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Palazzo Antonini Mangilli del Torso in Elaborazione più recente

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Palazzo Antonini Mangilli del Torso in Elaborazione più recente
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GIORNATE FAI DI PRIMAVERA
2016
(19-20 marzo)
Luoghi nascosti a Udine e Gemona
PALAZZO ANTONINI – MANGILLI –
DEL TORSO E IL SUO GIARDINO
Cultura e prestigio familiari
UDINE
Le notizie sono state raccolte, assemblate e stese dalla prof.ssa Francesca Venuto,
referente del progetto “Alla scoperta dei beni culturali della città e del territorio”
per il Liceo Classico “J. Stellini” di Udine.
Materiale scolastico ad uso interno.
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IL PALAZZO ANTONINI ~ MANGILLI - DEL TORSO A UDINE
Il Palazzo udinese di Piazza Garibaldi che sarà aperto nelle Giornate di Primavera 2016 rispecchia il ruolo
fondamentale delle famiglie committenti che l’hanno fatto costruire, l’hanno arricchito e trasformato lungo il
corso dei secoli: gli Antonini, friulani, divenuti nobili in seguito a un cursus honorum di grande rilevanza, i
Mangilli, commercianti d’origine bergamasca poi nobilitati, così come la famiglia borghese dei del Torso, di
origini triestine, poi stabilitisi a Udine, commercianti anch’essi e poi inseriti per la loro intraprendenza e
prestigio nella nobiltà locale. I loro intendimenti rappresentativi sono rispecchiati nell’ampio edificio che
riflette il ruolo eminente svolto da ciascuna di queste casate nella società cittadina.
La storia dell’edificio, secondo i documenti, inizierebbe il 22 febbraio 1447, quando ser Erasmo degli
Erasmi, «decretorum doctor», livellò [si riferisce a contratto di livello: rendita]a m° Giovanni tintore, figlio
del defunto Stefano di Ferrara, «domos suas de Grezano muratas solleratas cuppisque copertas cum curia et
orto pospositis sitos in burgo Grezano extrinseco, in contrata Della Bevorchia».
Fuori porta Grazzano (esistente e ancora ben visibile alla fine del secolo scorso all'inizio dell'attuale via
Cesare Battisti, sull'angolo di palazzo Antivari-Kechler), davanti ai vasti spazi divenuti in seguito piazza dei
Barnabiti (e oggi - con non lievi modifiche - piazza Garibaldi), sorgevano alcune casette tra le quali due
dell’Erasmo ed una del fratello Antonio. Quest’ultima poi sarebbe passata in eredità alla famiglia di
Giovanni Ricamatore (il celebre artista Giovanni da Udine), che proprio là vide la luce il 15 ottobre 1487.
Era quello luogo di tintori, grazie anche alla presenza della roggia che attraversava (e attraversa ancora,
benché coperta) e che creava non poche occasioni di litigio per il suo uso.
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Nel 1452, il 17 dicembre, dopo che risse frequenti erano scoppiate per l'uso del lavatoio tra l’Erasmi ed un
certo Andrea, figlio di Francesco Zani di Spilimbergo, ad evitare «omnem scandalum et ramchorem
existentem inter prefatos tinctores», si deliberò che allo stesso Erasmo fosse concesso «locus habilis et
idoneus in quo construi et fieri facere possit unum lavadorium in quo possit lavare facere possos sue
tinctorie». Verso la fine del Quattrocento anche il figlio dell’Erasmi, Ambrogio, viveva in borgo Grazzano
prope rugiam e che, il 16 marzo 1518, la casa Erasmi fu presa in affitto, per 9 ducati l’anno da
Giovanni Fontana, architetto lombardo (ma abitante a Venezia) che Udine aveva chiamato a ricostruire il
castello, assieme all’ormai famoso allievo udinese di Raffaello, distrutto dal terremoto del 1511 e da
successivi incendi: impresa che ebbe inizio il 2 aprile 1517, su progetto dello stesso Fontana, ed alla quale
per qualche tempo attesero contemporaneamente più di cinquecento persone.
A partire dal Cinquecento Udine rinnovò suo volto: anche la committenza privata, accanto a quella pubblica,
volle evidenziare il segno del proprio prestigio. Tra i mercati e i borghi esterni sorsero i palazzi delle casate
inserite nel Libro d’oro della nobiltà udinese, istituito nel 1518, ma anche i palazzi di famiglie che
aspiravano all’aggregazione al patriziato, arricchitesi soprattutto con le attività commerciali. Si costruiva
secondo un modello di decoro e magnificenza urbana che conobbe il suo primo grande esempio nel palazzo
degli Antonini progettato da Andrea Palladio.
Ed è proprio all’incirca verso la metà del XVI secolo che un altro ramo della famiglia Antonini acquistò la
proprietà degli Erasmi.
Una lapide murata nel cortile interno del palazzo attesta che la costruzione dell'attuale palazzo fu iniziata nel
1577 per decisione di Daniele, figlio di Andrea, fratello del più giovane Floriano, e marito della nobile
Felicita Hofer di Duino:
DANIEL ANDR. F./ ANTONINUS/ AEDES A FU(N)DAME(N)TIS EXCITA/TAS
SVORV(M)Q(VE) COMODI/ TATI PERFECIT EXORNAVITQVE)/MDLXXVII.
SVAE
Tuttavia, secondo recenti indagini archivistiche che verranno pubblicate a breve, l’edificio era però stato
realizzato già alla metà del Cinquecento, quando Daniele (una volta divisi i beni paterni con gli altri fratelli
in seguito al testamento del padre Andrea), vi andò ad abitare con la moglie. La lapide, che indica una data
successiva, verosimilmente allude a ulteriori lavori di completamento proseguiti ben addentro agli anni ’70
del Cinquecento.
GLI ANTONINI - La famiglia era originaria di Amaro, in Carnia, poi dal ‘400 un ramo della casata si portò
a Venzone, e alcuni membri da lì a Udine.
Nel 1491 gli Antonini acquistarono all’asta dalla Serenissima, insieme con il portogruarese Lucini, la
Gastaldia di Saciletto e successivamente, nel 1516, anche la parte del Lucini.
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Obbedendo alla politica della Serenissima volta alla infeudazione di nuovi territori, acquistati anche da ceti
intermedi mercantili in possesso di cospicui mezzi, gli A. erano entrati appunto in possesso dell’intera
Gastaldia [circoscrizione amministrativa governata da un funzionario della corte, che comprendeva anche la
giurisdizione nel civile e criminale] di Saciletto (1491), nel basso Friuli, già feudo privato del Patriarca. Nel
1687 Saciletto fu trasformata in feudo comune a tutti i rami degli Antonini, con ingresso nel Parlamento
della Patria del Friuli.
Questa concessione rientra in una politica dei feudi che Venezia attuò a metà Seicento per sostenere i debiti
causati dalla guerra di Candia. Gli Antonini potevano vantare come merito l’eroe Daniele, morto nella guerra
di Gradisca, già allievo di Galilei a Padova e onorato con un monumento equestre in duomo a Udine.
Nel 1518, dopo la serrata del Consiglio, gli Antonini per la loro ricchezza vennero iscritti nella prima
matricola nobiliare [registro nel quale sono iscritti gli appartenenti a speciali categorie]: Andrea, padre di
Daniele (il nostro personaggio), Bernardino e Floriano veniva perciò riconosciuto come autorevole esponente
della classe dirigente locale. Ciò costituì una svolta decisiva per la diretta partecipazione della nuova
aristocrazia agli organi comunali e alla spartizione delle cariche pubbliche (le serrate consiliari si susseguono
in tutti i maggiori centri della Terraferma soggetti alla Dominante).
La politica giurisdizionale friulana, a marcato carattere feudale, provocò un congelamento del settore
economico e l’assenza di una classe imprenditoriale (la politica protezionistica veneziana stroncò i
rapporti societari tra operatori toscani e famiglie autoctone più dinamiche: 1451, banditi i toscani
dall’intero territorio). La supremazia dei castellani (costituenti una nobiltà composta di fortune e
aderenze) vide il contrapporsi di una struttura dirigenziale di diversa estrazione sociale: gli A., ad
esempio, vennero a coprire le più prestigiose magistrature del governo cittadino, strumenti essenziali
alla detenzione e spartizione del potere. Poi il ruolo degli A. si allargò anche al campo della politica
annonaria e all’attività assistenziale (con spiccate valenze bancarie).
In parallelo gli Antonini acquistarono fondi nell’area urbana a cavallo della III cinta difensiva. La famiglia si
distinse all’interno dell’élite dirigenziale cittadina, ma anche nell’intero territorio della Patria, specie nella
fascia sud-orientale (a N-E di Aquileia), nella fascia centrale e in altri luoghi più discosti (oltre il
Tagliamento).
A ciò seguì l’espansione in città con questo e altri numerosi palazzi, tra cui emerge il Palazzo progettato dal
Palladio già ricordato, Palazzo Antonini Belgrado (attuale sede della Provincia di Udine) e Palazzo Antonini
sede dell’Università di Udine. A questi va aggiunto il Palazzo che si affaccia sull’odierna Piazza Garibaldi.
Il palazzo sulla Piazza dei Padri Barnabiti – l’ordine religioso che si stabilì in quel comprensorio urbano,
fondandovi un collegio-convitto di cui si tratterà in seguito - trovò la sua sistemazione definitiva, in forma
monumentale, almeno per quanto riguarda la facciata, poco prima del 1680: scrive infatti, a ragione, in
quell'anno Fabio della Forza: «Daniele [edificò] nella contrada di Grazzano fabbriche molteplici, ora
accresciute a doppio palaggio». Il nuovo palazzo inglobava anche la casa vicina, più piccola, portando ad
unità il complesso.
Non si sa il nome di colui – architetto o capomastro - che ideò la felice soluzione, apprezzabile nella facciata
esterna, caratterizzata dal doppio portale, a evidenziare la presenza di due esponenti di questo ramo
familiare: nel Seicento, infatti, la casa fu abitata da Alfonso, celebre uomo d’armi e poeta che pubblicò le sue
prime Rime sotto il nome accademico di «Sereno», e dal fratello Giacomo, capitano di cavalleria e
governatore di Udine ma anche persona brillante per le straordinarie doti oratorie.
Ricorda lo storico Capodagli che Alfonso, «essendosi unito con alcuni altri Soggetti letterati l’anno 1606,
istituì la nobilissima Accademia de gli Sventati, e le diede degno ricovero nel proprio Palazzo; onde con
universale consenso de gli Academici vi fu creato primo Principe della medesima».
L'Accademia degli Sventati ebbe sede in Palazzo Antonini fino al 1653: in quel tempo - come nota nel 1660
Gio. Francesco Palladio de gli Olivi - «Camillo Gorgo, singolare amatore dei virtuosi l’hà ricevuto nel suo
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[palazzo], ove egli ha eretto un riguardevole appartamento, e con generosa prodigalità ha egli assignata
un’annua rendita, con la quale possa mantenersi un Academico di essa allo studio in Padova».
Il palazzo di Borgo Grazzano fu per molte generazioni la dimora degli Antonini, che la arricchirono via via
di preziosi dipinti e di una ricca raccolta di statue e frammenti romano-aquileiesi. Vi abitò, tra gli altri,
Daniele, figlio di Giacomo, il quale sposò la ricca ereditiera Caterina Mantica, sorella di quel Carlo che nel
1680 eresse su un terreno di sua proprietà presso il Duomo il primo teatro di Udine, chiamato appunto
«Teatro Mantica».
L’ultima discendente di questo ramo degli Antonini, Caterina, ricca ereditiera che nel 1733 era diventata la
moglie del nobile padovano Francesco Papafava dei Carraresi cav. di S. Stefano ed aveva stabilito, come da
espressa richiesta del padre, che i suoi discendenti aggiungessero al proprio il cognome materno, vendette il
palazzo nel 1746 alla famiglia Mangilli.
L’acquirente era un certo Gio. Batta, oriundo di Bergamo, venuto in Udine come «giovine di botega di
panina et atese con grande digenza al negotio di panina […] et sede con cui accrebbe forte il Capitale di
esso»: divenuto negoziante, si arricchì a tal punto da poter lasciare un patrimonio di ben duecento ducati.
Una volta posta la sua dimora nel prestigioso palazzo di fronte alla nuova chiesa dei Barnabiti, “qui visse il
resto dei suoi giorni con decoro di servitù, livree et carozze”, orgoglioso che il figlio Benedetto ne seguisse
le orme, dimostrandosi un altrettanto abile uomo d'affari.
Dell’importante posizione sociale dei Mangilli fanno fede anche le numerose opere d’arte rimaste ad
abbellimento del loro palazzo e quelle ricordate dalle fonti, tra cui dipinti del pittore udinese 500esco
Francesco Floreani e del pittore tardosecentesco friulano Sebastiano Bombelli.
LA FAMIGLIA MANGILLI
I Mangilli erano una famiglia di commercianti bergamaschi (originari di Caprino, terra che faceva parte della
Repubblica di Venezia) che si trasferirono in Friuli nella metà del Seicento (Lorenzo Mangilli aveva ottenuto
la cittadinanza a Udine già nel 1677). Lorenzo Mangilli (allora con una sola elle) era arrivato a Udine
nel 1650 coi figli Benedetto, Giobatta e Girolamo. Presero casa in piazza San Giacomo, poi - grazie
a una permuta con Leonardo Caiselli (altra illustre famiglia udinese di commercianti di origine
lombarda) - si trasferirono in via Mercatovecchio 3. L'attività prosperò In poco meno di mezzo secolo
divennero proprietari di un’ampia serie di beni immobili nella zona che va da Udine a Povoletto. A Marsure
di Sotto sorse la loro prima residenza di campagna.
Lorenzo, figlio di Giobatta, proseguì il ramo di Udine e suo figlio, pure Giobatta, nel 1746 acquistò
il palazzo nobiliare di piazza Garibaldi (allora dei Barnabiti). La rapida ascesa del commerciante e i
suoi sforzi per ottenere prestigio sociale sono documentati non solo dal nuovo palazzo e dalla servitù in
livrea: il 27 marzo del 1752 il Libro d’oro della città di Udine registra l’ammissione alla “cittadinanza
nobile” di “quattro famiglie popolari cioè quella dei […] Mangili mercante di panni Gio. Batt. e i suoi figli”.
Ciò non gli bastò e in seguito riuscì a comperare il rarissimo predicato di marchese della Repubblica di
Venezia (e dell’Abbazia di Moggio), che lo vendette per necessità di denaro.
UN PASSO INDIETRO: Sebastiano Bombelli ritrasse, nel 1665, un avo di Gio.Batta dal nome di Benedetto in un
celebre dipinto, ricordato da Fabio di Maniago come “il più bello sia pel colorito, sia pel rilievo, sia per l’anima”. Si
tratta della prima opera certa eseguita al rientro in Friuli dopo il soggiorno in Emilia del Bombelli (dove apprese lo stile
di Guido Reni e del Guercino), che “da tutti era richiesto per ritratti, per la singolare grazie di rendere la somiglianza e
l’abilità di attirarsi le simpatie”. Il dipinto, rivela la propria modernità nel taglio di tre quarti dell’immagine, in quel
leggero ruotare del personaggio verso il riguardante, nella mobilità delle mani, portate in primo piano a misurare lo
spazio. Ma è sul viso che si concentra l’attenzione di chi ammira quel viso “colloquiale e bonario”, emergente
dall’ombra, individuato dalla lama di luce che fende trasversalmente lo spazio pittorico. Il linguaggio figurativo si
risolve nell’aderenza al vero, di somiglianza ma anche di introspezione psicologica e di rara capacità nel rendere
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l’animo del personaggio. Nel ritratto ricordato Benedetto si presenta in tutta la sua fisicità, con il volto largo e
sanguigno, i lunghi radi capelli fluenti, baffi e pizzo ben curati, sguardo penetrante, mani in posizione colloquiale.
Il pittore Sebastiano Bombelli (Udine 1635 - Venezia 1719) – E’, per ragioni anagrafiche, interprete di un’epoca di
passaggio, a cavallo tra ’600 e ’700, nel momento in cui il Barocco veneto, saturo di reminiscenze manieriste si volge a
linguaggi espressivi più liberi. Nel campo specifico della ritrattistica, si traduce in una pittura che si presenta corsiva e
attenta al dato di realtà, tradotto in immagini di vivida naturalezza. È a questo contesto che fa riferimento Bombelli,
formatosi dapprima a Venezia e, in seguito nella bottega di Guercino a Bologna, dove egli decise di dedicarsi
esclusivamente al ritratto, genere pittorico nel quale offrì le sue prove migliori e che gli garantì fama ed onori presso le
maggiori corti europee. Esaminiamo cosa scrisse in proposito Maurizio Buora, nel “Messaggero Veneto” del 29 marzo 2009 in occasione della
cerimonia di consegna – avvenuta martedì 31 marzo dello stesso anno - da parte dalla famiglia Morelli de Rossi
(l’ingegner Angelo Morelli de Rossi lo destinò ai Civici Musei di Udine) del celeberrimo dipinto. La pregevole e
illustre tela è andata ad arricchire il consistente corpus di ritratti del XVII secolo della Pinacoteca dei Civici Musei. Il
dipinto (il cui valore ammontava a 100 mila euro), è stato presentato dall’allora Direttore dei Civici Musei dott.
