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Lettera ai medici di domani
Lettera ai medici di domani La paura è contagiosa, ma lo è anche la speranza Ada Burrone Si ringrazia Roche Italia S.p.A. per il contributo alla pubblicazione © Attivecomeprima Onlus 2011 Dal 1973 a sostegno globale delle persone colpite dal cancro 20158 Milano - Via Livigno, 3 Tel. +39 02 688 96 47 email: [email protected] www.attive.org Lettera ai medici di domani La paura è contagiosa, ma lo è anche la speranza Ada Burrone “Come oncologo e medico dico: ‘guai a togliere la speranza!’. Ho sempre pensato a quale terribile angoscia sia, per i condannati alla pena capitale, conoscere in anticipo quando finirà la loro vita e ritengo che un medico non dovrebbe mai trasformare la prognosi in una condanna senza appello. E non si tratta di un pietoso inganno: stabilire con esattezza una prognosi accurata nel singolo paziente è molto difficile e spesso impossibile. Bisogna quindi, anche solo per motivazioni scientifiche, che il medico impari a informare i pazienti sulla gravità della loro malattia senza togliere la speranza”. Prof. Alessandro Massimo Gianni Direttore della Cattedra di Oncologia Medica, Università degli Studi di Milano e Fondazione Istituto Nazionale Tumori di Milano 2 Lettera ai medici di domani Questo scritto nasce dal suggerimento di uno dei tanti medici che ho conosciuto da vicino, lavorando insieme in favore delle persone colpite dal cancro. Molti di loro hanno manifestato una comune esigenza: quella di ottenere anche una preparazione che porti a evitare il rischio di sovraccarico emotivo o anche di burn-out, causato dall’intenso lavoro che non lascia spazio a se stessi e dall’enorme quantità di dolore talvolta presente nella relazione di cura. Ciò mi ha fatto riflettere sulla necessità di una specifica formazione in tal senso, a partire dagli studi universitari. Per questa ragione ho pensato di rivolgermi a voi, medici di domani, con l’unico intento di farvi da specchio, di fornirvi elementi di riflessione. Al di là del cancro, ho vissuto esperienze fisiche difficili e più volte a rischio di vita, che mi hanno messa a confronto sia con bravi medici, sia con bravi laureati in medicina. Da tutti loro ho ben compreso che il vostro è un compito estremamente delicato. L’ho letto negli occhi di quegli specialisti che, non reggendo la realtà altrui, si trinceravano dietro il loro ruolo. E quando il ruolo sovrasta l’uomo, l’incomunicabilità è inevitabile. Si parla tanto di empatia, di umanizzazione della medicina, del rapporto medico paziente… si parla invece troppo poco di come si vive e della morte: due realtà comuni a tutti. Lettera ai medici di domani 3 Come una volta il cancro, ancora oggi la morte è un tabù. I tabù spaventano e, più si evitano e si rifiutano, più essi ci inseguono e ci tormentano. Forse ci sentiremmo più liberi e più forti se riuscissimo ad includere nel bagaglio della nostra vita anche la morte come interlocutore attendibile. Anche se voi siete troppo giovani per averla nella mente e nei vostri pensieri, dovrete incontrarla nella professione ed è pertanto necessario che possiate pensare ad essa come a una realtà, che non sempre riuscirete a contrastare o impedire. Ma quella morte non è un fatto a sé: è l’esperienza vivente di una persona che a voi chiede qualcosa, che non è solo la guarigione. Credo fortemente che l’accettazione della finitezza ci aiuterebbe a metterci a confronto con noi stessi e in empatia con chi soffre. E per il medico, che ha il compito di curare, prima ancora che di guarire, è forse un buon antidoto contro l’impotenza. Ho visto che chi riesce ad esorcizzare la paura della morte, vive meglio. E sostengo che vivere meglio è già vivere di più. 4 Lettera ai medici di domani Pur rendendomi conto di non aver nulla da aggiungere al vostro sapere, vi racconto alcuni episodi che ho vissuto come paziente, come figlia di paziente e come “compagna di viaggio” di decine di migliaia di