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Tra falso e mito, Michael Gaismair ei suoi presunti Statuti

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Tra falso e mito, Michael Gaismair ei suoi presunti Statuti
Tra falso e mito,
Michael Gaismair
e i suoi presunti Statuti
215
di Giorgio Politi
CINQUECENTO
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Tra falso e mito,
Michael Gaismair
e i suoi presunti Statuti
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e si facesse un’apposita indagine si scoprirebbe, credo, che il termine “falso”
viene ricollegato dal senso comune storiografico ai secoli “bui” dell’età di mezzo. Una simile impressione sarebbe però sbagliata; la presenza del falso documentario percorre trasversalmente tutte le epoche della storia e tende, casomai, ad
accentuarsi man mano che si moltiplicano le occasioni del falso stesso, cioè man
mano che cresce il ruolo della comunicazione sociale: è proprio l’epoca in cui viviamo, quindi, a risultare particolarmente esposta ai rischi della falsificazione — come
chiunque può verificare in prima persona ripensando agli avvenimenti di questi ultimi
tempi.
Quando, del resto, alcuni anni or sono, decisi di dedicare un corso al problema del
falso in età moderna, reperire materiale non mi costò alcuna fatica. Ma la sorpresa più
grande fu constatare che la comparsa e l’efficacia del falso prescindono dall’esistenza
d’un falsario; per quanto infatti i falsari siano bravi (e spesso lo sono) il loro ruolo
rimane meramente tecnico, si limita cioè a materializzare credenze, desideri, timori
già esistenti e dotati di vita autonoma. I veri falsari, insomma, siamo noi, che con un
atto di volontà decidiamo di credere qualcosa che ci viene proposto o addirittura di
crearlo, quando nessuno lo proponga: da questo punto di vista la genesi del falso è
prossima a quella del mito e con questa s’intreccia.
Ho voluto premettere queste considerazioni allo scopo d’inquadrare meglio il problema costituito dai cosiddetti Statuti rivoluzionari tirolesi per molto tempo (anche se non
da sempre, né da tutti) attribuiti al celebre capo dei contadini Michael Gaismair, cui
ho dedicato oltre dodici anni di ricerche. Questo mio interesse si ricollegava a un’indagine molto più ampia, riguardante le origini e i caratteri degli stati territoriali sorti
nel basso medioevo europeo, con particolare riguardo all’Italia centro-settentrionale,
alla Penisola iberica e all’Impero tedesco. L’analisi dei conflitti che quasi ovunque
hanno accompagnato la nascita di questo tipo di stato, ma soprattutto l’esame delle
due maggiori rivoluzioni europee protomoderne, la guerra delle comunidades di Castiglia nel 1520-21 e il cosiddetto Bauernkrieg nel 1525-26, mi aveva convinto che il
concetto di “rivoluzione dell’uomo comune”, proposto da P. Blickle in riferimento
alla seconda, e la tesi d’un confronto, verificatosi agli inizi dell’età moderna appunto,
fra un modello proto-assolutista di stato e uno federale-corporativo, dovevano essere
generalizzati; e che proprio la cosiddetta Landesordnung poteva essere assunta a manifesto esemplare d’un tale tipo di stato alternativo, “democratico” quanto poteva esserlo
una formazione istituzionale al cadere del medioevo.
Alcune cose, però, non mi risultavano chiare, soprattutto rispetto al problema della
tradizione del testo, di come cioè questi presunti statuti erano pervenuti fino a noi e di qual
fosse il loro esatto tenore. Com’è noto, il documento ci è giunto in tre diverse redazioni
manoscritte, una delle quali conservata nello Haus-, Hof- und Staatsarchiv di Vienna, l’altra
nell’Archivio diocesano di Bressanone e la terza nell’Archivio di stato di Bolzano. L’ultimo di
questi testimoni risulta smarrito a partire dalla seconda guerra mondiale; nessuno ha più potuto utilizzarlo dopo che A. Hollaender, il quale l’aveva ritenuto “la versione più antica, contemporanea” del documento, vi ebbe “fondato” una famosa edizione del documento stesso, comparsa nello “Schlern” del 1932. Gli altri due testimoni, però, esistono ancora: ogni riesame del
problema della tradizione del testo doveva dunque partire di qui. Quale fra questi due testimoni era il più antico? Quali rapporti intercorrevano fra loro?
