...

COSA CI RENDE UMANI

by user

on
Category: Documents
26

views

Report

Comments

Transcript

COSA CI RENDE UMANI
60010
9 771594 123000
5 MARZO 2016
NUMERO 10 | SETTIMANALE
€ 2,50
COSA CI RENDE
UMANI
Capacità di stupirsi, simpatia per il diverso, guardare il mondo
con molta più gentilezza. È la ricetta di Yann Arthus-Bertrand.
Mentre l’America di Donald Trump ha paura, sbraita e minaccia
ONDA PAZZA
di MAURO BIANI
2
5 marzo 2016
© Illustrazione Antonio Pronostico
5 MARZO 2016
NUMERO 10 | SETTIMANALE
€ 2,50
60010
9 771594 123000
E DISUMANI
SOMMARIO DEL NUMERO 10 - 5 MARZO 2016
Che America ci aspetta dopo il Super
martedì? Dalle minacce di Donald
Trump alle prudenze dell’establishment ce ne parla Corradino Mineo e
Martino Mazzonis. Ma per la copertina abbiamo scelto l’ottimismo di
Yann Arthus-Bertrand. Cosa ci rende
umani chiede il fotografo francese
a più di 2.000 persone sparse per la
Terra e cosa rende invece disumani
quegli americani disposti a seguire le
folli imprese di Donald Trump? Chi è il
popolo del candidato repubblicano lo
indaga Martino Mazzonis e cosa è accaduto alla cultura e alla società americana tenta di spiegarcelo Simona
Maggiorelli. Cosa è accaduto invece
nel nostro Parlamento che ha imposto
la fiducia sulle unioni civili stralciando
la stepchild adoption ce lo racconta
Luca Sappino che è andato a cercare
l’attrice Valeria Solarino, in giro per
l’Italia con lo spettacolo teatrale Una
giornata particolare (riadattamento
del celebre film di Scola) che gli ha
detto: «Utero in affitto? È una pratica
da regolamentare e dovremmo farlo
senza chiederci se sia più usata da
omosessuali o da coppie etero, perché
il punto non può essere quello». In
esteri Alessandro De Pascale prova
a raccontarvi il piano B per la Libia e
la pericolosità di un intervento che
la spezzerebbe nuovamente in tre e
Nicola Zolin è per noi a Idomeni, al
confine con la Macedonia e scrive dei
migranti che provano a forzare il muro
di filo spinato. In cultura poi Pietro
Greco vi parlerà di ricerca e di Renzi
mentre Raffaele Lupoli presenta la
nuova opera di Davide Reviati, Sputa
tre volte, un capolavoro dipinto sull’adolescenza.
03 ONDA PAZZA di Mauro Biani
05 EDITORIALE di Corradino Mineo
06 LETTERE
07 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari
07 IL NUMERO
07 LA DATA
COPERTINA
Arthus-Bertrand: «Dovremo guardare
il mondo con più gentilezza»
di Florence Poulain
12
Il neoliberismo non è scienza,
è politica. Anzi teologia
17
di Andrea Ventura
PRIMO PIANO
12
18
21
22
25
SOCIETÀ
26
Una legge particolare
di Luca Sappino
26
Valeria Solarino: «Addio parità»
di Luca Sappino
27
Diritti, bisogni, desideri
di Franco Mistretta
29
Utero in affitto e aborto,
la (solita) falsificazione della Verità
di Matteo Fago
30
Mafia, un dossier infastidisce il Pd
di Ilaria Giupponi
32
Quegli “esaltati” dell’antimafia
di Giulio Cavalli
34
Pedofilia, i fantasmi di Bergoglio
di Federico Tulli
36
ESTERI
36
Libia? Dividi e bombarda
di Alessandro De Pascale
Guerra o politica, il rebus libico
di Martino Mazzonis
Siria, la tregua rosso sangue
di Michela AG Iaccarino
Hey Merkel, open the borders!
di Nicola Zolin
CULTURA
48
07 UP&DOWN
08 FOTONOTIZIE
10 DA PARIGI diChiara Mezzalama
11 DIRITTI di Emma Bonino
60 LIBRI di Filippo La Porta
60 TEATRO di Massimo Marino
4
L’America che ci aspetta
di Corradino Mineo
Spaventati e frustrati.
Ecco il popolo di Trump
di Martino Mazzonis
Lo chiamano mass shooting
di Simona Maggiorelli
L’America sotto psicofarmaci
di Simona Maggiorelli
5 marzo 2016
38
39
40
43
Il polo della discordia
di Pietro Greco
48
La rivolta dei ricercatori
di Donatella Coccoli
51
Zeichen, una questione di sensibilità
di Simona Maggiorelli
52
Graphic novel, l’ultimo Reviati
di Raffaele Lupoli
54
I selvaggi dei Balcani
di Tiziana Barillà
58
61 ARTE di Simona Maggiorelli
62 BUONVIVERE di Francesco Maria Borrelli
62 TELEDICO di Giorgia Furlan
63 APPUNTAMENTI
64 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli
66 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti
EDITORIALE
di Corradino Mineo
LA SINISTRA DELLA SPERANZA
“Sono di sinistra come lei” mi dice un signore dai capelli bianchi, presumibilmente un
pensionato. “Sì, sono stato comunista, prosegue, ma noi di sinistra saremo il 6-7 per cento
dell’elettorato e senza allearci, senza fare compromessi, non potremo mai contare”. È un’opinione più diffusa in Italia di quanto si creda.
Un pregiudizio che consente di trasformare in
una vittoria mediatica il compromesso, con
Alfano, Verdini e imposizione della fiducia,
sulle unioni civili. Che permette al governo di
strombazzare una ripresina dello zero virgola,
oscurando gli ultimi dati sulla deflazione o il
fatto che, anche dove il Pil è cresciuto in modo
più netto, in Irlanda e in Spagna, la sinistra e
vasti strati sociali non vogliano rassegnarsi alla
crescita del precariato e alla progressiva erosione del ceto medio.
Anche in Europa comincia a farsi strada l’idea
che “il caso Italia” dimostrerebbe l’impossibilità per la sinistra di farsi maggioranza, se non
rinunciando alle sue idee. Così in Spagna Sanchez ha scelto di allearsi con Ciudadanos, movimento che vuole rinnovare la destra, prima di
chiedere a Podemos di sostenere il suo tentativo di governo. E in Francia il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron non nasconde il
suo disagio nei confronti di un presidente, Hollande, che Marc Lazar accomuna nel giudizio
negativo (ancora troppo socialdemocratico e
perciò perdente) all’italiano Bersani. Non siamo ancora all’imitazione di un “modello italiano” né mi pare che i legislatori delle democrazie europee abbiano già deciso di imitare
l’Italicum, per emancipare un centro, colorato
di sinistra, dal “ricatto” delle sinistre, ma è vero
che il segretario del Pd trova interlocutori anche oltre confine.
Il punto è che non è vero. Non c’è una maledizione storica per la quale la sinistra non possa
riunire intorno a sé una maggioranza ampia,
non possa provocare entusiasmi e suscitare speranze fra giovani, pensionati, artigiani,
scienziati, professionisti, imprenditori persino. Se in Italia non è accaduto è perché troppo forte è rimasto il retaggio della doppiezza
comunista. Il Pci era partito nazionale, pronto al dialogo e al compromesso, ma al tempo
stesso forza di osservanza sovietica, che dava
al termine “sinistra” un significato escatologico,
con la promessa di una nuova Gerusalemme il
cui spazio, purtroppo, era occupato dalla dittatura staliniana, poi dalla costruzione del muro
a Berlino, infine dai carri armati a Praga. Così
certo “noi di sinistra” restiamo pochi e pazzi e
dobbiamo camuffarci.
Left ha un’altra idea di sinistra. Per noi è di sinistra credere nella ricerca scientifica, su cui nessun governo - neppure l’attuale, come dimostra
Greco - ha mai investito davvero. Per noi è significa battersi per l’Europa, cedendole parte
della nostra sovranità in cambio di una politica
fiscale unitaria e solidale. È di sinistra trasformare l’immigrazione - che è una costante della Storia umana - da motivo di paura in risorsa per il futuro. È promuovere una conferenza
nazionale, con operai e imprenditori, per porre
un semplice interrogativo: quale politica industriale serva al Paese, cosa produrre, con che
impegno per l’innovazione. Sinistra è battersi
per i diritti e per le tutele sociali, perché senza
diritti e senza tutele l’Europa non sarebbe l’Europa. Non potrebbe andar fiera della sua radicale contrapposizione alla barbarie wahabita e
salafita. Né troveremmo la forza per combattere il terrorismo senza diventare simili ai terroristi. Sinistra è pensare a nuovi consumi collettivi
e a beni comuni, tema anticipato trenta anni fa
da Berlinguer e che ora fa capolino negli ambienti meno incolti o più innovativi dello stesso
capitalismo. È dare una possibilità ai giovani e
non trattare esodati e pensionati come prodotti
di scarto o gregge da mungere. Sinistra è anche
proporre “molta più gentilezza” come fa Yann
Arthus-Bertrand nella storia di copertina. Perché mai questa sinistra non potrebbe vincere le
elezioni?
5 marzo 2016
5
Lettere
DIRETTORE
Corradino Mineo
[email protected]
VICE DIRETTORE RESPONSABILE
Ilaria Bonaccorsi
[email protected]
[email protected]
REDAZIONE
Tiziana Barillà
[email protected]
Donatella Coccoli
[email protected]
Ilaria Giupponi
[email protected]
Raffaele Lupoli
[email protected]
Simona Maggiorelli
[email protected]
Luca Sappino
[email protected]
La mafia e la corruzione
è ovunque, inutile nasconderlo
TEAM WEB
Martino Mazzonis
[email protected]
Giorgia Furlan
[email protected]
GRAFICA
Alessio Melandri (Art director)
[email protected]
Antonio Sileo (Illustrazioni)
Monica Di Brigida (Photoeditor)
[email protected]
Progetto grafico: CatoniAssociati
EDITORIALENOVANTA SRL
Società Unipersonale
c.f. 12865661008
Via Ludovico di Savoia 2/B
00185 - Roma
tel. 06 91501100
[email protected]
Amministratore delegato:
Giorgio Poidomani
REDAZIONE
Via Ludovico di Savoia, 2B - 00185 - Roma
tel. 06 91501230 - [email protected]
PUBBLICITÀ
Federico Venditti
tel. 06 91501245 - [email protected]
ABBONAMENTI
Dal lunedì al venerdì, ore 9/18
[email protected]
STAMPA
Nuovo Istituto Italiano
d’Arti Grafiche S.p.a.
Coordinamento Esterno:
Alberto Isaia [email protected]
DISTRIBUZIONE
Press Di
Distribuzione Stampa Multimedia Srl
20090 Segrate (Mi)
Registrazione al Tribunale di Roma
n. 357/1988 del 13/6/1988
Iscrizione al Roc n. 25400 del 12/03/2015
QUESTA TESTATA NON FRUISCE
DI CONTRIBUTI STATALI
Copertina: © Humankind Production
CHIUSO IN REDAZIONE
IL 2 MARZO 2016 ALLE ORE 10
6
I mafiosi non sono solo Messina Denaro,
Riina o Provenzano. Soggetti collusi con
la mafia, che utilizzano gli stessi metodi,
sono ormai ovunque. La nostra penisola è invasa da una mafia onnipresente
che lucra, porta interessi, ha relazioni e
complicità impensabili, progetta, pianifica
e spesso occupa e gestisce i gangli vitali
della società senza usare alcuna violenza
ma utilizzando la sua arma più potente:
il denaro. A questa mafia si affianca e
s’innesta, imitandone i contenuti in tutto
e per tutto la cosiddetta “mafia bianca” e
cioè quella dei colletti bianchi, fortissima
in tutte le amministrazioni dello Stato (Comuni, Province, Regioni, Università, Ospedali e così via). Questa mafia - sempre
esistita - nomina, elegge, assume, dirige e,
di conseguenza, governa il territorio. Ecco
perché il binomio “Italia-Mafia” è una realtà constatabile nelle cronache quotidiane.
La mafia è ovunque, inutile nasconderlo.
Oggi, la parola “mafia” è diventata sinonimo di corruzione, essa prolifera nella
collusione, nelle contiguità, in quei contatti stretti con il cosiddetto “mondo dei
colletti bianchi”, dell’imprenditoria, dei
professionisti e soprattutto della politica.
In Italia, abbiamo, ad esempio, la “mafia”
dei baroni universitari, dove regnano
incontrastate raccomandazioni, scambi di
favori, meriti negati, titoli completamente
ignorati. Non possiamo non denunciare
la “mafia” della sanità, dove circola molto
denaro pubblico, un gran numero di
appalti e numerose nomine. Il terreno
ideale dove mafia, politica e corruzione
s’insinuano facilmente, mettendo radici
profonde attraverso nomine e appalti
pilotati, creando così enormi danni ai
cittadini, aumentando, di fatto, le spese e
diminuendo i servizi essenziali. Esiste poi
la “mafia dei professionisti” (avvocati, magistrati, poliziotti, commercialisti, architetti, ingegneri, medici etc.), pronta a mettere
a disposizione le proprie conoscenze, per
guadagnarci denaro o favori, aiutando la
criminalità organizzata ad evadere il fisco,
garantendo la latitanza e la cura dei boss
5 marzo 2016
mafiosi, aggiustando i processi, riciclando
il denaro sporco. Non ultima, c’è la mafia
degli imprenditori, fondamentale nella
costruzione del potere delle mafie in Italia.
Collusi con le organizzazioni criminali, gestiscono gli appalti, il lavoro nero, i traffici
di rifiuti tossici, l’immigrazione e qualsiasi
attività in grado di creare profitto. Non di
rado questa tipologia d’imprese gestisce,
in nome e per conto delle mafie, l’occupazione e il voto di scambio. La più pericolosa di tutte è la “mafia politica”, poiché
contribuisce a sviluppare e a consolidare
il potere mafioso, assicurandogli l’impunità, la legittimazione, il predominio,
facendo funzionare le istituzioni in modo
da accettare e favorire soggetti e attività
direttamente o indirettamente collegati
con i mafiosi, erogando denaro pubblico
alle mafie e ai loro alleati, criminalizzando
le istituzioni con l’uso di metodi e comportamenti puramente mafiosi. Questa
mafia incide sulla democrazia, sulle libere
elezioni, sulle nomine ai vertici dello Stato.
Nel nostro Paese, ormai, si usa il metodo
mafioso per esercitare qualsiasi forma di
potere. Abbiamo troppo spesso esercitato
un’antimafia predicatoria senza mai farla
seguire da una pratica realmente combattiva ed efficace. Il breve quadro tracciato
presenta molti elementi che ci inducono
a pensare che siamo di fronte a una forma
di potere in cui l’illegalità è rovesciata in
legalità e questo va oltre la collusione di
qualche politico con qualche boss o la
commissione di uno o più reati da parte
di singoli rappresentanti delle istituzioni.
Stiamo vivendo uno dei periodi più difficili
dell’Italia repubblicana e se vogliamo
sopravvivere, dobbiamo ricostruire le basi
della democrazia e dello Stato di diritto.
Abbiamo assoluto bisogno di formare la
nostra gioventù a essere libera, indipendente e consapevole sperando che ciò
porti a sconfiggere le tante mafie. Come
diceva Paolo Borsellino: “Se la gioventù le
negherà il consenso, anche l’onnipotente
e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Non ci resta che agire e sperare.
Vincenzo Musacchio
Giurista, direttore della Scuola di Legalità
“don Peppe Diana” di Roma e del Molise
di PAOLO CACCIARI
COMMERCIO EQUO E SOLIDALE:
ORA C’È IL SUPER MARCHIO
La sfida non ha esiti scontati: quanto è condizionabile il mercato e quanto invece è il mercato a condizionare i comportamenti degli operatori del Fair trade? In altri
termini è giusto affidare i prodotti certificati equi e solidali agli scaffali delle grandi reti commerciali e ai marchi
multinazionali come Nestlé, Starbucks, Unilever, Kimbo…
che possono così aumentare i propri profitti e abbellire
la propria immagine con un tocco di eticità? Per contro:
perché i piccoli produttori di caffè, cioccolata, tè, banane,
zucchero, riso, fagioli, cotone e di tante altre commodities
e altre manifatture artigiane, che rispettano i principi del
Fair trade, non dovrebbero poter allargare i mercati finali?
Su questo instabile crinale si muove da cinquanta anni la
World Fair trade organization che raggruppa 450 organizzazioni in 70 diversi Paesi e che è riuscita recentemente a
compiere un grande passo in avanti varando un marchio
comune mondiale per i prodotti “Fair trade garantiti” (Label for genuine fair traders, www.wfto.com). Una sorta
di sovra-marchio che tutela maggiormente produttori e
consumatori e mette fine alla proliferazione delle etichette. Il sistema di garanzia si basa sul rispetto di standard di
qualità (del processo produttivo e del prodotto) e intende
applicare i principi del commercio equo e solidale: creare
opportunità per i piccoli produttori che operano in aree
economicamente svantaggiate; assicurare la trasparenza
lungo tutte le filiere produttive; riconoscere il giusto prezzo
del lavoro, il pagamento anticipato e il mantenimento delle
culture e delle professionalità tradizionali; combattere il lavoro minorile, il lavoro forzato e le discriminazioni di genere; promuovere la salute, la sicurezza e le capacità di auto
sostentamento delle comunità locali; rispettare l’ambiente
attraverso l’uso sostenibile delle materie prime, dell’energia, del suolo. In Italia hanno accettato il nuovo marchio le
principali reti del commercio equo e solidale: Agices-equo
garantito (che organizza più di 250 punti vendita), Altro
mercato Ctm (che coordina più di 80 organizzazioni eque
e solidali), Asso botteghe del mondo (80 botteghe). Insieme
a Fair trade Italia hanno dato vita ad un forum per ridefinire le strategie di lungo periodo. Contrariamente ai Paesi
del nord e del centro Europa, dove il fatturato del Fair trade
cresce nonostante la crisi dei consumi, nel nostro Paese i
risultati economici sono deludenti: meno 6 per cento. Da
anni si attende una legge nazionale che regolamenti il settore. Massimo Renno, di AssoBdm, pensa sia necessario
che il mondo del Fair trade debba «ricostruire i propri linguaggi e valori, avendo più attenzione nell’andare assieme,
piuttosto che commerciare per conto proprio». L’invito è a
costruire con i “consumatori difettosi”(quelli cioè che non
si omologano alle tendenze del mercato) pratiche di transizione economica alternative “fuori mercato”.
LA DATA
IL NUMERO
GIUGNO
23
2016
4
È il giorno della Brexit, il referendum con il quale i cittadini
britannici dovranno decidere
se rimanere o no nell’Unione
europea. Il dibattito a Londra
negli ultimi giorni si è fatto
sempre più vivace. A sinistra
si pensa ad un’Europa unita
ma senza la condanna dell’austerity. Lo ha detto Jeremy
Corbyn, il leader del Labour,
che tre settimane fa ha incontrato Alexis Tsipras. Ma la notizia è che Jeremy il socialista si
è visto con l’ex ministro delle
Finanze greco Yanis Varoufakis che diventerà il suo consulente. Con l’obiettivo di un’Europa che entrambi sognano
più democratica.
Sono i quesiti del referendum
abrogativo della legge 107. Ad
aprile parte la raccolta delle
firme e se venisse raggiunto il
numero legale il referendum
si terrà nel 2017. Il Comitato
promotore è stato ufficialmente costituito e ne fanno
parte, oltre al Comitato Lip,
molte sigle sindacali tra cui
Flc-Cgil, Cobas, Gilda, Unicobas, Usb, le associazioni di
studenti Uds, Link, il Coordinamento nazionale scuola
della Costituzione e altri comitati. I quattro quesiti riguardano: lo School bonus, i
poteri del dirigente scolastico,
l’alternanza scuola-lavoro e il
comitato di valutazione.
UP
DOWN
Tsipras, no ai muri
Le ruspe di Hollande
«Non vogliamo che il nostro
Paese diventi il limbo di anime perse». Alexis Tsipras non
ci sta ai muri contro i migranti. Ma soprattutto, perché sottostare ai veti europei se poi la
piccola Grecia - in piena crisi
- viene lasciata sola nell’emergenza? Il governo greco
ha inviato alla Commissione europea un piano urgente per accogliere le masse di
migranti dalla Turchia e per
offrire una soluzione a quanti vengono respinti al confine
macedone. Il governo greco si
rivolge a Bruxelles chiedendo
aiuti finanziari e lanciando
l’appello all’Italia e alla Spagna per fare fronte comune.
Le ruspe tra i lacrimogeni e le
cariche della polizia cancellano a Calais la “Giungla”, la tendopoli dei rifugiati che tentano
di raggiungere l’Inghilterra. Il
governo francese ha assicurato
che tutti coloro che verranno
mandati via saranno ospitati
in containers o nei centri di
accoglienza sparsi per il Paese.
Ma le Ong sono scettiche, sostenendo che i posti a disposizione sono insufficienti per
accogliere la massa di migranti. Così il governo di François
Hollande dà prova ancora una
volta di aver scelto politiche
migratorie miopi, dopo il caso
delle frontiere chiuse nell’estate scorsa a Ventimiglia.
5 marzo 2016
7
© Andy Rain, Ernesto Arias/Epa Ansa
PICCOLE RIVOLUZIONI
FOTO NOTIZIA
IRAN
VINCONO ROHANI
E LE DONNE
Sorrisi sotto il velo. Davanti
al seggio di Ershad, nei pressi di una moschea, a Teheran,
due donne iraniane mostrano i documenti di identità
mentre aspettano in fila che
arrivi il loro turno per votare.
È il 26 febbraio 2016, giorno
delle elezioni per il rinnovo
del Parlamento (il Majlis) e
dell’Assemblea degli Esperti, l’organo incaricato anche
dell’elezione della Guida suprema, la più alta carica politica e religiosa della Repubblica Islamica dell’Iran.
Il voto ha decretato la vittoria
del fronte dei riformisti moderati del presidente Hassan
Rohani e dell’ex capo di Stato
Hashemi Rafsanjani. Gli oltre
33 milioni di iraniani che si
sono recati alle urne hanno
decretato la sconfitta dei conservatori isolazionisti, soprattutto nella capitale Teheran. E
il nuovo Parlamento iraniano
vedrà tra i suoi banchi anche
15 donne: una presenza record dai tempi della rivoluzione del 1979, che ha trasformato la monarchia iraniana
in una Repubblica islamica.
Foto di Abedin Taherkenareh, Epa Ansa
PARERI
DA PARIGI
di Chiara Mezzalama
Les jours, l’informazione francese
diventa un’ossessione. Per la verità
C
on un euro ci si può abbonare per
un mese al “sito pilota” di Les Jours,
un nuovo giornale online francese in
fase sperimentale. L’abbonamento
passerà poi a nove euro mensili o a cinque per
disoccupati, studenti o fauchés, squattrinati.
Les jours è un gruppo di giornalisti, molti ex
di Libération, fotografi, grafici, per un totale
di diciassette persone. L’idea è di fare informazione in modo “ossessivo”, fissarsi cioè su
alcuni temi cruciali dell’attualità e seguirli nel
tempo, con ostinazione, testardaggine, contrastando il flusso continuo e effimero di notizie che attraversano le nostre esistenze senza
lasciare traccia. Il modello è quello delle serie
televisive, gli articoli sono perciò chiamati
episodi, possono essere letti singolarmente
oppure tutti insieme, come si leggerebbe una
lunga inchiesta. Sono come i fili di una storia
che s’intreccia seguendo la trama dell’attualità ma senza esserne tiranneggiati. La scelta
dei temi, le “ossessioni”, si dimostra interessante: cosa succede a Parigi e in Francia dopo
gli attentati del 13 novembre 2015? Chi sono i
“revenants” (che era il titolo di una famosissima serie francese di qualche anno fa), i combattenti dell’esercito islamico che decidono
di tornare in Francia, spesso con moglie e figli
a carico? Cosa succede in una classe di terza
media di una scuola di un quartiere misto di
Parigi, il quartiere La Chapelle, nel diciottesimo arrondissement? E la COP21, dopo l’accordo firmato, come prenderà corpo?
Queste e altre ossessioni si troveranno su Les
jours. Nel fare l’abbonamento, ho pensato al
bisogno di andare a fondo su certi argomenti così come al limite che tutti abbiamo nella capacità di ricevere e tenere dentro molta
dell’informazione che ci viene rovesciata addosso ogni giorno. Ho pensato alla necessità
di fare una scelta nella massa di fatti, opinioni,
commenti che passa attraverso le nostre vite
10
5 marzo 2016
fino a nausearci, a renderci indifferenti talvolta per pigrizia e ignoranza, talvolta per legittima difesa. L’articolo di Ida Dominijanni su
Internazionale sulla morte di Giulio Regeni mi
ha illuminato. Si chiede la giornalista «quanti
giorni e quanto cinismo ci vogliono perché il
caso Regeni sia soppiantato…», quanti giorni
di tortura ha dovuto subire prima di morire,
quanti giorni ci sono voluti per ritrovarlo in
un fosso… quanti giorni, quanti giorni...
Ecco, questa dovrebbe proprio essere una di
quelle vicende che diventa un’ossessione, per
la sua gravità, per l’orrore, per ciò che rappresenta oggi nei rapporti di forza tra l’occidente
e i suoi “amici” o “nemici”, per ciò che Regeni
rappresenta per l’Italia, uno studioso, impegnato, espatriato. Ci
vuole coraggio per Un giornale online in fase
cercare la verità, ci sperimentale con un unico
vuole tenacia, quasi obiettivo: fissarsi su alcuni
una forma di fede. Di temi cruciali dell’attualità
solito il coraggio ce e seguirli nel tempo.
lo hanno soltanto i Dovremmo fare la stessa cosa
parenti delle vittime. per la morte di Giulio Regeni
Spero, ma forse dovremmo tutti esigere, che non sia così anche
in questo caso, anzi che questa tragedia sia
un’occasione, seppure dura, inaccettabile, di
capire qualcosa di quello che sta succedendo
in Egitto, dopo la rivoluzione di piazza Tahrir,
l’avvento di Morsi, la sua caduta e il ritorno
dei militari con Al Sisi. Ma questo vale anche
per la Libia, la Tunisia, l’Algeria, Paesi che si
affacciano sul nostro stesso mare, il mare che
è diventato un cimitero a causa della nostra
ignoranza, indifferenza, o peggio correità. Sapere cosa succede sull’altra sponda del Mediterraneo dovrebbe essere la nostra ossessione, così come la intendono i giornalisti di Les
jours. Un dovere ma anche la condizione della
nostra stessa salvezza, come esseri umani e
come “vicini”.
DIRITTI
di Emma Bonino
«Partorirai con dolore» e abortirai sotto tortura
L’idea purtroppo è sempre questa
L
a mia impressione è che la depenalizzazione dell’aborto clandestino abbia
automaticamente fatto scattare il reato amministrativo e la sanzione che
oscilla tra i 5 e i 10mila euro. La gravità di questa scelta mi sembra intuitiva. Probabilmente
è dovuta a sciatteria e a automatismi, poiché è
chiaro che se si depenalizza l’aborto clandestino e se ne fa un reato amministrativo con multa, automaticamente tutti i reati compresi in
quel capitolo passano a quel tipo di multa. Ed
è del tutto evidente che questo ha effetti molto
negativi, pensate a quelle donne che dovessero avere delle complicazioni per un aborto, per
evitare la multa potrebbero scegliere di evitare
anche di rivolgersi all’ospedale.