Maurizio Buora e dalla conservatrice dott.ssa Vania Gransinigh ed è stato posto in evidenza all’interno della Galleria
del Castello di Udine.
M. Buora, Benedetto Mangilli ritratto da Bombelli: una storia udinese d'ascesa sociale
Intorno alla metà del Seicento arrivano da Bergamo a Udine alcuni rappresentanti della famiglia Mangilli che
esercitano l'arte della mercatura. Essi vengono una generazione dopo altri bergamaschi, come i Caiselli e i Mosconi.
Giova ricordare che la produzione della seta, prima appannaggio quasi esclusivo dell'Italia meridionale, si diffonde
con la coltura del gelso a partire dal 1570 circa verso il Nord, anche a Bergamo (dove si rifugia il povero Renzo
quando è costretto a lasciare la Lombardia) e nell'alta Lombardia. Dall'inizio del Seicento queste zone hanno quasi il
monopolio della produzione in Italia. Ciò può spiegare come mercanti – di tessuti – si spostino da Bergamo al Friuli,
entro il territorio della Repubblica veneta. Caiselli, Airoldi, Maioli, Mosconi, Sigallino e Mangilli sono nomi di
mercanti che in più ondate nella prima metà del Seicento da Bergamo si stabiliscono a Udine. In particolare i Mangilli
(Benedetto è accolto come cittadino di Udine nel 1661) trattano la pannina, nome collettivo che si applica tanto alle
pezze di lana quanto a quelle di seta (broccato), materiale protetto da dazi contro le importazioni. Tra i bergamaschi vi
è una sorta di naturale affiatamento, tanto che i nuovi arrivati trovano ospitalità tra quelli arrivati prima, ne affittano
le case prima di costruirne di proprie. È quanto capita ai fratelli Benedetto (nato nel 1609) e Girolamo Mangilli, che
ben presto si inseriscono nella società locale: nel 1659 acquisiscono con permuta dai Caiselli un edificio in pieno
centro, lungo l'attuale via Mercatovecchio, tra via Rialto e via Mercerie. All'età di 54 anni, nel 1665, si fa ritrarre dal
pittore udinese Sebastiano Bombelli, allora l'artista più in voga in città insieme con il coetaneo Carneo. Pochi anni
dopo il fratello Giovanni Battista Mangilli sarà raffigurato dal Carneo tra i deputati della città di Udine. I Mangilli,
dunque, fanno parte di una classe in ascesa, perciò non sono ancora registrati nel gotha cittadino che si trova nel
volume Udine illustrata di Gio. Giuseppe Capodagli, apparso la prima volta nel 1659 e ristampato nel 1665. Questo
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volume costituisce una sorta di ritratto ideale della città, e a esso fa da pendant la veduta di Joseph Heintz il Giovane
databile al 1652, ora in castello, su cui si basa la successiva veduta prospettica a stampa del 1661 di Gazoldi, Cosattini
e Ruffoni.
L' élite nobiliare, politica e soprattutto economica (anche da poco cooptata), ambisce dunque a lasciare traccia di sé
attraverso i mezzi tradizionali, che sono l'architettura (intorno alla metà del secolo il completamento dell'edificio del
Monte di Pietà, principale cantiere cittadino dopo i lavori del castello, qualifica il centro urbano di via
Mercatovecchio), la letteratura e soprattutto la pittura, di cui appunto Bombelli e Carneo sono i massimi
rappresentanti. Come appunto i Caiselli anche i Mangilli amano farsi ritrarre da pittori alla moda e appaiono bene
avviati verso l'ascesa sociale che è sancita dal conseguimento della nobiltà locale (nel 1677 per i Caiselli, giusto
cent'anni dopo per i Mangilli, del ramo di Palma). Il Ritratto di Benedetto Mangilli risponde appieno ai canoni della
ritrattistica secentesca e rivela la conoscenza del dialogo tra luce e ombra introdotto all'inizio del secolo. La calma
serenità del personaggio rappresentato e l'idea di equilibrio dell'insieme lo fecero apprezzare anche nel periodo
classicistico, come attesta l'elogio del di Maniago all'inizio dell'Ottocento. Mancano nel quadro elementi tipici di un
rango o di una professione (libri, documenti, oggetti religiosi...). Il nostro personaggio, dunque, si impone per le sue
virtù proprie e non per il rango che ricopre: nondimeno agli osservatori del suo tempo non sfuggiva certo che il
'bavaro" che indossa – portato da politici e dignitari del tempo – lo qualifica come appartenente alla classe agiata.
LAVORI DI AMPLIAMENTO E ORNAMENTAZIONE DEL PALAZZO NEL SETTE E
NELL’OTTOCENTO
Si può attribuire ai Mangilli la riforma del palazzo nel secolo XVIII, secondo lo stile veneziano
predominante in questa area della Serenissima: grazie ai lavori d’ampliamento questi proprietari dimorarono
nella residenza fino agli inizi del Novecento.
Lavori di riatto e modifiche furono attuate in più riprese non solo nel Sette ma anche nell’Ottocento. con una
nuova suddivisione degli ambienti, progettata da Andrea Scala nel 1851 e la destinazione ad altri usi dei
fabbricati interni guardanti verso l’orto, che ancora nel 1837 avevano a pianterreno una fucina ed una bottega
e al primo piano una cappella con la volta del soffitto dipinta.
Nel 1847 infatti Massimo Mangilli (1804-1869) – che aveva sposato nel 1833 Elisabetta di Colloredo Mels aveva ottenuto «il permesso di riformare la casa di sua proprietà e ne affidò il compito all'architetto Andrea
Scala, allora molto giovane (appena trentenne, cfr. biografia in fondo alla dispensa), il quale – intervenendo
anche nella risistemazione del giardino e della corte interna - ridivise alcune stanze (nuova e ad esempio la
zona del mezzanino, attuale biblioteca) secondo una moda all’epoca diffusa, volta a rendere più idonei alle
nuove esigenze familiari spazi creati con criteri diversi: qualcosa di simile si riscontra nel palazzo Antonini
di via Gemona (ideato dal Palladio e in seguito proprietà della Banca d'ltalia) in cui Valentino Presani
trasformò una stanza in un appartamento a due piani.
L’architetto Scala ebbe così modo di dar prova delle sue capacità anche nella terra d’origine, prima di
mettersi in risalto sulla scena nazionale. Interessante inoltre la sua collaborazione con il coetaneo Luigi
Minisini che, da poco uscito dall’Accademia di Venezia, si fece apprezzare dal pubblico udinese. Lo
dimostra, nel palazzo, la coppia in gesso dei filosofi greci Eraclito e Democrito, secondo costumi
“all’antica”.
Quindi nel palazzo lavorarono due trentenni allora molto in voga in città ed apprezzati dalla borghesia colta:
li accomunava una solida formazione classica (avrebbero poi lavorato in coppia per il tempietto di Latisana a
ricordo di Gaspare Luigi Gaspari.
Il palazzo allora dei Mangilli visse il suo momento di gloria il 1° marzo 1867, un anno dopo l’annessione del
Friuli veneto al Regno d’Italia, allorché venne in Udine Giuseppe Garibaldi, a pochi mesi dalla
liberazione, accompagnato da Benedetto Cairoli, dal colonnello Cucchi e dal siciliano fra Giovanni
Pantaleo.
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Garibaldi fu accolto dall’entusiasmo popolare di una città in festa e dai molti patrioti che ne avevano seguiti gli
ideali, capeggiati da Giovanni Battista Cella. Erano presenti oltre ai garibaldini in camicia rossa, anche molti
intellettuali (artisti e scrittori, tra i quali Caterina Percoto, la cosiddetta “contessa contadina”). Nel suo discorso
alla cittadinanza il generale rimarcò lo spirito che aveva portato alla costituzione dell’identità patria e la
necessità di continuare a operare per la liberazione di Roma. Cosi descrive l’avvenimento Antonio Picco,
giornalista, pittore e critico d’arte ma, soprattutto, patriota:
«la città era parata a festa, le case imbandierate, le strade popolate di cittadini e forestieri; un andare e venire
di garibaldini vestiti colla loro camicia rossa; un corpo di questi stava a guardia d'onore al palazzo
Mangil[l]i, perché ivi doveva essere ospitato il Generale Giuseppe Garibaldi, che in quel giorno veniva a
visitare la città nostra. Alla stazione, verso le due pomeridiane, il popolo era sì affollato da non potersi
muovere. Una commissione di ufficiali garibaldini ed altri distinti cittadini, con a capo il nostro Gio. Batta
Cella, stavano nella sala d'aspetto, pronti per riceverlo; ai due lati della porta d'ingresso dell’atrio erano
schierati i suoi garibaldini e i Veterani del 1848-1849; una compagnia di guardia nazionale, la Banda Civica
di Udine, quella di Gemona ed altre della Provincia. Finalmente la fanfara dei garibaldini diede il segnale
dell’arrivo di Garibaldi ed uno scoppio di evviva proruppe da tutti gli astanti. Il Generale usciva dalla
stazione accompagnato da Benedetto Cairoli, dal colonnello Cucchi e da fra Pantaleo. Salì nella sua carrozza
e con lui il nostro Gio. Batta Cella. Egli fece il suo ingresso, che può dirsi trionfale, per porta Aquileja,
accompagnato da numerosa popolazione che acclamava con entusiastici evviva al suo nome e all'Italia
risorta. Giunto al palazzo dei marchesi Mangilli, i cittadini affollati sul piazzale lo chiamarono al verone,
acclamandolo senza posa. Egli aderì: e si presentò salutando il popolo; poscia tenne un breve discorso,
toccando gli avvenimenti che portarono la libertà ed unificazione d’Italia, e parlando su ciò che restava da
fare agli Italiani per aver Roma Capitale».
Del fatto è rimasta memoria in una lapide murata sulla facciata del palazzo nel l882 in occasione
della morte di Garibaldi: AL FIERO NUNZIO / GARIBALDI È SPENTO / IL POPOLO UDINESE /
NELLA CONCORDIA SACRA DEL PIANTO / SCRIVE INDELEBILE / IL 1° MARZO 1867 / IN CUI / DA
QUESTO EDIFICIO / PARLO’ DI PATRIA E DI GLORIA / L'ALTISSIMO EROE.
L’eco della presenza udinese di Garibaldi rimase a lungo, mentre la Società dei Veterani e Reduci delle
Patrie Battaglie incominciò a dibattere sull’opportunità di dedicare un monumento pubblico all’eroe dei due
mondi. Ma solo dopo la sua morte (1882) fu nominata una commissione indetta una sottoscrizione pubblica
in tutta la provincia per raccogliere fondi destinati alla realizzazione del monumento garibaldino.
IL MONUMENTO - Il concorso venne bandito nel 1883, vivaci polemiche sorsero intorno alle caratteristiche che il
monumento avrebbe dovuto avere, vista la concorrenza con la statua equestre a Vittorio Emanuele II già inaugurato in
piazza Contarena (1883). Venticinque furono gli artisti concorrenti e venne prescelta quasi all’unanimità la scultura del
veneziano Guglielmo Michieli con la statua del generale sul piedistallo e, più in basso, la statua di un volontario, su un
frammento di barricata, con bandiera. Il monumento, dal costo finale di 46.500 lire, venne fuso a Venezia nelle officine
di Giuseppe Michieli, padre dell’artista.
Previa sistemazione del sito, che comportò l’eliminazione di zone verdi e la demolizione dei piedistalli delle fontane, e
con alcune trasformazioni nell’abbigliamento e nella spada per rendere più pregnante la figura dell’eroe, l’opera fu
collocata nella piazza – quindi omonima del generale – davanti al palazzo da cui Garibaldi si era rivolto alla
cittadinanza. L’inaugurazione ebbe luogo il 28 agosto 1886.
Nella realizzazione finale l’eroe assume un atteggiamento deciso, con la spada al fianco tipica di un condottiero
energico; punto di forza è la figura del giovane garibaldino, ardito, vero e proprio perno dinamico della composizione,
quasi “angelo laico”, aggrappato con una mano alla bandiera, in equilibrio instabile su un tavolaccio pencolante. Il
ragazzino in armi e la sua guida, il generale capace di trascinare generazioni di fedelissimi, oltre ad essere memoria dei
valori per cui si era combattuto, dovevano entrare nella coscienza collettiva. Il monumento udinese – sulla scia di
quanto avveniva parallelamente in tutta la penisola, ove la scultura conquista le città e i monumenti quasi ne cambiano
il volto - costituisce un buon esempio di sintesi fra cultura dell’eclettismo, pittoricismo verista (il dinamico giovane
combattente), malinconica idealizzazione (la figura dell’eroe), declamazione dei sentimenti e accademismo (soluzione
monumentale).
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CARTOGRAFIA STORICA
In alto, a sinistra: Particolare del Palazzo sulla Piazza Antonina dalla pianta di Udine dello Spinelli (1704): a
destra: l’ubicazione del Palazzo nella Pianta di Gironcoli-de Baurain (1728).
Sotto, a sinistra: il Palazzo sulla Piazza dei Barnabiti nella Pianta del Perusini (1811), a destra: la medesima
ubicazione nelle pianta del Lavagnolo (1842-1850).
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IL PALAZZO NEL NOVECENTO
Agli inizi del Novecento il palazzo fu destinato in parte a nuovi usi ed ospitò dapprima il Consorzio Ledra e
successivamente altri uffici.
Nel 1924 fu acquistato dal conte Alessandro del Torso, che vi si trasferì con la famiglia dopo aver abitato
per qualche tempo nel Palazzo Muratti di Via Zanon. L'ultimo grande avvenimento mondano che si svolse
nelle sale del Palazzo del Torso «in un’atmosfera di riservatezza e di grande sussiego fra gli invitati» fu il
sontuoso ballo organizzato in onore del Principe di Piemonte, Umberto di Savoia, ospite di Udine nel 1929
(di solito nei testi si trova citato il 1935, ma le testimonianze storiche visionate per questa ricerca retrodatano
l’avvenimento di qualche anno).
LA FAMIGLIA DEL TORSO
La famiglia triestina, di estrazione borghese, divenne titolare della Ditta Fratelli Dal Torso, impresa
industriale commerciale di legnami con segherie in Austria e depositi a Trieste e a Udine. Qui Antonio si
trasferì da Trieste e prese in affitto il palazzo Sabbadini di via Aquileia, non lontano dalle mura medioevali
che, parzialmente conservate, fungevano da cinta daziaria – i cancelli venivano chiusi la notte – e dallo scalo
ferroviario dove sorgevano uffici e depositi della ditta di famiglia. Da Antonio discesero Enrico, Carlo e
Luciano. Tra loro il più noto è Enrico che si interessò di fotografia, come dilettante, e di studi genealogici ed
araldici. Con la maggiore età i tre fratelli, ormai inseriti nell'impresa di famiglia, come pure il cugino
Alessandro, il futuro proprietario della dimora in Piazza Garibaldi, titolare dell'omonima ditta nata dalla
scissione della “Fratelli Dal Torso”, si misero in evidenza tra i personaggi più in vista della società udinese.
Automobili di lusso (Carlo correva con la Itala), caccie alla volpe, feste e poi palazzi.
Carlo ne costruì uno in via Carducci in stile settecentesco su progetto di Provino Valle (attuale Hotel
Ambassador), che arricchì dopo la grande guerra con importanti opere del Carneo della dispersa collezione
Caiselli, Luciano acquistò il settecentesco palazzo Camucio di Largo Cappuccini.
Alessandro, pittore, provetto schermidore, alpinista e campione di skeleton, acquistò e restaurò il nostro
palazzo in Piazza Garibaldi secondo il gusto eclettico-storicista tipico del periodo, in una Udine che si stava
risollevando dalle ferito della prima Guerra Mondiale.
Nel 1921 in via Pradamano 4 era situata la sua ditta, che comprendeva deposito e magazzino di legnami,
materiale da costruzioni, falegnameria, segheria, tavole lavorate per pavimenti e segatura.
Le difficoltà causate dalle distruzioni belliche e dalle confische degli impianti austriaci furono superate
grazie al credito di cui godevano i fratelli del Torso e al loro impegno, ma la ditta Fratelli del Torso dopo
novant'anni di attività, nel 1953, chiuse definitivamente.