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CINQUECENTO
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215. Al crepuscolo uomini a
pesca di gamberi, Tiroler
Fischereibuch, XVI sec.
216. Testimone di Vienna.
Filigrana verticale su tre filoni
raffigurante un bucefalo a
corna convergenti con orecchie, occhi discosti e marchio
triangolare in fronte sormontato da un biscione a due
spire avvolto attorno ad una
croce (scala 1:1).
217. Testimone di
Bressanone. Filigrana verticale su due filoni raffigurante
un’aquila bicipite con occhi,
lingue, sette penne per
ciascun’ala, coda a tre penne
e rostri di quattro dita ciascuno, recante sul petto la
lettera K (scala 1:1).
La risposta a questi quesiti doveva essere trovata in base a
elementi il più possibile obiettivi e non a mere valutazioni
personali, come troppo spesso la storiografia precedente
aveva fatto. Pensai quindi di
ricorrere a un esame assai
semplice, ma a cui nessuno
aveva ancor pensato, quello
delle filigrane, e il risultato fu
perentorio: il testimone
viennese risaliva agli anni
1525-29, era cioè contemporaneo alla rivoluzione tirolese,
(cfr. fig. 216) mentre quello
brissinense era stato eseguito,
senza possibilità di dubbio,
negli ultimi anni del Cinquecento (cfr. fig. 217); queste
conclusioni erano compatibili
anche con i dati paleografici,
cioè con l’analisi della scrittura dei documenti.
Ora, non sappiamo se il testimone viennese rappresenti un
originale; quello brissinense
invece, se non altro per motivi di cronologia, può essere
solo una copia. E poiché è impossibile copiare un testo
qualsiasi di ragionevole lunghezza senza commettere errori, un esame attento di quelli riconoscibili nel testo brissinense
dimostra ch’esso è una copia proprio del testimone viennese. Non solo: alcuni di questi errori
risultano condizionati dallo Zeitgeist, derivano cioè dalla distanza temporale interpostasi fra
l’amanuense tardo-cinquecentesco e il Tirolo degli inizi del XVI secolo. L’esempio più chiaro
in proposito è la totale incomprensione del copista brissinense verso il mondo delle miniere,
un ramo economico che, quando egli scriveva, aveva abbandonato da anni le valli tirolesi.
Veniamo ora al testimone di Bolzano. L’opinione generalmente accettata, ch’esso sia perduto,
non corrisponde del tutto alla realtà, poiché di esso sono perduti i soli caratteri cosiddetti
estrinseci (carta, inchiostro, scrittura), non già quelli intrinseci, e cioè il testo; un secolo prima
dell’edizione Hollaender, infatti, il testimone di Bolzano era stato copiato in una raccolta
manoscritta oggi alla biblioteca Dipauliana del Ferdinandeum di Innsbruck; questa medesima
copia uscì poi a stampa nell’appendice documentaria della Geschichte der Regierung Ferdinand des
Ersten di F. B. von Bucholtz, pubblicata a Vienna nel 1838.
Se dunque ci mancano sia le filigrane che la scrittura del testimone di Bolzano, possiamo
sempre giovarci della filologia e constatare come il copista compia gli stessi errori di quello
brissinense, errori cioè storicamente condizionati: ad esempio, egli non è più in grado di cogliere la pregnanza ideologica dell’aggettivo gemein, una vera e propria bandiera della rivoluzione del 1525, e scambia il gemaines lands notdurft, cioè i bisogni del Paese comune, del nuovo
Stato che ha abolito i ceti privilegiati di nobiltà e clero, con il gemainer landsnottdurft, cioè con i
bisogni ordinari del Paese. È chiaro dunque che anche il testimone di Bolzano è una copia,
eseguita nella medesima temperie politico-religiosa di quella del testimone brissinense, cioè
alla fine del Cinquecento.