Ma la cosa più grave è che se si guarda la relazione del ministro della Salute Lorenzin, si
evince che il ricorso all’aborto clandestino è,
in stragrande maggioranza, dovuto al fenomeno dell’obiezione di coscienza che ha assunto
livelli insopportabili. Il 70% dei ginecologi, il
dato è nazionale, ha sollevato l’obiezione di
coscienza, con percentuali totali, oltre il 90 per
cento, in regioni come, per esempio, il Molise o
le Marche. Il 35% degli ospedali italiani, poi, non
applica proprio la legge, fa la cosiddetta “obiezione di struttura”, cioè l’intera struttura non
pratica interruzioni di gravidanza, violando la
legge perché la legge - non dimentichiamolo stabilisce che indipendentemente dall’obiezione di coscienza individuale, la struttura è tenuta a trovare delle soluzioni affinché la 194 venga
applicata. Quindi, l’obiezione di struttura è totalmente illegale perché non applica la legge e
in più all’interno di queste non riesci a sapere
quanti obiettori cisono perché è l’intera struttura a fare obiezione. Se poi aggiungiamo che a
questa situazione si è aggiunto le difficoltà che
incontra l’aborto farmacologico, la situaiozne si
fa grave. La Ru 486 (la pillola abortiva), oggi copre circa il 9% delle interruzioni di gravidanza
e questo dato così basso rispecchia ovviamente
la difficoltà di accedere a questa metodica. Per
esempio, sempre nelle Marche è impossibile
usare la Ru 486, non la danno proprio. In più le
linee guida del Ministero dicono che chi vuole la Ru486 si deve sottoporre a tre giorni di ricovero. Capite bene che mentre l’interruzione
di gravidanza normale (chirurgica) si fa in day
hospital - ammesso che uno ci riesca! - è chiaro che molto spesso è complicato “scegliere” di
ricoverarsi tre giorni.
Tutti questi ostacoli all’applicazione della legge, al primo posto l’obiezione di coscienza sia
individuale che di struttura, hanno automaticamente portato all’allargarsi di sacche di clandestinità e se aggiungiamo la sciatteria del Decreto depenalizzazioni, il giro è fatto!
La verità è che a forza
di non andare avanti, Se a tutti gli ostacoli che incontra
facciamo battaglie di oggi l’applicazione della legge
retroguardia... è chia- 194, sommiamo la sciatteria di
ro che la 194 nel ’78 questo Decreto depenalizzazioni,
nasceva da un com- il giro è fatto! È inevitabile
promesso perché di- l’allargarsi delle sacche
chiarava che l’aborto di clandestinità
non era punibile se
fatto nelle strutture pubbliche, mentre rimaneva reato se fatto nelle private. Compromesso
che oggi andrebbe superato. Ed invece abbiamo
a che fare con tutti questi piccoli ostacoli burobratici, o non burocratici, che messi insieme
restituiscono il quadro di una situazione davvero preoccupante. Perché a monte c’è l’idea che
“partorirai con dolore” e abortirai sotto tortura,
e se vuoi morire dignitosamente sei costretto a
pellegrinare altrove. Ed è sempre così.
L’idea rimane quella che i problemi (anche
sociali) si risolvono con i carabinieri, i divieti,
le multe... mentre dai dati che abbiamo detto,
impressionanti quelli sulla Lombardia (anche
su corriere.it), l’aborto clandestino è, in molti
casi e in molte parti d’Italia, l’unica soluzione
(testo raccolto da ila.bo.)
possibile.
5 marzo 2016
11
12
5 marzo 2016
Aminata, Burkina Faso © Humankind Production
DA HUMAN A TRUMP. PERCHÉ?
Come comporre la ricerca dell’umanità “universale”
con la cronaca più incalzante? La cronaca che racconta di un vincitore e candidato dei Repubblicani come
Donald Trump, miliardario xenofobo, brutale, e del
popolo pronto a seguirlo... e la ricerca di Yann ArthusBertrand che gira il mondo da trent’anni e che in Human chiede a più di duemila persone “what make us
human?” (cosa ci rende umani?), cosa ci rende liberi?
che significato ha la vita? La risposta, anzi le risposte,
sembrano dirci che non c’è violenza sufficiente - che
sia di un padre, di un kalashnikov, della guerra, della
religione, della fame, del capitalismo, della corruzione,
del consumismo - che riesca a cancellare le lacrime di
una donna orientale che chiede al suo amato “Per favore rendimi felice. Amami. Parlami, gentile. Parlami”,
o quelle di un padre (americano) che ha tutto “ma non
ha la bacchetta magica per aggiustare il cervello di
suo figlio depresso”. O il sorriso di un migrante che alla
polizia risponde: “Quando sono nato non sono uscito
dalla pancia di mia madre con i documenti. Sono
cittadino del mondo, ho diritto di vivere dove desidero”. Solo una rivoluzione del pensiero, sembra dirci il
regista-fotografo, può cambiare il mondo. Suggerimento prezioso che speriamo contagi anche gli americani. ila.bo.
DOVREMO GUARDARE IL MONDO
CON MOLTA PIÙ GENTILEZZA
Due anni, 60 Paesi e 63 lingue. Più di duemila volti che ci guardano
dritti negli occhi e ci raccontano “cosa ci rende umani”. In Italia
in questi giorni c’è Human, la nuova opera di Yann Arthus-Bertrand
di Florence Poulain
5 marzo 2016
13
Korkodi, Ethiopia © Humankind Production
F
otografo, reporter, regista e ambien- come una donna a cavallo che corre fra
talista francese, Yann Arthus-Ber- i campi e le montagne della Mongolia.
trand è noto per le sue spettacolari Il film, presentato fuori concorso a Vefoto aeree della terra. Ora, nel suo nuo- nezia nel settembre scorso e proiettato
vo film Human, si rivolge alle persone alle Nazioni Unite alla presenza di Ban
che abitano questo mondo: cosa ci ren- Ki Moon, arriva in Italia in questi giorni.
de umani? perché la guerra e la povertà E Left ha intervistato il suo artefice.
esistono ancora nel mondo? Perché si Lei è famoso per essere un ambientalilascia il proprio Paese per cercare una sta militante. Perché un ambientalista
vita altrove? Perché ci sono ancora delle si interessa dell’uomo?
disuguaglianze? Yann Arthus-Bertrand Oggi quando si parla di ecologia, si parla
non pretende di dare risposte. Paragona dell’uomo, di cambiare modello di ciil suo lavoro a quello di un
giornalista. «Viviamo in Io non credo nella rivoluzione politica,
un mondo difficile e com- non è sufficiente. Né in quella scientifica
plicato», racconta, «il mio e nemmeno in quella solo economica.
lavoro è di fare un ponte Siamo all’interno di un modo
fra quello che mi raccon- di pensare capitalistico senza etica
tano le persone e il pubblico che guarderà». Ed è questa la forza vilizzazione. Come dice l’ex presidente
e l’originalità dell’opera: essere andati a uruguayano José Mujica, si tratta di fercercare risposte nei racconti di donne, mare questa corsa alla crescita. È questo
uomini e bambini in più di 60 Paesi nel che uccide il pianeta. Io non credo nelmondo. «Quello che la gente mi ha dato la rivoluzione politica: i politici fanno il
è formidabile», è stupito. Più di duemila loro lavoro ma non è sufficiente. E non
volti e voci che una dopo l’altra raccon- credo nella rivoluzione scientifica, pertano frammenti della loro storia, davanti ché non è l’eolico né i pannelli solari che
allo stesso sfondo nero. La voce narrante prenderanno il posto del petrolio che
non c’è, solo musica e immagini aeree consumiamo. Non credo nemmeno alla
mozzaffiato a intervallare le interviste, rivoluzione economica: siamo all’inter14
5 marzo 2016
no di un modo di pensare capitalistico
senza etica. Per questo parlo di una rivoluzione spirituale, nel senso di etica
e morale. È nel cuore della gente che
dobbiamo andare a cercare. C’è un dato
che è nuovo nella storia dell’umanità: il
futuro è incerto. Siamo davanti a problemi difficili da risolvere che nessun Paese
può affrontare da solo: cambiamenti climatici, crisi economiche, rifugiati, crescita della popolazione. Il problema sarà:
come vivere insieme. Dovremo guardare
il mondo con meno scetticismo e molta
più gentilezza. È utopico, forse, ma in fin
dei conti il mio film parla di questo, e la
soluzione potrebbe essere questa.
L’idea del film le è venuta dopo un incontro con un contadino del Mali che
le ha mostrato tutta la sua umanità.
Il film però comincia con il racconto
di un uomo condannato all’ergastolo
per aver ucciso moglie e figlio. Secondo lei, come si perde l’umanità e come
la si ritrova?
L’umanità non si perde. Può essere positiva o negativa. Siamo capaci dell’attentato al Bataclan e allo stesso tempo
di un’onda di empatia dal mondo intero
per le vittime. Questa è una contraddizione profonda all’interno della quale
Mai, Japan © Humankind Production
viviamo tutti. Io vivo nel Paese dei diritti dell’uomo, con delle Ong fantastiche,
Medici senza frontiere, Azione contro la
fame, eccetera, e però il mio Paese è il
terzo venditore di armi nel mondo.
Lei dice che Human è la voce di tutti
noi. Ci sono delle testimonianze che
colpiscono per la loro profondità. Nella
parte che tratta della condizione femminile, in mezzo a racconti agghiaccianti, c’è una voce maschile che dice
parlando della sua amata: «Posso vi-
Mujica è l’unico politico che ho inserito.
Ha una profondità di pensiero e una
cultura enorme, ma quello che mi stupisce
è che le sue parole le senti vere. Gli altri
non riescono ad andare oltre le frasi fatte
CHI È
Yann Arthus-Bertrand è un fotografo e un celebre specialista di immagini aeree. Ha scritto diversi libri, tra cui La terra vista dal cielo.
Nel 2009 ha realizzato il suo primo film, Home. Questo documentario sul pianeta è stato visto da più di 600 milioni di persone nel
mondo. È disponibile gratuitamente su YouTube. Poi ha ideato 7 miliardi di Altri, un ritratto dell’umanità di oggi. Questa grande mostra
è stata inaugurata al Grand Palais di Parigi nel 2009, ma continua a
viaggiare per il mondo. È stato il primo passo nel percorso (trentennale) che lo ha portato a realizzare Human. Arthus-Bertrand è
anche conosciuto per il suo impegno nella battaglia per l’ambiente. Nel 2011, ha realizzato il film Planet Ocean con Michaël Pitiot,
ma già dal 2005 e dalla creazione della GoodPlanet Foundation,
è impegnato nella lotto contro i cambiamenti climatici e sul fornte
dell’educazione ambientale. www.yannarthusbertrand.org
© Humankind Production
vere senza di lei, però non posso essere
senza di lei». È possibile “essere” in un
mondo dove le donne sono maltrattate
e considerate “non” uguali?
Il mio prossimo film, Woman, è sulle
donne. Era ovvio che dopo questo film ne
dovessi fare uno sulle donne. Le donne
sono molto più sensibili, hanno pensieri
più profondi di quelli degli uomini: forse
perché hanno meno ambizioni materiali
e lavorative. Sono più essenziali. Quan5 marzo 2016
15
Abdulrahman, Afghanistan © Humankind Production
16
5 marzo 2016
Persaw, Thailand © Humankind Production
do si lavora sulle donne, si leggono libri
su quello che succede nel mondo, dalla
schiavitù sessuale nel Daesh, all’India,
al Bangladesh, ed è spaventoso. Uno dei
problemi più grandi al mondo è che non
abbiamo dato la parola alle donne. La
vera parità non esiste ancora.
Le persone intervistate nel suo film appartengono in maggioranza alla popolazione più povera del pianeta.
Ho più di duemila interviste da 65 Paesi
diversi. Ci siamo accorti che gli analfabeti, quelli che hanno provato fame e
paura, hanno molto di più da raccontare di quelli che vivono nel comfort. Il
film voleva rivolgersi a loro. È un film
politico, di denuncia.
Torniamo sull’intervista all’ex presidente dell’Uruguay, José Mujica. Cosa
l’ha colpita?
José Mujica fa parte di quegli uomini
grandi, come Gandhi e Mandela, gente
che avresti voglia di avere come dirigenti. È il solo politico che ho
inserito tra le interviste, Facciamo parte di un’enorme orchestra
perché aveva veramente che suona una sinfonia, soprattutto nei
qualcosa da dire. Ho in- Paesi democratici. Qualcuno ha uno
tervistato altri personag- strumento più grande, altri più piccolo,
gi pubblici, come Ban Ki l’importante però è che suoniamo tutti
Moon, Bill Gates, però
alla fine tutti questi hanno difficoltà ad a fermare le guerre, non si riesce a sconandare oltre le frasi fatte, non passa nes- figgere Daesh o a fermare i massacri in
suna emozione. Anche Bill Gates, che è Ruanda e Cambogia...
un po’ il mio eroe, non riesce a comuni- Nel film, tra le interviste, colpisce
care nulla di personale, di intimo. Mujica quella a un uomo molto ricco che vuoinvece ha una profondità di pensiero, le sempre più ricchezza, ma poi scopuna cultura enorme, è uno che ha capito pia a piangere quando parla del figlio
tutto. Quello che mi stupisce è che le sue depresso...
parole le senti vere. Alla proiezione del È un uomo molto ricco e lo dice bene: i
film di Venezia la gente lo ha applaudito soldi non servono all’essenziale. Quanmoltissimo, ma alla fine non ci facciamo do uno non ha niente, come in Mali o in
nulla con le sue parole, quasi non cre- Niger, ti sembra che i soldi siano importanti. Una volta che ne hai a sufficienza
dessimo a quello che va denunciando.
Lui parla di decrescita e lei aggiunge per le cose essenziali, invece, non servo“rivoluzione spirituale”. Mi può spiega- no più. In fondo, riuscire nella vita professionale è semplice, in quella privata è
re meglio?
Decrescita e rivoluzione spirituale vanno complicato. È importante essere preseninsieme per me. Non si può avere la pri- ti al momento giusto, saper dire le cose
ma se non capiamo che per essere di più giuste. L’intervistato non sa farlo ma è
dobbiamo avere di meno. È la contraddi- questa l’essenza dell’uomo: essere umazione della nostra epoca. Ma quello che ni e cercare di migliorare il mondo attordavvero sconvolge è che non si riescano no a sé. Il mondo cambia, ognuno con-
tribuisce a modo suo. Facciamo parte di
un’enorme orchestra che suona una sinfonia, soprattutto nei Paesi democratici.
Qualcuno ha uno strumento più grande,
altri più piccolo, l’importante però è che
suoniamo tutti la sinfonia della vita, cosa
che ora non accade. I direttori d’orchestra oggi sono i politici e non sanno dirigere l’orchestra.
Non è un segreto, è scritto sul suo sito,
che Human è finanziato dalla fondazione Bettencourt Schueller. La Bettencourt è una delle persone più ricche del
mondo. Non teme che ciò possa depoliticizzare il suo messaggio?
In Francia abbiamo ricevuto pesanti critiche per questo. Ma quando si fa un film
si lavora sempre con dei produttori, con
soldi che vengono dalle banche e tutti
sappiamo qual è la logica che le guida.
Una fondazione, in genere, è più generosa e a me ha consentito di fare il film che
volevo e che nessun’altra produzione mi
avrebbe finanziato. È un film senza diritti, che si può vedere gratuitamente e
distribuire ovunque, dal Ruanda all’Europa dell’Est. Ci consente di mandare un
messaggio “di umanità” per il mondo.
© © Human The Movie
IL NEOLIBERISMO NON È SCIENZA,
È POLITICA. ANZI, TEOLOGIA
Questa teoria concepisce “uomini economici”
che cercano sempre di massimizzare il proprio utile.
Perché gli economisti dovrebbero uscire da questo schema
di Andrea Ventura*
L’
idea che troviamo alla base della teoria economica dominante è che gli
uomini sono come degli atomi mossi dalla spinta alla massimizzazione della
propria utilità. In questa teoria il mercato
non è visto come un’istituzione la quale,
assieme ad altre, concorre a determinare
il funzionamento dei nostri sistemi sociali, ma costituisce il nesso sociale fondamentale. Sul mercato, infatti, il conflitto tra gli interessi economici individuali
si trasformerebbe in un armonico ordine
sociale e ciascuno sarebbe in grado di
compiere le proprie scelte in piena libertà. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione del ruolo pubblico nell’economia,
flessibilità del lavoro, sono politiche che
discendono tutte da un unico presupposto: per il benessere umano è necessario ampliare i mercati ed eliminare ogni
ostacolo loro funzionamento. Questa è
l’essenza del neoliberismo.
Prima della crisi del 2008 si poteva ancora pensare che questa teoria, per quanto
errata, facesse parte della scienza. I cri-
tici di essa si concentravano principalmente sulla sua scarsa coerenza logica
e sulla sua difformità rispetto all’esperienza storica; i sostenitori ponevano
invece l’accento sul carattere formale e
matematicamente strutturato delle sue
proposizioni. Diffusa era comunque la
considerazione secondo la quale, a differenza delle scienze della natura, per gli
economisti fosse impossibile compiere
degli esperimenti di laboratorio e verificare anche per questa via la validità delle
diverse strutture di pensiero.
Dopo quella data, dopo i disastri provocati da politiche economiche ispirate alle
stesse idee che quella crisi hanno generato, si sente dire spesso che abbiamo
assistito a qualcosa di simile a un esperimento controllato: con esso sarebbe
stato definitivamente dimostrato che la
teoria economica dominante non funziona. Certo, se si continua a guardare a
essa come teoria scientifica, assistiamo
a un indubbio fallimento. Il fatto è che
invece il neoliberismo è una teoria poli5 marzo 2016
tica, o meglio una teologia, e come tale
sembra ancora funzionare. A esso, infatti, continuano a ispirarsi partiti, governi,
istituzioni pubbliche nazionali e internazionali; è sulla base di questa teoria
che sono formulate politiche pubbliche
e riforme istituzionali. In altri termini la
teoria economica neoliberista non serve a spiegare la realtà, come può essere
una scienza della natura. Essa svolge
invece funzioni di controllo sociale e di
dominio, sia appunto per le politiche che
propone, sia per la cultura economicista
che contribuisce a diffondere. Se poi così
facendo si generano miseria, crisi e disgregazione sociale, è sempre a essa che
si ricorre per trovare soluzioni, magari
suggerendo che le politiche indicate non
sono state applicate in modo abbastanza
radicale.
Gli uomini, dice questa teoria, sono uomini economici, dunque cercano sempre di massimizzare il proprio utile.
Perché gli economisti dovrebbero uscire
da questo schema di comportamento?
Abbiamo qui un vero e proprio corto
circuito: il sostegno teorico alle tesi neoliberiste e il perseguimento del proprio
tornaconto personale diventano guida al
pensiero e all’azione di troppi economisti. Essi si trovano dunque perfettamente
a loro agio nel sostenere politiche funzionali ai gruppi di potere dominanti. Al
contempo, l’impoverimento del settore
pubblico e la crescente concentrazione
della ricchezza in mani private rendono
l’intera produzione scientifica e culturale sempre più dipendente dagli interessi
di gruppi e fondazioni che operano sulla
base di un orizzonte privatistico. È urgente costruire su nuove basi antropologiche e culturali un’opposizione che sia
in grado di spezzare questa soffocante
TINA, “there is no alternative”, che la teoria dominante propone ma che l’esperienza storica non ha mai confermato.
*economista,
Università degli studi di Firenze,
autore de La trappola, radici storiche
e culturali della crisi economica (2012)
17
HILLARY E DONALD
VINCENTI E PERPLESSI
Il super martedì elettorale consegna il Partito repubblicano al ciclone
Trump. La Clinton conquista il voto della borghesia nera, delle
minoranze e conquista il Sud. Sanders si consola vincendo in 4 Stati
di Corradino Mineo
H
illary Clinton fra i democratici, Donald
Trump per i repubblicani. A prima vista
il super tuesday sembra aver detto questo. La destra americana dovrà dunque
allinearsi dietro un candidato che elogia
il Ku kux Klan, che si propone di cacciare i musulmani, che a chi lo contesta chiede con odio
“Are You from Mezico?” Un candidato presidente
«le cui parole ti metterebbero in imbarazzo se
le pronunciasse tuo figlio», come ha notato Ted
Cruz, che da presidente sarebbe - sempre secondo Cruz - «un disastro per i repubblicani, per i
conservatori, per la nazione»?
Un sondaggio Cnn dice che il palazzinaro,
showman e bancarrottiere a novembre, quando
si sceglierà il presidente, verrebbe battuto nettamente da Hillary Clinton: 52% contro 44. Ancora più secca, 55 a 43%, sarebbe la sconfitta di
Trump se il candidato democratico fosse Bernie
Sanders. Non c’è da meravigliarsi se il partito di
Nixon, di Reagan, dei Bush si dibatta sull’orlo di
un crisi di nervi. Trump lo sa e nelle ultime ore,
prima del super martedì, si è persino cimentato
nell’impresa «per lui molto, molto ardua - dice
Maggie Haberman del NYTimes - di mostrarsi
calmo, di usare toni più misurati, di voler essere
più inclusivo», insomma di unire, o di provare a
unire, il suo campo.
Un parte dell’apparato, più legata al Tea Party,
già corre, e correrà, in soccorso del vincitore
annunciatio. Tuttavia martedì Ted Cruz, peraltro non meno reazionario di Trump, è riuscito
a evitare la disfatta, vincendo nello Stato per il
quale è senatore, il Texas, e prevalendo nei cau18
cus dell’Oklahoma. Mentre persino il giovane
e telegenico Marco Rubio, un pollo d’apparato,
che nella super notte sembrava fuori, tanto che
Trump lo aveva sfottuto, dicendo «poverino, ha
speso molti soldi», alla fine ha conquistato, anche lui, un premio di consolazione in Minnesota, lasciandosi così scampoli di speranza in una
risurrezione grazie al voto voto ispanico della
sua Florida.
Trump ha certo vinto una battaglia importante,
questo è vero. L’onda sporca della sua demagogia sembra «aver travolto i rivali», come scrive
New York Times. Di più, ha imposto un clima,
ha dettato le regole della competizione tra i
repubblicani, involgarendo sempre più il confronto, con Rubio che si è avventurato in doppi
sensi sulle mani troppo grandi del miliardario
o sul che “si bagnerebbe i pantaloni”. Tuttavia,
pur mostrando di “dominare (per ora) il campo”,
Washington Post, Donald non ha espugnato del
tutto l’anima del partito “che fu di Lincoln”. E
dovrà guardarsi da congiure e imboscate.
L’altra metà del cielo, più composta, più saggia
o se preferite più conformista, sembra allinearsi
dietro Hillary Clinton. La quale probabilmente
studiava da presidente già al tempo in cui Bill
era governatore dell’Arkansas, che ha trascorso 8 anni alla Casa Bianca come first lady e si
è cimentata per prima con la riforma sanitaria
aprendo la strada all’Obama Care, ma ha anche
appoggiato in congresso la sciagurata guerra in
Iraq di George W. Bush, e poi, da segretario di
Stato ha convinto Obama che occorreva intervenire contro Gheddafi. In quell’occasione si è
5 marzo 2016
Un sondaggio Cnn
dice che Trump,
palazzinaro,
showman
e bancarottiere,
a novembre,
quando
si sceglierà
il presidente,
verrebbe
nettamente
battuto da Hillary:
52% a 43%
© Gerald Herbert/AP Photo
© Mark Cornelison (Lexington Herald-Leader)/AbacaPress Ansa
Sanders
e i suoi ragazzi
vogliono contare
nel Partito
democratico,
si propongono
di ispirare
in ogni caso
le future scelte
della Casa
Bianca.
Già hanno
spostato più a
sinistra la Clinton
mostrata volitiva - ha scritto New York Times meno indecisa del presidente, ma le conseguenze di quei raid - prosegue il giornale - le stiamo
tuttora pagando.
“What a super Tuesday!” ha esclamato una Hillary che già si sente a un passo del successo su
Trump e vede riaprirsi le porte della Casa Bianca. È vero che il vantaggio in delegati che ha su
Sanders è più forte di quello che Barak Obama
ebbe su di lei, allo stesso punto della corsa nel
2008. Ed è vero che la borghesia nera, evidentemente grata a Barack e a Bill, ha votato Clinton,
che ispanici e bianchi del sud la hanno scelta,
portandola a doppiare o quasi i voti di Sanders
in Texas e in Virginia. È vero che ha vinto persino in Massachusset, sia pure di un incollatura,
ma non si può dire che Sanders sia “fired” bruciato, licenziato, eliminato.
Nel super martedì Senatore “socialista”, sostenuto dai giovani “millennials” è riuscito a imporsi
in 4 Stati: ha vinto le primarie nel suo Vermont e
in Minnesota, si è aggiudicato i caucus dell’Oklahoma e del Colorado. «Abbiamo conquistato
centinaia di delegati», ha detto dopo la vittoria in
Vermont, e subito ha indicato la strada che percorrerà comunque fino alla cenvention democratica: «So che il segretario di Stato (Clinton) e altre
personalità pensano che io punti troppo in alto,
che la gratuità del college pubblico e il medicare
per tutti siano un’utopia. Io non la penso così».
Sanders e i suoi ragazzi vogliono contare nel Partito democratico, si propongono di ispirare in
ogni caso le scelte future della Casa Bianca. Già
oggi l’effetto Sanders si fa sentire, con una Hillary
che si è spostata più a sinistra di quanto probabilmente non avesse immaginato di poter fare:
promette di alzare il salario minimo a 12 dollari
- se non ai 15 che chiede Sanders - e The Nation,
settimanale della sinistra statunitense, si aspetta
che riprenda in mano e rilanci il welfare americano, rispondendo alle attese del suo sfidante.
Può darsi, invece, che abbia ragione Vittorio
Zucconi, il quale scrive: «La normalità cala sul
Partito democratico mentre l’anomalia Donald
cresce tra i repubblicani». Ma è una normalità
- ha ragione Federico Rampini - che dà le «vertigini, perché questa America potrebbe essere
sull’orlo del baratro». Troppo amata dall’apparato, troppo ben pagata per le conferenze - anche a porte chiuse - che è stata chiamata a fare
da potenti gruppi multinazionali, Hillary candidata potrebbe correre il rischio di regalare al rozzo e “perdente” Donald Trump tutta la rappresentanza del disagio sociale e il monopolio della
critica all’establisment. Non a caso New York
Times, che ha fatto endorsement per lei, ancora martedì le consigliava di restare all’altezza di
Sanders , «la cui campagna è stata ammirevole
per la moderazione e gli ideali positivi proposti».
«La signora Clinton - così chiude il giornale della
borghesia liberal - dovrebbe continuare a spiegare chi ella sia e cosa possa fare per la classe
media americana. Perché quello che serve è una
leadership che esprima il meglio, non il peggio
degli impulsi politici». Che dialoghi con Bernie e
non scenda al livello di Donald.
