell’impresa «per lui molto, molto ardua - dice Maggie Haberman del NYTimes - di mostrarsi calmo, di usare toni più misurati, di voler essere più inclusivo», insomma di unire, o di provare a unire, il suo campo. Un parte dell’apparato, più legata al Tea Party, già corre, e correrà, in soccorso del vincitore annunciatio. Tuttavia martedì Ted Cruz, peraltro non meno reazionario di Trump, è riuscito a evitare la disfatta, vincendo nello Stato per il quale è senatore, il Texas, e prevalendo nei cau18 cus dell’Oklahoma. Mentre persino il giovane e telegenico Marco Rubio, un pollo d’apparato, che nella super notte sembrava fuori, tanto che Trump lo aveva sfottuto, dicendo «poverino, ha speso molti soldi», alla fine ha conquistato, anche lui, un premio di consolazione in Minnesota, lasciandosi così scampoli di speranza in una risurrezione grazie al voto voto ispanico della sua Florida. Trump ha certo vinto una battaglia importante, questo è vero. L’onda sporca della sua demagogia sembra «aver travolto i rivali», come scrive New York Times. Di più, ha imposto un clima, ha dettato le regole della competizione tra i repubblicani, involgarendo sempre più il confronto, con Rubio che si è avventurato in doppi sensi sulle mani troppo grandi del miliardario o sul che “si bagnerebbe i pantaloni”. Tuttavia, pur mostrando di “dominare (per ora) il campo”, Washington Post, Donald non ha espugnato del tutto l’anima del partito “che fu di Lincoln”. E dovrà guardarsi da congiure e imboscate. L’altra metà del cielo, più composta, più saggia o se preferite più conformista, sembra allinearsi dietro Hillary Clinton. La quale probabilmente studiava da presidente già al tempo in cui Bill era governatore dell’Arkansas, che ha trascorso 8 anni alla Casa Bianca come first lady e si è cimentata per prima con la riforma sanitaria aprendo la strada all’Obama Care, ma ha anche appoggiato in congresso la sciagurata guerra in Iraq di George W. Bush, e poi, da segretario di Stato ha convinto Obama che occorreva intervenire contro Gheddafi. In quell’occasione si è 5 marzo 2016 Un sondaggio Cnn dice che Trump, palazzinaro, showman e bancarottiere, a novembre, quando si sceglierà il presidente, verrebbe nettamente battuto da Hillary: 52% a 43% © Gerald Herbert/AP Photo © Mark Cornelison (Lexington Herald-Leader)/AbacaPress Ansa Sanders e i suoi ragazzi vogliono contare nel Partito democratico, si propongono di ispirare in ogni caso le future scelte della Casa Bianca. Già hanno spostato più a sinistra la Clinton mostrata volitiva - ha scritto New York Times meno indecisa del presidente, ma le conseguenze di quei raid - prosegue il giornale - le stiamo tuttora pagando. “What a super Tuesday!” ha esclamato una Hillary che già si sente a un passo del successo su Trump e vede riaprirsi le porte della Casa Bianca. È vero che il vantaggio in delegati che ha su Sanders è più forte di quello che Barak Obama ebbe su di lei, allo stesso punto della corsa nel 2008. Ed è vero che la borghesia nera, evidentemente grata a Barack e a Bill, ha votato Clinton, che ispanici e bianchi del sud la hanno scelta, portandola a doppiare o quasi i voti di Sanders in Texas e in Virginia. È vero che ha vinto persino in Massachusset, sia pure di un incollatura, ma non si può dire che Sanders sia “fired” bruciato, licenziato, eliminato. Nel super martedì Senatore “socialista”, sostenuto dai giovani “millennials” è riuscito a imporsi in 4 Stati: ha vinto le primarie nel suo Vermont e in Minnesota, si è aggiudicato i caucus dell’Oklahoma e del Colorado. «Abbiamo conquistato centinaia di delegati», ha detto dopo la vittoria in Vermont, e subito ha indicato la strada che percorrerà comunque fino alla cenvention democratica: «So che il segretario di Stato (Clinton) e altre personalità pensano che io punti troppo in alto, che la gratuità del college pubblico e il medicare per tutti siano un’utopia. Io non la penso così». Sanders e i suoi ragazzi vogliono contare nel Partito democratico, si propongono di ispirare in ogni caso le scelte future della Casa Bianca. Già oggi l’effetto Sanders si fa sentire, con una Hillary che si è spostata più a sinistra di quanto probabilmente non avesse immaginato di poter fare: promette di alzare il salario minimo a 12 dollari - se non ai 15 che chiede Sanders - e The Nation, settimanale della sinistra statunitense, si aspetta che riprenda in mano e rilanci il welfare americano, rispondendo alle attese del suo sfidante. Può darsi, invece, che abbia ragione Vittorio Zucconi, il quale scrive: «La normalità cala sul Partito democratico mentre l’anomalia Donald cresce tra i repubblicani». Ma è una normalità - ha ragione Federico Rampini - che dà le «vertigini, perché questa America potrebbe essere sull’orlo del baratro». Troppo amata dall’apparato, troppo ben pagata per le conferenze - anche a porte chiuse - che è stata chiamata a fare da potenti gruppi multinazionali, Hillary candidata potrebbe correre il rischio di regalare al rozzo e “perdente” Donald Trump tutta la rappresentanza del disagio sociale e il monopolio della critica all’establisment. Non a caso New York Times, che ha fatto endorsement per lei, ancora martedì le consigliava di restare all’altezza di Sanders , «la cui campagna è stata ammirevole per la moderazione e gli ideali positivi proposti». «La signora Clinton - così chiude il giornale della borghesia liberal - dovrebbe continuare a spiegare chi ella sia e cosa possa fare per la classe media americana. Perché quello che serve è una leadership che esprima il meglio, non il peggio degli impulsi politici». Che dialoghi con Bernie e non scenda al livello di Donald. 5 marzo 2016 19 20 5 marzo 2016 © Ron Jenkins/Tns Via Zuma/Ansa SPAVENTATI E FRUSTRATI ECCO IL POPOLO DI TRUMP Bianchi, non ricchi, non particolarmente colti e molto, molto delusi da come vanno le cose a Washington. Poi le minoranze arrabbiate, libertarie, xenofobe e anti Stato. Gli elettori di TheDonald ai raggi X di Martino Mazzonis C’ è stato un tempo in cui la Florida era il centro del boom edilizio americano. Non è più così. I resort e villaggi multiproprietà costruiti nei luoghi meno famosi e lussuosi e venduti a peso d’oro fino al 2008 - oggi sono mezzi vuoti. Oppure abitati da pensionati che pensavano a quella casa come a un investimento dove passare molto tempo, ma non tutta la vecchiaia. Dal 2008 il meccanismo “indebitamentoinvestimento-restituzione dei soldi chiedendo altri soldi in prestito grazie al valore cresciuto della casa”, è saltato. E per molti ha significato la fine delle certezze coltivate per una vita. E un’esistenza passata in questi villaggi semi-deserti, spesso tristi come i luoghi di villeggiatura in inverno - perché per quanto la bella stagione in Florida sia lunga, non è infinita. Nella “cintura della ruggine” Il Michigan invece è in decadenza da decenni. L’amministrazione Obama ha impedito che l’industria dell’auto morisse per sempre, ma certo nella Rust belt, la cintura della ruggine - chiamata così perché ospita le carcasse di centinaia di fabbriche vuote -, ci sono migliaia di famiglia operaie che si guardano attorno sperdute. C’è chi lavora in un Wal Mart, chi fa il facchino in un magazzino Amazon e chi è impiegato nelle piccole fabbriche che forniscono i giganti della grande distribuzione che, come mi raccontò una volta un sindacalista in Wisconsin, «si sentono dire: il prezzo è questo, prendi o me ne vado in Cina domani». La conseguenza è semplice: salari che scendono e un altro piccolo modello di vita ordinata che va in fumo. Non per tutti ma per molti. I dati sul declino di alcune aree urbane parlano chiaro: ci sono regioni del Sud repubblicano e del Midwest dove la ripresa non si sente. Cleveland, Detroit, Toledo, Milwuakee, Buffalo, Memphis, Cincinnati, otto delle dieci città americane con i dati socio-economici peggiori secondo una ricerca recente dell’Economic Innovation Group, sono ex centri importanti e industriali che non sanno più dove sono - e dove anche Bernie Sanders è forse destinato a fare bene per ragioni uguali e contrarie a quelle di Trump. Se vogliamo capire da dove venga il fenomeno Donald dobbiamo partire da posti come questi: l’America opulenta e indebitata degli anni 80 divenuta decadente e colpita dalla globalizzazione del commercio mondiale. I numeri strabilianti di TheDonald vengono da qui, dai nostalgici dell’America convinta da Reagan che lo Stato non fosse la soluzione ma il problema, l’America che domina il mondo e vince la Guerra fredda. Make America Great Again, “Fai tornare l’America grande”, lo slogan di Donald, è un richiamo a quegli anni - e in fondo anche a quelli di Clinton, Bill. Minoranze arrabbiate E così molti cittadini bianchi, non ricchi, non particolarmente colti e molto, molto delusi da come vanno le cose negli Stati Uniti e a Washington scelgono il candidato che nessuno si aspettava. Poi ci sono le minoranze arrabbiate, libertarie, xenofobe, anti Stato che, a seconda dei luoghi, sono una colonna portante dell’e5 marzo 2016 21 lettorato repubblicano. Non i conservatori tradizionali e religiosi, quelli che in piena epoca delle culture wars (aborto, matrimonio gay) fecero vincere George W. Bush e che in maggioranza relativa stanno scegliendo il senatore del Texas Ted Cruz, ma piuttosto gli estremisti un po’ pazzoidi e non ideologici su cui frasi forti, sparate politicamente scorrette, Il successo di Trump viene battute e atteggiamento da bullo dai nostalgici dell’America maleducato funzionano a meraviconvinta da Reagan che glia. Sono molti e nel 2012 votarolo Stato fosse il problema, no Ron Paul, che prometteva una quella che domina il mondo rivoluzione libertaria e che ottene vince la Guerra fredda. ne una quota superiore al 10% dei “Make America Great delegati - parte dei quali gli venneAgain”, è il suo slogan ro sottratti in una serie di dispute statali che diedero ai suoi seguaci l’idea che “quelli di Washington sono contro di noi”. Ma Paul era un candidato marginale e, sebbene vicino nel tempo, il 2012 era diverso: a ogni ciclo elettorale l’idea che Washington sia il male e vada cambiata torna in maniera prepotente. UN’AMERICA SOTTO PSICOFARMACI Aumentano le dipendenze e il numero di suicidi fra i cinquantenni bianchi. Lo studio del premio Nobel Angus Deaton D opo decenni in cui la vita media negli Usa si era andata progressivamente allungando, si registra un’inversione di tendenza. È un fatto che, in particolare, riguarda gli adulti maschi, bianchi di mezza età e poveri. A denunciarlo è il premio Nobel 2015 Angus Deaton. Tra le cause principali non ci sono solo le patologie legate allo stile di vita malsano dell’America, a cominciare dal junk food con il suo carico di obesità, diabete e malattie cardiocircolatorie. Dai risultati delle ricerche dell’economista di Princeton e dai rilevamenti dei Centers for Disease Control and Prevention - riportati dal New York Times e da altre testate - un numero crescente di adulti americani oggi muore intorno ai cinquant’anni perché si suicida assumendo pain-killers, potenti analgesici, metamfetamine, massicce dosi di psicofarmaci più alcool. Accade soprattutto nell’America profonda, fra bianchi che 22 5 marzo 2016 Spaventati da immigrati ed economia Oggi l’elettorato repubblicano vuole il cambiamento, a cominciare dal proprio partito. E per questo sceglie “TheRealDonaldTrump”. Le rilevazioni degli istituti demoscopici ai seggi sono inequivocabili. Prendiamo i dati delle prime quattro primarie, quelle di Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina: Sud conservatore, Nord Est bianco, ovest, luoghi e contesti molto diversi tra loro, risposte identiche degli elettori di Trump. Tutti, sempre, spiegano che hanno scelto il loro candidato perché “dice le cose come stanno” e perché “è un outsider”, terzo motivo “porterà il cambiamento”. Le loro prime preoccupazioni? L’immigrazione e l’economia, che nell’immaginario di gente che spesso è in competizione con i messicani per posti di lavoro nei servizi non specializzati sono legate tra loro. Il 67% degli elettori di Trump, nei primi quattro Stati in cui si è votato, ha un’opinione sfavorevole dei musulmani americani (contro il 35% del totale degli americani), l’87% è favorevole a non farli entrare negli Stati Uniti fino a quando ci sarà il terrorismo e il 55% hanno perso il lavoro, che «si sentono minacciati dall’emancipazione delle donne e dagli immigrati». Fra questi cinquantenni, disperati e furibondi, si trovano molti elettori Trump, ha scritto su D di Repubblica Federico Rampini commentando i dati sullo stato di salute degli americani. Ma la spiegazione del fenomeno in termini economici e sociologici non basta. Ci aiutano a far chiarezza alcuni libri sulla psichiatria americana degli ultimi cinquant’anni pubblicati da L’Asino d’oro. Pensiamo in particolare a tre titoli: Le pillole della felicità dello storico della scienza David Herzberg, La perdita della tristezza di Allan V. Horowitz e Jerome C. Wakefield e Mad in America del noto giornalista d’inchiesta Robert Whitaker. Insieme concorrono a tracciare un quadro documentato e molto articolato dei danni provocati dalla psichiatria americana “organicista” che ha fatto del Dsm (ora arrivato alla quinta edizione) la propria Bibbia. Pur provenendo da esperienze professionali diverse e occupandosi di ambiti psichiatrici differenti, tutti e quattro gli autori citati arrivano grosso modo alla medesima conclusione: il problema della cultura americana è la negazione della malattia mentale e il riduzionismo biologico della psichiatria basata sull’idea (priva di fondamento scientifico) che esista una causa genetica ed organica delle patologie mentali. Da qui icina /Off ione raz llust eppe Gius ore aggi B5 M ©I gli eccessi di prescrizione e una assoluta fede nel potere della chimica. «Come se bastasse l’introduzione di una sostanza nell’organismo per trasformare magicamente un individuo gravemente disturbato», scrive Herzberg, registrando il fallimento di interventi farmacologici che non curano l’alterazione del pensiero rafforzando nel paziente l’idea dell’incurabilità e bloccando ogni sua ricerca sul ruolo dei rapporti umani. In particolare David Herzberg ha studiato il fenomeno che ha avuto inizio nell’America degli anni 50, quando furono immessi sul mercato ansiolitici come il Miltown e il Valium, «farmaci blockbuster» che creavano problemi di dipendenza. Poi sarebbero arrivati gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina come il Prozac, negli anni Ottanta spacciato come panacea da campagne pubblicitarie rivolte soprattutto alle donne. Con lo slogan «By by blue», il Prozac veniva presentato come la pillola del successo, funzionale al modello yuppie, ultra competitivo, diventando in poco tempo «un bene di consumo». Ne Le pillole della felicità, Herzberg analizza le campagne pubblicitarie che vedevano “protagoniste” donne bianche del ceto medio, sempre sorridenti. Erano loro il principale obiettivo di mercato e consumavano psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini, con l’illusione così di diventare mamme, manager, mogli modello... Così come le casalinghe americane venti o trent’anni prima erano state tra le principali consumatrici di ansiolitici «per tollerare la frustrazione della vita domestica». A rivelare l’estensione del problema contribuirono allora anche personaggi in vista come Betty Ford, moglie del presidente degli Stati Uniti, che rivelò pubblicamente la propria dipendenza da ansiolitici. Un capitolo a parte, e importantissimo, riguarda i grossi danni che la somministrazione di psicofarmaci ha prodotto e produce sui bambini e adolescenti; fenomeno che ha subito un rapido e costante incremento. Negli Usa sono almeno tre milioni i bambini in trattamento per problemi legati a un supposto “deficit di attenzione” . Patologia individuata dalla psichiatria americana quando fu immesso sul mercato il Ritalin. In questo caso fu il suicidio di Kurt Cobain ad accendere i riflettori sul fatto che storie di dipendenza dalle droghe, come la sua, potevano aver radici nell’infanzia, quando gli era stato prescritto il Ritalin e aveva appreso la “cultura della droga”. Poi il cantante dei Nirvana cadde nella trappola delle droghe pesanti. Le usava per tenere a bada la depressione e il profondo malessere che non gli dava tregua. Pensava che la malattia mentale fosse malattia organica e, in quanto tale, incurabile. Nel 1994 si tolse la vita a soli 27 anni. Simona Maggiorelli 5 marzo 2016 23 © John Minchillo, Andrew Harnik/AP Photo L’importanza di Ohio e Florida La prossima tappa importante delle primarie è quella del 15 marzo. Si vota in Florida e Ohio, Stati cruciali per il processo di scelta dei candidati, ma molto di più, per le elezioni generali. Chi porta a casa lo Stato tropicale e quello del midwest, in genere, vince le elezioni. Sono Stati grandi, diversi e importanti per varie ragioni. Che faranno i cubani di Miami dopo la svolta su Cuba? E gli operai dell’auto salvati da Obama? E Marco Rubio porterà a casa lo Stato dove è eletto continuando così a nutrire speranze di farcela contro Trump? ritiene che 12 milioni di illegali vadano deportati. Ma il 45% - meno della media nazionale, ma non una percentuale da evangelici -, è a favore della scelta delle donne sull’aborto. Click, voti e sparate che piaccono Chi sono le persone che rispondono così? Trump prende più voti tra le persone bianche che guadagnano meno di 50mila dollari l’anno, che non hanno un diploma universitario e che non han- Tutti spiegano che lo hanno scelto perché “dice le cose come stanno”, è “un outsider”, e “porterà il cambiamento”. Le loro prime preoccupazioni? L’immigrazione e l’economia no una matrice ideologica forte. Un elettore repubblicano tipico, non quello tradizionalmente impegnato ma quello che a volte si presenta alle urne e a volte no. Gli esperti e analisti di numeri per mesi hanno pensato che il successo di Trump in campagna elettorale - i click sui suoi video, le folle ai suoi comizi - non si sarebbe tradotto in voti. Si sbagliavano. In questi mesi il miliardario newyorchese ha fatto allusioni sulle mestruazioni della conduttrice di un dibattito elettorale Tv, l’imitazione di Marco 24 5 marzo 2016 Rubio, ritwittato una frase di Mussolini, insinuato che il certificato di nascita di Obama fosse falso, sostenuto che i musulmani del New Jersey avessero fatto festa dopo l’11 settembre, si è chiesto se i vaccini non stessero generando un’epidemia di autismo e se il giudice della Corte Suprema Scalia, morto a febbraio, non fosse stato ucciso. «So che si dice che avesse un cuscino sulla faccia» ha detto rispondendo alle domande di una talk radio conservatrice. E, in ultimo, non ha preso le distanze dal sostegno ufficiale arrivato da un leader del Ku Klux Klan. Nulla di quanto ha detto e fatto gli è costato punti percentuali. Gesti e sparate che hanno attirato l’attenzione e le critiche dei media e che avrebbero distrutto una candidatura tradizionale, non lo hanno toccato. Lui parla la stessa lingua di chi lo segue, è miliardario ma non guarda nessuno dall’alto in basso e quando a un comizio una persona che protesta viene sbattuta fuori commenta dal palco: «Lo stanno portando fuori con gentilezza, non siamo più autorizzati a mollargli un bel cazzotto. Non si può più». L’eroe della massa repubblicana La gente che lo segue vive in un universo parallelo fatto di talk radio repubblicane - i media con i numeri più alti in assoluto - e FoxNews, di teorie del complotto nate e propagatesi in rete e di un LO CHIAMANO MASS SHOOTING Dall’inizio dell’anno sono già cinquantacinque le stragi negli Usa. E nessuno si interroga su che tipo di cultura produca tutto questo N clima generato ad arte dall’establishment repubblicano. Lo stesso clima che oggi ha reso Trump l’eroe della massa repubblicana stufa di sentirsi manovrata dall’establishment del partito. La gente che lo segue se ne infischia delle opinioni dotte di chi spiega che il piano economico di Trump per reggere ha bisogno di tagli alla spesa spaventosi o di una crescita del Pil del 10% l’anno. Dietro