donne e di uomini che ho incontrato nel lavoro di ogni giorno e che, nel loro percorso di malattia, hanno chiesto aiuto. Inizio a parlarvi di me come paziente. Lettera ai medici di domani 5 Era l’anno 1970 e non sapevo di poter vivere più di quarant’anni dopo la mia personale esperienza di cancro al seno. La mia vita cambiò quando, casualmente e per la prima volta, ebbi tra le mani la mia cartella clinica. Succedeva mentre, con il Direttore Sanitario dell’Istituto Tumori di Milano dove allora lavoravo, stavamo esaminando le cartelle cliniche di pazienti da invitare al Circolo della Stampa, dove avremmo annunciato la nascita di Attivecomeprima. L’associazione, prima in Italia nel suo genere, nasceva con l’obiettivo di migliorare la vita delle donne colpite dal tumore al seno. Con gli anni, estese poi la sua attività in favore di tutte le persone colpite dal cancro e dei loro famigliari. 6 Lettera ai medici di domani Avevo 36 anni, un figlio di 12 e un marito spaventato e preoccupato. Capii, dal comportamento di chi mi stava intorno, che per me il tempo di vita sarebbe stato poco. Feci molta fatica a non “abdicare”, a non lasciarmi andare. Sarebbe infatti stato più semplice, per me, rassegnarmi, piangermi addosso e aspettare di morire. Mi risvegliò alla vita un oncologo di prim’ordine che non dimenticherò mai. Lui, a differenza di altri che guardavano soltanto la diagnosi e la conseguente prognosi infausta, mi sorrise, mi strinse la mano e, guardandomi negli occhi mi rassicurò, a parole e a sensazioni, così: “Ce la farà! Conosco chi ce l’ha fatta anche nella sue condizioni fisiche”. Ricordo nitidamente che, uscendo dal suo studio, ebbi la consapevolezza dell’azzurro di quel cielo che da tempo non guardavo più. Lettera ai medici di domani 7 Da quel giorno ho preso in mano la mia vita, accompagnata da due fedeli compagni di viaggio: l’accettazione consapevole di poter anche presto morire e la speranza di poter aggiungere ancora e ancora tempo alla vita, apprezzandola maggiormente nella gioia e nel dolore. Ho pensato tante volte all’esperienza fatta con il medico che mi ha aperto la porta della speranza e ottengo sempre la conferma che non è stato necessario tanto tempo ne’ tante parole: lui mi ha semplicemente trasmesso la speranza che possedeva. 8 Lettera ai medici di domani A proposito della speranza scrive il Dottor Jerome Groopman nel suo libro “Anatomia della speranza”: “le parole e i gesti di chi cura e di chi si prende cura dei pazienti, hanno un’influenza sui collegamenti sinaptici”, “…la vera speranza, che è formata da una parte cognitiva e da una parte affettiva, può mitigare la paura e aiutarci a restare in equilibrio per riconoscere i pericoli in modo da affrontarli o evitarli”. Groopman spiega come imparare a distinguere la vera e la falsa speranza, a capire la differenza tra l’ottimismo, cioè la propensione a pensare che in un modo o nell’altro tutto si aggiusterà, e la speranza che è invece l’atteggiamento positivo e consapevole nei confronti di una situazione difficile. Jerome Groopman è medico, insegna alla Harvard Medical School ed è membro della National Academy of Sciences. Si occupa principalmente di ematologia e oncologia. Nell’epilogo del suo libro scrive: “mi sono infatti convinto che la speranza ci è necessaria per vivere quanto l’ossigeno che respiriamo”. E ancora: “seguo con vivo interesse gli esperimenti sulle emozioni e sul modo in cui il cervello e il resto del corpo dialogano biologicamente l’uno con l’altro”. Lettera ai medici di domani 9 Vi parlo ora del mio papà, affetto da un cancro addominale esteso al fegato, morto a ottant’anni, due anni dopo la dimissione dall’ospedale per essere portato a casa a morire. Queste le parole del medico che si trincerava dietro al ruolo: “ne avrà per pochi giorni…”. Invece, un altro medico dello stesso ospedale, salutandomi mi disse: “ho incontrato per strada questa mattina un mio paziente che ho dimesso un anno fa nelle stesse condizioni