Giuliano Agresti, un vescovo attento ai segni dei tempi
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Giuliano Agresti, un vescovo attento ai segni dei tempi
Giuliano Agresti, un vescovo attento ai segni dei tempi Giuseppe Bellia Descrivere un’esistenza significa sempre racchiudere dentro il recinto di una narrazione, per quanto onesta e misurata, il fluire incontenibile di una vita. Se poi si deve comprendere il senso di un’esistenza teologica, com’è necessariamente quella di un vescovo, allora l’impegno diviene ancora più oneroso e ardito. Per evitare di scivolare, anche inconsapevolmente nell’agiografia, vanificando la reale e autonoma confluenza di umanità e grazia, s’impone una premessa di metodo per aiutare chi ascolta a orientarsi sui motivi che presiedono alla mia dimessa interpretazione. Si richiede, infatti, oltre alla conoscenza critica del contesto personale e sociale in cui s’iscrive la vita di un uomo, e di un uomo di chiesa, anche una comprensione adeguata del percorso misterioso che la grazia compie in un discepolo di Cristo. Fermarsi a un solo aspetto, enfatizzare visioni parziali o non avvertire le zone d’ombra che accompagnano inevitabilmente il tessuto di un’esistenza umana, non produce conoscenza, ma abbagli che non aiutano certo a cogliere i modi in cui si coniuga in concreto il dischiudersi progressivo di un’anima al rivelarsi paziente e inafferrabile della grazia. Dono accolto che svela la «stupenda gratuità divina» e dispone all’alterità, aprendo finalmente il cuore della creatura all’assoluto di Dio, accettandosi come «donati» per donarsi agli altri. Un percorso di progressive rivelazioni e conseguenti aperture che disegnano le tappe, o meglio le stazioni, di un cammino di chi, aprendosi alla Parola ne è diventato uditore, «servo» e «testimone» (cf. Lc 1,2). È in questa prospettiva che si può collocare la figura del vescovo Giuliano, pastore aperto ai «segni dei tempi», sviluppando così il tema richiestomi. ✢ Del vescovo Giuliano si farà dunque una lettura mirata, infratestuale, della sua scrittura, per leggerlo cioè a partire dalle sue opere, ma anche esperienziale della sua testimonianza per cogliere l’intentio profonda della sua sequela di discepolo. Si richiede quindi un duplice impegno d’indagine, distinto ma non disgiunto, antropologico e spirituale insieme. Da una parte è doveroso esplorare con cura il vissuto di relazione di chi si pone come chi ascolta, accoglie e si adegua ponendosi come persona viva, libera, unitaria. Si deve esplorare, con simpatia e rispetto, il suo conversare interiore e fraterno perché, come amava ripetere l’Agresti, l’uomo è essere «relazionale, interpersonale, “parlante”, in cerca della “rivelazione del volto”». Dall’altra, si deve scrutare con discrezione il senso e il tracciato di un’esistenza religiosa orientata dall’azione dello Spirito, per ricomporre un itinerario spirituale, spesso inevidente e a volte perfino confuso, dove possa trovare spazio anche ciò di cui lo stesso discepolo ha consapevolezza e sa dire dell’opera dello Spirito nella sua esistenza. È una comprensione “nello Spirito” e tuttavia oggettiva e perciò comunicabile, che non agisce però sul terreno sdrucciolo dello Zeitgeist, dello spirito del tempo e nemmeno sul piano angusto e inaffidabile delle interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. La mia ricostruzione farà perciò riferimento a un atteggiamento strutturale della condizione umana che vede nell’ascolto accogliente della fede la libera risposta all’agire gratuito dello Spirito. Più esattamente, quando il credente si lascia condurre dal dinamismo del testo ispirato si produce in lui una metánoia, una metamorfosi constatabile del suo vissuto che modifica radicalmente pensieri, parole e costumi, configurando così un successivo e più coerente sentire teologico. Solo con questa dichiarata visione, d’impianto lonerganiano, si può accostare con scrupolo e passione la ricca e polimorfa produzione letteraria del vescovo Giuliano. La mia non sarà quindi un’indagine a tutto campo ma cercherà d’investigare, in modo infratestuale, le costanti e le svolte di un percorso di apertura di mente e cuore a Dio, ai fratelli e al mondo che ha segnato la vita dell’Agresti, senza imprigionare la sua ricca figura in una statica posa da foto ricordo. C’è ancora un’altra premessa da fare a questo mio modesto impegno di rievocazione della sua statura di uomo e di pastore. Chi parla è necessariamente influenzato dalla somma di ricordi personali che hanno caratterizzato un rapporto, un discepolato, un’amicizia di oltre dieci anni che, accanto a importanti affinità riguardo alla testimonianza da rendere a Cristo e al Vangelo, ha registrato consolanti convergenze sul misterioso cammino della Parola dentro il brutto fosso della storia; ma anche alcune comprensibili lontananze generazionali insieme a discordi valutazioni pastorali. Il mio sarà quindi un dire franco e necessariamente un po’ di parte, ma la parresia evangelica non teme di ibridare o contaminare la realtà, perché la memoria che si crede equa e pura non