Tutti conoscete il canto: “Quando busserò alla tua porta, avrò frutti
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Tutti conoscete il canto: “Quando busserò alla tua porta, avrò frutti
Como, 18 febbraio 2012 XI Assemblea diocesana: “La Caritas serve... se serve! - Gli Uffici di pastorale a confronto sulla carità” PASTORALE DELLE COLLABORAZIONI, RELAZIONI CARITATIVE E PEDAGOGIA DEI FATTI Intervento di don Italo Mazzoni, Vicario episcopale per la pastorale. Trascrizione dalla registrazione con titoli aggiunti dal relatore Tutti conoscete il canto: “Quando busserò alla tua porta, avrò frutti da portare, avrò ceste di dolore, avrò grappoli d’amore, o mio Signore”. Vorrei invitarvi a cantare questo canto e, in particolare, questa strofa, - perché quanto dice non può essere detto solo con le parole: ha bisogno della musica. (Dopo aver cantato con i partecipanti all’assemblea inizia la relazione). Avrò ceste di dolore, avrò grappoli d’amore Non vi sarà sfuggito, cantando, che le parole di questo canto ci rimandano a un cesto e a dei grappoli, simboli esplicitamente eucaristici, che hanno a che fare ovviamente con la carità. Né vi sfuggirà che questo singolare “io quando busserò” non è da applicare a noi come singole persone, ma è riferito alla Chiesa. Sta a dire: “quando busseremo, quando avremo fatto quel pezzo di strada che è la nostra vita, quando la vita come comunità sarà riconsegnata al Signore, che cosa avremo nelle mani?”. La risposta: questo beneficio, che è stata l’Eucaristia, è divenuta amore anche dentro l’esperienza del dolore. Collaborazioni nella pastorale e unità della persona Ho voluto pensare a questo canto, perché tante volte noi, nei momenti di preghiera, nell’ultimo saluto delle persone care abbiamo occasione di cantarlo, e comunque perché oggi ci è stato detto che il legame tra eucaristia, carità e comunità, è un legame fondamentale. Oggi abbiamo messo in luce, sotto lo sguardo di tutti, un lavoro molto impegnativo che da qualche tempo, come Uffici diocesani di pastorale abbiamo tentato di avviare: alcune forme più esplicite di collaborazione. Diciamo che quando si parla di Uffici, di Consiglio pastorale diocesano o di raduno dei vicari foranei, eccetera, c’è tutto un movimento di quella dimensione di Chiesa che è la Diocesi; così come abbiamo citato la dimensione di Chiesa che è la parrocchia. Queste due dimensioni di Chiesa sono l’unica Chiesa dentro la quale siamo, ma hanno delle caratteristiche diverse che hanno e delle concretizzazioni diverse. Don Augusto Bormolini, introducendoci alla giornata, ci ha ricordato l’importanza assoluta del collaborare nelle varie dimensioni della pastorale – la celebrazione, l’annuncio, la testimonianza – perché non possiamo pensare se non a un unico progetto. Dobbiamo concentrarci molto su questo. L’unità del progetto di Chiesa è dato da queste grandi dimensioni. Così come nell’ultima relazione che abbiamo ascoltato di don Vittorio Nozza, abbiamo percepito che l’unità della persona, che vive la cittadinanza, che ha degli affetti, che ha le sue fatiche della vita, il suo lavoro, le sue gioie, il divertimento, eccetera, l’unità della persona non può mai essere sacrificata. Il Signore ci incontra come persone, nell’insieme della nostra vita. E nella nostra vita ci sono la fede, la speranza, la carità; c’è il vissuto, c’è il passato, la nostra storia personale, la famiglia da cui veniamo; c’è un progetto da realizzare: siamo dentro il mistero grande della persona. Oggi la Chiesa fa memoria di una santa “piccola”, Bernadette Soubirous. Può essere definita “santa della carità”, perché la sua esperienza di fede è sfociata moltissimo nell’esperienza della carità. L’unico desiderio che espresse lasciando Lourdes è che ai poveri che arrivavano in quella terra fosse fatta ospitalità. Non è una cosa da poco. Perché la pastorale appare frammentata? Siamo dentro un lavoro difficile e impegnativo della vita della Chiesa che abbiamo indicato con varie espressioni: l’unità della pastorale, l’osmosi