5 marzo 2016
19
20
5 marzo 2016
© Ron Jenkins/Tns Via Zuma/Ansa
SPAVENTATI E FRUSTRATI
ECCO IL POPOLO DI TRUMP
Bianchi, non ricchi, non particolarmente colti e molto, molto delusi
da come vanno le cose a Washington. Poi le minoranze arrabbiate,
libertarie, xenofobe e anti Stato. Gli elettori di TheDonald ai raggi X
di Martino Mazzonis
C’
è stato un tempo in cui la Florida era il
centro del boom edilizio americano. Non
è più così. I resort e villaggi multiproprietà costruiti nei luoghi meno famosi e lussuosi e venduti a peso d’oro fino al 2008 - oggi sono
mezzi vuoti. Oppure abitati da pensionati che
pensavano a quella casa come a un investimento
dove passare molto tempo, ma non tutta la vecchiaia. Dal 2008 il meccanismo “indebitamentoinvestimento-restituzione dei soldi chiedendo
altri soldi in prestito grazie al valore cresciuto
della casa”, è saltato. E per molti ha significato la
fine delle certezze coltivate per una vita. E un’esistenza passata in questi villaggi semi-deserti,
spesso tristi come i luoghi di villeggiatura in inverno - perché per quanto la bella stagione in
Florida sia lunga, non è infinita.
Nella “cintura della ruggine”
Il Michigan invece è in decadenza da decenni. L’amministrazione Obama ha impedito
che l’industria dell’auto morisse per sempre,
ma certo nella Rust belt, la cintura della ruggine - chiamata così perché ospita le carcasse di
centinaia di fabbriche vuote -, ci sono migliaia di famiglia operaie che si guardano attorno
sperdute. C’è chi lavora in un Wal Mart, chi fa
il facchino in un magazzino Amazon e chi è
impiegato nelle piccole fabbriche che forniscono i giganti della grande distribuzione che,
come mi raccontò una volta un sindacalista in
Wisconsin, «si sentono dire: il prezzo è questo,
prendi o me ne vado in Cina domani». La conseguenza è semplice: salari che scendono e un
altro piccolo modello di vita ordinata che va in
fumo. Non per tutti ma per molti.
I dati sul declino di alcune aree urbane parlano
chiaro: ci sono regioni del Sud repubblicano e
del Midwest dove la ripresa non si sente. Cleveland, Detroit, Toledo, Milwuakee, Buffalo, Memphis, Cincinnati, otto delle dieci città americane con i dati socio-economici peggiori secondo
una ricerca recente dell’Economic Innovation
Group, sono ex centri importanti e industriali che non sanno più dove sono - e dove anche
Bernie Sanders è forse destinato a fare bene per
ragioni uguali e contrarie a quelle di Trump.
Se vogliamo capire da dove venga il fenomeno
Donald dobbiamo partire da posti come questi:
l’America opulenta e indebitata degli anni 80 divenuta decadente e colpita dalla globalizzazione
del commercio mondiale. I numeri strabilianti di
TheDonald vengono da qui, dai nostalgici dell’America convinta da Reagan che lo Stato non fosse
la soluzione ma il problema, l’America che domina il mondo e vince la Guerra fredda. Make America Great Again, “Fai tornare l’America grande”,
lo slogan di Donald, è un richiamo a quegli anni
- e in fondo anche a quelli di Clinton, Bill.
Minoranze arrabbiate
E così molti cittadini bianchi, non ricchi, non
particolarmente colti e molto, molto delusi da
come vanno le cose negli Stati Uniti e a Washington scelgono il candidato che nessuno si
aspettava. Poi ci sono le minoranze arrabbiate,
libertarie, xenofobe, anti Stato che, a seconda
dei luoghi, sono una colonna portante dell’e5 marzo 2016
21
lettorato repubblicano. Non i conservatori tradizionali e religiosi, quelli che in piena epoca
delle culture wars (aborto, matrimonio gay)
fecero vincere George W. Bush e che in maggioranza relativa stanno scegliendo il senatore del
Texas Ted Cruz, ma piuttosto gli estremisti un
po’ pazzoidi e non ideologici su cui frasi forti,
sparate politicamente scorrette,
Il successo di Trump viene battute e atteggiamento da bullo
dai nostalgici dell’America maleducato funzionano a meraviconvinta da Reagan che glia. Sono molti e nel 2012 votarolo Stato fosse il problema, no Ron Paul, che prometteva una
quella che domina il mondo rivoluzione libertaria e che ottene vince la Guerra fredda. ne una quota superiore al 10% dei
“Make America Great delegati - parte dei quali gli venneAgain”, è il suo slogan ro sottratti in una serie di dispute
statali che diedero ai suoi seguaci
l’idea che “quelli di Washington sono contro
di noi”. Ma Paul era un candidato marginale e,
sebbene vicino nel tempo, il 2012 era diverso: a
ogni ciclo elettorale l’idea che Washington sia
il male e vada cambiata torna in maniera prepotente.
UN’AMERICA SOTTO PSICOFARMACI
Aumentano le dipendenze e il numero
di suicidi fra i cinquantenni bianchi.
Lo studio del premio Nobel Angus Deaton
D
opo decenni in cui la vita media negli Usa si era andata
progressivamente allungando, si registra un’inversione
di tendenza. È un fatto che, in particolare, riguarda gli
adulti maschi, bianchi di mezza età e poveri. A denunciarlo
è il premio Nobel 2015 Angus Deaton. Tra le cause principali
non ci sono solo le patologie legate allo stile di vita malsano
dell’America, a cominciare dal junk food con il suo carico di
obesità, diabete e malattie cardiocircolatorie. Dai risultati
delle ricerche dell’economista di Princeton e dai rilevamenti dei Centers for Disease Control and Prevention - riportati
dal New York Times e da altre testate - un numero crescente di adulti americani oggi muore intorno ai cinquant’anni
perché si suicida assumendo pain-killers, potenti analgesici,
metamfetamine, massicce dosi di psicofarmaci più alcool.
Accade soprattutto nell’America profonda, fra bianchi che
22
5 marzo 2016
Spaventati da immigrati ed economia
Oggi l’elettorato repubblicano vuole il cambiamento, a cominciare dal proprio partito. E per
questo sceglie “TheRealDonaldTrump”. Le rilevazioni degli istituti demoscopici ai seggi sono inequivocabili. Prendiamo i dati delle prime quattro
primarie, quelle di Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina: Sud conservatore, Nord Est
bianco, ovest, luoghi e contesti molto diversi tra
loro, risposte identiche degli elettori di Trump.
Tutti, sempre, spiegano che hanno scelto il loro
candidato perché “dice le cose come stanno” e
perché “è un outsider”, terzo motivo “porterà il
cambiamento”. Le loro prime preoccupazioni?
L’immigrazione e l’economia, che nell’immaginario di gente che spesso è in competizione con i
messicani per posti di lavoro nei servizi non specializzati sono legate tra loro. Il 67% degli elettori
di Trump, nei primi quattro Stati in cui si è votato,
ha un’opinione sfavorevole dei musulmani americani (contro il 35% del totale degli americani),
l’87% è favorevole a non farli entrare negli Stati
Uniti fino a quando ci sarà il terrorismo e il 55%
hanno perso il lavoro, che «si sentono minacciati dall’emancipazione delle donne e dagli immigrati». Fra questi
cinquantenni, disperati e furibondi, si trovano molti elettori Trump, ha scritto su D di Repubblica Federico Rampini
commentando i dati sullo stato di salute degli americani. Ma
la spiegazione del fenomeno in termini economici e sociologici non basta. Ci aiutano a far chiarezza alcuni libri sulla
psichiatria americana degli ultimi cinquant’anni pubblicati
da L’Asino d’oro. Pensiamo in particolare a tre titoli: Le pillole della felicità dello storico della scienza David Herzberg,
La perdita della tristezza di Allan V. Horowitz e Jerome C.
Wakefield e Mad in America del noto giornalista d’inchiesta
Robert Whitaker. Insieme concorrono a tracciare un quadro
documentato e molto articolato dei danni provocati dalla psichiatria americana “organicista” che ha fatto del Dsm
(ora arrivato alla quinta edizione) la propria Bibbia. Pur provenendo da esperienze professionali diverse e occupandosi
di ambiti psichiatrici differenti, tutti e quattro gli autori citati
arrivano grosso modo alla medesima conclusione: il problema della cultura americana è la negazione della malattia
mentale e il riduzionismo biologico della psichiatria basata sull’idea (priva di fondamento scientifico) che esista una
causa genetica ed organica delle patologie mentali. Da qui
icina
/Off
ione
raz
llust
eppe
Gius
ore
aggi
B5
M
©I
gli eccessi di prescrizione e una assoluta fede nel potere della
chimica. «Come se bastasse l’introduzione di una sostanza
nell’organismo per trasformare magicamente un individuo
gravemente disturbato», scrive Herzberg, registrando il fallimento di interventi farmacologici che non curano l’alterazione del pensiero rafforzando nel paziente l’idea dell’incurabilità e bloccando ogni sua ricerca sul ruolo dei rapporti
umani. In particolare David Herzberg ha studiato il fenomeno che ha avuto inizio nell’America degli anni 50, quando
furono immessi sul mercato ansiolitici come il Miltown e
il Valium, «farmaci blockbuster» che creavano problemi di
dipendenza. Poi sarebbero arrivati gli inibitori selettivi del
reuptake della serotonina come il Prozac, negli anni Ottanta
spacciato come panacea da campagne pubblicitarie rivolte
soprattutto alle donne. Con lo slogan «By by blue», il Prozac
veniva presentato come la pillola del successo, funzionale al
modello yuppie, ultra competitivo, diventando in poco tempo «un bene di consumo». Ne Le pillole della felicità, Herzberg analizza le campagne pubblicitarie che vedevano “protagoniste” donne bianche del ceto medio, sempre sorridenti.
Erano loro il principale obiettivo di mercato e consumavano
psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini, con l’illusione così di diventare mamme, manager, mogli modello...
Così come le casalinghe americane venti o trent’anni prima
erano state tra le principali consumatrici di ansiolitici «per
tollerare la frustrazione della vita domestica». A rivelare l’estensione del problema contribuirono allora anche personaggi in vista come Betty Ford, moglie del presidente degli
Stati Uniti, che rivelò pubblicamente la propria dipendenza
da ansiolitici. Un capitolo a parte, e importantissimo, riguarda i grossi danni che la somministrazione di psicofarmaci
ha prodotto e produce sui bambini e adolescenti; fenomeno che ha subito un rapido e costante incremento. Negli
Usa sono almeno tre milioni i bambini in trattamento per
problemi legati a un supposto “deficit di attenzione” . Patologia individuata dalla psichiatria americana quando fu
immesso sul mercato il Ritalin. In questo caso fu il suicidio
di Kurt Cobain ad accendere i riflettori sul fatto che storie
di dipendenza dalle droghe, come la sua, potevano aver
radici nell’infanzia, quando gli era stato prescritto il Ritalin
e aveva appreso la “cultura della droga”. Poi il cantante dei
Nirvana cadde nella trappola delle droghe pesanti. Le usava per tenere a bada la depressione e il profondo malessere
che non gli dava tregua. Pensava che la malattia mentale
fosse malattia organica e, in quanto tale, incurabile. Nel
1994 si tolse la vita a soli 27 anni.
Simona Maggiorelli
5 marzo 2016
23
© John Minchillo, Andrew Harnik/AP Photo
L’importanza
di Ohio e Florida
La prossima tappa importante delle primarie
è quella del 15 marzo.
Si vota in Florida e
Ohio, Stati cruciali per
il processo di scelta
dei candidati, ma molto
di più, per le elezioni
generali. Chi porta a
casa lo Stato tropicale
e quello del midwest,
in genere, vince le
elezioni. Sono Stati
grandi, diversi e importanti per varie ragioni.
Che faranno i cubani
di Miami dopo la
svolta su Cuba? E gli
operai dell’auto salvati
da Obama? E Marco
Rubio porterà a casa lo
Stato dove è eletto continuando così a nutrire
speranze di farcela
contro Trump?
ritiene che 12 milioni di illegali vadano deportati.
Ma il 45% - meno della media nazionale, ma non
una percentuale da evangelici -, è a favore della
scelta delle donne sull’aborto.
Click, voti e sparate che piaccono
Chi sono le persone che rispondono così? Trump
prende più voti tra le persone bianche che guadagnano meno di 50mila dollari l’anno, che non
hanno un diploma universitario e che non han-
Tutti spiegano che lo hanno scelto
perché “dice le cose come stanno”, è “un
outsider”, e “porterà il cambiamento”.
Le loro prime preoccupazioni?
L’immigrazione e l’economia
no una matrice ideologica forte. Un elettore repubblicano tipico, non quello tradizionalmente
impegnato ma quello che a volte si presenta alle
urne e a volte no. Gli esperti e analisti di numeri per mesi hanno pensato che il successo di
Trump in campagna elettorale - i click sui suoi
video, le folle ai suoi comizi - non si sarebbe tradotto in voti. Si sbagliavano.
In questi mesi il miliardario newyorchese ha fatto
allusioni sulle mestruazioni della conduttrice di
un dibattito elettorale Tv, l’imitazione di Marco
24
5 marzo 2016
Rubio, ritwittato una frase di Mussolini, insinuato
che il certificato di nascita di Obama fosse falso,
sostenuto che i musulmani del New Jersey avessero fatto festa dopo l’11 settembre, si è chiesto
se i vaccini non stessero generando un’epidemia
di autismo e se il giudice della Corte Suprema
Scalia, morto a febbraio, non fosse stato ucciso.
«So che si dice che avesse un cuscino sulla faccia»
ha detto rispondendo alle domande di una talk
radio conservatrice. E, in ultimo, non ha preso le
distanze dal sostegno ufficiale arrivato da un leader del Ku Klux Klan. Nulla di quanto ha detto e
fatto gli è costato punti percentuali. Gesti e sparate che hanno attirato l’attenzione e le critiche dei
media e che avrebbero distrutto una candidatura
tradizionale, non lo hanno toccato. Lui parla la
stessa lingua di chi lo segue, è miliardario ma non
guarda nessuno dall’alto in basso e quando a un
comizio una persona che protesta viene sbattuta
fuori commenta dal palco: «Lo stanno portando
fuori con gentilezza, non siamo più autorizzati a
mollargli un bel cazzotto. Non si può più».
L’eroe della massa repubblicana
La gente che lo segue vive in un universo parallelo fatto di talk radio repubblicane - i media con i
numeri più alti in assoluto - e FoxNews, di teorie
del complotto nate e propagatesi in rete e di un
LO CHIAMANO
MASS SHOOTING
Dall’inizio dell’anno sono già cinquantacinque
le stragi negli Usa. E nessuno si interroga
su che tipo di cultura produca tutto questo
N
clima generato ad arte dall’establishment repubblicano. Lo stesso clima che oggi ha reso Trump
l’eroe della massa repubblicana stufa di sentirsi
manovrata dall’establishment del partito. La gente che lo segue se ne infischia delle opinioni dotte
di chi spiega che il piano economico di Trump
per reggere ha bisogno di tagli alla spesa spaventosi o di una crescita del Pil del 10% l’anno.
Dietro la voglia di tornare a far grande l’America, dunque, c’è la voglia di tanta gente
Gesti e sparate che hanno attirato le
critiche dei media e che avrebbero
distrutto una candidatura tradizionale,
non lo hanno toccato. Lui parla la stessa
lingua di chi lo segue
di tornare a sentirsi al centro delle attenzioni
della politica. Oggi pesano la finanza, la Silicon
Valley, gli hipster laureati e tecnologici, le minoranze che chiedono diritti e il cittadino medio bianco e americano si sente emarginato. E
trova in Trump e nella sua subcultura razzista
e destrorsa, la risposta a tutti i mali. Se quelle
di Trump sono balle non conta: era da quando è morto Reagan che qualcuno non diceva a
questa gente le cose che ama sentirsi dire. Poi
è arrivato TheDonald.
on esiste in italiano una traduzione precisa del termine mass shooting. Si traduce genericamente con la parola strage. Forse perché manca un corrispettivo di questo agghiacciante fenomeno
americano. Accade negli Stati Uniti che un giovane vestito con anfibi e
mimetica entri in classe armato fino ai denti, che ordini agli studenti di
alzarsi, di dichiarare quale fede professano, per poi uccidere a freddo.
Così ha fatto l’ottobre scorso il 26enne Chris Harper-Mercer, uccidendo 9 persone e ferendone altre 7. Sul web si raccontava come repubblicano, conservatore, sobrio, contrario alle droghe, interessato alla «religione organizzata» e con qualche hobby. Per esempio? «Uccidere gli
zombi». Casi di questo genere accadono quasi ogni settimana.
I numeri sono impressionanti. Dall’inizio del 2016 negli Stati Uniti
sono già 36 i casi di mass shooting e i morti sono 55. Nel 2015 sono
morte in questo modo 462 persone e 1.314 sono rimaste ferite. Nella
strage di San Bernardino a dicembre 2015 sono morte 14 persone e 17
sono rimaste ferite. Un mese prima a Colorado Springs si contarono
3 morti e 9 feriti. Nell’ottobre del 2013 nella scuola elementare Sandy
Hook di Newtown, in Connecticut morirono 28 persone. Lo riporta il
sito www.gunviolencearchive.org, addetto a questo macabro conteggio. In cui non sono compresi tutti gli altri casi di persone uccise con
armi da fuoco. Secondo il Center for disease control and prevention,
tra il 2004 e il 2013 sono state uccise 316.545 persone. Eppure la maggioranza degli americani non cambia idea sulle armi libere per tutti.
Mentre un’altra parte si limita a dire che basterebbe vietarle senza interrogarsi su quale tipo di società, che tipo di cultura e di pensiero malato produca tutto questo. Con tutta evidenza non se lo chiede Donald
Trump, che cavalca la xenofobia e la corsa alle armi proiettando la sua
crociata in difesa dei bianchi cristiani anche oltre i confini statunitensi.
«Se la nostra gente (leggi i francesi, ndr) fosse stata armata, al Bataclan
le cose sarebbero andate diversamente», ha commentato il candidato
repubblicano all’indomani della strage di Parigi. Le lobbies delle armi,
certo, lo sostengono. Ma forse c’è anche dell’altro. Trump pensa che la
violenza ed essere armati siano la via migliore per vincere la paura, e
portare avanti la missione “civilizzatrice” degli Usa. E il pensiero corre
a George Bush, il presidente che voleva esportare con le armi la democrazia in Iraq e che badava più alla Bibbia che alla Costituzione.
«Gli ideologi dello Stato americano - ha scritto Todorov nel libro Il nuovo disordine mondiale (Garzanti)- hanno spesso affermato che il loro
Paese, l’equivalente del popolo eletto della Bibbia, aveva una vocazione che consisteva nell’imporre il Bene nel mondo». George Kennan,
l’ideatore della politica di “isolamento” nei confronti dell’Urss, parlava
di «responsabilità di direzione morale e politica che la storia con evidenza ha voluto affidare agli Stati Uniti». La Storia, commenta Todorov,
«qui ha dato il cambio a Dio: eccola capace di progetti e intenzioni.
Con quali segni li rivela? Concedendo agli Stati Uniti una potenza
superiore a quella degli altri Paesi: la forza in questo caso si trasforSimona Maggiorelli
ma insensibilmente in diritto».
5 marzo 2016
25
UNA LEGGE PARTICOLARE
“MATRIMONI” SENZA ADOZIONI
Il Pd promette di riprovarci con le adozioni per gay e single, ma la Cirinnà
non è ancora legge. E affronta il passaggio alla Camera nel pieno
del caso Vendola, che riaccende il dibattito sulla gestazione per altri
di Luca Sappino
G
ià Monica Cirinnà non era tranquilla per nulla: «Una sola modifica rischia di affossare la legge»,
ripete da giorni a chiunque le
chieda un commento sul prossimo passaggio che la legge sulle unioni civili che porta il suo nome deve affrontare
alla Camera dei deputati, cominciato giovedì 3 - dalla commissione giustizia.
Un passaggio sulla carta più semplice
di quello superato al Senato. Sulla carta
però. La maggioranza che ha approvato
il maxi emendamento che ha riscritto
la legge stralciando l’adozione del figlio
del partner, infatti, a Montecitorio ha
numeri più comodi, che rendono questa volta veramente ininfluente il supporto dei verdiniani, che si sono invece
rivelati fondamentali a palazzo Madama,
mettendo così, votata la fiducia, più di
un piede nella compagine di governo,
con tutte le polemiche del caso. Ma potrebbe non bastare. «Una sola modifica e
ricominciamo il giro», dice giustamente
Monica Cirinnà, «e l’esito a quel punto
nessuno può prevederlo».
Se infatti i deputati dovessero voler fare
ciò per cui in effetti sarebbero pagati, e
cioè migliorare le leggi che si trovano a
votare, il testo dovrebbe poi tornare al
Senato per via della celebre doppia lettura, la navetta, nemico pubblico numero
uno prima di Silvio Berlusconi («Sapete
quanti giorni ci vogliono per approvare
una legge», chiedeva sempre al suo pubblico, retorico) e poi di Matteo Renzi. E
26
un nuovo passaggio al Senato vorrebbe
dire riaprire la discussione, «e non ci aiuta», dicono dal Pd, «la vicenda di Nichi
Vendola». «Tempismo sbagliatissimo», è
il commento che si registra tra gli ex alleati, nei giorni in cui esplode il caso di
Tobia Antonio Testa, figlio biologico di
Ed Testa, compagno del leader di Sel, ormai ai margini della politica, ma ancora
capace di paralizzarla per giorni, ferma a
discutere di una sua scelta privata: ricorrere alla gestazione per altri per procreare, volando in California.
Avrete letto e riletto i commenti più violenti, quelli di Matteo Salvini o di Maurizio Gasparri. Anche Beppe Grillo ha detto la sua ponendosi sul fronte presidiato
dai giornali cattolici, da Avvenire («Non
chiamiamoli diritti») e da Famiglia Cristiana. Avrete letto anche lui. Grillo si è
detto spaventato dall’utero in affitto: «C’è
qualcosa del concetto di utero in affitto
che mi spaventa», ha detto cogliendo
l’occasione per un improbabile attacco
sul canone Rai in bolletta: «E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure
l’eterosessualità; mi spaventa la logica
del “lo facciamo perché è possibile”: un
po’ com’è diventato facile attaccare tutto
alla bolletta della luce».
Appassionante o meno, il dibattito comunque non ha ancora preso nessuna
forma parlamentare. Una legge non è
all’orizzonte (non senza torto Gasparri
può dire: «Sono tutti contrari ma poi si
imbarazzano quando c’è da intervenire
5 marzo 2016
su casi concreti e punire chi va all’estero») e quindi ci si può limitare per il momento a registrare le posizioni, tra cui
quella contraria, che è prevalente nel Pd.
I dubbi esposti da Laura Boldrini, infatti,
sono gli stessi di Valeria Fedeli, una vita
nel femminismo, come di Debora Serracchiani, volto della rottamazione renziana. E sono i dubbi anche di Pierluigi
Bersani che dai divanetti della Camera si
dice «molto amico di Vendola»: «Lo stimo, rispetto le scelte individuali, ma non
da oggi dico che l’utero in affitto non mi
convince».
Un passaggio delicato, dunque, quello
alla Camera dei deputati. Ed è così probabile che anche lì si arrivi a porre la fiducia, completando l’opera cominciata
al Senato, sottraendo potere al parlamento con l’obiettivo di «portare a casa»
una legge. “Una legge particolare”, come
cerchiamo di raccontare con Valeria Solarino, nelle pagine che seguono, giocando sul titolo dello splendido film di Ettore Scola che Solarino e Giulio Scarpati,
nei panni del Mastroianni omosessuale,
stanno portando a teatro. Una legge particolare perché introduce un matrimonio
a metà, che non si chiama matrimonio
e che dal matrimonio si differenzia per
«una serie di aspetti simbolici» come ci
dice il senatore dem Sergio Lo Giudice
che assicurano, a suo dire, l’effetto segregazionista: «Così», continua Lo Giudice, «è una legge che si promette di riconoscere diritti identici con due istituti
«PENSAVO SAREBBE STATA LA VOLTA
BUONA PER LA PARITÀ. MI SBAGLIAVO»
diversi». Due bagni, due diversi posti sui
bus, due scuole. Una legge a metà perché
priva di un diritto in Italia riconosciuto
solo alle coppie sposate e quindi eterosessuali, l’adozione, oltre che del lato
simbolico (se è un matrimonio perché
non si chiama tale?). È una delle modifiValeria Solarino è in teatro con un adattamento
che che alla Camera qualcuno potrebbe
del film di Scola, Una giornata particolare.
provare a fare, ma non è l’unica né la più
Con noi parla di unioni civili e maternità surrogata
probabile. Non c’è l’adozione nella legge Cirinnà, neanche nella versione light
dell’adozione del figlio del partner, la
uando è morto Ettore Scola, Achille Occhetstepchildadoption. Il Pd, da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, assicurano che
to mi ha detto che tra quelli del regista il suo
si recupererà la discriminazione in una
film preferito non era, come avevo immaprossima («Ci vorrà un anno», dice Renginato, La terrazza, dove Gassman interpreta un
zi) riforma della legge sulle adozioni. Ma
deputato comunista che si muove in una companel movimento lgbt non è che ci credano
gnia salottiera che oggi definiremmo radical chic.
poi tanto: «Ma per favore!», sbotta Andrea
«Una giornata particolare, senza dubbio», è invece
la scelta dell’ultimo segretario del Pci. «Perché è
Maccarrone, l’attivista che ha fatto infuriare Giovanardi con un bacio dalle tribuun film perfetto dal punto di vista formale», dice,
ne del Senato durante il
«ma che dimostra tutta la sensibilità politica e culturale di Scola, con l’efficace contrappunto tra il
dibattito, «se non sono Boschi e Renzi promettono
machismo fascista e la delicatezza sorprendente
riusciti ad approvare la riforma delle adozioni,
di Mastroianni omosessuale». E con Valeria Solarioggi la stepchild per estendendole a gay e
no, in questa intervista un po’ politica, non potevo
le unioni civili perché single. Ma il movimento
dunque che partire che da qui, da cosa l’ha colpita,
mai dovrebbero riusci- Lgbt non ci crede: «Non
re a inserire addirittura hanno trovato i voti per
a lei, del film di Scola che con Giulio Scarpati sta
le vere adozioni per gay la stepchild. Ora cosa
portando, adattato, nei teatri. «La scenaggiatura»,
e single in un’altra leg- cambierebbe?»
dice, «è la forza di Scola, il modo in cui scrive, fa
ge?». «E se sono sicuri
muovere e parlare i personaggi, facendo politica in
di avere i numeri», continua Maccarrone,
un modo raffinato».
«vuol dire invece che i numeri c’erano già
E allora, politica per politica, io la provo a portare subito sulla figura di Mastroianni, che tanto ha
questa volta e che è stato il Pd di Renzi
colpito Occhetto, e così sull’attualità che ci spinge
a non volere in realtà una legge con la
a parlare della legge sulle unioni civili, dei diritti
stepchild».
Q
5 marzo 2016
27
© Claudio Onorati/Epa Ansa
degli omosessuali. «Ma quello di Scola», mi frena,
«è soprattutto un film di critica al regime, critica
che arriva attraverso la rappresentazione della famiglia, con il padre marito e padrone così ignorante, e alcune scene che restituiscono perfettamente il lato ridicolo di un regime». E cita una
scena, Solarino, per spiegare cosa intende: «Faceva sorridere al cinema e fa sorridere ora chi viene
a vederci a teatro», dice, «la scena della rumba,
quando Gabriele, Marcello Mastroianni, insegna
a Antonietta, Sophia Loren, il passo base. I due
ballano e quando dalla radio di una vicina arrivano più forti le note di una canzone fascista, Gabriele spegne il giradischi, dispiaciuto, e fa “Ecco.
Questa è meno ballabile”».