Ma non basta. Allegata al testimone di Vienna troviamo ancor oggi un’annotazione autografa
di A. Hollaender, datata 8 ottobre 1932, ov’egli fornisce un’informazione decisiva, non riportata poi nel suo famoso saggio sullo “Schlern”, in base a cui nel documento sarebbero stati
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“interpolati due nuovi articoli, non presenti nella copia bolzanese: Man soll ain wag, ain ellen und
ainerlay satzung in ganzen lannd haben; man soll die confinen und päß in gueter verwarung haben”.
Perché quest’informazione è così importante? Uno degli errori più frequenti nelle copie è
quello che i filologi chiamano salto da omeoteleuto e che nasce dalla volontà inconscia
dell’amanuense di abbreviare un lavoro poco gratificante: il copista salta da una parola a una
parola uguale posta più oltre nel testo, eliminando tutto ciò che si trova fra le due.
Questo è precisamente il nostro caso. In questa parte del testo, infatti, la cosiddetta Landesordnung
consta d’una serie di brevi frasi che iniziano tutte con Man soll; ed è evidente che il copista ha
saltato le due frasi citate da Hollaender, comprese fra Man soll hinfuran nur ain markht e Man soll
ain taphere suma. Ma ciò significa che non è il testimone di Vienna a costituire una copia di
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quello di Bolzano, come credeva Hollaender, ma esattamente il contrario. Questa conclusione
è confermata da un altro errore: nell’articolo dedicato all’agricoltura, dove si dice che man
möchte auch an vill orten ölpaumb setzen, l’amanuense di Vienna ha omesso la lettera “u”,
sovrascrivendo però il segno diacritico (un mezzo arco) usuale nella scrittura gotica per distinguere la “u” da altre lettere graficamente simili, quali la “m”, la “n”, le “i”, ecc., sì che di fatto
si legge, nel luogo in esame, “ölpamb” ; bene, il copista bolzanese scrive proprio ölpam.
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Da tutto ciò possiamo trarre alcune prime conclusioni. Innanzitutto, l’attuale dispersione di
diversi esemplari della cosiddetta Landesordnung in tre archivi diversi non ha nulla che fare né
con la sua origine, né con un’ipotetica diffusione della stessa durante la rivoluzione del 152526, ma rappresenta una mera conseguenza della dispersione dell’archivio del Principato vescovile
di Bressanone, ove tutti e tre i testimoni erano custoditi, in seguito alla soppressione del
Principato stesso nel 1803; secondo, non esistono affatto tre diverse versioni del testo, ma
solo una, nata durante la rivoluzione tirolese — il testimone di Vienna — e due copie di
questa, eseguite quasi settant’anni più tardi nella cancelleria principesco-vescovile, probabilmente a opera della stessa persona.
Non è difficile comprendere perché queste due copie fossero eseguite proprio allora. Dopo
che i contadini erano rimasti tranquilli per tutto il Cinquecento, una nuova rivolta era scoppiata in Alta Austria fra il 1594 e il 1597; già nel 1592 v’erano state agitazioni in Allgäu e nel 1605
le autorità d’Innsbruck paventeranno che nuovi torbidi, ancora in Allgäu, possano contagiare
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218. 219. Il testo del testimone di Vienna della presunta
Landes Ordnung (particolari).
il confinante Tirolo. Fu proprio questo riaccendersi di conflittualità a rendere di nuovo attuale
la vecchia carta del 1525.