rappresenta il passato, lo recita. Chi non ha subito il fascino della sua prosa evocativa e cadenzata, l’attrazione pacata per quel suo periodare ampio e solenne, il richiamo radioso del suo parlare tosco e sonoro che gustavi non solo spiritualmente? Di ciò ci sarà eco in questo mio rievocare, lasciandomi ammaliare e quasi contagiare dal suo eloquio caldo e appassionato. Mi sembrava onesto dire del mio coinvolgimento, per invitarvi ad avere fraterna indulgenza, oltre che per le inevitabili negligenze e smemoratezze, per una ricostruzione che attingerà, accanto alle svariate pubblicazioni in mio possesso, anche a quel lascito vivo di memorie, di ricordi, di reminiscenze di chi è stato, non soltanto per me, maestro, modello e padre. Dietro la scorza del ruvido compagno di viaggio, abbiamo imparato a scorgere il volto del condiscepolo fedele, del fratello premuroso e sincero. A queste fonti attingerò a conforto. ✢ Da dove cominciare? Ricongiungendo gli scritti del nostro vescovo alla sua memoria, una prima notazione affiora pronta e lampante: in lui non s’incontra quel penoso distacco del sapere teologico dalla santità della vita o della dottrina dalla testimonianza, separando il ministero ordinato dalla vita secondo lo Spirito. Pur con tutte le debolezze e le contraddizioni della nostra natura, la ferrea disciplina dell’ascolto praticata dall’Agresti lo immetteva in un’esperienza dinamica e sempre in atto che gli richiedeva un costante impegno di discernimento per rinnovarsi nello Spirito e vivere, da povero e non da primo, ciò che leggeva per comunicare con sapienza ciò che viveva. Di questo percorso spirituale che coniuga storia e grazia si possono delineare tre tappe. Il Dio che si rivela e che continua a rivelarsi, «gestis verbisque», nel tempo degli uomini, è una delle novità teologiche più dirompenti e significative arrecate dal Vaticano II e, come vedremo, quanto mai presenti nell’esistenza teologica dell’Agresti. Come non ricordare la sua sana curiosità riguardo al senso scritturistico dell’esegesi colta, che mostrava, accanto allo stupore per la ricchezza inarrivabile della Scrittura, quel suo scrupoloso incanto per le profondità dispiegate da un sapere biblico condito di silenzio e di preghiera. Ma anche la sua burbera e divertita ironia verso quell’esegesi maldestra, piegata al vento di ogni moda, che cominciava erudita e finiva buia e pedante. Ripensando e rileggendo quanto da lui proclamato e insegnato nelle sue omelie, nei suoi interventi e nei suoi scritti, si riconosce il frutto di un’assimilazione creativa inesausta di chi per primo ascoltava la parola che proclamava. Disciplina austera che gli permetteva di mettere le ali anche a pagine bibliche più volte commentate e che per consuetudine e inerzia rischiavano di essere logore e ripetitive. E amava ascoltare e far ascoltare 2 chiunque fosse attento e innamorato della Parola. Non posso dimenticare di essere stato invitato, ancora da laico, a tenere incontri di lectio divina nella sua amata chiesa di Lucca, per favorire un approccio diretto al testo sacro. Torniamo a ricongiungere memoria e scrittura per scrutarne il senso e il verso. In un’esistenza teologica, gli antichi maestri ci hanno insegnato che c’è sempre un filo rosso che sembra collegare, come in una sorta d’inclusione provvidenziale, il dipanarsi spesso indecifrabile di opere e giorni, di fatti e parole, di attese e delusioni che solo alla fine si mostrano come integro e benevolo disegno di salvezza. Non è un espediente narrativo rinvenire l’ordito sotteso al vissuto cristiano, ma un’esigenza della fede il poter discernere i segni di una presenza provvidenziale che tesse una trama di continuità nella discontinuità di vita di un discepolo di Cristo. Per il nostro vescovo le fonti ci permettono un’agevole collazione. Cominciando dai primi scritti accessibili, dalla vigilia della sua ordinazione presbiterale, fino al suo testamento spirituale sono riscontrabili i motivi dominanti della sua spiritualità che, come vedremo, da un canovaccio sperimentato d’impianto convenzionale si trasformeranno in fulgidi e ancora attuali punti di luce che non cessano d’interpellarci. Possediamo a riguardo un documento eccezionale che permette di cogliere questo passaggio aurorale della sua storia, come amava dire, dove l’eredità del suo patrimonio preconciliare, è ripresa, in forma adulta e programmatica e proiettata in un futuro che governava il suo presente di cristiano e di pastore: si tratta della sua prima lettera pastorale all’inizio del suo ministero episcopale a Spoleto, nel Natale del 1969. Dopo essersi rivolto con casto eloquio ai sacerdoti, chiamati «fratelli e amici», ai religiosi e alle religiose configurati come «segno visibile dell’espansione della carità della Chiesa», si dirige ai laici della sua diocesi, dichiarandosi uno di loro, «eguale riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». Linguaggio inusuale per quel tempo che lasciava trasparire l’audacia di una ecclesiologia convinta, mostrando nel contempo quale consapevole intelligenza aveva del suo incipiente ministero