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INVITO ALLA LETTURA Ore: 17.00 Sala Mimosa B6 DANIELE CHE AVRÀ 20 ANNI NEL 2020 Presentazione del libro di Mario Melazzini ed Emma Neri (Ed. San Paolo). Partecipano Mario Melazzini, Assessore alle Attività Produttive, Ricerca e Innovazione della Regione Lombardia e Renato Farina, Scrittore. RENATO FARINA: Allora, buonasera. Come l’anno scorso c’è al Meeting un importante incontro con Melazzini, come l’anno scorso ci sono anche io. Io sembro più vecchio, lui sembra più giovane, è un mistero che appartiene al modo come lui affronta la vita, questo è evidente. Da questo applauso capisco che non avete molta stima del modo con cui io affronto la vita ma non è un problema grave. Allora, questo libro, che si chiama Daniele che avrà 20 anni nel 2020, è un libro di storie bellissime, raccontate dentro una storia, per cui è un libro di storia al quadrato. Tutti i libri autentici di storia raccontano qualche cosa di vitale e hanno una pregnanza culturale eccezionale. Questo libro è stato scritto dalla penna accattivante, affascinante di Emma Neri, che invito ad alzarsi, e che ha potuto scrivere questo libro con questa potenza perché si è completamente immedesimata con quello che raccontava, perché è una storia raccontata da una persona che, mentre apprendeva queste cose, ha vissuto questa storia: anche nelle pieghe della sua prosa, si intravede questo significato della vita che si comunica immediatamente. Uno legge prima di tutto l’introduzione scritta dallo stesso Mario Melazzini, poi le pagine, che sono intrise della sua esperienza che passa attraverso la comunicazione di Emma: e si entra in un mondo a cui si partecipa, non è che si entri in un mondo di fantasia da cui si esce quando si è finito di leggere, perché è il mondo reale. Il mondo reale è un mondo dove è possibile cercare la felicità e intravederla, in qualsiasi condizione si sia, perché innanzitutto siamo persone e, come scrive Melazzini nella sua introduzione, “è necessario partire dal presupposto che la vita umana è un mistero irriducibile, che non può essere descritto esclusivamente dai soli elementi biologici e pertanto non è ammissibile l’idea per cui la vita sia degna di essere vissuta solo a certe condizioni”. Noi siamo persone che vivono una condizione che talvolta, in determinati momenti della nostra vita, è di disabilità. Per alcuni, la disabilità, che può essere di vario genere, si protrae più a lungo e può accompagnare tutta la vita. Ma questa disabilità non appartiene al singolo, appartiene alla società, che a sua volta non è fatta da atomi divisi tra di loro. Atomo vuol dire indivisibile, ma ci sono atomi che non sono in comunicazione tra di loro, formano molecole indipendenti: mi sono incastrato nella fisica, però il concetto è chiaro. Attraverso l’esperienza di Mario Melazzini, che a sua volta ha incontrato altre persone, innanzitutto la sua famiglia, nasce ed è nata una rivoluzione culturale. Questa rivoluzione culturale ha chiesto alla politica di essere presa sul serio. E la politica della Regione Lombardia, guidata da Roberto Formigoni, se n’è fatta veramente carico. Questa è l’essenza culturale, politica di questo libro, che però è molto più di questo perché mostra come un’esperienza autentica sia capace di contagiare di sé - anche questa è una parola che torna nel libro -, della sua positività, qualsiasi ambito, anche l’ambito politico che sembrerebbe sordo a qualsiasi cosa. Ma non solo l’ambito politico, perché fino a quando si tratta di fare delle leggi, si è bravi, si fanno delle proposte interessanti e sono approvate. La questione è poi, come si dice con una brutta parola, implementare queste leggi, cioè superare il labirinto della burocrazia per far sì che questa rivoluzione culturale, che trova consenso nella politica, abbia dei benefici tra le persone concrete. Io non vorrei parlare tanto perché siamo qui per ascoltare lui, ma quello che lui non dirà è che la sua esperienza è veramente la più profonda testimonianza di come esista un’emergenza uomo della nostra società e di come a questa emergenza uomo sia possibile una risposta che assomiglia a un cammino di felicità, un cammino di pienezza. Questo non riguarda uomini che stanno in una certa condizione di salute o meno, ma è semplicemente una possibilità per la persona, senza nessun aggettivo