della pastorale, le collaborazioni tra i vari ambiti della pastorale. Credo sia doveroso per noi ripercorrere brevissimamente la strada che ci ha portati ad avere una pastorale che non si pone come pastorale unitaria. Se torniamo indietro di qualche decennio, agli anni ’60, per esempio, noi sappiamo che Uffici, chiamati di curia, e che facevano riferimento all’attività del Vescovo, erano pochissimi: in particolare tutto si concentrava sull’Ufficio amministrativo e su quello catechistico. Questi Uffici erano servivano soprattutto per i preti, perché trovassero un aiuto negli ambiti della pastorale dell’annuncio, della scuola e nell’amministrazione della parrocchia. Poi è avvenuta una trasformazione notevole della pastorale, con l’entrata di tante mamme nell’ambito della catechesi, con un nascere di varie attività che ha visto impegnati, anche al di fuori delle associazioni, molti laici nelle comunità; e pian piano si sono moltiplicate alcune attività di servizio a questi ministeri ecclesiali. Nasce, come abbiamo sentito, la Caritas, l’Ufficio liturgico, l’Ufficio missionario con tutta la sua attività organizzata; nasce l’esperienza delle vocazioni, strutturate in un centro vocazionale, l’esperienza della pastorale giovanile dopo i convegni diocesani, le pastorali della famiglia e del lavoro. Ad una ad una queste pastorali sono importanti. Non possiamo dire: “Peccato che ci siano”. Piuttosto dobbiamo dire: “Per fortuna che su questo albero della Chiesa sono cresciuti dei rami perché c’è un bisogno grande di una serie di attenzioni”. Si sono andate aggiungendo anche la pastorale del turismo, la pastorale del tempo libero, dello sport, la pastorale attenta all’arte, la pastorale della comunicazione… E diciamo che l’elenco potrebbe anche non finire perché le grandi attività che una comunità muove hanno bisogno di indirizzo, di attenzione, di prospettive, di progetti. Siamo dentro questa pastorale, che è divenuta molto differenziata e oggi più che mai sente il bisogno di trovare quel punto forte di raccordo, quel punto forte nel lavorare insieme che permetterà di non avere moltiplicazioni e sovrapposizioni di enti, di strutture pastorali, di iniziative che comunque riguardano la comunità in quanto tale e non una parte di essa. Tre livelli di collaborazione Nella pastorale ci sono dei punti di convergenza. Sono il territorio, più volte citato, a partire dalla costatazione che si lavora sullo “stesso” territorio; sono l’unica missione cui è chiamata la Chiesa, una missione unitaria; e sono nel concreto quel Piano pastorale intorno al quale andiamo a convergere. Per questo quando il Vescovo ci richiama sui punti essenziali, sulle scelte principali, sugli orientamenti, questi suoi indirizzi stanno a dire che ci sono alcuni ambiti sui quali oggi è necessario lavorare insieme. Così gli Uffici, da qualche tempo in modo specifico, si ritrovano per lavorare insieme, con un ritmo molto intenso, ogni quindici giorni, con meticolosità, con un certo lavoro di scambio, di confronto, qualche volta di critica reciproca, e via di questo passo. Però, lavorare insieme richiede metodo. Prima Roberto Bernasconi diacono ci ricordava che oggi, con tutti i giorni dell’anno che abbiamo, nella stessa mattina in concomitanza col nostro incontro si è celebrato anche il Convegno delle Acli. Sarebbe stato meglio - lo diciamo tutti - che non coincidessero per essere in qualche modo presenti sia qua sia là. Allora un primo livello di organizzazione quasi banale di collaborazione riguarda il calendario. Ma non il calendario che gli altri devono fare a partire dal mio! Il calendario difficile che in un vicariato, in una Diocesi, si tenta di comporre di volta in volta insieme. Questo punto sembra semplice, ma a volte anche in una parrocchia è difficile da realizzare e frequentemente ci sono delle sovrapposizioni. C’è un secondo livello di collaborazione, che potremmo definire “ il darsi una mano”. Oggi, ad esempio, la Caritas ha detto agli Uffici: “Datemi una mano, che sia