episcopale che lo rendeva insieme fratello, pastore e padre. Comprensione spirituale e umana che gli derivava dall’ispirazione, per lui abituale, del tempo liturgico che viveva e dalle precise indicazioni conciliari da lui fatte proprie. Il Vaticano II, infatti, era divenuto un punto di non ritorno della sua vicenda spirituale, il crocevia della storia che obbligava ogni coscienza credente a un necessario e salutare confronto critico per giudicare secondo verità convenzioni religiose e abitudini devote che avevano ormai esaurito la loro carica innovativa. Come vescovo si sente mandato da Dio ad annunciare misericordia e salvezza «perché Lui è soprattutto misericordia e salvezza». Il tema dell’amore di Dio è antico e ricorrente per l’Agresti e soprattutto sperimentato ed è questa certezza che lo spinge a richiedere per sé «un cuore di fratello, una tenerezza di padre, un’anima di Pastore»; solo così può venire fruttuosamente in mezzo al popolo di Dio con quell’apertura spirituale indicata dagli stessi eloquenti e impegnativi segni biblici della liturgia della Natività che per lui sono: il silenzio in cui si rivela il mistero del Verbo incarnato, il nascondimento che lo caratterizza, la povertà da cui è circondato e la carità che ne è la radice. Conviene ad un Vescovo il silenzio che non è il semplice tacere, ma il pregare, il contemplare, l’ascoltare la Parola di Dio e le vostre parole di uomini. Se io non contemplo il volto di Dio, sono come il fico sterile del Vangelo che non può essere che maledetto. Se io non ascolto la parola di Dio, sono come un errante senza consiglio e come una canna agitata da ogni vento. Se non ascolterò voi, sarò come uno che batte l’aria, impoverito di sapienza e di esperienza. Per non essere così il grande Salomone domandò a Dio, come la cosa più stupenda, un «cuore che ascolta», un ascolto cioè di amore nell’impegno di tutto l’essere. Io sento ancora di dover venire a voi con la vera povertà dei servi del Signore, dei fanciulli, dei disarmati, con la povertà del Verbo che diviene «uno che non parla». Ma soprattutto voi avete il 3 diritto di esigere da me una grande carità con gli stupendi attributi che le dà San Paolo, il quale la chiama, fra l’altro, paziente, benigna, longanime, distaccata, umile, che tutto crede, tutto spera e tutto soffre. Quattro segni, silenzio, nascondimento, povertà e carità apostolica, che hanno una loro sorgiva freschezza e tuttavia vengono da lontano e portano in qualche modo l’impronta della spiritualità cristiana dell’Ottocento, come si è detto, giunta alle soglie del concilio Vaticano II, filtrata e arricchita per l’Agresti dalla lezione di alcune eminenti personalità della Chiesa fiorentina. Un’apertura convenzionale ai “segni dei tempi”, sostenuta da una spiritualità di stampo ascetico e volontaristico, ma che già porta i segni della sua personale rielaborazione, mostrando di muoversi a suo agio dentro l’ecclesiologia di comunione del Concilio che scoraggiava il trionfalismo e il clericalismo delle stagioni antecedenti. Promuovendo una visione innovativa della Chiesa il vescovo si doveva impegnare in un’opera di assimilazione e di revisione per adattare l’eredità spirituale della precedente stagione ecclesiale ai mutati contesti socio-culturali. ✢ Nella chiesa italiana i cardini essenziali della vita spirituale, d’impronta tradizionale, attorno a cui girava, fino alla metà del secolo XX, la spiritualità del ministero apostolico, erano: l’operosità della carità apostolica, l’ordinarietà di una santità vissuta nel quotidiano, la dimensione comunitaria del cammino di santità e infine il forte legame che questi valori avevano con una diffusa e radicata religiosità popolare. L’irrompere inatteso del Vaticano II, obbligherà a una revisione critica del patrimonio ottocentesco e chiederà adattamenti e ricomprensioni non sempre avvertiti e attuati in tutte le chiese. I vescovi del Concilio si sentiranno impegnati in quest’opera di revisione, privilegiando però solo due fronti. Da una parte sapevano di dover compiere un’opera di purificazione del devozionalismo popolare, assai diffuso e degenere che contagiava in senso idolatrico le giuste pratiche devozionali della tradizione e la stessa prassi sacramentale; dall’altra avevano compreso che si doveva guardare al mondo con occhio meno sospettoso e avverso, con più serena fiducia, ritenendolo oggetto dell’infinita degnazione del Padre e non più come luogo di forze ostili alla Chiesa da condannare e lottare. Il testo segnala dunque quella svolta che ha trasformato il convinto docente di apologetica in cantore delle meraviglie inesauste dello Spirito. L’Agresti affermerà ripetutamente che il tempo del Vaticano II è stato per lui l’occasione, il kairos che ha determinato l’inizio della sua conversione e della sua apertura fraterna al mondo. Apertura come conversione di mentalità, di sensibilità più che di fede o di costumi, ma che nondimeno operava in profondità, dovendo accettare e fare proprio l’insegnamento teologico e non moralistico del Vaticano II, insieme alla grande lezione di santità, più