attaccato. Queste persone poi vivono dentro i limiti che abbiamo tutti, ma il limite, invece di essere un “nonostante”, può diventare una chance, paradossalmente, tanto è vero che, secondo delle statistiche che troverete in questo libro - che vi invito a leggere, tra l’altro si legge con facilità e gusto - risulta che il tasso di felicità dichiarato dalle persone che vivono con disabilità sia superiore a quello delle persone cosiddette normali. Perché lo scopo della vita non è diventare normali, è essere felici. Questo vale per qualsiasi persona, in qualsiasi condizione sia, giovane, vecchio, malato, sano, più o meno sano. Tutti noi attraversiamo condizioni di disabilità. Questa era la mia premessa, e potrei aggiungere un altro concetto ancora: c’è una frase che mi ha colpito, detta da uno dei numerosi testimoni, perché questo libro è una collezione magnifica di testimonianze. Noi siamo abituati - non solo i medici o chi ha una funzione sociale, in realtà è una caratteristica di ciascuno di noi -, quando ci imbattiamo in una persona che ha un problema, specialmente un problema grave, a dire: “Non è un problema mio, ci penseranno i servizi sociali”. Oppure: “Ci sarà quello dietro di me su cui, con una breve lettera che scrivo in cinque secondi” dice a un certo punto uno dei vostri testimoni, “scarico il problema”. Noi siamo gli ultimi della fila, dobbiamo comportarci come se fossimo gli ultimi della fila, per cui il compito è farsi carico, non scaricare. Questa è la condizione per una vita umana dentro la società e questo è ciò che la politica deve aiutare. Però la politica non può sostituirsi a questo farsi carico, la politica non può costruire un meccanismo sociale perfetto in cui non ci sia posto per essere buoni, poi è lasciato alla libertà delle persone di aderire o meno. Questo volevo dire. E la prima domanda che voglio fare, come introduzione, è questa: abbiamo visto l’anno scorso quel bellissimo film dedicato da Exitu alla tua giornata, abbiamo letto altri libri, cosa c’è di più in questo libro? In questo anno, in che cosa sei cresciuto? Io gli do del tu perché, senza saperlo, senza neanche preventivarlo, siamo diventati amici. Io mi sono accorto di essere amico perché lui mi invita a parlare delle sue cose: per me è una sorpresa e un riconoscimento potente, volevo ringraziarlo per questo. MARIO MELAZZINI: Cerco di essere sintetico perché vorrei poi entrare con alcune domande specifiche sui contenuti di questo libro. La nostra quotidianità, la nostra vita si poggia sull’incontro con l’altro, è dall’incontro con l’altro che nascono quelle esperienze, quelle situazioni che ti permettono di valorizzare quell’incontro e anche di vedere quell’incontro come testimonianza per quel qualcosa che deve essere, che può essere costruito. Quindi, che cosa c’è di diverso in questo libro? Per questo libro non finirò mai di ringraziare Emma, perché Emma Neri è stato proprio un incontro casuale, e qui devo ringraziare Roberto Albonetti: se non fosse stato per lui, non avrei incontrato Emma. Indipendentemente dal fatto che avevamo inizialmente pensato di scrivere il libro, Emma è stato l’incontro che mi ha permesso di capire che, grazie a persone come lei, si potevano tradurre delle idee o dei fatti che stavano accadendo in Regione Lombardia, e non farli volare via. Il problema grosso è che si fanno molte cose, si mettono a disposizione tanti strumenti, ma poi noi, cittadini qualunque, non ne siamo a conoscenza e non possiamo usufruire di questi strumenti. Cosa è cambiato? E’ cambiato che questo è un libro non per le persone con disabilità ma è un libro per tutti. Mi è piaciuto molto ciò che oggi Renato mi ha detto a pranzo, che ha fatto un sondaggio per cui, in effetti, si pensa che il titolo evochi la storia di Daniele. Invece, Daniele è sì un testimone ma Daniele è il paradosso della felicità. Ed è il paradosso della felicità perché questo è ciò che vuole trasmettere il libro, oltre a dei contenuti, agli strumenti che sono a disposizione per le persone con disabilità: il paradosso di dimostrare che le persone con disabilità sono felici. Ed è il paradosso di Levine che, nel 1987, ha fatto questo lavoro, questa ricerca. E’ qui il motivo che ci ha spinti a fare questo libro. Cosa è cambiato proprio in questo anno? Purtroppo sono arrivato in ritardo a essere una persona con disabilità. Non