È presto detto, dunque, perché portare oggi in teatro Una giornata particolare (dal 31 marzo al 10
aprile a Roma, questo week end a Perugia). Non
solo per comodità: «È una sceneggiatura perfetta, quasi tutta in un unico ambiente e con due
soli personaggi. E io», continua Solarino, «ho la
possibilità di portare in scena ogni sera un personaggio stupendo, capace di parlarci ancora
oggi che la condizione delle donne non è più
quella del 1938, ma di passi in avanti da fare ce
ne sono ancora tantissimi».
Donne, democrazia, conformismo, ovviamente
omosessualità. Poteva essere un’ operazione quasi nostalgia, una rievocazione storica, mettere in
scena Una giornata particolare e invece Scarpati e
Solarino, diretti da Nora Venturini, si sono trovati
immersi nella cronaca: «Ma credo che con opere
così alte», mi dice ancora Solarino, «sia inevitabile.
Storie scritte così, con tutta questa attenzione per
la vita, parlano sempre a chi le guarda, anche se
il contesto per cui l’aveva pensata Scola è ormai
lontano».
Non è il 1977, anno di uscita del film, questo è il
tempo delle copertine di Libero, dei sondaggi online in cui si chiede se Nichi Vendola sia più giusto
chiamarlo “babbo” o “mammo”. E la delicatezza
di quel racconto, la delicatezza di Mastroianni di
cui parla Occhetto ha poco a che fare con il livello del dibattito di questi giorni. «Mi sembra», è il
commento con cui Solarino se ne tira fuori, «che
i commenti siano quasi tutti fatti a priori, più dettati dal posizionamento politico che non dalla
reale volontà di affrontare un tema». Tema che,
nello specifico, è quella della gestazione per altri,
volgarmente detta utero in affitto. Cosa ne pensa
Valeria Solarino? «È una pratica da regolamenta28
re, sarebbe il caso», dice, «e dovremmo farlo senza
chiederci se la pratica sia più usata da omosessuali
o da coppie etero, perché il punto non può esser
quello».
È così, Solarino, sulla posizione di altre donne,
come Emma Bonino o Lidia Ravera, interessate
a fermare ogni possibile tratta o sfruttamento, rinunciando però alla via proibizionista che l’Italia
ha scelto con la legge 40. «Dovremmo anche finirla
con questa storia dei bambini che hanno bisogno
di una mamma e di un papà», dice, «perché se
quello è il punto bisognerebbe proibire il divorzio
alle coppie con figli». «Io sono molto
per le adozioni», è l’ultima cosa che «Utero in affitto? È una
mi dice sul tema, «ma le persone de- pratica da regolamentare
e dovremmo farlo senza
vono esser libere di scegliere».
Attende così una riforma delle ado- chiederci se sia più usata
zioni, Solarino, così come si attende- da omosessuali o da coppie
va qualcosa di meglio della Cirinnà: etero, perché il punto
«Io ero convinta che saremmo ar- non può essere quello. E
rivati alla piena parità tra le coppie dovremmo anche finirla
e le persone a prescindere dal loro con la storia che i bambini
orientamento sessuale», continua, «e hanno bisogno di una
invece così non è, non essendoci l’a- mamma e di un papà»
dozione neanche nella versione del
figlio del partner. Forse però non avevo capito io, e
avevo riposto troppe aspettative su una legge che
pensavo ci avrebbe portato finalmente lì dove sta
già da anni l’Europa. Invece è stata una delusione,
con l’aggravante che chissà quando ne riparleremo, ora che questa legge è cosa fatta».
5 marzo 2016
IL COMMENTO
di Franco Mistretta
Diritti bisogni desideri
N
on solo per l’utero in affitto ma in via
molto più generale questa discussione/confusione sui “diritti” mi pare si
stia avvitando malamente: quali sono
i diritti, per giunta i diritti naturali? La Carta dei
diritti dell’uomo, come le varie altre Carte, dai
primi proclami conosciuti nella Storia, alla dichiarazione di indipendenza americana, alle varie costituzioni sovietiche, hanno stilato i più diversi elenchi di diritti fondamentali e inalienabili.
Ma anche i diritti sono una costruzione sociale, e
variano e hanno variato enormemente nel corso
della Storia. I diritti naturali sono poi un’aberrazione, come quasi tutto quello che viene di recente spacciato o rivendicato per naturale...
Vendola ha diritto ad avere un figlio?
Io più che di diritti, parlerei di desideri. Nel corso della Storia l’umanità ha cercato di soddisfare
un numero sempre maggiore di desideri, o se
vogliamo di bisogni, ma io preferisco parlare
di desideri, perché mi sembra un termine più
corrispondente alla realtà di come si è andata
evolvendo la storia culturale della nostra specie.
Forse l’unico fondamentale bisogno è quello di
sopravvivere, che condividiamo con gli altri organismi viventi. E a tal fine abbiamo il bisogno
correlato di difenderci da aggressioni e violenze.
Oltre a questo, l’umanità ha cercato di soddisfare una lunga e crescente serie di desideri, tutti
in vario modo comprensibili e di volta in volta
più o meno realistici: una vita più lunga, una
casa riscaldata, modi sempre meno faticosi di
procurarsi il cibo, un vario e crescente numero
di oggetti da possedere e da scambiare, e via via
discorrendo nel corso dei millenni. Più il fondamentale desiderio sessuale, variamente correlato o sganciato dalla riproduzione. Molti desiderano anche avere dei figli.
Francamente non mi sento di chiamare “diritti” tutta questa serie di belle cose. Anche perché
quando li abbiamo definiti diritti siamo da capo a
dodici: va bene, questo o quel desiderio/bisogno
è un diritto, e allora? Chi te lo deve concedere? Gli
altri? Lo Stato? A prescindere? Invece io la metterei così: direi piuttosto che è un fatto positivo
se un sempre maggior numero di desideri potrà
essere soddisfatto. E che le società e i Paesi più
civili sono quelli che permettono a un numero
sempre maggiore di persone di ottenere ciò che
desiderano, con l’unico vincolo che non si deve
esercitare violenza sugli altri. Punto. Dopo di che
vediamo quali sono questi Paesi e cerchiamo di
capire come sono arrivati a quel livello, cosa possiamo apprendere dalla loro esperienza e come
possiamo utilizzarla nel nostro contesto.
Certo possiamo elaborare tutti i progetti e le strategie che vogliamo, è ovvio che nel corso della
storia l’umanità “inventa” nuovi modi di vivere sociale, è una strada fondamentale. Dobbiamo però
basarci su esperienze reali, possibilità concrete,
non disdegnare un certo calcolo delle probabilità,
e procedere, come dicono gli scienziati, per prove,
esame dei risultati, correzioni e così via.
Ancora, vedo una critica che rimane spesso sotto
traccia, ma sempre riaffiorante, del termine desiderio, anzi del sentimento stesso, del fatto che
gli umani concreti siano esseri desideranti: è un
retaggio, credo, della
nostra religione prin- Non mi sento di chiamare
cipale, del famoso pec- “diritti” tutta queste belle
cato originale che dob- cose. Anche perché quando li
biamo chissà perché abbiamo definiti diritti siamo
continuamente scon- da capo a dodici: chi te lo
tare, di frasi del tipo deve concedere? Gli altri?
siamo nati per soffrire, Lo Stato? A prescindere?
siamo in una valle di
lacrime, le sofferenze ci avvicinano a dio, la vera
felicità sarà nell’altra vita, e cose di questo genere. Che nella forma più laica vengono formulate
con l’espressione “non si può avere tutto ciò che
si desidera”, frase senza senso perché è nello stesso tempo vera e inutile. E seriamente fuorviante.
Mi piace invece quell’altra frase della dichiarazione di indipendenza americana sul diritto, questo
si, alla ricerca della felicità, the pursuit of happines. Ecco, questo mi pare un punto importante:
non abbiamo diritti su tutte quelle cose di cui
sopra, men che meno il diritto alla felicità, ma
abbiamo il diritto di cercare di ottenerle. Mi pare
una differenza fondamentale. Legata a un altro
discorso, quello sui diritti e sui doveri, discorso
vecchio, che dovrebbe forse essere ripreso.
5 marzo 2016
29
PARERI
Utero in affitto e aborto:
la (solita) falsificazione della Verità
C
ome ha ricordato Pietro Greco
su Left della scorsa settimana, il
24 febbraio è stata la ricorrenza
dei 400 anni dal primo processo dell’Inquisizione a Galileo. La Chiesa di Roma contestava a Galileo il fatto
che le sue non erano verità: fu costretto
ad abiurare dichiarando che senz’altro
la terra era al centro dell’universo e che
quello che aveva scritto erano solo “sue
opinioni”. Così non fece 16 anni prima
Giordano Bruno e fu condannato al rogo
a Campo dei fiori. Già perché la Chiesa
cattolica, ma in generale tutte le religioni
monoteiste, sostengono di conoscere la
Verità, quella con la V maiuscola e non
tollerano in alcun modo che si sostenga altro o che si cerchi di scoprirla veramente la verità. Oggi tutti sappiamo che
la verità era quella sostenuta da Galileo.
Se oggi qualcuno afferma che la terra è
immobile al centro dell’universo viene
preso, giustamente, per matto. La recente conferma dell’esistenza delle onde
gravitazionali non è stata minimamente
contestata dalla Chiesa.
L’osservatore ingenuo potrebbe pensare
che quindi, la Chiesa, in 400 anni, è cambiata. In verità non è così: il loro modo
di pensare non è cambiato nemmeno un
po’. La recente vicenda relativa alle unioni civili e all’utero in affitto ce ne dà la
dimostrazione. Il “buon” papa Francesco, da esperto gesuita, fa il prestigiatore e dice “chi sono io per giudicare?” ma
poi subito dopo afferma “l’unica famiglia
naturale è solo quella tra uomo e donna”.
La tecnica è sempre la stessa: affermare
prima una cosa e poi il suo opposto per
confondere le idee con il fine di creare
una fitta nebbia in cui non si capisce più
nulla. È da affermare con forza che chi
si oppone all’utero in affitto ha la stessa
30
5 marzo 2016
identica logica di chi si oppone all’aborto. Questo perché la vita umana inizia
con la nascita. Prima di tale momento la
vita umana è solo una possibilità e non
una realtà. La vita non c’è fintanto che
non c’è un pensiero. Il pensiero prima
della nascita non c’è. Dopo la nascita c’è.
Non c’è quindi alcun pericolo per la salute del bambino né quella della madre
surrogata di soffrire una separazione (la
nascita appunto) che avviene per tutti,
non solo per i figli di madri surrogate.
Ogni bambino che nasce, realizza il suo
primo pensiero nel rapporto con la realtà
non umana (la luce).
Quel pensiero, per il Vendola e tutte le coppie che
fatto di aver avuto il vogliono fare un bambino con
proprio corpo in rap- l’utero in affitto possono stare
porto con il liquido tranquille: non c’è nessuna
diventa connessione di tipo psicologico
amniotico,
idea e certezza del tra madre e feto semplicemente
rapporto con un al- per il fatto che la mente del
tro essere umano che feto non esiste, checché ne
però non ha nessuna dica Emma Fattorini, papa
definizione specifi- Francesco o Recalcati
ca. Può essere quindi
chiunque, uomo o donna e non è in alcun modo necessario che siano il padre
o la madre biologici. L’unica, fondamentale, necessità del bambino nato è trovare riconosciuta e confermata la propria
“esistenza” come essere umano vivente
e quindi pensante. Trovare cioè nell’altro
la conferma della certezza della esistenza
di un altro essere umano che è contemporaneamente certezza della propria
esistenza. L’idea della nascita si potrebbe
riassumere nella semplice frase: è nato
un essere umano che, in quanto essere
umano, è per il rapporto con gli altri.
Sembra una banalità ma non la è. La
“cultura” razionale e religiosa dice che
alla nascita non nasce un essere umano
IL COMMENTO
di Matteo Fago
ma un mostro che si può definire in vari
modi: bestia, bambino polimorfo e perverso, animale, tavoletta di cera, caos di
pulsioni parziali, etc. Tutte definizioni
che possono essere riassunte nell’idea di
peccato originale delle religioni ebraico
cristiane.
La cultura razionale e religiosa cioè non
riconosce l’esistenza dell’essere umano
alla nascita ma contemporaneamente
pretende l’assurdo che l’essere umano
esista prima della nascita. Con la drammatica conseguenza di dire alle madri e
ai padri che i loro figli appena nati sono
in realtà dei mostri. Quanto sia dannoso un pensiero di questo genere inculcato nella testa dei genitori, andrebbe
senz’altro approfondito. Che rapporto
può avere una madre con un figlio che
pensa essere, in verità, un mostro? I concetti elementari di rapporto con la realtà
della nascita umana, codificati 50 anni fa
da Fagioli nella sua teoria, e che ho più
che grossolanamente riassunto qui, hanno anche un’altra fondamentale conseguenza: tutti gli esseri umani nascono
uguali. È la dinamica della nascita che fa
l’assoluta uguaglianza di tutti.
Ossia l’essere esseri umani non è perché
si nasce in un paese o in un altro oppure
perché si parla una lingua oppure un’altra o per il particolare dna che fa avere
gli occhi azzurri o la pelle nera. Tutto
questo non conta nulla. La cosa fondamentale è che alla nascita tutti diventano esseri umani per la comparsa del
pensiero che prima non c’era. E il pensiero compare per la particolare dinamica di reazione della retina allo stimolo
della luce. Non ci sono spiriti, anime,
dei, influenze della madre o del padre o
filogenesi. Il pensiero compare in conseguenza di una particolare reazione della
biologia umana allo stimolo della luce.
Vendola e tutte le coppie che vogliono
fare un bambino con l’utero in affitto
possono stare tranquille: non c’è nessuna connessione di tipo psicologico tra
madre e feto semplicemente per il fatto
che la mente del feto non esiste, checché ne dica Emma Fattorini, papa Francesco o Recalcati. Allora l’aborto non è
un delitto, come i cattolici vogliono far
credere e i razionali, creduloni, pensano.
Non c’è alcun delitto perché il feto non è
nato e quindi non ha una realtà psichica
e quindi non c’è vita umana. Il feto è una
realtà biologica che non è una realtà di
vita umana ma ha solo una possibilità
di vita umana che si potrà realizzare alla
nascita. L’utero in affitto non può creare Va approfondito quanto sia
alcun problema né dannosa la cultura razionale
alla madre surrogata e religiosa che non riconosce
né al bambino per- l’esistenza dell’essere umano
ché il rapporto del alla nascita ma pretende
feto nell’utero è solo l’assurdo che l’essere umano
biologico. Non c’è esista prima della nascita
e non ci può essere
quindi alcuno scandalo. (E poi cosa sono
le adozioni se non una forma di utero in
affitto stabilito post nascita?) Perché allora tutto questo clamore per una giusta
e naturale realizzazione di Vendola e del
suo compagno Ed che hanno deciso di
avere un bambino?
Una possibile risposta è che se questa
cosa fosse accettata per quello che è,
significherebbe riconoscere che il bambino è quello che nasce ed esiste alla nascita e per la nascita e i genitori sono le
persone che se ne prendono cura dopo la
nascita. Con la conseguenza che dio, lo
spirito santo, l’anima e tutto ciò che ne
segue rivelerebbero la loro vera realtà,
ossia quella di non essere.
5 marzo 2016
31
LA MAFIA ARRIVA PURE
NELL’EMILIA UN TEMPO “ROSSA”
Anche quest’anno è uscito il report sulle infiltrazioni mafiose
in Emilia Romagna e San Marino. Una cronaca annunciata di quanto
sta emergendo, udienza dopo udienza, nel Maxi-processo ‘Aemilia’
di Ilaria Giupponi
“U
na cassetta per gli attrezzi”, così la
chiamano loro. «Da mettere a disposizione» di amministrazioni e
cittadini. Questo è il nuovo dossier
sulle mafie in Emilia-Romagna Tra
la via Aemilia e il West, redatto dagli storici gruppi
antimafia come AdEst di Bologna, lo Zuccherificio di Ravenna o il Gap di Rimini (ai quali si sono
aggiunti contributi da molte altre città emiliane
e della R.E.T.E di San Marino). Ogni anno gli attivisti tracciano un quadro dettagliato con nomi e
cognomi della situazione criminale nella regione
rossa. Che fino a poco tempo fa, si credeva immune al fenomeno. Convinzione espressa per
bocca dei suoi sindaci e politici più e più volte.
Poi, nel gennaio dell’anno scorso, arrivò l’inchiesta Aemilia e il maxi-processo, iniziato il 28 ottobre con udienze preliminari a raffica nell’aula
bunker appositamente allestita a Bologna. Troppi
gli imputati (239), altrettanti i capi di imputazione (189). Le prime sentenze di condanna richieste dai pm della Dda felsinea per le 71 richieste di
rito abbreviato sarebbero dovute arrivare questa
settimana, sono invece state rinviate a fine aprile (assieme ai 19 patteggiamenti). Mentre la sede
del dibattimento è stata sposata a Reggio Emilia,
dove il 23 marzo si darà il via al processo ordinario per gli altri 147 imputati. Anche qui, in un’aula
bunker realizzata ad hoc al costo di 580mila euro.
Come un copione, gli arresti e le ricostruzioni dei
magistrati hanno seguito quanto tracciato nei
dossier: «Gli ultimi 12 mesi hanno trasformato in
cronaca quanto da noi descritto da oltre un lustro», scrivono gli autori Gaetano Alessi e Massimo Manzoli. Alla sbarra non solo ’ndranghetisti,
32
5 marzo 2016
trai quali spicca lui, il boss cutrese Nicolino Grande Aracri, ma anche imprenditori, amministratori, forze dell’ordine, giornalisti locali. Tanto che il
procuratore antimafia Roberto Pennisi, l’ha scolpito a chiare lettere: «L’Emilia è terra di mafia».
Di questa “Aemilia cosa nostra”, parla il dossier.
I personaggi di una vicenda di Camilleri ci sono
tutti. Ma sono tutti reali. C’è l’imprenditore onesto del sud, Gaestano Saffioti, che ingenuamente venuto a lavorare al Nord si sente rifiutare un
appalto dalla Coop Costruttori di Argenta, perché «dietro di lui non c’è nessuno», e «noi sappiamo come funzionano le cose»: se non ci sono
cosche non ci sono garanzie che non si facciano i dovuti controlli. «Noi invece vogliamo che
chiudano tutti e due gli occhi». C’è il vigile urbano, Donato Ungaro, che denuncia e perde il posto, perché il sindaco Ermes Coffrini (allora Ds)
non gradisce i suoi articoli sulla Gazzetta di Reggio sulle escavazioni illegali della ditta Bacchi,
o sul progetto di centrale a turbogas su terreni
agricoli: «Lavora poco e propala notizie riservate del Comune», fu la motivazione del licenziamento - giudicato illegittimo dal Tribunale
quasi 15 anni dopo. Oggi, lo stesso Comune di
Brescello, a guida Pd, è commissariato: sindaco,
è il discendente di Coffrini, il figlio Marcell. Che
si è dimesso spontaneamente un paio di settimane fa, dopo l’apertura dell’indagine ministeriale sulle infiltrazioni mafiose. «Non ho nessuna responsabilità di tipo penale», ha assicurato.
Alla manifestazione in sua solidarietà, c’erano
anche i nipoti di Nicolino Grande Aracri. Forse
perché il sindaco ha definito quest’ultimo persona «gentile, tranquilla ed educata».
5 marzo 2016
33
Tratto dalla copertina del dossier “Tra la via Aemilia il West “
Nei giorni successivi alla pubblicazione al report,
non è mancato il balletto pubblico dei sindaci indignati perché i loro comuni sono soggetti a indagine
prefettizia e richiesta di scioglimento per mafia. A
Finale Emilia, nella bassa modenese, il sindaco Ferioli si scalda su Facebook con gli autori: «insinuazioni». Lui e il suo Comune sono puliti, il dossier
infamante e poco documentato. Dice. Ma intanto
la ditta Bianchini Costruzioni (il cui responsabile,
Augusto Bianchini, è stato arrestato con l’accusa,
fra le altre, di concorso esterno), ha continuato a
ottenere appalti per la ricostruzione post terremoto anche dopo l’esclusione dalla white list - fa
nulla che mescolasse amianto con la terra e ne traesse “ingiusto profitto” - grazie all’ex responsabile
del settore lavori pubblici, Giulio Gerrini: per lui il
pm ha chiesto 3 anni e 6 mesi per abuso d’ufficio
e favoreggiamento ai clan. Il Comune non viene
commissariato per decisione del ministro Alfano,
Ferioli gioisce, ma una settimana dopo è di nuovo sotto indagine prefettizia: nello stesso
decreto ministeriale, infatti, vengono no- «Una cassetta per gli attrezzi
minati due viceprefetti e un esperto conta- da mettere a disposizione
bile per controllare gli atti del Comune: «È delle amministrazioni»: è
comunque emerso un contesto ammini- questo il nuovo dossier sulle
strativo caratterizzato da criticità evidenti infiltrazioni mafiose. Da
che fanno rimanere necessaria una ricon- studiare, per comprendere
duzione dell’attività comunale a più rigo- quelle responsabilità
rosi canoni di legittimità e trasparenza», che non sono solo giudiziarie
decretando che «rimane alto il livello di
attenzione» al fine di evitare «possibili interferenze
nella vita dell’ente». Per Ferioli «solo un monitoraggio». Le carte riguardanti le indagini della Commissione sui due comuni sono tutt’ora secretate.
Stessa indignazione a Ravenna, dove il sindaco
Fabrizio Matteucci definisce il lavoro, in cui sono
scritte cose “completamente false”, “fanghiglia
infamante”, frutto di una “degenerazione estremista e in definitiva maniacale”. Sarà. Ma intanto,
il porto della sua città è uno dei maggiori snodi
del traffico d’armi internazionale e smaltimento di rifiuti tossici. A dire quanto basta, ci aveva
pensato in un’intervista a Left Enzo Ciconte, fra
i massimi studiosi di infiltrazioni mafiose: «Il Pd
ha colpe politiche enormi».
Non basta la responsabilità penale, che amministratori e cittadini lo sappiano, per favorire
comportamenti mafiosi: «Più che mai appare necessario ribadire che così come non tutto ciò che
non rispetta la legge sia annoverabile come atteggiamento mafioso, non tutto ciò che è mafioso
passa per una trasgressione della legge», avvertono i ragazzi del Gruppo Antimafia riminese Pio La
Torre. È per questo che che fare antimafia è particolarmente difficile: non basta l’indignazione,
non sono sufficienti i perseguimenti giudiziari.
Ammesso e non concesso che la corruzione
politica in Emilia Romagna sia “un fatto occasionale”, non lo è la la commistione delle aziende mafiose, secondo gli autori il dossier, con la
grande economia cooperativa nella gestione di
opere pubbliche. Documentata appalto dopo
appalto, processo dopo processo: «Le mafie negli ultimi trent’anni gestiscono, tra le altre cose,
la ristrutturazione della Pinacoteca Nazionale e
il progetto di ristrutturazione di Piazza Maggiore
a Bologna o la discarica dei rifiuti di Poiatica nel
comune di Carpineti (Re). L’azienda operante, il
gruppo Ciampà, ha da anni ritirato il certificato
antimafia per lo smaltimento di sostanze tossiche in Calabria (operazione “Black Mountains”),
ma tranquillamente continua a lavorare in Emilia Romagna. E ancora: realizzazione del sottopasso di via Cristoni e Pertini oltre la Casa della
Conoscenza di Casalecchio di Reno, alloggi e
autorimesse a Budrio (Bo) e Forlì, case popolari
a Bologna, Reggio Emilia e Modena». E non mancano di elencare le “aziende delle cosche”: Icla,
Promoter, Ciampà, Doro Group, Enea, Bianchini Costruzioni, Save Group, Elledue, Top Service
Srl, e spesso buoni soci, CCC, Sab, Gruppo Ferruzzi». E ricordano: «Dentro le inchieste Aemilia
(2015), attraverso la concessione di sub appalti, e
Mafia Capitale (2015), ci sono cascate un mare di
aziende legate a Legacoop (Cns, CmC, CoopSette)». Insomma, «leggere attentamente il dossier
e osservare con cura. Può avere effetti collaterali
anche gravi».
34
ACCUSE E DISSAPORI NEL MONDO
DELLE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA
Da Brescia a Scampia, associazioni di giovani
dalla pelle dura combattono la mafia da soli. E le
amministrazioni che fanno? Spesso, le attaccano
Emilia,
terra di mafia
In Italia l’usura coinvolge 200mila commercianti: 8.500 di
questi, solo in Emilia
Romagna (il 19,2%
del totale), con un
giro di affari di un
milione di euro. Nel
rapporto Eurispes
2015, l’Emilia vede
triplicare i reati di
“strozzo” (+219% in
due anni), passando
dai 21 del 2011 ai
67 del 2013, con 31
denunce e 43 vittime accertate. Bologna, è al 4° posto in
Italia per estorsioni,
reato cresciuto
del 74% rispetto
all’anno precedente.
Inoltre, secondo la
Commissione parlamentare d’inchiesta,
la regione è al 1°
posto per minacce
subite dagli enti
locali: tra il 2013 e il
primo quadrimestre
del 2014, si sono verificate 50 minacce
indirizzate agli amministratori, il 68%
solo nella provincia
di Bologna.
5 marzo 2016
S
ono tutte belle le associazioni antimafia.
Meglio quelle degli altri. Mentre l’Italia vive
una primavera di attivismo giovanile sui
temi della legalità, della corruzione e dell’attivismo antimafioso, molti dei coordinamenti si
trovano ad avere a che fare con amministrazioni
più propense a celebrare gli eroi degli altri, piuttosto che accettare di guardarsi in casa. E così
succede più spesso di quanto s’immagini che le
incomprensioni “dei buoni” siano un ostacolo
non facile da aggirare.
È successo a Orzinuovi, ai ragazzi delle Rete Antimafia Provincia di Brescia, un’associazione di
giovanissimi che si sono ritrovati a presidiare il
Tribunale della città lombarda in occasione del
primo vero processo di mafia; era il 28 ottobre
2010 e quei giovani hanno deciso di continuare
il loro percorso di attenzione verso i fenomeni
mafiosi del proprio territorio. Quando ricevono
alcune segnalazioni di atteggiamenti mafiosi
nella città di Orzinuovi, chiedono all’amministrazione comunale di poter distribuire un
questionario anonimo per sondare il territorio.
«Nessuna risposta - ci dice uno di loro - anzi,
stiamo stati trattati con una certa superficialità
e lo stesso coordinatore di Libera ci ha risposto
che lì da loro non c’era nulla che avesse a che
fare con la mafia». Peccato che qualche anno
dopo si scoprirà che Orzinuovi sia anche la base
per veri e propri “riti di iniziazione” ‘ndranghetista. La Rete Antimafia di Brescia vive sulle donazioni degli associati e nonostante la capillare
attività sul territorio e nelle scuole ha deciso di
non rimborsare nemmeno gli spostamenti. «Se
cominciano a girare soldi si rischia di rovinare
tutto», dicono. Idee chiare.
Del resto è stato proprio il magistrato Nicola
Gratteri, da sempre in prima linea nella lotta alla
’ndrangheta, a ripetere in occasione dei suoi incontri pubblici che «l’antimafia non deve avere
soldi. Deve essere libera e gratuita» e in Italia
© Maurizio Degl’Innocenti/Ansa
sono in molti a mettere in pratica questo invito.