Questo documento però — il testimone di Vienna — è, come si dice tecnicamente, adespota,
cioè anonimo, non reca alcuna indicazione d’autore: non possediamo neppure l’ombra d’una
prova capace di riferirlo a Gaismair. Il collegamento fra esso e la figura del famoso capo
“contadino” è stato fatto in realtà dagli esecutori (o dall’esecutore) delle due copie di fine
Cinquecento: sono stati loro (lui) ad aggiungere al testo un preambolo e una conclusione che
lo attribuiscono appunto al segretario brissinense divenuto, in un Tirolo oramai del tutto
asburgico-controriformista, la figura negativa per eccellenza, il traditore eretico della Patria
cui addebitare ogni possibile male. Del resto, il controllo su tutte le fonti originali dei dati
biografici di cui disponiamo attorno a Gaismair nel periodo fra la sua fuga da Innsbruck e la
sua morte a Padova nel 1532, cui ho proceduto, ha dato esito negativo: nessuno fra i contemporanei ha mai attribuito a Gaismair qualcosa che possa anche lontanamente essere identificato con il testo di Vienna. Risulta confermato quindi che questo testo è stato collegato a Gaismair
quasi settant’anni dopo la sua morte non in base a dati di fatto, ma a una leggenda.
Fino ad oggi la cosiddetta Landesordnung è sempre stata letta nella convinzione che fosse stata
scritta da Gaismair come programma o manifesto d’una progettata incursione nella Contea
tirolese durante la primavera del 1526. Ma ora, che nulla può più esser dato per scontato,
occorre esaminare il testo senza sottacerne contraddizioni, stranezze, ogni possibile traccia
alternativa. Ora che abbiamo risolto il problema della tradizione, infatti, disponiamo sì d’un
testo sicuro, ma molto abbiamo anche perduto: non sappiamo chi lo abbia redatto, né come, né
perché.
Questo scritto è stato davvero concepito come una sorta di statuto provinciale? Si possono
avanzare molte riserve in merito. Gl’ignoti destinatari dell’appello iniziale avrebbero dovuto
giurare infatti che avrebbero cercato di dar vita a una legge interamente cristiana; poco più oltre si
prevede, d’altra parte, d’instaurare unità di misura unitarie e un’unica legge in tutto il Paese. Perché
mai, però, un testo che di per se stesso avrebbe dovuto costituire uno statuto provinciale
prescrive la compilazione d’uno statuto provinciale?
Questo scritto è stato davvero concepito come un testo legislativo o prescrittivo? La cosa è
dubbia. L’amanuense di Bressanone ha compiuto un errore, al proposito, assai significativo,
male interpretando i “capitani di quartiere” (viertlhauptleut) che, in base al testimone di Vienna,
avrebbero dovuto esser messi a capo di tutto il Paese, e ha letto: “Bisogna che noi capitani siamo
posti a capo di tutto il Paese” (So soll wier hauptleith uber das gantz land gesetzt werden). Poiché
l’antigrafo inizia con un’allocuzione (“Primo, prometterete e giurerete in questi termini …”) e,
poco più oltre, si ritrova ancora un articolo in forma soggettiva (“Riguardo alle dogane mi
parrebbe bene che …”), il copista brissinense, che ha attribuito il testo al capitano Gaismair,
trasforma i viertlhauptleut, per lui incomprensibili, in wier hauptleith, mostrando d’intendere l’intero scritto come il testo d’un discorso che il capitano Gaismair, appunto, rivolgerebbe agli
altri capitani, i quali invaderanno con lui la Contea tirolese. La Landesordnung diventa così una
sorta d’oratio ficta — un lettura, peraltro, che l’antigrafo viennese non impone, ma neppure
esclude.
In tal modo la presunta Landesordnung, strappata a ogni contesto archivistico e senza nessuna
sicura paternità, diventa un vero e proprio libro dai sette sigilli. Costituisce essa un testo
unitariamente concepito o si tratta solo d’un elenco di proposizioni prive di congruenza, o
magari di capi d’accusa stesi da un giudice o da un controversista per proprio uso personale?
Certo, questo presunto manifesto è pieno di stranezze, difficoltà e contraddizioni: la lingua
dell’articolo dedicato alle miniere è molto più popolare e discorsiva di quella del resto del
documento; l’articolo sulle saline (Pfannhaus) appare un corpo estraneo; da un lato si punta a
istituire un’amministrazione meno costosa e dall’altro si prevedono almeno undici fonti d’entrata, il che è assurdo; e così via.
