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Lettera ai medici di domani

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Lettera ai medici di domani
Lettera
ai medici
di domani
La paura
è contagiosa,
ma lo è anche
la speranza
Ada Burrone
Si ringrazia Roche Italia S.p.A.
per il contributo alla pubblicazione
© Attivecomeprima Onlus 2011
Dal 1973 a sostegno globale
delle persone colpite dal cancro
20158 Milano - Via Livigno, 3
Tel. +39 02 688 96 47
email: [email protected]
www.attive.org
Lettera
ai medici
di domani
La paura
è contagiosa,
ma lo è anche
la speranza
Ada Burrone
“Come oncologo e medico dico: ‘guai a togliere la
speranza!’. Ho sempre pensato a quale terribile angoscia
sia, per i condannati alla pena capitale, conoscere in
anticipo quando finirà la loro vita e ritengo che un
medico non dovrebbe mai trasformare la prognosi in
una condanna senza appello.
E non si tratta di un pietoso inganno: stabilire con
esattezza una prognosi accurata nel singolo paziente
è molto difficile e spesso impossibile. Bisogna quindi,
anche solo per motivazioni scientifiche, che il medico
impari a informare i pazienti sulla gravità della loro
malattia senza togliere la speranza”.
Prof. Alessandro Massimo Gianni
Direttore della Cattedra di Oncologia Medica, Università degli Studi
di Milano e Fondazione Istituto Nazionale Tumori di Milano
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Lettera ai medici di domani
Questo scritto nasce dal suggerimento di uno dei tanti
medici che ho conosciuto da vicino, lavorando insieme in favore
delle persone colpite dal cancro.
Molti di loro hanno manifestato una comune esigenza: quella di
ottenere anche una preparazione che porti a evitare il rischio di
sovraccarico emotivo o anche di burn-out, causato dall’intenso
lavoro che non lascia spazio a se stessi e dall’enorme quantità di
dolore talvolta presente nella relazione di cura.
Ciò mi ha fatto riflettere sulla necessità di una specifica
formazione in tal senso, a partire dagli studi universitari.
Per questa ragione ho pensato di rivolgermi a voi, medici di domani, con l’unico intento di farvi da specchio, di fornirvi elementi
di riflessione.
Al di là del cancro, ho vissuto esperienze fisiche difficili e più volte
a rischio di vita, che mi hanno messa a confronto sia con bravi
medici, sia con bravi laureati in medicina.
Da tutti loro ho ben compreso che il vostro è un compito estremamente delicato.
L’ho letto negli occhi di quegli specialisti che, non reggendo la
realtà altrui, si trinceravano dietro il loro ruolo.
E quando il ruolo sovrasta l’uomo, l’incomunicabilità è inevitabile.
Si parla tanto di empatia, di umanizzazione della medicina, del
rapporto medico paziente… si parla invece troppo poco di come
si vive e della morte: due realtà comuni a tutti.
Lettera ai medici di domani
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Come una volta il cancro, ancora oggi la morte è un tabù. I
tabù spaventano e, più si evitano e si rifiutano, più essi ci
inseguono e ci tormentano.
Forse ci sentiremmo più liberi e più forti se riuscissimo ad
includere nel bagaglio della nostra vita anche la morte come
interlocutore attendibile. Anche se voi siete troppo giovani
per averla nella mente e nei vostri pensieri, dovrete incontrarla nella professione ed è pertanto necessario che possiate pensare ad essa come a una realtà, che non sempre
riuscirete a contrastare o impedire. Ma quella morte non è
un fatto a sé: è l’esperienza vivente di una persona che a voi
chiede qualcosa, che non è solo la guarigione.
Credo fortemente che l’accettazione della finitezza ci aiuterebbe a metterci a confronto con noi stessi e in empatia con
chi soffre.
E per il medico, che ha il compito di curare, prima ancora
che di guarire, è forse un buon antidoto contro l’impotenza.
Ho visto che chi riesce ad esorcizzare la paura della morte,
vive meglio.
E sostengo che vivere meglio è già vivere di più.
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Lettera ai medici di domani
Pur rendendomi conto di non aver nulla da aggiungere al
vostro sapere, vi racconto alcuni episodi che ho vissuto come
paziente, come figlia di paziente e come “compagna di
viaggio” di decine di migliaia di donne e di uomini che ho
incontrato nel lavoro di ogni giorno e che, nel loro percorso
di malattia, hanno chiesto aiuto.