lo dico perché mi piace essere una persona con disabilità, sì, è un piacere, non l’essere malato ma la cosa incredibile che io e molti di noi, molti di voi, possiamo ipotizzare. Prima di ammalarmi, come tanti, anch’io pensavo che una persona con disabilità, la sua famiglia, non potessero vivere questa condizione ed essere felici. E invece è esattamente il contrario: lo testimoniano queste persone, di cui Daniele è testimonianza ed espressione. Daniele è un bimbo, anzi, lui si definisce un ragazzino, che nel 2010 aveva 10 anni e adesso ne ha 13, con una malattia neuromuscolare che noi abbiamo seguito, che stiamo seguendo presso il nostro Centro clinico. E’ un bimbo felice, che rende felice la famiglia e fa progetti: nel 2020 lui avrà 20 anni e, per inciso, la data è anche il traguardo che Regione Lombardia si è data - c’è un impegno -, per arrivare a mettere in campo tutte quelle azioni che noi abbiamo tradotto in atti normativi, grazie a una Regione che fa molte cose, ne ha fatte nei precedenti 18 anni e mi auguro continui a farle per i prossimi mesi, cercando di mantenere il ritmo che abbiamo avuto in questi anni. E’ una provocazione che lanciai al nostro Roberto Formigoni quando gli dissi, nel lontano 2007: “Ma lei, Presidente, è sicuro di mettere sempre al centro delle sue strategie politiche la libertà di scelta? E’ sicuro che tutti i cittadini lombardi siano liberi di scegliere, anche le persone con disabilità?”. La risposta fu “Sì”. Io aggiunsi: “Non ne sono troppo convinto. Dobbiamo rivalutare, ripercorre insieme, rileggere quanto è stato fatto e si sta facendo per le persone con disabilità in Regione Lombardia”. Rileggendo, è emerso un concetto per tutti, anche alla luce di una norma, una legge statale. Quanti di voi conoscono la legge del 18 del marzo 2009? E’ la ratifica che lo Stato italiano ha fatto della Convenzione ONU per i diritti per le persone con disabilità. 50 articoli molto precisi, che dicono che la persona con disabilità deve essere libera di scegliere, libera di partecipare, libera di essere sinergica, libera di essere integrata. Ecco la definizione: chi è la persona con disabilità? “Chiunque, in un contesto ambientale sfavorevole, può diventare persona con disabilità”: quindi si inizia a parlare delle barriere, dei facilitatori, ecc. Alla luce di tutto ciò, noi abbiamo riletto tutte le norme e fatto una norma nuova anche in Regione Lombardia. Ma la cosa interessante è il metodo che abbiamo usato. Perché nel nostro Paese, nella nostra società, e a volte anche nell’associazionismo, di cui faccio parte e con cui ho molto discusso, l’atteggiamento nei confronti delle persone con disabilità è molto assistenzialistico, a volte anche risarcitorio: per amor di Dio, è giusto, fino a un certo punto. Ma la questione della disabilità non è solo un problema sanitario - perché la disabilità non va medicalizzata - e non è solo un problema di assistenzialismo, è un problema di presa in carico globale della persona con disabilità e della sua famiglia: una posizione che deve garantire la libertà di scelta ma soprattutto la libertà di essere. Allora, Formigoni disse: “Va bene, se te la senti, rileggiamo tutto, creiamo questo gruppo”. E abbiamo creato una bellissima task force in Regione Lombardia, presso la Direzione generale Famiglia, di cui ho qui due angeli, Alessandra Cappi e Daniele Capone, che hanno dato veramente una grandissima mano al lavoro, oltre al Direttore che è stato molto bravo. Però non è stato un lavoro dell’Assessorato alla Famiglia ma di tutta Regione Lombardia perché abbiamo messo a sedere intorno a un tavolo tutti gli Assessorati con le varie Direzioni generali, compresa l’Agricoltura i cui dirigenti, quando sono venuti la prima volta, si dicevano “cosa c’entra l’agricoltura con la disabilità”, o la Cultura piuttosto che il Turismo. Abbiamo fatto una grande ricognizione e un lavoro fondamentale, in maniera trasversale, a 360 gradi. Ci eravamo detti che nessun metodo, nessuno strumento può essere calato dall’alto se non conosciamo l’esatta realtà del territorio e di chi è portatore del bisogno: e quindi, il coinvolgimento e l’ascolto di esperienze, di testimoni. Questa è stata la nascita di un percorso in cui abbiamo incontrato persone incredibili, realtà ed esperienze di cui normalmente sentiamo parlare ma che non vediamo mai: il percorso formativo