evangelica che ascetica, consegnata al nuovo secolo da Teresa di Lisieux o da Charles de Foucauld. Si può vedere questo cambiamento d’impianto spirituale dall’abbondante ricorso alla Scrittura, negli scritti precedenti in verità molto sobrio, e dal costante e convinto appello ai testi conciliari. Veramente il Concilio è stato per lui un punto apicale della sua storia spirituale, un dono, una grazia esigente, come lo definirà più volte, che gli aveva richiesto però un’opera di radicale e incessante rinnovamento, di sincera metanoia, un deciso cambiamento di testa e di cuore che tuttavia non reputava mai sufficientemente assunto e compiuto. Le indicazioni e i mezzi suggeriti dal Concilio erano considerati dal nostro vescovo strumenti di grazia che potevano «sgretolare le montagne dell’indifferenza religiosa» e divenire motivi di attrazione per i lontani. Si poteva dilatare la carità «nel modo più evangelico, intelligente e adeguato», soprattutto «verso i poveri, gli umili e i diseredati», rivelando così «la 4 manifestazione della potenza di Dio che rende liberi davanti a tutte le umane contraddizioni», sapendo annunciare in Cristo una liberazione possibile da ogni male, da ogni forma d’ignoranza e da ogni schiavitù. Di questa creativa operosità pastorale aperta ai lontani è stato un segno vivace il suo solerte e contagioso zelo missionario. In molti modi è stato capace di trasmettere alla sua chiesa, e soprattutto ai giovani preti, un sentire apostolico veramente cattolico e universale, rafforzando con criterio e generosità la comunione con le chiese del Brasile e del Ruanda come testimonia il fulgido esempio di don Giovanni Galli. Ma resta icona, ancora attuale, del suo spirito di solidarietà verso i perduti, verso i «nuovi dannati», l’invenzione delle comunità di recupero del Ceis che, nella formula poi diffusasi nell’intero paese, nascono più Lucca che a Roma. L’Agresti le aveva pensate in modo organico come terapia integrale incentrata in positivo sul valore della persona umana da reintegrare e non come piaga sociale da contenere e controllare. L’attuazione esemplare di questo progetto caritativo, di cui fino alla fine il vescovo Giuliano si volle occupare con impegno quasi settimanale, fu opera di don Bruno Frediani che certo sulla singolarità di questo impegno saprà dare più proficui e completi ragguagli. Si trattava di iniziative diverse che segnalavano in entrambi i casi un’apertura ai «segni dei tempi» per un’ecclesiologia di comunione che riteneva il compito missionario e caritativo un impegno delle singole chiese e non una funzione demandata a particolari specialisti religiosi. L’interesse verso tossicodipendenti e malati terminali mostrava l’ardore apostolico della spiritualità ottocentesca unito alle risorse della giovane ecclesiologia conciliare. La Chiesa si faceva presente non per condannare i «nuovi peccatori», ma per venire incontro in modo professionale e moderno alle richieste di aiuto di un mutato ambiente umano degradato di cui la società civile non sapeva farsi carico. Lo storiografo attento avrà modo di riscontrare i chiaroscuri di queste iniziative apostoliche e valutare se e come questa visione programmatica di “rinnovamento nella continuità” sia stata efficace. In ogni caso constaterà che anche davanti a comprensibili forme di adeguamento e di espansione e perfino nei momenti di stanchezza e di appesantimento, l’impegno apostolico dell’Agresti si manterrà costante negli anni successivi in tutta la sua opera scribale e ministeriale, componendosi alla fine in un sentire teologico sempre più coerente e riflesso, perché più partecipato e sofferto, come risulta dai suoi ultimi scritti. Apertura ai «segni dei tempi» sincera e produttiva quindi che dilatava il cuore del vescovo e dell’uomo di cultura sospingendolo a relazionarsi con pazienza e in modo attrezzato con il mondo e con i lontani, ma ancora bisognosa di ripensamenti e di purificazioni. Tra queste sue molteplici iniziative di apertura al nuovo come non ricordare il suo singolare contributo nel dialogo ecumenico e nel confronto interreligioso a livello locale e nazionale? Tra i suoi impegni di “rinnovamento nella continuità” non si può non fare memoria del ruolo attivo avuto per la restaurazione del diaconato nella chiesa italiana. Fu proprio l’Agresti il vescovo che ha curato la promozione e l’avvio del diaconato permanente nel nostro paese. Sotto la sua guida e con il suo accompagnamento le chiese di Torino, Napoli e Reggio Emilia poterono ordinare i primi diaconi sposati, condividendo la sua visione diaconale. Vedeva nella diaconia ordinata non una forma di promozione di laici per benemerenze pastorali, ma il segno sacramentale dei ministri dei poveri e dei lontani che rendevano credibile e testimoniale l’eucaristia del vescovo. Poteva una chiesa condividere il pane degli angeli se prima non imparava a condividere il pane terreno? Il diacono con il suo umile e disinteressato servizio poteva e doveva portare agli ultimi insieme alla consolazione dello spirito anche la carità della Chiesa. Inoltre, così pensava il vescovo Giuliano, con la trasparenza della sua peculiare conformazione a Cristo servo, il diacono poteva diventare, anche per gli altri due gradi dell’unico sacramento dell’ordine, una testimonianza evangelica per una sequela sempre più spoglia di ogni forma di carrierismo e di potere clericale. 