una critica, che sia un suggerimento, che sia una condivisione, perché la Caritas possa venir fuori da questo nostro convenire con dei punti di maturazione”. Però anche questo non è sufficiente. Il metodo con il quale pian piano dobbiamo arrivare a lavorare è un altro: individuare delle attività o delle scelte sulle quali si converge prima nel prepararle, poi nel realizzarle. Per dire “sì”, saper dire “no” Quando questa mattina i giovani dicevano “Il progetto pastorale giovanile l’abbiamo fatto insieme” raccontavano un fatto veramente raro, perché a quel progetto hanno lavorato il Centro missionario, la Caritas, gli Uffici di pastorale del lavoro, della famiglia, il Centro vocazioni, la pastorale giovanile, la catechesi. Hanno lavorato per mesi. Ma questo progetto avrà bisogno di essere riletto insieme, perché anche progettare insieme una pastorale non è sufficiente se poi non la si mette in pratica insieme. Quindi stiamo parlando di un’avventura abbastanza difficile per la vita della Chiesa. Si tratta di sintonizzarci maggiormente intorno a delle scelte, per le quali bisognerà lasciarne da parte delle altre. Voi sapete che non si può dire nessun sì senza dire insieme anche un no (quando uno si sposa dice un sì ad una persona, ma contemporaneamente dei no ad altre che teoricamente o praticamente che poteva sposare). Tutti i “sì” ci richiedono dei “no”. Ma i sì sono facili. Sono i no ad essere difficili. Perché per dire sì a un progetto comune, voi intuite che ognuno di noi deve dire dei no a dei progetti più particolari. A questo non siamo di solito pronti. Quindi la difficoltà, la fatica della pastorale non è nella bontà o meno delle intenzioni. Quella ci sono. Oggi quante volte l’abbiamo detto? Ma sappiate che “questo dire” dura da decenni. Noi abbiamo bisogno di trovare un modo, un metodo, di ritrovarci come abbiamo fatto in questo giorno, in qualche altra occasione e di procedere di passo in passo insieme. Ce lo diamo come come vero e proprio proposito. Se è così, il Piano pastorale diventa come lo spartito di un’orchestra: si converge su quella musica, su quella canzone. Prima, perché abbiamo cantato insieme? Perché sapevamo le parole e sapevamo le note. Però c’è un altro aspetto: dobbiamo accordare gli strumenti. C’è una sensibilità di ogni persona che va messa in gioco, perché tu puoi suonare lo stesso spartito con un altro, ma se lo suoni in una tonalità di un tono più basso, la musica non funziona. Ecco allora una grande opera per la quale dobbiamo chiedere un dono particolare allo Spirito Santo come Spirito di comunione: che in ogni iniziativa si converga su Gesù unico riferimento, unico punto importante della nostra vita, per uscire da ogni incontro molto più affascinati da Lui, presi dal suo Vangelo e in qualche modo impegnati a realizzarlo. Evangelizzazione è fare le comunità Abbiamo detto tante cose questa mattina lasciando aperti anche un certo numero di problemi. Vorrei semplicemente dare dei titoli. Il nome di questo progetto di lavorare insieme è “evangelizzazione”. Per la Chiesa non è semplicemente dire il Vangelo, altrimenti utilizzeremmo la televisione - pagando anche il canone - e i vari mezzi di comunicazione che sarebbero più che efficienti per raccontare il Vangelo. “Evangelizzare” per noi cristiani significa “edificare delle comunità”. È un progetto preciso: si evangelizza costruendo delle comunità; poi aggiungiamo le qualità: aperte, accoglienti, generose. L’evangelizzazione non è mai solo un dire, né un testimoniare qualcosa come singoli; è costruire delle comunità che hanno nell’Eucaristia il loro cuore, il loro centro. Oggi sul palco è salita la Caritas, ma vi siete accorti che sul palco della giornata di fatto è salita la Chiesa diocesana che ben rappresentiamo con le provenienze geografiche delle nostre presenze. Una Chiesa lunga, quasi 300 chilometri, un Chiesa lunga nella storia, con i suoi millenni alle spalle e una Chiesa veramente bella e ricca la nostra. Non vorrei che le difficoltà ci facessero