fisiche di suo padre oggi”. Il primo mi aveva parlato della prognosi, il secondo mi aveva descritto un fatto positivo. A casa papà fu aiutato e accompagnato a vivere bene per due anni da un terzo medico che gli trasmise serenità e fiducia, insieme alle sue cure. 10 Lettera ai medici di domani Vi parlo infine della mia esperienza nel lavoro quotidiano ad Attivecomeprima. Tra i miei compiti c’è quello di accogliere, ascoltare pazienti e famigliari, condividere e far conoscere le nostre attività di sostegno umano, fisico e psicologico perché ognuno possa scegliere se e di quali usufruire. Parlando lo stesso linguaggio delle persone che vivono l’esperienza della malattia, si apre con loro la strada della spontaneità, che permette ai pesi interiori di emergere e di essere espressi liberamente. Lettera ai medici di domani 11 Molti dicono: “ho paura della paura”. La paura dell’incognita del domani. La paura di soffrire ancor più che di morire. Le persone che hanno un medico che le ascolta, che sentono umanamente alleato, che permette loro di esprimere ciò che veramente provano, quando parlano di lui hanno gli occhi che si illuminano e il loro sguardo è pieno di energia. Altre invece che non hanno un punto di riferimento umano e che trovano soltanto lo specialista che cura la malattia, hanno lo sguardo spento, che vaga nel vuoto. 12 Lettera ai medici di domani Tutti nella vita abbiamo bisogno di riferimenti buoni e sicuri e, quando ci ammaliamo, questo bisogno diventa ancor più forte. Cerchiamo chi ci permette di esprimerci in modo libero e autentico, chi accoglie i nostri timori e le nostre ansie e le condivide senza minimizzare e senza drammatizzare. La condivisione del dramma, a differenza della negazione, aiuta a sdrammatizzare. Abbiamo bisogno soprattutto di chi ci aiuta a stare bene nel presente e di sentire che è con noi nel bene e, se dovesse accadere, nel male. Lettera ai medici di domani 13 Di solito, quando incontro i pazienti e i loro famigliari, li lascio o li invito a parlare di ciò che sta a loro più a cuore. Da parte mia, mi rendo conto che non servono tante parole: l’ascolto è già di per sé una cura e, per ascoltare, è necessaria l’apertura d’animo e la disponibilità ad accogliere ciò che l’altro esprime. Ciò aiuta molto anche quando il tempo a disposizione è breve. 14 Lettera ai medici di domani Finiamo spesso per parlare della morte, di come ognuno la immagina, di chi addolora lasciare, specie se si hanno figli piccoli. Ogni volta mi colpisce il fatto che tutti si sentano più alleggeriti dopo aver affrontato i fantasmi che tenevano dentro. A questo proposito troverete in appendice alcune “voci” di donne che, all’interno dei nostri gruppi di sostegno psicologico, hanno guardato in faccia la paura. Ricevo sempre la conferma che le persone paghe della propria esistenza temono meno l’idea della morte, mentre le persone inappagate oppongono resistenza a questa idea e la trattengono nella loro mente, intrappolate dalla paura. Lettera ai medici di domani 15 Ora vi lascio cari medici di domani, grata per il tempo e l’attenzione che avete riservato a questo scritto. A tutti voi auguro di essere capaci di lasciar parlare “il paziente” che è dentro di voi e che possiate coltivare la speranza, per poterla trasmettere agli altri nella vita e nella professione. 16 Lettera ai medici di domani La voce di chi ha trovato la forza di vivere guardando in faccia la paura “...sognavo che la morte mi afferrava per un braccio, con una forza incredibile. Io non volevo andare con lei ma sentivo che se mi fossi opposta con la stessa forza lei avrebbe vinto. Allora ho iniziato a parlarle per convincerla che non volevo morire, che non volevo andare con lei neanche per un minuto. Mi sono svegliata con la sensazione che a un certo punto fosse stata lei a lasciarmi...”