ALESSANDRO DEL TORSO (Udine 1883 – ivi 1967) - Fu un alpinista appassionato e sportivo a tutto
tondo. Partecipò alle olimpiadi di Saint Moritz del 1948 nello skeleton, specialità che gli valse la maglia
azzurra. Sulle Dolomiti il suo nome è ricordato soprattutto per la frequentatissima via "della rampa" al Piz
Ciavazes, aperta nel 1935. Fu un alpinista importante e spesso compagno di Emilio Comici: da ricordare
assieme al triestino la prima salita al Dito di Dio, nel Sorapiss. Gli è stato dedicato un bivacco fisso sul
Cimone del Montasio, nelle Alpi Giulie. Fu anche schermidore, pattinatore, alpinista e fondatore dell'ASU,
nonchè valente pittore paesaggista che si ispirò al paesaggio friulano. «Fu schermidore valente, crodaiolo
ardito, pattinatore elegante e audace corridore di “skeleton”, alle olimpiadi di Sankt Moritz».
Come scrisse Armando Scandellari in un ricordo apparso su “Alpi Venete” (2002), disponendo di un
cospicuo patrimonio familiare, poteva ecletticamente gestirsi come imprenditore, animatore della vita
mondana non solo friulana, e nella pratica di più sport. Era un uomo di vasta e profonda cultura, un
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aristocratico che frequentava a Roma la corte reale ed era in amicizia con i duchi d’Aosta, che parlava
fluentemente più lingue e con gli operai della sua segheria utilizzava il friulano.
A queste attività imprenditoriali dedicò tutta la sua vita, anche dopo l’occupazione tedesca del 1943 e la
requisizione degli Alleati nel ’45. Era un grande sportman, il pioniere dello sport friulano. Quello che a
Milano facevano i suoi amici Bonacossa (i fondatori delle Federazioni sportive) lui fece in Friuli, praticando
come atleta ad alto livello e promuovendo la ginnastica, il tennis, l’equitazione, la scherma (uno dei migliori
in Italia), la bicicletta, gli sport invernali. Nel febbraio del 1928 rappresentò l’’Italia alle Olimpiadi di Sankt
Moritz nella specialità dello skeleton, classificandosi, lui non professionista, al settimo posto. Socio
benemerito del Panathlon Club, fu presidente dell’Associazione Sportiva Udinese dal 1919 al 1945,
costruendo a proprie spese la palestra per la ginnastica quando quella comunale venne demolita. Alla
montagna arrivò abbastanza tardi, nel 1913, a trent’anni ma vi si dedicò in modo intenso, con lo zelo del
neofita e la consapevolezza dell’uomo maturo, con scalate importanti e impegnative e compagni quali Emilio
Comici, Bepi Mazzotti, Sandro Piaz e Fosco Maraini. Gentleman, eclettico nei suoi “violon d’Ingres” (tra cui
la pittura, con particolare attenzione al paesaggio locale e alpino, e risultati che lo collocano tra gli artisti
locali e più quotati), Sandro del Torso incarna e riassume una parte importante della realtà friulana e dei suoi
valori. L. SANTIN, Un gentlemen sulle vette. Storia e imprese di Alessandro del Torso, in “Messaggero
Veneto”, 17.3.2003, p.13.
Come le precedenti, queste tele sono state realizzate da Alessandro del Torso, valente paesaggista.
Il critico d’arte Licio Damiani – che lo ha definito pittore finissimo, legato al verismo romantico d’impronta
veneta - così ha tratteggiato il suo lavoro: “Si dedicò alla pittura con raffinato spirito di dilettante.
Autodidatta, fu amico di [Marco] D’Avanzo. I suoi quadri si ispirano al paesaggio friulano con garbato gusto
impressionista e con un cromatismo mosso e vibrante […] L’impressionismo di d.T., incline talvolta a una
pesante ricerca dell’effetto, ha il sapore della poesia vernacola, priva di astuzie letterarie”, p.41.
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Alessandro del Torso negli anni ’10 del Novecento; sotto: le nozze con Aurelia Deciani (1914).
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Vi sono vari aneddoti riguardanti il conte Alessandro e il nostro Palazzo: come ha ricordato Paolo Medeossi
sulle pagine del “Messaggero Veneto” (7.X.2011) traendo spunto dal libro Vecchia Udine di Mario
Quargnolo, qui si svolgevano i veglioni più belli in città, grazie alla verve danzerina del proprietario, che
diede feste memorabili a proprie spese. Apriva (alle ore 22) e chiudeva (addirittura alle 7 del mattino
successivo) le esibizioni, in coppia con la moglie. Questo accadeva tutti i giovedì, oltre che nelle feste
comandate. Verso la mezzanotte la musica si interrompeva per consumare la cena preparata personalmente
da Benedetto Beltrame nel vicino Albergo Italia di piazza XX settembre. E i cibi venivano trasportati a più
riprese, fra le due piazze vicine, su un camioncino come in un moderno catering. L’usanza si protrasse fino
al 1935, con circa duecento partecipanti a ritrovo, provenienti anche dalle regioni vicine: son tutte persone
che contano e le toilettes delle dame all’altezza come impegno finanziario.
L’apice fu raggiunto con il sontuoso ballo organizzato nel 1929 in onore del principe di Piemonte, Umberto
di Savoia (futuro re) in visita a Udine (21-23 aprile) e ospite in Palazzo del Torso.
In un articolo comparso su “La Panarie” (Le giornate friulane di Umberto di Savoia) si legge: “Umberto di
Savoia entusiasticamente acclamato – si reca poco dopo al palazzo del co. Alessandro del Torso, del quale è
ospite. Il popolo, che gremisce piazza Garibaldi, costringe il Principe Sabaudo a presentarsi più volte al
balcone, tra rinnovate dimostrazioni […] La laboriosa giornata di Umberto di Savoia, trascorsa tra
continue dimostrazioni popolari, si chiude con un sontuoso pranzo ufficiale nelle sale della Loggia
municipale del Lionello … e con un brillantissimo ricevimento nel palazzo del Torso […]”.
Alla festa partecipò tutta la nobiltà friulana, e alcune anziane signore continuarono a parlarne fino agli anni
’60-‘70 del Novecento, ricordando “l’atmosfera di riservatezza e di gran sussiego fra gli invitati”, per
l’eleganza degli abiti e delle toilettes, canto del cigno di un mondo dorato.
La cronaca dell’evento è riportata in un articolo de “La Patria del Friuli” del 23.4.1929, che qui si riporta:
IL RICEVIMENTO AL PALAZZO DEL TORSO
Qui un cronista mondano dovrebbe sfogliare il vocabolario dei superlativi, ma invece preferiamo
riassumerli tutti in un’unica constatazione: il ricevimento che iersera il cav. Co. Alessandro del Torso ha
offerto in onore di S. A. R. (Sua Altezza Reale) il Principe Ereditario è superiore ad ogni elogio.
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Signorilità squisitissima di ambienti, buon gusto, genialità di ornamenti, sapiente profusione di luci, tutto
era consono all’importanza ed al significato della serata principesca. Le lussuose sale di Palazzo del Torso
hanno accolto iersera tutti i più bei nomi dell’aristocrazia friulana e quella giuliana e veneta. Tutte le più
alte personalità cittadine, tutta l’alta ufficialità locale era presente. E quante e quante leggiadre dame in
elegantissime lussuose acconciature… Tutta una gamma di tinte, ed uno sfoggio mirabile di figurini
deliziosi.Mille luci e mille colori si effondevano nelle sale, mentre il bianco e nero dei gentiluomini e le
scintillanti uniformi degli ufficiali recavano una distinta e brillante tonalità.
Ma non tenteremo neppure di descrivere il magnifico ambiente, che ha accolto per una festa mondana senza
pari nella nostra città oltre trecento invitati. Né ci azzarderemo (oh delusione, gentili lettrici gentili!...) di
iniziare il rosario dei nomi …
Gli onori di casa erano disimpegnati con amabile distinzione dal conte Alessandro del Torso e dalle
contessa Aurelia del Torso Deciani.
Alle 20.30 il Principe Ereditario che (come già al pranzo ufficiale) vestiva l’alta uniforme di colonnello di
Fanteria, col Collare della SS Annunziata, il gran cordone mauriziano e le altre decorazioni, ha fatto il suo
ingresso nelle sale.
L’orchestrina diretta dal prof. Ciriani, intonò la Marcia Reale nel mentre all’Ospite Augusto facevano ala
gentiluomini e dame, in deferente omaggio. Dopo che S.A.R. ebbe varcato la soglia della sala da ballo si
effusero le note di un “one-step” in voga e il Principe aprì le danze con la gentilissima contessa Aurelia del
Torso. Fu il segnale di una serie di balli animatissimi, durante i quali S.A.R. concesse l’onore di un
ambitissimo “giro” ad alcune dame e signorine.
Lo stupendo trattenimento ebbe un crescendo festoso fino alle 24. Poco appresso il Principe si ritirò per un
pranzo intimo, con i conti del Torso e una ristretta cerchia di persone.
Gli invitati ebbero nel frattempo un ricchissimo e ultrasignorile servizio di “buffett” di cibi freddi.
Durante tutta la serata il “buffett” ha funzionato con squisitezza regale.
Alle ore 1 S.A.R. ha fatto ritorno nelle sale, per accomiatarsi affabilmente ai convenuti e poscia si è ritirato
nel suo appartamento, e tosto la lussuosissima e riuscitissima festa – trionfo di signorilità e di eleganza – ha
avuto termine.
Ma non si limitarono a questo mondano avvenimento i ricevimenti a Palazzo! Negli ulteriori ritrovi le danze
erano accompagnate da un’orchestrina prelevata dal cinema Cecchini al termine degli spettacoli (Finotto al
trombone, Catena alla tromba, ecc.). A un certo punto il nobiluomo “bon vivant” si modernizzò. Pagare
un’orchestrina che ogni settimana suonava sino all’alba costava un occhio della testa, così il conte installò un
moderno grammofono andando personalmente a Milano a comperare i dischi, ma non volle rinunciare a un
solo musicista della band, cioè al batterista, che rimase presente nei veglioni per segnare il tempo.
Ceduto nel 1968 (dopo 44 anni) al Comune di Udine dal conte Alessandro del Torso «con l’espresso
desiderio che servisse da Museo e non venisse manomesso», in un primo momento sembrava destinato –
secondo gli intenti dell’allora direttore dei Civici Musei, Aldo Rizzi, ad ospitare il Museo Friulano delle Arti
e Tradizioni Popolari (secondo la volontà del donatore) che poi trovò sede provvisoria in Palazzo Gorgo
Maniago (mentre attualmente è ubicato nel Palazzo Giacomelli di Via Grazzano). L’edificio, posto sotto
vincolo con Decreto Ministeriale n. 344 del 15 ottobre 1951, è divenuto invece, in seguito a un accordo tra
Comune e Provincia, la sede illustre del CISM (Centro Internazionale di Scienze Meccaniche), e alle
nuove funzioni fu adattato, pur nel rigoroso rispetto delle ambientazioni decorative, mentre l’antico giardino
(anch’esso vincolato, con D.M. 27.8.1954), fu venduto al Comune di Udine dalla moglie di del Torso,
Aurelia Deciani (secondo Luigi Ciceri per la somma di 45 milioni), è stato nella primavera del 1970
destinato a giardino pubblico, vera e propria graditissima oasi verde di circa tremila metri quadrati nel cuore
della città.
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CISM – Un’Istituzione Scientifica Internazionale operante nel FVG (cfr. sito web del CISM)
L’IDEA - Alla fine degli anni ’60 Luigi Sobrero, professore di Meccanica Razionale a Trieste, ebbe l’idea di costituire
a Udine un centro internazionale di studi avanzati dedicato alle Scienze Meccaniche e alle discipline a esse collegate. Il
progetto raccolse un forte consenso nella comunità scientifica internazionale e diversi scienziati di grande fama
accettarono di farsene promotori diretti. Essi furono: Luigi Broglio (Roma), Luc Gauthier (Parigi), Witold Nowacki
(Varsavia), Waclaw Olszak (Varsavia), Octav Onicescu (Bucarest), Julio Palacios (Madrid) e Hermann Schafer
(Braunschweig). Al gruppo si unì Matteo Decleva, ordinario di diritto internazionale a Trieste, con il compito di
redigere lo Statuto.
IL PROGETTO - Il CISM è la più importante istituzione scientifica non-universitaria del Friuli ed è tuttora sostenuto
da contributi pubblici e privati e da una significativa capacità di autofinanziamento.
GLI INIZI - L’atto di fondazione del CISM fu firmato il 6 dicembre 1968. Era allora assessore all’istruzione del FVG
Bruno Giust, Bruno Cadetto Sindaco di Udine, Vinicio Turello Presidente della Provincia di Udine e Mario Livi
presidente dell’allora Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone.
IL CONTRIBUTO DEL CISM ALLA RICOSTRUZIONE DEL FRIULI NEL DOPO-TERREMOTO DEL 1976
- Fra le iniziative più significative del CISM va menzionata l’organizzazione dei corsi di formazione professionale
avanzata per ingegneri, architetti e tecnici impegnati nelle attività di ricostruzione e prevenzione sismica dopo il
disastroso terremoto del 6 maggio 1976. Nell’ambito della sua attività, il CISM aveva già realizzato corsi avanzati su
argomenti di base dell’ingegneria antisismica quali: meccanica del suolo e delle rocce, comportamento dinamico,
assestamento e protezione antisismica delle strutture. Nell’immediato dopo-terremoto, lo stesso Ordine degli Ingegneri
di Udine aveva indicato il CISM quale struttura ideale per corsi di formazione avanzata rivolti a ingegneri, architetti e
tecnici impegnati “in loco” nelle attività di protezione e ricostruzione. Il CISM fu in grado di reclutare in tempi
brevissimi come docenti i più qualificati esperti italiani di geotecnica e progettazione antisismica. I corsi di formazione,
accompagnati esercitazioni pratiche, si tennero nell’estate del 1976 e furono frequentati da oltre 750 iscritti. I testi delle
lezioni, pubblicati in due volumi da Springer, ebbero una larghissima diffusione e più edizioni e tuttora sono considerati
i testi di base dell’ingegneria sismica italiana.
ALCUNI ILLUSTRI SCIENZIATI AL CISM – I docenti dei Corsi Avanzati sono scienziati di assoluto livello
internazionale. Tuttavia, la partecipazione ai loro corsi e la risonanza avuta dai corsi stessi sui mezzi di comunicazione
dipendono anche dalla rilevanza pratica degli argomenti trattati. In quest’ottica, i corsi con più alto indice di
partecipazione sono stati quelli coordinati da Olek Zienkiewicz nel 1972, e da Stephen Cowin nel 2003, nel 2007 e
nel 2010.
IL CENTRO OGGI - Il CISM è la più importante istituzione scientifica non universitaria del Friuli, attiva sia in
ambito internazionale sia locale, tuttora sostenuta da contributi pubblici e privati e da una significativa capacità di
autofinanziamento. Attraverso i corsi avanzati, rivolti alla formazione di giovani ricercatori, il CISM continua a
promuovere e diffondere conoscenze avanzate nei campi della meccanica dei solidi e dei fluidi e delle discipline ad esse
collegate quali, ad esempio, le scienze delle costruzioni civili, meccaniche e aeronautiche, la robotica, la bioingegneria,
la scienza dei materiali, la geotecnica, e l’acustica. Inoltre, attraverso i corsi rivolti alla formazione professionale
avanzata, il CISM stimola l’innovazione nelle industrie e nelle pubbliche amministrazioni, illustrando gli aspetti
tecnologici delle scienze meccaniche ed informando sulle “buone pratiche” che scaturiscono dalla ricerca.
Infine, va sottolineato il beneficio indiretto per il territorio della Regione derivante dal soggiorno a Udine, durante i
Corsi del CISM, di prestigiosi docenti, nonché di giovani ricercatori e studenti di dottorato provenienti da tutto
il Mondo.
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LA PIAZZA SU CUI SORGE IL PALAZZO
L’aspetto di Piazza Garibaldi nel Cinquecento era assai diverso rispetto a quello attuale, con molti più orti e
giardini che edifici. Tra questi alcuni subirono numerosi passaggi di proprietà sia per eredità che con vendite,
fino ad arrivare al 1679, quando Carlo Rimini e i fratelli Moro decisero di vendere le loro spaziose case al
Comune di Udine, perché vi potesse collocare le scuole pubbliche.
Il Comune decise di assegnarle, per l’insegnamento, all’ordine dei Padri Barnabiti perché realizzassero un
collegio-convitto. Il Comune si rese conto che la spesa sarebbe stata molto impegnativa per cui fu costretto a
chiede un prestito al Monte di Pietà. La scuola era destinata a persone ricche e nobili, questi ultimi avevano
anche il privilegio di una sezione a loro destinata.
Una scuola pubblica di tipo letterario era stata istituita a Udine già dal 1297; essa operò fino al 1679, quando fu
trasformata nel "Gymnasium Civitatis Utini", gestito dai Padri Barnabiti, con il sostegno legale e finanziario
del Comune di Udine. Fu un'istituzione organica, strutturata sul modello letterario ginnasiale, con gli
insegnamenti di grammatica, di umanità, di retorica e di logica. Si costruirono locali adeguati allo scopo.