la voglia di tornare a far grande l’America, dunque, c’è la voglia di tanta gente Gesti e sparate che hanno attirato le critiche dei media e che avrebbero distrutto una candidatura tradizionale, non lo hanno toccato. Lui parla la stessa lingua di chi lo segue di tornare a sentirsi al centro delle attenzioni della politica. Oggi pesano la finanza, la Silicon Valley, gli hipster laureati e tecnologici, le minoranze che chiedono diritti e il cittadino medio bianco e americano si sente emarginato. E trova in Trump e nella sua subcultura razzista e destrorsa, la risposta a tutti i mali. Se quelle di Trump sono balle non conta: era da quando è morto Reagan che qualcuno non diceva a questa gente le cose che ama sentirsi dire. Poi è arrivato TheDonald. on esiste in italiano una traduzione precisa del termine mass shooting. Si traduce genericamente con la parola strage. Forse perché manca un corrispettivo di questo agghiacciante fenomeno americano. Accade negli Stati Uniti che un giovane vestito con anfibi e mimetica entri in classe armato fino ai denti, che ordini agli studenti di alzarsi, di dichiarare quale fede professano, per poi uccidere a freddo. Così ha fatto l’ottobre scorso il 26enne Chris Harper-Mercer, uccidendo 9 persone e ferendone altre 7. Sul web si raccontava come repubblicano, conservatore, sobrio, contrario alle droghe, interessato alla «religione organizzata» e con qualche hobby. Per esempio? «Uccidere gli zombi». Casi di questo genere accadono quasi ogni settimana. I numeri sono impressionanti. Dall’inizio del 2016 negli Stati Uniti sono già 36 i casi di mass shooting e i morti sono 55. Nel 2015 sono morte in questo modo 462 persone e 1.314 sono rimaste ferite. Nella strage di San Bernardino a dicembre 2015 sono morte 14 persone e 17 sono rimaste ferite. Un mese prima a Colorado Springs si contarono 3 morti e 9 feriti. Nell’ottobre del 2013 nella scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut morirono 28 persone. Lo riporta il sito www.gunviolencearchive.org, addetto a questo macabro conteggio. In cui non sono compresi tutti gli altri casi di persone uccise con armi da fuoco. Secondo il Center for disease control and prevention, tra il 2004 e il 2013 sono state uccise 316.545 persone. Eppure la maggioranza degli americani non cambia idea sulle armi libere per tutti. Mentre un’altra parte si limita a dire che basterebbe vietarle senza interrogarsi su quale tipo di società, che tipo di cultura e di pensiero malato produca tutto questo. Con tutta evidenza non se lo chiede Donald Trump, che cavalca la xenofobia e la corsa alle armi proiettando la sua crociata in difesa dei bianchi cristiani anche oltre i confini statunitensi. «Se la nostra gente (leggi i francesi, ndr) fosse stata armata, al Bataclan le cose sarebbero andate diversamente», ha commentato il candidato repubblicano all’indomani della strage di Parigi. Le lobbies delle armi, certo, lo sostengono. Ma forse c’è anche dell’altro. Trump pensa che la violenza ed essere armati siano la via migliore per vincere la paura, e portare avanti la missione “civilizzatrice” degli Usa. E il pensiero corre a George Bush, il presidente che voleva esportare con le armi la democrazia in Iraq e che badava più alla Bibbia che alla Costituzione. «Gli ideologi dello Stato americano - ha scritto Todorov nel libro Il nuovo disordine mondiale (Garzanti)- hanno spesso affermato che il loro Paese, l’equivalente del popolo eletto della Bibbia, aveva una vocazione che consisteva nell’imporre il Bene nel mondo». George Kennan, l’ideatore della politica di “isolamento” nei confronti dell’Urss, parlava di «responsabilità di direzione morale e politica che la storia con evidenza ha voluto affidare agli Stati Uniti». La Storia, commenta Todorov, «qui ha dato il cambio a Dio: eccola capace di progetti e intenzioni. Con quali segni li rivela? Concedendo agli Stati Uniti una potenza superiore a quella degli altri Paesi: la forza in questo caso si trasforSimona Maggiorelli ma insensibilmente in diritto». 5 marzo 2016 25 UNA LEGGE PARTICOLARE “MATRIMONI” SENZA ADOZIONI Il Pd promette di riprovarci con le adozioni per gay e single, ma la Cirinnà non è ancora legge. E affronta il passaggio alla Camera nel pieno del caso Vendola, che riaccende il dibattito sulla gestazione per altri di Luca Sappino G ià Monica Cirinnà non era tranquilla per nulla: «Una sola modifica rischia di affossare la legge», ripete da giorni a chiunque le chieda un commento sul prossimo passaggio che la legge sulle unioni civili che porta il suo nome deve affrontare alla Camera dei deputati, cominciato giovedì 3 - dalla commissione giustizia. Un passaggio sulla carta più semplice di quello superato al Senato. Sulla carta però. La maggioranza che ha approvato il maxi emendamento che ha riscritto la legge stralciando l’adozione del figlio del partner, infatti, a Montecitorio ha numeri più comodi, che rendono questa volta veramente ininfluente il supporto dei verdiniani, che si sono invece rivelati fondamentali a palazzo Madama, mettendo così, votata la fiducia, più di un piede nella compagine di governo, con tutte le polemiche del caso. Ma potrebbe non bastare. «Una sola modifica e ricominciamo il giro», dice giustamente Monica Cirinnà, «e l’esito a quel punto nessuno può prevederlo». Se infatti i deputati dovessero voler fare ciò per cui in effetti sarebbero pagati, e cioè migliorare le leggi che si trovano a votare, il testo dovrebbe poi tornare al Senato per via della celebre doppia lettura, la navetta, nemico pubblico numero uno prima di Silvio Berlusconi («Sapete quanti giorni ci vogliono per approvare una legge», chiedeva sempre al suo pubblico, retorico) e poi di Matteo Renzi. E 26 un nuovo passaggio al Senato vorrebbe dire riaprire la discussione, «e non ci aiuta», dicono dal Pd, «la vicenda di Nichi Vendola». «Tempismo sbagliatissimo», è il commento che si registra tra gli ex alleati, nei giorni in cui esplode il caso di Tobia Antonio Testa, figlio biologico di Ed Testa, compagno del leader di Sel, ormai ai margini della politica, ma ancora capace di paralizzarla per giorni, ferma a discutere di una sua scelta privata: ricorrere alla gestazione per altri per procreare, volando in California. Avrete letto e riletto i commenti più violenti, quelli di Matteo Salvini o di Maurizio Gasparri. Anche Beppe Grillo ha detto la sua ponendosi sul fronte presidiato dai giornali cattolici, da Avvenire («Non chiamiamoli diritti») e da Famiglia Cristiana. Avrete letto anche lui. Grillo si è detto spaventato dall’utero in affitto: «C’è qualcosa del concetto di utero in affitto che mi spaventa», ha detto cogliendo l’occasione per un improbabile attacco sul canone Rai in bolletta: «E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure l’eterosessualità; mi spaventa la logica del “lo facciamo perché è possibile”: un po’ com’è diventato facile attaccare tutto alla bolletta della luce». Appassionante o meno, il dibattito comunque non ha ancora preso nessuna forma parlamentare. Una legge non è all’orizzonte (non senza torto Gasparri può dire: «Sono tutti contrari ma poi si imbarazzano quando c’è da intervenire 5 marzo 2016 su casi concreti e punire chi va all’estero») e quindi ci si può limitare per il momento a registrare le posizioni, tra cui quella contraria, che è prevalente nel Pd. I dubbi esposti da Laura Boldrini, infatti, sono gli stessi di Valeria Fedeli, una vita nel femminismo, come di Debora Serracchiani, volto della rottamazione renziana. E sono i dubbi anche di Pierluigi Bersani che dai divanetti della Camera si dice «molto amico di Vendola»: «Lo stimo, rispetto le scelte individuali, ma non da oggi dico che l’utero in affitto non mi convince». Un passaggio delicato, dunque, quello alla Camera dei deputati. Ed è così probabile che anche lì si arrivi a porre la fiducia, completando l’opera cominciata al Senato, sottraendo potere al parlamento con l’obiettivo di «portare a casa» una legge. “Una legge particolare”, come cerchiamo di raccontare con Valeria Solarino, nelle pagine che seguono, giocando sul titolo dello splendido film di Ettore Scola che Solarino e Giulio Scarpati, nei panni del Mastroianni omosessuale, stanno portando a teatro. Una legge particolare perché introduce un matrimonio a metà, che non si chiama matrimonio e che dal matrimonio si differenzia per «una serie di aspetti simbolici» come ci dice il senatore dem Sergio Lo Giudice che assicurano, a suo dire, l’effetto segregazionista: «Così», continua Lo Giudice, «è una legge che si promette di riconoscere diritti identici con due istituti «PENSAVO SAREBBE STATA LA VOLTA BUONA PER LA PARITÀ. MI SBAGLIAVO» diversi». Due bagni, due diversi posti sui bus, due scuole. Una legge a metà perché priva di un diritto in Italia riconosciuto solo alle coppie sposate e quindi eterosessuali, l’adozione, oltre che del lato simbolico (se è un matrimonio perché non si chiama tale?). È una delle modifiValeria Solarino è in teatro con un adattamento che che alla Camera qualcuno potrebbe del film di Scola, Una giornata particolare. provare a fare, ma non è l’unica né la più Con noi parla di unioni civili e maternità surrogata probabile. Non c’è l’adozione nella legge Cirinnà, neanche nella versione light dell’adozione del figlio del partner, la uando è morto Ettore Scola, Achille Occhetstepchildadoption. Il Pd, da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, assicurano che to mi ha detto che tra quelli del regista il suo si recupererà la discriminazione in una film preferito non era, come avevo immaprossima («Ci vorrà un anno», dice Renginato, La terrazza, dove Gassman interpreta un zi) riforma della legge sulle adozioni. Ma deputato comunista che si muove in una companel movimento lgbt non è che ci credano gnia salottiera che oggi definiremmo radical chic. poi tanto: «Ma per favore!», sbotta Andrea «Una giornata particolare, senza dubbio», è invece la scelta dell’ultimo segretario del Pci. «Perché è Maccarrone, l’attivista che ha fatto infuriare Giovanardi con un bacio dalle tribuun film perfetto dal punto di vista formale», dice, ne del Senato durante il «ma che dimostra tutta la sensibilità politica e culturale di Scola, con l’efficace contrappunto tra il dibattito, «se non sono Boschi e Renzi promettono machismo fascista e la delicatezza sorprendente riusciti ad approvare la riforma delle adozioni, di Mastroianni omosessuale». E con Valeria Solarioggi la stepchild per estendendole a gay e no, in questa intervista un po’ politica, non potevo le unioni civili perché single. Ma il movimento dunque che partire che da qui, da cosa l’ha colpita, mai dovrebbero riusci- Lgbt non ci crede: «Non re a inserire addirittura hanno trovato i voti per a lei, del film di Scola che con Giulio Scarpati sta le vere adozioni per gay la stepchild. Ora cosa portando, adattato, nei teatri. «La scenaggiatura», e single in un’altra leg- cambierebbe?» dice, «è la forza di Scola, il modo in cui scrive, fa ge?». «E se sono sicuri muovere e parlare i personaggi, facendo politica in di avere i numeri», continua Maccarrone, un modo raffinato». «vuol dire invece che i numeri c’erano già E allora, politica per politica, io la provo a portare subito sulla figura di Mastroianni, che tanto ha questa volta e che è stato il Pd di Renzi colpito Occhetto, e così sull’attualità che ci spinge a non volere in realtà una legge con la a parlare della legge sulle unioni civili, dei diritti stepchild». Q 5 marzo 2016 27 © Claudio Onorati/Epa Ansa degli omosessuali. «Ma quello di Scola», mi frena, «è soprattutto un film di critica al regime, critica che arriva attraverso la rappresentazione della famiglia, con il padre marito e padrone così ignorante, e alcune scene che restituiscono perfettamente il lato ridicolo di un regime». E cita una scena, Solarino, per spiegare cosa intende: «Faceva sorridere al cinema e fa sorridere ora chi viene a vederci a teatro», dice, «la scena della rumba, quando Gabriele, Marcello Mastroianni, insegna a Antonietta, Sophia Loren, il passo base. I due ballano e quando dalla radio di una vicina arrivano più forti le note di una canzone fascista, Gabriele spegne il giradischi, dispiaciuto, e fa “Ecco. Questa è meno ballabile”». È presto detto, dunque, perché portare oggi in teatro Una giornata particolare (dal 31 marzo al 10 aprile a Roma, questo week end a Perugia). Non solo per comodità: «È una sceneggiatura perfetta, quasi tutta in un unico ambiente e con due soli personaggi. E io», continua Solarino, «ho la possibilità di portare in scena ogni sera un personaggio stupendo, capace di parlarci ancora oggi che la condizione delle donne non è più quella del 1938, ma di passi in avanti da fare ce ne sono ancora tantissimi». Donne, democrazia, conformismo, ovviamente omosessualità. Poteva essere un’ operazione quasi nostalgia, una rievocazione storica, mettere in scena Una giornata particolare e invece Scarpati e Solarino, diretti da Nora Venturini, si sono trovati immersi nella cronaca: «Ma credo che con opere così alte», mi dice ancora Solarino, «sia inevitabile. Storie scritte così, con tutta questa attenzione per la vita, parlano sempre a chi le guarda, anche se il contesto per cui l’aveva pensata Scola è ormai lontano». Non è il 1977, anno di uscita del film, questo è il tempo delle copertine di Libero, dei sondaggi online in cui si chiede se Nichi Vendola sia più giusto chiamarlo “babbo” o “mammo”. E la delicatezza di quel racconto, la delicatezza di Mastroianni di cui parla Occhetto ha poco a che fare con il livello del dibattito di questi giorni. «Mi sembra», è il commento con cui Solarino se ne tira fuori, «che i commenti siano quasi tutti fatti a priori, più dettati dal posizionamento politico che non dalla reale volontà di affrontare un tema». Tema che, nello specifico, è quella della gestazione per altri, volgarmente detta utero in affitto. Cosa ne pensa Valeria Solarino? «È una pratica da regolamenta28 re, sarebbe il caso», dice, «e dovremmo farlo senza chiederci se la pratica sia più usata da omosessuali o da coppie etero, perché il punto non può esser quello». È così, Solarino, sulla posizione di altre donne, come Emma Bonino o Lidia Ravera, interessate a fermare ogni possibile tratta o sfruttamento, rinunciando però alla via proibizionista che l’Italia ha scelto con la legge 40. «Dovremmo anche finirla con questa storia dei bambini che hanno bisogno di una mamma e di un papà», dice, «perché se quello è il punto bisognerebbe proibire il divorzio alle coppie con figli». «Io sono molto per le adozioni», è l’ultima cosa che «Utero in affitto? È una mi dice sul tema, «ma le persone de- pratica da regolamentare e dovremmo farlo senza vono esser libere di scegliere». Attende così una riforma delle ado- chiederci se sia più usata zioni, Solarino, così come si attende- da omosessuali o da coppie va qualcosa di meglio della Cirinnà: etero, perché il punto «Io ero convinta che saremmo ar- non può essere quello. E rivati alla piena parità tra le coppie dovremmo anche finirla e le persone a prescindere dal loro con la storia che i bambini orientamento sessuale», continua, «e hanno bisogno di una invece così non è, non essendoci l’a- mamma e di un papà» dozione neanche nella versione del figlio del partner. Forse però non avevo capito io, e avevo riposto troppe aspettative su una legge che pensavo ci avrebbe portato finalmente lì dove sta già da anni l’Europa. Invece è stata una delusione, con l’aggravante che chissà quando ne riparleremo, ora che questa legge è cosa fatta». 5 marzo 2016 IL COMMENTO di Franco Mistretta Diritti bisogni desideri N on solo per l’utero in affitto ma in via molto più generale questa discussione/confusione sui “diritti” mi pare si stia avvitando malamente: quali sono i diritti, per giunta i diritti naturali? La Carta dei diritti dell’uomo, come le varie altre Carte, dai primi proclami conosciuti nella Storia, alla dichiarazione di indipendenza americana, alle varie costituzioni sovietiche, hanno stilato i più diversi elenchi di diritti fondamentali e inalienabili. Ma anche i diritti sono una costruzione sociale, e variano e hanno variato enormemente nel corso della Storia. I diritti naturali sono poi un’aberrazione, come quasi tutto quello che viene di recente spacciato o rivendicato per naturale... Vendola ha diritto ad avere un figlio? Io più che di diritti, parlerei di desideri. Nel corso della Storia l’umanità ha cercato di soddisfare un numero sempre maggiore di desideri, o se vogliamo di bisogni, ma io preferisco parlare di desideri, perché mi sembra un termine più corrispondente alla realtà di come si è andata evolvendo la storia culturale della nostra specie. Forse l’unico fondamentale bisogno è quello di sopravvivere, che condividiamo con gli altri organismi viventi. E a tal fine abbiamo il bisogno correlato di difenderci da aggressioni e violenze. Oltre a questo, l’umanità ha cercato di soddisfare una lunga e crescente serie di desideri, tutti in vario modo comprensibili e di volta in volta più o meno realistici: una vita più lunga, una casa riscaldata, modi sempre meno faticosi di procurarsi il cibo, un vario e crescente numero di oggetti da possedere e da scambiare, e via via discorrendo nel corso dei millenni. Più il fondamentale desiderio sessuale, variamente correlato o sganciato dalla riproduzione. Molti desiderano anche avere dei figli. Francamente non mi sento di chiamare “diritti” tutta questa serie di belle cose. Anche perché quando li abbiamo definiti diritti siamo da capo a dodici: va bene, questo o quel desiderio/bisogno è un diritto, e allora? Chi te lo deve concedere? Gli altri? Lo Stato? A prescindere? Invece io la metterei così: direi piuttosto che è un fatto positivo se un sempre maggior numero di desideri potrà essere soddisfatto. E che le società e i Paesi più civili sono quelli che permettono a un numero sempre maggiore di persone di ottenere ciò che desiderano, con l’unico vincolo che non si deve esercitare violenza sugli altri. Punto. Dopo di che vediamo quali sono questi Paesi e cerchiamo di capire come sono arrivati a quel livello, cosa possiamo apprendere dalla loro esperienza e come possiamo utilizzarla nel nostro contesto. Certo possiamo elaborare tutti i progetti e le strategie che vogliamo, è ovvio che nel corso della storia l’umanità “inventa” nuovi modi di vivere sociale, è una strada fondamentale. Dobbiamo però basarci su esperienze reali, possibilità concrete, non disdegnare un certo calcolo delle probabilità, e procedere, come dicono gli scienziati, per prove, esame dei risultati, correzioni e così via. Ancora, vedo una critica che rimane spesso sotto traccia, ma sempre riaffiorante, del termine desiderio, anzi del sentimento stesso, del fatto che gli umani concreti siano esseri desideranti: è un retaggio, credo, della nostra religione prin- Non mi sento di chiamare cipale, del famoso pec- “diritti” tutta queste belle cato originale che dob- cose. Anche perché quando li biamo chissà perché abbiamo definiti diritti siamo continuamente scon- da capo a dodici: chi te lo tare, di frasi del tipo deve concedere? Gli altri? siamo nati per soffrire, Lo Stato? A prescindere? siamo in una valle di lacrime, le sofferenze ci avvicinano a dio, la vera felicità sarà nell’altra vita, e cose di questo genere. Che nella forma più laica vengono formulate con l’espressione “non si può avere tutto ciò che si desidera”, frase senza senso perché è nello stesso tempo vera e inutile. E seriamente fuorviante. Mi piace invece quell’altra frase della dichiarazione di indipendenza americana sul diritto, questo si, alla ricerca della felicità, the pursuit of happines. Ecco, questo mi pare un punto importante: non abbiamo diritti su tutte quelle cose di cui sopra, men che meno il diritto alla felicità, ma abbiamo il diritto di cercare di ottenerle. Mi pare una differenza fondamentale. Legata a un altro discorso, quello sui diritti e sui doveri, discorso vecchio, che dovrebbe forse essere ripreso. 