A Ravenna il nuovo dossier sulle mafie in Emilia Romagna (Tra la via Aemilia e il west, nelle
pagine precedenti) realizzato dalle associazioni
AdEst, Gruppo dello Zuccherificio di Ravenna,
Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini e dal
movimento R.E.T.E di San Marino ha scatenato
la reazione scomposta del sindaco di Ravenna
Fabrizio Matteucci contro il lavoro delle associazioni (gratuito e disponibile gratuitamente
anche online). «Una frangia minoritaria che
sostiene che sono praticamente tutti mafiosi o
collusi coi mafiosi, salvo loro e chi li applaude»,
da dichiarato il sindaco, inalberato per i fatti
(tra l’altro tutti veri e verificati) che raccontano di una certa disattenzione e ingenuità della
politica locale, con il ministro Graziano Delrio
in prima fila. Loro, giovani ma della pelle dura,
continuano il loro tour nelle città e nelle scuole.
Gratis. Appunto. Come piace a Gratteri.
A Genova è un caso da diversi anni la Onlus
“Casa della Legalità”. Il fondatore e animatore
dell’organizzazione, Christian Abbondanza, di
cui abbiamo già raccontato su Left, ha incassato negli ultimi anni molte vittorie concrete: dalle inchieste portate avanti attraverso il proprio
sito internet e gli incontri pubblici sono partite
molte delle operazione che hanno disegnato
la nuova mappa delle mafie in Liguria eppure
le istituzioni sono tutt’altro che grate. La Casa
della Legalità (che compie proprio quest’anno
ben dieci anni di attività) riesce a essere ostica
sia per il centrosinistra, che per il centrodestra
e pure ai grillini: da Scajola all’ex sindaca Marta
Vincenzi Christian Abbondanza viene definito un «esaltato che vede la mafia dappertutto».
L’associazione ha il bilancio (online e trasparente) composto da semplici donazioni come entrate e spese quasi completamente dedicate alle
misure camerali, alla ricerca di atti giudiziari e
al confezionamento dei dossier. Se si pensa ad
un’antimafia gratuita e vissuta come missione,
al di là delle idee di ognuno, non si può certo
dire che non ci siano casi eclatanti e limpidi. Ah:
Abbondanza è riuscito anche a farsi querelare
da Libera. Motivo? Aver chiesto chiarimenti sul
bilancio dell’associazione di Don Ciotti.
A Scampia, invece, nella terra che a molti viene
facile raccontare unicamente come Gomorra
c’è un ragazzo con i capelli a zero e l’impegno
a raccontare un territorio che ha il diritto di
avere un’altra narrazione: è Ciro Corona, presidente dell’associazione (R)ESISTENZA nata il 21
marzo del 2008, mentre a Scampia si viveva la
cosiddetta tregua della faida. Il progetto dell’associazione è chiaro fin dagli esordi: «Nella convinzione che gli irrecuperabili non esistono, - ha
dichiarato Ciro Corona - l’azione della nostra
associazione è rivolta soprattutto ai figli dei camorristi e degli affiliati e, sin dall’inizio ha percorso la duplice strada della cultura e del lavoro,
uniche armi di riscatto secondo noi per i giovani
di Scampia». Attraverso diversi linguaggi (dalla musica ai video) l’as- Molti dei coordinamenti si
sociazione di Ciro ricerca le parole trovano ad avere a che fare
giuste per raccontare la possibili- con amministrazioni più
tà di riscatto. «Per un intero anno propense a celebrare gli
abbiamo seguito 10 ragazzi delle eroi degli altri, piuttosto che
scuole medie ed elementari che accettare di guardarsi in
avevano abbandonato la scuola, fi- casa. E proprio le istituzioni
gli di persone che lavorano nell’in- diventano un ostacolo
dotto della droga, ossia che fino alle
4, 5 del mattino tagliano, pesano e confezionano
droga per i clan cosicchè la mattina non si svegliano per mandare i figli a scuola. Siamo andati
a casa loro, svegliato i ragazzi e trascinati a scuola, non senza casini». Anche loro hanno dovuto
scontrarsi inizialmente con il silenzio delle istituzioni, Comune di Napoli in testa. Oggi invece
la collaborazione è finalmente partita ed è già
operativo anche uno sportello permanente anticamorra. Perché gli ostinati, se sono puliti negli
ideali e nei modi, alla fine dovrebbero vincere. O
almeno dovrebbe andare a finire così.
Giuliio Cavalli
5 marzo 2016
35
PEDOFILIA, I FANTASMI
DI BERGOGLIO
Via al processo a don Mauro Inzoli, esponente di spicco di
Comunione e liberazione, accusato di violenze su otto bambini.
Ma il Vaticano continua a essere poco trasparente
di Federico Tulli
R
icordate don Mauro Inzoli? Sebbene a
giugno 2014 fosse stato «invitato» dalla Congregazione per la dottrina della
fede «a una vita di preghiera e di umile
riservatezza, come segni di conversione
e di penitenza» per gli «abusi su minori» affidati
alla sua cura, il 17 gennaio 2015 fu immortalato
sorridente al convegno organizzato dalla Regione Lombardia per tutelare i valori «della famiglia
tradizionale». L’ex parroco di Crema, esponente
di spicco di Comunione e liberazione, fondatore
del Banco Alimentare e dell’Associazione della fraternità, si godeva lo spettacolo in seconda
fila. Davanti a lui sedevano il governatore Roberto Maroni e il predecessore, Roberto Formigoni,
di cui, Inzoli, si dice sia stato il confessore. Condannato - si fa per dire - dalla Santa Sede «alla
pena medicinale perpetua» per lo Stato italiano
era un uomo libero. Il 9 marzo le cose potrebbero cambiare. È la data fissata dal gip di Cremona Letizia Platè per il processo al prete, sotto
inchiesta in Italia solo da ottobre 2014 in seguito a due esposti del senatore Sel Franco Bordo.
L’accusa è di quelle pesanti: “Violenza sessuale
con abuso di autorità e violenza sessuale aggravata per abuso di minori di 12 anni”. A Inzoli
sono imputati otto casi, altri 15 sono caduti in
prescrizione. Rischia 12 anni di carcere e la pena
potrebbe ridursi di un terzo con il rito abbreviato. Ma un eventuale appello allungherebbe i
tempi facendo cadere in prescrizione tutti i reati. A dilatare l’iter investigativo ha contribuito la
Santa Sede negando alla procura di Cremona gli
atti dell’istruttoria e del procedimento canonico
perché vincolati dal «segreto pontificio».
36
L’avvio del processo penale a don Inzoli coincide
con il terzo anniversario del pontificato di Bergoglio. Sin dal 13 marzo 2013, Francesco si è dedicato, almeno a parole, alla lotta contro la pedofilia
nel clero cattolico. Ma il gesuita argentino ha poco
da festeggiare. I due Oscar vinti da Spotlight di
Tom McCarthy (miglior film e miglior sceneggiatura originale) riportano con forza in primo piano l’ineludibile questione della trasparenza come
chiave di volta per scardinare il sistema di potere
complice dei pedofili in tonaca contro cui lo stesso Bergoglio si è spesso scagliato in nome della
«tolleranza zero». Un’idea di trasparenza che si
lega a quella di collaborazione con le autorità degli altri Paesi, che evidentemente però non è stata
ancora ben assimilata in Vaticano nemmeno dal
papa. Lo dicono la rogatoria negata e il “segreto
pontificio” sul caso Inzoli. Ma anche, per fare un
esempio, la vicenda giudiziaria di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. I due giornalisti rischiano
8 anni di carcere in Vaticano per aver pubblicato
nei rispettivi libri - Avarizia (Feltrinelli) e Via crucis (Chiarelettere) - notizie vere documentate da
fonti certe. Proprio come fecero nel 2002 i colleghi
del team Spotlight del Boston Globe, cui invece la
tenace inchiesta che smascherò le sistematiche
complicità delle istituzioni ecclesiastiche con i
pedofili valse il Pulitzer.
Ad aumentare la distanza tra gli annunci di Bergoglio e la realtà dei fatti ci si mette anche la Pontificia commissione per la protezione dei minori
da lui creata, sommersa dalle polemiche per l’espulsione di un membro laico, l’avvocato inglese
Peter Saunders. Il quale, intervistato dalla Bbc, ha
attaccato papa Francesco reo «di non aver fatto
5 marzo 2016
Tra il 2004
e il 2013 la Santa
Sede ha espulso
848 sacerdoti
responsabili
di abusi su minori
senza render
pubblico chi sono
e dove vivono.
Altri bambini
potrebbero essere
in pericolo?
© Rete L’Abuso
© Ansa (2)
LA MAPPA DEGLI ABUSI
Sopra, al convegno del
2015 a Milano sulla famiglia
tradizionale c’è anche don
Mauro Inzoli (nel cerchietto
rosso). L’ ex parroco di Crema
sarà processato il 9 marzo
L’avvocato Peter
Sanders, espulso
dalla Pontificia
commissione
per la protezione
dei minori, alla
Bbc ha detto di
Bergoglio: «Non
ha fatto nulla per
metter fine agli
abusi»
nulla per mettere fine agli abusi
di matrice clericale sui bambini»,
e ha definito «oltraggiosa» la nomina del suo amico monsignor
Juan de la Cruz Barros Madrid,
vescovo di Osorno in Cile, sospettato di aver protetto padre
Karadima condannato per pedofilia nel 2011. La defenestrazione
di Saunders va messa in relazione
alle sue accuse contro il cardinale George Pell di avere ignorato e
coperto per decenni abusi compiuti da oltre 280 sacerdoti. Affermazioni che il
superministro dell’Economia di Bergoglio, già
arcivescovo di Melbourne e di Sydney, ha sempre
respinto, senza però riuscire a evitare di deporre
il 28 febbraio scorso di fronte alla Commissione governativa australiana sui crimini pedofili.
«Non sono qui per difendere l’indifendibile», ha
detto il cardinale, ammettendo che la Chiesa ha
commesso «errori enormi» consentendo l’abuso
di migliaia e migliaia di bambini. Troppe denunce arrivate da fonti credibili sono state spesso respinte «in scandalose circostanze», ha osservato
tentando di smarcarsi. Una linea coerente con la
posizione della Pontificia commissione schierata
contro i vescovi (Conferenza episcopale italiana
compresa) che nelle loro linee guida anti pedofilia non prevedono l’obbligo di denuncia laddove
non è imposta dalle leggi “laiche”. «Abbiamo tutti
la responsabilità morale ed etica di denunciare
gli abusi presunti alle autorità civili», ha ricordato il cardinale O’Malley, capo della commissione.
Una responsabilità che però di fatto non sfiora la
In rosso, i 117 casi di condanna definitiva, i rei confessi o i patteggiamenti dal
2000 a oggi. In giallo, i casi in attesa
di giudizio e gli indagati di cui non si è
più saputo nulla.
In nero, i casi di sacerdoti indagati
all’estero e a piede libero in Italia.
Al link retelabuso.org/diocesi-nonsicure è possibile consultare la scheda
completa di ogni singolo caso.
Copyright © Rete L’ABUSO
Santa Sede e chi la guida. Va ricordato infatti che
tra il 2004 e il 2013 la Chiesa ha espulso 848 sacerdoti responsabili di abusi. Lo dissero con orgoglio i nunzi di papa Francesco a due commissioni Onu (quella per l’infanzia e quella contro
la tortura). Bene, anzi, male. Per alcuni di loro la
dimissione dallo stato clericale è probabilmente
arrivata dopo una condanna penale “laica”. Per
altri invece si è espresso solo il Tribunale ecclesiastico. Era il 2014, dove sono oggi questi pedofili ignoti alla giustizia “terrena”? Non si sa. Come
si chiamano? Quanti sono? Non si sa. Gli emissari del papa non risposero alle istanze dell’Onu
che anche per questo ha accusato la Santa Sede
di aver «regolarmente messo al di sopra dell’interesse dei bambini la tutela della reputazione
della Chiesa e la protezione dei responsabili». Il
monito delle Nazioni Unite ha spinto Bergoglio a
imporre un cambio di rotta mediante la segnalazione obbligatoria alle autorità civili? La risposta
è sempre no. Come nel caso di don Inzoli, i fatti e
la trasparenza stanno a zero.
5 marzo 2016
37
LA GUERRA IN LIBIA?
DIVIDI E BOMBARDA
Un intervento immediato e unilaterale. Droni Usa, basi italiane e 5mila
uomini via terra. Questo è il “piano B”. E il Paese verrebbe diviso in tre,
com’era prima dell’intervento fascista
di Alessandro De Pascale
I
militari italiani si dicono pronti e spingono
per l’azione via terra. «L’obiettivo italiano
è controllare le coste libiche, anche per
prevenire gli sbarchi di rifugiati, ma senza uomini sul terreno si riuscirà a fare ben
poco», spiega a Left senza mezzi termini il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e
geopolitica, nonché docente universitario. Che
qualcosa stia bollendo in pentola lo conferma
anche il fatto che un uomo vicino ai servizi segreti militari, normalmente disponibile a parlare se protetto dall’anonimato, stavolta non
appena sente la parola Libia risponde: «Non
posso dire nulla». Lo stesso fa un altro esperto
della materia, da anni al lavoro come esperto
di politica militare nel Gabinetto del ministro
della Difesa, la cui titolare Roberta Pinotti ancora pochi giorni fa riteneva «impensabile un
intervento militare di occupazione». Anche se,
in realtà, la decisione finale non spetta più a
lei: lo scorso novembre, proprio in vista di questo possibile intervento chiesto a gran voce
dagli Stati Uniti, il Parlamento ha approvato a
larga maggioranza una legge che consente alle
nostre forze speciali di entrare in azione con
le stesse «garanzie funzionali» e «seguendo la
catena di comando dei servizi segreti». La palla
è dunque passata a Palazzo Chigi, al premier
Renzi che può dare il via libera evitando il voto
delle Camere: è sufficiente un’informativa del
governo alle commissioni Esteri e Difesa. L’Italia chiede da tempo di guidare una missione
internazionale in Libia. Il Daesh, sotto pres38
sione e per la prima volta in difficoltà in Siria
e Iraq, ha aumentato la propria penetrazione nel Paese sfruttando, come già aveva fatto
in passato, la guerra civile. E questa è la volta
di quella libica. I 3mila militanti iniziali di alBaghdadi sarebbero diventati quasi 6mila, se
non di più come sostengono alcune fonti francesi. E da Sirte, capitale della loro provincia,
avrebbero già preso il controllo di quasi 200
chilometri di costa. Imponendo come sempre
le loro regole per far rispettare l’ordine (persone crocifisse, apostati lapidati, ostaggi ed esecuzioni di cristiani) e controllare l’economia
(raccolta di tasse, attività commerciali, droga e
archeomafie, protezione dei trafficanti). Francesi e statunitensi hanno così deciso di intervenire autonomamente, ordinando lo sbarco di forze speciali in grado di illuminare gli
obiettivi, per poi colpire con i caccia e gli aerei
senza pilota. Sulla base delle informazioni che
giungono dalla Libia, ognuno si è già preso una
zona: la Francia a est (in Cirenaica, nella zona
di Bengasi), gli Usa a ovest (in Tripolitania, a
Woutiya e al confine con la Tunisia). A noi italiani non resterebbe quindi che intervenire nel
desertico Fezzan, la zona meridionale, quella
dei pozzi di petrolio tanto cari alla nostra Eni
e delle tribù in guerra le une contro le altre.
Ma è possibile anche un rimescolamento delle carte: Italia in Tripolitania, Gran Bretagna in
Cirenaica, Francia nel Fezzan, Usa al comando e con i propri droni pronti a colpire. Sarebbe questo il “piano B” di cui si parla in questi
5 marzo 2016
Surman, 70 km a ovest
di Tripoli, Libia.
Nella pagina seguente:
piazza al Shuhada Martyrs,
17 febbraio, celebrazione
del quinto anniversario della
rivoluzione libica a Tripoli
© Mohamed Messara/Epa Ansa
giorni e che vedrebbe - come già accaduto nel
2001 con l’invasione americana dell’Afghanistan - un intervento immediato e unilaterale di
questi Paesi con 5mila uomini, in attesa di un
successivo via libera del Consiglio di sicurezza
dell’Onu. Dividere la Libia in tre è un’ipotesi
sostenuta pubblicamente anche dall’ex Capo
La Francia a est (in Cirenaica), gli Usa a ovest
(in Tripolitania), l’Italia a sud (nel desertico Fezzan).
Ma è possibile un rimescolamento delle carte
di Stato maggiore della nostra Difesa, Vincenzo Caporini. Mentre il già citato generale Jean
mette in guardia: «L’ipotesi di ripristinare la situazione esistente prima dell’intervento di Rodolfo Graziani, durante il fascismo, troverebbe
fermamente contrarie altre potenze regionali».
Quello che è certo, è che su un’azione realmente concertata in Libia non c’è sufficiente con-
senso internazionale, né da parte dell’Onu, né
dell’Unione europea, né della Nato. E, come è
spesso accaduto in passato, l’Occidente gioca
su più tavoli. Ufficialmente sostiene l’azione
dell’inviato dell’Onu, il tedesco Martin Kobbler, per la formazione d’un governo d’unità
nazionale in grado di riunificare i due attuali
(Tripoli e Tobruk); un compito difficilissimo
per il premier Fayez Serraj, poco carismatico e
per di più in esilio in Tunisia (perché in Libia rischia la vita). Sottotraccia, intanto, l’Occidente
si appoggia al generale Khalifa Haftar, capo
delle forze armate del governo di Tobruk, l’unico sul campo in grado di combattere i jihadisti
del Daesh e che rema contro sia l’esecutivo di
Tripoli sia quello unitario che non vuole designarlo ministro. Si parla di pace, e intanto si
fa la guerra. Per adesso, soprattutto con i droni (vedi box), il cui decollo è stato autorizzato
anche dalla base italiana di Sigonella. L’uso di
5 marzo 2016
39
LA DOTTRINA OBAMA
Bombardare ma con il minimo rischio, usando
i droni che partiranno dalla Sicilia
aerei senza pilota, per il generale Jean «è un
additivo, nulla di più». Ma pur sempre micidiale. E «nonostante il loro intervento richieda
una quantità impressionante di autorizzazioni», aggiunge l’analista politico e strategico
Alessandro Politi, «il loro impiego è come un
intervento chirurgico: se va male, si tratta pur
sempre di un’operazione non riuscita e quando il danno è fatto è molto difficile da riparare». Perciò, Politi è contrario a un «intervento
esterno di questo tipo che potrebbe addirittura
unire le varie fazioni in campo contro un invasore straniero». La lezione dell’Iraq, a suo
dire, va assimilata «perché altrimenti si rischia
di obbedire a interessi particolari, miopi e di
scarso successo. Se qualcuno vuole tornare a
estrarre il petrolio libico è bene che ci siano
condizioni pacifiche». Stesso discorso sulla divisione della Libia e sul cosiddetto “piano B”:
L’analista Alessandro Politi: «Un
intervento esterno potrebbe unire
le varie fazioni in campo contro un
invasore straniero. Se qualcuno vuole
tornare a estrarre il petrolio libico è
bene che ci siano condizioni pacifiche»
«A
ppoggeremo con forza il ruolo guida dell’Italia nell’intervento militare in Libia», dicono gli Usa per bocca del segretario alla Difesa,
Ash Carter. Forze speciali, droni e caccia statunitensi utilizzano
le basi Nato siciliane di Sigonella, Pantelleria e Catania. La richiesta al governo italiano è stata avanzata l’8 maggio 2015, durante il summit di Lago
Patria (Napoli). A gennaio è arrivato il via libera da autorizzare «volta per
volta» e solo per «missioni di difesa»: 11 droni armati di missili per proteggere postazioni dei soldati, sedi diplomatiche, ospedali, scuole e siti strategici nel mirino dei terroristi del Daesh. Per l’attacco di metà febbraio a Sabrata i media italiani hanno riportato di una base del Regno Unito, ma per
i media internazionali si trattava della base di Sigonella. Che è la principale
base terrestre dell’Us Navy nel Mediterraneo centrale e ospita anche diversi
squadroni tattici dell’Usaf, oltre ad aerei senza pilota. I droni fanno parte di
quella che a Washington chiamano “la dottrina Obama”. Dopo gli attacchi
dell’11 settembre 2001, è stato Bush ad autorizzare le operazioni segrete
dei droni ma è stato il presidente uscente a portare la flotta da poche decine a centinaia. Il loro impiego è economico, non richiede l’invio di truppe
sul posto e avrebbe già eliminato molti capi dei gruppi terroristici. Ma per
Amnesty international si tratta di «crimini di guerra che favoriscono l’antiamericanismo e il reclutamento del Daesh». L’aeronautica italiana è stata
la prima, nel 2001, ad acquistare droni dagli Usa. Finora non li abbiamo armati, utilizzandoli esclusivamente per la sorveglianza. Adesso gli Stati Uniti
ci hanno autorizzato a dotare di missili la nostra flotta, composta da 6 Predator e altrettanti Reaper, costata finora 370 milioni di dollari. Presto anche
a.d.p.
noi dovremo fare i conti con la “dottrina Obama”.
«Questa mania di balcanizzare è nefasta, e se
qualcuno spera di cavarsela con 5mila uomini
a testa, buona fortuna», attacca il professore.
«Negli anni Venti, Graziani ebbe bisogno di
12mila uomini per fronteggiare 3mila ribelli
male armati e che combattevano per la propria indipendenza. Oggi non sono soltanto
in 3mila, i kalashnikov non sono né i fucili di
allora e nemmeno i lanciarazzi Rpg». Infine,
raccomanda il professor Politi, non vanno sottovalutati i possibili rischi. «I francesi hanno
deciso di alzare il loro già alto profilo politico, personalmente credo che sarebbe molto
più utile se intervenissero nelle loro banlieue
per contrastare la facilità di reclutamento dei
jihadisti. Agli Stati Uniti, incassato il successo
iraniano, resta la questione cinese, mentre in
Siria giocano coi russi una partita molto più
seria che non nel teatro secondario libico».
E l’Italia? «Finora abbiamo avuto una grande
attività e anche un pizzico di fortuna nel non
avere nessun morto per terrorismo internazionale, credo dal 1999 ad oggi», fa notare l’analista. «Ma questo tipo di azioni cambiano
completamente i profili di azione, tanto che la
sorveglianza è già aumentata».
40
5 marzo 2016
GUERRA O POLITICA? IL REBUS LIBICO
Il dubbio amletico dei governi occidentali. Pressati dalla necessità
“di fare qualcosa” per fermare Daesh ma timorosi che la guerra possa produrre
un disastro peggiore. Il parere di esperti e diplomatici
I
© Hazem Turkia, Anadolu Agency/Ansa
raq e Siria. Nomi che risuonano nelle
orecchie di chiunque rifletta su come
affrontare la crisi libica. Interventi militari e assenza di un piano di assestamento hanno prodotto catastrofi. E così
sarebbe oggi in Libia. Ce lo dimostrano
diverse fonti diplomatiche (che preferiscono restare anonime) dei Paesi coinvolti. «Siamo davanti a due fronti che
vanno distinti: la stabilizzazione della
Libia, il consolidamento di un processo
politico debole che però ha fatto qualche
passo in avanti, e la necessità di fermare
l’avanzata del Califfato», ci dice un funzionario di un governo europeo che partecipa ai colloqui con Italia e altri Paesi.
«Naturalmente, a seconda delle capitali,
l’accento cade su una delle due questioni». Già, e più si è lontani dalla Libia e più
l’Isis è importante, mentre lo è meno la
centralità del processo politico libico.
Capita poi che i media - che riprendono
notizie da fonti libiche poco verificate «non aiutino ad evitare un intervento»,
aggiunge un altro diplomatico.
L’Italia, nonostante il clamore per la concessione della base di Sigonella (Sicilia),
investe nel processo politico e cerca di
frenare l’ipotesi di un intervento armato massiccio. Parigi e Washington, che
in queste settimane hanno colpito con
raid aerei e inviato forze speciali in loco,
hanno soprattutto l’Isis in testa. Obama
non sembra propenso a intervenire e due
inchieste del New York Times sul ruolo di
Hillary Clinton nella prima guerra libica lasciano pensare che negli Usa sia in
corso un braccio di ferro. L’anno elettorale c’entra. Il Segretario alla Difesa, Ash
Carter, e il capo dell’esercito, il generale
Dunford, hanno detto che gli States continueranno a colpire l’Isis con missioni
mirate, ma che prima di pensare a un
intervento vero - da farsi in coalizione,
possibilmente guidata dall’Italia - vogliono aspettare la fine del processo politico.
I francesi, che nel 2011 produssero l’accelerazione che portò all’intervento contro Gheddafi, sanno che ipotesi simili a
quelle dei loro interventi recenti in Africa
non sono percorribili. L’effetto Bataclan
e gli interessi nella regione rendono però
imprevedibile la strategia dell’Eliseo: se
Daesh continuerà a crescere, Parigi difficilmente resterà a guardare.
Roma ha un ruolo da giocare. Senza l’Italia qualsiasi operazione militare su larga scala sarebbe complicata, un punto
di forza in un eventuale braccio di ferro
5 marzo 2016
intra-occidentale. Quanto alle dinamiche interne libiche, chi in questa fase ha
un ruolo deleterio, perché vuole a tutti i
costi ottenere la posizione di capo della
Difesa nelle (eventuali) future istituzioni libiche, è il generale Haftar, protetto
dell’Egitto e nemico di ogni gruppo legato alla fratellanza musulmana. Haftar
è un ostacolo alla riconciliazione nazionale. Ora, Roma ha un conto aperto con
il Cairo per la morte di Giulio Regeni, e
alzare la voce potrebbe avere senso anche per la partita libica.
La verità è che «un intervento militare
senza la richiesta di un governo legittimo non farebbe che impantanare il già
zoppicante processo politico: i signori
della guerra continuerebbero a combattersi» ci dice Mattia Toaldo, esperto di
Libia dell’European Council on Foreign
relations e che spesso ha scritto per Left.
Ci vorrebbe pazienza. Tanto più che la
strategia di Isis è quella di produrre caos:
il ritorno della guerra su larga scala favorirebbe la propaganda islamista. Anche
il processo politico andrebbe ripensato:
«Ci sono municipi, leader tribali, pezzi
di società civile non coinvolti nel processo nazionale e che però svolgono e
potrebbero svolgere un ruolo cruciale sia
nello stabilizzare il Paese che nella lotta e
contenimento del Califfato. Anche questi andrebbero coinvolti», ci dice Toaldo,
La conclusione: «Servono tempi lunghi
e coraggio per investire in un processo
complicato. Ma senza una strategia politica che sia almeno di medio termine, il
rischio è quello di un intervento che non
produca effetti sul processo di stabilizzazione della Libia. Ci sono state troppe
azioni militari partite senza un’idea del
dopo. Non sono stati dei gran successi».
Martino Mazzonis
41
“NON FACCIAMOCI ILLUSIONI”
LA TREGUA È ROSSO SANGUE
Il cessate il fuoco in Siria, con un bilancio di 200 morti
nelle prime 24 ore, è un pallido tentativo di metter fine al conflitto.
Ma c’è poco da illudersi, come acenna Obama da Oltreoceano
di Michela AG Iaccarino
E
siste la silenziosa bandiera bianca della pace. E quella nera della guerra, che
garrisce sui riflessi rossi del sangue degli
uomini che muoiono brandendola. Non
esiste colore della tregua, non ne esiste
il simbolo, il drappo di stoffa. Né esiste l’asta
dove attaccarlo e alzarlo per poterla dichiarare.
Oggi la tregua siriana sul campo ha un bilancio di quasi 200 morti nelle sue prime 24 ore e
non si sventola se non sui giornali occidentali.