I Padri Barnabiti rappresentano uno dei più antichi ordini della Chiesa. Nato nel 1532, la sua attività
principale era l’insegnamento, nelle scuole o come predicatori. Definiti originariamente “Congregazione di
San Paolo”, successivamente queste padri presero il nome della chiesa dove stabilirono la loro sede, cioè la
Chiesa di San Barnaba a Milano. A Udine nel 1683 venne fatto costruire anche un portone tuttora esistente
in via Ginnasio Vecchio per il loro ingresso all’istituto religioso, senza dover uscire dal centro cittadino,
visto che allora, questo, era delimitato da una porta di cinta (Porton de Grazzano) ora non più esistente in via
Cesare Battisti. Gli studenti cittadini, per accedere alla scuola erano costretti a passare per quella porta, anche
perché quella era l’unica uscita, visto che l’attuale Via del Gelso non esisteva e la piazza era chiusa da
edifici.
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Nel 1699 fu costruita in Piazza Garibaldi, allora chiamata “Piazza dei Barnabiti”, anche la chiesetta
di S. Lorenzo Giustiniani, demolita nel 1874, per far spazio alla nuova facciata della scuola. La
chiesa aveva l’ingresso vicino ad essa, perché vi potessero accedere anche gli studenti. Nel 1810,
con il decreto di Napoleone che fece chiudere tutti gli ordini e le Congregazioni religiose, anche il
collegio-convitto di Udine venne chiuso e i Padri Barnabiti se ne andarono. In seguito l’ordine si
riformò e attualmente ha sede a Roma e opera in molte parti del mondo.
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L'impegno dei Barnabiti cessò dopo 131 anni, con l'anno scolastico 1809-10, in applicazione del decreto di
soppressione delle corporazioni religiose, emanato da Napoleone Bonaparte.
Alla direzione della Scuola era allora il barnabita friulano, padre Alessandro Tartagna. A lui e ai suoi
predecessori si deve la formazione di quella "Biblioteca Barnabitica" che costituisce, con i suoi 1230 volumi
superstiti, di cui molti incunaboli, la base storica della Biblioteca del Liceo. Ginnasio e Liceo, prima
istituzionalmente distinti (sino al 1851), poi fusi insieme nell'Imperial Regio Ginnasio Liceale proseguirono la
loro attività fino al 1866, quando divennero una Scuola del Regno Italico. A questo periodo risale
l'intitolazione dell'istituto a Jacopo Stellini, frate somasco cividalese vissuto tra il 1699 e il 1770, docente di
filosofia morale, dal 1739 alla morte, nel Ginnasio patavino. Una raccolta di manoscritti delle opere di Stellini
è stata donata dagli eredi all'Istituto ed è conservata in biblioteca.
Nel 1821 l’ingegnere Valentino Presani progettò l’attuale palazzo in stile neoclassico (ora Scuola
Media Manzoni) destinato inizialmente al ginnasio–liceo. I lavori proseguirono lentamente, sia per
ragioni finanziarie, sia perché all’inizio, il progetto non piacque e ci furono molte controversie e
solo nel 1858, assai modificato, si completò il palazzo come ora lo vediamo.
I locali del precedente collegio furono rinnovati nel 1833 e destinati ad ospitare fino al 1918 la Scuola Classica
e in seguito anche altri Istituti quali l'Istituto Tecnico "Zanon", il Liceo scientifico "Marinelli" e altre scuole.
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DESCRIZIONE DEL PALAZZO
FACCIATA ESTERNA: Palazzo Antonini~Mangilli-del Torso é uno degli edifici più imponenti e belli di
Udine, come si vede fin dalla facciata.
Nella facciata - che un vivace chiaroscuro, l’armonia delle parti decorative e l’equilibrio degli elementi
strutturali rendono sontuosa e gradevole - si notano, come ricordato nella sezione storica, due portali
d’ingresso, uno leggermente più grande per le carrozze, uno un po' piú piccolo per i pedoni, un’alta
zoccolatura con bugne a pettine laterali e finestre quadrangolari; rettangolari sono le finestre con inferriate
arcuate di tipo veneziano nel mezzanino.
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Al piano nobile si aprono, movimentandolo, tre trifore «a serliana» fornite di poggioli aggettanti, nella parte
centrale, così come le quattro finestre rettangolari (due per parte) che si aprono alle estremità.
SERLIANA: Particolare tipo di trifora, con l'apertura
centrale ad arco, le due laterali trabeate: così denominata
dall’architetto e trattatista 500esco Sebastiano Serlio a cui
è dovuta la pubblicazione e la diffusione di questo schema
strutturale e decorativo. La serliana, sorta nel primo quarto
del secolo XVI, ebbe grande rigoglio nell'architettura del
Sansovino e del Palladio, e fiorì poi specialmente nell'arte
veneta del Sei e del Settecento.
La trifora centrale del nostro Palazzo é la più
complessa poiché al di sopra dell’arco porta
un timpano spezzato, sui cui lati inclinati
poggiano due figure scolpite, semidistese. Il timpano è collegato ai mensoloni inferiori mediante volute
barocche.
Al centro dell’edificio, a livello delle finestre del terzo piano, è visibile lo stemma gentilizio, in parte
nascosto dall’ombra della linda fortemente sporgente, secondo una caratteristica propria delle case friulane.
Nella parte destra del prospetto compare l’iscrizione che ricorda la presenza in loco di Giuseppe Garibaldi.
Il sottotetto è segnato da una teoria di piccole e semplici finestre rettangolari.
Rimasto da allora sostanzialmente inalterato nella facciata come fa fede una litografia ottocentesca di G.B.
Cecchini, il palazzo é organizzato internamente composto da quattro corpi di fabbrica che racchiudono al
centro una piccola corte.
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INTERNO: Esso è stato quasi completamente ristrutturato, sia a metà Ottocento, ad opera di Andrea Scala,
sia nel Novecento quando Alessandro del Torso che lo aveva acquisito nel 1924, lo fece riadattare a suo
gusto, secondo l’eclettismo allora in voga: ciò si evidenzia soprattutto nell’atrio.
ATRIO E SCALONE MONUMENTALE
Una volta varcato l’ingresso, nell’atrio si osserva a sinistra, una bella panca con sopralzo, originaria del
palazzo, con uno stemma nell’ovato centrale. Si tratta di un elemento decorativo ricorrente in alcune dimore
nobiliari udinesi (anche se molte di esse sono state distrutte: ne ricordiamo di molto belle, pur se con fogge
diverse, nei palazzi Morpurgo, Giacomelli, Caimo-Frova, Liruti ecc.).
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Distribuzione interna dell’edificio secondo la pianta del Lavagnolo, a fine Ottocento;
sotto: lo scalone e il soffitto dipinto
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Dirimpetto all’ingresso, tre porte danno sul cortile interno, mentre a sinistra si scorge un’imponente scalea
che conduce al piano superiore. Lo scalone monumentale, voluto da Alessandro del Torso, non è originario
dell’edificio ma proviene dal Palazzo de Portis di Cividale: nell’uso della scura pietra piasentina, nella
massiccia struttura dei pilastrini, riflette un gusto tipicamente friulano, rintracciabile anche in altri palazzi
udinesi (ad es. palazzo Gorgo-Maniago).
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Il dipinto su tela con l'Allegoria delle Arti che decora il soffitto (artes ingenuas opus et laborem dileximus,
1925, è scritto in un labaro [insegno, simbolo, bandiera] con in alto gli stemmi delle famiglie del Torso e
Deciani, in onore degli sposi proprietari), fu dal conte del Torso commissionato al pittore H. Stubysen (così
è stata letta la firma, o Stubisen), non altrimenti conosciuto, che ha cercato di dare alla composizione
un’impostazione settecentesca con evidenti richiami alla grande pittura veneta del periodo secondo una
consuetudine allora abbastanza diffusa in Udine (il pittore veneziano Antonío Gasparini, allievo di Luigi
Nono, proprio in quel tempo riproduce il Tiepolo degli Armeni di Venezia sulle pareti del rinnovato Palazzo
della Camera di Commercio in Via Prefettura all’angolo con Via Lovaria). La scena, contenuta in un ovato
con robusta cornice mistilinea sagomata in stucco, è condotta in modo appropriato sia nell'impaginazione con
audaci scorci che nella resa cromatica fresca e luminosa.
Più in basso, prepara l’apertura visuale del soffitto una balaustrata sagomata che ricorda quella del salone di
Palazzo Caiselli (alla cui sommità era sistemato il dipinto di G.B. Tiepolo con l’allegoria della Gloria e della
Virtù, oggi ai Civici Musei in Castello).
Originari sono anche i due dipinti, ora in mediocre stato di conservazione (meriterebbero una adeguata
pulitura), che decorano le pareti dello scalone: una garbata tela con Apollo e Dafne ed una notevole scena
di Caccia al cinghiale, estremamente vivace e dinamica nella narrazione, con due cavalli e cavalieri, di cui
uno rampante, un giovane con un manto rosso ed un focoso destriero in primo piano; in mezzo la nera fiera
ringhiante serrata da un latrare di cani: opere per le quali lo studioso Tiozzo ha azzardato il nome di Andrea
Urbani e che il del Torso dovette apprezzare, visto il posto d’onore loro riservato nel rinnovato scalone.
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Quanto allo scalone monumentale, nell’uso della scura pietra piasentina, nella massiccia struttura dei
pilastrini, riflette un gusto tipicamente friulano, rintracciabile anche in altri edifici udinesi, come ad esempio
palazzo Gorgo-Maniago. La scalea è ornata, agli angoli del parapetto, da alcune sculture (in stucco dipinto)
rappresentanti figure allegoriche rappresentanti l’abbondanza e altri personaggi simbolici.
PIANO NOBILE
Il piano nobile, privo di un grande salone di rappresentanza, è comunque ricco di spazi a misura di una
nobile famiglia: qui alcuni ambienti si distinguono per l'eleganza degli ornamenti.
La «Stanza dei Rettori» (per usare l’attuale denominazione del CISM) possedeva un quadro,
Contemplazione, piacevole opera dell'ancor poco conosciuto pittore di Rauscedo Jacopo d'Andrea (18191906). (Era stato dato in deposito al CISM e poi, dal 1990, ha trovato definitiva collocazione alla GAMUD a
Casa Cavazzini). Il dipinto (realizzato nel 1896) fu presentato all’Esposizione Regionale d’Arte di Udine nel
1903. La fanciulla contempla una tela; il camino e l’arredo di gusto rinascimentale e la foggia degli abiti
della donna rimandano alla memoria le composizioni del giovane D’Andrea ispirate alla vita di Irene da
Spilimbergo (che sia proprio lei il soggetto? Lo ipotizza lo studioso Stefano Aloisi), un legame con la figura
di Irene (che peraltro è stata dipinta sul soffitto del palazzo da Domenico Fabris) durato molti lustri.
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Nel palazzo c’è pure un affresco ottocentesco (Apollo che suona) sopra il caminetto.
L'«auletta gialla» è decorata con lievi riquadrature a stucco nelle pareti e nel soffitto, ed ha quattro Ovati
con dipinti settecenteschi di ottima fattura (anche se molto sbiaditi e quindi non facilmente leggibili): Il
sacrificio di Isacco, Abramo e l’Angelo, due Paesaggi con figure di arcadica vaghezza. Le dimensioni quasi
miniaturistiche non impediscono di apprezzare certe aperture spaziali, finezze di tocco, certe preziose
modulazioni cromatiche.
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La vicina stanzetta con stucchi dorati, e con i ritratti dei conti del Torso, Alessandro e Aurelia,
quest’ultimo firmato dal pittore Stubysen (?), autore anche del dipinto sul soffitto dello scalone.
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introduce nella «Sala delle conferenze» dal soffitto completamente affrescato.
Le pareti sono ricoperte da una bella tappezzeria del Settecento che lascia scoperte le sovrapporte, ove entro cornici mistilinee - sono narrati episodi del mito, su medaglioni a monocromo (che richiamano
precedenti soluzioni dei pittori veneziani Fontebasso e Diziani).
Sopra a questa ornamentazione corre il fregio – un affollatissimo continuum - raffigurante battaglie o scene
bibliche, che parrebbe d’autore tardo-secentesco (per l’impostazione, anche se Bergamini ritiene sia
riconducibile a un pittore ottocentesco), per il ricco cromatismo e i forti contrasti chiaroscurali, nonché per
l’aspetto muscoloso e vigoroso dei contendenti.
Sopra la cornice si osserva una illusionistica prospettiva architettonica che termina con una balaustra aperta
su un grande rettangolo con gli angoli smussati. La sezione quadraturistica, molto scenografica, è risolta con
grandissima abilità: la cornice architettonica è organizzata a loggiati, colonne corinzie e un infittirsi di
paraste, metope e cornicioni.
Al sommo la muratura sembra sfondata da un grande occhio d’aria e di luce: qui si apre un cielo luminoso
nel quale fanno capolino e volteggiano figure leggiadre di putti intrecciati a festoni vegetali e altre figure del
mito sono collocate su nubi rosee. Qui si staglia la parte simbolicamente più importante della composizione,
ossia la Gloria della famiglia Mangilli, al centro. La coppia dei Mangilli, in abiti rutilanti di foggia
contemporanea (particolarmente curato il vestito della figura femminile, tiepolesco), si tiene le mani in una
posa un po’ goffa. Qui lo scorcio prospettico è risolto in modo meno brillante che nella doppia balaustrata.
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Domenico Urbani, nel libriccino che più di un secolo fa dedicò al bisnonno Andrea, «il quale schiuse le
porte di casa nostra all'arte pittorica» ricorda che questi dipinse «in Udine il soffitto della sala del march.
Mangilli di Borgo Grizzan e i due soffitti delle cappelle del Duomo». Queste ultime (che poi sono sette: le
prime tre a sinistra entrando e le altre quattro a destra, come hanno precisato Someda de Marco e Grossato)
sono databili dal 1742 al 1749.
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Numerose altre sono le sue opere pittoriche: la sua lunga e feconda attività - caratterizzata da non infrequenti
mutamenti stilistici - fu proseguita dal figlio Marino, autore, all’inizio ormai dell’Ottocento, di affreschi per i
palazzi Caiselli e Fistulario-Plateo.
Il soffitto della grande sala (con la raffigurazione della Gloria della famiglia Mangilli), attribuito in
passato a Giuseppe Morelli, venne per primo datato - dopo che lo stesso nipote del pittore aveva scritto di
non avere «precise notizie di tempo» - dal Tiozzo che ritenne l’esecuzione avvenuta intorno al 1750 (cioé
subito dopo la decorazione del duomo). Una datazione tra il 1750 ed il 1760 sembra in effetti plausibile: di
sicuro effetto scenografico sembra preludere alle soluzioni adottate pochi anni dopo in S. Teonisto a Treviso
(1758: affreschi distrutti nell'ultima guerra) e specialmente nella parte figurativa richiama tematiche comuni
ai grandi pittori veneti del Settecento (Fontebasso e Diziani in primis).
Assai interessante è l’organizzazione architettonica che simula una struttura con loggiato a colonne corinzie,
paraste, cornici, animato da piacevoli figure luminose di putti che tengono in mano festoni con fiori blu
intenso, mentre al centro offre lo sfondamento illusionistico su un cielo solcato di nubi nel quale
campeggiano le figure dei Mangilli.
Allo stesso Urbani vanno assegnati anche le piacevoli, rovinate, sovrapporte a fresco: questi dipinti a
monocromo presentano vivaci figurine entro eleganti cornici (cfr. simili soluzioni anche in palazzo Brazzà a
Udine e nella villa Ottelio a Pradamano). Si evidenziano pure confronti piuttosto precisi con alcune parti
degli affreschi del soffitto della chiesa del Carmine a Udine (assegnati in prevalenza al Begni o a pittori
bolognesi) e con i resti della prima decorazione di palazzo Strassoldo-Gallici di Udine, databile alla fine del
Seicento, che – secondo Bergamini - per un più consapevole giudizio dovrebbero aspettare la pulitura degli
affreschi.
ANDREA URBANI (1711-1798) – Prolifico autore di affreschi, per lo più di tipo decorativo, fantasioso
organizzatore di complessi pittorici soprattutto in ville e palazzi del territorio veneto, il veneziano Andrea
nell’arco della sua lunghissima attività operò in Friuli a più riprese tra il 1742 e il 1796, affiancato, a partire dal
1785, dal figlio Marino, il quale in proprio lavorò per alcune famiglie nobili fino al 1803. Fu autodidatta e
predilesse la maniera del quadraturista Mengozzi Colonna. La decorazione delle sette cappelle laterali del
duomo di Udine per la varietà dei temi affrontati, talora semplicemente decorativi ma spesso arricchiti dalla
presenza di figure umane – costituisce il momento chiave per la comprensione della sua poetica e delle scelte
successive. Intorno al 1745 risale l’affresco che decora il soffitto dello studio-salotto della villa della Torre
Valsassina a Ziracco (La gloria della Famiglia della Torre). Ritornato a Venezia, iniziò una lunga ed intensa
attività di scenografo, che impresse alla sua arte le caratteristiche proprie di questo genere di attività: così
appare nel salone di Palazzo Mangilli (1758ca), dove raffigura la Gloria della Famiglia Mangilli in un turbinio
di colonnati, personaggi, vasi di fiori.