. (Anna - Milano) “...Il cuore del lavoro è stato, per me, quello di trovare il coraggio di guardare in faccia la paura di morire e io sapevo che senza quel passo non avrei potuto fare nulla per me stessa”. (Annamaria - Padova) “...per la prima volta dalla malattia potevo parlare di me, della mia vita e soprattutto potevo guardare la malattia e la morte in faccia. Se provi a dire a qualcuno intorno a te che hai paura di morire perché hai avuto il cancro è facile che scappi, travolto dalla sua stessa paura della morte. Mentre nel gruppo non è stato così. I fantasmi legati all’idea della morte e della malattia si potevano affrontare ma accompagnati, presi per mano con serenità, solidità, speranza e fiducia di non essere soli. Ho trovato ascolto, solidarietà e mai pietà: mi sono confrontata con donne la cui situazione fisica era anche molto compromessa e dalle quali ho imparato moltissimo. Ho potuto sperimentare come il pensiero della malattia e della morte possono lasciare il posto alla serenità, al desiderio di vivere intensamente e di essere se stessi Lettera ai medici di domani 17 fino in fondo e indipendentemente dalla situazione fisica. Il miglioramento della relazione con se stesse e con gli altri è stato infatti uno dei temi centrali del gruppo e ha reso più facile l’elaborazione delle angosce di malattia e di morte. Ha rappresentato per me la base non solo di una crescita personale ma anche professionale”. (Raffaella - Torino) “...affrontare comunque le mie paure, anche quelle relative alla malattia, mi ha cambiato anche nel modo di rapportarmi con chi curo. È cambiato in meglio, nel senso che attraverso questa esperienza e la consapevolezza che tutti noi siamo mortali, ho capito che la cosa più importante è riempire di valenze positive la quotidianità”. (Maria Grazia - Monza) “...come se avessi così tanta paura di morire, da illudermi di poterla combattere negandola... Ho imparato il modo di accettare la malattia, come convivere con l’idea della morte guardandomi dentro senza rinunciare a vivere la vita. Ora do ascolto ai miei bisogni e non alla paura di una malattia da combattere: ho capito che il cancro non si combatte ma si ascolta”. (Enrica – Bergamo) “...la mia vita era dominata dalla paura: paura di riammalarmi, paura di morire, paura di vivere. Era come se avessi sempre un’ombra accanto che mi impediva di pensare ad altro. Qui ho trovato comprensione e speranza. Per me è stato fondamentale portare a galla le emozioni... sentivo che negare, far finta che non sia successo nulla non è possibile. Tutto affiora nei momenti più impensati, ti prende con una intensità difficile da controllare e il risultato è un’angoscia fortissima. Affrontare tutte le emozioni e le paure con un gruppo di persone che parlano lo stesso linguaggio, che vivono le stesse esperienze, mi ha fatto sentire alleggerita... a poco a poco mi sono liberata dalla paura che fino a quel momento sentivo onnipotente perché non riuscivo né a gestire né ad incanalare. Parlare e affrontarla nel gruppo mi ha dato la capacità di controllarla, non scacciandola, ma senza darle il potere che aveva 18 Lettera ai medici di domani prima. Ora mi dico che è normale che ci sia, anzi sarebbe strano il contrario! So che le cose che accadranno non sono in mio potere, so che potrei riammalarmi e anche morire ma quel lato “chiaro”, che ora vedo, mi fa dire che potrei vivere ancora a lungo, con la stessa probabilità. Do alla paura il permesso di venire ma non le do più il permesso di dominarmi. È stato molto importante che nel gruppo non si parlasse solo di cancro, perché questa esperienza ti costringe in qualche modo, a guardarti dentro. Così, insieme alla voglia di dar voce alle parti di te che, per mille motivi, avevi seppellito, vengono a galla le cose che non funzionano e che ora, proprio alla luce di quanto accaduto, non puoi più ignorare. Il cancro ti dà il “patentino” per vivere, ti dice: guarda che stavi per morire, cos’hai intenzione di fare? Come se ti dicesse che non hai tempo da buttare correndo dietro a cose che non cambieranno mai, ma che puoi organizzarle per vivere diversamente e così, forse, vivere anche di più...”