dove manca l’insegnante di sostegno o lo studente che finisce la terza media e, avendo una disabilità motoria, non è libero di accedere al liceo piuttosto che all’istituto tecnico che ha scelto, ad esempio. Situazioni in cui chi riesce, chi va avanti, viene visto come una persona di grande tenacia e determinazione. Se vogliamo essere e considerarci una società civile, non possiamo permetterci che la disabilità diventi uno strumento di discriminazione sociale o di emarginazione, perché tutto questo poi evoca quegli atteggiamenti risarcitori o assistenzialistici. Abbiamo tutto il percorso all’inserimento lavorativo, una delle cose a cui tengo davvero: quando abbiamo pensato di proporre la presentazione del libro, come ha detto Renato anche noi abbiamo pensato al tema del Meeting di quest’anno, Emergenza uomo, un’emergenza da vedere non solo come un momento di crisi economica, sociale, ma proprio come un momento di crisi di valori, di crisi culturale, anche di emergenza nel senso di fare emergere le caratteristiche dell’uomo. Se voi avrete la pazienza di andare a leggere questo libro, che si legge veramente molto bene perché è scritto molto bene ma che soprattutto racconta di queste esperienze, vi renderete conto dell’incontro che si può fare con queste persone, con questi testimoni di vita e di speranza. Una speranza intesa anche come strumento di concretezza perché queste persone, sulla raccolta del bisogno e sull’identificazione della domanda che emerge, hanno costruito una risposta funzionale che si traduce in fatti concreti e che ci ha permesso di stilare questo Piano d’Azione Regionale per le politiche per le persone con disabilità che è un Piano di portata decennale. E’ stato il primo ad essere fatto in Italia ma anche in Europa: in Europa fanno meno piani ma rispondono di più, perché il concetto di libertà di scelta è molto forte. Noi però abbiamo bisogno anche degli atti, degli strumenti normativi e li abbiamo prodotti. E’ una cosa importante, non potrò mai ringraziare abbastanza le persone che hanno lavorato e quelle che ho avuto il dono di incontrare. Non posso citarle tutte ma quando sono andato all’Anaconda, a Varese, mi ero costruito un film, entrando in quella struttura. Quando sono uscito, mi sono detto: “Non avevo capito niente di quello che dovevamo fare”. Perché quelle persone mi hanno dimostrato che gli strumenti a disposizione potevano anche essere di qualche utilità ma andavano modificati in modo tale che non avremmo avuto un ritorno positivo e benevolo solo per quella struttura ma per tutte le strutture simili sull’intero territorio regionale. Ecco, queste sono le cose forti: noi politici non possiamo fare nulla se non ascoltiamo, non possiamo fare nulla se non conosciamo, perché la presunzione della conoscenza è l’arma peggiore che possiamo avere a disposizione per dotarci di atti e di strumenti che poi concretamente non danno risposte. Comunque, l’esperienza sta andando avanti e dobbiamo concretizzarla sempre di più perché, come diceva giustamente l’onorevole Farina, noi siamo bravi a fare carte, a fare atti, però poi bisogna dare seguito e utilizzare degli indicatori che ci permettano di comprendere, di capire che tutto quanto è stato fatto e si sta facendo raggiunga l’obiettivo. RENATO FARINA: Ho intuito che il punto di autentica novità del Piano di Azione Regionale è proprio questo metodo, questa rivoluzione culturale. Però c’è un punto specifico, una proposta anche politico-normativa che, dalla Lombardia, dovrebbe allargarsi a tutte le Regioni d’Italia, anche a quelle che vantano un’efficienza simile alla Lombardia. Nel libro si parla di Emilia e di Toscana, però si dice che lì c’è un altro metodo rispetto alla Lombardia. Io ho visto che si parla della figura del case manager che si prende la responsabilità di una persona con disabilità, che la segue e ne diventa punto di riferimento: una scelta che, tendenzialmente, implica qualche cosa di più di un rapporto burocratico perché accompagna la persona nelle scelte e soprattutto accompagna la famiglia. MARIO MELAZZINI: Sì, il case manager più che altro identifica il ruolo che l’istituzione pubblica, piuttosto che privata e accreditata, deve avere nei confronti nei confronti della garanzia di continuità del percorso assistenziale della persona. Parlo di percorso assistenziale perché siamo nell’ambito