5 ✢ Veramente l’Agresti è stato uomo e vescovo del dialogo e dell’apertura al nuovo e tuttavia porterà sempre una certa fatica ad accogliere subito e senza resistenze le voci profetiche più dirompenti che la Chiesa germinava dal suo stesso interno. Certo s’imponeva un’opera di leale discernimento per riconoscere l’opera della grazia nella tumultuosa vicenda dell’Isolotto e in alcuni scomposti atteggiamenti postconciliari. Era attento a cogliere la lezione esemplare di don Facibeni e del suo amato cardinale, come anche l’apporto spirituale di Barsotti, di Lazzati e di Giuseppe Dossetti, ma, come riconoscerà con umiltà in seguito, non aveva strumenti adeguati per accogliere con tempismo l’antipolitica di La Pira, la parresia sapienziale di don Mazzolari e, soprattutto, la dissonante voce profetica di don Milani. Più che di resistenze, dovute a ottusità e pregiudizi davanti a chi non aveva ritegno a uscire dagli schemi preordinati, si trattava per l’Agresti di riluttanze per una concezione idealizzata e schierata della Chiesa e del cristiano che ancora assegnava uno spirito di operosa conquista alla generosa azione pastorale del ministro, immaginando che le risorse umane poste al servizio dell’apostolato potessero generare frutti di conversione abbondanti e genuini. Concezione “interventista” dell’azione pastorale che vagheggiava di superare il ritardo epocale della chiesa con una rinnovata offerta di disponibilità del cristiano al servizio disinteressato. La lotta alle forze ostili del mondo si tramutava in una ricerca di consenso, in un’attesa di successo pastorale procurato da una dubbia voglia di piacere agli uomini oltre che a Dio: dov’è scritto che i preti si devono fare amare? Carità pelosa e ambigua che rischiava di offuscare la differenza cristiana e di rendere innocuo il Vangelo, come gridava inascoltato don Milani. In quest’ottica chiaroscurale si deve riconoscere la costanza con cui da pastore perseguirà questo disegno di benevola e fiduciosa apertura al mondo e ai fratelli, ma anche verso chi si dichiarava lontano o era nell’afflizione e nella prova. L’hanno sperimentata in molti la tenacia quasi infantile con cui non si rassegnava a perdere chi si diceva in crisi, specie tra i suoi preti. Ma anche la sua scorata e penosa rinuncia quando i ponti venivano spezzati e la sua eccessiva timidezza ostacolava la ripresa di un contatto. Vocazione al dialogo e attitudine alla riconciliazione quasi come imperativo pastorale, dovuto, più che a una comprensione ingenua della storia, alla innocenza della sua visione provvidenziale di bimbo povero che aveva conosciuto i rigori del freddo e i morsi della fame, come descriverà con schiettezza e pudore nell’Elogio della fatica. Una coscienza candida conservata in un cuore di fanciullo, sempre capace di meraviglia, che non finiva di stupirsi degli splendori del creato così come di crucciarsi delle ordinarie bugie dei suoi preti e dell’invincibile doppiezza del mondo clericale. La disciplina di severa ascesi volontaristica in cui era stato formato doveva stemperarsi un po’ per volta in un abbandono fidente e lo sforzo personale di sequela doveva lasciare sempre più spazio all’umile richiesta di aiuto. Il passaggio dalla conflittualità all’accordo, dalla distanza alla fiducia non era automatico e soprattutto non poteva ignorare o saltare lo scandalo della croce. C’era già qualcuno che a metà degli anni 50, ammoniva che la ricreazione era finita e che doveva cambiare il modo di vivere il ministero, anche se ancora oggi qualcuno, in alto e in basso, non se n’è accorto. Il ritardo nel capire la dissonanza della provocazione profetica era servito all’Agresti; lo aveva educato a riconoscere per tempo la mutazione epocale avvenuta nel tessuto sociale delle nostre Chiese, come si può vedere dalla lucida Lettera inviata in occasione della Visita pastorale del 1979. Uno scritto, indirizzato «al Popolo di Dio» della sua Chiesa che segna, a mio avviso, un’ulteriore tappa nel cammino spirituale di maturazione e di attenzione ai «segni dei tempi». Un documento in cui si parla con afflato ispirato e poetico di una Chiesa che è insieme comunione e comunità, sempre in religioso ascolto della Parola per una catechesi sapiente e testimoniale; una chiesa “tutta ministeriale” che prega e vive dei molteplici “doni” di Cristo, 6 affidando alla carità evangelica vissuta la sua più qualificata presenza nel territorio. Una riflessione ecclesiologica alta e sicura che con garbo e fermezza sa prendere le distanze dalla deriva consumistica della religione civile che promuove una chiesa sottoposta alle leggi di mercato e condizionata dall’omaggio interessato dei potenti. Una chiesa amorfa e inerte che non sa più dire e ascoltare profezia. Di questa parresia forte e mite verso il potere e i potenti