Quelli sul terreno, insieme alle agenzie di stampa del posto, sono troppo impegnati con i report
delle violazioni di questo primo armistizio mediorientale. Ne hanno contate nove solo il primo giorno, a nord e a ovest di Aleppo, a Dara
Aza, Qabtn al Jabal, Andan, Hreitan, poi a sud
di Hama, nei villaggi del fronte islamico di Al
Nusra, dove sono presenti anche alcune brigate
dell’Esercito siriano libero.
Una speranza a cui nessuno crede, un pallido
tentativo. Cominciata ufficialmente a mezzanotte di sabato 27 febbraio, la tregua fa il bilancio dei suoi morti minuto per minuto, eppure,
dicono i mediatori, “regge”. Vi hanno aderito
novantasette gruppi combattenti sul territorio.
I fucili tacciono in terra, fatta eccezione per Al
Nusra e gli uomini di al Baghdadi del sedicente
Stato islamico che continuano l’avanzata e contro cui gli attacchi continuano, come deciso nei
patti russo-americani. In Siriaq il territorio sotto
il controllo dei loro kalashnikov è cresciuto del
40 per cento rispetto al 2014. La galassia jihadista controlla del Paese degli Assad ormai il 50
per cento del territorio. Non sono rientrati negli
42
accordi dei presidenti del Grande Est e del Grande Ovest due gruppi: Ahrar al Sham, gli Uomini
liberi della Grande Siria e Jund al Islam, esercito
dell’Islam, di estrazione salafita. Il Cremlino li
voleva nella lista dei nemici comuni mentre Washington si è dimostrata di parere contrario.
Dopo un giorno, che doveva essere “rassicurante”, e una “notte speciale”, la prima, come l’ha
chiamata l’inviato Onu Stefan de Mistura, velivoli non identificati hanno solcato il cielo so-
5 marzo 2016
PROVE DI CORRIDOI UMANITARI
Giunti dal Libano, 93 rifugiati siriani sono
atterrati a Roma grazie a Mediterranean Hope
«S
tiamo arrivando», mi scrive Francesco in chat. E invia un selfie
che lo ritrae insieme ai rifugiati in partenza per Roma dal Libano. La mattina seguente, il 29 febbraio, siamo lì ad aspettarli
all’aeroporto di Fiumicino. Arrivano alle 7 del mattino, e per quattro ore
sono in balìa dei controlli. «Ecco fatto, ora abbiamo dimostrato che i corridoi umanitari si possono fare. E anche senza spese per i governi», dice
Francesco Piobbichi,che fa parte della missione di questo viaggio chiamato Mediterranean Hope, il primo corridoio umanitario d’Europa per
«impedire lo sfruttamento ai trafficanti di uomini e concedere a persone
in “condizioni di vulnerabilità” un ingresso legale con visto umanitario e
la possibilità di presentare richiesta d’asilo», spiegano gli organizzatori.
Il progetto pilota è stato realizzato con l’accordo tra il governo italiano
(Farnesina e Viminale), la Comunità di Sant’Egidio, la federazione delle
Chiese evangeliche (Fcei) e la Tavola Valdese. È previsto l’arrivo di mille rifugiati in due anni e non solo dal Libano, ma anche dal Marocco e
© Hassan Ammar/AP Photo
5 marzo 2016
© Tiziana Barillà (2)
dall’Etiopia. Quelli arrivati a Fiumicino vengono da diverse città siriane:
Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous. Prima di arrivare qui erano accampati a Tel Abbas, in Libano, in un piccolo campo spontaneo come tanti,
a pochi chilometri dalla Siria. Tra di loro scorgiamo Mirvat, che ha 24 anni
e viene da Aleppo. Parla perfettamente inglese e, avvolta nel suo tailleur
blue e nella sua chioma bionda, in molti la scambiamo per un’operatrice.
Poi c’è Badee’ah, che di anni ne ha 53 e chi stava con lei a Tel Abbas chiama
“mamma”. Anche Diya arriva dalla città fantasma Homs, lui è ancora un
bambino e arriva a Fiumicino sulle stampelle e un gran sorriso, è rimasto
ferito durante un’esplosione. «Non hanno solo viaggiato in sicurezza. Ma
sono qui per avere un futuro», tiene a sottolineare Marco Impagliazzo della
Fcei. E adesso verranno ospitati in case e strutture d’accoglienza di Emilia
Romagna, Lazio, Toscana e Trentino.
«Welcome everybody», ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla
conferenza stampa. E si è augurato che questo sia un esempio che l’Europa
deciderà di seguire. Ma un impegno esplicito da parte del governo non è
arrivato. A fine conferenza un’operatrice comunica in arabo le destinazioni: Trento, Torino, Reggio Emilia, Firenze Aprilia, Roma. Sul pullman troveranno un pasto al sacco, per il pranzo. E una nuova vita, in Italia. Questi 93,
per cercarla, non hanno dovuto attraversare l’inferno del Mediterraneo.
Tiziana Barillà
43
© Hassan Ammar/AP Photo
Homs, Siria, 26 febbraio. Un ragazzo e
un bambino nella loro casa distrutta dai
bombardamenti, nel quartiere di Baba Amr.
In apertura, sempre a Homs, un ragazzo
guida una bicicletta attraversando la città
devastata dai bombardamenti. Nel box: Roma,
29 febbraio. Due momenti dell’arrivo di 24
famiglie siriane a Fiumicino con i Corridoi
umanitari di Fcei, Sant’Egidio e Valdesi
pra la Siria. I caccia russi sono fermi a Latakia
o dovrebbero esserlo. Ma gli indici di Ryad sono
stati subito puntati come canne di fucile verso
gli aerei di Mosca e Damasco, accusate di violare una tregua da loro suggerita. È la versione del
ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir. I curdi
invece rispondono al fuoco della Turchia, il cui
presidente in questi giorni è ritorPiù che la vigilia della fine nato a ricordare al suo popolo chi
del conflitto, cominciato sono i veri terroristi da bombarda5 anni fa e costato 470mila re: le divise dello Ypg e non i soldati
morti, sembra una pausa di Al Baghdadi.
tra uno scontro e l’altro Continuano gli scontri a Tal Abyad
tra l’Is e curdi: agli F16 americani è
concesso di alzarsi in volo in loro difesa, lasciando una scia di decine di morti tra i combattenti
di Ocalan e un centinaio di Allah.
Non è la vigilia della fine del conflitto cominciato 5 anni e 470 mila morti fa, è un’interruzione
che non durerà e nessuno si aspetta davvero
che lo faccia. Assomiglia solo a una pausa tra un
combattimento e l’altro, dopo l’ordine congiunto di Casa Bianca e Cremlino di un abbassate
le armi temporaneo. Russia e Usa, amici senza
amicizia, ancora nemiche fedeli in altri teatri di
guerra, sono le potenze militari passate in poche
44
5 marzo 2016
settimane dal braccio di ferro feroce sul tavolo
siriano ad un handshake (stretta di mano) sull’abisso della più grande catastrofe umanitaria dei
nostri giorni.
Se quelli che hanno giocato a fare gatti e topi nel
secolo scorso si alleano è perché in giro c’è un
animale più pericoloso. In una vecchia geografia
di linee rosse da non superare - di cui la prima citata dal presidente americano dopo l’uso di armi
chimiche nella primavera del 2013 - sono diventate più importanti le linee telefoniche del segretario John Kerry e del ministro degli Esteri Serghei
Lavrov, più funzionali i loro accordi sui dieci fronti di battaglia aperti in diversi punti della cartina
geografica siriana, ma con Raqqa, capitale del
jihad ancora lontana da una riconquista.
Questa tregua deve impedire «ai terroristi di riorganizzarsi, impedire alla Turchia di inviare uomini e armi ai terroristi» dice Bashar al Assad al
corrispondente di el Pais, David Alandete: «Abbiamo reso difficile i passaggi, il nodo è chiudere
i collegamenti, per questo Ankara bombarda i
curdi», ribadisce il presidente siriano al potere
dalla morte del padre nel 2000.
Tregua in Siria per i siriani, ma non per i siriani di un’Europa che non agisce in un conflitto
che mette a repentaglio la sua esistenza con il
restringimento di Schengen. Mentre la guerra infuria, le 28 teste delle Capitali del Vecchio
continente sembrano rispondere a un unico
stomaco europeo che innalza muri ad ogni
confine di passaggio, uno stomaco che si trova
da solo a pagare le conseguenze demografiche
ed economiche dei profughi in fuga. Mentre la
Russia trova il suo approdo nel Mediterraneo e
si allarga, dimostrando di essere il contrario di
quella “potenza regionale” con cui ad alta voce
la definì Obama, e mentre l’America percorre
timidamente la linea di faglia che divide tutte le Sirie, sta per esplodere il tappo al confine
greco- macedone. Il varco del Paradiso europeo
sbrindellato sta per chiudersi del tutto. L’epica
dell’esodo si ferma alla soglia del recinto spinato
di Idromeni. È tempo di decisioni difficili soprattutto per quei Paesi che hanno finito di sgranare il
rosario delle buone intenzioni come la Germania
e ora guardano ai risultati del cessate il fuoco nel
Paese di provenienza dei rifugiati. Su questa tregua che Putin ha definito «un esempio mondiale
per la lotta al terrorismo», Obama ha dichiarato
Oltreoceano: «Non facciamoci illusioni». Già. Ma
se non quelle, cosa ci rimane?
HEY MERKEL,
OPEN THE BORDERS!
Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera i rifugiati afghani
e iracheni sono bloccati a Idomeni. Tra proteste, scontri con la polizia
e molti lacrimogeni. Cronaca dal confine greco-macedone
testo e foto di Nicola Zolin - da Idomeni
N
é i colpi di pistola uditi al confine iraniano, né le urla della polizia greca che
gli impedivano di attraversare il confine greco-macedone di Idomeni hanno fermato Javid, afghano di 24 anni.
«Abbiamo visto la morte in faccia diverse volte»,
racconta a Left. «Non potevo rimanere in Afghanistan perché sono Hazara (una minoranza sciita, ndr) e i talebani credono di andare in paradiso
se ci uccidono». Javid è in viaggio con la sua fa-
miglia verso «l’Austria, la Germania, ovunque ci
accettino», dice. Ma alla stazione di Polikastro,
a 20km dal confine di Idomeni, Javid e una cinquantina di altri rifugiati sono costretti a resistere alle intimidazioni della polizia, che cerca in
ogni modo di farli salire su un autobus diretto ad
Atene. Anche con la violenza, quando i giornalisti
non vedono. I bambini piangono. Le donne cominciano a urlare. Gli uomini restano uniti e non
si fanno convincere dai poliziotti, che a un certo
5 marzo 2016
45
punto, per ingannarli, dicono loro che l’autobus
è diretto al confine macedone. In un lampo il
gruppo di afghani, zaino in spalla, si incammina
lungo la superstrada che conduce alla frontiera:
20 chilometri a piedi con i pochi possedimenti
che si sono portati appresso, attraversando le colline verdi e i villaggi dimenticati di queste terre di
confine. Qualche ora dopo, le poche speranze rimaste si estinguono davanti alla schiera di poliziotti greciche intimano loro: «Non potete passare». In quei concitati momenti, le forze armate
stanno rimuovendo dal campo tutti i rifugiati afghani, indipendentemente dalle loro storie e dalle loro situazioni personali, per caricarli su autobus diretti ad Atene, impedendo alla stampa di
avvicinarsi per diverse ore. Chi riesce a resistere
occupa i binari del treno e si rifiuta di muoversi. Un diciottenne di Kabul, Umaid, non crede ai
suoi occhi: «Questa gente non ha ben chiaro il
concetto di umanità», sbotta con il fiatone per la
lunga camminata. «Facevo il giornalista e ho fatto
un reportage di denuncia contro i talebani. Non
avevo altra scelta che scappare per non farmi ammazzare». Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera per i rifugiati non siriani - afghani e
iracheni - a Idomeni tornano gli slogan “Open the
borders!” e “Help us Merkel!”.
46
Le proteste si placano per alcuni giorni, fino a lunedì, quando un gruppo dei circa 7mila rifugiati
al confine ha forzato la barriera al confine. Un
impeto di orgoglio intriso di frustrazione. La sensazione generale è che le ultime mosse
dei Paesi dell’area siano il preludio alla chiusura
definitiva della rotta balcanica. I segnali sono molteplici, come la cor- Javid è in viaggio con la
rispondenza avvenuta un mese fa famiglia, diretto «in Austria,
tra il presidente della Commissione in Germania, ovunque ci
europea Juncker e il primo ministro accettino. Non potevamo
sloveno, Miro Cerar. Dallo scambio rimanere in Afghanistan.
si evince che l’intenzione dell’Ue I talebani credono di andare
era già allora rafforzare i controlli al in paradiso se ci uccidono»
confine macedone fino a bloccare
il passaggio dei rifugiati. Mercoledì 24 febbraio
a Vienna i ministri dei Paesi attraversati dal percorso dei rifugiati si sono riuniti per discutere il
futuro della rotta balcanica, senza invitare i rappresentanti del governo greco. Un evento che ha
mandato su tutte le furie Atene, che non ha esitato, il giorno successivo, a richiamare il proprio
ambasciatore dall’Austria. Tutte le decisioni prese dal governo di Vienna in questi mesi sono state
imitate dai Paesi balcanici. Come è accaduto il 26
febbraio scorso, quando l’Austria ha dichiarato
di accettare giornalmente 580 richiedenti asilo,
5 marzo 2016
un’azione imitata immediatamente da Serbia,
Slovenia e Croazia. La polizia di frontiera macedone, di conseguenza, è stata la prima a bloccare
l’accesso ai rifugiati provenienti dall’Afghanistan,
un Paese dilaniato da quasi quarant’anni di guerra e invasioni. Dati alla mano: nel 2015, il 21% degli 856,723 rifugiati entrati in Europa attraverso la
Grecia provenivano dall’Afghanistan. E, nel 2016,
dei 112mila rifugiati entrati in Europa attraverso
l’Egeo, su imbarcazioni di fortuna, il 27% sono afghani. Adesso che vengono rifiutati dall’Europa,
si aggiungono ai circa 20mila migranti del “club
degli indesiderati”, che da settimane sono bloccati nel Paese ellenico senza via d’uscita. I campi di Eleonas ed Elliniko ad
Il ministro greco Atene straboccano di persone. Alper le Migrazioni, cuni edifici del porto del Pireo sono
Ioannis Mouzalas promette: stati trasformati in centri di prima
«Non permetteremo che accoglienza per migranti e richiela Grecia diventi il Libano denti asilo. L’hotspot di Schisto, nei
d’Europa, un magazzino di pressi del porto del Pireo, ha già raganime, anche se dovessero giunto la capacità massima di 1.500
arrivare dei finanziamenti» ospiti. A piazza Viktoria, ad Atene,
ogni giorno centinaia di migranti (i
pochi che se lo possono permettere) cercano soluzioni illegali per varcare i confini attraverso rotte alternative. Il ministro per le migrazioni greco.
Da sinistra: migranti iraniani
attraversano il bosco per
raggiungere illegalmente
il confine greco-macedone;
migranti afgani rifugiati a
Polikastro, si rifiutano di salire
su un autobus per tornare ad
Atene. In apertura, rifugiati in
coda per entrare al confine
con la Macedonia, mentre un
agente di polizia controlla i
loro documenti
Ioannis Mouzalas. ha affermato: «Non permetteremo che la Grecia diventi il Libano d’Europa, un
magazzino di anime, anche se dovessero arrivare
dei fondi». Ma resta difficile pensare a un destino differente per la Grecia. Il relocation program
dell’Ue, ideato per trasferire i rifugiati da Grecia
e Italia in altri Paesi membri, si è dimostrato fallimentare: dei 160mila trasferimenti previsti ne
sono stati effettuati poco più di 600. Ed è la mafia l’industria che sta beneficiando da questa situazione. A un paio di chilometri dal confine di
Idomeni, tra le abitazioni diroccate, ogni giorno
migranti nordafricani, pakistani e iraniani aspettano la chiamata di uno smuggler (contrabbandieri), per perforare la recinzione del confine ed
entrare illegalmente in Macedonia. Spesso questi
smuggler corrompono polizia locale e guardie di
confine, ma non di rado queste soluzioni falliscono. La polizia macedone controlla attentamente la frontiera e ha già respinto centinaia di
migranti entrati illegalmente nel Paese. Per certi
altri, il viaggio si traduce in un insuccesso a causa
degli scontri tra le diverse fazioni di trafficanti di
uomini. L’insano business ha raggiunto indegne
dimensioni ma, nelle condizioni attuali, è diventato l’unica via d’uscita dalla Grecia per chi sogna
ancora di raggiungere il Nord Europa.
5 marzo 2016
47
48
5 marzo 2016
© Illustrazione Antonio Pronostico
Il polo
della discordia
Lo Human Technopole nell’area ex Expo a Milano e i finanziamenti
all’Istituto italiano di tecnologia che lo gestirà fanno scoppiare
la rivolta. Così non si salva la ricerca italiana, dicono gli scienziati
di Pietro Greco
entocinquanta milioni l’anno per 10 anni (1,5
miliardi di investimenti complessivi); 30.000 metri quadri di laboratori in cui lavoreranno 1.500
ricercatori: non c’è dubbio, Matteo Renzi è stato
generoso con l’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia,
chiamato a gestire lo Human Technopole che nascerà a Milano in parte degli spazi lasciati liberi
da Expo 2015 con l’ambizione di fare della
città meneghina uno degli hub della ricerca biomedica mondiale.
Tanta generosità e tanta ambizione sono
state ribadite la scorso 24 febbraio, proprio
mentre a Roma Giorgio Parisi, fisico teorico italiano in odore di Nobel, mobilitava la comunità
scientifica al grido “Salviamo la ricerca italiana”
e otteneva 50.000 firme sotto una petizione lanciata per chiedere più quantità (ovvero più soldi)
e più qualità (ovvero migliore governance) per la
scienza e per l’università, ormai al collasso.
Ma se mette molti soldi e molte speranze nella
ricerca, proprio come chiedono Giorgio Parisi e
50.000 altri ricercatori italiani, perché l’annuncio di Renzi è stato accolto come uno schiaffo in
faccia dalla gran parte della comunità scientifica
- come documentano, tra mille altri, gli interventi
pubblici e per certi versi clamorosi, di Elena Cattaneo, ricercatrice in biomedicina e senatrice a
vita, e di Giovanni Bignami, astrofisico tra i più
noti del nostro Paese e civil servant come presidente, in un recente passato, prima dell’Agenzia
spaziale italiana poi dell’Istituto nazionale di
astrofisica? Per rispondere a questo apparente
paradosso, conviene porsi almeno tre altre do-
mande. Una relativa alla ricerca italiana - perché
è al collasso? - e due relative allo Human Technopole: perché a gestirlo è stato chiamato l’Iit e perché lo si vuole realizzare a Milano?
La ricerca scientifica in Italia è al collasso sia per
storiche ragioni strutturali, sia per più contingenti decisioni politiche. La ragione di fondo è che da
decenni mancano gli investimenti dell’industria
privata. Per fare un esempio: a parità di fatturato, un’industria italiana investe in R&S (ricerca e
sviluppo) l’80 per cento in meno di una sorella
americana. Le industrie in Corea del Sud investono il 3,6 per cento del Prodotto interno lordo (Pil)
del Paese in ricerca e sviluppo tecnologico: quelle
italiane sette, se non otto, volte meno (lo 0,45 per
cento del Pil). In questa forbice vanno ricercati i
motivi della rapidissima crescita economica del
Paese asiatico e dell’ormai trentennale declino
dell’Italia. Già, perché la ricerca - in quell’economia della conoscenza che produce i due terzi del
Pil mondiale - è la leva principale della ricchezza
di una nazione.
Ma la ricerca in Italia è al collasso anche per contingenti e recenti decisioni politiche. Gli investimenti pubblici sono diminuiti del 32 per cento
tra il 2008 e il 2014, passando da 4,1 a 2,8 miliardi
di euro. A questi si aggiungano i tagli all’università, che è uno dei luoghi della ricerca: la spesa
pubblica è diminuita del 9 per cento nello stesso periodo, passando da 8,7 a 7,9. Nel 2015 la
situazione è peggiorata sia per la ricerca (un taglio ulteriore del 6,1 per cento rispetto all’anno
precedente) sia per l’università (-1,8 per cento).
5 marzo 2016
49
Milano, 24 febbraio 2016.
Il presidente del Consiglio
Matteo Renzi presenta lo
Human Technopole che
sorgerà nell’area ex Expo
Con i fondi
per il polo
biomedico
milanese l’Iit di
Genova gestirà in
tutto 250 milioni
di euro l’anno.
Per la ricerca
universitaria
invece sono
stanziati 92
milioni
in tre anni
Una condizione di collasso, appunto: perché con
questi soldi si riescono a pagare a mala pena gli
stipendi e le bollette, ma non si riesce investire
neppure un euro in ricerca e/o in alta formazione. Questa mancanza di risorse non ha impedito
che i ricercatori italiani (4,9 ogni mille occupati,
contro i 10 della Francia o i 13 della Corea) diventassero tra i più produttivi al mondo: pochi, ma
buoni. Ma adesso abbiamo raggiunto il limite,
perché se collassa la ricerca, il Paese non uscirà
mai dalla sua condizione di trentennale declino
economico. Ecco perché l’appello di Giorgio Parisi si scrive “Salviamo la ricerca italiana” e si legge
“Salviamo l’economia italiana”.
La decisione di Matteo Renzi di realizzare lo Human Technopole e di investire 150 milioni l’anno nelle scienze applicate alla biomedicina va,
dunque, nella giusta direzione. Ma sul metodo
c’è molto da ridire. I punti critici sono diversi. Il
primo riguarda l’Iit, un centro di ricerca pubblico
di diritto privato che ha sede a Genova. L’Iit è stato fondato nel 2006 ed è diventato operativo nel
2009 per fare ricerca di base e applicata, con una
dotazione di 100 milioni di euro l’anno. Fin dall’inizio è diretto da uno scienziato di gran valore,
Roberto Cingolani. Ma, come sottolinea Giovanni Bignami, l’Iit ha una vocazione più nell’ambito
della robotica e delle nanotecnologie, che della
biomedicina. Sebbene vanti competenze anche
in questo campo. Elena Cattaneo, invece, sottolinea come lo statuto giuridico consente all’Iit di
seguire la prassi della “chiamata diretta via telefono”, piuttosto che quella della pubblica “peer
review” utilizzata dalla comunità scientifica per
valutare prodotti e progetti. Il che sottrae le sue
scelte alla valutazione critica dei colleghi. Così
la qualità della ricerca, sostiene Elena Cattaneo,
non è assicurata.
Inoltre l’Iit funziona non solo come centro di ricerca, ma anche come agenzia di finanziamento
della ricerca, pur non avendo un chiaro mandato
in tal senso. Di qui un’ulteriore critica: l’Istituto di
Genova ha accantonato in questi anni 500 milioni di euro, soldi non spesi sottratti a un sistema
in crisi di asfissia. Con la dotazione per lo Human
Technopole, l’Iit si troverà a gestire 250 milioni di
euro l’anno: poco meno del 10 per cento del budget che lo stato italiano mette a disposizione per la
R&S nel nostro Paese. Un’enormità. Basti pensare
che per la ricerca universitaria i soldi a disposizione in questo momento, al di là del fondo ordinario
50
5 marzo 2016
che serve per le spese correnti, sono 92 milioni in
tre anni. In pratica 1.500 ricercatori dello Human
Technopole avranno una dotazione cento volte
superiore a quella dei loro colleghi universitari.
Ecco perché questi ultimi considerano uno schiaffo alla ricerca pubblica l’annuncio di Renzi.
Ma c’è una terza critica possibile all’iniziativa
di Matteo Renzi: la collocazione dello Human
Technopole a Milano. La città lombarda, sia chiaro, ha tutti i requisiti. Ha una grande tradizione
e un grande presente nella ricerca, in particolare in quella biomedica. Tuttavia, ce ne sono altre
di città nel Paese che potrebbero ambire a giusta
ragione a investimenti in ricerca di analoga portata. Prendiamo a esempio Napoli, la capitale del
Mezzogiorno. Con cinque università, la grande
area di ricerca del Cnr, la Stazione Zoologica “Anton Dohrn”, i centri Enea, l’Osservatorio Vesuviano (geofisica) e l’Osservatorio di Capodimonte
(astrofisica), il Cira (il Centro italiano di ricerche
aerospaziali) e altro ancora, la città partenopea
vanta una “massa critica” di ricerca del tutto paragonabile a Milano.
Mentre ha un bisogno di investimenti pubblici
ancora maggiore. Addirittura drammatico. Sono
i numeri a dirlo. Quelli della deriva documentata dallo Svimez: tra il 2008 e il 2014 la produzione di ricchezza nel Sud è diminuita del 13 per
cento, quasi il doppio del Centro-Nord (-7,4 per
cento). Nello stesso periodo la crisi industriale
si è trasformata in un tracollo: -34,8 per cento,
quasi tre volte maggiore di quella del CentroNord (-13,7 per cento). Ma la frana maggiore è
© Sergio Oliverio/Imagoeconomica
I ricercatori: «Basta,
siamo stati troppo zitti»
«D
proprio quella degli investimenti: tra il 2008 e il
2014 sono diminuiti del 59,3 per cento (contro il
-17,1 per cento del Centro-Nord). Di fatto l’Italia
ha smesso di investire nel Mezzogiorno lasciandolo, appunto, alla deriva.
Di questo abbandono è parte integrante la ricerca. L’Istat (rapporto Bes) riporta che la spesa
in R&S nelle regioni del Sud è ben inferiore all’1
per cento del loro Pil; due (Calabria e Basilicata)
stentano a raggiungere persino lo 0,5 per cento e
solo la Campania eguaglia a mala pena la media
nazionale (1,2 per cento). Ancora più drammatico, se possibile, il quadro dell’alta formazione. I
giovani meridionali stanno fuggendo via dall’università. Negli ultimi dieci anni le immatricolazioni sono diminuite dell’11 per cento al Nord, ma
dal 30 per cento al Sud (con una punta del 40 per
cento nell’anno accademico 2014/15). Il Mezzogiorno ha un numero di laureati nella fascia di età
compresa fra 19 e 34 anni pari al 18 per cento: sei
punti sotto la media nazionale che pure è la più
bassa tra tutti i 40 Paesi Ocse. E la forbice tende ad
aumentare. Quella del Mezzogiorno è, dunque,
anche una deriva cognitiva.
Gli investimenti in ricerca e alta formazione sono
gli unici che possono tentar di recuperare il Sud
alla deriva. Di qui la domanda. Perché gli investimenti “petalosi” solo a Milano e non anche a Napoli, magari nell’ambito dell’aerospazio o della
robotica? La città partenopea ha una “massa critica” nel settore ricerca e alta formazione analoga
a quella di Milano, ma un bisogno ben maggiore
di iniezioni di soldi e di speranza.
Un’altra critica
al progetto
annunciato è la
sede. La scelta
di una città come
Napoli, ricca
di università
e centri di
ricerca, avrebbe
rappresentato
una chance in più
per il Sud, ormai
alla deriva
obbiamo fare un animale a sei
gambe e marciare tutti insieme».