5 marzo 2016 29 PARERI Utero in affitto e aborto: la (solita) falsificazione della Verità C ome ha ricordato Pietro Greco su Left della scorsa settimana, il 24 febbraio è stata la ricorrenza dei 400 anni dal primo processo dell’Inquisizione a Galileo. La Chiesa di Roma contestava a Galileo il fatto che le sue non erano verità: fu costretto ad abiurare dichiarando che senz’altro la terra era al centro dell’universo e che quello che aveva scritto erano solo “sue opinioni”. Così non fece 16 anni prima Giordano Bruno e fu condannato al rogo a Campo dei fiori. Già perché la Chiesa cattolica, ma in generale tutte le religioni monoteiste, sostengono di conoscere la Verità, quella con la V maiuscola e non tollerano in alcun modo che si sostenga altro o che si cerchi di scoprirla veramente la verità. Oggi tutti sappiamo che la verità era quella sostenuta da Galileo. Se oggi qualcuno afferma che la terra è immobile al centro dell’universo viene preso, giustamente, per matto. La recente conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali non è stata minimamente contestata dalla Chiesa. L’osservatore ingenuo potrebbe pensare che quindi, la Chiesa, in 400 anni, è cambiata. In verità non è così: il loro modo di pensare non è cambiato nemmeno un po’. La recente vicenda relativa alle unioni civili e all’utero in affitto ce ne dà la dimostrazione. Il “buon” papa Francesco, da esperto gesuita, fa il prestigiatore e dice “chi sono io per giudicare?” ma poi subito dopo afferma “l’unica famiglia naturale è solo quella tra uomo e donna”. La tecnica è sempre la stessa: affermare prima una cosa e poi il suo opposto per confondere le idee con il fine di creare una fitta nebbia in cui non si capisce più nulla. È da affermare con forza che chi si oppone all’utero in affitto ha la stessa 30 5 marzo 2016 identica logica di chi si oppone all’aborto. Questo perché la vita umana inizia con la nascita. Prima di tale momento la vita umana è solo una possibilità e non una realtà. La vita non c’è fintanto che non c’è un pensiero. Il pensiero prima della nascita non c’è. Dopo la nascita c’è. Non c’è quindi alcun pericolo per la salute del bambino né quella della madre surrogata di soffrire una separazione (la nascita appunto) che avviene per tutti, non solo per i figli di madri surrogate. Ogni bambino che nasce, realizza il suo primo pensiero nel rapporto con la realtà non umana (la luce). Quel pensiero, per il Vendola e tutte le coppie che fatto di aver avuto il vogliono fare un bambino con proprio corpo in rap- l’utero in affitto possono stare porto con il liquido tranquille: non c’è nessuna diventa connessione di tipo psicologico amniotico, idea e certezza del tra madre e feto semplicemente rapporto con un al- per il fatto che la mente del tro essere umano che feto non esiste, checché ne però non ha nessuna dica Emma Fattorini, papa definizione specifi- Francesco o Recalcati ca. Può essere quindi chiunque, uomo o donna e non è in alcun modo necessario che siano il padre o la madre biologici. L’unica, fondamentale, necessità del bambino nato è trovare riconosciuta e confermata la propria “esistenza” come essere umano vivente e quindi pensante. Trovare cioè nell’altro la conferma della certezza della esistenza di un altro essere umano che è contemporaneamente certezza della propria esistenza. L’idea della nascita si potrebbe riassumere nella semplice frase: è nato un essere umano che, in quanto essere umano, è per il rapporto con gli altri. Sembra una banalità ma non la è. La “cultura” razionale e religiosa dice che alla nascita non nasce un essere umano IL COMMENTO di Matteo Fago ma un mostro che si può definire in vari modi: bestia, bambino polimorfo e perverso, animale, tavoletta di cera, caos di pulsioni parziali, etc. Tutte definizioni che possono essere riassunte nell’idea di peccato originale delle religioni ebraico cristiane. La cultura razionale e religiosa cioè non riconosce l’esistenza dell’essere umano alla nascita ma contemporaneamente pretende l’assurdo che l’essere umano esista prima della nascita. Con la drammatica conseguenza di dire alle madri e ai padri che i loro figli appena nati sono in realtà dei mostri. Quanto sia dannoso un pensiero di questo genere inculcato nella testa dei genitori, andrebbe senz’altro approfondito. Che rapporto può avere una madre con un figlio che pensa essere, in verità, un mostro? I concetti elementari di rapporto con la realtà della nascita umana, codificati 50 anni fa da Fagioli nella sua teoria, e che ho più che grossolanamente riassunto qui, hanno anche un’altra fondamentale conseguenza: tutti gli esseri umani nascono uguali. È la dinamica della nascita che fa l’assoluta uguaglianza di tutti. Ossia l’essere esseri umani non è perché si nasce in un paese o in un altro oppure perché si parla una lingua oppure un’altra o per il particolare dna che fa avere gli occhi azzurri o la pelle nera. Tutto questo non conta nulla. La cosa fondamentale è che alla nascita tutti diventano esseri umani per la comparsa del pensiero che prima non c’era. E il pensiero compare per la particolare dinamica di reazione della retina allo stimolo della luce. Non ci sono spiriti, anime, dei, influenze della madre o del padre o filogenesi. Il pensiero compare in conseguenza di una particolare reazione della biologia umana allo stimolo della luce. Vendola e tutte le coppie che vogliono fare un bambino con l’utero in affitto possono stare tranquille: non c’è nessuna connessione di tipo psicologico tra madre e feto semplicemente per il fatto che la mente del feto non esiste, checché ne dica Emma Fattorini, papa Francesco o Recalcati. Allora l’aborto non è un delitto, come i cattolici vogliono far credere e i razionali, creduloni, pensano. Non c’è alcun delitto perché il feto non è nato e quindi non ha una realtà psichica e quindi non c’è vita umana. Il feto è una realtà biologica che non è una realtà di vita umana ma ha solo una possibilità di vita umana che si potrà realizzare alla nascita. L’utero in affitto non può creare Va approfondito quanto sia alcun problema né dannosa la cultura razionale alla madre surrogata e religiosa che non riconosce né al bambino per- l’esistenza dell’essere umano ché il rapporto del alla nascita ma pretende feto nell’utero è solo l’assurdo che l’essere umano biologico. Non c’è esista prima della nascita e non ci può essere quindi alcuno scandalo. (E poi cosa sono le adozioni se non una forma di utero in affitto stabilito post nascita?) Perché allora tutto questo clamore per una giusta e naturale realizzazione di Vendola e del suo compagno Ed che hanno deciso di avere un bambino? Una possibile risposta è che se questa cosa fosse accettata per quello che è, significherebbe riconoscere che il bambino è quello che nasce ed esiste alla nascita e per la nascita e i genitori sono le persone che se ne prendono cura dopo la nascita. Con la conseguenza che dio, lo spirito santo, l’anima e tutto ciò che ne segue rivelerebbero la loro vera realtà, ossia quella di non essere. 5 marzo 2016 31 LA MAFIA ARRIVA PURE NELL’EMILIA UN TEMPO “ROSSA” Anche quest’anno è uscito il report sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna e San Marino. Una cronaca annunciata di quanto sta emergendo, udienza dopo udienza, nel Maxi-processo ‘Aemilia’ di Ilaria Giupponi “U na cassetta per gli attrezzi”, così la chiamano loro. «Da mettere a disposizione» di amministrazioni e cittadini. Questo è il nuovo dossier sulle mafie in Emilia-Romagna Tra la via Aemilia e il West, redatto dagli storici gruppi antimafia come AdEst di Bologna, lo Zuccherificio di Ravenna o il Gap di Rimini (ai quali si sono aggiunti contributi da molte altre città emiliane e della R.E.T.E di San Marino). Ogni anno gli attivisti tracciano un quadro dettagliato con nomi e cognomi della situazione criminale nella regione rossa. Che fino a poco tempo fa, si credeva immune al fenomeno. Convinzione espressa per bocca dei suoi sindaci e politici più e più volte. Poi, nel gennaio dell’anno scorso, arrivò l’inchiesta Aemilia e il maxi-processo, iniziato il 28 ottobre con udienze preliminari a raffica nell’aula bunker appositamente allestita a Bologna. Troppi gli imputati (239), altrettanti i capi di imputazione (189). Le prime sentenze di condanna richieste dai pm della Dda felsinea per le 71 richieste di rito abbreviato sarebbero dovute arrivare questa settimana, sono invece state rinviate a fine aprile (assieme ai 19 patteggiamenti). Mentre la sede del dibattimento è stata sposata a Reggio Emilia, dove il 23 marzo si darà il via al processo ordinario per gli altri 147 imputati. Anche qui, in un’aula bunker realizzata ad hoc al costo di 580mila euro. Come un copione, gli arresti e le ricostruzioni dei magistrati hanno seguito quanto tracciato nei dossier: «Gli ultimi 12 mesi hanno trasformato in cronaca quanto da noi descritto da oltre un lustro», scrivono gli autori Gaetano Alessi e Massimo Manzoli. Alla sbarra non solo ’ndranghetisti, 32 5 marzo 2016 trai quali spicca lui, il boss cutrese Nicolino Grande Aracri, ma anche imprenditori, amministratori, forze dell’ordine, giornalisti locali. Tanto che il procuratore antimafia Roberto Pennisi, l’ha scolpito a chiare lettere: «L’Emilia è terra di mafia». Di questa “Aemilia cosa nostra”, parla il dossier. I personaggi di una vicenda di Camilleri ci sono tutti. Ma sono tutti reali. C’è l’imprenditore onesto del sud, Gaestano Saffioti, che ingenuamente venuto a lavorare al Nord si sente rifiutare un appalto dalla Coop Costruttori di Argenta, perché «dietro di lui non c’è nessuno», e «noi sappiamo come funzionano le cose»: se non ci sono cosche non ci sono garanzie che non si facciano i dovuti controlli. «Noi invece vogliamo che chiudano tutti e due gli occhi». C’è il vigile urbano, Donato Ungaro, che denuncia e perde il posto, perché il sindaco Ermes Coffrini (allora Ds) non gradisce i suoi articoli sulla Gazzetta di Reggio sulle escavazioni illegali della ditta Bacchi, o sul progetto di centrale a turbogas su terreni agricoli: «Lavora poco e propala notizie riservate del Comune», fu la motivazione del licenziamento - giudicato illegittimo dal Tribunale quasi 15 anni dopo. Oggi, lo stesso Comune di Brescello, a guida Pd, è commissariato: sindaco, è il discendente di Coffrini, il figlio Marcell. Che si è dimesso spontaneamente un paio di settimane fa, dopo l’apertura dell’indagine ministeriale sulle infiltrazioni mafiose. «Non ho nessuna responsabilità di tipo penale», ha assicurato. Alla manifestazione in sua solidarietà, c’erano anche i nipoti di Nicolino Grande Aracri. Forse perché il sindaco ha definito quest’ultimo persona «gentile, tranquilla ed educata». 5 marzo 2016 33 Tratto dalla copertina del dossier “Tra la via Aemilia il West “ Nei giorni successivi alla pubblicazione al report, non è mancato il balletto pubblico dei sindaci indignati perché i loro comuni sono soggetti a indagine prefettizia e richiesta di scioglimento per mafia. A Finale Emilia, nella bassa modenese, il sindaco Ferioli si scalda su Facebook con gli autori: «insinuazioni». Lui e il suo Comune sono puliti, il dossier infamante e poco documentato. Dice. Ma intanto la ditta Bianchini Costruzioni (il cui responsabile, Augusto Bianchini, è stato arrestato con l’accusa, fra le altre, di concorso esterno), ha continuato a ottenere appalti per la ricostruzione post terremoto anche dopo l’esclusione dalla white list - fa nulla che mescolasse amianto con la terra e ne traesse “ingiusto profitto” - grazie all’ex responsabile del settore lavori pubblici, Giulio Gerrini: per lui il pm ha chiesto 3 anni e 6 mesi per abuso d’ufficio e favoreggiamento ai clan. Il Comune non viene commissariato per decisione del ministro Alfano, Ferioli gioisce, ma una settimana dopo è di nuovo sotto indagine prefettizia: nello stesso decreto ministeriale, infatti, vengono no- «Una cassetta per gli attrezzi minati due viceprefetti e un esperto conta- da mettere a disposizione bile per controllare gli atti del Comune: «È delle amministrazioni»: è comunque emerso un contesto ammini- questo il nuovo dossier sulle strativo caratterizzato da criticità evidenti infiltrazioni mafiose. Da che fanno rimanere necessaria una ricon- studiare, per comprendere duzione dell’attività comunale a più rigo- quelle responsabilità rosi canoni di legittimità e trasparenza», che non sono solo giudiziarie decretando che «rimane alto il livello di attenzione» al fine di evitare «possibili interferenze nella vita dell’ente». Per Ferioli «solo un monitoraggio». Le carte riguardanti le indagini della Commissione sui due comuni sono tutt’ora secretate. Stessa indignazione a Ravenna, dove il sindaco Fabrizio Matteucci definisce il lavoro, in cui sono scritte cose “completamente false”, “fanghiglia infamante”, frutto di una “degenerazione estremista e in definitiva maniacale”. Sarà. Ma intanto, il porto della sua città è uno dei maggiori snodi del traffico d’armi internazionale e smaltimento di rifiuti tossici. A dire quanto basta, ci aveva pensato in un’intervista a Left Enzo Ciconte, fra i massimi studiosi di infiltrazioni mafiose: «Il Pd ha colpe politiche enormi». Non basta la responsabilità penale, che amministratori e cittadini lo sappiano, per favorire comportamenti mafiosi: «Più che mai appare necessario ribadire che così come non tutto ciò che non rispetta la legge sia annoverabile come atteggiamento mafioso, non tutto ciò che è mafioso passa per una trasgressione della legge», avvertono i ragazzi del Gruppo Antimafia riminese Pio La Torre. È per questo che che fare antimafia è particolarmente difficile: non basta l’indignazione, non sono sufficienti i perseguimenti giudiziari. Ammesso e non concesso che la corruzione politica in Emilia Romagna sia “un fatto occasionale”, non lo è la la commistione delle aziende mafiose, secondo gli autori il dossier, con la grande economia cooperativa nella gestione di opere pubbliche. Documentata appalto dopo appalto, processo dopo processo: «Le mafie negli ultimi trent’anni gestiscono, tra le altre cose, la ristrutturazione della Pinacoteca Nazionale e il progetto di ristrutturazione di Piazza Maggiore a Bologna o la discarica dei rifiuti di Poiatica nel comune di Carpineti (Re). L’azienda operante, il gruppo Ciampà, ha da anni ritirato il certificato antimafia per lo smaltimento di sostanze tossiche in Calabria (operazione “Black Mountains”), ma tranquillamente continua a lavorare in Emilia Romagna. E ancora: realizzazione del sottopasso di via Cristoni e Pertini oltre la Casa della Conoscenza di Casalecchio di Reno, alloggi e autorimesse a Budrio (Bo) e Forlì, case popolari a Bologna, Reggio Emilia e Modena». E non mancano di elencare le “aziende delle cosche”: Icla, Promoter, Ciampà, Doro Group, Enea, Bianchini Costruzioni, Save Group, Elledue, Top Service Srl, e spesso buoni soci, CCC, Sab, Gruppo Ferruzzi». E ricordano: «Dentro le inchieste Aemilia (2015), attraverso la concessione di sub appalti, e Mafia Capitale (2015), ci sono cascate un mare di aziende legate a Legacoop (Cns, CmC, CoopSette)». Insomma, «leggere attentamente il dossier e osservare con cura. Può avere effetti collaterali anche gravi». 34 ACCUSE E DISSAPORI NEL MONDO DELLE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA Da Brescia a Scampia, associazioni di giovani dalla pelle dura combattono la mafia da soli. E le amministrazioni che fanno? Spesso, le attaccano Emilia, terra di mafia In Italia l’usura coinvolge 200mila commercianti: 8.500 di questi, solo in Emilia Romagna (il 19,2% del totale), con un giro di affari di un milione di euro. Nel rapporto Eurispes 2015, l’Emilia vede triplicare i reati di “strozzo” (+219% in due anni), passando dai 21 del 2011 ai 67 del 2013, con 31 denunce e 43 vittime accertate. Bologna, è al 4° posto in Italia per estorsioni, reato cresciuto del 74% rispetto all’anno precedente. Inoltre, secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, la regione è al 1° posto per minacce subite dagli enti locali: tra il 2013 e il primo quadrimestre del 2014, si sono verificate 50 minacce indirizzate agli amministratori, il 68% solo nella provincia di Bologna. 5 marzo 2016 S ono tutte belle le associazioni antimafia. Meglio quelle degli altri. Mentre l’Italia vive una primavera di attivismo giovanile sui temi della legalità, della corruzione e dell’attivismo antimafioso, molti dei coordinamenti si trovano ad avere a che fare con amministrazioni più propense a celebrare gli eroi degli altri, piuttosto che accettare di guardarsi in casa. E così succede più spesso di quanto s’immagini che le incomprensioni “dei buoni” siano un ostacolo non facile da aggirare. È successo a Orzinuovi, ai ragazzi delle Rete Antimafia Provincia di Brescia, un’associazione di giovanissimi che si sono ritrovati a presidiare il Tribunale della città lombarda in occasione del primo vero processo di mafia; era il 28 ottobre 2010 e quei giovani hanno deciso di continuare il loro percorso di attenzione verso i fenomeni mafiosi del proprio territorio. Quando ricevono alcune segnalazioni di atteggiamenti mafiosi nella città di Orzinuovi, chiedono all’amministrazione comunale di poter distribuire un questionario anonimo per sondare il territorio. «Nessuna risposta - ci dice uno di loro - anzi, stiamo stati trattati con una certa superficialità e lo stesso coordinatore di Libera ci ha risposto che lì da loro non c’era nulla che avesse a che fare con la mafia». Peccato che qualche anno dopo si scoprirà che Orzinuovi sia anche la base per veri e propri “riti di iniziazione” ‘ndranghetista. La Rete Antimafia di Brescia vive sulle donazioni degli associati e nonostante la capillare attività sul territorio e nelle scuole ha deciso di non rimborsare nemmeno gli spostamenti. «Se cominciano a girare soldi si rischia di rovinare tutto», dicono. Idee chiare. Del resto è stato proprio il magistrato Nicola Gratteri, da sempre in prima linea nella lotta alla ’ndrangheta, a ripetere in occasione dei suoi incontri pubblici che «l’antimafia non deve avere soldi. Deve essere libera e gratuita» e in Italia © Maurizio Degl’Innocenti/Ansa sono in molti a mettere in pratica questo invito. A Ravenna il nuovo dossier sulle mafie in Emilia Romagna (Tra la via Aemilia e il west, nelle pagine precedenti) realizzato dalle associazioni AdEst, Gruppo dello Zuccherificio di Ravenna, Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini e dal movimento R.E.T.E di San Marino ha scatenato la reazione scomposta del sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci contro il lavoro delle associazioni (gratuito e disponibile gratuitamente anche online). «Una frangia minoritaria che sostiene che sono praticamente tutti mafiosi o collusi coi mafiosi, salvo loro e chi li applaude», da dichiarato il sindaco, inalberato per i fatti (tra l’altro tutti veri e verificati) che raccontano di una certa disattenzione e ingenuità della politica locale, con il ministro Graziano Delrio in prima fila. Loro, giovani ma della pelle dura, continuano il loro tour nelle città e nelle scuole. Gratis. Appunto. Come piace a Gratteri. A Genova è un caso da diversi anni la Onlus “Casa della Legalità”. Il fondatore e animatore dell’organizzazione, Christian Abbondanza, di cui abbiamo già raccontato su Left, ha incassato negli ultimi anni molte vittorie concrete: dalle inchieste portate avanti attraverso il proprio sito internet e gli incontri pubblici sono partite molte delle operazione che hanno disegnato la nuova mappa delle mafie in Liguria eppure le istituzioni sono tutt’altro che grate. La Casa della Legalità (che compie proprio quest’anno ben dieci anni di attività) riesce a essere ostica sia per il centrosinistra, che per il centrodestra e pure ai grillini: da Scajola all’ex sindaca Marta Vincenzi Christian Abbondanza viene definito un «esaltato che vede la mafia dappertutto». L’associazione ha il bilancio (online e trasparente) composto da semplici donazioni come entrate e spese quasi completamente dedicate alle misure camerali, alla ricerca di atti giudiziari e al confezionamento dei dossier. Se si pensa ad un’antimafia gratuita e vissuta come missione, al di là delle idee di ognuno, non