dimenticare quanta storia, quanta testimonianza, quante strutture, quanto amore hanno caratterizzato la nostra terra. Il Papa Giovanni Paolo II ce l’aveva detto venendo a Como: “Richi, richi, richissimi…”, un’espressione che ci deve restare nella mente e nella memoria, anche nel tono e nella pronuncia. “Ricchi” riguardava la cultura di questa terra, riguardava la vita ecclesiale. L’uso dei beni nella Chiesa Don Giusto Della Valle questa mattina ci ricordava che dentro questa ricchezza abbiamo dei beni inutilizzati. Io posso garantire che l’economo diocesano, che oggi non è presente, più di ogni altro su questo punto, sta davvero studiando come poter intervenire. Ovvio: il suo lavoro sta nel trovare delle vie tecniche e giuridiche per risolvere alcuni problemi. Ne cito alcuni. Le parrocchie più piccole che abbiano in diocesi, vale a dire quelle dai 300 ai 500 abitanti, normalmente hanno una ex casa parrocchiale, e la maggior parte di queste case parrocchiali sono case dismesse, per le quali occorrerebbero dai 300 ai 400mila euro per una risistemata. È vero che si può fare qualche lavoro anche a minor prezzo, però è vero che per riutilizzare una struttura, per un utilizzo sociale o anche solo per un affitto a una famiglia non si può andare sotto un certo livello (per esempio quello della sicurezza). Ma le parrocchie piccole non hanno queste risorse. Le proprietà poi non sono diocesane: se lo fossero si potrebbe vendere una parte dei beni e con il ricavato sistemare quello che è da sistemare. Perché se la parrocchia di Albate ha una casa vecchia e la può vendere, non la vende per sistemare una casa della parrocchia di Colico. Qui siamo chiamati trovare dei modi per interagire maggiormente, appunto con la condivisione dei beni, che è un passaggio di non facile realizzazione. Ecco perché, se da una parte dobbiamo cercare delle soluzioni tecniche, dall’altra dobbiamo mirare a delle soluzioni ecclesiali serie, impegnative, in modo che i beni siano messi a servizio dell’annuncio del Vangelo e delle povertà che nella Chiesa ci sono. Relazione filiale, fraterna, nuziale Parola-chiave, uscita oggi più di altre (in mezzo a tante altre parole-chiave, come povertà, condivisione, speranza, giustizia) è relazione. L’abbiamo detta in riferimento ai servizi che non possono esserci senza relazione, lo abbiamo detto in relazione ai cammini di fede. Vorrei fare un invito: su questa parola si abbia a riflettere, e a riflettere con profondità teologica, filosofica e umana. La parola “relazione”, se proviamo a chiederci che cosa significhi, nasconde un sacco di significati e anche di tranelli. Per coglierne in qualche modo il senso variegato, noi dobbiamo entrare dentro l’esperienza della famiglia, che è la struttura umana che esiste fin dal principio e che si fonda precisamente sulle relazioni. Nella famiglia troviamo la relazione filiale, che nella carità di tutti i secoli è entrata come esperienza forte. Che cos’è la relazione filiale? È l’esperienza nella quale una persona è riconosciuta per quello che è: quando nasce, arriva come è. Un figlio come arriva è fatto. La relazione filiale mette in gioco molto l’accoglienza della persona in quanto tale, per il suo valore, il suo essere prima ancora che per il suo fare. Il figlio che nasce non fa nulla, ma ha un valore che precede. Sappiamo che questa relazione è stata segnata più volte da forme di paternalismo. Si può fare la carità con questa attenzione all’accoglienza, ma avere dentro la pecca del paternalismo: “Insomma, sono stato proprio io a farti il bene; devi avere anche un po’ di riconoscenza”. Il paternalismo produce dipendenza. Seconda tipica relazione della famiglia è la fraternità. Credo che oggi l’esperienza caritativa si muova soprattutto su questa onda. La fraternità implica la condivisione dei beni, si mangia spezzando il medesimo pane, stando sotto lo stesso tetto, condividendo quello che c’è finché c’è. Ed è una categoria di relazione importantissima, per definire tanti rapporti umani compresi quelli