Il settimo e l’ottavo decennio del settecento videro l’Urbani lontano dal Friuli, impegnato prima a Pietroburgo,
poi a Venezia e in varie altre località dell’entroterra veneto (specie Noventa e Montegalda) ove ebbe nmodo di
esprimere in maniera compiuta e ad alti livelli qualitativi la sua poetica. Nel 1783 ritornò in Friuli, dove, tra
l’altro, con l’aiuto del figlio Marino decorò i palazzi udinesi dei conti di Brazzà (impresa spettacolare per le
soluzioni pittorico-spaziali di grande interesse nella rampa delle scale con la Caduta di Icaro e riquadri con
tipiche vedute architettoniche o rovinistiche arricchite dalla presenza di figurine in vario atteggiamento),
Deciani, la Villa Ottelio a Pradamano e il Castello degli Arcano. Il figlio Marino dipinse ornati e prospettive a
fresco per i palazzi Fistulario Plateo e Caiselli di Udine e per la villa Caiselli di Cortello, dove operò insieme
con Giambattista Canal.
IL GUSTO DEL TEMPO: Nella metà del Settecento e fino alla fine del secolo, mentre in Italia e in Europa
si assisteva alla nascita del Neoclassicismo, ossia di quell’arte che avrebbe fatto dell’amore per l’antichità
classica, della sobrietà e dell’eleganza la sua bandiera, nel Friuli tradizionalista si assiste al riproporsi di un
repertorio decorativo legato ancora al gusto rococò ed eternamente debitore a G.B. Tiepolo: un debito che
tutti gli artisti, da qui fino alla metà dell’Ottocento, riuscirono a saldare in quanto timorosi verso il nuovo stile
così austero e dapprincipio lontano dal gusto della nuova committenza, la ricca borghesia che intendeva
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immettersi nell’alta società dimostrando, anche grazie allo sfarzo dell’arte, l’entità della propria rilevanza
economica. Le ville di campagna come le residenze cittadine divennero sedi di incontri sociali dove era
d’obbligo evidenziare la propria ricchezza e cultura.
Molte delle famiglie nobili e dell’alta borghesia chiamarono dunque artisti locali e “foresti” per ornare le pareti
delle loro abitazioni con ariose scenografie architettoniche o paesaggi con rovine, il tutto arricchito da
elementi fitomorfi, strumenti musicali, cammei, medaglie, animali, anfore o incensieri con rilievi classici.
Questi artisti crearono divertenti composizioni in cui rovine e palazzi si collegano a una fitta vegetazione. I
personaggi raffigurati sono macchiette inserite per movimentare la quinta architettonica, elevata in tal modo
a vera protagonista della decorazione parietale. La fortuna che questo prontuario decorativo ebbe è evidente
nella sua rapida diffusione: tanti pittori proposero, con nuovi schemi e diverso talento, le medesime soluzioni
così gradite alla committenza.
Con quegli artisti prese vita un decoro parietale che, derivato dai capricci rovinistici di Ricci, Guardi o
Piranesi, si arricchì della sensibilità propria del tempo. La buona preparazione accademica di questi pittori, la
loro specializzazione in materie quali l’ornato e la scenografia, e la consultazione di volumi sul tema della
decorazione delle residenze nobiliari cittadine e di campagna fornirono infine gli strumenti necessari per
mettere in atto delle vere meraviglie dell’inganno prospettico, di cui divennero maestri Giuseppe Morelli, e
poi G.B. Canal e Giuseppe Borsato, con Andrea Urbani quale caposcuola.
Con Giuseppe Morelli le residenze nobiliari della regione si arricchirono di vere e proprie quinte
scenografiche assolute protagoniste dalla parete. Abile quadraturista, egli seppe farsi portavoce di una
pittura elegante, che poggia su classiche vedute pervase da un’irreale tranquillità e incorniciate da elementi
architettonici con cammei e aquile imperiali. La sobrietà cromatica e la pulizia delle costruzioni
architettoniche, proprie del Morelli, furono stravolte dal genio creativo di Francesco Chiarottini
Accanto alla sala delle conferenze c'è la «Sala dei divani», ex sala da ballo ideata dall’architetto Andrea
Scala nel 1851 e subito dopo (1852), decorata con piacevoli riquadrature da Giovanni Pontoni (31), uno dei
tanti ottimi artigiani dell'Ottocento. Il pavimento è stato rifatto in occasione della visita del principe Umberto
di Savoia (1935).
Nella seconda metà del XIX secolo, in Udine, i palazzi o le case della ricca borghesia, oltre agli affreschi di
carattere storico o mitologico, com’era d’uso nei secoli precedenti, venivano decorate con fregi di carattere
floreale o geometrico, grottesche colorate con figure zoomorfe, con girali nei quali si specializzarono
decoratori come Giovanni Lorio, Ferdinando Simoni, Eugenio Savio, Luigi Stella ed altri: ne rimangono
piacevoli esempi nel Palazzo Antivari Kechler, ad esempio, o in quello Colloredo Orgnani. Tra costoro va
inserito Giovanni Pontoni, pittore di fioristica.
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La sala fu affrescata - nel tondo centrale del soffitto – dall’osovano Domenico Fabris, il quale raffigurò
Irene di Spilimbergo nell’atto di ritrarre Tiziano (1852). La composizione rientra nell’alveo della pittura
storica dell’Ottocento, impostata con effetti teatrali entro comparti architettonici scorciati.
E’ una pittura convenzionale che non accresce la fama del suo autore, pur dimostrandone le indubbie
capacità tecniche. Corretta l’impostazione della struttura architettonica in cui è ambientata la scena, vivace il
senso del colore, ma statici e inespressivi i personaggi che tuttavia l'autore abilmente riesce a far emergere
dal piano di fondo (ciò può considerarsi quasi un elemento caratterizzante la produzione del Fabris).
Nonostante il colore gemmeo, l’impressione che emana dalle figure è quella di una disposizione come in una
scena d’opera lirica. Lo stile è quello di un tardo e algido neoclassicismo, di un accademico “purismo”.
Il “purismo” è un movimento artistico ottocentesco di matrice romantica che proponeva,
analogamente al precedente movimento dei Nazareni, un ritorno all’arte d’ispirazione religiosa e la
rivalutazione dell’arte del Tre e del Quattrocento (e del primo Rinascimento).
Il dipinto dovette peraltro destare qualche perplessità anche nei contemporanei, tanto che lo stesso articolista
della «Rivista Friulana» del 1853 che per primo rese noto il lavoro, mise in evidenza alcuni difetti, anche se
si affrettò a definirli «piccole mende in confronto delle bellezze artistiche di cui questo dipinto va fregiato».
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DOMENICO FABRIS - “Una solida formazione accademica – veneziana – fu alla base dell’attività di
Domenico Fabris (Osoppo 1814-1901), la cui ampia produzione lasciò una traccia importante sul volto di tanti
edifici sacri friulani, fondando con studiata astuzia echi tardo-neoclassici e puristi, con risultati stilistici
perfettamente aderenti alle esigenze di un clero conservatore anche in campo culturale. Le opere dell’osovano
sono contraddistinte da grandi architetture scorciate in ardite prospettive, entro le quali si collocano figure
avvolte di spiritualità … oltre alla pittura di ambito religioso, Fabris si dedicò pure ad opere profane, come
Irene di Spilimbergo”, Pastres, Arte in Friuli 2010, pp.79-80.
Acquisì notorietà per i dipinti a olio ma ancor più per la disinvoltura nella tecnica dell’affresco, realizzando
vaste composizioni, statiche ed accademiche, scarsamente ispirate ma cromaticamente accese e strutturalmente
elaborate, ad ornamento di chiese, palazzi, teatri, in una lunga, copiosa e fortunata attività. Fu inoltre ardente
patriota: prese parte alla difesa del forte di Osoppo, assediato dagli austriaci nel 1848. Il suo temperamento
romantico e l’ideologia risorgimentale trovano riflesso nelle sue opere, inserite nella scia della tradizione
veneta cinquecentesca e con rimandi all’attività regionale del Pordenone, per cui fu esaltato dalla critica coeva.
Alla fine dell'Ottocento, secondo quanto scrive il Picco, la sala era abbellita anche dalle due statue del
Minisini ora in cortile (cfr.) e – altro aspetto interessante per la valorizzazione della cultura “all’antica” - da
un ritratto ottocentesco dell’appassionato di studi di archeologia e numismatica Luigi Cigoi, olio su tela di
Luigi Pletti ora ai Civici Musei. La competenza in materia del personaggio era tale da garantirgli la stima di
studiosi e collezionisti che, in gran numero, si rivolgevano a lui per completare le proprie raccolte.
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La vicina ex sala da pranzo, con soffitto a travatura e pareti rivestite in legno su cui sono dipinti gli stemmi
delle nobili famiglie friulane, dal 1355 (de Ottacinis) al 1914 (Deciani), è opera voluta dal conte del Torso –
secondo un gusto antichizzante (che rimanda a soluzioni analoghe, come quelle presenti nella ricostruzione
in stile presenti nella dimora dei Bagatti Valsecchi a Milano - poco dopo l’acquisto del palazzo nel 1924.
Sul caminetto compare lo stesso stemma presente nella panca dipinta al pianterreno.
In alcune stanze da letto suscitano ammirazione due armadi settecenteschi, uno dei quali - a quattro ante, in
forma di elle, è decorato con nastri e festoni dipinti da buona mano.
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Lo stretto corridoio che unisce i due corpi di fabbrica del palazzo: un ambiente rovinatissimo, è
completamente affrescato nelle pareti e nel soffitto (in parte crollato): una vera e propria “galleria delle
meraviglie”.
Con una preziosità di gusto rococò, è decorato da capricci architettonici inseriti in cornici mistilinee e da
elaborati vasi ornamentali, desunti dal vastissimo repertorio a stampa allora disponibile sul tema.
I riquadri rappresentano architetture classiche fitte di porticati e di statue, città fantastiche, capricciose
invenzioni ispirate a paesaggi urbani d’invenzione, a immaginosi contesti archeologici, come scenari di
metafisica perfezione.
Su un finto basamento architettonico, in uno dei riquadri più grandi, è apposta una data, presumibilmente
quella di esecuzione del ciclo.
Questo piccolo ciclo di affreschi è al centro di intricate vicende storico-critiche. Ritenuto di Giuseppe
Morelli dal Bragato, ma per il resto ignorato dalla critica, è stato presentato come opera dell'Urbani dal
Tiozzo, che ha creduto di leggervi la sigla A.U. e la data 1750 (ragion per cui lo studioso ha datato tutti i
lavori da lui attribuiti all'Urbani in Palazzo Mangilli al 1750, anche se il pronipote dell’Urbani ha limitato
l’intervento del veneziano al solo soffitto della sala ); il Grossato, pur accettando il nome dell’Urbani, ha
letto la data 1786, con ragione.
Franca Zava Boccazzi, pur accettando la data proposta dal Grossato, ha ritenuto che i dipinti non siano
da attribuirsi all’Urbani ma a Francesco Chiarottini, per il «vedutismo anticheggiante» con un
«repertorio puntiglioso e denso di citazioni archeologiche» estraneo alla cultura dell’Urbani e vicino invece a
quella del Chiarottini che vantava diretta esperienza romana: questa congettura veniva unanimemente accolta
dai numerosi contributi apparsi in seguito, per via dei numerosi freschi che il cividalese Chiarottini condusse
per i palazzi udinesi, ove seppe di volta in volta adeguarsi a spazi di vario respiro (Sale dei palazzi Mantica Chizzola e Pontoni, corridoio del palazzo Mantica-Chizzola e loggctta del palazzo Trítonio - Moroldi Beretta, scale di palazzo Zignoni, stanzetta di palazzo Mattioli ~ Caimo - Frova).
In nessuno di questi interventi veniva però rilevata la presenza di una sigla, decifrabile come “Gius. M” su
di un finto basamento nel riquadro posto a fianco di quello sul quale è dipinta la data”. La sigla, pur confusa,
è – secondo il parere di Massimo De Grassi, studioso del Chiarottini – è da sciogliere in Giuseppe Morelli,
già indicato da Belgrado tra i maestri di Chiarottini. In favore della paternità dell’artista modenese (già
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sostenuta dal Bragato, 1913), depongono le molteplici affinità rilevabili nelle sue opere udinesi certamente
documentate: dalla minuzia descrittiva dei partiti architettonici nelle vedute dei palazzi Pontoni (1793) e
Varmo Buiatti (1794), spesso impaginate “per angolo”, ai moduli decorativi delle quadrature realizzate per la
cappella delle Reliquie e per la sagrestia del duomo (1792). Le soluzioni del soffitto trovano poi puntuali
occasioni di contatto con le soluzioni adottate nel salone a piano terra della villa Steffaneo a Crauglio,
lontane dagli elaborati e ariosi sfondati ideati dal cividalese.
In definitiva, gli affreschi del corridoio vanno ad arricchire il catalogo (sino ad oggi lacunoso) del
modenese Morelli, oggi quasi sconosciuto ma ai suoi tempi celebre, “che di questa maniera lavorava allora
in Friuli con qualche lode” e che sappiamo essere stato anche “maestro” di prospettiva e di quadratura del
cividalese Francesco Chiarottini. Faceva parte della bottega dei Fossati (architetti e quadraturisti).
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Sulle pareti si alternano il motivo del vaso su piedistallo entro finte nicchie con ovati contenenti deliziose
vedute di fantasia e di solenni classiche architetture. Tra queste ce n’è una raffigurante un giardino con
architetture ideali, - che pur non trovando rispecchiamento con realtà esistenti - offre un riscontro sulle
propensioni dei committenti.
I POSSIBILI AUTORI
GIUSEPPE MORELLI, quadraturista
Nacque nel 1749, probabilmente a Modena (secondo quanto riferisce il De Renaldis), anche se da alcuni
autori è considerato friulano. Risulta presente a Udine dal 1770 circa al 1829, anno della sua morte,
svolgendovi l’attività di quadraturista, proponendo soluzioni prospettiche di un gusto legato alla scuola
emiliana del Bibiena (negli interventi del M. è assente la figura umana). Lavorò alle decorazioni del teatro
sociale di Udine con Domenico Fossati (intorno al 1770) e in quel periodo gli è attribuito l’insegnamento della
tecnica dell’affresco al giovane Francesco Chiarottini. Particolarmente intenso appare il suo sodalizio con il
veneziano Pietro Antonio Novelli, per il quale realizzò le quinte architettoniche degli affreschi della Cappella
delle Reliquie e nella seconda sagrestia del Duomo di Udine (1792). Le fonti ricordano altre decorazioni del
M. in ambienti sacri, però perdute. Di maggiore impegno appaiono le commissioni per edifici privati, tra cui il
salone del palazzo udinese Colloredo-Valvason-Maniago-Pontoni (1793)*, dove unì elaborate fantasie
architettoniche con vari riferimenti al mondo antico, proponendo così un insieme dall’eleganza neoclassica,
sebbene piuttosto fredda e senza personalità. Caratteri che si ritrovano pure negli affreschi dello scalone e
del salone di Palazzo Buiatti-Varmo a Udine (1794), in cui compaiono gradevoli squarci vedutistici che
riproducono monumenti romani. Gli sono attribuiti inoltre dei capricci architettonici in Palazzo AntoniniMangilli-Del Torso a Udine e nella villa Steffaneo-Pinzani-Roncato a Crauglio ed è possibile che molte
opere del M. siano presenti in dimore signorili del Friuli, a volte confuse sotto il nome dell’allievo Francesco
Chiarottini. Al M. spettano anche quattro interessanti disegni che illustrano vedute udinesi, conservati nei
Civici Musei di Udine.
Scheda di Paolo Pastres, pp.1738-1739.
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Si noti l’indubbia affinità stilistica tra le ornamentazioni che compaiono negli affreschi di Palazzo Pontoni in via
Aquileia (a sinistra) e il corridoio di Palazzo Mangilli (a destra).
FRANCESCO CHIAROTTINI
Nacque a Cividale il 30 gennaio 1748. Secondo i suoi primi biografi, alla morte del padre, nel 1760, si trasferì
a Venezia per approfondire le arti del disegno, attività verso le quali il giovane cividalese aveva dimostrato
una particolare predisposizione. Nella città lagunare C. divenne allievo di Francesco Fontebasso, pittore
seguace del Tiepolo, che contribuì in maniera determinante ad indirizzare in quel senso gli esiti giovanili
dell’artista friulano. Altra importante frequentazione dovette essere quella con Domenico Fossati,
quadraturista e scenografo, la cui attività è attestata a Udine dal 1768 al 1771, per il costruendo teatro
sociale, alla cui realizzazione collaborava pure Giuseppe Morelli, considerato dalle fonti il maestro del C.
nella tecnica dell’affresco.