si può certo dire che non ci siano casi eclatanti e limpidi. Ah: Abbondanza è riuscito anche a farsi querelare da Libera. Motivo? Aver chiesto chiarimenti sul bilancio dell’associazione di Don Ciotti. A Scampia, invece, nella terra che a molti viene facile raccontare unicamente come Gomorra c’è un ragazzo con i capelli a zero e l’impegno a raccontare un territorio che ha il diritto di avere un’altra narrazione: è Ciro Corona, presidente dell’associazione (R)ESISTENZA nata il 21 marzo del 2008, mentre a Scampia si viveva la cosiddetta tregua della faida. Il progetto dell’associazione è chiaro fin dagli esordi: «Nella convinzione che gli irrecuperabili non esistono, - ha dichiarato Ciro Corona - l’azione della nostra associazione è rivolta soprattutto ai figli dei camorristi e degli affiliati e, sin dall’inizio ha percorso la duplice strada della cultura e del lavoro, uniche armi di riscatto secondo noi per i giovani di Scampia». Attraverso diversi linguaggi (dalla musica ai video) l’as- Molti dei coordinamenti si sociazione di Ciro ricerca le parole trovano ad avere a che fare giuste per raccontare la possibili- con amministrazioni più tà di riscatto. «Per un intero anno propense a celebrare gli abbiamo seguito 10 ragazzi delle eroi degli altri, piuttosto che scuole medie ed elementari che accettare di guardarsi in avevano abbandonato la scuola, fi- casa. E proprio le istituzioni gli di persone che lavorano nell’in- diventano un ostacolo dotto della droga, ossia che fino alle 4, 5 del mattino tagliano, pesano e confezionano droga per i clan cosicchè la mattina non si svegliano per mandare i figli a scuola. Siamo andati a casa loro, svegliato i ragazzi e trascinati a scuola, non senza casini». Anche loro hanno dovuto scontrarsi inizialmente con il silenzio delle istituzioni, Comune di Napoli in testa. Oggi invece la collaborazione è finalmente partita ed è già operativo anche uno sportello permanente anticamorra. Perché gli ostinati, se sono puliti negli ideali e nei modi, alla fine dovrebbero vincere. O almeno dovrebbe andare a finire così. Giuliio Cavalli 5 marzo 2016 35 PEDOFILIA, I FANTASMI DI BERGOGLIO Via al processo a don Mauro Inzoli, esponente di spicco di Comunione e liberazione, accusato di violenze su otto bambini. Ma il Vaticano continua a essere poco trasparente di Federico Tulli R icordate don Mauro Inzoli? Sebbene a giugno 2014 fosse stato «invitato» dalla Congregazione per la dottrina della fede «a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza» per gli «abusi su minori» affidati alla sua cura, il 17 gennaio 2015 fu immortalato sorridente al convegno organizzato dalla Regione Lombardia per tutelare i valori «della famiglia tradizionale». L’ex parroco di Crema, esponente di spicco di Comunione e liberazione, fondatore del Banco Alimentare e dell’Associazione della fraternità, si godeva lo spettacolo in seconda fila. Davanti a lui sedevano il governatore Roberto Maroni e il predecessore, Roberto Formigoni, di cui, Inzoli, si dice sia stato il confessore. Condannato - si fa per dire - dalla Santa Sede «alla pena medicinale perpetua» per lo Stato italiano era un uomo libero. Il 9 marzo le cose potrebbero cambiare. È la data fissata dal gip di Cremona Letizia Platè per il processo al prete, sotto inchiesta in Italia solo da ottobre 2014 in seguito a due esposti del senatore Sel Franco Bordo. L’accusa è di quelle pesanti: “Violenza sessuale con abuso di autorità e violenza sessuale aggravata per abuso di minori di 12 anni”. A Inzoli sono imputati otto casi, altri 15 sono caduti in prescrizione. Rischia 12 anni di carcere e la pena potrebbe ridursi di un terzo con il rito abbreviato. Ma un eventuale appello allungherebbe i tempi facendo cadere in prescrizione tutti i reati. A dilatare l’iter investigativo ha contribuito la Santa Sede negando alla procura di Cremona gli atti dell’istruttoria e del procedimento canonico perché vincolati dal «segreto pontificio». 36 L’avvio del processo penale a don Inzoli coincide con il terzo anniversario del pontificato di Bergoglio. Sin dal 13 marzo 2013, Francesco si è dedicato, almeno a parole, alla lotta contro la pedofilia nel clero cattolico. Ma il gesuita argentino ha poco da festeggiare. I due Oscar vinti da Spotlight di Tom McCarthy (miglior film e miglior sceneggiatura originale) riportano con forza in primo piano l’ineludibile questione della trasparenza come chiave di volta per scardinare il sistema di potere complice dei pedofili in tonaca contro cui lo stesso Bergoglio si è spesso scagliato in nome della «tolleranza zero». Un’idea di trasparenza che si lega a quella di collaborazione con le autorità degli altri Paesi, che evidentemente però non è stata ancora ben assimilata in Vaticano nemmeno dal papa. Lo dicono la rogatoria negata e il “segreto pontificio” sul caso Inzoli. Ma anche, per fare un esempio, la vicenda giudiziaria di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. I due giornalisti rischiano 8 anni di carcere in Vaticano per aver pubblicato nei rispettivi libri - Avarizia (Feltrinelli) e Via crucis (Chiarelettere) - notizie vere documentate da fonti certe. Proprio come fecero nel 2002 i colleghi del team Spotlight del Boston Globe, cui invece la tenace inchiesta che smascherò le sistematiche complicità delle istituzioni ecclesiastiche con i pedofili valse il Pulitzer. Ad aumentare la distanza tra gli annunci di Bergoglio e la realtà dei fatti ci si mette anche la Pontificia commissione per la protezione dei minori da lui creata, sommersa dalle polemiche per l’espulsione di un membro laico, l’avvocato inglese Peter Saunders. Il quale, intervistato dalla Bbc, ha attaccato papa Francesco reo «di non aver fatto 5 marzo 2016 Tra il 2004 e il 2013 la Santa Sede ha espulso 848 sacerdoti responsabili di abusi su minori senza render pubblico chi sono e dove vivono. Altri bambini potrebbero essere in pericolo? © Rete L’Abuso © Ansa (2) LA MAPPA DEGLI ABUSI Sopra, al convegno del 2015 a Milano sulla famiglia tradizionale c’è anche don Mauro Inzoli (nel cerchietto rosso). L’ ex parroco di Crema sarà processato il 9 marzo L’avvocato Peter Sanders, espulso dalla Pontificia commissione per la protezione dei minori, alla Bbc ha detto di Bergoglio: «Non ha fatto nulla per metter fine agli abusi» nulla per mettere fine agli abusi di matrice clericale sui bambini», e ha definito «oltraggiosa» la nomina del suo amico monsignor Juan de la Cruz Barros Madrid, vescovo di Osorno in Cile, sospettato di aver protetto padre Karadima condannato per pedofilia nel 2011. La defenestrazione di Saunders va messa in relazione alle sue accuse contro il cardinale George Pell di avere ignorato e coperto per decenni abusi compiuti da oltre 280 sacerdoti. Affermazioni che il superministro dell’Economia di Bergoglio, già arcivescovo di Melbourne e di Sydney, ha sempre respinto, senza però riuscire a evitare di deporre il 28 febbraio scorso di fronte alla Commissione governativa australiana sui crimini pedofili. «Non sono qui per difendere l’indifendibile», ha detto il cardinale, ammettendo che la Chiesa ha commesso «errori enormi» consentendo l’abuso di migliaia e migliaia di bambini. Troppe denunce arrivate da fonti credibili sono state spesso respinte «in scandalose circostanze», ha osservato tentando di smarcarsi. Una linea coerente con la posizione della Pontificia commissione schierata contro i vescovi (Conferenza episcopale italiana compresa) che nelle loro linee guida anti pedofilia non prevedono l’obbligo di denuncia laddove non è imposta dalle leggi “laiche”. «Abbiamo tutti la responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili», ha ricordato il cardinale O’Malley, capo della commissione. Una responsabilità che però di fatto non sfiora la In rosso, i 117 casi di condanna definitiva, i rei confessi o i patteggiamenti dal 2000 a oggi. In giallo, i casi in attesa di giudizio e gli indagati di cui non si è più saputo nulla. In nero, i casi di sacerdoti indagati all’estero e a piede libero in Italia. Al link retelabuso.org/diocesi-nonsicure è possibile consultare la scheda completa di ogni singolo caso. Copyright © Rete L’ABUSO Santa Sede e chi la guida. Va ricordato infatti che tra il 2004 e il 2013 la Chiesa ha espulso 848 sacerdoti responsabili di abusi. Lo dissero con orgoglio i nunzi di papa Francesco a due commissioni Onu (quella per l’infanzia e quella contro la tortura). Bene, anzi, male. Per alcuni di loro la dimissione dallo stato clericale è probabilmente arrivata dopo una condanna penale “laica”. Per altri invece si è espresso solo il Tribunale ecclesiastico. Era il 2014, dove sono oggi questi pedofili ignoti alla giustizia “terrena”? Non si sa. Come si chiamano? Quanti sono? Non si sa. Gli emissari del papa non risposero alle istanze dell’Onu che anche per questo ha accusato la Santa Sede di aver «regolarmente messo al di sopra dell’interesse dei bambini la tutela della reputazione della Chiesa e la protezione dei responsabili». Il monito delle Nazioni Unite ha spinto Bergoglio a imporre un cambio di rotta mediante la segnalazione obbligatoria alle autorità civili? La risposta è sempre no. Come nel caso di don Inzoli, i fatti e la trasparenza stanno a zero. 5 marzo 2016 37 LA GUERRA IN LIBIA? DIVIDI E BOMBARDA Un intervento immediato e unilaterale. Droni Usa, basi italiane e 5mila uomini via terra. Questo è il “piano B”. E il Paese verrebbe diviso in tre, com’era prima dell’intervento fascista di Alessandro De Pascale I militari italiani si dicono pronti e spingono per l’azione via terra. «L’obiettivo italiano è controllare le coste libiche, anche per prevenire gli sbarchi di rifugiati, ma senza uomini sul terreno si riuscirà a fare ben poco», spiega a Left senza mezzi termini il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e geopolitica, nonché docente universitario. Che qualcosa stia bollendo in pentola lo conferma anche il fatto che un uomo vicino ai servizi segreti militari, normalmente disponibile a parlare se protetto dall’anonimato, stavolta non appena sente la parola Libia risponde: «Non posso dire nulla». Lo stesso fa un altro esperto della materia, da anni al lavoro come esperto di politica militare nel Gabinetto del ministro della Difesa, la cui titolare Roberta Pinotti ancora pochi giorni fa riteneva «impensabile un intervento militare di occupazione». Anche se, in realtà, la decisione finale non spetta più a lei: lo scorso novembre, proprio in vista di questo possibile intervento chiesto a gran voce dagli Stati Uniti, il Parlamento ha approvato a larga maggioranza una legge che consente alle nostre forze speciali di entrare in azione con le stesse «garanzie funzionali» e «seguendo la catena di comando dei servizi segreti». La palla è dunque passata a Palazzo Chigi, al premier Renzi che può dare il via libera evitando il voto delle Camere: è sufficiente un’informativa del governo alle commissioni Esteri e Difesa. L’Italia chiede da tempo di guidare una missione internazionale in Libia. Il Daesh, sotto pres38 sione e per la prima volta in difficoltà in Siria e Iraq, ha aumentato la propria penetrazione nel Paese sfruttando, come già aveva fatto in passato, la guerra civile. E questa è la volta di quella libica. I 3mila militanti iniziali di alBaghdadi sarebbero diventati quasi 6mila, se non di più come sostengono alcune fonti francesi. E da Sirte, capitale della loro provincia, avrebbero già preso il controllo di quasi 200 chilometri di costa. Imponendo come sempre le loro regole per far rispettare l’ordine (persone crocifisse, apostati lapidati, ostaggi ed esecuzioni di cristiani) e controllare l’economia (raccolta di tasse, attività commerciali, droga e archeomafie, protezione dei trafficanti). Francesi e statunitensi hanno così deciso di intervenire autonomamente, ordinando lo sbarco di forze speciali in grado di illuminare gli obiettivi, per poi colpire con i caccia e gli aerei senza pilota. Sulla base delle informazioni che giungono dalla Libia, ognuno si è già preso una zona: la Francia a est (in Cirenaica, nella zona di Bengasi), gli Usa a ovest (in Tripolitania, a Woutiya e al confine con la Tunisia). A noi italiani non resterebbe quindi che intervenire nel desertico Fezzan, la zona meridionale, quella dei pozzi di petrolio tanto cari alla nostra Eni e delle tribù in guerra le une contro le altre. Ma è possibile anche un rimescolamento delle carte: Italia in Tripolitania, Gran Bretagna in Cirenaica, Francia nel Fezzan, Usa al comando e con i propri droni pronti a colpire. Sarebbe questo il “piano B” di cui si parla in questi 5 marzo 2016 Surman, 70 km a ovest di Tripoli, Libia. Nella pagina seguente: piazza al Shuhada Martyrs, 17 febbraio, celebrazione del quinto anniversario della rivoluzione libica a Tripoli © Mohamed Messara/Epa Ansa giorni e che vedrebbe - come già accaduto nel 2001 con l’invasione americana dell’Afghanistan - un intervento immediato e unilaterale di questi Paesi con 5mila uomini, in attesa di un successivo via libera del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Dividere la Libia in tre è un’ipotesi sostenuta pubblicamente anche dall’ex Capo La Francia a est (in Cirenaica), gli Usa a ovest (in Tripolitania), l’Italia a sud (nel desertico Fezzan). Ma è possibile un rimescolamento delle carte di Stato maggiore della nostra Difesa, Vincenzo Caporini. Mentre il già citato generale Jean mette in guardia: «L’ipotesi di ripristinare la situazione esistente prima dell’intervento di Rodolfo Graziani, durante il fascismo, troverebbe fermamente contrarie altre potenze regionali». Quello che è certo, è che su un’azione realmente concertata in Libia non c’è sufficiente con- senso internazionale, né da parte dell’Onu, né dell’Unione europea, né della Nato. E, come è spesso accaduto in passato, l’Occidente gioca su più tavoli. Ufficialmente sostiene l’azione dell’inviato dell’Onu, il tedesco Martin Kobbler, per la formazione d’un governo d’unità nazionale in grado di riunificare i due attuali (Tripoli e Tobruk); un compito difficilissimo per il premier Fayez Serraj, poco carismatico e per di più in esilio in Tunisia (perché in Libia rischia la vita). Sottotraccia, intanto, l’Occidente si appoggia al generale Khalifa Haftar, capo delle forze armate del governo di Tobruk, l’unico sul campo in grado di combattere i jihadisti del Daesh e che rema contro sia l’esecutivo di Tripoli sia quello unitario che non vuole designarlo ministro. Si parla di pace, e intanto si fa la guerra. Per adesso, soprattutto con i droni (vedi box), il cui decollo è stato autorizzato anche dalla base italiana di Sigonella. L’uso di 5 marzo 2016 39 LA DOTTRINA OBAMA Bombardare ma con il minimo rischio, usando i droni che partiranno dalla Sicilia aerei senza pilota, per il generale Jean «è un additivo, nulla di più». Ma pur sempre micidiale. E «nonostante il loro intervento richieda una quantità impressionante di autorizzazioni», aggiunge l’analista politico e strategico Alessandro Politi, «il loro impiego è come un intervento chirurgico: se va male, si tratta pur sempre di un’operazione non riuscita e quando il danno è fatto è molto difficile da riparare». Perciò, Politi è contrario a un «intervento esterno di questo tipo che potrebbe addirittura unire le varie fazioni in campo contro un invasore straniero». La lezione dell’Iraq, a suo dire, va assimilata «perché altrimenti si rischia di obbedire a interessi particolari, miopi e di scarso successo. Se qualcuno vuole tornare a estrarre il petrolio libico è bene che ci siano condizioni pacifiche». Stesso discorso sulla divisione della Libia e sul cosiddetto “piano B”: L’analista Alessandro Politi: «Un intervento esterno potrebbe unire le varie fazioni in campo contro un invasore straniero. Se qualcuno vuole tornare a estrarre il petrolio libico è bene che ci siano condizioni pacifiche» «A ppoggeremo con forza il ruolo guida dell’Italia nell’intervento militare in Libia», dicono gli Usa per bocca del segretario alla Difesa, Ash Carter. Forze speciali, droni e caccia statunitensi utilizzano le basi Nato siciliane di Sigonella, Pantelleria e Catania. La richiesta al governo italiano è stata avanzata l’8 maggio 2015, durante il summit di Lago Patria (Napoli). A gennaio è arrivato il via libera da autorizzare «volta per volta» e solo per «missioni di difesa»: 11 droni armati di missili per proteggere postazioni dei soldati, sedi diplomatiche, ospedali, scuole e siti strategici nel mirino dei terroristi del Daesh. Per l’attacco di metà febbraio a Sabrata i media italiani hanno riportato di una base del Regno Unito, ma per i media internazionali si trattava della base di Sigonella. Che è la principale base terrestre dell’Us Navy nel Mediterraneo centrale e ospita anche diversi squadroni tattici dell’Usaf, oltre ad aerei senza pilota. I droni fanno parte di quella che a Washington chiamano “la dottrina Obama”. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, è stato Bush ad autorizzare le operazioni segrete dei droni ma è stato il presidente uscente a portare la flotta da poche decine a centinaia. Il loro impiego è economico, non richiede l’invio di truppe sul posto e avrebbe già eliminato molti capi dei gruppi terroristici. Ma per Amnesty international si tratta di «crimini di guerra che favoriscono l’antiamericanismo e il reclutamento del Daesh». L’aeronautica italiana è stata la prima, nel 2001, ad acquistare droni dagli Usa. Finora non li abbiamo armati, utilizzandoli esclusivamente per la sorveglianza. Adesso gli Stati Uniti ci hanno autorizzato a dotare di missili la nostra flotta, composta da 6 Predator e altrettanti Reaper, costata finora 370 milioni di dollari. Presto anche a.d.p. noi dovremo fare i conti con la “dottrina Obama”. «Questa mania di balcanizzare è nefasta, e se qualcuno spera di cavarsela con 5mila uomini a testa, buona fortuna», attacca il professore. «Negli anni Venti, Graziani ebbe bisogno di 12mila uomini per fronteggiare 3mila ribelli male armati e che combattevano per la propria indipendenza. Oggi non sono soltanto in 3mila, i kalashnikov non sono né i fucili di allora e nemmeno i lanciarazzi Rpg». Infine, raccomanda il professor Politi, non vanno sottovalutati i possibili rischi. «I francesi hanno deciso di alzare il loro già alto profilo politico, personalmente credo che sarebbe molto più utile se intervenissero nelle loro banlieue per contrastare la facilità di reclutamento dei jihadisti. Agli Stati Uniti, incassato il successo iraniano, resta la questione cinese, mentre in Siria giocano coi russi una partita molto più seria che non nel teatro secondario libico». E l’Italia? «Finora abbiamo avuto una grande attività e anche un pizzico di fortuna nel non avere nessun morto per terrorismo internazionale, credo dal 1999 ad oggi», fa notare l’analista. «Ma questo tipo di azioni cambiano completamente i profili di azione, tanto che la sorveglianza è già aumentata». 