in cui condividiamo dei beni. Ma la fraternità – non lo dimentichiamo – è anche conflittuale. Sempre un po’ conflittuale. Perché quei beni che si comincia a condividere per crescere, poi si devono condividere per andare uno per parte. Ci si divide l’eredità. E non possiamo mai dimenticare questo aspetto della fraternità, che la rende non così pura come vorremmo. C’è sempre qualche aspetto di conflittualità che segna la vita nelle famiglie, nelle comunità, nei gruppi; sempre la fraternità porta con sé questo peccato originale. La categoria più significativa all’interno della famiglia è quella della “nuzialità”. Esprime un amore che mentre viene dato richiede un ritorno. L’amore nuziale mette in gioco il maschio e la femmina; e voi tutti sapete com’è diversa la carità fatta da maschi e da femmine. E come in questo incontro tra l’uomo e la donna si realizzi un particolare legame che dentro la Chiesa abbiamo bisogno di scoprire, di studiare, di apprendere, perché emerge sempre di più, soprattutto dopo il magistero di Giovanni Paolo II, come un tratto fondamentale dell’amore divino. La categoria della nuzialità chiede in qualche modo che ci sia un ritorno, una maturità particolare. È molto meglio essere a un livello nuziale che a un livello figliale, perché il figlio dipende sempre. Cristo è venuto a consegnarci questo amore nuziale. Per cui l’Eucaristia è il dono del corpo e anche la carità è il dono gratuito del corpo che richiede un dono gratuito dell’altro corpo. Credo che questo aspetto dell’amore, per non cadere nell’equivoco di un amore che si consuma senza avere una risposta, sia un aspetto da mettere allo studio, alla riflessione per definire i tratti dell’amore originalmente cristiano. Quante conseguenze per la Caritas. La pedagogia dei fatti Infine, ricordando le cose che oggi ci siamo detti, in particolare credo di dover raccogliere per gli Uffici e per coloro che lavoreranno a livello diocesano, l’esigenza della pedagogia dei fatti: si apprende facendo e riflettendo su quello che si fa, soprattutto su tre esperienze. Curare i cammini di fede, quei cammini di fede che riguardano l’iniziazione cristiana, i fidanzati, i giovani; cammini di fede in cui siano integrate le forti esperienze liturgiche, caritative e catechistiche, magari con proposte più ridotte nella quantità, ma più ricche di qualità. Avere a cuore la vita dei giovani: oggi fanno tante esperienze, ma non fanno l’unica esperienza seria, quella della continuità, che è la vera esperienza dell’amore. Non la somma degli ambienti, delle cose che si vedono, delle prove di vita, ma un’esperienza significativa nella quale si possa imparare la continuità dell’amore. L’amore cristiano è grande perché è lungo. In particolare credo che dovremo insieme concentrarci su quelle indicazioni che il vescovo continua a ripeterci: preparazione al matrimonio fatta bene, perché facciamo bene tante cose ma poi facciamo dei matrimoni che con la carità non hanno nulla a che fare. Anzi normalmente la smentiscono, qualche volta fanno rabbrividire, sono l’anti-segnale comunitario. C’è bisogno di dare dei segnali nella comunità in modo che la preparazione al matrimonio sfoci nella celebrazione del matrimonio come segno di una carità cercata, amata e vissuta, non come un nuovo egoismo amplificato. Dedicarsi alla formazione. Stamattina c’era una domanda sulla formazione. Posso anticipare qui che sulla formazione in Diocesi si sta preparando un progetto globale, che ovviamente prevede una formazione, fondamentale per il cristiano, di tipo spirituale.Questa formazione ha il suo luogo privilegiato nella comunità parrocchiale: è la formazione alla fede, alla santità, all’ascolto della parola, alla celebrazione dei sacramenti. Poi c’è bisogno di una formazione di tipo pastorale – e quindi un po’ specifica – che si svolgerà a livello vicariale con dei corsi e a livello diocesano con scuole un po’ più impegnative. Il bene infatti va fatto con generosità, ma anche con intelligenza e con preparazione. Grazie.