Inizio a parlarvi di me come paziente.
Lettera ai medici di domani
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Era l’anno 1970 e non sapevo di poter vivere più di
quarant’anni dopo la mia personale esperienza di cancro
al seno.
La mia vita cambiò quando, casualmente e per la prima
volta, ebbi tra le mani la mia cartella clinica.
Succedeva mentre, con il Direttore Sanitario dell’Istituto
Tumori di Milano dove allora lavoravo, stavamo
esaminando le cartelle cliniche di pazienti da invitare al
Circolo della Stampa, dove avremmo annunciato la nascita
di Attivecomeprima.
L’associazione, prima in Italia nel suo genere, nasceva con
l’obiettivo di migliorare la vita delle donne colpite dal
tumore al seno. Con gli anni, estese poi la sua attività in
favore di tutte le persone colpite dal cancro e dei loro
famigliari.
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Lettera ai medici di domani
Avevo 36 anni, un figlio di 12 e un marito spaventato
e preoccupato. Capii, dal comportamento di chi mi stava
intorno, che per me il tempo di vita sarebbe stato poco.
Feci molta fatica a non “abdicare”, a non lasciarmi andare.
Sarebbe infatti stato più semplice, per me, rassegnarmi,
piangermi addosso e aspettare di morire.
Mi risvegliò alla vita un oncologo di prim’ordine che non
dimenticherò mai.
Lui, a differenza di altri che guardavano soltanto la diagnosi
e la conseguente prognosi infausta, mi sorrise, mi strinse la
mano e, guardandomi negli occhi mi rassicurò, a parole e a
sensazioni, così: “Ce la farà! Conosco chi ce l’ha fatta anche
nella sue condizioni fisiche”.
Ricordo nitidamente che, uscendo dal suo studio, ebbi la
consapevolezza dell’azzurro di quel cielo che da tempo non
guardavo più.
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Da quel giorno ho preso in mano la mia vita, accompagnata
da due fedeli compagni di viaggio: l’accettazione
consapevole di poter anche presto morire e la speranza
di poter aggiungere ancora e ancora tempo alla vita,
apprezzandola maggiormente nella gioia e nel dolore.
Ho pensato tante volte all’esperienza fatta con il medico che
mi ha aperto la porta della speranza e ottengo sempre la
conferma che non è stato necessario tanto tempo ne’ tante
parole: lui mi ha semplicemente trasmesso la speranza che
possedeva.
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Lettera ai medici di domani
A proposito della speranza scrive il Dottor Jerome Groopman
nel suo libro “Anatomia della speranza”: “le parole e i gesti
di chi cura e di chi si prende cura dei pazienti, hanno
un’influenza sui collegamenti sinaptici”, “…la vera speranza,
che è formata da una parte cognitiva e da una parte
affettiva, può mitigare la paura e aiutarci a restare in equilibrio per riconoscere i pericoli in modo da affrontarli
o evitarli”.
Groopman spiega come imparare a distinguere la vera
e la falsa speranza, a capire la differenza tra l’ottimismo, cioè
la propensione a pensare che in un modo o nell’altro tutto si
aggiusterà, e la speranza che è invece l’atteggiamento
positivo e consapevole nei confronti di una situazione difficile.
Jerome Groopman è medico, insegna alla Harvard Medical
School ed è membro della National Academy of Sciences.
Si occupa principalmente di ematologia e oncologia.
Nell’epilogo del suo libro scrive: “mi sono infatti convinto
che la speranza ci è necessaria per vivere quanto l’ossigeno
che respiriamo”.
E ancora: “seguo con vivo interesse gli esperimenti sulle
emozioni e sul modo in cui il cervello e il resto del corpo
dialogano biologicamente l’uno con l’altro”.
Lettera ai medici di domani
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Vi parlo ora del mio papà, affetto da un cancro addominale
esteso al fegato, morto a ottant’anni, due anni dopo la
dimissione dall’ospedale per essere portato a casa a morire.
Queste le parole del medico che si trincerava dietro al ruolo:
“ne avrà per pochi giorni…”.