40 5 marzo 2016 GUERRA O POLITICA? IL REBUS LIBICO Il dubbio amletico dei governi occidentali. Pressati dalla necessità “di fare qualcosa” per fermare Daesh ma timorosi che la guerra possa produrre un disastro peggiore. Il parere di esperti e diplomatici I © Hazem Turkia, Anadolu Agency/Ansa raq e Siria. Nomi che risuonano nelle orecchie di chiunque rifletta su come affrontare la crisi libica. Interventi militari e assenza di un piano di assestamento hanno prodotto catastrofi. E così sarebbe oggi in Libia. Ce lo dimostrano diverse fonti diplomatiche (che preferiscono restare anonime) dei Paesi coinvolti. «Siamo davanti a due fronti che vanno distinti: la stabilizzazione della Libia, il consolidamento di un processo politico debole che però ha fatto qualche passo in avanti, e la necessità di fermare l’avanzata del Califfato», ci dice un funzionario di un governo europeo che partecipa ai colloqui con Italia e altri Paesi. «Naturalmente, a seconda delle capitali, l’accento cade su una delle due questioni». Già, e più si è lontani dalla Libia e più l’Isis è importante, mentre lo è meno la centralità del processo politico libico. Capita poi che i media - che riprendono notizie da fonti libiche poco verificate «non aiutino ad evitare un intervento», aggiunge un altro diplomatico. L’Italia, nonostante il clamore per la concessione della base di Sigonella (Sicilia), investe nel processo politico e cerca di frenare l’ipotesi di un intervento armato massiccio. Parigi e Washington, che in queste settimane hanno colpito con raid aerei e inviato forze speciali in loco, hanno soprattutto l’Isis in testa. Obama non sembra propenso a intervenire e due inchieste del New York Times sul ruolo di Hillary Clinton nella prima guerra libica lasciano pensare che negli Usa sia in corso un braccio di ferro. L’anno elettorale c’entra. Il Segretario alla Difesa, Ash Carter, e il capo dell’esercito, il generale Dunford, hanno detto che gli States continueranno a colpire l’Isis con missioni mirate, ma che prima di pensare a un intervento vero - da farsi in coalizione, possibilmente guidata dall’Italia - vogliono aspettare la fine del processo politico. I francesi, che nel 2011 produssero l’accelerazione che portò all’intervento contro Gheddafi, sanno che ipotesi simili a quelle dei loro interventi recenti in Africa non sono percorribili. L’effetto Bataclan e gli interessi nella regione rendono però imprevedibile la strategia dell’Eliseo: se Daesh continuerà a crescere, Parigi difficilmente resterà a guardare. Roma ha un ruolo da giocare. Senza l’Italia qualsiasi operazione militare su larga scala sarebbe complicata, un punto di forza in un eventuale braccio di ferro 5 marzo 2016 intra-occidentale. Quanto alle dinamiche interne libiche, chi in questa fase ha un ruolo deleterio, perché vuole a tutti i costi ottenere la posizione di capo della Difesa nelle (eventuali) future istituzioni libiche, è il generale Haftar, protetto dell’Egitto e nemico di ogni gruppo legato alla fratellanza musulmana. Haftar è un ostacolo alla riconciliazione nazionale. Ora, Roma ha un conto aperto con il Cairo per la morte di Giulio Regeni, e alzare la voce potrebbe avere senso anche per la partita libica. La verità è che «un intervento militare senza la richiesta di un governo legittimo non farebbe che impantanare il già zoppicante processo politico: i signori della guerra continuerebbero a combattersi» ci dice Mattia Toaldo, esperto di Libia dell’European Council on Foreign relations e che spesso ha scritto per Left. Ci vorrebbe pazienza. Tanto più che la strategia di Isis è quella di produrre caos: il ritorno della guerra su larga scala favorirebbe la propaganda islamista. Anche il processo politico andrebbe ripensato: «Ci sono municipi, leader tribali, pezzi di società civile non coinvolti nel processo nazionale e che però svolgono e potrebbero svolgere un ruolo cruciale sia nello stabilizzare il Paese che nella lotta e contenimento del Califfato. Anche questi andrebbero coinvolti», ci dice Toaldo, La conclusione: «Servono tempi lunghi e coraggio per investire in un processo complicato. Ma senza una strategia politica che sia almeno di medio termine, il rischio è quello di un intervento che non produca effetti sul processo di stabilizzazione della Libia. Ci sono state troppe azioni militari partite senza un’idea del dopo. Non sono stati dei gran successi». Martino Mazzonis 41 “NON FACCIAMOCI ILLUSIONI” LA TREGUA È ROSSO SANGUE Il cessate il fuoco in Siria, con un bilancio di 200 morti nelle prime 24 ore, è un pallido tentativo di metter fine al conflitto. Ma c’è poco da illudersi, come acenna Obama da Oltreoceano di Michela AG Iaccarino E siste la silenziosa bandiera bianca della pace. E quella nera della guerra, che garrisce sui riflessi rossi del sangue degli uomini che muoiono brandendola. Non esiste colore della tregua, non ne esiste il simbolo, il drappo di stoffa. Né esiste l’asta dove attaccarlo e alzarlo per poterla dichiarare. Oggi la tregua siriana sul campo ha un bilancio di quasi 200 morti nelle sue prime 24 ore e non si sventola se non sui giornali occidentali. Quelli sul terreno, insieme alle agenzie di stampa del posto, sono troppo impegnati con i report delle violazioni di questo primo armistizio mediorientale. Ne hanno contate nove solo il primo giorno, a nord e a ovest di Aleppo, a Dara Aza, Qabtn al Jabal, Andan, Hreitan, poi a sud di Hama, nei villaggi del fronte islamico di Al Nusra, dove sono presenti anche alcune brigate dell’Esercito siriano libero. Una speranza a cui nessuno crede, un pallido tentativo. Cominciata ufficialmente a mezzanotte di sabato 27 febbraio, la tregua fa il bilancio dei suoi morti minuto per minuto, eppure, dicono i mediatori, “regge”. Vi hanno aderito novantasette gruppi combattenti sul territorio. I fucili tacciono in terra, fatta eccezione per Al Nusra e gli uomini di al Baghdadi del sedicente Stato islamico che continuano l’avanzata e contro cui gli attacchi continuano, come deciso nei patti russo-americani. In Siriaq il territorio sotto il controllo dei loro kalashnikov è cresciuto del 40 per cento rispetto al 2014. La galassia jihadista controlla del Paese degli Assad ormai il 50 per cento del territorio. Non sono rientrati negli 42 accordi dei presidenti del Grande Est e del Grande Ovest due gruppi: Ahrar al Sham, gli Uomini liberi della Grande Siria e Jund al Islam, esercito dell’Islam, di estrazione salafita. Il Cremlino li voleva nella lista dei nemici comuni mentre Washington si è dimostrata di parere contrario. Dopo un giorno, che doveva essere “rassicurante”, e una “notte speciale”, la prima, come l’ha chiamata l’inviato Onu Stefan de Mistura, velivoli non identificati hanno solcato il cielo so- 5 marzo 2016 PROVE DI CORRIDOI UMANITARI Giunti dal Libano, 93 rifugiati siriani sono atterrati a Roma grazie a Mediterranean Hope «S tiamo arrivando», mi scrive Francesco in chat. E invia un selfie che lo ritrae insieme ai rifugiati in partenza per Roma dal Libano. La mattina seguente, il 29 febbraio, siamo lì ad aspettarli all’aeroporto di Fiumicino. Arrivano alle 7 del mattino, e per quattro ore sono in balìa dei controlli. «Ecco fatto, ora abbiamo dimostrato che i corridoi umanitari si possono fare. E anche senza spese per i governi», dice Francesco Piobbichi,che fa parte della missione di questo viaggio chiamato Mediterranean Hope, il primo corridoio umanitario d’Europa per «impedire lo sfruttamento ai trafficanti di uomini e concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” un ingresso legale con visto umanitario e la possibilità di presentare richiesta d’asilo», spiegano gli organizzatori. Il progetto pilota è stato realizzato con l’accordo tra il governo italiano (Farnesina e Viminale), la Comunità di Sant’Egidio, la federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) e la Tavola Valdese. È previsto l’arrivo di mille rifugiati in due anni e non solo dal Libano, ma anche dal Marocco e © Hassan Ammar/AP Photo 5 marzo 2016 © Tiziana Barillà (2) dall’Etiopia. Quelli arrivati a Fiumicino vengono da diverse città siriane: Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous. Prima di arrivare qui erano accampati a Tel Abbas, in Libano, in un piccolo campo spontaneo come tanti, a pochi chilometri dalla Siria. Tra di loro scorgiamo Mirvat, che ha 24 anni e viene da Aleppo. Parla perfettamente inglese e, avvolta nel suo tailleur blue e nella sua chioma bionda, in molti la scambiamo per un’operatrice. Poi c’è Badee’ah, che di anni ne ha 53 e chi stava con lei a Tel Abbas chiama “mamma”. Anche Diya arriva dalla città fantasma Homs, lui è ancora un bambino e arriva a Fiumicino sulle stampelle e un gran sorriso, è rimasto ferito durante un’esplosione. «Non hanno solo viaggiato in sicurezza. Ma sono qui per avere un futuro», tiene a sottolineare Marco Impagliazzo della Fcei. E adesso verranno ospitati in case e strutture d’accoglienza di Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Trentino. «Welcome everybody», ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla conferenza stampa. E si è augurato che questo sia un esempio che l’Europa deciderà di seguire. Ma un impegno esplicito da parte del governo non è arrivato. A fine conferenza un’operatrice comunica in arabo le destinazioni: Trento, Torino, Reggio Emilia, Firenze Aprilia, Roma. Sul pullman troveranno un pasto al sacco, per il pranzo. E una nuova vita, in Italia. Questi 93, per cercarla, non hanno dovuto attraversare l’inferno del Mediterraneo. Tiziana Barillà 43 © Hassan Ammar/AP Photo Homs, Siria, 26 febbraio. Un ragazzo e un bambino nella loro casa distrutta dai bombardamenti, nel quartiere di Baba Amr. In apertura, sempre a Homs, un ragazzo guida una bicicletta attraversando la città devastata dai bombardamenti. Nel box: Roma, 29 febbraio. Due momenti dell’arrivo di 24 famiglie siriane a Fiumicino con i Corridoi umanitari di Fcei, Sant’Egidio e Valdesi pra la Siria. I caccia russi sono fermi a Latakia o dovrebbero esserlo. Ma gli indici di Ryad sono stati subito puntati come canne di fucile verso gli aerei di Mosca e Damasco, accusate di violare una tregua da loro suggerita. È la versione del ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir. I curdi invece rispondono al fuoco della Turchia, il cui presidente in questi giorni è ritorPiù che la vigilia della fine nato a ricordare al suo popolo chi del conflitto, cominciato sono i veri terroristi da bombarda5 anni fa e costato 470mila re: le divise dello Ypg e non i soldati morti, sembra una pausa di Al Baghdadi. tra uno scontro e l’altro Continuano gli scontri a Tal Abyad tra l’Is e curdi: agli F16 americani è concesso di alzarsi in volo in loro difesa, lasciando una scia di decine di morti tra i combattenti di Ocalan e un centinaio di Allah. Non è la vigilia della fine del conflitto cominciato 5 anni e 470 mila morti fa, è un’interruzione che non durerà e nessuno si aspetta davvero che lo faccia. Assomiglia solo a una pausa tra un combattimento e l’altro, dopo l’ordine congiunto di Casa Bianca e Cremlino di un abbassate le armi temporaneo. Russia e Usa, amici senza amicizia, ancora nemiche fedeli in altri teatri di guerra, sono le potenze militari passate in poche 44 5 marzo 2016 settimane dal braccio di ferro feroce sul tavolo siriano ad un handshake (stretta di mano) sull’abisso della più grande catastrofe umanitaria dei nostri giorni. Se quelli che hanno giocato a fare gatti e topi nel secolo scorso si alleano è perché in giro c’è un animale più pericoloso. In una vecchia geografia di linee rosse da non superare - di cui la prima citata dal presidente americano dopo l’uso di armi chimiche nella primavera del 2013 - sono diventate più importanti le linee telefoniche del segretario John Kerry e del ministro degli Esteri Serghei Lavrov, più funzionali i loro accordi sui dieci fronti di battaglia aperti in diversi punti della cartina geografica siriana, ma con Raqqa, capitale del jihad ancora lontana da una riconquista. Questa tregua deve impedire «ai terroristi di riorganizzarsi, impedire alla Turchia di inviare uomini e armi ai terroristi» dice Bashar al Assad al corrispondente di el Pais, David Alandete: «Abbiamo reso difficile i passaggi, il nodo è chiudere i collegamenti, per questo Ankara bombarda i curdi», ribadisce il presidente siriano al potere dalla morte del padre nel 2000. Tregua in Siria per i siriani, ma non per i siriani di un’Europa che non agisce in un conflitto che mette a repentaglio la sua esistenza con il restringimento di Schengen. Mentre la guerra infuria, le 28 teste delle Capitali del Vecchio continente sembrano rispondere a un unico stomaco europeo che innalza muri ad ogni confine di passaggio, uno stomaco che si trova da solo a pagare le conseguenze demografiche ed economiche dei profughi in fuga. Mentre la Russia trova il suo approdo nel Mediterraneo e si allarga, dimostrando di essere il contrario di quella “potenza regionale” con cui ad alta voce la definì Obama, e mentre l’America percorre timidamente la linea di faglia che divide tutte le Sirie, sta per esplodere il tappo al confine greco- macedone. Il varco del Paradiso europeo sbrindellato sta per chiudersi del tutto. L’epica dell’esodo si ferma alla soglia del recinto spinato di Idromeni. È tempo di decisioni difficili soprattutto per quei Paesi che hanno finito di sgranare il rosario delle buone intenzioni come la Germania e ora guardano ai risultati del cessate il fuoco nel Paese di provenienza dei rifugiati. Su questa tregua che Putin ha definito «un esempio mondiale per la lotta al terrorismo», Obama ha dichiarato Oltreoceano: «Non facciamoci illusioni». Già. Ma se non quelle, cosa ci rimane? HEY MERKEL, OPEN THE BORDERS! Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera i rifugiati afghani e iracheni sono bloccati a Idomeni. Tra proteste, scontri con la polizia e molti lacrimogeni. Cronaca dal confine greco-macedone testo e foto di Nicola Zolin - da Idomeni N é i colpi di pistola uditi al confine iraniano, né le urla della polizia greca che gli impedivano di attraversare il confine greco-macedone di Idomeni hanno fermato Javid, afghano di 24 anni. «Abbiamo visto la morte in faccia diverse volte», racconta a Left. «Non potevo rimanere in Afghanistan perché sono Hazara (una minoranza sciita, ndr) e i talebani credono di andare in paradiso se ci uccidono». Javid è in viaggio con la sua fa- miglia verso «l’Austria, la Germania, ovunque ci accettino», dice. Ma alla stazione di Polikastro, a 20km dal confine di Idomeni, Javid e una cinquantina di altri rifugiati sono costretti a resistere alle intimidazioni della polizia, che cerca in ogni modo di farli salire su un autobus diretto ad Atene. Anche con la violenza, quando i giornalisti non vedono. I bambini piangono. Le donne cominciano a urlare. Gli uomini restano uniti e non si fanno convincere dai poliziotti, che a un certo 5 marzo 2016 45 punto, per ingannarli, dicono loro che l’autobus è diretto al confine macedone. In un lampo il gruppo di afghani, zaino in spalla, si incammina lungo la superstrada che conduce alla frontiera: 20 chilometri a piedi con i pochi possedimenti che si sono portati appresso, attraversando le colline verdi e i villaggi dimenticati di queste terre di confine. Qualche ora dopo, le poche speranze rimaste si estinguono davanti alla schiera di poliziotti greciche intimano loro: «Non potete passare». In quei concitati momenti, le forze armate stanno rimuovendo dal campo tutti i rifugiati afghani, indipendentemente dalle loro storie e dalle loro situazioni personali, per caricarli su autobus diretti ad Atene, impedendo alla stampa di avvicinarsi per diverse ore. Chi riesce a resistere occupa i binari del treno e si rifiuta di muoversi. Un diciottenne di Kabul, Umaid, non crede ai suoi occhi: «Questa gente non ha ben chiaro il concetto di umanità», sbotta con il fiatone per la lunga camminata. «Facevo il giornalista e ho fatto un reportage di denuncia contro i talebani. Non avevo altra scelta che scappare per non farmi ammazzare». Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera per i rifugiati non siriani - afghani e iracheni - a Idomeni tornano gli slogan “Open the borders!” e “Help us Merkel!”. 46 Le proteste si placano per alcuni giorni, fino a lunedì, quando un gruppo dei circa 7mila rifugiati al confine ha forzato la barriera al confine. Un impeto di orgoglio intriso di frustrazione. La sensazione generale è che le ultime mosse dei Paesi dell’area siano il preludio alla chiusura definitiva della rotta balcanica. I segnali sono molteplici, come la cor- Javid è in viaggio con la rispondenza avvenuta un mese fa famiglia, diretto «in Austria, tra il presidente della Commissione in Germania, ovunque ci europea Juncker e il primo ministro accettino. Non potevamo sloveno, Miro Cerar. Dallo scambio rimanere in Afghanistan. si evince che l’intenzione dell’Ue I talebani credono di andare era già allora rafforzare i controlli al in paradiso se ci uccidono» confine macedone fino a bloccare il passaggio dei rifugiati. Mercoledì 24 febbraio a Vienna i ministri dei Paesi attraversati dal percorso dei rifugiati si sono riuniti per discutere il futuro della rotta balcanica, senza invitare i rappresentanti del governo greco. Un evento che ha mandato su tutte le furie Atene, che non ha esitato, il giorno successivo, a richiamare il proprio ambasciatore dall’Austria. Tutte le decisioni prese dal governo di Vienna in questi mesi sono state imitate dai Paesi balcanici. Come è accaduto il 26 febbraio scorso, quando l’Austria ha dichiarato di accettare giornalmente 580 richiedenti asilo, 5 marzo 2016 un’azione imitata immediatamente da Serbia, Slovenia e Croazia. La polizia di frontiera macedone, di conseguenza, è stata la prima a bloccare l’accesso ai rifugiati provenienti dall’Afghanistan, un Paese dilaniato da quasi quarant’anni di guerra e invasioni. Dati alla mano: nel 2015, il 21% degli 856,723 rifugiati entrati in Europa attraverso la Grecia provenivano dall’Afghanistan. E, nel 2016, dei 112mila rifugiati entrati in Europa attraverso l’Egeo, su imbarcazioni di fortuna, il 27% sono afghani. Adesso che vengono rifiutati dall’Europa, si aggiungono ai circa 20mila migranti del “club degli indesiderati”, che da settimane sono bloccati nel Paese ellenico senza via d’uscita. I campi di Eleonas ed Elliniko ad Il ministro greco Atene straboccano di persone. Alper le Migrazioni, cuni edifici del porto del Pireo sono Ioannis Mouzalas promette: stati trasformati in centri di prima «Non permetteremo che accoglienza per migranti e richiela Grecia diventi il Libano denti asilo. L’hotspot di Schisto, nei d’Europa, un magazzino di pressi del porto del Pireo, ha già raganime, anche se dovessero giunto la capacità massima di 1.500 arrivare dei finanziamenti» ospiti. A piazza Viktoria, ad Atene, ogni giorno centinaia di migranti (i pochi che se lo possono permettere) cercano soluzioni illegali per varcare i confini attraverso rotte alternative. Il ministro per le migrazioni greco. Da sinistra: migranti iraniani attraversano il bosco per raggiungere illegalmente il confine greco-macedone; migranti afgani rifugiati a Polikastro, si rifiutano di salire su un autobus per tornare ad Atene. In apertura, rifugiati in coda per entrare al confine con la Macedonia, mentre un agente di polizia controlla i loro documenti Ioannis Mouzalas. ha affermato: «Non permetteremo che la Grecia diventi il Libano d’Europa, un magazzino di anime, anche se dovessero arrivare dei fondi». Ma resta difficile pensare a un destino differente per la Grecia. Il relocation program dell’Ue, ideato per trasferire i rifugiati da Grecia e Italia in altri Paesi membri, si è dimostrato fallimentare: dei 160mila trasferimenti previsti ne sono stati effettuati poco più di 600. Ed è la mafia l’industria che sta beneficiando da questa situazione. A un paio di chilometri dal confine di Idomeni, tra le abitazioni diroccate, ogni giorno migranti nordafricani, pakistani e iraniani aspettano la chiamata di uno smuggler (contrabbandieri), per perforare la recinzione del confine ed entrare illegalmente in Macedonia. Spesso questi smuggler corrompono polizia locale e guardie di confine, ma non di rado queste soluzioni falliscono. La polizia macedone controlla attentamente la frontiera e ha già respinto centinaia di migranti entrati illegalmente nel Paese. Per certi altri, il viaggio si traduce in un insuccesso a causa degli scontri tra le diverse fazioni di trafficanti di uomini. L’insano business ha raggiunto indegne dimensioni ma, nelle condizioni attuali, è diventato l’unica via d’uscita dalla Grecia per chi sogna ancora di raggiungere il Nord Europa. 