si perderà traccia nei decenni successivi. Non sono il solo a sapere del suo impaccio mai sciolto nel presenziare alle cerimonie ufficiali dove, come lamentava, «accanto a una fascia tricolore e a una divisa si doveva incontrare uno zucchetto rosso». Non era forse «accanto ai poveri e agli ultimi il posto evangelico più indicato e felice per un vescovo»? Un atteggiamento «poco collaborativo» verso il potere politico, economico e statale che fin dal suo ingresso a Spoleto gli procurerà più di un richiamo curiale e che lo vedrà una vigilia di Natale mettersi rispettosamente in fila per riverire, «in obbedienza ai superiori», le autorità civili, come spiegherà in seguito. Nell’arcivescovo rimase sempre il segno di quell’innata attitudine alla pronta sottomissione propria dei contadini del Mugello. Una chiusura discreta ai potenti che non intaccava la sua apertura all’opera della grazia sigillata fin nelle pietre della sua amata Chiesa del Volto Santo. Quando guardo le nostre incomparabili pievi, penso alle pietre vive di cui è temprato il cammino delle popolazioni lucchesi; quando contemplo i monumenti dell’arte, penso agli invisibili monumenti di virtù costruiti per Dio dai nostri padri; quando sosto nella nostra bellissima cattedrale vedo il tempio vivo che, nelle nostre terre, sono stati e sono i miei fratelli nella fede. E se sempre mi attrae l’albero sempreverde sulla Torre Guinigi, è perché vi scopro la immortale fioritura dei nostri santi, dei nostri cristiani e la speranza che non veniamo mai meno al nostro passato, ma lo sopravanziamo in fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Ma, finalmente, cosa ha significato, in concreto, per il vescovo Giuliano essere attento ai «segni dei tempi»? La risposta, come si sta mostrando, non è scontata ma carica di travaglio perché segna il suo stesso percorso interiore di conversione, la sua crescita spirituale, la maturazione del suo sapere teologico. ✢ Nell’immaginario collettivo l’espressione è abitualmente intesa come vigile capacità di comprensione di quanto accade attorno a noi, per capire con intelligenza e tempestività il brusco divenire del mondo e il rapido evolversi dei contesti sociali e culturali in cui viviamo. Ma questo significato, ormai sigillato da un uso abitudinario nell’immaginario collettivo, non è aderente al senso evangelico e non deve sorprendere se è usato anche in luoghi autorevoli in modo inadeguato. L’espressione biblica evocata, sēmeia tōn kairōn, s’incontra solo in Matteo (16,8) e indica non tanto la capacità di riconoscere la congiuntura spazio-temporale in cui si vive, ma di comprenderla come kairos, come vera attività prudenziale già conosciuta da Ben Sira (42,18) come precipua attitudine divina che sa scrutare la profondità dei luoghi e dei tempi che disegnano la storia e che in Paolo diviene la stessa attività svelatrice dello Spirito che conosce i segreti e le profondità di Dio (1Cor 2,11). Nella polemica di Gesù con i farisei e sadducei in cerca di segni per credere, riferita da Matteo, Gesù afferma che il kairos è l’irrompere velato di Dio nella sua persona che culminerà nell’oscuro segno profetico di Giona, come svelamento della gloria inevidente del crocifisso: è Cristo il segno del kairos di Dio. Il percorso che dalla immediatezza del capire secondo la carne va al comprendere mediato dallo Spirito, rivela nella kenosis del Figlio tutta l’onnipotenza di Dio. È un tracciato spirituale e umano che indica 7 quell’apertura vera e sofferta del cuore che sa riconoscere la presenza nascosta di Dio nel mistero della croce e di quanti con Cristo sono crocifissi. Si può dire che per il nostro vescovo il lento progredire nella comprensione dell’espressione matteana, dal senso comune verso quello biblico, il passare insomma dall’apertura al mondo all’apertura al mistero dell’incarnazione e della croce, accompagna la sua vita, scandisce il suo viaggio verso la stessa kenosis di Cristo. A partire dalla sua prima omelia in occasione del suo ingresso a Lucca nel ‘73, ha già chiaro il suo ruolo di pastore. Vi saluto come in un abbraccio, forte e leale, pieno di carità, per tutti e per ognuno, semplice e disarmato, come conviene a chi vuol seguire Gesù. Chi è il Vescovo? È la vostra garanzia, perché è l’evangelizzatore e il maestro della fede. Egli, che porta la chiarezza e l’interezza della fede cattolica secondo la tradizione viva della Chiesa, si fa insieme chiarificatore per tutti voi dei segni dei tempi, perché la fede sia vissuta ora, come ora chiede a noi l’umanità. […] Perché la mia potestà è servizio ed essendo così, è umiltà e povertà e soprattutto è espropriazione di un uomo da parte di Dio, perché Dio, attraverso la miseria dell’uomo, si possa un poco mostrare a ciascuno di voi. [...] Due parole sintetizzano il modo in cui vengo a voi e sono la sintesi di tutto il Nuovo Testamento: Kénosis e Koinonía – Umiliazione e Comunione. E viene subito chiara, non tormentosa, ma precisa la croce del Vescovo, la morte cristiana, per cui il Vescovo è tale. C’è un’epigrafe in questa gloriosa cattedrale che dice: «La