Giorgio Parisi, fisico teorico e artefice della petizione “Salviamo la
ricerca” su Change.org, conclude così l’assemblea
del 25 febbraio nell’aula Amaldi della facoltà di
Fisica a Roma. Le sei gambe sono tre dell’università - gli studenti, il personale amministrativo e i
docenti - a cui aggiungere i tre settori della scuola,
elementare, media e superiore. «I problemi che
abbiamo all’università sono gli stessi della scuola
e noi come universitari siamo stati zitti negli anni
dei tagli all’istruzione», dice il professore. Uscire
dal tunnel del silenzio, allargare l’orizzonte della
protesta e lanciare proposte: è questo il cambio
di paradigma per i ricercatori italiani, abituati da
anni a subire le decisioni politiche (soprattutto
nei tagli e nel blocco del turn over) senza opporre
una reazione forte. In questo senso li aveva bonariamente rimproverati anche il “padre” della
comunicazione scientifica, Piero Angela, accorso
all’assemblea romana. «La ricerca è muta, è poco
popolare ed è anche poco percepita dai politici
che tendono ad avere dei risultati subito. Ci vuole più comunicazione». Invece la ricerca di base,
fondamentale per lo sviluppo del Paese, nota l’economista Alessandro Roncaglia, ha bisogno di
una programmazione di medio e lungo termine.
Ma tutto questo va fatto conoscere. Così come
vanno denunciate le cause della “fuga dei cervelli”: la debolezza del sistema italiano - università
ed enti di ricerca - penalizzato dai tagli, con bandi emanati all’ultimo momento e talvolta schizofrenici e con l’incertezza del rifinanziamento
dei progetti. «Quando si perdono generazioni di
scienziati, ricostruire è difficile», aggiunge in un
contributo video Fabiola Gianotti, alla guida del
Cern di Ginevra. Alla fine viene rilanciata la proposta di una Agenzia unica per la ricerca ma si fa
strada - un po’ timidamente, ma chissà - anche
l’idea (lanciata da Francesco Sinopoli, Flc Cgil)
del blocco dell’inizio dell’anno accademico.
Donatella Coccoli
5 marzo 2016
51
Una questione
di sensibilità
Il poeta Valentino Zeichen pubblica il suo primo romanzo. E racconta
la sua passione per l’arte. A cui Marcel Duchamp e Damien Hirst
hanno tirato un brutto scherzo
«H
di Simona Maggiorelli
o iniziato a leggere con
assiduità in riformatorio: c’era una biblioteca
prevalentemente di libri d’autore», racconta il poeta Valentino
Zeichen. «Costituiva un potenziale conoscitivo disinnescato, dato che la maggior
parte degli internati erano analfabeti».
Fu così che «avventurandomi per caso
lungo certi scaffali, feci degl’incontri affascinanti: Salgari, Tolstoj, Dostoevskij,
Swift. Leggevo intuitivamente e cominciai a fare nessi fra i libri». Così si presentava Zeichen nel 1975 nel volume Il
pubblico della poesia curato da Berardinelli e Cordelli per Castelvecchi. Nato nel
’38 a Fiume e approdato a Roma nel ’50,
scappando da una famiglia che era quasi
peggio del riformatorio, Zeichen da allora
vive in grandi ristrettezze nella Capitale,
scrivendo, soprattutto, poesie. «Penso
che il poeta sia un servizio pubblico, che
debba essere accessibile a tutti», dice.
Respingendo però l’idea di chiedere un
aiuto. «La legge Bacchelli equivale/a un
premio Nobel della miseria/anche se salva tanti finti artisti dalla miseria», annota
in Aforismi d’autunno. La misura breve,
aforistica alla Karl Kraus; l’espressione
ironica, fulminante; una scrittura icastica
e leggera, fanno da sempre la cifra letteraria di Zeichen. Che dopo molte raccolte
di versi, ora, in età matura, esordisce nel
52
romanzo con La sumera (Fazi). Il 19 marzo Zeichen parlerà con Aurelio Picca e Renato Minore a Libri Come di questo testo
che celebra la bellezza di una Roma dove
gli dei sono atei. E quella delle ragazze
incontrate nei pomeriggi d’estate nei musei. («In fondo alla scalinata si rese conto
che quel volto apparteneva all’arte dello
scolpire e non del dipingere»).
Sempre disponibile al dialogo e all’incontro Zeichen ci accoglie dicendo: «Abbiamo tutto il tempo, il mio è a perdere,
scorre».
Perché un romanzo dopo una vita da
poeta?
A pranzi e cene ho ascoltato molte conversazioni. Fondamentale per scrivere
romanzi è un vero ascolto. È importante capire, sentire, il senso del ritmo delle
battute, capire quando una conversazione crolla e perché. Gli scrittori anglosassoni sono bravi nei dialoghi proprio
perché stanno attenti a quello che gli altri
dicono. La risposta è veloce, a tempo. In
passato ho scritto radiodrammi, ho una
certa praticaccia.
È in parte autobiografico questo ritratto
di Roma anni Ottanta?
Forse sì e poi c’è la Roma di allora, certi
scenari, problemi climatici, di clima culturale.
Si diverte a prendere in giro i manierismi delle avanguardie; il teatro cata5 marzo 2016
combale, in antri bui con sedie scomode, per dirla alla Ennio Flaiano.
C’è una certa teatralità tipica di quegli
anni, una teatralità soprattutto gestuale,
non dialogica.
Ma soprattutto c’è l’arte.
Sì, l’ossessione dell’arte. Uno mette nei
romanzi o nelle pièce ciò che conosce
meglio.
Una passione che innerva anche il linguaggio?
Come no? Lo nutre. La felicità dei romanzi sta in quello che uno ama e sente.
D’un tratto mi sono reso conto che oggi
tutti sono molto ragionevoli, molto abili
nel ragionamento. Accade socialmente,
ma io dico la sensibilità dove è finita? È
morta? Le persone non sono più sensibili? Neanche la parola viene più usata.
“Sensibilità” sembra una parola assolutamente scomparsa, quasi fosse psicotica,
qualcosa di malato da rifiutare.
Mancano di fantasia le trovate di artistar come Hirst con il suo teschio di
diamanti?
Mi viene da ridere quando penso a Damiem Hirst. Gli ho dedicato il testo teatrale
Apocalisse dell’arte, che ho scritto per Le
Edizioni della Cometa. Lei sa che al Museo della scienza di Vienna c’è il varano
di Comodo? In quel testo ho immaginato
che Hirst si presenti all’ingresso con i documenti per trasportarlo al Kunsthistori-
Nell’ambito di Libri Come, dal
18 al 20 marzo all’Auditorium di
Roma, il poeta Zeichen presenta
La sumera (Fazi); il 19 marzo,
nello spazio Garage alle ore 16
con Renato Minore e Aurelio
Picca. Fra i molti volumi pubblicati da Zeichen ricordiamo Casa
di rieducazione (Mondadori) e
Pagine di gloria (Guanda )
sches Museum che sta davanti a quello
della scienza. Così, con un trasloco, crede
di aver risolto la faccenda e di aver cambiato di segno quel meraviglioso oggetto
imbalsamato.
Hirst lo ha fatto con lo squalo in formaldeide...
Esatto! Si potrebbe fare, ho immaginato io, anche con il varano. Sarebbe una
cosa pazzesca. Una lezione sull’assurdità
dell’arte da Duchamp in poi.
Portando l’orinatoio al museo ci ha fregato?
Beh, certo, Duchamp ha fatto un bello scherzo a tutta l’arte successiva a lui.
Portando qualunque cosa, qualsiasi oggetto, nello spazio museale, lo distruggono. Non c’è più l’aura dell’arte, ma solo
la diffamazione di essa. La sensazione è
questa... Come vede io rincorro sempre
la sensibilità, la mia disperazione è un
po’ questa. La morte della sensibilità, che
non c’è più.
Oltre alla sensibilità ciò che conta per il
poeta è la fantasia, che lei sembra distinguere dall’immaginazione, parlando di
Shakespeare. È così?
Io dico che vanno a braccetto. Esiste
un’immaginazione concettuale e c’è una
fantasia che apre al possibile. È ciò che
non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è
l’imprevedibile…
di ingenuità bucolica, negava il valore di
quello che tutti desideravano, pretendeva
che non lo desiderassero. Ma non puoi
continuare a zappare se c’è il trattore, non
puoi pretendere che la gente usi la vanga o l’aratro tirato da un cavallo, da una
bestia da soma, se sono state inventate le
macchine.
Dunque questo suo vivere ai margini,
questa sua vita un po’ bohémien, senza
agi, non è dettata anche da un rifiuto
della modernità?
Assolutamente no! Io sono modernissimo. Sono per la tecnica.
Una volta si è definito un ribelle, cosa
significa per lei questa
Mi colpisce e mi commuove la lingua
parola?
con cui Shakespeare riusciva a esprimere Forse un ribelle individualmente. Significa aveun ventaglio straordinario di sentimenti,
di conflitti e di riflessioni
re una propria opinione.
Avere punti di vista diversi
Al fondo cosa la colpisce di più in Sha- da quello che è il pensiero corrente. Per
kespeare?
esempio non mi sono mai occupato di
Com’è possibile che con un inglese di politica, non ho mai sposato un partito.
quattrocento anni fa possa produrre quel Sono un impolitico, come diceva Thomas
ventaglio di sentimenti, di conflitti e an- Mann, non perdo tempo in giochi d’inche di grandi riflessioni? Questo è vera- gegneria sociale, come ha fatto invece la
mente il meraviglioso. Evidentemente gran parte dei miei coetanei, che hanno
l’inglese oggi è una lingua funzionale pie- perso la testa intorno a questo problema
na di neologismi adatti a questo scopo. ma che forse non spettava loro.
Però lui, con una lingua seicentesca, in La poesia come ricerca di un senso più
formazione, riesce a dire un mondo. Ecco profondo è una forma di ribellione al
la meraviglia, che commuove.
linguaggio razionale e ordinario?
Tra i poeti italiani del Novecento?
Sì la poesia può far capire degli aspetAmo i versi di Montale. Ma trovo anche ti della vita. Ma anche della società. In
che una poesia come “La pioggia nel pi- questo senso io sono un poeta ironico,
neto” di D’annunzio sia inimitabile, per- con un certo humour. Questo mi viene
ché è costruita con un ritmo particola- abbastanza riconosciuto dalla critica. In
re… È costruita con l’acqua…
questo c’entra anche il fatto che ho una
Invece non ama molto Pasolini, mi par vita particolare, sono profugo, fiumano,
di capire.
vivo a Roma, le sono fedele perché mi ha
Non mi interessa molto, le sue problema- accolto. In un certo senso me la sono cavata, ho fatto diversi lavori, sono uno che
tiche non mi interessano.
non parte da situazioni di privilegio. Anzi.
Era un moralista?
Sì, forse, nel senso che avrebbe voluto pri- Adesso come vive la candidatura a un
vare del progresso futuro i giovani. Dopo premio ufficiale come lo Strega?
l’Unità d’Italia aspiravamo a diventare un Come vivo questa cosa? A essere del tutPaese moderno, sviluppato. Con questa to franco, qualunque sia l’esito... con una
sua visione antimoderna, per una sorta buona dose di indifferenza.
5 marzo 2016
53
54
5 marzo 2016
Il romanzo a fumetti
dell’adolescenza
In Sputa tre volte, il racconto “ordinario e universale” dell’adolescenza
di Guido e dei suoi amici assume il respiro del romanzo. Tra tavole
e balloon, l’appassionante inno alla vita di Davide Reviati
di Raffaele Lupoli
n gruppo di amici cresce insieme in una periferia che è quasi campagna. Al tecnico industriale
si susseguono brutti voti e bocciature. La vita è
fuori: tra bar, giri in macchina, scazzottate e “mischioni” di alcol e droghe leggere. Davide Reviati
ambienta in un luogo indefinito tra Ravenna e
Parma, le sue due città, il romanzo a fumetti Sputa tre volte, arrivato a sei anni di distanza - «gli
ultimi due di full immersion», ci racconta - da
un’altra opera che ha riscosso molti consensi:
Morti di sonno. Stavolta al centro della narrazione c’è l’adolescenza, con i suoi sogni e le inquietudini. «Mentre disegnavo mi è venuto da
pensare che stavo raccontando quel tassello che
in Morti di sonno mancava. Lì c’era una cesura
tra l’infanzia e l’età adulta che inconsciamente
ho colmato qui, raccontando la prima giovinezza». Un racconto che sa di vita vissuta: Guido, il
personaggio narrante, si dedica alla pittura e al
disegno dopo un «36 e due figure» alla maturità,
proprio come Reviati. Ma che ha l’ambizione di
restituire una storia universale, di andare «al di là
del luogo e del tempo» pur descrivendo il quotidiano. «Il tentativo non è quello di raccontare la
verità storica - spiega -, legata ai fatti per come
si sono svolti, ma di cercare l’autenticità della
storia. Se qualcuno mi chiede se i fatti sono realmente accaduti gli dico di no, ma se mi chiede
se è tutto vero gli dico di sì». Una verosimiglianza
sostenuta, paradossalmente, dall’inserto di numerose scene fantastiche, spesso legate ai sogni
del protagonista. Uno sfogo all’interiorità, alle
paure e alle aspirazioni dei personaggi, reso magnificamente dalle tavole. Basta guardare quelle
in cui Guido, dopo aver fumato e bevuto, vomita un intero stormo di uccelli neri o, più avanti, a quelle in cui sfrecciando in bici trasforma i
pensieri in volatili che gli cingono la testa. Allo
stesso modo, nel racconto neorealista delle bravate e degli incontri-scontri con gli Stancic - gli
zingari accampati accanto a un vecchio casolare
nelle campagne frequentate dai ragazzi -, entrano “eroi a cavallo” come John Wayne. «Era il mito
di quelli che, come me, sono cresciuti con i film
western» spiega il disegnatore. «È un personaggio forte, non per forza acuto, anzi. Però la sua
non è un’ottusità cattiva: è quello zio che non ti
inquieta perché ha un cuore e non è giudicante.
Nell’immaginario di un ragazzino fa da contraltare alla figura paterna». Il padre del protagonista (qui, riconosce l’autore, il tratto è autobiografico), ma anche quello adottivo del suo amico
Grisù, sono infatti figure severe, quasi arcaiche,
che pur comparendo più volte nelle tavole si caratterizzano per la loro assenza, per il vuoto che
lasciano nelle vite dei figli.
In questa autobiografia «molto romanzata» trova spazio anche la riflessione sul rapporto con il
diverso, con l’estraneo. È l’incontro con una giovane zingara “fuori di testa”, Loretta, l’unica figlia
femmina degli Stancic, ad aprire uno squarcio
nella narrazione. «Questa persona mi era rimasta
5 marzo 2016
55
in testa fin da quando ero molto giovane», spiega il fumettista. Traendo spunto dalla sua storia,
Sputa tre volte racconta da una parte i «selvaggi ladri e senza dio incapaci all’adattamento
sociale» e dall’altra il Porrajmos e la follia della
persecuzione nazista. «Ho sentito l’urgenza di
introdurre nella narrazione alcune informazioni
storiche, per inquadrare quelle persone nell’alveo delle generazioni che le hanno precedute.
So che mi sono esposto al rischio
«Mai visto un verde più di alterare il ritmo del racconto, o di
verde», dice il protagonista far pendere il libro dalla parte degli
guardando un campo. zingari, ma non potevo non farlo»
E Reviati commenta dice. «La questione del Porrajmos,
sorridendo: «Ricostruire dell’Olocausto dei rom, non è così
il colore con il bianco conosciuta come credevo. Mi intee nero è una magia che se ressava molto far entrare in una stola raggiungi non è male» ria a fumetti il racconto dei lager italiani, perché arrivasse a chi non sa».
L’appendice della graphic novel è dedicata a Papusza (che vuol dire “bambola”), la poetessa zingara nata ai primi del Novecento a Lublino, in
Polonia. Da bambina aveva imparato a scrivere e
leggere di nascosto e a 16 anni fu venduta a un
anziano zio e costretta a sposarlo. Il matrimonio
durò poco e a 26 anni sposò un 42enne musicista
di un’orchestra itinerante. Dopo la Seconda guerra mondiale, lo scrittore e poeta Jerzy Ficowski,
56
5 marzo 2016
perseguitato dal regime comunista, si rifugiò nel
campo di Papusza e tradusse in polacco i suoi
versi nella lingua dei rom. La notorietà della poetessa divenne in breve tempo la sua condanna,
attirando su di lei l’ostilità della sua gente. Quando fu dichiarata impura ed espulsa dal clan, bruciò le sue poesie e non scrisse più. «Se non avessi
imparato a leggere e a scrivere, povera sciocca,
forse sarei stata felice», afferma nelle tavole. Passò
gli ultimi anni in povertà e in preda alla malattia
mentale. Reviati ha deciso di mettere “su tavola”
la sua storia anche per la straordinaria analogia
con il suo personaggio femminile, Loretta. «Quella di Papusza è una storia ricca di elementi elementi simbolici e interessanti» racconta. «E poi
dialoga in maniera straordinaria con la mia: la
follia di una donna che parla con gli uccelli e con
gli alberi, anche lei emarginata dalla sua stessa
gente, l’incontro con i gagi (i non rom, ndr), che
anche quando sono mossi dalle migliori intenzioni non riescono a non fare danni...». Ancora
una volta un racconto al tempo stesso ordinario e
universale, in un libro molto concentrato sull’indagare la morte: «Trovo che si sia perso ogni tipo
di ritualità rispetto a questo evento, e m’interessava indagare su come lo trattano i rom, perché
il loro culto dei morti è analogo a quello “antico”
dei nostri nonni», racconta Reviati. Ma questa
I
Fumetto italiano
in rassegna a Roma
“romanzi disegnati” sono al centro della mostra Fumetto
italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnati inaugurata il
27 febbraio al Museo di Roma in Trastevere. La rassegna,
che si può visitare fino al 24 aprile, è composta da quaranta romanzi grafici scritti e disegnati da altrettanti autori. Si
parte da Una ballata del mare salato, capolavoro di Hugo Pratt,
del 1967, in cui appare per la prima volta Corto Maltese, e si
prosegue via via nei decenni successivi con opere come Sheraz-De di Sergio Toppi, Le straordinarie avventure di Pentothal
di Andrea Pazienza, Fuochi di Lorenzo Mattotti, Max Fridman
di Vittorio Giardino, Cinquemila chilometri al secondo di Manuele Fior, Dimentica il mio nome di Zerocalcare. Le 300 tavole originali esposte raccontano il lavoro di autori come Altan,
Marco Corona, Elfo, Guido Crepax, Gabriella Giandelli, Vittorio
Giardino, Gipi, Igort, Magnus, Milo Manara, Attilio Micheluzzi,
Leo Ortolani, Tuono Pettinato, Davide Reviati, Filippo Scozzari,
Davide Toffolo, Pia Valentinis, Vanna Vinci. La mostra indaga
generi narrativi diversi tra loro - romanzi d’azione, psicologici, biografici o storici, romanzi satirici o tratti da classici della letteratura - ma che, grazie al percorso espositivo, risultano
suggestivi capitoli di un lungo racconto fatto di fatto di tavole e
vignette. Info: www.museodiromaintrastevere.it
storia è anche un incitamento a vivere appieno la
vita, istante per istante. «Tempo fa lessi un’intervista in cui Manuel Guibert, autore di La guerra
di Alan e L’infanzia di Alan, diceva che la vita va
celebrata. Questa cosa mi è rimasta in testa, perché ho messo a fuoco che era anche la mia intenzione di narratore». Allora la penna costruisce
texture che evidenziano i diversi toni di grigio - le
bolle dei ragazzi che si tuffano in mare, la pioggia
che si fa sempre più scrosciante, le chiome degli
alberi, addirittura i colori. «Mai visto un verde più
verde» dice il protagonista guardando un campo
d’erba alta. E il Reviati pittore commenta sorridendo: «Ricostruire il colore con il bianco e nero:
è una magia che se uno la raggiunge non è male».
Poi torna serio: «Credo di aver lavorato più che
per forme, per masse. Morti di sonno ha una sua
natura di disegno che è venuta su in maniera frenetica. Avevo fretta di arrivare alla fine, che non
sapevo quale fosse. Avevo paura di non riuscire
a vederla, perché passavo un momento particolare. Avevo paura di morire prima» confessa. Per
Sputa tre volte è andata diversamente: «Il disegno
ha avuto tutto il tempo di depositarsi in maniera
più goduta. Sento di aver disegnato di più, anche
se credo ci sia una coerenza che credo sia quella
del nervosismo». Così la pittura si è fatta fumetto,
il fumetto romanzo, e il romanzo inno alla vita.
IN BREVE
Sputa tre volte (560 pp.,
25 euro) è il secondo
romanzo grafico di
Davide Reviati, uscito
per Coconino press a
sei anni di distanza da
Morti di sonno. Tradotto
in più lingue e premiato
in Italia e all’estero, questo fumetto racconta di
sei ragazzini che vivono
all’ombra del petrolchimico Eni di Ravenna.
5 marzo 2016
57
I selvaggi dei Balcani
e il loro rock illegale
Vengono da diversi Paesi dell’ex Jugoslavia e usano l’umorismo per
far riflettere. L’Europa? Un mostro burocratico. La guerra? Terribile,
ma il dopoguerra lo è altrettanto. I Dubioza kolectiv si presentano
di Tiziana Barillà
ono in sette. Anarchici, irriverenti e armati fino ai denti
di energia e determinazione. I
Dubioza kolectiv arrivano in
Italia con un tour (Torino,
Trieste, Bologna, Firenze)
e un disco nuovo, Happy
Machine. Al suo interno
trova posto persino un riarrangiamento di “24.000
baci” di Adriano Celentano, insieme a Roy Paci, e il
sempreverde Manu Chao. Almir
Hasanbegovi, Adis Zveki, Brano Jakubovi, Vedran
Mujagi, Armin Bušatli, Orhan Maslo Oa e Senad
Šuta si definiscono provocatoriamente i «selvaggi
dei Balcani». Così, secondo loro, li vede l’Europa.
E l’Europa, vista dai Balcani, com’è? Glielo abbiamo chiesto. «Veniamo da Bosnia, Serbia, Slovenia
e Croazia. Alcuni di noi sono cittadini Ue e altri
no… da più di 10 anni lavoriamo per superare
queste “differenze insormontabili”!», provocano.
Ho ascoltato l’album e… boom! Quanta energia!
Beh… veniamo da una zona molto “ricca” di risorse di energia elettrica... (scherzano). E quando
questa energia alimenta grandi amplificatori per
chitarra e potenti computer - con ogni tipo di software illegale installato - si può ottenere come risultato un potente album rock!
Come posso rendere l’idea a chi non vi ha mai
ascoltati? Datemi una mano. 58
Il nostro sound è davvero difficile da descrivere,
anche perché non abbiamo mai provato a identificarci in una specifica nicchia di genere. Ci concentriamo di più sul messaggio e sull’idea che
cerchiamo di promuovere, e vogliamo trovare il
miglior sottofondo musicale ai nostri testi. Ecco
perché il suono è così eclettico. Il solo elemento
costante nella nostra musica è il tentativo di mantenere un autentico balkan sound, in modo da
chiarire subito a chi ci ascolta da dove veniamo.
Libertari e irriverenti, prendete di mira le icone del web o chi le rende tali?
Cerchiamo di dimostrare quanto sia ridicolo tutto questo hype che si sviluppa intorno ad alcune
storie di poco conto e alle immagini che vengono
fortemente promosse dai media. Siamo bombardati da migliaia di inutili “breaking-news stories”,
i dettagli sulla vita delle celebrità e i consigli sul
lifestyle. È difficile distinguere le informazioni
importanti dal rumore. E può capitare di perdersi
la storia dei profughi che annegano nel Mediterraneo, o il voto del Parlamento sulla riduzione dei
diritti dei lavoratori, perché c’è un nuovo episodio del Grande Fratello (o di uno spettacolo simile) in onda nello stesso momento.
Ne serve tanto di humor per andare avanti...
Se usiamo lo humor siamo in grado di raggiungere molte più persone e di raccontare qualche
storia importante. Alla gente non piacciono le
prediche e che si dica loro cosa fare. L’umorismo:
è questo il modo più efficace per farli riflettere sui
5 marzo 2016
UN VIDEO VIRALE
Ancora una manciata
di click e il singolo dei
Dubioza kolective, “Free
mp3”, avrà raggiunto
la soglia di 4 milioni di
visualizzazioni su YouTube.
Nel video (guardatelo,
è davvero divertente)
succede di tutto. La band
invade la Rete e “manomette” le pagine facebook
dei big del web (lo slogan
“Hope” di Obama diventa
“Drone”), e poi irrompe
su Amazon per incollare i
bollini “free” sui prodotti
in vendita. Dietro l’ironia?
Un omaggio a Edward
Snowden e un inno contro
il copyright.
© Goran Lizdek/Promo Photo
problemi che altrimenti le persone ignorano.
«Sono stufo di essere europeo solo su Eurosong», sbottate in una delle vostre canzoni.
Viviamo nel Continente europeo ma non siamo
considerati veri europei. Siamo “i selvaggi dei Balcani”, “gli ultimi della classe”, un’area che “produce più storia di quanto non sia in grado di gestire”.
Non soddisfiamo gli elevati standard dei “perfetti”
cittadini europei di Bruxelles. Poi, però, se guardi
le reazioni vergognose dell’Ue agli
Con lo humor siamo in arrivi dei rifugiati e dei migranti che
grado di raggiungere molte provengono da Medio Oriente e Afripiù persone. E raccontare ca, ti capita di vedere che i Paesi più
loro qualche storia ricchi sequestrano gioielli e oggetti
importante. Alle persone di valore ai rifugiati. E intanto assinon piacciono le prediche stiamo all’ascesa dell’isteria fascista.
e che si dica loro cosa fare L’Europa Umanista è degenerata in
un mostro burocratico che si preoccupa solo di statistiche, dei bilanci e degli interessi
finanziari dell’1% più ricco.
Cantate la crisi dei profughi e le proteste
di Gezi Park a Instabul. Per chi vive nei Balcani
quant’è faticoso essere europei?
È sempre difficile definire l’identità europea per
le persone che vivono al di fuori dell’Unione. E la
maggior parte delle persone ha un senso distorto
di ciò che è l’Europa oggi. L’adesione e l’integrazione nella Ue si presentano a noi come l’ultima
soluzione a tutti i nostri problemi, e i nostri politici usano questo argomento come “artiglieria
pesante” nei loro discorsi pre-elettorali: “Quando
diventeremo un membro della Ue, tutti i nostri
problemi saranno risolti”. Questa immagine fiabesca è molto lontana dalla verità, ma è conveniente quando non hai nulla da perdere.
Ve lo chiedo brutalmente: che resta della guerra
nei Balcani oggi?
Ciò che resta è un Paese con una Costituzione molto malfunzionante che è stata concepita
come mezzo per fermare la guerra. Un dopoguerra nel quale siamo ancora bloccati da 20 anni. Nel
frattempo, abbiamo vissuto la peggiore versione
di “transizione verso un’economia di mercato”
che si possa immaginare, e come risultato abbiamo un piccolo numero di politici/criminali/
oligarchi che possiedono le aziende più importanti e le risorse naturali, mentre il resto della
popolazione soffre. La guerra è stata una terribile
esperienza, ma questo dopoguerra è altrettanto
orribile.
Nel vostro disco c’è anche un omaggio a Edward
Snoden: “Free Mp3” è un inno contro il copyright. Perché vi siete intestati questa battaglia?