socio-sanitario, è qualcosa di cui si parla tanto: noi abbiamo iniziato a declinarlo, perché ad oggi la persona con disabilità, nel suo percorso, viene identificata anche dagli addetti ai lavori - non me ne vogliano se mi permetto di fare queste osservazioni - rispetto alla condizione che ha comportato essere persona con disabilità, non rispetto al bisogno che ha la persona nel suo complesso. Ma soprattutto, la definizione di persona con disabilità e di conseguenza l’identificazione del bisogno che quella persona ha, ad oggi non aveva uno strumento ben preciso. Noi abbiamo questo metodo che viene utilizzato da un po’ di tempo, in ambito non solo sanitario, che è la classificazione internazionale dell’ICF, della funzionalità: per identificare il bisogno, tu devi vedere quale tipo di funzione viene meno, questa è la cosa più importante. Con il nostro Piano d’Azione Regionale, andiamo a declinare tutto anche nel contesto dell’utilizzo dell’ICF, cosa che abbiamo fatto prendendo in carico progetti sperimentali e utilizzando l’ICF come strumento di valutazione. Non dobbiamo permetterci di fare errori, dobbiamo sperimentare gli strumenti che abbiamo a disposizione e verificare con indicatori se possono soddisfare tutta la popolazione, dalla persona con disabilità alla persona che ha un’artrosi dell’anca, piuttosto che una persona che diventa anziana. La legge del marzo 2009, cioè la ratificazione della convenzione ONU, prevede che lo Stato abbia degli adempimenti da compiere, fra i quali c’è anche la stesura di un Piano d’Azione Nazionale per le persone con disabilità. C’è una ricognizione da fare e da comunicare agli Stati membri, c’è soprattutto l’istituzione dell’Osservatorio nazionale per le persone con disabilità, del quale io sono stato chiamato a fare parte, nella Commissione tecnicoscientifica che è stata incaricata di redigere il Piano d’Azione annuale per le persone con disabilità. E’ stato tolto “annuale” ed è stato usato come scheletro il nostro, prendendo indice e capitoli. La differenza è che noi abbiamo messo i principi ma abbiamo anche declinato le azioni, e soprattutto un timing per le verifiche perché la politica deve offrire azioni e fatti. Io li prendo un pochino in giro: “Bisogna smettere di dire ma fare il fare”. RENATO FARINA: Sì, l’ho notato fin dalle prime pagine. Normalmente, siamo abituati a pensare che esistano due livelli. Nel linguaggio politico, infatti, quando si parla di “un voto di testimonianza” si intende un voto perdente, bello ma perdente. E poi invece c’è la politica dura, cinica, che obbedisce alle regole pure dell’interesse e della convenienza. Dentro questo libro, ho visto come la testimonianza trova anche, per amore, gli strumenti più intrepidi per rendersi operativa, per rendere operativo questo amore, per renderlo efficace. Questa è secondo me la cifra di queste storie, che sono anche piacevoli da leggere come storie ma non hanno un lieto fine, perché c’è una lotta continua, una battaglia che dura, la battaglia della vita che non è semplicemente quella delle persone con disabilità ma della persona. C’é una frase bellissima del libro: “Tutto è fatto affinché si possa acquisire la consapevolezza che un figlio con disabilità non è una persona con limitate possibilità di essere felice”. Così, una società che ha una percentuale variabile, si dice, dal 3 al 6% - le persone con disabilità forti arriveranno al 10% tra qualche decennio, perché cresce l’età media e con essa le persone anziane che portano disabilità cospicue - non sarà un carico che rende più difficile essere felici ma sarà il modo concreto in cui la nostra società può tendere, con il concorso di tutti, a una maggiore umanità, a una maggiore pienezza. Adesso dirò qualcosa per far riposare un attimo Mario. Perché dovete sapere che lui è di una generosità infinita, incontra veramente tutti e tanti hanno bisogno di lui, anche perché esiste una comunicazione che chiude la comunicazione verbale ed è la comunicazione di una presenza: e la sua presenza trasmette una positività che non è più forte della malattia ma che è dentro, passa attraverso la malattia. E’ una cosa misteriosa, non nel senso che ha qualcosa di enigmatico e di oscuro, ma misteriosa perché appartiene a quelle cose di cui si fa esperienza ma di cui non riusciamo a trovare la definizione, come diceva ieri nella relazione sul