È peraltro possibile fissare alcuni punti fermi. In particolare, appare chiaro come i motivi che,
durante il secolo appena trascorso, hanno scatenato così accesi dibattiti in merito a questo
documento siano del tutto infondati: esso infatti non contiene nulla che possa richiamare le
moderne teorie socialiste o comuniste.
Non rappresenta alcuna anticipazione del comunismo il celebre articolo dedicato alle miniere.
“Statalizzare” o “socializzare” le miniere infatti — questo hanno visto nel testo autori quali
Franz, Macek, Blickle o Bücking — non era necessario, in quanto esse facevano già parte del
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demanio dello Stato, ovvero del principe, il
quale poteva certo impegnarle a compagnie private, ma non alienarle. Questa circostanza è
menzionata del resto dallo stesso articolo in
esame, là ove afferma che la nobiltà e le odiate
compagnie commerciali concessionarie “si
sono arricchite ai danni del patrimonio del Principe” (in fürstliche vermugen gereicht); le misure
politiche qui previste, quindi, non costituiscono una statalizzazione nel senso del comunismo moderno, bensì un riscatto, forzoso e senza indennizzo, di regalìe — una misura rivoluzionaria, certo, ma nel senso del secolo XVI.
Il secondo pilastro di ogni interpretazione della cosiddetta Landesordnung in chiave proto-socialista è poi costituito dall’articolo dedicato al
commercio, ove sono previste, in sostanza, tre
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misure: il trasferimento a Trento di tutte le attività artigianali, essenzialmente tessili; la vendita obbligata di tutte le merci (a quanto sembra di capire) d’importazione in certi spacci da
istituirsi nel Paese; la nomina d’un pubblico officiale incaricato di sovrintendere all’esecuzione
di tali provvedimenti.
Gli storici hanno ritenuto fino a poco tempo fa che questo articolo prescrivesse una
statalizzazione integrale di manifattura e commercio, proibendo ogni esercizio di tali attività
da parte di privati; nel testo però non si trova niente del genere, al contrario: se questo fosse il
caso, infatti, su chi mai avrebbe dovuto vigilare l’officiale pubblico ivi previsto? L’equivoco è
nato probabilmente dalla parola d’ordine del giusto prezzo, che il documento indica come il
proprio obiettivo di fondo e che gli storici hanno fatto coincidere con il puro prezzo di costo
delle merci, a esclusione di quello che noi consideriamo il profitto. Ma in tutto l’antico regime
il giusto guadagno del commerciante o dell’artigiano veniva compreso fra i costi e non era affatto
considerato un profitto; determinare e far rispettare questo giusto guadagno era l’obiettivo di
fondo degli innumerevoli calmieri che in tutte le città europee si sono fatti per secoli — e, in
effetti, nient’altro che un calmiere è quanto viene prescritto dal nostro articolo.
Anche la concentrazione di tutti gli esercenti di un determinato ramo mercantile o artigianale
in un unico posto, facilmente controllabile, rappresentava una misura comune nelle città europee medievali e moderne; spesso, del resto, esisteva uno stretto rapporto fra tale concentrazione e l’imposizione d’un calmiere. Talvolta la determinazione dei prezzi per legge non rappresentava un’opzione, ma una vera e propria necessità: il consumatore infatti non aveva di
fronte soggetti economici isolati in concorrenza fra loro, ma controparti organizzate in corporazioni che operavano in regime di monopolio ed erano quindi anche in grado, al caso, di
attuare pratiche monopolistiche.
Anche i divieti d’esercitare in campagna sia l’artigianato che il commercio intermediario dei
tessuti compaiono spesso negli statuti cittadini come parte dei privilegi urbani, pur se poi, il
più delle volte, restavano lettera morta; tali misure infatti erano troppo anticontadine per
poter essere messe davvero in pratica. Quando, d’altra parte, il borgomastro di Zurigo Hans
Waldmann fece introdurre nel 1489 norme di questo genere dal Consiglio piccolo si ebbe, per
tutta risposta, la più grande rivolta contadina nella storia del Cantone.