Nel 1773 il nome del cividalese comparve tra gli iscritti all’Accademia veneziana, dove insegnavano, fra gli
altri, Agostino Mengozzi Colonna e Giandomenico Tiepolo, per il quale C. tradusse a stampa alcune opere
del padre. Di tali relazioni, solo in parte documentate, emerge il ritratto di un giovane artista impegnato
nell’apprendere, come d’uso, diverse vie espressive, dalla grafica all’affresco.
La sua produzione iniziale tuttavia è di carattere essenzialmente religioso, con dei lavori ad olio che non
sembrano stagliarsi oltre una dimensione di mediocrità creativa e formale.
Anche l’esordio nell’attività di frescante è intessuta di reminiscenze provenienti dall’esperienza
veneziana (Villa Steffaneo-Pinzani-Roncato a Crauglio, 1770, 1774-80, insieme al Morelli in
quest’ultima fase), in cui compaiono diversi spunti tratti da invenzioni di G.B. Tiepolo, che egli
conosceva attraverso una raccolta di incisioni alla quale aveva collaborato.
Nel corso della seconda metà degli anni ’70 il C. lasciò l’ambiente veneto per una serie di viaggi nell’Italia
centrale, che lo portarono a Bologna, Firenze, Roma e Napoli. In questo periodo, sugli esempi del Bibiena, si
avvicinò alle tecniche scenografiche, che nel 1782 ebbe modo di mettere in pratica presso il teatro Bandeu
di Gorizia, decorandovi la sala e dipingendo alcuni scenari (dipinti non più esistenti), e in seguito anche per il
teatro sociale di Udine.
Negli anni ’80 si situano i suoi principali interventi decorativi, con eleganti affreschi in dimore signorili, nei
quali sviluppa grande abilità prospettica, fantasia nell’ambientazione architettonica e un ricco repertorio
antiquario di gusto neoclassico. Le prime espressioni di tale capacità si collocano, all’inizio del decennio, a
Trieste, ma purtroppo non sono sopravvissute al trascorrere del tempo.
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Maggiore fortuna hanno avuto le opere che negli anni immediatamente seguenti sono state eseguite in Friuli,
come le Vedute prospettiche con scene bibliche affrescate entro il 1785 negli ambienti di Palazzo ManinMantica-Chizzola a Udine, dove si riscontrano capacità virtuosistiche unite a prestiti da Piranesi e Bibiena,
cui fa seguito la decorazione di un soffitto in Palazzo Colloredo-Valvason-Maniago-Pontoni, sempre nel
capoluogo friulano.
Nel 1785 realizzò nella nativa Cividale dei Capricci paesaggistici per il primo piano del Casino della Società
dei Nobili, ora sede del Municipio, e dei Capricci architettonici per villa Foramitti-Moro: esecuzioni di notevole
raffinatezza e certo inusuali in quel centro periferico.
Risultano purtroppo in gran parte perduti gli affreschi eseguiti a Buttrio per villa Bartolini-Florio-Danieli tra il
1785 e il 1787 su commissione dell’erudito udinese Antonio Bartolini: restano sulle pareti alcune vedute
architettoniche, che rinviano all’attività di Mengozzi Colonna e, su un soffitto, la raffigurazione della Nobiltà e
della Virtù, allegoria tratta da un’incisione di Giandomenico Tiepolo.
La seconda metà degli anni ’80 presenta un C. impegnato soprattutto sul versante della scenografia a
Roma, città dove si trovava certo nel 1786, come attesta un suo celebre disegno che illustra lo studio di
Canova (conservato presso i Civici Musei di Udine), scultore con il quale era evidentemente in buoni
rapporti. Nell’anno successivo produsse alcuni fondali per il teatro romano Argentina, lavori che riscossero
pubblici apprezzamenti. Ne resta testimonianza in un album di bozzetti conservato nei Civici Musei di Udine,
da cui si evidenziano le derivazioni dai repertori di Piranesi e Bibiena.
Al rientro dall’esperienza romana il C. riprese l’attività di decoratore e alla fine degli anni ’80 licenziò alcuni
dei suoi interventi più significativi e felici, a cominciare dalla loggia di palazzo Trittonio-Moroldi-Beretta a
Udine (1789ca.), dove, pur lavorando all’interno di uno spazio angusto, offrì un fantasioso saggio di creatività
ornamentale, proponendo un repertorio di vasi e fontane che arricchisce di suggestioni rocaille l’ambiente.
Allo stesso periodo sono datati anche gli affreschi in Palazzo Garzolini a Tolmezzo, quattro riquadri dei quali,
con capricci architettonici e una scena che raffigura il Carro di Venere, sono conservati al Museo delle
tradizioni popolari di quella città.
Attorno al 1789-90 si colloca pure la serie di affreschi in palazzo Pontoni-Brosadola a Cividale, che sono
considerati il suo capolavoro, nei quali riuscì a unire la sapienza prospettica alla visionarietà scenografica,
dando vita a un insieme di rara eleganza, per le scene proposte e per il loro favorevole rapporto con le
strutture edilizie. Il fulcro di tali decorazioni è nel Salone centrale, il cui soffitto ospita l’Allegoria della Gloria
dei Principi, come al solito derivata da un’incisione tiepolesca, mentre lungo le pareti sono proposti quattro
capricci architettonici, che traggono spunto dalla raccolta di vedute di Pietro Gaspari; ad esse si unisce il
soffitto dello scalone e le pareti di due pianerottoli, dominate da una serie di colonne salomoniche che
inquadrano vedute prospettiche.
Attorno al 1790 si colloca una delle ultime realizzazioni del C.: gli affreschi di villa Gorgo-Maniago a
Nogaredo al Torre, purtroppo quasi completamente distrutti (ma ne resta documentazione grafica).
Agli inizi dell’ultimo decennio del secolo il pittore cividalese, al culmine della maturità artistica e della fama,
abbandonò l’attività, colpito da una sindrome nervosa o, per usare le parole del suo primo biografo Giovanni
Battista Belgrado, “per troppo applicare si riscaldò la fantasia”. La morte lo raggiunse nella città natale il 14
aprile 1796.
Interessante la notizia della causa della sua morte, originata dalla depressione provata per non aver potuto
rispondere alla prestigiosa chiamata dell’imperatrice Caterina di Russia: sarebbe in qualche modo rientrato
nel novero di quegli artisti italiani, veneziani in particolare, che erano stati tenuti in considerazione presso la
corte russa. Questo onore – che in base a queste indicazioni può essere solo ipotizzato - sarebbe toccato
effettivamente ad Andrea Urbani, che pure fu attivo a Udine con la decorazione di alcuni soffitti per varie
cappelle del duomo e nelle decorazioni di alcuni palazzi udinesi.
Scheda di Paolo Pastres, Liruti, II
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IL CORTILE INTERNO
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Nel raccolto cortiletto interno, che si configura come preziosa raccolta archeologica, forse inizialmente
raccolta dalla famiglia Antonini e poi integrata e completata dai Mangilli, ha al centro un’antica vera da
pozzo veneziana, sono conservate alcune pregevoli opere scultoree, tra cui le due – ottocentesche precedentemente collocate nelle nicchie della sala dei ricevimenti (e non sappiamo quando trasferite in
esterno, se dai Mangilli o dai del Torso), a formare una sorta di museo privato: spiccano le due statue
ottocentesche dal bel modellato di Luigi Minisini (1816-1901) rappresentanti, come si evince dal cartiglio
che tengono in mano, i due filosofi greci Eraclito («ogni cosa dal fuoco”) e Democrito («ogni cosa
dall'atomo››). La loro pacata luminosità volge gli spunti veristici in direzione idealizzante neoclassica.
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Vi sono poi un lavabo in pietra fine Seicento, caratterizzato da eleganti volute, qualche statua romana a tutto
tondo, la citata scritta di fondazione della casa (1577) ed una piccola patera.
L’archeologo Maurizio Buora sottolinea la stele tardorepubblicana di C. Clodius Diastus (fine I sec. a.C.),
capolavoro di ritrattistica efficace ed essenziale. Appartiene a una serie molto diffusa, e mostra nel volto
tratti apparentemente tardorepubblicani, ma potrebbe essere stata completata nell’età primo-imperiale.
Possibile che il committente abbia fatto eseguire l’opera secondo i suoi gusti da vivo. Era ancora ad Aquileia
alla fine del Settecento (fu rinvenuta forse nelle proprietà della famiglia o acquisita poi dai Mangilli), e sotto
una rarissima urna cineraria a forma di sarcofago a cassa di tipo aquileiese, in marco proconnesio, della II
metà del II secolo d.C., quando il rito della cremazione coesisteva con quello dell’inumazione.
Si tratta di un ossuario, posto dalla moglie Numisia Antonina al marito karissimo, che si chiamava M.
Licinius Trophimus (un liberto?). Il piccolo monumento appare come un sarcofago in miniatura, realizzato
con un materiale di qualche pretesa. La struttura è simile a quella di molti sarcofagi coevi (si utilizzavano
quindi modelli standard), con i due eroti che sostengono la tabula, ma l’opera – dalla lavorazione un po’
corsiva – è la riproduzione in piccolo di illustri precedenti.
Nel lato occidentale si osservano dei “pastiches” ottenuti appoggiando statue di togati, per l’archeologo
Maurizio Buora di età imperiale, sopra piedi moderni e completando con teste non pertinenti e di periodi
diversi. Luigi Sperti (Università di Venezia) in un suo contributo di prossima pubblicazione, le
ritiene le più antiche statue di togati da Aquileia, quindi databili ancora nella prima metà del I sec.
a. C.
ERACLITO E DEMOCRITO NELL’ARTE
L’abbinamento tra i due filosofi ebbe notevole fortuna dall’età romana fino al Novecento. L’accostamento
risale al I secolo d.C., con il De Ira di Seneca e poi viene ripreso in una satira di Giovenale, che fa dialogare i
due filosofi, e poi da Luciano di Samosata in uno dei suoi dialoghi.
Democrito, il filosofo che sostiene l'infinità dei mondi e che con l'atomismo elabora una dottrina che
affida il divenire ad un meccanismo cieco, poteva davvero vestire i panni del saggio che ci invita a
rinunciare ad una concezione teleologica ed antropocentrica dell'universo e a ridere quindi della
pretesa di chi crede di scorgere negli eventi che accadono su questa terra un significato assoluto. La
totalità delle vicende umane e l'esistenza stessa degli uomini cui naturalmente diamo tanto peso
debbono apparire agli occhi del filosofo come un evento che appartiene alla storia casuale del
cosmo - come un accidente che si è realizzato per caso e che, per caso, può dissolversi. Il riso di
Democrito dall'alto della sua meditazione cosmica non può che sorridere delle vicende terrene: una
meditazione cosmica che, nell'iconografia dell'età moderna, doveva esprimersi nell'immagine di una
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Terra in miniatura - in quel mappamondo che così di frequente accompagna i ritratti di Democrito.
Nel pianto di Eraclito, invece, è difficile ravvisare qualcosa che ci parli della sua filosofia: dobbiamo
accontentarci di leggerlo come espressione di una forzatura che ha le sue ragioni prevalentemente
sul terreno narrativo. E su questo terreno, del resto, l'immagine del filosofo che ride su ciò di cui una
diversa filosofia invita a piangere doveva trovare una larga eco.
Il momento d’oro viene però con l’Umanesimo, il Rinascimento e soprattutto con i moralisti seicenteschi, ma
la tradizione continua anche oltre, rimbalzando anche in Leopardi e Pirandello: le arti figurative
accompagnano la fortuna della coppia.
In età rinascimentale il conflitto di passioni tra Democrito ed Eraclito doveva essere colto prevalentemente
alla luce del dibattito sulle influenze degli astri e sulla loro arcana eco nella dottrina dei temperamenti e degli
umori. È in questa luce che è stato più volte interpretato l'affresco del Bramante che ritrae i due filosofi,
ponendoli sotto un fregio che dispone il contrasto tra i temperamenti sotto l'egida dei carri allegorici di
Saturno e Giove. Il mondo come teatro delle passioni umane ci appare così sullo sfondo delle influenze
celesti - i caratteri allegri e malinconici divengono espressione dei temperamenti gioviali e saturnini - e la
dialettica degli opposti in cielo e in terra parla in nome dell'esigenza di un accordo - quell'accordo che solo
può garantire alla sfera del mondo il suo necessario equilibrio. E tuttavia, proprio la considerazione che ci
invita a temperare gli umori reca con sé la vena amara della malinconia: la saggezza che ci invita a trovare
un accordo tra il riso e il pianto è già espressione di un temperamento malinconico che sa guardare al
mondo, senza rinunciare al distacco di chi se ne fa soltanto spettatore (cfr. affresco del Bramante qui sotto).
Di questo tema doveva impossessarsi soprattutto la pittura seicentesca. E non a caso. Per la cultura pittorica
del Seicento, così attenta alla dinamica delle passioni e così sensibile al fascino dei contrasti, quanto ai
soggetti che promettono una qualche divagazione speculativa, il compito di rendere insieme il riso e il pianto
e di coglierli sul volto di due antichi filosofi della grecità doveva porsi come una prova cui era difficile
sottrarsi.
PERCHE’ IL MARCHESE MASSIMO MANGILLI VOLLE FAR RAFFIGURARE LA COPPIA DEI
PENSATORI ANTICHI, UN TEMPO COSI’ POPOLARE?
Forse la scelta si collega a un ricordo di scuola, e a un contenuto morale (o moralistico), tale da non
turbare la cultura clericale del tempo, più che a una concezione scientifica. I dimostra così il gusto
antiquario che pervase la nobiltà locale nei decenni centrali dell’Ottocento.
ERACLITO E DEMOCRITO - Dal dizionario di Filosofia dell’Enciclopedia Treccani
Eraclito di Efeso - Filosofo, tra i più significativi del periodo presocratico. Le notizie circa la vita di E. sono
piuttosto incerte e spesso confuse dalla sua fama di uomo altero e sprezzante; discendente da nobile
famiglia efesia, nella quale si tramandava la dignità sacerdotale di βασιλεύς, E. avrebbe disdegnato,
secondo la tradizione, questa carica, cedendola al fratello minore. La sua avversione per la democrazia, di
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cui sarebbe espressione il rifiuto di redigere la nuova costituzione di Efeso, sembra confermata da alcuni
passaggi della sua opera in cui spesso si sottolinea l’antitesi tra «i migliori» da una parte e «i più» dall’altra.
Secondo Diogene Laerzio, che ne traccia una leggendaria biografia nelle Vite (IX, 1-17), il disprezzo verso i
suoi concittadini avrebbe spinto E. a ritirarsi nell’ultimo periodo della sua vita nel tempio di Artemide, dove il
suo scritto sarebbe stato depositato come dono votivo e così sottratto alla conoscenza della stolta
moltitudine. Lo scritto ebbe però una rapida diffusione nelle colonie dell’Asia Minore e in Magna Grecia.
Incline a esprimere il suo pensiero con enigmatica solennità, E. ricevette dalla tradizione l’epiteto di
«tenebroso» (σκοτεινός) e fu già nell’antichità caratterizzato come il «filosofo piangente», di contro al
«sorridente» Democrito.
Lo scritto in cui E. espose, in prosa ionica, le sue concezioni, era intitolato Περὶ φύσεως («Intorno alla
natura») e doveva, stando alla tradizione, esser diviso in tre parti (περὶ τοῦ παντός, πολιτικός, ϑεολογικός),
ma né titolo né partizione risalgono all’autore. Se ne conserva un centinaio di frammenti, che gli editori
hanno tentato a lungo di riordinare, cercando di ricostruire lo schema originario dell’opera. I risultati si sono
però rivelati insoddisfacenti. Più che riallacciarsi alla precedente speculazione della scuola di Mileto, E.
sembra affrontare quel complesso di problemi che alla nascente riflessione filosofica erano posti dall’arcaica
convinzione di un’immediata corrispondenza tra la realtà, il pensiero che la conosce e il linguaggio che la
esprime. «Nome» e «natura» sono quindi aspetti egualmente oggettivi di ciascuna realtà, e se «l’arco (βιός)
ha per nome vita (βίος) e per opera morte», come si dice nel framm. 48, ciò vuol dire che la realtà stessa
dell’arco è intrinsecamente contraddittoria.
Questo modo di argomentare mostra come l’unità degli opposti sia il tema fondamentale della filosofia di
Eraclito. Ciascuna realtà non può essere sé stessa se non opponendosi alle altre, in un’eterna guerra che è
origine di tutte le cose, il Logos del mondo. Che poi in questa filosofia, anche per la sua opposizione a quella
di Parmenide, si accentuassero motivi tendenti a presentare il mondo come un perpetuo divenire (il famoso
πάντα ῥεῖ, «tutto scorre», che non si legge nei frammenti di E.) e che questo divenire fosse tradotto in una
cosmologia incentrata nell’idea del fuoco come principio, è questione che riguarda piuttosto la storia
dell’eraclitismo e delle sue interpretazioni. Il motivo dell’universale concordia discors, della «bellissima
armonia» che nasce dalla discordia, in antitesi con l’ontologia eleatica, è uno dei temi centrali della storia
della metafisica classica.