Invece, un altro medico dello stesso ospedale, salutandomi
mi disse: “ho incontrato per strada questa mattina un mio
paziente che ho dimesso un anno fa nelle stesse condizioni
fisiche di suo padre oggi”.
Il primo mi aveva parlato della prognosi, il secondo mi aveva
descritto un fatto positivo.
A casa papà fu aiutato e accompagnato a vivere bene
per due anni da un terzo medico che gli trasmise serenità
e fiducia, insieme alle sue cure.
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Lettera ai medici di domani
Vi parlo infine della mia esperienza nel lavoro quotidiano
ad Attivecomeprima.
Tra i miei compiti c’è quello di accogliere, ascoltare pazienti
e famigliari, condividere e far conoscere le nostre attività di
sostegno umano, fisico e psicologico perché ognuno possa
scegliere se e di quali usufruire.
Parlando lo stesso linguaggio delle persone che vivono
l’esperienza della malattia, si apre con loro la strada della
spontaneità, che permette ai pesi interiori di emergere
e di essere espressi liberamente.
Lettera ai medici di domani
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Molti dicono: “ho paura della paura”. La paura dell’incognita
del domani. La paura di soffrire ancor più che di morire.
Le persone che hanno un medico che le ascolta, che sentono
umanamente alleato, che permette loro di esprimere ciò che
veramente provano, quando parlano di lui hanno gli occhi
che si illuminano e il loro sguardo è pieno di energia.
Altre invece che non hanno un punto di riferimento umano
e che trovano soltanto lo specialista che cura la malattia,
hanno lo sguardo spento, che vaga nel vuoto.
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Lettera ai medici di domani
Tutti nella vita abbiamo bisogno di riferimenti buoni e sicuri
e, quando ci ammaliamo, questo bisogno diventa ancor più
forte. Cerchiamo chi ci permette di esprimerci in modo libero
e autentico, chi accoglie i nostri timori e le nostre ansie e le
condivide senza minimizzare e senza drammatizzare.
La condivisione del dramma, a differenza della negazione,
aiuta a sdrammatizzare.
Abbiamo bisogno soprattutto di chi ci aiuta a stare bene nel
presente e di sentire che è con noi nel bene e, se dovesse
accadere, nel male.
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Di solito, quando incontro i pazienti e i loro famigliari, li lascio
o li invito a parlare di ciò che sta a loro più a cuore.
Da parte mia, mi rendo conto che non servono tante parole:
l’ascolto è già di per sé una cura e, per ascoltare,
è necessaria l’apertura d’animo e la disponibilità
ad accogliere ciò che l’altro esprime.
Ciò aiuta molto anche quando il tempo a disposizione
è breve.
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Lettera ai medici di domani
Finiamo spesso per parlare della morte, di come ognuno
la immagina, di chi addolora lasciare, specie se si hanno figli
piccoli.
Ogni volta mi colpisce il fatto che tutti si sentano più
alleggeriti dopo aver affrontato i fantasmi che tenevano
dentro.
A questo proposito troverete in appendice alcune “voci”
di donne che, all’interno dei nostri gruppi di sostegno
psicologico, hanno guardato in faccia la paura.
Ricevo sempre la conferma che le persone paghe della
propria esistenza temono meno l’idea della morte, mentre
le persone inappagate oppongono resistenza a questa idea
e la trattengono nella loro mente, intrappolate dalla paura.
Lettera ai medici di domani
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Ora vi lascio cari medici di domani, grata per il tempo
e l’attenzione che avete riservato a questo scritto.
A tutti voi auguro di essere capaci di lasciar parlare
“il paziente” che è dentro di voi e che possiate coltivare
la speranza, per poterla trasmettere agli altri nella vita
e nella professione.
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Lettera ai medici di domani
La voce di chi ha trovato
la forza di vivere
guardando in faccia la paura
“...sognavo che la morte mi afferrava per un braccio, con una forza
incredibile. Io non volevo andare con lei ma sentivo che se mi fossi
opposta con la stessa forza lei avrebbe vinto. Allora ho iniziato a
parlarle per convincerla che non volevo morire, che non volevo andare
con lei neanche per un minuto. Mi sono svegliata con la sensazione
che a un certo punto fosse stata lei a lasciarmi...”.