tema del Meeting il nostro amico irlandese, quando parlava di Agostino, che diceva che il tempo, più lo descrivi a parole meno lo afferri. Così, c’è questa presenza: noi possiamo descriverne le conseguenze operative, per il resto possiamo solo viverlo come esperienza, senza pretendere di renderlo prigioniero in parole. Io volevo fare un intervento su una cosa che ho appreso: tutti noi abbiamo sempre avuto l’idea (e c’è una parte di verità in questo) che i Paesi nordici siano più avanzati di quelli meridionali nella civiltà riguardo alle persone con disabilità: tant’è vero che, mentre in Italia si vedono poche carrozzine in giro, se vai nei Paesi Scandinavi è molto più facile trovarne, tutto vero. Nello stesso tempo, però, ho fatto una scoperta che non è solo mia: l’ho fatta in quanto appartenente, fino a un paio di mesi fa, del Consiglio d’Europa. Nell’ultima seduta del Consiglio d’Europa è stato presentato un rapporto sorprendente, fatto per tutelare i diritti delle persone e soprattutto per impedire a degli Stati l’abominio della castrazione e della sterilizzazione, sia forzata che incentivata. Io pensavo: “Vabbè, è una cosa che si fa in Cina, in India, non nei Paesi europei”. Poi si scopre che in realtà questi progetti sono finanziati da Paesi europei. Adesso non è sto a raccontarvi la rava e la fava, vengo a un punto: ho appreso con sommo sconcerto che fino al 1997, in Svezia e in altri Paesi scandinavi, si sono praticate centinaia di castrazioni e sterilizzazioni di persone povere e handicappate, obbligate per legge a questo oppure incentivate. In che modo? Dicendo: “Se sei molto povero, ti diamo una mano a patto che accetti di sterilizzarti. Liberissimo di non accettare, però ti togliamo dai servizi sociali”. L’altra cosa che ho appreso è che tutto questo non è stato fatto per un progetto di tipo hitleriano. Noi siamo abituati all’idea che i progetti eugenetici sono di matrice nazista: adesso sono arrivati nella nostra società con la presunzione di diffondere il bene eliminando la sofferenza, però di solito l’archetipo è considerato nazista. Invece questo progetto nasce, come sempre, a fin di bene. E’ un progetto social-democratico: si riteneva che i carichi sociali delle persone povere, delle persone con handicap, potessero essere sopportati dalla società fino a un certo punto, come se tu avessi un camion con un asse che può portare fino a un certo carico: se lo carichi troppo, si sfonda e cade il camion. C’è sempre questa idea che la persona perfetta è la persona che non ha dolore, e compito della società è diventare sempre più perfetta affinché non ci sia il problema della sofferenza e della pena. Quando il carico è troppo forte, si elimina nella maniera dolce. Non è una balla, sono teorie economiche elaborate dai coniugi Karl Gunnar e Arva Myrdal: lui è docente di Economia Politica e Finanziaria all’università di Stoccolma, senatore del Partito Democratico, Ministro dell’Industria e del Lavoro dal ’45 al ’47, Segretario esecutivo della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, è stato in carica per un decennio. Allora, questi due hanno elaborato la modernità ideologica e hanno avuto il premio Nobel. Nessuno dice di toglierglielo, non viene posto un dubbio su questo: ma l’idea è il contrario fisico di quello che ci è testimoniato da questo libro, dove il centro non è lo Stato che deve funzionare ma la persona che ha bisogno, che chiama l’altro e che desidera la felicità. Questo è la rivoluzione culturale, che diventa anche un’altra idea di welfare: si passa dal sostegno all’offerta, cioè dal finanziamento di strutture che aiutano le persone, al sostegno diretto alla domanda. E’ la famiglia che può disporre di un buono, di una dote da spendere nel modo migliore possibile, per il bene suo e dei suoi membri, senza il paternalismo di chi sceglie per te. E a questo punto, nel libro, si propone l’altro concetto, quello di rete. Tra l’altro, la cosa che ho detto della sterilizzazione mi ha colpito e mi è tornata in mente leggendo questa testimonianza che è nel libro: al Nemo, dove lui è Direttore Sanitario, Rovena, una donna malata di distrofia muscolare, ha partorito Matilda, e c’era un fiocco rosa. Ecco, questa persona, nella società perfetta elaborata dai chimici dall’ideologia modernista, sarebbe dovuta essere sterilizzata. MARIO MELAZZINI: Proprio come