5 marzo 2016 47 48 5 marzo 2016 © Illustrazione Antonio Pronostico Il polo della discordia Lo Human Technopole nell’area ex Expo a Milano e i finanziamenti all’Istituto italiano di tecnologia che lo gestirà fanno scoppiare la rivolta. Così non si salva la ricerca italiana, dicono gli scienziati di Pietro Greco entocinquanta milioni l’anno per 10 anni (1,5 miliardi di investimenti complessivi); 30.000 metri quadri di laboratori in cui lavoreranno 1.500 ricercatori: non c’è dubbio, Matteo Renzi è stato generoso con l’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia, chiamato a gestire lo Human Technopole che nascerà a Milano in parte degli spazi lasciati liberi da Expo 2015 con l’ambizione di fare della città meneghina uno degli hub della ricerca biomedica mondiale. Tanta generosità e tanta ambizione sono state ribadite la scorso 24 febbraio, proprio mentre a Roma Giorgio Parisi, fisico teorico italiano in odore di Nobel, mobilitava la comunità scientifica al grido “Salviamo la ricerca italiana” e otteneva 50.000 firme sotto una petizione lanciata per chiedere più quantità (ovvero più soldi) e più qualità (ovvero migliore governance) per la scienza e per l’università, ormai al collasso. Ma se mette molti soldi e molte speranze nella ricerca, proprio come chiedono Giorgio Parisi e 50.000 altri ricercatori italiani, perché l’annuncio di Renzi è stato accolto come uno schiaffo in faccia dalla gran parte della comunità scientifica - come documentano, tra mille altri, gli interventi pubblici e per certi versi clamorosi, di Elena Cattaneo, ricercatrice in biomedicina e senatrice a vita, e di Giovanni Bignami, astrofisico tra i più noti del nostro Paese e civil servant come presidente, in un recente passato, prima dell’Agenzia spaziale italiana poi dell’Istituto nazionale di astrofisica? Per rispondere a questo apparente paradosso, conviene porsi almeno tre altre do- mande. Una relativa alla ricerca italiana - perché è al collasso? - e due relative allo Human Technopole: perché a gestirlo è stato chiamato l’Iit e perché lo si vuole realizzare a Milano? La ricerca scientifica in Italia è al collasso sia per storiche ragioni strutturali, sia per più contingenti decisioni politiche. La ragione di fondo è che da decenni mancano gli investimenti dell’industria privata. Per fare un esempio: a parità di fatturato, un’industria italiana investe in R&S (ricerca e sviluppo) l’80 per cento in meno di una sorella americana. Le industrie in Corea del Sud investono il 3,6 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) del Paese in ricerca e sviluppo tecnologico: quelle italiane sette, se non otto, volte meno (lo 0,45 per cento del Pil). In questa forbice vanno ricercati i motivi della rapidissima crescita economica del Paese asiatico e dell’ormai trentennale declino dell’Italia. Già, perché la ricerca - in quell’economia della conoscenza che produce i due terzi del Pil mondiale - è la leva principale della ricchezza di una nazione. Ma la ricerca in Italia è al collasso anche per contingenti e recenti decisioni politiche. Gli investimenti pubblici sono diminuiti del 32 per cento tra il 2008 e il 2014, passando da 4,1 a 2,8 miliardi di euro. A questi si aggiungano i tagli all’università, che è uno dei luoghi della ricerca: la spesa pubblica è diminuita del 9 per cento nello stesso periodo, passando da 8,7 a 7,9. Nel 2015 la situazione è peggiorata sia per la ricerca (un taglio ulteriore del 6,1 per cento rispetto all’anno precedente) sia per l’università (-1,8 per cento). 5 marzo 2016 49 Milano, 24 febbraio 2016. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi presenta lo Human Technopole che sorgerà nell’area ex Expo Con i fondi per il polo biomedico milanese l’Iit di Genova gestirà in tutto 250 milioni di euro l’anno. Per la ricerca universitaria invece sono stanziati 92 milioni in tre anni Una condizione di collasso, appunto: perché con questi soldi si riescono a pagare a mala pena gli stipendi e le bollette, ma non si riesce investire neppure un euro in ricerca e/o in alta formazione. Questa mancanza di risorse non ha impedito che i ricercatori italiani (4,9 ogni mille occupati, contro i 10 della Francia o i 13 della Corea) diventassero tra i più produttivi al mondo: pochi, ma buoni. Ma adesso abbiamo raggiunto il limite, perché se collassa la ricerca, il Paese non uscirà mai dalla sua condizione di trentennale declino economico. Ecco perché l’appello di Giorgio Parisi si scrive “Salviamo la ricerca italiana” e si legge “Salviamo l’economia italiana”. La decisione di Matteo Renzi di realizzare lo Human Technopole e di investire 150 milioni l’anno nelle scienze applicate alla biomedicina va, dunque, nella giusta direzione. Ma sul metodo c’è molto da ridire. I punti critici sono diversi. Il primo riguarda l’Iit, un centro di ricerca pubblico di diritto privato che ha sede a Genova. L’Iit è stato fondato nel 2006 ed è diventato operativo nel 2009 per fare ricerca di base e applicata, con una dotazione di 100 milioni di euro l’anno. Fin dall’inizio è diretto da uno scienziato di gran valore, Roberto Cingolani. Ma, come sottolinea Giovanni Bignami, l’Iit ha una vocazione più nell’ambito della robotica e delle nanotecnologie, che della biomedicina. Sebbene vanti competenze anche in questo campo. Elena Cattaneo, invece, sottolinea come lo statuto giuridico consente all’Iit di seguire la prassi della “chiamata diretta via telefono”, piuttosto che quella della pubblica “peer review” utilizzata dalla comunità scientifica per valutare prodotti e progetti. Il che sottrae le sue scelte alla valutazione critica dei colleghi. Così la qualità della ricerca, sostiene Elena Cattaneo, non è assicurata. Inoltre l’Iit funziona non solo come centro di ricerca, ma anche come agenzia di finanziamento della ricerca, pur non avendo un chiaro mandato in tal senso. Di qui un’ulteriore critica: l’Istituto di Genova ha accantonato in questi anni 500 milioni di euro, soldi non spesi sottratti a un sistema in crisi di asfissia. Con la dotazione per lo Human Technopole, l’Iit si troverà a gestire 250 milioni di euro l’anno: poco meno del 10 per cento del budget che lo stato italiano mette a disposizione per la R&S nel nostro Paese. Un’enormità. Basti pensare che per la ricerca universitaria i soldi a disposizione in questo momento, al di là del fondo ordinario 50 5 marzo 2016 che serve per le spese correnti, sono 92 milioni in tre anni. In pratica 1.500 ricercatori dello Human Technopole avranno una dotazione cento volte superiore a quella dei loro colleghi universitari. Ecco perché questi ultimi considerano uno schiaffo alla ricerca pubblica l’annuncio di Renzi. Ma c’è una terza critica possibile all’iniziativa di Matteo Renzi: la collocazione dello Human Technopole a Milano. La città lombarda, sia chiaro, ha tutti i requisiti. Ha una grande tradizione e un grande presente nella ricerca, in particolare in quella biomedica. Tuttavia, ce ne sono altre di città nel Paese che potrebbero ambire a giusta ragione a investimenti in ricerca di analoga portata. Prendiamo a esempio Napoli, la capitale del Mezzogiorno. Con cinque università, la grande area di ricerca del Cnr, la Stazione Zoologica “Anton Dohrn”, i centri Enea, l’Osservatorio Vesuviano (geofisica) e l’Osservatorio di Capodimonte (astrofisica), il Cira (il Centro italiano di ricerche aerospaziali) e altro ancora, la città partenopea vanta una “massa critica” di ricerca del tutto paragonabile a Milano. Mentre ha un bisogno di investimenti pubblici ancora maggiore. Addirittura drammatico. Sono i numeri a dirlo. Quelli della deriva documentata dallo Svimez: tra il 2008 e il 2014 la produzione di ricchezza nel Sud è diminuita del 13 per cento, quasi il doppio del Centro-Nord (-7,4 per cento). Nello stesso periodo la crisi industriale si è trasformata in un tracollo: -34,8 per cento, quasi tre volte maggiore di quella del CentroNord (-13,7 per cento). Ma la frana maggiore è © Sergio Oliverio/Imagoeconomica I ricercatori: «Basta, siamo stati troppo zitti» «D proprio quella degli investimenti: tra il 2008 e il 2014 sono diminuiti del 59,3 per cento (contro il -17,1 per cento del Centro-Nord). Di fatto l’Italia ha smesso di investire nel Mezzogiorno lasciandolo, appunto, alla deriva. Di questo abbandono è parte integrante la ricerca. L’Istat (rapporto Bes) riporta che la spesa in R&S nelle regioni del Sud è ben inferiore all’1 per cento del loro Pil; due (Calabria e Basilicata) stentano a raggiungere persino lo 0,5 per cento e solo la Campania eguaglia a mala pena la media nazionale (1,2 per cento). Ancora più drammatico, se possibile, il quadro dell’alta formazione. I giovani meridionali stanno fuggendo via dall’università. Negli ultimi dieci anni le immatricolazioni sono diminuite dell’11 per cento al Nord, ma dal 30 per cento al Sud (con una punta del 40 per cento nell’anno accademico 2014/15). Il Mezzogiorno ha un numero di laureati nella fascia di età compresa fra 19 e 34 anni pari al 18 per cento: sei punti sotto la media nazionale che pure è la più bassa tra tutti i 40 Paesi Ocse. E la forbice tende ad aumentare. Quella del Mezzogiorno è, dunque, anche una deriva cognitiva. Gli investimenti in ricerca e alta formazione sono gli unici che possono tentar di recuperare il Sud alla deriva. Di qui la domanda. Perché gli investimenti “petalosi” solo a Milano e non anche a Napoli, magari nell’ambito dell’aerospazio o della robotica? La città partenopea ha una “massa critica” nel settore ricerca e alta formazione analoga a quella di Milano, ma un bisogno ben maggiore di iniezioni di soldi e di speranza. Un’altra critica al progetto annunciato è la sede. La scelta di una città come Napoli, ricca di università e centri di ricerca, avrebbe rappresentato una chance in più per il Sud, ormai alla deriva obbiamo fare un animale a sei gambe e marciare tutti insieme». Giorgio Parisi, fisico teorico e artefice della petizione “Salviamo la ricerca” su Change.org, conclude così l’assemblea del 25 febbraio nell’aula Amaldi della facoltà di Fisica a Roma. Le sei gambe sono tre dell’università - gli studenti, il personale amministrativo e i docenti - a cui aggiungere i tre settori della scuola, elementare, media e superiore. «I problemi che abbiamo all’università sono gli stessi della scuola e noi come universitari siamo stati zitti negli anni dei tagli all’istruzione», dice il professore. Uscire dal tunnel del silenzio, allargare l’orizzonte della protesta e lanciare proposte: è questo il cambio di paradigma per i ricercatori italiani, abituati da anni a subire le decisioni politiche (soprattutto nei tagli e nel blocco del turn over) senza opporre una reazione forte. In questo senso li aveva bonariamente rimproverati anche il “padre” della comunicazione scientifica, Piero Angela, accorso all’assemblea romana. «La ricerca è muta, è poco popolare ed è anche poco percepita dai politici che tendono ad avere dei risultati subito. Ci vuole più comunicazione». Invece la ricerca di base, fondamentale per lo sviluppo del Paese, nota l’economista Alessandro Roncaglia, ha bisogno di una programmazione di medio e lungo termine. Ma tutto questo va fatto conoscere. Così come vanno denunciate le cause della “fuga dei cervelli”: la debolezza del sistema italiano - università ed enti di ricerca - penalizzato dai tagli, con bandi emanati all’ultimo momento e talvolta schizofrenici e con l’incertezza del rifinanziamento dei progetti. «Quando si perdono generazioni di scienziati, ricostruire è difficile», aggiunge in un contributo video Fabiola Gianotti, alla guida del Cern di Ginevra. Alla fine viene rilanciata la proposta di una Agenzia unica per la ricerca ma si fa strada - un po’ timidamente, ma chissà - anche l’idea (lanciata da Francesco Sinopoli, Flc Cgil) del blocco dell’inizio dell’anno accademico. Donatella Coccoli 5 marzo 2016 51 Una questione di sensibilità Il poeta Valentino Zeichen pubblica il suo primo romanzo. E racconta la sua passione per l’arte. A cui Marcel Duchamp e Damien Hirst hanno tirato un brutto scherzo «H di Simona Maggiorelli o iniziato a leggere con assiduità in riformatorio: c’era una biblioteca prevalentemente di libri d’autore», racconta il poeta Valentino Zeichen. «Costituiva un potenziale conoscitivo disinnescato, dato che la maggior parte degli internati erano analfabeti». Fu così che «avventurandomi per caso lungo certi scaffali, feci degl’incontri affascinanti: Salgari, Tolstoj, Dostoevskij, Swift. Leggevo intuitivamente e cominciai a fare nessi fra i libri». Così si presentava Zeichen nel 1975 nel volume Il pubblico della poesia curato da Berardinelli e Cordelli per Castelvecchi. Nato nel ’38 a Fiume e approdato a Roma nel ’50, scappando da una famiglia che era quasi peggio del riformatorio, Zeichen da allora vive in grandi ristrettezze nella Capitale, scrivendo, soprattutto, poesie. «Penso che il poeta sia un servizio pubblico, che debba essere accessibile a tutti», dice. Respingendo però l’idea di chiedere un aiuto. «La legge Bacchelli equivale/a un premio Nobel della miseria/anche se salva tanti finti artisti dalla miseria», annota in Aforismi d’autunno. La misura breve, aforistica alla Karl Kraus; l’espressione ironica, fulminante; una scrittura icastica e leggera, fanno da sempre la cifra letteraria di Zeichen. Che dopo molte raccolte di versi, ora, in età matura, esordisce nel 52 romanzo con La sumera (Fazi). Il 19 marzo Zeichen parlerà con Aurelio Picca e Renato Minore a Libri Come di questo testo che celebra la bellezza di una Roma dove gli dei sono atei. E quella delle ragazze incontrate nei pomeriggi d’estate nei musei. («In fondo alla scalinata si rese conto che quel volto apparteneva all’arte dello scolpire e non del dipingere»). Sempre disponibile al dialogo e all’incontro Zeichen ci accoglie dicendo: «Abbiamo tutto il tempo, il mio è a perdere, scorre». Perché un romanzo dopo una vita da poeta? A pranzi e cene ho ascoltato molte conversazioni. Fondamentale per scrivere romanzi è un vero ascolto. È importante capire, sentire, il senso del ritmo delle battute, capire quando una conversazione crolla e perché. Gli scrittori anglosassoni sono bravi nei dialoghi proprio perché stanno attenti a quello che gli altri dicono. La risposta è veloce, a tempo. In passato ho scritto radiodrammi, ho una certa praticaccia. È in parte autobiografico questo ritratto di Roma anni Ottanta? Forse sì e poi c’è la Roma di allora, certi scenari, problemi climatici, di clima culturale. Si diverte a prendere in giro i manierismi delle avanguardie; il teatro cata5 marzo 2016 combale, in antri bui con sedie scomode, per dirla alla Ennio Flaiano. C’è una certa teatralità tipica di quegli anni, una teatralità soprattutto gestuale, non dialogica. Ma soprattutto c’è l’arte. Sì, l’ossessione dell’arte. Uno mette nei romanzi o nelle pièce ciò che conosce meglio. Una passione che innerva anche il linguaggio? Come no? Lo nutre. La felicità dei romanzi sta in quello che uno ama e sente. D’un tratto mi sono reso conto che oggi tutti sono molto ragionevoli, molto abili nel ragionamento. Accade socialmente, ma io dico la sensibilità dove è finita? È morta? Le persone non sono più sensibili? Neanche la parola viene più usata. “Sensibilità” sembra una parola assolutamente scomparsa, quasi fosse psicotica, qualcosa di malato da rifiutare. Mancano di fantasia le trovate di artistar come Hirst con il suo teschio di diamanti? Mi viene da ridere quando penso a Damiem Hirst. Gli ho dedicato il testo teatrale Apocalisse dell’arte, che ho scritto per Le Edizioni della Cometa. Lei sa che al Museo della scienza di Vienna c’è il varano di Comodo? In quel testo ho immaginato che Hirst si presenti all’ingresso con i documenti per trasportarlo al Kunsthistori- Nell’ambito di Libri Come, dal 18 al 20 marzo all’Auditorium di Roma, il poeta Zeichen presenta La sumera (Fazi); il 19 marzo, nello spazio Garage alle ore 16 con Renato Minore e Aurelio Picca. Fra i molti volumi pubblicati da Zeichen ricordiamo Casa di rieducazione (Mondadori) e Pagine di gloria (Guanda ) sches Museum che sta davanti a quello della scienza. Così, con un trasloco, crede di aver risolto la faccenda e di aver cambiato di segno quel meraviglioso oggetto imbalsamato. Hirst lo ha fatto con lo squalo in formaldeide... Esatto! Si potrebbe fare, ho immaginato io, anche con il varano. Sarebbe una cosa pazzesca. Una lezione sull’assurdità dell’arte da Duchamp in poi. Portando l’orinatoio al museo ci ha fregato? Beh, certo, Duchamp ha fatto un bello scherzo a tutta l’arte successiva a lui. Portando qualunque cosa, qualsiasi oggetto, nello spazio museale, lo distruggono. Non c’è più l’aura dell’arte, ma solo la diffamazione di essa. La sensazione è questa... Come vede io rincorro sempre la sensibilità, la mia disperazione è un po’ questa. La morte della sensibilità, che non c’è più. Oltre alla sensibilità ciò che conta per il poeta è la fantasia, che lei sembra distinguere dall’immaginazione, parlando di Shakespeare. È così? Io dico che vanno a braccetto. Esiste un’immaginazione concettuale e c’è una fantasia che apre al possibile. È ciò che non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è l’imprevedibile… di ingenuità bucolica, negava il valore di quello che tutti desideravano, pretendeva che non lo desiderassero. Ma non puoi continuare a zappare se c’è il trattore, non puoi pretendere che la gente usi la vanga o l’aratro tirato da un cavallo, da una bestia da soma, se sono state inventate le macchine. Dunque questo suo vivere ai margini, questa sua vita un po’ bohémien, senza agi, non è dettata anche da un rifiuto della modernità? Assolutamente no! Io sono modernissimo. Sono per la tecnica. Una volta si è definito un ribelle, cosa significa per lei questa Mi colpisce e mi commuove la lingua parola? con cui Shakespeare riusciva a esprimere Forse un ribelle individualmente. Significa aveun ventaglio straordinario di sentimenti, di conflitti e di riflessioni re una propria opinione. Avere punti di vista diversi Al fondo cosa la colpisce di più in Sha- da quello che è il pensiero corrente. Per kespeare? esempio non mi sono mai occupato di Com’è possibile che con un inglese di politica, non ho mai sposato un partito. quattrocento anni fa possa produrre quel Sono un impolitico, come diceva Thomas ventaglio di sentimenti, di conflitti e an- Mann, non perdo tempo in giochi d’inche di grandi riflessioni? Questo è vera- gegneria sociale, come ha fatto invece la mente il meraviglioso. Evidentemente gran parte dei miei coetanei, che hanno l’inglese oggi è una lingua funzionale pie- perso la testa intorno a questo problema na di neologismi adatti a questo scopo. ma che forse non spettava loro. Però lui, con una lingua seicentesca, in La poesia come ricerca di un senso più formazione, riesce a dire un mondo. Ecco profondo è una forma di ribellione al la meraviglia, che commuove. linguaggio razionale e ordinario? Tra i poeti italiani del Novecento? Sì la poesia può far capire degli aspetAmo i versi di Montale. Ma trovo anche ti della vita. Ma anche della società. In che una poesia come “La pioggia nel pi- questo senso io sono un poeta ironico, neto” di D’annunzio sia inimitabile, per- con un certo humour. Questo mi viene ché è costruita con un ritmo particola- abbastanza riconosciuto dalla critica. In re… È costruita con l’acqua… questo c’entra anche il fatto che ho una Invece non ama molto Pasolini, mi par vita particolare, sono profugo, fiumano, di capire. vivo a Roma, le sono fedele perché mi ha Non mi interessa molto, le sue problema- accolto. In un certo senso me la sono cavata, ho fatto diversi lavori, sono uno che tiche non mi interessano. non parte da situazioni di privilegio. Anzi. Era un moralista? Sì, forse, nel senso che avrebbe voluto pri- Adesso come vive la candidatura a un vare del progresso futuro i giovani. Dopo premio ufficiale come lo Strega? l’Unità d’Italia aspiravamo a diventare un Come vivo questa cosa? A essere del tutPaese moderno, sviluppato. Con questa to franco, qualunque sia l’esito... con una sua visione antimoderna, per una sorta buona dose di indifferenza. 