Il nostro esame della cosiddetta Landesordnung si chiude così con una clamorosa sorpresa;
considerato a lungo un manifesto rivoluzionario contadino, essa rivela invece elementi
urbanocentrici talmente forti da far ritenere che nessuna persona ragionevole l’avrebbe mai
adottata per reclutar seguaci nelle campagne. Di Gaismair però, che ben sapeva quello che
faceva, risulta con assoluta certezza ch’ebbe sempre e solo un seguito contadino. L’analisi dei
contenuti sembra quindi confermare i risultati della ricerca formale e rendere sempre più
profondo il solco fra il celebre leader rivoluzionario e il testo che, per lungo tempo, gli è stato
attribuito.
Queste le principali linee argomentative esposte ne Gli statuti impossibili, l’opera con cui, nel
1995, ho “agitato tempestosamente le acque” (come ha scritto A. Stella) dell’oramai imponen-
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220. Combattimento fra
Carnevale e Quaresima,
Pieter Bruegel il Vecchio,
1559 (particolare).
te ricerca gaismairiana. A distanza di nove anni, e a bocce ormai ferme, credo valga la pena di
tentare un bilancio.
Nonostante l’interesse verso Gaismair e la “guerra contadina” in genere fosse visibilmente
calato già a partire dalla metà degli anni Ottanta, credo di poter dire che il libro ha colto i
propri obiettivi, raggiungendo — e in massima parte convincendo — sia il pubblico degli
addetti ai lavori che quello, ben più ampio, di tutti coloro i quali sono a vario titolo interessati
a questi argomenti; numerose sono state le università (Zurigo, Trento, Padova, Perugia) e le
istituzioni culturali (a Bellinzona, Innsbruck, Bressanone, Bolzano, Trieste, Torre Pellice) dove
ho potuto esporre le mie analisi; e molto numerose e approfondite sono state anche le recensioni. Al termine di questo ricco dibattito credo di poter dire che solo Aldo Stella, pur apprezzando e utilizzando il lavoro filologico da me speso nella restituzione del testo, non ha modificato le proprie posizioni e ha continuato a riasseverare l’autografia gaismairiana del documento, senza peraltro entrare nel merito neppure di una delle prove da me addotte;1 tutti i
recensori restanti (ad eccezione di G. Gullino che, prodigo di apprezzamenti, dichiara però la
propria incompetenza nel merito)2 si sono trovati concordi almeno su tre punti fondamentali:
che il testimone di Vienna da me edito è l’unico valido, che il testo non risale direttamente a
Gaismair ma è un assemblaggio di cancelleria, che i geniali precorrimenti del socialismo visti
in esso sono frutto di un’allucinazione storiografica.
Aldilà di questo comune denominatore, le posizioni variano poi dall’adesione entusiastica a
quanto da me sostenuto di G. Albertoni e del Südtiroler Illustrierte al consenso meditato e critico
di M. Meriggi. Un discorso a parte richiede D. Girgensohn, l’unico che si sia cimentato con i
dettagli della ricostruzione filologica; anche Girgensohn riconosce che il testo in nostro possesso rappresenta un prodotto di cancelleria verisimilmente realizzato attraverso la cucitura
d’informazioni provenienti da fonti diverse, ma tenta di sostenere che, comunque, tali informazioni rispecchierebbero, in misura peraltro non precisabile, il pensiero dell’esule di Sterzing
— questo è il senso esatto della degradazione di Gaismair da Verfasser a wahrscheinlicher Urheber
della presunta Landesordnung che figura nel titolo del suo saggio; peccato però ch’egli, per
sostenere questa tesi, sia costretto a evocare un misterioso testimone X, intermediario fra
Vienna e Bolzano-Bressanone, che esiste solo nei suoi auspici, visto che a favore dell’esistenza
d’esso Girgensohn non è in grado di addurre nessuna prova, tantomeno di carattere testuale.3
Ai miei generosi critici risponderò presto con tutta la dovizia di argomentazioni che questo
breve articolo non consente, ma senza illudermi troppo: i falsari — cioè noi — sono sempre
all’opera e i crocicchi del mito stanno ancora lì, pronti a sviare i passeggeri. Un saggio recentemente comparso attribuisce a Gaismair, all’insegna della più pura fantasia, addirittura un’opera
teatrale.4 E allora? Allora, come tu mi vuoi: non c’è prove contrarie che tengano, quando si
vuol credere!