dicevi, è il frutto di un’ideologia e le ideologie, non sempre ma spesso, sono frutto della non volontà di conoscere, o meglio, come dico sempre, della presunzione di saper conoscere per cui ciò che vado a identificare è sicuramente la cosa più giusta. Il fatto che una persona con una malattia neuromuscolare possa andare incontro a una gravidanza - ne abbiamo di esempi che potrei raccontare, che vanno incontro a una cosa meravigliosa, che è appunto diventare mamme, diventare padri, ecc. - colpisce quella società che ti dice che la persona con disabilità è un costo e non è una risorsa. Quindi, tutto ciò che va a incidere e a implementare il costo non deve essere fatto. Ma queste idee sono dettate, secondo il mio modestissimo parere, da due punti. Il primo punto è dettato dalla angoscia e dal disagio che crea il pensiero di come può essere la vita di quella persona. Effettivamente, con tutto il rispetto, io ero uno di quelli che diceva che “assolutamente, quell’atteggiamento non va, quelle persone sono importanti, ecc”.. Ma, ma nel momento in cui mi viene detto: “Guarda che sarai così e andrai verso quella cosa”, anch’io ho reagito così: “Cosa stiamo dicendo? Che razza di vita è questa?”. Ecco quella presunzione e arroganza del pensare di capire e di identificare come del tutto negativo un percorso. Invece, cosa c’è di più meraviglioso, indipendentemente dalla condizione, del potere arrivare a essere mamma o a essere padre? Ma nello stesso tempo (è qui che emerge il concetto!), io posso essere mamma o posso essere padre se ho tutti quei facilitatori che mi permettono di non essere in un contesto ambientale sfavorevole, di essere invece una persona perfettamente libera di scegliere. RENATO FARINA: Questo fa stare bene tutti, no? Fa stare bene e, creando le condizioni per Rovena, è un aiuto alle condizioni di tutti. Nel libro c’è un esempio: grazie alle pressioni delle varie associazioni, su molti autobus di Milano adesso c’è il pianale che scende rasente al marciapiede. Magari non è utilizzato da quelli che vanno con la carrozzina ma dagli anziani che, altrimenti, farebbero una fatica sovrumana e spesso cadono o rischiano di cadere, oppure non lo prendono perché sanno che è un problema e si vergognano a salire sull’autobus. MARIO MELAZZINI: E’ questo il concetto, purtroppo si deve finire di ipotizzare che esistano dei cluster di persone, quello così, quello cosà. Dobbiamo però evitare che alcuni dei nostri politici, dei nostri colleghi, anche con ruoli istituzionali, sentenzino che un Paese con quasi 3 milioni di persone disabili e di invalidi non può considerarsi produttivo. Questo è dettato semplicemente dalla non conoscenza, perché noi abbiamo tutto il problema dell’inserimento lavorativo, perché noi abbiamo una legge, la 68, per cui i nostri imprenditori, e lo vivo quotidianamente, preferiscono pagare sanzioni piuttosto che inserire la persona con disabilità: lo vedono come un problema. Invece, conoscendo, cambia: io ho girato tantissimo, ho avuto questa bellissima fortuna di incontrare imprese e imprenditori incredibili, ma anche persone inserite all’interno di cicli produttivi di vario tipo. RENATO FARINA: Qui si racconta ad esempio di alcune persone con disabilità forti, anche mentali, che sono diventate personalità importanti dell’Hilton di Milano, un hotel di lusso, che richiede una qualificazione assoluta. MARIO MELAZZINI: Il grosso problema, vedete, è che spesso noi la nostra società non si rende contro che alcune persone di un’incredibile forza, sia dal punto di vista comunicativo sia di potenzialità contrattuale, sono persone con disabilità. Messi? Lo sappiamo, aveva un grosso problema, ha un grosso problema, Messi ha una gamba più corta dell’altra, però vedete cosa fa Messi, una volta messo nelle condizioni giuste? Oppure Nash, premio Nobel per l’economia, era una persona con disabilità. Beethoven: adesso non vi farò l’elenco, però si tende sempre a parlare di persone eccezionali. E invece no, è la normalità, perché se voi conosceste persone con disabilità, le loro famiglie, vedreste che sono persone normali, sono famiglie incredibili: basta guardarle negli occhi per vedere quanto ti trasmettono, la loro voglia, la loro determinazione. Certo, a volte c’è rabbia, perché si vedono negati quelli che sono i loro diritti, ma non confondiamo i diritti con i bisogni, che a