5 marzo 2016 53 54 5 marzo 2016 Il romanzo a fumetti dell’adolescenza In Sputa tre volte, il racconto “ordinario e universale” dell’adolescenza di Guido e dei suoi amici assume il respiro del romanzo. Tra tavole e balloon, l’appassionante inno alla vita di Davide Reviati di Raffaele Lupoli n gruppo di amici cresce insieme in una periferia che è quasi campagna. Al tecnico industriale si susseguono brutti voti e bocciature. La vita è fuori: tra bar, giri in macchina, scazzottate e “mischioni” di alcol e droghe leggere. Davide Reviati ambienta in un luogo indefinito tra Ravenna e Parma, le sue due città, il romanzo a fumetti Sputa tre volte, arrivato a sei anni di distanza - «gli ultimi due di full immersion», ci racconta - da un’altra opera che ha riscosso molti consensi: Morti di sonno. Stavolta al centro della narrazione c’è l’adolescenza, con i suoi sogni e le inquietudini. «Mentre disegnavo mi è venuto da pensare che stavo raccontando quel tassello che in Morti di sonno mancava. Lì c’era una cesura tra l’infanzia e l’età adulta che inconsciamente ho colmato qui, raccontando la prima giovinezza». Un racconto che sa di vita vissuta: Guido, il personaggio narrante, si dedica alla pittura e al disegno dopo un «36 e due figure» alla maturità, proprio come Reviati. Ma che ha l’ambizione di restituire una storia universale, di andare «al di là del luogo e del tempo» pur descrivendo il quotidiano. «Il tentativo non è quello di raccontare la verità storica - spiega -, legata ai fatti per come si sono svolti, ma di cercare l’autenticità della storia. Se qualcuno mi chiede se i fatti sono realmente accaduti gli dico di no, ma se mi chiede se è tutto vero gli dico di sì». Una verosimiglianza sostenuta, paradossalmente, dall’inserto di numerose scene fantastiche, spesso legate ai sogni del protagonista. Uno sfogo all’interiorità, alle paure e alle aspirazioni dei personaggi, reso magnificamente dalle tavole. Basta guardare quelle in cui Guido, dopo aver fumato e bevuto, vomita un intero stormo di uccelli neri o, più avanti, a quelle in cui sfrecciando in bici trasforma i pensieri in volatili che gli cingono la testa. Allo stesso modo, nel racconto neorealista delle bravate e degli incontri-scontri con gli Stancic - gli zingari accampati accanto a un vecchio casolare nelle campagne frequentate dai ragazzi -, entrano “eroi a cavallo” come John Wayne. «Era il mito di quelli che, come me, sono cresciuti con i film western» spiega il disegnatore. «È un personaggio forte, non per forza acuto, anzi. Però la sua non è un’ottusità cattiva: è quello zio che non ti inquieta perché ha un cuore e non è giudicante. Nell’immaginario di un ragazzino fa da contraltare alla figura paterna». Il padre del protagonista (qui, riconosce l’autore, il tratto è autobiografico), ma anche quello adottivo del suo amico Grisù, sono infatti figure severe, quasi arcaiche, che pur comparendo più volte nelle tavole si caratterizzano per la loro assenza, per il vuoto che lasciano nelle vite dei figli. In questa autobiografia «molto romanzata» trova spazio anche la riflessione sul rapporto con il diverso, con l’estraneo. È l’incontro con una giovane zingara “fuori di testa”, Loretta, l’unica figlia femmina degli Stancic, ad aprire uno squarcio nella narrazione. «Questa persona mi era rimasta 5 marzo 2016 55 in testa fin da quando ero molto giovane», spiega il fumettista. Traendo spunto dalla sua storia, Sputa tre volte racconta da una parte i «selvaggi ladri e senza dio incapaci all’adattamento sociale» e dall’altra il Porrajmos e la follia della persecuzione nazista. «Ho sentito l’urgenza di introdurre nella narrazione alcune informazioni storiche, per inquadrare quelle persone nell’alveo delle generazioni che le hanno precedute. So che mi sono esposto al rischio «Mai visto un verde più di alterare il ritmo del racconto, o di verde», dice il protagonista far pendere il libro dalla parte degli guardando un campo. zingari, ma non potevo non farlo» E Reviati commenta dice. «La questione del Porrajmos, sorridendo: «Ricostruire dell’Olocausto dei rom, non è così il colore con il bianco conosciuta come credevo. Mi intee nero è una magia che se ressava molto far entrare in una stola raggiungi non è male» ria a fumetti il racconto dei lager italiani, perché arrivasse a chi non sa». L’appendice della graphic novel è dedicata a Papusza (che vuol dire “bambola”), la poetessa zingara nata ai primi del Novecento a Lublino, in Polonia. Da bambina aveva imparato a scrivere e leggere di nascosto e a 16 anni fu venduta a un anziano zio e costretta a sposarlo. Il matrimonio durò poco e a 26 anni sposò un 42enne musicista di un’orchestra itinerante. Dopo la Seconda guerra mondiale, lo scrittore e poeta Jerzy Ficowski, 56 5 marzo 2016 perseguitato dal regime comunista, si rifugiò nel campo di Papusza e tradusse in polacco i suoi versi nella lingua dei rom. La notorietà della poetessa divenne in breve tempo la sua condanna, attirando su di lei l’ostilità della sua gente. Quando fu dichiarata impura ed espulsa dal clan, bruciò le sue poesie e non scrisse più. «Se non avessi imparato a leggere e a scrivere, povera sciocca, forse sarei stata felice», afferma nelle tavole. Passò gli ultimi anni in povertà e in preda alla malattia mentale. Reviati ha deciso di mettere “su tavola” la sua storia anche per la straordinaria analogia con il suo personaggio femminile, Loretta. «Quella di Papusza è una storia ricca di elementi elementi simbolici e interessanti» racconta. «E poi dialoga in maniera straordinaria con la mia: la follia di una donna che parla con gli uccelli e con gli alberi, anche lei emarginata dalla sua stessa gente, l’incontro con i gagi (i non rom, ndr), che anche quando sono mossi dalle migliori intenzioni non riescono a non fare danni...». Ancora una volta un racconto al tempo stesso ordinario e universale, in un libro molto concentrato sull’indagare la morte: «Trovo che si sia perso ogni tipo di ritualità rispetto a questo evento, e m’interessava indagare su come lo trattano i rom, perché il loro culto dei morti è analogo a quello “antico” dei nostri nonni», racconta Reviati. Ma questa I Fumetto italiano in rassegna a Roma “romanzi disegnati” sono al centro della mostra Fumetto italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnati inaugurata il 27 febbraio al Museo di Roma in Trastevere. La rassegna, che si può visitare fino al 24 aprile, è composta da quaranta romanzi grafici scritti e disegnati da altrettanti autori. Si parte da Una ballata del mare salato, capolavoro di Hugo Pratt, del 1967, in cui appare per la prima volta Corto Maltese, e si prosegue via via nei decenni successivi con opere come Sheraz-De di Sergio Toppi, Le straordinarie avventure di Pentothal di Andrea Pazienza, Fuochi di Lorenzo Mattotti, Max Fridman di Vittorio Giardino, Cinquemila chilometri al secondo di Manuele Fior, Dimentica il mio nome di Zerocalcare. Le 300 tavole originali esposte raccontano il lavoro di autori come Altan, Marco Corona, Elfo, Guido Crepax, Gabriella Giandelli, Vittorio Giardino, Gipi, Igort, Magnus, Milo Manara, Attilio Micheluzzi, Leo Ortolani, Tuono Pettinato, Davide Reviati, Filippo Scozzari, Davide Toffolo, Pia Valentinis, Vanna Vinci. La mostra indaga generi narrativi diversi tra loro - romanzi d’azione, psicologici, biografici o storici, romanzi satirici o tratti da classici della letteratura - ma che, grazie al percorso espositivo, risultano suggestivi capitoli di un lungo racconto fatto di fatto di tavole e vignette. Info: www.museodiromaintrastevere.it storia è anche un incitamento a vivere appieno la vita, istante per istante. «Tempo fa lessi un’intervista in cui Manuel Guibert, autore di La guerra di Alan e L’infanzia di Alan, diceva che la vita va celebrata. Questa cosa mi è rimasta in testa, perché ho messo a fuoco che era anche la mia intenzione di narratore». Allora la penna costruisce texture che evidenziano i diversi toni di grigio - le bolle dei ragazzi che si tuffano in mare, la pioggia che si fa sempre più scrosciante, le chiome degli alberi, addirittura i colori. «Mai visto un verde più verde» dice il protagonista guardando un campo d’erba alta. E il Reviati pittore commenta sorridendo: «Ricostruire il colore con il bianco e nero: è una magia che se uno la raggiunge non è male». Poi torna serio: «Credo di aver lavorato più che per forme, per masse. Morti di sonno ha una sua natura di disegno che è venuta su in maniera frenetica. Avevo fretta di arrivare alla fine, che non sapevo quale fosse. Avevo paura di non riuscire a vederla, perché passavo un momento particolare. Avevo paura di morire prima» confessa. Per Sputa tre volte è andata diversamente: «Il disegno ha avuto tutto il tempo di depositarsi in maniera più goduta. Sento di aver disegnato di più, anche se credo ci sia una coerenza che credo sia quella del nervosismo». Così la pittura si è fatta fumetto, il fumetto romanzo, e il romanzo inno alla vita. IN BREVE Sputa tre volte (560 pp., 25 euro) è il secondo romanzo grafico di Davide Reviati, uscito per Coconino press a sei anni di distanza da Morti di sonno. Tradotto in più lingue e premiato in Italia e all’estero, questo fumetto racconta di sei ragazzini che vivono all’ombra del petrolchimico Eni di Ravenna. 5 marzo 2016 57 I selvaggi dei Balcani e il loro rock illegale Vengono da diversi Paesi dell’ex Jugoslavia e usano l’umorismo per far riflettere. L’Europa? Un mostro burocratico. La guerra? Terribile, ma il dopoguerra lo è altrettanto. I Dubioza kolectiv si presentano di Tiziana Barillà ono in sette. Anarchici, irriverenti e armati fino ai denti di energia e determinazione. I Dubioza kolectiv arrivano in Italia con un tour (Torino, Trieste, Bologna, Firenze) e un disco nuovo, Happy Machine. Al suo interno trova posto persino un riarrangiamento di “24.000 baci” di Adriano Celentano, insieme a Roy Paci, e il sempreverde Manu Chao. Almir Hasanbegovi, Adis Zveki, Brano Jakubovi, Vedran Mujagi, Armin Bušatli, Orhan Maslo Oa e Senad Šuta si definiscono provocatoriamente i «selvaggi dei Balcani». Così, secondo loro, li vede l’Europa. E l’Europa, vista dai Balcani, com’è? Glielo abbiamo chiesto. «Veniamo da Bosnia, Serbia, Slovenia e Croazia. Alcuni di noi sono cittadini Ue e altri no… da più di 10 anni lavoriamo per superare queste “differenze insormontabili”!», provocano. Ho ascoltato l’album e… boom! Quanta energia! Beh… veniamo da una zona molto “ricca” di risorse di energia elettrica... (scherzano). E quando questa energia alimenta grandi amplificatori per chitarra e potenti computer - con ogni tipo di software illegale installato - si può ottenere come risultato un potente album rock! Come posso rendere l’idea a chi non vi ha mai ascoltati? Datemi una mano. 58 Il nostro sound è davvero difficile da descrivere, anche perché non abbiamo mai provato a identificarci in una specifica nicchia di genere. Ci concentriamo di più sul messaggio e sull’idea che cerchiamo di promuovere, e vogliamo trovare il miglior sottofondo musicale ai nostri testi. Ecco perché il suono è così eclettico. Il solo elemento costante nella nostra musica è il tentativo di mantenere un autentico balkan sound, in modo da chiarire subito a chi ci ascolta da dove veniamo. Libertari e irriverenti, prendete di mira le icone del web o chi le rende tali? Cerchiamo di dimostrare quanto sia ridicolo tutto questo hype che si sviluppa intorno ad alcune storie di poco conto e alle immagini che vengono fortemente promosse dai media. Siamo bombardati da migliaia di inutili “breaking-news stories”, i dettagli sulla vita delle celebrità e i consigli sul lifestyle. È difficile distinguere le informazioni importanti dal rumore. E può capitare di perdersi la storia dei profughi che annegano nel Mediterraneo, o il voto del Parlamento sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, perché c’è un nuovo episodio del Grande Fratello (o di uno spettacolo simile) in onda nello stesso momento. Ne serve tanto di humor per andare avanti... Se usiamo lo humor siamo in grado di raggiungere molte più persone e di raccontare qualche storia importante. Alla gente non piacciono le prediche e che si dica loro cosa fare. L’umorismo: è questo il modo più efficace per farli riflettere sui 5 marzo 2016 UN VIDEO VIRALE Ancora una manciata di click e il singolo dei Dubioza kolective, “Free mp3”, avrà raggiunto la soglia di 4 milioni di visualizzazioni su YouTube. Nel video (guardatelo, è davvero divertente) succede di tutto. La band invade la Rete e “manomette” le pagine facebook dei big del web (lo slogan “Hope” di Obama diventa “Drone”), e poi irrompe su Amazon per incollare i bollini “free” sui prodotti in vendita. Dietro l’ironia? Un omaggio a Edward Snowden e un inno contro il copyright. © Goran Lizdek/Promo Photo problemi che altrimenti le persone ignorano. «Sono stufo di essere europeo solo su Eurosong», sbottate in una delle vostre canzoni. Viviamo nel Continente europeo ma non siamo considerati veri europei. Siamo “i selvaggi dei Balcani”, “gli ultimi della classe”, un’area che “produce più storia di quanto non sia in grado di gestire”. Non soddisfiamo gli elevati standard dei “perfetti” cittadini europei di Bruxelles. Poi, però, se guardi le reazioni vergognose dell’Ue agli Con lo humor siamo in arrivi dei rifugiati e dei migranti che grado di raggiungere molte provengono da Medio Oriente e Afripiù persone. E raccontare ca, ti capita di vedere che i Paesi più loro qualche storia ricchi sequestrano gioielli e oggetti importante. Alle persone di valore ai rifugiati. E intanto assinon piacciono le prediche stiamo all’ascesa dell’isteria fascista. e che si dica loro cosa fare L’Europa Umanista è degenerata in un mostro burocratico che si preoccupa solo di statistiche, dei bilanci e degli interessi finanziari dell’1% più ricco. Cantate la crisi dei profughi e le proteste di Gezi Park a Instabul. Per chi vive nei Balcani quant’è faticoso essere europei? È sempre difficile definire l’identità europea per le persone che vivono al di fuori dell’Unione. E la maggior parte delle persone ha un senso distorto di ciò che è l’Europa oggi. L’adesione e l’integrazione nella Ue si presentano a noi come l’ultima soluzione a tutti i nostri problemi, e i nostri politici usano questo argomento come “artiglieria pesante” nei loro discorsi pre-elettorali: “Quando diventeremo un membro della Ue, tutti i nostri problemi saranno risolti”. Questa immagine fiabesca è molto lontana dalla verità, ma è conveniente quando non hai nulla da perdere. Ve lo chiedo brutalmente: che resta della guerra nei Balcani oggi? Ciò che resta è un Paese con una Costituzione molto malfunzionante che è stata concepita come mezzo per fermare la guerra. Un dopoguerra nel quale siamo ancora bloccati da 20 anni. Nel frattempo, abbiamo vissuto la peggiore versione di “transizione verso un’economia di mercato” che si possa immaginare, e come risultato abbiamo un piccolo numero di politici/criminali/ oligarchi che possiedono le aziende più importanti e le risorse naturali, mentre il resto della popolazione soffre. La guerra è stata una terribile esperienza, ma questo dopoguerra è altrettanto orribile. Nel vostro disco c’è anche un omaggio a Edward Snoden: “Free Mp3” è un inno contro il copyright. Perché vi siete intestati questa battaglia? Il modello di proprietà e copyright che l’industria della musica tradizionale sostiene è vecchio e non funziona più nell’era digitale, deve essere ridefinito. È un sistema che ha sempre protetto le grandi aziende che hanno guadagnato un sacco di soldi mentre ai loro artisti lasciavano solo gli avanzi. E proprio adesso che finalmente questo sistema viene messo in discussione, gli artisti dovrebbero combattere contro il cambiamento?!? 5 marzo 2016 59 LIBRI Dal web alla carta. La nuova collana di Succedeoggi Per iniziativa di Fano torna in libreria il saggio di Ginzburg su Dostoevskij di Filippo La Porta U n webmagazine culturale tra i più vivaci, Succedeoggi - erede delle riviste culturali per le quali non c’è più spazio in libreria - esordisce come casa editrice con tre titoli: Burri e altri amici di Leone Piccioni, Saggi su Dostoevskij, di Leone Ginzburg (intro U. Soddu), Breviario ad uso dei politici del Cardinale Mazarino (intro U. Ambrosoli ); si possono richiedere a Succedeoggi al prezzo di cinque euro. l sito, creato da Nicola Fano, Gloria Piccioni e Anna Camaiti Hostert nel 2013, ospita commenti, recensioni, racconti e reportage. Ma vediamo i tre libretti, di grafica sobria ed elegante: si tratta di altrettanti preziosi repechage di opere ormai irreperibili. Il breviario seicentesco di Giulio Mazarino, imparentato più con l’arte della dissimulazione di Torquato Accetto che con Machiavelli, contiene massime e consigli attualissimi per gestire il potere: «simolatore è colui, che or biasima, or commenda una stessa azione, secondo più gli torna, o gli cade in taglio». Leone Piccioni, ex dirigente Rai e critico letterario, ci offe un ritratto straordinario dell’amico Alberto Burri e paragona i suoi sacchi bruciati alla “Ginestra” di Giacomo Leopardi, vedendo in essi non solo l’umanità desolata, piagata, ma «uno slancio di amore e solidarietà» (curioso: Piccioni era democristiano, mentre i comunisti Terracini e Trombadori, quando un sacco venne esposto alla Galleria d’arte moderna di Roma, fecero una interrogazione parlamentare che chiedeva quanto fosse costata al museo «quella vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio»!). Leone Ginzburg sottolineava che Dostoevskij, che pure rappresentò trasgressioni, atti estremi, personaggi tenebrosi, situzioni-limite, «non è uno scrittore decadente». Perché? Perché non chiama il male bene. Il “demone” Stavrogin, capo carismatico di una setta terroristica, non viene da lui presentato come eroe romantico o uomo esemplare. E anzi la sua indifferenza morale, vagamente superomistica, lo porta a una tragica indifferenza emotiva: voleva provare piaceri sempre più «complicati e morbosi» ma alla fine non prova più niente. TEATRO La bella favola del paese di Gyula Racconto yiddish e atmosfere cechoviane nel testo di Fulvio Pepe per il Teatro Due di Massimo Marino U n bar con un povero bancone, vuoto. Un barista smarrito in improbabili sogni d’amore. Qualche tavolo di fòrmica, qualche sedia. Una ragazza muta, sempre abbattuta su una bottiglia vuota. Ma anche i bicchieri e le bottiglie degli altri avventori non contengono liquidi, perché questo paese, adagiato forse su qualche montagna slava o in qualche 60 5 marzo 2016 steppa magiara, non è un luogo reale ma di favola. Siamo in una storia contemporanea di pericolo, trasformazione e magia, con principesse e orchi simili a quelli che ci circondano. Gyula è un bel testo di Fulvio Pepe, attore al suo debutto da drammaturgo e regista. L’abbiamo visto a Parma al Teatro Due, e si può ancora gustare all’Elfo di Milano dall’8 marzo. Su quel paesotto dai bicchieri vuoti e dalle esistenze sperdute incombe il mostro della crisi. C’è una segheria, che dà da lavorare ai tipi che s’incontrano in quel bar, a quelli seri, a quelli che si difendono con la battuta urticante e malevola, a quelli perennemente fermi dentro le prime pagine di un romanzo. Il padrone lontano, un russo, forse vuole tagliare posti di lavoro. In quel paesotto, che sembra l’invenzione di un racconto yiddish, con qualche atmosfera cechoviana e una tinta Sulle orme del pittore di Borgo. Da Cezanne a Morandi, fino a Tarkovsky di Simona Maggiorelli N alla Bruno Schulz, vivono anche una povera vedova che si trascina perennemente con il carrello della spesa, e il figlio Gyula, un ragazzo dal corpo deforme, che fatica a parlare: «ritardato» lo diresti, al primo sguardo. E ci sono un violinista fallito che sogna la ricostituzione dell’Orchestra Provinciale e intanto sopravvive nell’accidia e sua moglie, acida, che lo incalza col disprezzo. In quel mondo soffocato, reso con tinte terrose e con pochi elementi scenografici che richiamano i diversi ambienti, sgorgherà il miracolo, proprio dall’ultimo, dall’emarginato, da Gyula. Allo spettacolo l’autore e regista imprime un ritmo appassionato e coinvolgente. Il resto lo fanno gli ottimi attori, tra i quali spicca Ilaria Falini, che con sensibilità rende il protagonista smarrito in un mondo di lupi e di troppo inermi agnelli, capace di riscattare alla speranza vite senza orizzonte. el segno di Piero della Francesca, pittore della luce dorata, spalmata sulle pelle di tutte le cose. I suoi paesaggi rinascimentali non hanno ombre, non offrono nascondigli. Eppure al tempo stesso sono fra i più arcani e misteriosi. L’arte di Piero