morte è immortale. Tutto il resto è mortale». Morte come amore senza confini. A tutti. Morte come fatica senza risparmio. Per tutti. Morte come umiltà, senza chiedere nulla per sé. Oh Dio mio, la grandezza e la verità di un Vescovo che possa minimamente raggiungere i termini di non chiedere nulla per sé! Morte come sparire, perché Dio trasparisca nella Chiesa. […] Io sono qui per questo, come il Ponte delle Catene sulla Lima. Qui Dio mi dà la grazia di sostenervi con quella forza e con quella gentilezza, di essere ponte per cui voi possiate passare a vostro piacimento per raggiungere il vostro destino. Ecco, siamo davanti a una visione della Chiesa e del ministero quanto mai solida, biblicamente sostenuta, ricca di corrispondenze patristiche che traspira il suo gusto per la bellezza. L’esemplarità martiriale e mistica del suo amato vescovo Ignazio di Antiochia lo spingeva verso una riflessione teologica innamorata del bello, verso un’estetica teologica vivida, fervida d’immagini e ricca di simboli nuovi e coinvolgenti che tendevano a trasfigurare l’ordinarietà della testimonianza cristiana in un percorso di luce e di gloria, di cui fanno fede anche i suoi dipinti segnati da lievità e innocenza oltre che i suoi scritti agiografici. Dal Ritratto di un’espropriata della povera Gemma, alla Vita nuova di Francesco d’Assisi, dall’Eroismo della carità di don Pietro Bonilli alla vita di S. Antonino Arcivescovo dei ronzini, si possono trovare in queste opere dal valore discontinuo, come in altri scritti di più sicura presa come l’Elogio della gratuità e Le fragole sull’asfalto, i suoi sempre più pressanti e convinti riferimenti al mistero ricapitolativo di tutta l’esperienza cristiana: il perdersi a motivo di Cristo e della sua Parola, quello svuotamento progressivo del discepolo che consegna, scrive l’Agresti, il dilatarsi schivo della gloria di Cristo nell’uomo in proporzione dell’espropriazione umile e povera accolta per amore del Vangelo. Si diceva in principio di quel filo rosso che collega in sequenza unitaria gli atti scomposti e isolati di un’esistenza cristiana; una traccia toccante di questo percorso inclusivo resta nell’immaginetta ricordo della sua ordinazione sacerdotale del ’45, dove scrive che «il vero Prete […] tanto più grande più soffre»; pensiero ripreso, forse inavvertitamente, nelle parole del suo congedo terreno nella Lettera ai diocesani pochi mesi prima di morire: «quando il vescovo più soffre, tutta la sua Chiesa viene misteriosamente promossa». E a non pochi di noi confidava: 8 «solo ora sto imparando a essere e a fare il vescovo». Chi ha potuto ascoltare o leggere le sue ultime omelie e i suoi ultimi scritti può valutare le tappe di questo percorso di svuotamento, di rimpicciolimento che lo ha preparato a vedere «quel volto di Dio che quaggiù ha cercato con entusiasmo». Apertura ai «segni dei tempi» non vuol dire adattarsi alla triste e garrula mondanità del mondo, ma un aprirsi con timore e tremore, e tuttavia con «invincibile gaudio», allo scandalo della croce, per giudicare tutto secondo l’ottica inquietante de la «folie de Dieu», della stoltezza sconvolgente di un Dio che a programmi, a piani, a progetti senza amore, come ricordava la piccola Teresa, continua a preferire un amore senza progetti. ✢ Apertura che si consoliderà nei meandri dell’opaca ferialità, scontrandosi con la pesantezza del quotidiano con cui anche i vescovi si devono misurare. Un percorso che qui non possiamo seguire nel suo sviluppo storico ma che ha forgiato la speranza del vescovo Giuliano preparandolo ad aprirsi a Cristo crocifisso e al mistero del «dolore a goccia a goccia» verso «il viaggio mortale». Come ci hanno insegnato i sapienti scribi d’Israele solo «alla morte di un uomo si svelano le sue opere» (Sir 11,27). E di questo suo incontro con sorella morte si deve adesso accennare. Chi ha trascorso con lui all’ospedale Niguarda le notti interminabili dell’agonia sa di quel suo inesorabile sprofondare nel terreno sabbioso della prova che sopraggiunse repentina dopo l’ultima devastante operazione. Da quel momento la sua sofferenza dapprima smaniosa divenne remissiva, rassegnata ma ancora avida di ascolto anche se sembrava un «muto cercare senza invenimento». «Beppe, com’era la storia dei tre deserti, dei tre abbandoni»? — Tre sono i deserti nel cammino della vita. Il primo lo incontri, scabro e tormentoso, quando hai lasciato la vergogna dell’Egitto ma hai voglia delle sue cipolle. Il secondo, infido e rancoroso, quando scopri che nel viaggio sei solo, perché ti hanno lasciato i sicuri compagni dell’esodo gioioso. E il terzo deserto arriva quando ti lascia la speranza perché lì è Dio stesso che, infine, ti abbandona. Come fu per Abramo, come accadde al Figlio sulla croce. E ancora: «Che storia è quella dell’uomo di Cirene, che c’entra lui con la croce»? — Sì, francamente la sua vicenda è banale, la sua volontà irrisa, il disegno solo casuale; non per suo desiderio o per scelta intrepida condivise le sofferenze di Cristo e ne portò la croce; ma perché costretto, perché forzato, perché violato ci dicono