Il modello di proprietà e copyright che l’industria della musica tradizionale sostiene è vecchio
e non funziona più nell’era digitale, deve essere
ridefinito. È un sistema che ha sempre protetto le
grandi aziende che hanno guadagnato un sacco
di soldi mentre ai loro artisti lasciavano solo gli
avanzi. E proprio adesso che finalmente questo
sistema viene messo in discussione, gli artisti dovrebbero combattere contro il cambiamento?!?
5 marzo 2016
59
LIBRI
Dal web alla carta.
La nuova collana
di Succedeoggi
Per iniziativa di Fano
torna in libreria il
saggio di Ginzburg
su Dostoevskij
di Filippo La Porta
U
n webmagazine culturale tra i più vivaci,
Succedeoggi - erede
delle riviste culturali per le
quali non c’è più spazio in
libreria - esordisce come
casa editrice con tre titoli:
Burri e altri amici di Leone
Piccioni, Saggi su Dostoevskij, di Leone Ginzburg (intro U. Soddu), Breviario ad
uso dei politici del Cardinale
Mazarino (intro U. Ambrosoli ); si possono richiedere
a Succedeoggi al prezzo di
cinque euro.
l sito, creato da Nicola Fano,
Gloria Piccioni e Anna Camaiti Hostert nel 2013, ospita commenti, recensioni,
racconti e reportage. Ma vediamo i tre libretti, di grafica
sobria ed elegante: si tratta di
altrettanti preziosi repechage
di opere ormai irreperibili.
Il breviario seicentesco di
Giulio Mazarino, imparentato
più con l’arte della dissimulazione di Torquato Accetto che
con Machiavelli, contiene
massime e consigli attualissimi per gestire il potere: «simolatore è colui, che or biasima, or commenda una stessa
azione, secondo più gli torna,
o gli cade in taglio».
Leone Piccioni, ex dirigente Rai e critico letterario, ci
offe un ritratto straordinario dell’amico Alberto Burri e paragona i suoi sacchi
bruciati alla “Ginestra” di
Giacomo Leopardi, vedendo in essi non solo l’umanità desolata, piagata, ma
«uno slancio di amore e solidarietà» (curioso: Piccioni
era democristiano, mentre i
comunisti Terracini e Trombadori, quando un sacco
venne esposto alla Galleria
d’arte moderna di Roma,
fecero una interrogazione
parlamentare che chiedeva
quanto fosse costata al museo «quella vecchia, sporca
e sdrucita tela da imballaggio»!).
Leone Ginzburg sottolineava che Dostoevskij, che pure
rappresentò trasgressioni,
atti estremi, personaggi tenebrosi,
situzioni-limite,
«non è uno scrittore decadente». Perché? Perché
non chiama il male bene. Il
“demone” Stavrogin, capo
carismatico di una setta terroristica, non viene da lui
presentato come eroe romantico o uomo esemplare.
E anzi la sua indifferenza
morale, vagamente superomistica, lo porta a una tragica indifferenza emotiva: voleva provare piaceri sempre
più «complicati e morbosi»
ma alla fine non prova più
niente.
TEATRO
La bella favola
del paese
di Gyula
Racconto yiddish e
atmosfere cechoviane
nel testo di Fulvio
Pepe per il Teatro Due
di Massimo Marino
U
n bar con un povero
bancone, vuoto. Un
barista smarrito in
improbabili sogni d’amore.
Qualche tavolo di fòrmica,
qualche sedia. Una ragazza
muta, sempre abbattuta su
una bottiglia vuota. Ma anche
i bicchieri e le bottiglie degli
altri avventori non contengono liquidi, perché questo paese, adagiato forse su qualche
montagna slava o in qualche
60
5 marzo 2016
steppa magiara, non è un luogo reale ma di favola. Siamo
in una storia contemporanea
di pericolo, trasformazione e
magia, con principesse e orchi simili a quelli che ci circondano. Gyula è un bel testo
di Fulvio Pepe, attore al suo
debutto da drammaturgo e
regista.
L’abbiamo visto a Parma al
Teatro Due, e si può ancora gustare all’Elfo di Milano
dall’8 marzo. Su quel paesotto dai bicchieri vuoti e dalle
esistenze sperdute incombe
il mostro della crisi. C’è una
segheria, che dà da lavorare ai tipi che s’incontrano in
quel bar, a quelli seri, a quelli
che si difendono con la battuta urticante e malevola, a
quelli perennemente fermi
dentro le prime pagine di
un romanzo. Il padrone lontano, un russo, forse vuole
tagliare posti di lavoro. In
quel paesotto, che sembra
l’invenzione di un racconto
yiddish, con qualche atmosfera cechoviana e una tinta
Sulle orme del pittore
di Borgo. Da Cezanne
a Morandi, fino a
Tarkovsky
di Simona Maggiorelli
N
alla Bruno Schulz, vivono anche una povera vedova che si
trascina perennemente con il
carrello della spesa, e il figlio
Gyula, un ragazzo dal corpo
deforme, che fatica a parlare: «ritardato» lo diresti, al
primo sguardo. E ci sono un
violinista fallito che sogna la
ricostituzione dell’Orchestra
Provinciale e intanto sopravvive nell’accidia e sua moglie,
acida, che lo incalza col disprezzo.
In quel mondo soffocato, reso
con tinte terrose e con pochi
elementi scenografici che richiamano i diversi ambienti,
sgorgherà il miracolo, proprio
dall’ultimo, dall’emarginato, da Gyula. Allo spettacolo
l’autore e regista imprime un
ritmo appassionato e coinvolgente. Il resto lo fanno gli
ottimi attori, tra i quali spicca
Ilaria Falini, che con sensibilità rende il protagonista smarrito in un mondo di lupi e di
troppo inermi agnelli, capace
di riscattare alla speranza vite
senza orizzonte.
el segno di Piero della
Francesca, pittore della
luce dorata, spalmata sulle pelle di tutte le cose. I
suoi paesaggi rinascimentali
non hanno ombre, non offrono nascondigli. Eppure al
tempo stesso sono fra i più arcani e misteriosi. L’arte di Piero
appare primitiva, rustica, eppure è disseminata di raffinati
simbolismi ed è elegantissima.
Basta pensare a un capolavoro
come La flagellazione (145560) su cui, non solo storici
dell’arte, ma anche antropologi e filologi, si sono arrovellati
per svelarne l’enigma. Piero è il
pittore del silenzio, del miste-
5 marzo 2016
del pittore piemontese che riprende il gesto architettonico
della Madonna e insieme l’effetto tridimensionale.
Certamente Piero fu un pittore
a vocazione universale, ma colpisce ugualmente, guardando
questa sequenza novecentesca
come, molti secoli dopo, sia
riuscito a ispirare artisti dalla
poetica più diversa. Il suo classicismo fu riletto in chiave d’avanguardia, come abbiamo già
visto. Ma anche in chiave conservatrice da pittori del ritorno
all’ordine, dal gruppo di Valori
plastici e poi dal metafisico De
Chirico che ne ammirava l’«esoterica scientificità». L’onda
lunga di Piero arriva poi fino
al cinema, suggerendo alcune
memorabili inquadrature ad
Antonioni,. Mentre il regista
russo Andrej Tarkovsky gli rese
omaggio dedicando una lunga
sequenza del film Nostalghia
alla Madonna del parto (1460).
Pittore di corte, che celebra il
potere del ducato di Urbino
rappresentandolo come la città ideale, in realtà Piero non
fu mai realmente al servizio di
nessuno, se non della propria
arte. E questa resta la sua grande forza.
Piero della Francesca, Madonna della Misericordia (1444 - 1464)
Piero, grande
seduttore
ro, ma è anche «il pittore della
forma» dice Antonio Paolucci,
che ha guidato il team di curatori della bella mostra Piero
della Francesca, indagine sul
mito, aperta fino al 26 giugno
nei Musei di San Domenico a
Forlì. Pittore della forma a tal
punto da diventare riferimento
per Cézanne che ne ammirava
la sintesi prospettica di forma-colore. Il pittore di Aix non
fu l’unico protagonista dell’arte di fine Ottocento a subire il
fascino dell’artista toscano. La
luce limpida e radente di Piero conquistò anche il post impressionista Seurat, come ben
racconta la mostra forlivese e il
saggio di Fernando Mazzocca
contenuto nel catalogo Silvana
Editoriale. Ma non solo. Anche
le atmosfere sospese e senza
tempo di Giorgio Morandi devono molto a quelle del pittore
borghigiano. E alcune nature
morte in mostra negli spazi
museali di San Domenico, disseminate di uova, sembrano
citarlo esplicitamente. Così
come alcuni quadri di Felice
Casorati. Come si evince dal
confronto fra la Madonna della misericordia (1444-1464) e il
ritratto di Silvana Cenni (1922)
Felice Casorati, Silvana Cenni (1922)
ARTE
61
BUON VIVERE
TELEDICO
Per Guglielmo
Marconi prima
il lavoro poi il cibo
The 100, quando
è la natura a farci
tutti uguali
Nei momenti di relax
però, l’inventore della
radio non disdegnava
il pollo arrosto
Nella serie cult per
teenagers vince la
parità di genere nella
lotta per sopravvivere
di Francesco Maria Borrelli
di Giorgia Furlan
G
uglielmo
Marconi.
Quando doveva lavorare non c’era tavola imbandita che tenesse, ma nel
tempo libero era una buona
forchetta. A scriverlo è la moglie Maria Cristina Marconi
nel volume Mio marito Guglielmo. «Era talmente assorto negli studi e nelle ricerche,
così determinato a riuscire,
che si dimenticava persino di
mangiare e dimagrì moltissimo». Durante la navigazione
dell’Oceano, poi, «per portare
a termine i suoi esperimenti
non ammetteva di cambiare
rotta per trovare riparo» e durante le forti burrasche «era
impossibile cucinare per lo
chef, così mangiavamo sandwich e si beveva cognàc».
Ma nei momenti di pausa sapeva gustare il cibo, così come
quando ad Honolulu incontrò
«il direttore del Ritz Hotel che
ricordava bene il suo menu
preferito: perite marmite carne e verdure lesse, ndr -,
pollo arrosto con purée de
pommes, dolce e vino bianco della Mosella». Variamo
sul tema e prepariamo un bel
pollo disossato ripieno arrosto.
Ingredienti per 6: 1 pollo 2kg;
friarielli (cime di rapa) 1kg;
impasto per salciccia 250gr;
provola affumicata 200gr; panino secco 1; sale; aglio; pe-
peroncino; vino bianco; olio
Evo; lardo di Colonnata 80gr.
Comprate il pollo disossato
se possibile col petto integro,
altrimenti cucitelo con ago e
filo prima di infornarlo. Pulite
i friarielli e stufatene la parte
edibile con olio, aglio, peperoncino e sale per 20 minuti.
Frullate, poco e insieme, friarielli, pane e salsiccia. Amalgamate il tutto con la provola
a dadini e riempiteci il pollo.
Coprite la parte superiore del
pollo col lardo a fette e infornate per un’ora a 180°C in una
teglia con un fondo d’olio,
vino e sale.
Vino consigliato: Etichetta
Nera, Colli di Luni Doc Vermentino, Cantine Lunae (La
Spezia). «Un vino è buono
quando un bicchiere tira l’altro. Da 25 anni nella zona dei
Colli di Luni, il Vermentino ha
ottenuto la Doc ed Etichetta Nera la esprime al meglio:
facciamo questo lavoro da
generazioni, lo abbiamo nel
sangue. È un vino di grande
stoffa, persistente al palato
con profumi intensi di fiori di
campo ed erbe aromatiche.
Ce ne son tanti in giro, ma è
come per una bella canzone:
dipende da chi la canta. Sono
nato durante una vendemmia, quindi il vino ce l’ho nel
Dna per vocazione», spiega il
proprietario Paolo Bosoni.
62
5 marzo 2016
S
i scrive The 100 e si pronuncia all’inglese “the
hundred”, è la nuova
serie in voga fra gli adolescenti in onda su Italia 1 e negli
Usa su The CW, dove stanno
trasmettendo la terza stagione. Il successo del telefilm è
tale, che non di rado gli hashtag di chi segue le puntate
commentando via Twitter
entrano ai primi posti della
classifica dei Trending Topic,
negli Usa ma anche in Italia.
La trama è basata (anche se
non troppo fedelmente) sul
l’omonimo romanzo di Kass
Morgan e ambientata in un
futuro distopico. Sono passati
93 anni da quando l’umanità
ha abbandonato la Terra a seguito di una guerra nucleare
e si è rifugiata su una stazione spaziale, ma lì le risorse
stanno per finire e così 100
adolescenti vengono rispediti sul pianeta per capire se la
superficie terrestre è di nuo-
vo abitabile. La società che i
ragazzi strutturano appena
messo piede sulla Terra ricorda per molti aspetti Il Signore
delle Mosche.
La sopravvivenza infatti si rivela capace di mettere a dura
prova i princìpi con i quali
sono stati educati e spesso
i protagonisti si trovano di
fronte a un bivio: da una parte
i valori della civiltà e dell’umanità, dall’altra la paura, la
violenza e la brutalità usate
come difesa in un ambiente
ostile. Puntata dopo puntata i personaggi acquisiscono
sempre più profondità. Il contatto con la giungla e con la
foresta sembra infatti metterli
in comunicazione con il Cuore di tenebra che è nascosto
in ognuno di loro, ma senza
che smettano mai di lottare
per restare umani, anche di
fronte all’Orrore (sempre per
citare Joseph Conrad). La natura ha tuttavia anche un’altra
funzione fondamentale nel
definire l’intreccio. Funziona
come una “livella”, annulla le
differenze di genere e sociali:
a sopravvivere è il più adatto e
a guidare il gruppo è chi riesce
a garantire meglio la sicurezza
degli altri, non importa se sia
un ragazzo o una ragazza. In
questa serie tv per teenagers
ogni protagonista può diventare, a prescindere dal proprio genere, quello che vuole.
Così ci imbattiamo in donne a
capo di enormi eserciti o fanciulle che sono più brave dei
compagni maschi a costruire
bombe e aggiustare astronavi.
Il viaggio in Italia
di Robert Capa
Torino - Quiroga, Artl, Sabato, Cortazar: grandi scrittori
sudamericani nella collana
delle “Letture Einaudi”. Se ne
parla il 9 marzo da Bardotto (via Mazzini, 23) alle ore
18.30. Intervergono Mauro
Bersani e Jaime Riera Rehre.
www.einaudi.it
San Gimignano - Dal 4 marzo
approda alla Galleria d’Arte
Moderna e Contemporanea
“Raffaele De Grada”, la mostra
dedicata al grande fotoreporter di guerra Robert Capa, che
racconta con 78 immagini in
bianco e nero gli anni della
Seconda guerra mondiale e
la Resistenza nella penisola.
www.sangimignanomusei.it
Roma - Un nuovo progetto
del regista Amos Gitai, dall’
11 marzo al MAXXI. S’intitola
Chronicle of an Assassination
Foretold e debutta in contemporanea alla mostra Highlights/visions con opere di
Sou Fujimoto, Michelangelo
Pistoletto, Paolo Soleri, Luca
Vitone, Franz West e Chen
Zhen.
Parole in dialogo.
Pulcini e Veca
Torino - Declinano una serie
di parole chiave, come “responsabilità”, “uguaglianza”,
“sostenibilità” i filosofi Elena
Pulcini (il 10 marzo) e Salvatore Veca (22 marzo), con l’economista e Enrico Giovannini (14 aprile) nelle scuole
superiori della città.
www.fondazioneunipolis.org.
Lo schermo dell’arte
approda in Laguna
Ph Robert Capa © ICP/Magnum- Hungarian National Museum
Venezia - Il meglio de Lo
Schermo dell’arte. Dal 10 al
13 marzo al Teatrino di Palazzo Grassi, una selezione
di 13 film della storica rassegna fiorentina. Con (Untitled) Human Mask dell’artista
francese Pierre Huyghe, che
anticipa la mostra di Punta
della Dogana, Accrochage.
www.palazzograssi.it
BOTTO&BRUNO SULLE
NOTE DI EDDIE VEDDER
Il nuovo romanzo
di Clara Sanchez
Torino - Dal 9 marzo, la Fondazione Merz ospita Society,
you’re a crazy breed un progetto di Botto&Bruno concepito
come una installazione che
racconta la trasformazione da
edificio industriale dismesso
a centro di cultura. Il titolo è
tratto da “Society” di Eddie
Vedder per il film Into the Wild.
www.fondazionemerz.org
Roma - «Cosa c’è dietro una
vita perfetta?» è la domanda
che la scrittrice Clara Sánchez
si pone ne La meraviglia degli
anni imperfetti (Garzanti). Il
5 marzo a mezzogiorno Sanchez svela i «segreti inaspettati» della sua storia dialogando
con Roberto Ippolito, nella libreria Nuova Europa i Granai,
in via Mario Rigamonti 100.
GLI OTTANT’ANNI
DI LETIZIA BATTAGLIA
Palermo - Per festeggiare gli
80 anni di Letizia Battaglia,
dal 6 marzo all’8 maggio, ZAC
ai Cantieri Culturali alla Zisa,
ospita la grande retrospettiva
della fotografa palermitana.
Con il titolo Anthologia, la rassegna curata da Paolo Falcone
presenta oltre 140 lavori esposti insieme per la prima volta.
www.letiziabattaglia.org
5 marzo 2016
63
© Oreste Lanzetta e Iole Capasso
Il nuovo progetto
del regista Amos Gitai
Cortazar e l’onda
sudamericana
© Letizia Battaglia
© Amos Gitai
APPUNTAMENTI
TRASFORMAZIONE
Pulsione, vitalità, movimento, suono,
capacità di immaginare, memoria,
certezza che esiste un seno
Sorgenti
del tempo del fiume della vita
È
venuto marzo e l’aria, l’acqua, gli animali e le piante ancora senza fiori sentono e dicono, senza parola, che sta arrivando la primavera. Dopo un inverno
tiepido, tenero come una madre che riscalda e nutre
il neonato per farlo vivere e svilupparsi, sembra che il calore
venga dalla terra che si libera dalla paralisi. Il freddo e la neve
avevano sempre costretto la donna a restare al chiuso nella
caverna.
Guardo i gabbiani che volano sopra la mia testa e penso
che danno calore alle loro uova ed ai mammiferi che allattano la prole. Sembra che l’essere umano non abbia un comportamento diverso, soltanto un tempo d’infanzia più lungo
in cui ha l’impossibilità di cercare il cibo e nutrirsi da solo.
Non è né autosufficiente né autonomo prima di avere la stazione eretta e pensiero verbale percepito.
8 marzo 2008. Il linguaggio articolato parlò e non dette il
nome ad una realtà materiale ma disse: venti secondi. Non
era il calcolo degli strumenti che stabiliva il tempo necessario
per muoversi o camminare e raggiungere un punto in cui il
movimento spariva perché cessava di esistere. Era un pensiero verbale che aveva ridotto l’alfabeto ad indicare, con un
numero senza identità, un tempo.
Accadde che il momento del silenzio del bambino nato,
senza identità manifesta perché variabilissima in ogni individuo, venisse definita con due termini verbali che indicavano
una realtà non pensata dalla coscienza che non aveva mai
dato ad essa nessun nome. Forse c’è anche negli altri mammiferi e tanti hanno sempre pensato che la nascita umana è
uguale a quella degli animali.
Otto anni fa il linguaggio articolato, dicendo ” venti secondi” non indicò una realtà percepibile e pensabile ma attraverso il suono urlò alla sostanza cerebrale, da sempre in coma
irreversibile senza speranza, di svegliarsi e guardare. Non fu
un aver visto con gli occhi, ma una percezione del silenzio
che era, simultaneamente, pensiero come fosse il contrario
della percezione delirante che vanta un vedere che sarebbe
pensare e non ha pensiero.
Avevano sempre pensato che la vita iniziava con il respiro
ed il vagito e, come tutti, avevo visto un’assenza ma non avevo avuto un pensiero verbale che desse un nome alla realtà
percepita. Avevo visto il silenzio e l’assenza di forza e tono dei
muscoli come se il neonato fosse flaccido... non nato, ma quel
giorno vidi un’assenza che era realtà. Un non movimento del
corpo che non era nulla, mancanza, non esistenza. Un silenzio che era senso senza il significato che la voce sonora dice.
64
5 marzo 2016
In verità, senza che la coscienza sapesse, si stavano avvicinando le parole che comparvero dopo che l’esperienza con
Rifondazione comunista era caduta perché era comparsa il
19 gennaio ‘08 l’immagine di una fanciulla che divenne donna con una bella identità sociale e professionale. Sembravano
le stesse comunemente usate ma erano nuove, piene di vita,
dense e mettevano in crisi la razionalità della mente sveglia.
Furono movimento, tempo, suono, pulsione, i termini
che dai più remoti angoli della mente comparvero, sparirono, ricomparvero guidati dal pensiero della novità pensato come trasformazione. Nel tempo dell’anno nuovo, il 14
gennaio dissi che avevo visto, in primo luogo, pulsione. Fu
Biancaneve che ebbe il bacio dal principe, fu la bestia che
con il bacio della bella diventa principe, fu Cenerentola che
viene riconosciuta dalla piccola scarpetta di vetro.
Altre parole, come avessero la sensibilità delle formiche
che, senza vedere sentono l’esistenza delle gocce di latte cadute a terra, sia avvicinarono per bagnarsi e rinascere nuove. Non ebbero l’angoscia di gettare alle ortiche, che rendono bella la pelle, le parole vecchie che indicavano sempre la
realtà materiale. Il volto delle donne diventò luminoso per
un intelligenza nuova in cui il linguaggio articolato rendeva
viva una verità umana mai pensata esistente.
Fu così che il termine pulsione posto, nel pensare e nello scrivere la realtà invisibile, rivendicando la sua dignità
umana si separò dal termine istinto che guida il comportamento degli animali. Fu così che movimento non fu più
spostamento di un oggetto fisico nello spazio per una forza
esterna. Divenne trasformazione che è insieme alla parola
tempo anche se chiedeva che si dovesse pensare che sparizione non è creare il nulla.
Ancora più bello fu il corpo umano che fece sparire dalla mente l’angoscia del pensare alla comparsa della realtà
non materiale dalla realtà biologica che chiamò il termine,
mai stato della realtà umana, di creazione. Furono le parole “realtà che prima non esisteva” ad allontanare i termini:
ricreazione e trasformazione. Era sempre stata azione di un
ente non del mondo né dell’essere umano collocato in un
infinito che è non essere.
Contraddizione del pensiero verbale che componeva l’infinito, per definizione immobile perché perfetto, alla creazione che è movimento. Venne il tormento continuo generato sempre dalla parola pulsione messa al primo posto nella
nascita umana. La certezza del pensiero oscillò nel dare un
tempo ad essa.
Massimo Fagioli psichiatra
Le parole, che non avevano nessun rapporto con lo spazio, si
muovevano velocemente come se il tempo non esistesse. Si avvicinavano le une alle altre, si allontanavano e sparivano come se la
trasformazione, che le aveva fatte muovere, non fosse mai esistita.
Non riuscivo ad avvicinare il termine tempo alla parola pulsione.
Veniva sempre il pensiero terribile che diceva: se la pulsione ha un
tempo l’essere per l’anaffettività e l’annullamento è realtà umana.
Avrei aggiunto un’altra piaga al male radicale o istinto di
morte sempre creduto esistente nella nascita umana. Poi affiorò
dal fondo del mare una corrente calda ed il pensiero disse: la
pulsione di annullamento renderebbe inesistente la natura non
umana. Non è la verità e ciò vuol significare che non c’è forza,
attività. Sarebbe credere e non pensare.
È pensabile che in realtà, detta in tali termini: pulsione di
annullamento del mondo perché il neonato umano non è compatibile con la natura non umana, nella nascita non esiste. Vista
nella realtà umana dello schizoide anaffettivo, non ha nessuna
influenza sulla realtà materiale percepita dalla coscienza. Non
esiste, nell’essere umano un fare il nulla sulla natura che non
ha realtà non materiale.
Simultaneamente, la pulsione di annullamento si volge verso
se stesso, senza alterare la realtà materiale in cui il cuore batte
ugualmente, annulla la propria vita, ma non l’esistenza del
corpo. E per alcuni secondi non sembra vivo. Ma, nel corpo del
neonato c’è la capacità di reagire biologica che, diventando
vitalità, crea la capacità di immaginare che fa la memoria-fantasia della sensazione avuta dalla pelle nel liquido amniotico.
Alcuni anni fa comparvero le parole che non erano più la
ripetizione dei suoni uditi. Nascita, fantasia di sparizione,
inconscio mare calmo scomparvero come se non fossero mai
esistiti. Sembrava che non riuscissero a prendersi per mano
per dire la verità della nascita umana. Ora l’intelligenza, che è
fantasia, ha composto pulsione, movimento, tempo, capacità
di immaginare, memoria della sensazione avuta dalla realtà
biologica.
Una
serietà
che semGuardo e leggo. Vedo che non ho rinnegato la ricerca ed il
bra un velo
pensiero di cinquanta anni fa. Le parole di allora non ci sono più e, soprattutdi tristezza, è
to la composizione dei periodi è totalmente diversa anche se il mancato rispetto
soffuso sul volto
per la sintassi, che non mi avevano insegnato, sembra lo stesso. Ma non è lo stesso.
Certamente è diverso, nel fraseggiare, il suono che non si ode. La lingua è sempre
della nuova fotograitaliana.
fia. Forse è la pena per
Alcune volte ho tentato di dire ciò che sembra impossibile dire. Usare il linaver scoperto la verità sulguaggio articolato che indica, nella realtà umana della veglia gli oggetti materiali, per parlare di realtà non materiale umana, è stato sempre impossibile.
la nascita umana. Una realtà
Hanno scolpito e dipinto, hanno fatto musica ma non si è mai riusciti a
umana, diversa dalla coscienza
trasformare in linguaggio articolato il linguaggio senza parola.
e linguaggio articolato, aveva
Venne un’idea semplice che nasceva da un’osservazione ovvia. Il
trasformato due termini verbali: fanlinguaggio delle immagini oniriche è universale. Non c’è, come
nella lingua della coscienza, la diversità nazionale che rende
tasia di sparizione. Ora, come le foglie
incomprensibile all’uno il parlare dell’altro. Nel pensiero
bianche dell’orchidea, la parola nuova è
senza coscienza il linguaggio è fatto di immagini che non
sfiorita dopo aver messo al mondo figlie che
sono ricordi coscienti ma trasformazione del percepito.
Trasformarlo in pensiero verbale è, forse, creazione.
non erano mai nate. Pulsione, vitalità, moviIncomprensibile come si possa udire la descriziomento, capacità di immaginare, memoria-fantasia
ne delle immagini oniriche e vedere il pensiero
sono in fila per prendere il latte che dà certezza di
verbale nascosto... inesistente perché non
parlato. È necessario non credere ai “sogni
identità. E, dopo la prima parola seduta nel posto di
mandati dagli dei” ma pensare alla crearegina, una ruba il posto dell’altra. Girando in un ballo
tività della realtà biologica umana che
veloce intorno al trono ognuna sparisce tornando inerte
reagisce al sole con la pulsione che è la
parola cosciente..
realtà non materiale.
5 marzo 2016
65
IN FONDO A SINISTRA
di FABIO MAGNASCIUTTI
66
5 marzo 2016
BioBottle Sant’Anna.
Per il benessere di mamme e bambini.
*
Dai vegetali nasce la prima bottiglia al mondo biodegradabile .
Senza una sola goccia di petrolio.
www.santanna.it
santannasanthe
*Tutti i dettagli sul sito.
Il tappo è in PE e deve essere conferito nella raccolta differenziata della plastica.
Fly UP