La contrapposizione del "panta rei" eracliteo al pensiero di Parmenide, filosofo dell'essere, ebbe un'influenza
determinante su Platone, il quale per risolverla cercherà di mostrare come il non-essere esiste solo in senso
relativo, dando così un fondamento filosofico al senso greco del divenire. Hegel intravide in questo
passaggio la dialettica fondamentale della filosofia greca. Eraclito verrà infine riabilitato del tutto da Hegel, il
quale però reinterpretò la sua identità degli opposti non più in senso mistico e trascendente, ma in un'ottica
immanente. Anche Nietzsche ebbe un'alta stima di Eraclito: la sua grandezza, per il filosofo tedesco, sta
anche nel fatto che la nobiltà di ciò che ha da dire non si presta alla chiarezza superficiale, ed egli ne
ammira anche la descrizione del mondo come divenire.
Nell’arte, per il suo pessimismo, in età medievale, seguendo una tradizione antica esposta nei Dialoghi di
Luciano di Samosata, Eraclito venne detto il "filosofo del pianto", in contrapposizione a Democrito, detto
"filosofo del riso". Spesso è rappresentato nelle opere artistiche con un'espressione seria, triste o poco
allegra, da solo o con accanto il sorridente Democrito. Raffaello Sanzio lo raffigura isolato e intento a
scrivere, con le fattezze di Michelangelo Buonarroti, nel dipinto della Scuola di Atene. Eraclito viene citato da
Dante nel Canto IV dell'Inferno (Divina Commedia), fra gli spiriti magni che quest'ultimo incontra nel primo
Cerchio o Limbo; il poeta lo descrive accanto a Democrito, Anassagora, Talete, Empedocle, Diogene il
Cinico (oppure Diogene di Apollonia) e Zenone di Elea (o Zenone di Cizio).
Democrito di Abdera - Filosofo greco (Abdera, Tracia, tra il 470 e il 457 a. C. - ivi, forse tra il 360 e il 350 a.
C.). Discepolo di Leucippo, ha elaborato una concezione materialistica della realtà, la quale è vista come
materia in movimento (permesso dal vuoto). I dati meno incerti della tradizione che lo riguarda vogliono che
viaggiasse molto in Egitto e per tutto il mondo mediterraneo. Tornato ad Abdera (vi sarebbe morto a 109
anni), si dedicò all'attività di maestro e di studioso. Dei numerosi scritti, di etica, matematica, letteratura e
musica, ci sono pervenuti solo circa trecento frammenti.
Si orientò verso una spiegazione metafisica della realtà, nella distinzione rigorosa fra conoscenza sensibile e
conoscenza intellettuale, e solo a quest'ultima è riconosciuto il carattere di certezza: le qualità sensibili sono
convenzionali (νόμῳ), la conoscenza delle verità attraverso il travaglio scientifico della ragione si pone
invece come la più alta esigenza del βίος ϑεωρητικός, con cui una saggia ed equilibrata morale dovrebbe far
coincidere anche la vita pratica. Guardata sotto questo profilo, la concezione atomistica di D. va vista come
un superamento della metafisica parmenidea in forza di una nuova metafisica che fa del non-essere il
tessuto dell'essere.
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Dal punto di vista fisico è particolarmente interessante la concezione atomistica, cioè discontinua, della
materia; l'atomo di Democrito è considerato come l'unità elementare dell'Essere, fisicamente indivisibile,
oltre che immutabile ed eterno: la formazione dei corpi, e in primo luogo quella dei cosiddetti elementi
(fuoco, aria, acqua, terra), viene spiegata da D. in senso rigidamente meccanicistico come una conseguenza
dell'incessante ed eterno movimento vorticoso degli atomi che determina, per qualità geometriche, il
raggruppamento di elementi simili. In contrasto con la filosofia dominante nel Medioevo, le dottrine
democritee e epicuree cominciarono a tornare in onore all'inizio dell'età moderna, e, ad opera specialmente
di Bacone e di Galileo, contribuirono allo sviluppo della nuova filosofia naturale.
Nella sua lunga esistenza Democrito scrisse anche opere di etica, in cui affermava che l'interesse maggiore
dell'Uomo deve essere la felicità, che si ricerca attraverso una moderata cancellazione della paura: per
questo egli divenne noto come il "filosofo del riso", a differenza del triste e pessimista Eraclito che venne
definito il "filosofo del pianto".
La felicità però per Democrito, non è da identificarsi nel possesso di beni materiali, nel prestigio o nel potere,
ma nell'esser moderati e nel condurre una vita giusta. È necessario essere coraggiosi non in guerra, bensì
contro i piaceri sensibili che rendono l'uomo schiavo dei sensi. Il razionalismo etico di Democrito assume
come concetto guida il raggiungimento dell'euthymìa, ossia della tranquillità, della serenità dell'animo. Vero
saggio dunque è colui che impronta la sua vita a regole di moderazione, di accorta misura e di equilibrio,
rifuggendo i turbamenti e le passioni. Il discorso morale di Democrito ha un carattere prevalentemente
personale e privato, in quanto si rivolge al singolo e alla sua ricerca della felicità e del bene più che alla
comunità sociale e politica. La tranquillità interiore d'altro canto non implica affatto la passività e l'ozio, anzi
Democrito apprezza la vita attiva e produttiva, affermando tra l'altro che: Le fatiche sono più piacevoli
dell'inerzia. Inoltre Democrito elegge la ragione a giudice e guida dell'esistenza e fa dell'equilibrio e della
misura il supremo ideale di condotta. Questa morale mette a capo a un'etica del dovere fondata sul rispetto
verso se stessi: non si deve aver rispetto per gli altri più che per sé.
La riflessione di Democrito sulla civiltà, sul linguaggio e sulla religione è molto probabilmente frutto del
razionalismo della sua epoca [Civiltà: gli uomini, inizialmente, vivevano senza leggi e solitari, compresa
l'utilità della vita sociale stabilirono delle regole di comune convivenza; Linguaggio: è una convenzione
risalente all'epoca dell'organizzazione in società dei primi uomini; Religione: osservando i fenomeni naturali
e non sapendosene dare una spiegazione gli Uomini pensarono che fossero opera di entità soprannaturali
(gli dei)].
Democrito non godette di buona fama presso Platone e Aristotele, che non condivideva i principi
dell'atomismo, poiché riteneva che gli organismi si evolvessero seguendo soltanto certe leggi proprie,
mentre i meccanismi di causa-effetto che a volte potevano agire su di loro gli apparivano accidentali. Egli
respinse quindi la concezione che tutta la realtà fosse da ricondurre al sensibile sulla base di spiegazioni
materialistiche. Il fatto che Democrito escludesse la presenza di princìpi primi in grado di guidare il perenne
fluire dei fenomeni era inoltre, secondo Aristotele, di impedimento alla costruzione della scienza. Fu per tale
motivo che a Democrito venne attribuita la fama di voler assegnare leggi casuali alla natura, nonostante il
loro carattere rigorosamente determinista.
Dante Alighieri nel Medioevo lo definì appunto come «Democrito, che 'l mondo a caso pone» (Inferno, Canto
IV vv.136). Nonostante ciò, Dante, a differenza di Epicuro, posto nel girone degli eretici ed epicurei,
posiziona Democrito nel limbo, accanto ai grandi non cristiani dell'antichità (tra i quali Socrate, Platone e
Aristotele).
LUIGI MINISINI, SCULTORE - Definito in un articolo dell' “L’Illustrazione Italiana” del 1901 “ultimo dei
canoviani e primo dei realisti”, Luigi Minisini, nato a San Daniele del Friuli nel 1816 da una povera famiglia (il
padre era un artigiano armaiolo e orologiaio), mostrò ben presto tale inclinazione all’arte che alcuni
sandanielesi costituirono un’associazione di beneficenza grazie all’aiuto della quale poté frequentare i corsi
dell’Accademia di Venezia, dove ebbe per maestro Luigi Zandomeneghi. Fissò quindi la sua dimora a
Venezia e vi aprì il suo studio. Abbandonati in breve gli insegnamenti dell'Accademia, diede alle sue
sculture, raffinatissime nell’esecuzione, un senso di intimismo e un anelito di vita non facile a trovarsi in altri
scultori friulani dell'epoca. Anche per questo le sue opere, che dopo quasi un secolo di oblio la critica attuale
tende a rivalutare, riscossero un notevole successo presso i contemporanei. " Di recente inserito nel
contesto della cultura del “verismo” ottocentesco, Minisini è stato uno degli artisti più apprezzati nel campo
della scultura cimiteriale, ma anche nel genere ritrattistico che, pur tra non poche contraddizioni di ordine
formale, ha saputo evidenziare (lo attestano tra l’altro l’autoritratto e le effigi della moglie e della madre) la
ricerca naturalistica necessaria a formulare gli “ideali del vero e dell'arte” in un delicato equilibrio tra realismo
commosso e sentimentale cli sapore Biedermeier. I primi anni di attività non dovettero essere gran che
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remunerativi, ma nel 1848 modello un gesso raffigurante la Pudicizia che fu premiato e, tradotto poi in
marmo (ora alla Fondazione Crup), gli procurò gran fama e di conseguenza numerose commissioni di
lavoro. Nel 1852 lo scultore fece il modello in gesso della statua del vescovo Zaccaria Bricito, scomparso nel
1851; nel 1856 ultimo la statua, che venne collocata all’interno del duomo di Udine nel 1858. È senz’altro fra
le migliori opere dell’artista e della scultura dell’Ottocento friulano per resa virtuosistica e plasticismo
monumentale. Nel 1852 scolpì per il palazzo udinese del marchese Massimo Mangilli due gruppi
scultorei con le figure dei filosofi greci Eraclito e Democrito. Nel 1853 diede vita a uno dei suoi
capolavori, la statua, in candido marmo di Carrara, per il monumento funerario di Domenico Rubini nel
cimitero monumentale di Udine. Inginocchiata su un piedistallo, discosta dal muro ove campeggiano su
lastre i nomi dei singoli familiari, sta una gentile figura di donna dai lineamenti del volto dolcissimi,
dall’intenso mistico sguardo, dai lunghi capelli ondulati che scendono sul petto, coperta da un manto che
lieve le avvolge le spalle. È uno dei momenti più alti del Minisini “purista”, un artista che va oltre il
neoclassicismo del Canova e che ha come punto di riferimento l’arte di Lorenzo Bartolini in cui il classicismo
felicemente convive con la veridicità e l'intimismo. A questo periodo artistico appartengono, oltre alla
Pudicizia, altre notevoli sculture, come La Preghiera, L’innocenza, Angeli che cantano, Il bambino dormiente.
Come altri artisti del XIX secolo che particolare attenzione riservarono al mondo dell’infanzia e
dell’adolescenza, Minisini sente congeniali al suo delicato scalpello le morbide forme di bambini e
adolescenti. Lo confermano sculture come la bambina seduta su un cuscino nell’atto di tendere le braccia
alla mamma, opera vista dal re Vittorio Emanuele II in un'esposizione per lui improvvisata dall’Accademia di
Venezia nel 1866 e tanto apprezzata da chiedere di poterla acquistare (lo scultore la donò poi, nel 1892, alla
regina Margherita), il Primo dolore del 1847, raffigurante una bambina distesa su un giaciglio mentre tiene in
mano un uccellino morente, L'Innocenza (simboleggiata da un fanciulletto di quattro anni circa con un mazzo
di fiori raccolti).
Considerato ormai gloria locale, Minisini - che pur continuava a risiedere e a lavorare a Venezia - esegui per
il Friuli numerosi lavori: tra gli altri, statue di angeli musicanti per il santuario di Madonna di Rosa (1860), il
delicato bassorilievo marmoreo per la cappella Rossetti nel cimitero di Latisana (1865), il grande monumento
funebre per Gaspare Luigi Gaspari, con la statua a figura distesa del noto agronomo, da collocare in un
tempietto progettato da Andrea Scala nello stesso cimitero di Latisana (1864), due belle statue (Addolorata e
San Giovanni Evangelista) dai delicati morbidi effetti luministici collocate ai lati dell'altar maggiore della
chiesa di San Giacomo a Fagagna (1867), il monumento a Nicolò-Giacomo di Maniago nella chiesa
dell'Immacolata Concezione a Maniago (1868), Impresa di maggior impegno quella che portò lo scultore a
eseguire tra il 1870 e il 1874 le statue degli apostoli per la basilica delle Grazie di Udine, chiesa in cui
qualche anno prima avevano operato Vincenzo Luccardi e Antonio Marignani e che a partire dal 1880
sarebbe stata decorata dagli affreschi di carattere storico di Lorenzo Bianchini: dodici grandi statue,
collocate entro nicchioni a sei metri d’altezza, indubbiamente appariscenti ma, nell’insieme, prive di affiato
lirico, per l’eccessivo carattere didascalico che le informa e il troppo preciso riferimento a precedenti modelli
iconografici. Notevole anche la produzione ritrattistica: il Minisini venne incaricato, al pari di Pietro Bearzi,
Vincenzo Luccardi, Antonio Marignani, Andrea Flaibani e altri, di scolpire busti di alcuni dei “ grandi” friulani:
il beato Odorico da Pordenone, l’architetto valentino Presani, il commediografo - e amico - Teobaldo Ciconi.
Opere eseguite, se pur in tempi diversi, con grande abilità e con felici doti ritrattistiche, evidenti sia nei lavori
ufficiali dell'età matura (Burlo del letterato Bartolomeo Gamba, Museo di Bassano del Grappa, 1870; Burlo di
mons. Stefano Collovati, nel duomo di Latisana, 1875-1876; Busto del cav. Bonaventura Segatti, nel cimitero
di Portogruaro, 1883; bassorilievi con le Effigi di Elisabetta Bellavite e di Vincenzo Omobono Astori nel
Collegio salesiano di Mogliano Veneto, 1888) come nei delicati, affettuosi Ritratti dei familiari. Convenzionali,
invece, i tre busti di Dante eseguiti per Udine Gorizia e Trieste nel 1865, quando si celebrò in tutta Italia il
sesto centenario della nascita del grande poeta e nel Friuli, così come in altri territori allora soggetti
all'Austria, l’evento ebbe i connotati di una sentita manifestazione di italianità. Minisini morì il 6 settembre
1901 a Ronchi di Campanile, nel comune di Villafranca padovana.
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IL GIARDINO
L’area, un pubblico giardino tradizionalmente adibito a sede di spettacoli all’aperto, presenta un perimetro
irregolare, con sedime disegnato da percorsi ortogonali, talora curvilinei, a definire grandi aiuole alberate nel
segmento nord e aiuole a parterre nel settore prospiciente la fabbrica nobiliare.
Storicamente, la sua prima configurazione potrebbe risalire alla seconda metà del Seicento: il giardino, sorto
a corredo del palazzo e attraversato dalla roggia secondo una forma insediativa analoga a quella della
residenza palladiana in via Gemona, può aver avuto un impianto formale (con un’impostazione a quadranti
nella pianta dello Spinelli del 1704 o con una composizione radiale nella mappa assonometrica del Gironcoli,
1727).
Il passaggio della proprietà ai Mangilli alla metà del Settecento può far ritenere che la riforma del complesso
abbia comportato una risistemazione pure del giardino. Al secondo Settecento o al primo Ottocento risale la
struttura loggiata che, a differenza della sistemazione attuale, un tempo era posizionata lungo tutto il bordo
settentrionale del giardino (cfr. pianta del Perusini, 1811, che non riporta la loggetta centrale affrescata), per
essere poi ridimensionata alla sola parte centrale.
Verso la metà dell’Ottocento l’interno dell’edificio fu rimaneggiato ad opera di Andrea Scala, che forse
diede qualche indicazione anche riguardo al giardino (forse per la creazione della loggia cubica di gusto
storicista e della loggia ad archi sorretti da colonne in pietra, di gusto settecentesco, verosimilmente utilizzata
per manifestazioni teatrali): possibili interventi furono attuati dall'architetto sul giardino, in forma di
"restauro". All’interno del parco particolarmente apprezzabile per le sue piante ad alto fusto e per le sue
dimensioni (quasi tremila metri quadrati).
Rare immagini fotografiche degli anni Trenta del Novecento evidenziano, probabilmente nell’imminenza
della demolizione, il secondo ordine di edifici che si estendevano, con corpi simili a due torri, verso il
giardino. Al loro posto rimase la ricordata costruzione in mattoni rosati che a tutta prima parrebbe
rinascimentale: la loggia cubica aperta la cui volta è decorata con grottesche buone nell’invenzione ma
modeste nell'esecuzione.
[GROTTESCA: genere artistico utilizzato nella pittura parietale romana di epoca augustea e che fu riscoperto e
reso popolare a partire dalla fine del Quattrocento. Questo tipo di decorazione è caratterizzata dalla
raffigurazione di esseri ibridi e mostruosi, chimere, spesso ritratte quali figurine esili ed estrose, che si fondono
in decorazioni geometriche e naturalistiche, strutturate in maniera simmetrica, su uno sfondo in genere bianco
o comunque monocromo].