i vangeli (Mc 15,21; Mt 27,32e Lc 23,26). Allora s’acquietava e dalla sua pudica mutezza traeva un mormorio litanico che diveniva quasi un canto che gli procurava luce e pace: «solo così, solo così», ripeteva, «solo perché forzati si porta la sua croce; solo così, solo così». Poi fu il buio e un attendere ansioso la luce del cuore più che il bruzzolo dell’alba fino a quel suo progressivo spegnersi e tacere dove ha conosciuto la prova finale che lo ha consacrato vescovo e discepolo. L’ardente cantore del dono che aveva scritto pagine elevate sulla “santa morte” come ultima risposta d’amore da offrire all’Amore crocifisso sperimentava adesso la sua afasia interiore davanti al silenzio della Parola che «tutto scopre e taglia» e chiedeva inesausto: «quanto manca al mattino, quanto ancora»? Quando parlava della fede, anzi della «fede terribile» che lo spingeva a descrivere anche la fredda estate dei morti come dolce e gaudiosa; quando si attardava a contestare il rifiuto della morte di certa cultura disegnando scenari di speranza dove pessimisti e apocalittici erano 9 gentilmente congedati; quando invitava ad ascoltare i mistici illuminati della fede per cacciare ogni forma di turbamento e di malinconia che facevano precipitare l’incontro con la fine in tragedia, non aveva ancora fatto esperienza del morire come continuo finire. Ma quando sorella morte per lui si svestì di ogni orpello letterario, di ogni figurazione simbolica e di ogni enfasi spirituale e, spiccia e gelida, accennò a mostrare il nulla del suo volto, allora per lui fu subito la fine. Due svuotamenti progredivano in lui di pari passo raggiungendo vertici di “vanità” e di non senso tragici e opprimenti: quello del suo incessante sciogliersi ma, soprattutto, l’impressionante e reale svuotamento divino della sancta et individua trinitas. Il suo luogo teologico di riferimento era diventato il libro del Qohelet che accostava con estremo riserbo accompagnandolo con il sospiro dei Salmi. Nell’ultima settimana il suo parlare era divenuto sempre più fioco e indistinto e mormorava suoni, fonemi per noi incomprensibili e oscuri. E quando finalmente Marisa, la sorella tenerissima, riuscì a connettere le sillabe di quello che a noi sembrava un bofonchìo lento e svigorito e gli chiese: «o Giulianino, o che tu sei tentato»? La sua risposta, accompagnata da uno sguardo che invocava conforto e sostegno, fu nitida e implorante: «a la grande, a la grande»! Per molti giorni, nell’ora della morte, aveva di continuo borbogliato quella preghiera per noi lontana e impensabile sulle sue labbra: «non c’indurre in tentazione». Uscì da questo affannoso e cupo torpore d’improvviso una mattina della metà di settembre, quando sollevandosi da solo sul letto e fissando con occhi grandi la bianca e nuda parete, con voce inaspettatamente forte e chiara, carico di stupore ci gridò: «allora c’è; l’è vero, l’è vero», appena contrariato dal nostro smarrito non capire e non vedere nulla, continuando a dire «l’è vero, l’è vero»! Negli ultimi due giorni, fu un affiorare e uno sprofondare, accompagnato da salmi e da silenzi; ringraziamenti per molti, benedizioni per i preti in missione e per quanti gli avevano obbedito e suppliche per tutti e fu un gioire d’incontri e soprattutto di ritorni attesi e insperati. Come nel caso di quel massiccio prete lucchese, per anni lontano e in contrasto con il suo vescovo, che mostrò in quelle ultime ore un’intesa affettuosa e antica con una competenza rara nell’accudire con delicatezza a un malato terminale che stupì tutti. Di lui il vescovo Giuliano disse: «Lo aspettavo, mi doveva tornare; ha il cuore buono». Qualcuno gli fece notare che fuori a visitarlo c’erano anche quelli che s’erano lamentati di lui fino a Roma; ma lui, fermo e sereno, a dire: «io sono il vescovo di tutti». Ecco il vescovo Giuliano: un uomo e un pastore, un discepolo che si era lasciato governare dal futuro di Dio percorrendo e insegnando «la lunga via delle cose penultime». Servo accorto e amico fedele è stato trovato vigilante quando nel cuore della notte si udì il grido: «ecco lo sposo, andategli incontro». Fu pronto a incontrare il suo Dio crocifisso con l’entusiasmo del suo venerato vescovo Ignazio, «carico di amore più che di catene» e con il delirio d’amore del suo diletto Francesco che, pochi giorni prima di morire, diceva ai frati che «tutto era ancora da ricominciare». E proprio al termine del giorno delle Stimmate di san Francesco il Signore volle la sua compagnia per sempre. Il francescano padre Agostino Lundin, psichiatra svedese convertito, fondatore del Centro Ecumenico Nordico di Assisi, per molti anni suo confessore e anziano nel dolore, nell’anniversario della sua nascita al cielo volle pubblicamente testimoniare che il nostro vescovo era uno di quei pochi che non aveva mai perduto la grazia battesimale. Un albero non potato fa solo foglie, aveva scritto il vescovo Giuliano, e se oggi, vent’anni dopo, la mia testimonianza in questo luogo è stata possibile è perché anche il mio disutile dire è un frutto del suo gaudioso amore di pastore e di padre. 10