. (Fiammetta – Savona) “...lunghi pomeriggi, interminabili serate davanti allo schermo, senza sentire una parola, incapace di seguire un film, impossibilitata a leggere a causa di una lunga congiuntivite causata dai farmaci, momenti in cui mi rendevo conto di essere da sola nonostante la costante vicinanza dei parenti e delle amiche. Sola perché nessuno parlava il mio linguaggio. Sola perché fortunatamente nessuno aveva mai vissuto la malattia che stavo affrontando. E fu in quel periodo che cominciò a germogliare la voglia di condividere con altre donne l’esperienza, la sofferenza, il disagio, un linguaggio comune, la gioia di certi risultati. Chiedevo un giorno di ferie, di martedì, salivo sul treno: tre ore di viaggio e un panino per pranzo. Dalla Stazione Centrale di Milano raggiungevo via Livigno, poi, dopo un’ora e trenta piena di lavoro, emozioni, confidenze, sorrisi e lacrime, uscivo felice da quella stanza così accogliente, dove non mancava mai un fiore sul tavolino e, di corsa, percorrevo il tragitto al contrario per non perdere la coincidenza per tornare a casa e preparare la cena. Sedici incontri, sedici spostamenti per imparare a vivere meglio”. (Nadia - Aosta) Lettera ai medici di domani 19 “...volevo trovare uno spazio per poter piangere, ma non per piangermi addosso! ...dopo il primo incontro con voi ho sentito che la cosa era molto guidata, molto contenuta e ho cominciato ad aprirmi con fiducia. Ho apprezzato subito il beneficio che deriva dal poter parlare in gruppo di cose molto difficili come la morte, della non voglia di morire che c’era in comune e della voglia di lottare; ma soprattutto ho sentito che c’era un percorso, che non era un parlare fine a se stesso ma che c’era un senso perché potessimo vedere davanti a noi una strada e non uno stop. Era come una garanzia di una nuova vita, che non sai quanto durerà, ma in ogni caso nuova. Mi avete aiutato molto, anche se non sempre siete state “fatine gentili”. Mi sono sentita portata con vigore verso questa cosa, sentivo un forte quasi imperioso stimolo ad entrare in contatto con questa risorsa del godere e del godere l’attimo... senza giudizio: male, bene, buono, cattivo, sarebbe stato meglio se... nulla di tutto questo, ma solo la presa di coscienza. Ora quando vengono a galla i dolori, i rimpianti, le parti buie insomma, non le mando via, le accetto e questo mi dà un senso più profondo della vita, un valore maggiore. Togliere a tutti i costi i dolori della vita, negarli, ne toglie anche la sostanza. Le ferite, in fondo, sono il concime della vita, la rendono più corposa, più ricca. Se le neghiamo, neghiamo anche una parte di noi stessi... non mi fa più così paura l’idea della morte... ogni storia, ogni esperienza che parla della morte dice la stessa cosa: che chi ha avuto una vita piena e intensa muore meglio. Io dico che senz’altro vive meglio”. (Marina - Milano) “...il cancro non è solo “il male”, può darti la possibilità di vivere una seconda vita, più essenziale, più vera perché c’è la percezione che il tuo tempo può essere breve e allora si può e si deve fare solo ciò che conta veramente”. (Leda - Lugano) “...ero un po’ perplessa perché credevo che fosse un ghetto... invece già dalla prima telefonata, ho avuto la sensazione che non fosse così. Varcata poi la soglia, tutte le paure, le mie perplessità, svanirono: i sorrisi, la gioia, la grande sincerità che si respira e la naturalezza degli 20 Lettera ai medici di domani approcci, sono un arricchimento difficile da spiegare se non lo si prova... qui si parla di tutto, si fanno progetti, si lavora, si va in vacanza, ci si consiglia, qui si dicono anche cose che nessun confessore ha mai sentito. Quando entri qui sei piccola e spaurita, quando esci sei più grande e sicuramente più forte. Ho constatato, dopo questa mia esperienza, che spesso purtroppo si vive protesi nel futuro pensando a quello che faremo, ma così senza vivere il presente, unica certezza che