volte possono anche coincidere ma sono due cose diverse. Ecco, questa è un po’ l’avventura. Il libro contiene anche alcuni accenni al Piano d’Azione Regionale ma non è solo un libro tecnico. Vuole essere soprattutto un messaggio, un forte messaggio per tutti: dice che le persone con disabilità e le loro famiglie sono delle risorse, perché poi dobbiamo ragionare in un contesto dove, se non ci fossero le famiglie, veramente sarebbe tutto molto difficile. Le persone che vivono con la disabilità sono per le famiglie il catalizzatore dell’energia, e l’energia portante è la famiglia: ma se non ci fosse la famiglia sarebbe veramente un dramma. A questo dobbiamo pensare: quando non c’è più la famiglia, quando non ci sarà più la famiglia, per esempio in determinate situazioni di persone con disabilità: il dopo di noi è molto importante, perché non possiamo pensare solo a ospedalizzare queste persone. E’ un discorso che bisogna fare, dobbiamo avere il coraggio di affrontarlo e la politica deve giocare un ruolo fondamentale, perché deve trovare delle soluzioni ma soprattutto avere quel coraggio che io definisco essere veramente liberi, liberi di essere e liberi di scegliere. Nella brochure che abbiamo fatto per presentare il Piano d’Azione, abbiamo scritto “Liberi di essere” perché ognuno di noi, chiunque di noi, nel proprio percorso di vita, può essere protagonista della propria ripresa: tutto dev’essere visto come un’opportunità di cambiamento, di valorizzarsi e di valorizzare. Ecco, questo è il nostro libro e io veramente ringrazio tutte le persone che mi hanno aiutato, ringrazio la casa editrice Sanpaolo che è sempre molto attenta alle mie provocazioni, ringrazio per la distribuzione, perché veramente sono libri semplici ma che contengono messaggi molto forti, che vorrei potessero diventare strumenti per la nostra quotidianità. Poi ringrazio ancora Renato. RENATO FARINA: Ecco, ci sono i nomi di alcune persone che hanno contribuito fortemente alla realizzazione di questo libro. Intanto Emma mi ha girato un messaggio che è arrivato da uno dei protagonisti di questo libro, Alberto Fontana, che insieme a Mario è uno dei propulsori: “Confidavo di essere presente oggi al Meeting per sentire Mario alla presentazione del libro, ma purtroppo non posso. Delego a questo messaggio il mio saluto e la speranza di rivedervi tutti presto, Alberto Fontana”. Poi ci sono, tra i protagonisti, Nicola Sanese, Roberto Albonetti, Alessandra Cappi, Daniele Capone, Alberto Fontana, Davide de Santis e Ilaria Bassani. Ce ne sono tanti altri qui. MARIO MELAZZINI: Ultima cosa se mi permetti, poi taccio. La cosa più importante è il ringraziamento che va a tutti i testimoni, perché le persone che abbiamo citato sono coloro che hanno permesso di realizzare tutto questo percorso e che continueranno a contribuire per fare sì che tutto vada avanti. Ma io voglio ringraziare soprattutto tutti i testimoni, tutte le persone che abbiamo udite, tutte le persone che, con la loro esperienza - e sono state centinaia - hanno favorito un lavoro incredibile, quelli che non sono soltanto in Lombardia ma in tutta Italia. E la cosa più forte che voglio dire è questa. Ho nominato Alberto Fontana, che io considero un fratello giovane: è la persona che mi ha fatto capire, quando l’ho incontrato, che non avevo capito niente. Quindi, per me è stato un maestro, pur essendo più giovane, in questo percorso che io stavo affrontando con la malattia, questa malattia che mi porta ad essere persona con disabilità. L’ultima cosa è che tutto ciò nasce dallo sguardo: veramente lo sguardo è stato fondamentale tutte le volte che abbiamo incontrato queste persone, lo sguardo di tutti i nostri dirigenti, di tutti i nostri funzionari in Regione Lombardia, persone coinvolte dal lavoro, che sentivano questo senso di appartenenza all’istituzione e soprattutto queste grossa voglia di operare per il bene comune. E’ stata, questa, la grandissima sorpresa che ho avuto: un gruppo di persone che, quotidianamente e costantemente, continuano a dare risposte. La questione dello sguardo ci dà quell’apertura e quella speranza di cui parla anche il nostro Santo Padre. Noi l’abbiamo tradotto così: bisogna avere il coraggio di osare, di andare controcorrente. Per questo ringrazio veramente tutte quelle persone che ci hanno permesso di fare e di continuare a farlo. Grazie.