(Anna - Milano)
“...Il cuore del lavoro è stato, per me, quello di trovare il coraggio di
guardare in faccia la paura di morire e io sapevo che senza quel passo
non avrei potuto fare nulla per me stessa”.
(Annamaria - Padova)
“...per la prima volta dalla malattia potevo parlare di me, della mia
vita e soprattutto potevo guardare la malattia e la morte in faccia.
Se provi a dire a qualcuno intorno a te che hai paura di morire perché
hai avuto il cancro è facile che scappi, travolto dalla sua stessa paura
della morte. Mentre nel gruppo non è stato così. I fantasmi legati
all’idea della morte e della malattia si potevano affrontare ma
accompagnati, presi per mano con serenità, solidità, speranza e fiducia
di non essere soli. Ho trovato ascolto, solidarietà e mai pietà: mi sono
confrontata con donne la cui situazione fisica era anche molto compromessa e dalle quali ho imparato moltissimo. Ho potuto sperimentare
come il pensiero della malattia e della morte possono lasciare il posto
alla serenità, al desiderio di vivere intensamente e di essere se stessi
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fino in fondo e indipendentemente dalla situazione fisica. Il miglioramento della relazione con se stesse e con gli altri è stato infatti uno
dei temi centrali del gruppo e ha reso più facile l’elaborazione delle
angosce di malattia e di morte. Ha rappresentato per me la base non
solo di una crescita personale ma anche professionale”.
(Raffaella - Torino)
“...affrontare comunque le mie paure, anche quelle relative alla
malattia, mi ha cambiato anche nel modo di rapportarmi con chi curo.
È cambiato in meglio, nel senso che attraverso questa esperienza e la
consapevolezza che tutti noi siamo mortali, ho capito che la cosa più
importante è riempire di valenze positive la quotidianità”.
(Maria Grazia - Monza)
“...come se avessi così tanta paura di morire, da illudermi di poterla
combattere negandola... Ho imparato il modo di accettare la malattia,
come convivere con l’idea della morte guardandomi dentro senza
rinunciare a vivere la vita. Ora do ascolto ai miei bisogni e non alla
paura di una malattia da combattere: ho capito che il cancro non si
combatte ma si ascolta”.
(Enrica – Bergamo)
“...la mia vita era dominata dalla paura: paura di riammalarmi, paura
di morire, paura di vivere. Era come se avessi sempre un’ombra accanto
che mi impediva di pensare ad altro. Qui ho trovato comprensione e
speranza. Per me è stato fondamentale portare a galla le emozioni...
sentivo che negare, far finta che non sia successo nulla non è possibile.
Tutto affiora nei momenti più impensati, ti prende con una intensità
difficile da controllare e il risultato è un’angoscia fortissima. Affrontare
tutte le emozioni e le paure con un gruppo di persone che parlano lo
stesso linguaggio, che vivono le stesse esperienze, mi ha fatto sentire
alleggerita... a poco a poco mi sono liberata dalla paura che fino a
quel momento sentivo onnipotente perché non riuscivo né a gestire né
ad incanalare. Parlare e affrontarla nel gruppo mi ha dato la capacità
di controllarla, non scacciandola, ma senza darle il potere che aveva
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Lettera ai medici di domani
prima. Ora mi dico che è normale che ci sia, anzi sarebbe strano il
contrario! So che le cose che accadranno non sono in mio potere, so
che potrei riammalarmi e anche morire ma quel lato “chiaro”, che ora
vedo, mi fa dire che potrei vivere ancora a lungo, con la stessa probabilità. Do alla paura il permesso di venire ma non le do più il permesso
di dominarmi. È stato molto importante che nel gruppo non si parlasse
solo di cancro, perché questa esperienza ti costringe in qualche modo,
a guardarti dentro. Così, insieme alla voglia di dar voce alle parti di
te che, per mille motivi, avevi seppellito, vengono a galla le cose che
non funzionano e che ora, proprio alla luce di quanto accaduto, non
puoi più ignorare. Il cancro ti dà il “patentino” per vivere, ti dice: guarda
che stavi per morire, cos’hai intenzione di fare? Come se ti dicesse che
non hai tempo da buttare correndo dietro a cose che non cambieranno
mai, ma che puoi organizzarle per vivere diversamente e così, forse,
vivere anche di più...”.
