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298 La Maestà di Simone Martini
n° 298 - febbraio 2001 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it La Maestà di Simone Martini A pochi mesi dalla posa della Maestà di Duccio di Buoninsegna sull’altar maggiore del Duomo di Siena, avvenuta nel 1311, il Comune decise di affidare l’esecuzione dell’affresco di analogo soggetto per il Palazzo Pubblico a Simone Martini, che lo condusse a termine nel 1315. Il dipinto murale occupa l’intera parete nord della più vasta e importante sala del palazzo, quella - detta anche ‘delle Balestre’ o ‘del Mappamondo’ - destinata alle assemblee del Consiglio Generale della città. La rappresentazione della Madonna in maestà, racchiusa da una cornice dipinta con eleganti motivi vegetali, sulla quale si dispongono venti tondi contenenti altrettante figure, è ambientata sotto un elegante baldacchino da parata sorretto da alcuni santi. La Vergine, alla quale la città si era votata nel 1260, in occasione della battaglia di Montaperti, è seduta sul trono, immaginata come una vera e propria “regina cortese”, attorniata dal suo celeste seguito di arcangeli, angeli e santi che le fanno ala da ambo i lati. L’iconografia della Maestà, che riscosse precocemente grande fortuna in terra senese, possiede sicure origini letterarie, legate allo straordinario incremento del Simone Martini: Maestà - Siena, Palazzo pubblico culto mariano dalla seconda metà del XIII secolo. Giacomino da Verona, in un passo del suo De Ierusalem Celesti, sembra suggerire già il tema del seguito di angeli e santi che fa corona alla Vergine in Paradiso: “dondo una enumerabil celeste compagnia / tutore la salua con ogna cortesia”. Varrà anche la pena di ricordare che, fra le compagnie di laudesi che si formano dopo la metà del Duecento, la prima a essere attestata, nel 1267, è proprio la congregazione mariana di Camporegio, che cantava quotidianamente le laude alla Vergine nella chiesa senese di San Domenico. Mediatori fra la corte celeste, di cui fan parte, e Siena, sono i quattro santi protetori della città, Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore, inginocchiati al cospetto della Vergine come nella tavola di Duccio. La loro veste di veri e propri interlocutori, quasi ambasciatori della città, era avvalorata dalle parole, un tempo inscritte su cartigli e oggi completamente perdute. Ansano, il primo da sinistra, è rappresentato secondo la tradizione come giovane cavaliere e Crescenzio, dall’altro lato, ne replica quasi le imberbi fattezze; Savino è abbigliato con i paramenti vescovili, mentre Vittore porta la consueta barba corta e scura. Nella stessa po- pag. 2 sizione due angeli ai lati del trono precedono i patroni e offrono alla Madonna rose e gigli, i fiori mariani per eccellenza, raccolti entro vasi dorati. Da sinistra, all’impiedi, Paolo con la sua spada, l’arcangelo Michele, Giovanni Evangelista con il libro nella destra e l’altra mano che sorregge l’asta del baldacchino. Al di là del trono rispondono loro simmetricamente Giovanni Battista, l’arcangelo Gabriele che reca il giglio dell’Annunciazione e Pietro, fornito di una vistosa chiave. L’ampia cornice, decorata con eleganti volute di cardi, ciascuna comprensiva di un piccolo tondo contenente la Balzana senese alternata allo stemma del capitano del popolo, ospita venti tondi con figure tagliate all’altezza del busto: gli evangelisti agli angoli, profeti nella parte superiore e alcuni dottori della Chiesa in quella inferiore, mentre, perfettamente centrati in linea con la Vergine, troviamo in alto il Salvatore benedicente e in basso la Personificazione dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ancor oggi non cessa di stupire l’intonazione affatto nuova della Maestà rispetto a quella, pressoché contemporanea, di Duccio, che, ovviamente, prescinde dalle differenze di tecnica, destinazione e, in parte, finalità, ma si concreta invece, negli aspetti che, per comodità, possiamo definire stilistici. Si avverte nella Maestà di Simone un Simone Martini: Maestà (part.) - Siena, Palazzo pubblico consapevole inoltrarsi del pittore all’interno di quella cultura gotica diffusasi attraverso la circolazione di miniature, oreficerie, piccoli dipinti e sculture d’oltralpe ma anche grazie alla testimonianza del ‘pittore oltremontano’ ad Assisi; cultura figurativa che già era stata fatta propria dai grandi orafi senesi, come Guccio di Mannaia e Tondino di Guerrino, aper- tamente dichiarata da Simone nel trono dorato e traforato. Alle influenze gotiche oltremontane recepite da Simone si aggiunge e si compenetra la meditazione sulle novità giottesche in tema di rappresentazione dello spazio, percepibile di primo acchito nel baldacchino, così bene articolato prospetticamente, e nella dislocazione delle figure at- pag. 3 torno al trono, che fingono di occupare uno spazio in profondità e hanno infranto il rigido ordine specularmente simmetrico mantenuto nella Maestà di Duccio. Il taglio cortese e profano della figurazione martiniana, e la particolare iconografia del dialogo della Vergine con i santi protettori della città, come fossero stati ricevuti in udienza, rispecchia gli intenti politici del governo committente, quello dei Nove, ulteriormente espressi nelle iscrizioni dell’affresco, a partire da quella sul cartiglio sorretto dal Bambino. Essa riporta l’incipit del Libro della Sapienza: “Diligite Iustitiam qui iudicatis terram”. Gli intenti di propaganda politica, e di esaltazione dei valori portanti del governo dei Nove, risultano chiaramente dichiarati dalle iscrizioni in volgare presenti nell’affresco, quella che corre sul gradino del trono: Li angelichi fiorecti, rose e gigli, / onde s’adorna lo celeste prato, / non mi dilettan più che i buon’ consigli. / Ma talor veggio chi per proprio stato / disprezza me e la mie tera inganna, / e quando parla peggio è più lodato. / Guardi ciascun cui questo dir conda[n]na. e quella, preceduta dalla didascalia “Responsio Virginis ad dicta santorum”, che si legge all’interno del bordo inferiore della cornice: Diletti miei, ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti. / Ma se i potenti a’ debil’ fien molesti, / gravando loro o con vergogne o danni, / le vostre orazion non sono per questi / Né per chiunque la mia terra inganni. In entrambi i casi è la Madonna a parlare, prima in risposta al gesto di offerta degli angeli che le porgono rose e gigli (“Gli angelichi fiorecti, rose e gigli”), poi dialogando con i quattro santi protettori della città, le cui preghiere e invocazioni (“i dicta santorum” della didascalia), riportate entro cartigli, sono andate perdute da lungo tempo. Gli ammonimenti di Maria si rivolgono in primo luogo ai governanti (ma anche ai cittadini tutti) e insistono sul concetto di giustizia enunciato nel cartiglio sorretto dal piccolo Gesù, rappresentando quasi un commento alle parole sapienziali. Si noterà come i termini siano oculatamente scelti per risuonare nell’aula del maggior consiglio del Comune: dal reiterato riferimento all’inganno nei confronti della città, perpetrato con “vergogne e danno” da coloro che “parlano peggio”, ai “buon’ consigli” che invece devono esser propri dei reggenti. marco pierini © 2000 Arti GraficheAmilcare Pizzi Spa Simone Martini: Maestà (part.) - Siena, Palazzo pubblico