tutti possediamo con o senza cancro”. (Antonia - Lecco) “...ricordo solo una grande paura di morire: avevo due bambini piccoli e l’idea di lasciarli senza sapere chi si sarebbe occupato di loro mi faceva impazzire. Mi sono iscritta ai gruppi di sostegno psicologico e da lì ho iniziato a intravedere uno spiraglio nella mia disperazione. Ricordo, ricordo la mia paura, ricordo anche le mie compagne, avevo paura anche di loro, avevo paura di sentire le loro storie, avevo paura che qualcuna potesse morire e di soffrirne... intanto sentivo, mano a mano svanire la paura di morire: mi rendevo conto che non occupava più così tanto spazio nella mia testa. Prima vedevo tutto nero, immaginavo la mia morte, il mio funerale. Poi mi sono accorta che la vita stava prendendo il sopravvento e sono rimasta finalmente incinta. Ho dovuto stare a riposo ma non mi pesava, ero sicura che sarebbe stata una femmina. Ho iniziato a fare progetti, mi sentivo felice. Prima quando sentivo parlare di tumore ne ero sconvolta, adesso l’accettazione mi fa sentire più viva... guardo i miei figli, la mia bambina... Faccio un mucchio di progetti che prima non facevo. Ci sarò, ci sarò ancora per molto”. (Giovanna - Milano) “...il cancro da una parte ti fa venire in mente la possibilità di morire ma dall’altra ti può fare apprezzare maggiormente la vita. È paradossale, vero? Ma proprio perché è così ti fa capire di non attaccarti alle false cose: è bellissimo anche un giorno in più... un’amica mi ha chiesto com’è stata la mia esperienza. Le ho risposto che più che davanti alla morte il cancro ti mette davanti alla vita... adesso voglio vivere nella Lettera ai medici di domani 21 semplicità, nella quotidianità, godere delle cose piccole!”. (Margherita - Roma) “...avevo paura della vita, poi è arrivato il cancro e non più in fase iniziale. Allenando la mente ad accettare l’idea di poter morire, mi sono liberata dalla paura di vivere. Sono trascorsi più di quarant’anni da quando ho trovato “un’amica dentro” che mi ha permesso di dare ad ogni giorno un significato nuovo. Ho così imparato a dar vita al tempo e non solo a chiedere tempo alla vita”. (Ada - Milano) 22 Lettera ai medici di domani Ada Burrone È nata a Fabbrica Curone (AL) il 26 aprile 1933; si è sposata a 20 anni, ha avuto un figlio e all’età di 36 anni è stata operata di cancro al seno. Ha fondato nel 1973 l’Associazione Attivecomeprima, grazie all’appoggio del suo chirurgo Pietro Bucalossi (allora Direttore dell’Istituto Tumori di Milano), con lo scopo di migliorare la qualità della vita delle persone colpite dal cancro, attraverso un sostegno umano, psicologico e medico. È autrice di testi per la conduzione dei gruppi di sostegno psicologico. È pubblicista e Direttore della Rivista ATTIVE. Tra i suoi scritti: “La terapia degli affetti” con Franco Fornari ed. Attivecomeprima, “Il gusto di vivere” con Gianni Maccarini ed. Oscar guide Mondadori, “M’amo non m’amo” (in italiano e in inglese) ed. Pixel, “La forza di vivere” ed. Attivecomeprima, “La danza della vita” ed. FrancoAngeli. Tra i premi e riconoscimenti ricevuti: Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” (1977) Riconoscimento Internazionale S. Rita da Cascia (1998) Premio speciale Marisa Bellisario (2005) Premio FAVO “cedro d’oro” terza giornata del volontariato (2008) Medaglia d’Oro di Benemerenza Civica del Comune di Milano (Ambrogino 2009) © ATTIVE, Attivecomeprima e La Forza di Vivere sono marchi registrati. © Attivecomeprima Onlus 2011 Tutti i diritti riservati. Lettera ai medici di domani 23 Postfazione “Todo cambia”, cantava l’indimenticabile Mercedes Sosa: “cambia il superficiale e cambia anche il profondo; cambia il modo di pensare, cambia tutto in questo mondo”. Nell’elenco dettagliato delle cose che cambiano la canzone non include il sommovimento che la malattia introduce nella vita quando siamo costretti, improvvisamente, ad abbandonare la terra sicura della salute. “Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese” (Susan