(Fiammetta – Savona)
“...lunghi pomeriggi, interminabili serate davanti allo schermo, senza
sentire una parola, incapace di seguire un film, impossibilitata a leggere a causa di una lunga congiuntivite causata dai farmaci, momenti
in cui mi rendevo conto di essere da sola nonostante la costante
vicinanza dei parenti e delle amiche. Sola perché nessuno parlava il
mio linguaggio. Sola perché fortunatamente nessuno aveva mai vissuto
la malattia che stavo affrontando. E fu in quel periodo che cominciò
a germogliare la voglia di condividere con altre donne l’esperienza, la
sofferenza, il disagio, un linguaggio comune, la gioia di certi risultati. Chiedevo un giorno di ferie, di martedì, salivo sul treno: tre ore
di viaggio e un panino per pranzo. Dalla Stazione Centrale di Milano
raggiungevo via Livigno, poi, dopo un’ora e trenta piena di lavoro,
emozioni, confidenze, sorrisi e lacrime, uscivo felice da quella stanza
così accogliente, dove non mancava mai un fiore sul tavolino e, di
corsa, percorrevo il tragitto al contrario per non perdere la coincidenza
per tornare a casa e preparare la cena. Sedici incontri, sedici spostamenti per imparare a vivere meglio”.
(Nadia - Aosta)
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“...volevo trovare uno spazio per poter piangere, ma non per piangermi
addosso! ...dopo il primo incontro con voi ho sentito che la cosa era molto
guidata, molto contenuta e ho cominciato ad aprirmi con fiducia. Ho
apprezzato subito il beneficio che deriva dal poter parlare in gruppo di
cose molto difficili come la morte, della non voglia di morire che c’era in
comune e della voglia di lottare; ma soprattutto ho sentito che c’era un
percorso, che non era un parlare fine a se stesso ma che c’era un senso
perché potessimo vedere davanti a noi una strada e non uno stop. Era
come una garanzia di una nuova vita, che non sai quanto durerà, ma
in ogni caso nuova. Mi avete aiutato molto, anche se non sempre siete
state “fatine gentili”. Mi sono sentita portata con vigore verso questa
cosa, sentivo un forte quasi imperioso stimolo ad entrare in contatto con
questa risorsa del godere e del godere l’attimo... senza giudizio: male,
bene, buono, cattivo, sarebbe stato meglio se... nulla di tutto questo,
ma solo la presa di coscienza. Ora quando vengono a galla i dolori,
i rimpianti, le parti buie insomma, non le mando via, le accetto e questo
mi dà un senso più profondo della vita, un valore maggiore.
Togliere a tutti i costi i dolori della vita, negarli, ne toglie anche la
sostanza. Le ferite, in fondo, sono il concime della vita, la rendono più
corposa, più ricca. Se le neghiamo, neghiamo anche una parte di noi
stessi... non mi fa più così paura l’idea della morte... ogni storia, ogni
esperienza che parla della morte dice la stessa cosa: che chi ha avuto una
vita piena e intensa muore meglio. Io dico che senz’altro vive meglio”.
(Marina - Milano)
“...il cancro non è solo “il male”, può darti la possibilità di vivere una
seconda vita, più essenziale, più vera perché c’è la percezione che il
tuo tempo può essere breve e allora si può e si deve fare solo ciò che
conta veramente”.
(Leda - Lugano)
“...ero un po’ perplessa perché credevo che fosse un ghetto... invece
già dalla prima telefonata, ho avuto la sensazione che non fosse così.
Varcata poi la soglia, tutte le paure, le mie perplessità, svanirono: i
sorrisi, la gioia, la grande sincerità che si respira e la naturalezza degli
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Lettera ai medici di domani
approcci, sono un arricchimento difficile da spiegare se non lo si prova... qui si parla di tutto, si fanno progetti, si lavora, si va in vacanza,
ci si consiglia, qui si dicono anche cose che nessun confessore ha mai
sentito. Quando entri qui sei piccola e spaurita, quando esci sei più
grande e sicuramente più forte. Ho constatato, dopo questa mia esperienza, che spesso purtroppo si vive protesi nel futuro pensando
a quello che faremo, ma così senza vivere il presente, unica certezza
che tutti possediamo con o senza cancro”.