Giorgio Politi
Note
1
Cfr. la recensione di Stella in “Rivista di storia della chiesa
in Italia”, a. XLIX, n. 2 (1995 lug.-dic.), pp. 533-538, nonché la più recente monografia Il “Bauernführer” Michael
Gaismair e l’utopia d’un repubblicanesimo popolare, Bologna 1999.
2
Cfr. “Studi veneziani” n. s., XXXVII (1999), pp. 330-331.
3
ALBERTONI G., Ricostruzione di un falso “L’Indice” 1 (gennaio 1996), pp. 40-41; Die Südtiroler Illustrierte, a. 16, n. 3 del
3.6.1995; MERIGGI M., Statuti rivoluzionari, “Storica” I, n. 3
(1995), pp. 116-124; GIRGENSOHN D., Die “Landesordnung”
von 1526 und ihr wahrscheinlicher Urheber Michael Gaismair,
“Geschichte und Region/Storia e regione” V (1996), pp.
40-41.
4
BADA F., I Fastnachtspiele tirolesi di Vigil Raber e la commedia
pavana di Ruzante. Esperienze teatrali a confronto, in PECORARI
P. (a cura di), Europa e America nella storia della civiltà. Studi in
onore di Aldo Stella, Treviso 2003, pp. 116-119.
GIORGIO POLITI è nato nel 1947 a Milano; dopo aver insegnato presso l’Accademia di belle arti e l’Università
degli studi si è trasferito nel 1980 presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia,
dove tiene attualmente, come professore straordinario, una delle due cattedre di Storia moderna. Le sue opere principali sono gli studi ora raccolti
nel volume La società cremonese
nella prima età spagnola, Milano,
Unicopli, 2002, l’inventario analitico
Antichi luoghi pii di Cremona, 2 voll.,
1979 e 1985 e, naturalmente, la monografia Gli statuti impossibili. La rivoluzione tirolese del 1525 e il “programma” di Michael Gaismair, Torino,
Einaudi, 1995. Ha fondato e dirige,
con R. C. Mueller, la collana “em-early
modern - Studi di storia europea
protomoderna”.
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Fonti iconografiche
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ArtBook, Dürer, Milano 1988: 148, 162, 163.
Das Ständebuch. 114 Holzschnitte von Jost Amman, Leipzig: 78, 66, 189, 190, 200, 201.
Die Flämische Landschaft 1520-1700, Catalogo della mostra,Vienna 2003: 1, 12, 149, 203.
Eroi Romantici. La storia Tirolese nei dipinti del XIX sec. da Koch a Defregger, catalogo della mostra, Tirolo 1996: 152.
Educare con la storia, Bolzano 1999 : 186 A-H.
Il Sogno di un principe, Mainardo II- La nascita del Tirolo, catalogo della mostra, Tirolo 1995: 129,
130, 132, 133.
The Mediewal Woman, calendario, New York 2000: 48, 144.
AMMAN G. (e altri), Ferdinand Runk raccolta delle più memorabili vedute del Tirolo, Tirolo 1999: 131.
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BLICKLE P., Die Revolution von 1525: 81.
BUZZATI D., Opera completa di Hieronymus Bosch, Milano 1966: 121,123, 151, 187.
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Merano 1998: 131, 141.
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85, 86, 87, 88, 91, 91a, 91b, 91c, 92, 92a, 94, 95, 99, 109, 111, 122, 125, 126, 127, 128, 135, 136, 137, 139, 143, 157,
164, 165, 167, 169, 171, 172, 173, 174, 176, 178, 179, 180, 181, 185, 191, 193, 194, 195, 196, 197.
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CINQUECENTO
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