Sontag: Malattia come metafora). Cambia, in superficie, la vita di chi si ammala; ma cambia anche, nel profondo, la relazione tra chi offre le cure sanitarie e chi le riceve. Cambia il rapporto medico-paziente. Non è una novità: è cambiato altre volte nel corso del tempo. Tanto che uno storico della medicina, Edward Shorter, ha potuto scrivere una monografia intitolata: La tormentata storia del rapporto medico-paziente. Uno dei cambiamenti più spettacolari è avvenuto sotto i nostri occhi, in poco meno di una generazione: la figura del medico ha clamorosamente cambiato di segno. Era una autorità indiscussa ed è stata messa sotto accusa. Anche giudiziariamente: vent’anni fa le cause intentate ai medici erano una rarità, oggi sono diventate una valanga. Il medico era una figura aureolata di prestigio sociale e di autorevolezza morale: come un buon padre, o una buona madre, prendeva le decisioni per il malato, decidendo al posto suo la terapia e gestendo l’informazione in un modo che prevedeva ampiamente la reticenza e anche la stessa menzogna al paziente. Cambiato il rapporto, tra il medico e il malato si inseriscono moduli per il “consenso informato” e minuziose prescrizioni per la gestione dei dati, sotto l’egida della “privacy”. Nei casi migliori, medici e pazienti rischiano di sentirsi estranei, in quelli peggiori nemici, chiusi in posizioni difensive (à la guerre, comme à la guerre...). 24 Lettera ai medici di domani È in un contesto di questo genere che si inserisce la lettera di Ada Burrone ai medici. A quelli di oggi, ma soprattutto a coloro che si preparano a esercitare la medicina domani. La lettera porta la buona notizia di un altro cambiamento possibile, anzi auspicabile. Ancor più: di un cambiamento già iniziato. Ada si fa consapevolmente portavoce di questa avanguardia. Sono persone – donne soprattutto, passate attraverso l’esperienza del cancro al seno – che vedono nel medico un alleato. Non un superpadre al quale affidarsi ciecamente e passivamente, per lasciarsi condurre; non un professionista insensibile e forse anche interessato a guadagni scorretti, dal quale difendersi. Il buon medico di oggi – e ancor più quello di domani – esercita la medicina nella consapevolezza che ciò che si richiede da lui è, sì, “scienza e coscienza”, ma anche ascolto della persona che affronta il cambiamento richiesto dalla malattia. L’ascolto è il primo passo verso una informazione corretta, non riversata sul malato in maniera brutale. Soprattutto l’ascolto è preliminare al processo della decisione condivisa, nella quale confluiscano, in pari dignità, il sapere clinico del medico e le preferenze della persona malata. Da parte sua, questo malato che si affaccia dal cambiamento in corso assicura al medico la sua lealtà. Se sarà trattato come un adulto – ferito, ma non ridotto all’impotenza, minacciato nella sua autonomia dalla paura, ma pur sempre chiamato a “tenere la faccia contro il vento”, come dice il poeta Saint- John Perse – considererà a sua volta il medico come un essere umano. Rispetterà i suoi limiti, se il medico avrà dato prova del giusto impegno. Perdonerà anche le sue debolezze, se non si sarà fatto scudo della maschera da superuomo. Condividerà con il medico la speranza, anche quando è un pane duro e amaro. Perché il modo più umano di vivere la speranza è condividerla. Sullo sfondo della lettera di Ada si profila un rapporto tra medico e persona malata che i Greci avrebbero messo sotto il segno della philìa, ovvero dell’”amicizia”. Per dar ragione a Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico: sarà un progresso”. Sandro Spinsanti Direttore Istituto Giano, Roma Lettera ai medici di domani 25 grafica e impaginazione: Alessandro Petrini, Via Orseolo, 5 - 20144 Milano. [email protected] Immagini della copertina. Ritratto Ada Burrone: Caterina Ammassari Paesaggio: Getty Images Stampa: Tecnografica srl, Via Degli Artigiani, 4 - 22074 Lomazzo (Mi) [email protected]