(Antonia - Lecco)
“...ricordo solo una grande paura di morire: avevo due bambini piccoli
e l’idea di lasciarli senza sapere chi si sarebbe occupato di loro mi
faceva impazzire. Mi sono iscritta ai gruppi di sostegno psicologico
e da lì ho iniziato a intravedere uno spiraglio nella mia disperazione.
Ricordo, ricordo la mia paura, ricordo anche le mie compagne, avevo
paura anche di loro, avevo paura di sentire le loro storie, avevo paura
che qualcuna potesse morire e di soffrirne... intanto sentivo, mano a
mano svanire la paura di morire: mi rendevo conto che non occupava
più così tanto spazio nella mia testa. Prima vedevo tutto nero, immaginavo la mia morte, il mio funerale. Poi mi sono accorta che la vita
stava prendendo il sopravvento e sono rimasta finalmente incinta. Ho
dovuto stare a riposo ma non mi pesava, ero sicura che sarebbe stata
una femmina. Ho iniziato a fare progetti, mi sentivo felice.
Prima quando sentivo parlare di tumore ne ero sconvolta, adesso
l’accettazione mi fa sentire più viva... guardo i miei figli, la mia
bambina... Faccio un mucchio di progetti che prima non facevo.
Ci sarò, ci sarò ancora per molto”.
(Giovanna - Milano)
“...il cancro da una parte ti fa venire in mente la possibilità di morire
ma dall’altra ti può fare apprezzare maggiormente la vita. È paradossale, vero? Ma proprio perché è così ti fa capire di non attaccarti alle
false cose: è bellissimo anche un giorno in più... un’amica mi ha chiesto
com’è stata la mia esperienza. Le ho risposto che più che davanti alla
morte il cancro ti mette davanti alla vita... adesso voglio vivere nella
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semplicità, nella quotidianità, godere delle cose piccole!”.
(Margherita - Roma)
“...avevo paura della vita, poi è arrivato il cancro e non più in fase
iniziale. Allenando la mente ad accettare l’idea di poter morire, mi
sono liberata dalla paura di vivere. Sono trascorsi più di quarant’anni
da quando ho trovato “un’amica dentro” che mi ha permesso di dare
ad ogni giorno un significato nuovo. Ho così imparato a dar vita al
tempo e non solo a chiedere tempo alla vita”.
(Ada - Milano)
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Lettera ai medici di domani
Ada Burrone
È nata a Fabbrica Curone (AL) il 26 aprile 1933; si è sposata a 20 anni,
ha avuto un figlio e all’età di 36 anni è stata operata di cancro al seno.
Ha fondato nel 1973 l’Associazione Attivecomeprima, grazie all’appoggio
del suo chirurgo Pietro Bucalossi (allora Direttore dell’Istituto Tumori di
Milano), con lo scopo di migliorare la qualità della vita delle persone
colpite dal cancro, attraverso un sostegno umano, psicologico e medico.
È autrice di testi per la conduzione dei gruppi di sostegno psicologico.
È pubblicista e Direttore della Rivista ATTIVE.
Tra i suoi scritti:
“La terapia degli affetti” con Franco Fornari ed. Attivecomeprima,
“Il gusto di vivere” con Gianni Maccarini ed. Oscar guide Mondadori,
“M’amo non m’amo” (in italiano e in inglese) ed. Pixel,
“La forza di vivere” ed. Attivecomeprima,
“La danza della vita” ed. FrancoAngeli.
Tra i premi e riconoscimenti ricevuti:
Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” (1977)
Riconoscimento Internazionale S. Rita da Cascia (1998)
Premio speciale Marisa Bellisario (2005)
Premio FAVO “cedro d’oro” terza giornata del volontariato (2008)
Medaglia d’Oro di Benemerenza Civica del Comune di Milano
(Ambrogino 2009)
© ATTIVE, Attivecomeprima e La Forza di Vivere sono marchi registrati.
© Attivecomeprima Onlus 2011 Tutti i diritti riservati.
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Postfazione
“Todo cambia”, cantava l’indimenticabile Mercedes Sosa: “cambia il
superficiale e cambia anche il profondo; cambia il modo di pensare,
cambia tutto in questo mondo”.
Nell’elenco dettagliato delle cose che cambiano la canzone non include
il sommovimento che la malattia introduce nella vita quando siamo
costretti, improvvisamente, ad abbandonare la terra sicura della salute.
“Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello
star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto
del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno
per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”
(Susan Sontag: Malattia come metafora).
Cambia, in superficie, la vita di chi si ammala; ma cambia anche, nel
profondo, la relazione tra chi offre le cure sanitarie e chi le riceve.
Cambia il rapporto medico-paziente. Non è una novità: è cambiato altre
volte nel corso del tempo. Tanto che uno storico della medicina, Edward
Shorter, ha potuto scrivere una monografia intitolata: La tormentata
storia del rapporto medico-paziente. Uno dei cambiamenti più spettacolari è avvenuto sotto i nostri occhi, in poco meno di una generazione: la
figura del medico ha clamorosamente cambiato di segno.
Era una autorità indiscussa ed è stata messa sotto accusa. Anche giudiziariamente: vent’anni fa le cause intentate ai medici erano una rarità,
oggi sono diventate una valanga. Il medico era una figura aureolata di
prestigio sociale e di autorevolezza morale: come un buon padre, o una
buona madre, prendeva le decisioni per il malato, decidendo al posto
suo la terapia e gestendo l’informazione in un modo che prevedeva
ampiamente la reticenza e anche la stessa menzogna al paziente.
Cambiato il rapporto, tra il medico e il malato si inseriscono moduli per
il “consenso informato” e minuziose prescrizioni per la gestione dei dati,
sotto l’egida della “privacy”. Nei casi migliori, medici e pazienti rischiano
di sentirsi estranei, in quelli peggiori nemici, chiusi in posizioni difensive
(à la guerre, comme à la guerre...).
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Lettera ai medici di domani
È in un contesto di questo genere che si inserisce la lettera di Ada
Burrone ai medici. A quelli di oggi, ma soprattutto a coloro che si preparano a esercitare la medicina domani. La lettera porta la buona notizia
di un altro cambiamento possibile, anzi auspicabile. Ancor più: di un
cambiamento già iniziato. Ada si fa consapevolmente portavoce di
questa avanguardia. Sono persone – donne soprattutto, passate attraverso
l’esperienza del cancro al seno – che vedono nel medico un alleato.
Non un superpadre al quale affidarsi ciecamente e passivamente, per
lasciarsi condurre; non un professionista insensibile e forse anche
interessato a guadagni scorretti, dal quale difendersi. Il buon medico di
oggi – e ancor più quello di domani – esercita la medicina nella consapevolezza che ciò che si richiede da lui è, sì, “scienza e coscienza”, ma
anche ascolto della persona che affronta il cambiamento richiesto dalla
malattia. L’ascolto è il primo passo verso una informazione corretta, non
riversata sul malato in maniera brutale. Soprattutto l’ascolto è preliminare
al processo della decisione condivisa, nella quale confluiscano, in pari
dignità, il sapere clinico del medico e le preferenze della persona malata.
Da parte sua, questo malato che si affaccia dal cambiamento in corso
assicura al medico la sua lealtà. Se sarà trattato come un adulto – ferito,
ma non ridotto all’impotenza, minacciato nella sua autonomia dalla paura,
ma pur sempre chiamato a “tenere la faccia contro il vento”, come dice
il poeta Saint- John Perse – considererà a sua volta il medico come un
essere umano. Rispetterà i suoi limiti, se il medico avrà dato prova del
giusto impegno. Perdonerà anche le sue debolezze, se non si sarà fatto
scudo della maschera da superuomo. Condividerà con il medico la
speranza, anche quando è un pane duro e amaro. Perché il modo più
umano di vivere la speranza è condividerla. Sullo sfondo della lettera di
Ada si profila un rapporto tra medico e persona malata che i Greci avrebbero messo sotto il segno della philìa, ovvero dell’”amicizia”.
Per dar ragione a Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico: sarà un progresso”.
Sandro Spinsanti
Direttore Istituto Giano, Roma
Lettera ai medici di domani
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grafica e impaginazione:
Alessandro Petrini, Via Orseolo, 5 - 20144 Milano.
[email protected]
Immagini della copertina.
Ritratto Ada Burrone: Caterina Ammassari
Paesaggio: Getty Images
Stampa:
Tecnografica srl, Via Degli Artigiani, 4 - 22074 Lomazzo (Mi)
[email protected]
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