appare primitiva, rustica, eppure è disseminata di raffinati simbolismi ed è elegantissima. Basta pensare a un capolavoro come La flagellazione (145560) su cui, non solo storici dell’arte, ma anche antropologi e filologi, si sono arrovellati per svelarne l’enigma. Piero è il pittore del silenzio, del miste- 5 marzo 2016 del pittore piemontese che riprende il gesto architettonico della Madonna e insieme l’effetto tridimensionale. Certamente Piero fu un pittore a vocazione universale, ma colpisce ugualmente, guardando questa sequenza novecentesca come, molti secoli dopo, sia riuscito a ispirare artisti dalla poetica più diversa. Il suo classicismo fu riletto in chiave d’avanguardia, come abbiamo già visto. Ma anche in chiave conservatrice da pittori del ritorno all’ordine, dal gruppo di Valori plastici e poi dal metafisico De Chirico che ne ammirava l’«esoterica scientificità». L’onda lunga di Piero arriva poi fino al cinema, suggerendo alcune memorabili inquadrature ad Antonioni,. Mentre il regista russo Andrej Tarkovsky gli rese omaggio dedicando una lunga sequenza del film Nostalghia alla Madonna del parto (1460). Pittore di corte, che celebra il potere del ducato di Urbino rappresentandolo come la città ideale, in realtà Piero non fu mai realmente al servizio di nessuno, se non della propria arte. E questa resta la sua grande forza. Piero della Francesca, Madonna della Misericordia (1444 - 1464) Piero, grande seduttore ro, ma è anche «il pittore della forma» dice Antonio Paolucci, che ha guidato il team di curatori della bella mostra Piero della Francesca, indagine sul mito, aperta fino al 26 giugno nei Musei di San Domenico a Forlì. Pittore della forma a tal punto da diventare riferimento per Cézanne che ne ammirava la sintesi prospettica di forma-colore. Il pittore di Aix non fu l’unico protagonista dell’arte di fine Ottocento a subire il fascino dell’artista toscano. La luce limpida e radente di Piero conquistò anche il post impressionista Seurat, come ben racconta la mostra forlivese e il saggio di Fernando Mazzocca contenuto nel catalogo Silvana Editoriale. Ma non solo. Anche le atmosfere sospese e senza tempo di Giorgio Morandi devono molto a quelle del pittore borghigiano. E alcune nature morte in mostra negli spazi museali di San Domenico, disseminate di uova, sembrano citarlo esplicitamente. Così come alcuni quadri di Felice Casorati. Come si evince dal confronto fra la Madonna della misericordia (1444-1464) e il ritratto di Silvana Cenni (1922) Felice Casorati, Silvana Cenni (1922) ARTE 61 BUON VIVERE TELEDICO Per Guglielmo Marconi prima il lavoro poi il cibo The 100, quando è la natura a farci tutti uguali Nei momenti di relax però, l’inventore della radio non disdegnava il pollo arrosto Nella serie cult per teenagers vince la parità di genere nella lotta per sopravvivere di Francesco Maria Borrelli di Giorgia Furlan G uglielmo Marconi. Quando doveva lavorare non c’era tavola imbandita che tenesse, ma nel tempo libero era una buona forchetta. A scriverlo è la moglie Maria Cristina Marconi nel volume Mio marito Guglielmo. «Era talmente assorto negli studi e nelle ricerche, così determinato a riuscire, che si dimenticava persino di mangiare e dimagrì moltissimo». Durante la navigazione dell’Oceano, poi, «per portare a termine i suoi esperimenti non ammetteva di cambiare rotta per trovare riparo» e durante le forti burrasche «era impossibile cucinare per lo chef, così mangiavamo sandwich e si beveva cognàc». Ma nei momenti di pausa sapeva gustare il cibo, così come quando ad Honolulu incontrò «il direttore del Ritz Hotel che ricordava bene il suo menu preferito: perite marmite carne e verdure lesse, ndr -, pollo arrosto con purée de pommes, dolce e vino bianco della Mosella». Variamo sul tema e prepariamo un bel pollo disossato ripieno arrosto. Ingredienti per 6: 1 pollo 2kg; friarielli (cime di rapa) 1kg; impasto per salciccia 250gr; provola affumicata 200gr; panino secco 1; sale; aglio; pe- peroncino; vino bianco; olio Evo; lardo di Colonnata 80gr. Comprate il pollo disossato se possibile col petto integro, altrimenti cucitelo con ago e filo prima di infornarlo. Pulite i friarielli e stufatene la parte edibile con olio, aglio, peperoncino e sale per 20 minuti. Frullate, poco e insieme, friarielli, pane e salsiccia. Amalgamate il tutto con la provola a dadini e riempiteci il pollo. Coprite la parte superiore del pollo col lardo a fette e infornate per un’ora a 180°C in una teglia con un fondo d’olio, vino e sale. Vino consigliato: Etichetta Nera, Colli di Luni Doc Vermentino, Cantine Lunae (La Spezia). «Un vino è buono quando un bicchiere tira l’altro. Da 25 anni nella zona dei Colli di Luni, il Vermentino ha ottenuto la Doc ed Etichetta Nera la esprime al meglio: facciamo questo lavoro da generazioni, lo abbiamo nel sangue. È un vino di grande stoffa, persistente al palato con profumi intensi di fiori di campo ed erbe aromatiche. Ce ne son tanti in giro, ma è come per una bella canzone: dipende da chi la canta. Sono nato durante una vendemmia, quindi il vino ce l’ho nel Dna per vocazione», spiega il proprietario Paolo Bosoni. 62 5 marzo 2016 S i scrive The 100 e si pronuncia all’inglese “the hundred”, è la nuova serie in voga fra gli adolescenti in onda su Italia 1 e negli Usa su The CW, dove stanno trasmettendo la terza stagione. Il successo del telefilm è tale, che non di rado gli hashtag di chi segue le puntate commentando via Twitter entrano ai primi posti della classifica dei Trending Topic, negli Usa ma anche in Italia. La trama è basata (anche se non troppo fedelmente) sul l’omonimo romanzo di Kass Morgan e ambientata in un futuro distopico. Sono passati 93 anni da quando l’umanità ha abbandonato la Terra a seguito di una guerra nucleare e si è rifugiata su una stazione spaziale, ma lì le risorse stanno per finire e così 100 adolescenti vengono rispediti sul pianeta per capire se la superficie terrestre è di nuo- vo abitabile. La società che i ragazzi strutturano appena messo piede sulla Terra ricorda per molti aspetti Il Signore delle Mosche. La sopravvivenza infatti si rivela capace di mettere a dura prova i princìpi con i quali sono stati educati e spesso i protagonisti si trovano di fronte a un bivio: da una parte i valori della civiltà e dell’umanità, dall’altra la paura, la violenza e la brutalità usate come difesa in un ambiente ostile. Puntata dopo puntata i personaggi acquisiscono sempre più profondità. Il contatto con la giungla e con la foresta sembra infatti metterli in comunicazione con il Cuore di tenebra che è nascosto in ognuno di loro, ma senza che smettano mai di lottare per restare umani, anche di fronte all’Orrore (sempre per citare Joseph Conrad). La natura ha tuttavia anche un’altra funzione fondamentale nel definire l’intreccio. Funziona come una “livella”, annulla le differenze di genere e sociali: a sopravvivere è il più adatto e a guidare il gruppo è chi riesce a garantire meglio la sicurezza degli altri, non importa se sia un ragazzo o una ragazza. In questa serie tv per teenagers ogni protagonista può diventare, a prescindere dal proprio genere, quello che vuole. Così ci imbattiamo in donne a capo di enormi eserciti o fanciulle che sono più brave dei compagni maschi a costruire bombe e aggiustare astronavi. Il viaggio in Italia di Robert Capa Torino - Quiroga, Artl, Sabato, Cortazar: grandi scrittori sudamericani nella collana delle “Letture Einaudi”. Se ne parla il 9 marzo da Bardotto (via Mazzini, 23) alle ore 18.30. Intervergono Mauro Bersani e Jaime Riera Rehre. www.einaudi.it San Gimignano - Dal 4 marzo approda alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Raffaele De Grada”, la mostra dedicata al grande fotoreporter di guerra Robert Capa, che racconta con 78 immagini in bianco e nero gli anni della Seconda guerra mondiale e la Resistenza nella penisola. www.sangimignanomusei.it Roma - Un nuovo progetto del regista Amos Gitai, dall’ 11 marzo al MAXXI. S’intitola Chronicle of an Assassination Foretold e debutta in contemporanea alla mostra Highlights/visions con opere di Sou Fujimoto, Michelangelo Pistoletto, Paolo Soleri, Luca Vitone, Franz West e Chen Zhen. Parole in dialogo. Pulcini e Veca Torino - Declinano una serie di parole chiave, come “responsabilità”, “uguaglianza”, “sostenibilità” i filosofi Elena Pulcini (il 10 marzo) e Salvatore Veca (22 marzo), con l’economista e Enrico Giovannini (14 aprile) nelle scuole superiori della città. www.fondazioneunipolis.org. Lo schermo dell’arte approda in Laguna Ph Robert Capa © ICP/Magnum- Hungarian National Museum Venezia - Il meglio de Lo Schermo dell’arte. Dal 10 al 13 marzo al Teatrino di Palazzo Grassi, una selezione di 13 film della storica rassegna fiorentina. Con (Untitled) Human Mask dell’artista francese Pierre Huyghe, che anticipa la mostra di Punta della Dogana, Accrochage. www.palazzograssi.it BOTTO&BRUNO SULLE NOTE DI EDDIE VEDDER Il nuovo romanzo di Clara Sanchez Torino - Dal 9 marzo, la Fondazione Merz ospita Society, you’re a crazy breed un progetto di Botto&Bruno concepito come una installazione che racconta la trasformazione da edificio industriale dismesso a centro di cultura. Il titolo è tratto da “Society” di Eddie Vedder per il film Into the Wild. www.fondazionemerz.org Roma - «Cosa c’è dietro una vita perfetta?» è la domanda che la scrittrice Clara Sánchez si pone ne La meraviglia degli anni imperfetti (Garzanti). Il 5 marzo a mezzogiorno Sanchez svela i «segreti inaspettati» della sua storia dialogando con Roberto Ippolito, nella libreria Nuova Europa i Granai, in via Mario Rigamonti 100. GLI OTTANT’ANNI DI LETIZIA BATTAGLIA Palermo - Per festeggiare gli 80 anni di Letizia Battaglia, dal 6 marzo all’8 maggio, ZAC ai Cantieri Culturali alla Zisa, ospita la grande retrospettiva della fotografa palermitana. Con il titolo Anthologia, la rassegna curata da Paolo Falcone presenta oltre 140 lavori esposti insieme per la prima volta. www.letiziabattaglia.org 5 marzo 2016 63 © Oreste Lanzetta e Iole Capasso Il nuovo progetto del regista Amos Gitai Cortazar e l’onda sudamericana © Letizia Battaglia © Amos Gitai APPUNTAMENTI TRASFORMAZIONE Pulsione, vitalità, movimento, suono, capacità di immaginare, memoria, certezza che esiste un seno Sorgenti del tempo del fiume della vita È venuto marzo e l’aria, l’acqua, gli animali e le piante ancora senza fiori sentono e dicono, senza parola, che sta arrivando la primavera. Dopo un inverno tiepido, tenero come una madre che riscalda e nutre il neonato per farlo vivere e svilupparsi, sembra che il calore venga dalla terra che si libera dalla paralisi. Il freddo e la neve avevano sempre costretto la donna a restare al chiuso nella caverna. Guardo i gabbiani che volano sopra la mia testa e penso che danno calore alle loro uova ed ai mammiferi che allattano la prole. Sembra che l’essere umano non abbia un comportamento diverso, soltanto un tempo d’infanzia più lungo in cui ha l’impossibilità di cercare il cibo e nutrirsi da solo. Non è né autosufficiente né autonomo prima di avere la stazione eretta e pensiero verbale percepito. 8 marzo 2008. Il linguaggio articolato parlò e non dette il nome ad una realtà materiale ma disse: venti secondi. Non era il calcolo degli strumenti che stabiliva il tempo necessario per muoversi o camminare e raggiungere un punto in cui il movimento spariva perché cessava di esistere. Era un pensiero verbale che aveva ridotto l’alfabeto ad indicare, con un numero senza identità, un tempo. Accadde che il momento del silenzio del bambino nato, senza identità manifesta perché variabilissima in ogni individuo, venisse definita con due termini verbali che indicavano una realtà non pensata dalla coscienza che non aveva mai dato ad essa nessun nome. Forse c’è anche negli altri mammiferi e tanti hanno sempre pensato che la nascita umana è uguale a quella degli animali. Otto anni fa il linguaggio articolato, dicendo ” venti secondi” non indicò una realtà percepibile e pensabile ma attraverso il suono urlò alla sostanza cerebrale, da sempre in coma irreversibile senza speranza, di svegliarsi e guardare. Non fu un aver visto con gli occhi, ma una percezione del silenzio che era, simultaneamente, pensiero come fosse il contrario della percezione delirante che vanta un vedere che sarebbe pensare e non ha pensiero. Avevano sempre pensato che la vita iniziava con il respiro ed il vagito e, come tutti, avevo visto un’assenza ma non avevo avuto un pensiero verbale che desse un nome alla realtà percepita. Avevo visto il silenzio e l’assenza di forza e tono dei muscoli come se il neonato fosse flaccido... non nato, ma quel giorno vidi un’assenza che era realtà. Un non movimento del corpo che non era nulla, mancanza, non esistenza. Un silenzio che era senso senza il significato che la voce sonora dice. 64 5 marzo 2016 In verità, senza che la coscienza sapesse, si stavano avvicinando le parole che comparvero dopo che l’esperienza con Rifondazione comunista era caduta perché era comparsa il 19 gennaio ‘08 l’immagine di una fanciulla che divenne donna con una bella identità sociale e professionale. Sembravano le stesse comunemente usate ma erano nuove, piene di vita, dense e mettevano in crisi la razionalità della mente sveglia. Furono movimento, tempo, suono, pulsione, i termini che dai più remoti angoli della mente comparvero, sparirono, ricomparvero guidati dal pensiero della novità pensato come trasformazione. Nel tempo dell’anno nuovo, il 14 gennaio dissi che avevo visto, in primo luogo, pulsione. Fu Biancaneve che ebbe il bacio dal principe, fu la bestia che con il bacio della bella diventa principe, fu Cenerentola che viene riconosciuta dalla piccola scarpetta di vetro. Altre parole, come avessero la sensibilità delle formiche che, senza vedere sentono l’esistenza delle gocce di latte cadute a terra, sia avvicinarono per bagnarsi e rinascere nuove. Non ebbero l’angoscia di gettare alle ortiche, che rendono bella la pelle, le parole vecchie che indicavano sempre la realtà materiale. Il volto delle donne diventò luminoso per un intelligenza nuova in cui il linguaggio articolato rendeva viva una verità umana mai pensata esistente. Fu così che il termine pulsione posto, nel pensare e nello scrivere la realtà invisibile, rivendicando la sua dignità umana si separò dal termine istinto che guida il comportamento degli animali. Fu così che movimento non fu più spostamento di un oggetto fisico nello spazio per una forza esterna. Divenne trasformazione che è insieme alla parola tempo anche se chiedeva che si dovesse pensare che sparizione non è creare il nulla. Ancora più bello fu il corpo umano che fece sparire dalla mente l’angoscia del pensare alla comparsa della realtà non materiale dalla realtà biologica che chiamò il termine, mai stato della realtà umana, di creazione. Furono le parole “realtà che prima non esisteva” ad allontanare i termini: ricreazione e trasformazione. Era sempre stata azione di un ente non del mondo né dell’essere umano collocato in un infinito che è non essere. Contraddizione del pensiero verbale che componeva l’infinito, per definizione immobile perché perfetto, alla creazione che è movimento. Venne il tormento continuo generato sempre dalla parola pulsione messa al primo posto nella nascita umana. La certezza del pensiero oscillò nel dare un tempo ad essa. Massimo Fagioli psichiatra Le parole, che non avevano nessun rapporto con lo spazio, si muovevano velocemente come se il tempo non esistesse. Si avvicinavano le une alle altre, si allontanavano e sparivano come se la trasformazione, che le aveva fatte muovere, non fosse mai esistita. Non riuscivo ad avvicinare il termine tempo alla parola pulsione. Veniva sempre il pensiero terribile che diceva: se la pulsione ha un tempo l’essere per l’anaffettività e l’annullamento è realtà umana. Avrei aggiunto un’altra piaga al male radicale o istinto di morte sempre creduto esistente nella nascita umana. Poi affiorò dal fondo del mare una corrente calda ed il pensiero disse: la pulsione di annullamento renderebbe inesistente la natura non umana. Non è la verità e ciò vuol significare che non c’è forza, attività. Sarebbe credere e non pensare. È pensabile che in realtà, detta in tali termini: pulsione di annullamento del mondo perché il neonato umano non è compatibile con la natura non umana, nella nascita non esiste. Vista nella realtà umana dello schizoide anaffettivo, non ha nessuna influenza sulla realtà materiale percepita dalla coscienza. Non esiste, nell’essere umano un fare il nulla sulla natura che non ha realtà non materiale. Simultaneamente, la pulsione di annullamento si volge verso se stesso, senza alterare la realtà materiale in cui il cuore batte ugualmente, annulla la propria vita, ma non l’esistenza del corpo. E per alcuni secondi non sembra vivo. Ma, nel corpo del neonato c’è la capacità di reagire biologica che, diventando vitalità, crea la capacità di immaginare che fa la memoria-fantasia della sensazione avuta dalla pelle nel liquido amniotico. Alcuni anni fa comparvero le parole che non erano più la ripetizione dei suoni uditi. Nascita, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo scomparvero come se non fossero mai esistiti. Sembrava che non riuscissero a prendersi per mano per dire la verità della nascita umana. Ora l’intelligenza, che è fantasia, ha composto pulsione, movimento, tempo, capacità di immaginare, memoria della sensazione avuta dalla realtà biologica. Una serietà che semGuardo e leggo. Vedo che non ho rinnegato la ricerca ed il bra un velo pensiero di cinquanta anni fa. Le parole di allora non ci sono più e, soprattutdi tristezza, è to la composizione dei periodi è totalmente diversa anche se il mancato rispetto soffuso sul volto per la sintassi, che non mi avevano insegnato, sembra lo stesso. Ma non è lo stesso. Certamente è diverso, nel fraseggiare, il suono che non si ode. La lingua è sempre della nuova fotograitaliana. fia. Forse è la pena per Alcune volte ho tentato di dire ciò che sembra impossibile dire. Usare il linaver scoperto la verità sulguaggio articolato che indica, nella realtà umana della veglia gli oggetti materiali, per parlare di realtà non materiale umana, è stato sempre impossibile. la nascita umana. Una realtà Hanno scolpito e dipinto, hanno fatto musica ma non si è mai riusciti a umana, diversa dalla coscienza trasformare in linguaggio articolato il linguaggio senza parola. e linguaggio articolato, aveva Venne un’idea semplice che nasceva da un’osservazione ovvia. Il trasformato due termini verbali: fanlinguaggio delle immagini oniriche è universale. Non c’è, come nella lingua della coscienza, la diversità nazionale che rende tasia di sparizione. Ora, come le foglie incomprensibile all’uno il parlare dell’altro. Nel pensiero bianche dell’orchidea, la parola nuova è senza coscienza il linguaggio è fatto di immagini che non sfiorita dopo aver messo al mondo figlie che sono ricordi coscienti ma trasformazione del percepito. Trasformarlo in pensiero verbale è, forse, creazione. non erano mai nate. Pulsione, vitalità, moviIncomprensibile come si possa udire la descriziomento, capacità di immaginare, memoria-fantasia ne delle immagini oniriche e vedere il pensiero sono in fila per prendere il latte che dà certezza di verbale nascosto... inesistente perché non parlato. È necessario non credere ai “sogni identità. E, dopo la prima parola seduta nel posto di mandati dagli dei” ma pensare alla crearegina, una ruba il posto dell’altra. Girando in un ballo tività della realtà biologica umana che veloce intorno al trono ognuna sparisce tornando inerte reagisce al sole con la pulsione che è la parola cosciente.. realtà non materiale. 5 marzo 2016 65 IN FONDO A SINISTRA di FABIO MAGNASCIUTTI 66 5 marzo 2016 BioBottle Sant’Anna. Per il benessere di mamme e bambini. * Dai vegetali nasce la prima bottiglia al mondo biodegradabile . Senza una sola goccia di petrolio. www.santanna.it santannasanthe *Tutti i dettagli sul sito. Il tappo è in PE e deve essere conferito nella raccolta differenziata della plastica.