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C’è chi ha pensato di poter assegnare queste grottesche a Giovanni da Udine (che qui vicino aveva la casa).
E’ più probabile però che si tratti di una decorazione ottocentesca dovuta, con tutta probabilità, al pittore
Tommaso Türk, un udinese nato nel 1824 e spentosi a Trieste nel 1880 dopo aver a lungo lavorato a Zara,
Spalato e in alcuni luoghi della Dalmazia, oggi del tutto sconosciuto, ma stimato ai suoi tempi ed operoso a
Udine anche in altri palazzi, Garzolini, Mantica - Chizzola e Antonini- Banca d'Italia in cui affrescò in
maniera deliziosa (e in qualche modo simile a questa di palazzo Del Torso) il salottino ottocentesco.
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ANDREA SCALA - Forse in questa realizzazione si può già intravvedere anche la mano dell’architetto
udinese Andrea Scala, che nella sua multiforme attività dedicò grande attenzione alla progettazione di giardini (e aveva operato nei dintorni di Fraforeano, a Modeano, e inoltre collaborato con i Gaspari a Latisana), o
di qualche altro esponente legato all’Associazione Agraria Friulana.
Di formazione storicista, Andrea Scala (1820-1892) fu un tipico esponente dell’eclettismo ottocentesco.
Attento agli sviluppi del dibattito architettonico del secondo Ottocento, dimostrò con i suoi scritti la
consapevolezza delle nuove istanze maturate dalla società borghese in relazione all’affermazione della
civiltà industriale e affinò le conoscenze tecnico-costruttive unendole al suo metodo di progettazione “in
stile”.
L’impegno dello Scala si riversò in vari campi: architettura, meccanica, idraulica, agronomia, in una versatilità
che dimostra la varietà dei suoi interessi. Decisiva fu la sua conoscenza dell’architettura rurale che lo portò a
progettare varie tenute agricole, che l’autore collegò al tema della casa padronale e alla villa di campagna.
Riferibile a questo ambito è l’inclinazione a realizzare giardini di tipo paesaggistico-romantico, che - grazie al
suo contributo - conobbero ampia diffusione nel Friuli del XIX secolo. Dei tanti che realizzò (e di cui si è
progressivamente persa memoria) si ricordano, oltre al menzionato giardino Bertuzzi a Modeano, quello dei
Caiselli collegato all’omonima villa del villaggio di Percoto, il parco Prandi a Trieste, in via S. Michele, e
alcuni esemplari a Udine (tra cui potrebbe inserirsi il nostro caso).
Scala fu in contatto con i più importanti esponenti dell’Associazione Agraria Friulana (di cui era socio) e
pubblicò il Compendio delle costruzioni rurali più usitate (edita a Milano nel 1862-63) con un’appendice
intitolata Del Giardinaggio e dell’Orticoltura, un prontuario agile e semplificato in cui veniva divulgata la
metodologia con cui affrontare la gestione di un giardino. Nell’opera, promossa dall’Associazione, venivano
sostenuti i principi dell’assetto pittoresco coniugati con la riproposizione dei moduli formali, allora reintrodotti
nel settore.
Per i giardini di città lo Scala prevedeva un'estensione non troppo limitata, una corrente d'acqua, boschetti e,
nei pressi dell'abitazione, un parterre adorno di fiori odorosi. Muri di cinta e haha esterno dovevano
proteggere il luogo, meglio se altimetricamente variato, per innalzare, ad esempio, un chiosco, adatto ai
momenti di riposo, perché la vista potesse spaziare all’intorno. Queste notazioni rivelano l’impronta attribuita
dallo Scala ai suoi giardini urbani, come quello per il conte Tommaso Gallici in via Savorgnana, di cui resta il
progetto redatto nel 1854, importante testimonianza di quell’affastellamento di elementi ornamentali e
vegetali, della continua alternanza di parti in piano e lievi rialzi, stipati in un prezioso microcosmo che l’autore
incastonava, valorizzando un’antica consuetudine urbana, nella corte interna di Palazzo Gallici-Strassoldo.
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Lo Scala concepiva il giardino di città, in accordo al luogo e alle qualità del sito, come una sorta di ritiro volto
a preservare la privacy dei proprietari che qui si ritempravano, pur non staccandosi dalle varie attività che
scandivano la loro vita operosa: anche il giardino del senatore Gabriele Luigi Pecile, "ameno e pittoresco
quanto mai, e forse unico nel suo genere, per la sua disposizione reso un vero paesaggio artistico", fu
progettato dallo Scala sui fondi dell’antico convento domenicano di S. Pietro martire, soppresso nel 1806 .
La grande corte quadrata circondata dai portici, i locali e loro adiacenze furono tramutate in spazio verde.
Rare sono le immagini rimaste a testimoniare l’insieme che abbinava
stilisticamente (torre neomedievaleggiante) e topograficamente (laghetto) alcune tappe importanti della storia urbana (mura, rogge).
L’esemplare scomparve negli anni ’60 del Novecento, sacrificato alle esigenze della viabilità cittadina e alle
necessità di un attraversamento veloce che portarono alla soppressione di un pregevole angolo di Udine (su
cui fa riflettere il toponimo, per molti oramai incomprensibile).
L’analisi della vegetazione arborea documenta la sovrapposizione di più interventi a partire della seconda
metà dell’Ottocento: i più antichi sono testimoniati dai lecci e dagli abeti (con qualche raro esemplare
d’abete orientale). Alla fine dell’Ottocento risale l’impianto del grande cedro, nel Novecento sono stati posti
a dimora i ligustri, i pioppi cipressini e le diverse specie di cespugli (alla fine degli anni ’90 del Novecento
Zeni ricordava le splendide fioriture rosate delle Deuzie).
Quando venne acquistato dal comune la stampa definì il parco “Giardino Silente”: ancor oggi, racchiuso tra
gli edifici che si affiancano su via del Sale e su Piazza Garibaldi, delimitato dalle alte mura in sassi e mattoni
poste sui lati Nord e Ovest, dotato di due accessi su via del Sale, corre il rischio di rimanere sconosciuto ai
più (quindi è un luogo da riscoprire, come vuole il titolo della manifestazione FAI di questa primavera 2016.
Udine: cronaca dell’inaugurazione del Giardino del Torso dopo il restauro (2013), in un articolo del
“Messaggero Veneto”
Il giardino del Torso è di nuovo uno spazio fruibile e a disposizione della città. Al termine di un articolato
intervento di restauro, la storica area verde di via del Sale è stata inaugurata oggi 15 dicembre alla presenza
del sindaco di Udine Furio Honsell, dell’assessore alla Gestione urbana Gianna Malisani, dell’assessore
all’Istruzione Kristian Franzil e dei tecnici comunali che hanno seguito il progetto. Un’opera da 300 mila
euro che ha portato alla rivalorizzazione degli edifici e degli elementi architettonici dell’area, al ripristino del
disegno storico delle aiuole, alla riapertura del rifugio antiaereo sotterraneo e alla creazione di un nuovo
specchio d’acqua. “Con quest’opera – spiega il primo cittadino – valorizziamo uno degli spazi verdi storici
della città, che potrà essere funzionale anche all’attività della nuova ludoteca comunale”.
Il giardino del Torso, da sempre parte integrante del palazzo di piazza Garibaldi costruito nel 1577, ha
assunto l’attuale denominazione dall’ultimo proprietario, il conte Alessandro del Torso, che nel 1968 ne
dispose la donazione al Comune di Udine. “Riqualifichiamo uno degli ultimi giardini nobiliari della città –
sottolinea l’assessore Malisani –.
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Tra le opere inserite nel progetto c’era anche il recupero del rifugio antiaereo, uno dei pochi bunker rimasti
della seconda guerra mondiale. Grazie a una proficua collaborazione con l’Archivio di Stato siamo riusciti a
valorizzare questa struttura allestendo il rifugio con foto e una documentazione iconografica”. In questo
bunker, costruito nel 1943, donne, anziani, bambini e uomini hanno cercato riparo durante centinaia
di allarmi mentre i bombardieri sorvolavano la città. Il restauro del rifugio, rinvenuto durante i
lavori di sistemazione del Giardino del Torso, è stato deciso dal Comune di Udine in memoria delle
vittime delle barbarie belliche e come ricordo del coraggio e dei sacrifici della popolazione che,
conclusa la guerra, ha partecipato alla pacifica e laboriosa rinascita del Paese e della città. Il bunker
è accessibile al pubblico ed è già stato attrezzato con materiali dedicati ai rifugi antiaerei del secondo
conflitto mondiale, con documenti interessanti tra i quali spiccano una fotografia aerea scattata da un pilota
della Raf della città di Udine bombardata e una copia di un manifesto tedesco sulle regole del coprifuoco.
Proprio per illustrare le caratteristiche e la funzione svolta dal bunker durante il periodo bellico è intervenuta
la direttrice dell’Archivio di Stato Roberta Corbellini, che al rifugio del giardino del Torso ha dedicato
recentemente un interessante opuscolo, redatto insieme con Laura Cerno e Luisa Villotta e in collaborazione
con l’amministrazione comunale.
Le linee progettuali – secondo l’intervento dell’arch. Gianfranco Pascutti - hanno portato al restauro e al
consolidamento dell’insieme delle strutture edilizie presenti all’interno dell’area, alla riorganizzazione
funzionale dei percorsi del giardino, alla sostituzione delle essenze mancanti e alla valorizzazione dell’antico
impianto. Nel progetto rientrava poi la realizzazione di una fontana, con relativo impianto idrico, in
posizione centrale rispetto alle due logge, che ha permesso di ricreare i tratti principali di un giardino
all’italiana. Come detto, un intervento importante ha riguardato il rifugio antiaereo, che ora si può visitare e
utilizzare. Per l’ingresso alla struttura interrata sono stati realizzati due accessi in corrispondenza delle due
scale esistenti con un sistema di parapetti, mentre all’interno è stato installato un impianto di illuminazione.
La loggetta a pianta rettangolare in fondo al giardino è stata valorizzata con la creazione di uno specchio
d’acqua e sottoposta a un intervento radicale di manutenzione, anche per eliminare le infiltrazioni. Il
fabbricato dedicato ai servizi igienici è stato ristrutturato con la realizzazione di due bagni, uno dei quali
dotato di attrezzature per i disabili motori, e di un locale deposito. Interventi di ripristino, pulizia, stuccatura
e manutenzione hanno riguardato i muri perimetrali. L’intera area esterna è stata dotata di un nuovo impianto
di illuminazione. Per quanto riguarda le opere a verde sono stati eseguiti interventi di riqualificazione e di
riorganizzazione dei percorsi del giardino. Oltre alla sostituzione delle essenze mancanti è stata potata buona
parte degli alberi più importanti, come il cedro dell’Himalaya, l’abete d’oriente, la paulownia, i lecci, i
bagolari, ma anche le siepi di alloro e di carpino. Le aiuole posizionate nell’area sud del giardino sono state
arricchite con arbusti e piante perenni provenienti dalla tradizione orticola italiana e locale.
Il Comune ha investito complessivamente nell'intervento 300 mila euro.
OGGI: Il giardino del Torso ha una superficie di circa 3.300 mq. Gli elementi ordinatori sono
costituiti dalle due logge e dalla fontana ottagonale che costituiscono l'asse centrale nord-sud. Oggi
il legame funzionale con Palazzo del Torso non esiste più poiché l'ingresso laterale da via del Sale
rende più difficile la lettura dell'asse prospettico. Per quanto riguarda la disposizione del verde, nel
corso degli anni è stata potenziata la barriera di arbusti situati sul lato nord dell'ingresso così da
consentire la piena visione del giardino solo al raggiungimento della loggetta. Così facendo si è
voluto privilegiare la valenza storica della visione assiale. La ristrutturazione ha voluto esaltare la
struttura formale esistente, seguendo le logiche della prospettiva e della simmetria, con un evidente
ammiccamento alla costruzione del giardino barocco. La grande vasca d'acqua con piante
acquatiche davanti alla loggia, è intesa a valorizzarne l'elegante prospetto.
Tra i soggetti vegetali contenuti nell’area spiccano per la loro bellezza e il particolare inserimento
nell’insieme, due Cedrus deodora, un Pinus pinea, un Aesculus hippocastanum, una Picea
orientalis, una Paulownia tormentosa ed alcuni pregevoli Quercus ilex. Non manca qualche
stranezza nella compagine arborea (due Diospyros kaki) né qualche esotismo nella componente
arbustiva, come Edgeworthia chrysantha o Acer japonicum aconitifolium.
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ABSTRACT IN ENGLISH (from CISM web site)
Palazzo Antonini Mangilli del Torso is one of the most imposing and beautiful in Udine: the building goes
back to 1577, as shown by the stone in the internal courtyard, which also commemorates the name of the
owner at that time.
It was finally completed, as far the facade is concerned, a little before
1680: Fabio della Forza wrote in that year: “Daniele built many buildings
in the Grazzano district, which have now grown to a double palace”.
In the facade, which is made pleasant to the eye by a play of light and
dark, by the armony of the decorative parts and the balance of the
structural parts, there are two entrance gates: a large one for coaches and
a smaller one for pedestrians. There are pleasant windows with arched
iron bars in the Venetian style on the ground floor, three mullioned
windows on the first floor which have overhanging balconies, as have the
four windows which open onto the sides. The gable is connected to the
lower level by means of baroque volutes. At the centre of the building,
level with the third floor windows, one can see the family’s coat of arms
which are partly hidden by the shadow of the widely overhanging eaves,
in the traditional Friuli way.
The house has remained virtually unchanged in its facade since that time,
as is shown by a nineteenth century litograph by G.B. Ceccini. It is made
up of four parts surrounding a central courtyard. Inside it has been almost
completely re-structured by the architect Andrea Scala in 1847 who redivided
some of the rooms in a way which was very common at the time:
A view of the ceiling above
it tended to make those large spaces which had been created with
the staircase
different criteria more suitable for family purposes.
More recently (1924), Count del Torso, when he bought the house, hade
it re-adapted to suit his own tastes; this is especially clear in the hall. The
monumental staircase, which he wanted installed, is not an original but
comes from the Palazzo de Portis in Cividale. It shows a tipically Friulan
taste, both in its use of dark Piacenza stone and the massive structure of
the pillars, which can also be seen in other buildings in Udine, as for
example Palazzo Gorgo-Maniago.
The canvas painting with the ” Allegory of the arts” which decorates the
vault was commissioned by the Count from the painter H. Stubysen who
tried to give the composition an eighteenth century air, with hints of the
tradition of great Venetian painting.
The scene is contained in an ovate with a strong stucco frame. It is
executed with propriety both in the composition, with daring
foreshortenings, and the fresh luminous colouring . The beautiful bench
with a headrest , which can be found in the hall, is an original of the
house. These benches are a not infrequent decoration in the noble houses
in Udine, though many of them have been destroyed. The two paintings
which decorates the hall are also original, although they are not exactly in
View of
a perfect state of preservation. One is a pleasant canvas with Apollo and
Room
Daphne, the other a noteworthy “Scene from a Boar Hunt” .
the
Conference
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This latter is extremely lively in narrative, with fiercely snarling dogs and a fiery steed in the foreground.
Tiozzo has attributed these works to Andrea Urbani.
On the first floor , which has no great reception room
but all the space befitting a noble family’s residence,
some of the rooms are distinguished by their elegant
ornaments. In the “Rectors’ Room ” there is a painting,
“Comtemplation”, a pleasant work by the still little
know painter from Ruscedo, Jacopo D’Andrea (1819–
1906) and also a nineteenth century fresco above the
fireplace (Apollo playing ). The ” Yellow Room ” is
decorated with light stucco squares on the walls and
ceiling. It has also four ovates with eighteenth century
paintings of exellent workmanship. They are ” The
Sacrifice of Isaac ”, ” Abraham and the Angel “and two
landscape with figures. Although they are almost
miniatures in size, it is still possible to appreciate their
The Conference Room : frescoes by Andrea spatial openings, a finesse of touch, certain precious
modulations of colours.
Urbani
The nearby room with golden stuccoes and the portraits of the Counts del Torso leads us into the
“Conference Room”, where the ceiling is completely covered with frescoes. Domenico Urbani, in the
booklet which more than a century ago he dedicated to his great-grandfather Andrea, recalls that the latter
painted “the ceiling of the hall in marquis Mangilli’s house in borgo Grazzano in Udine, and the two
ceilingsof the chapels in the Cathedral”. The latter can be dated from
1742 to 1749.
However there are many other pictorial works: his long and fertile
activity, characterized by not infrequent changes of style, was continued
by his son Marino who, at the beginning of the nineteenth century,
carried out frescoes for the Palazzo Caiselli and Fistulario Plateo.
The ceiling of the Palazzo Mangilli was formerly attributed to Giuseppe
Morelli. However it was first dated by Tiozzo who estimated that it was
done in about 1750, that is, immediately after he had decorated the
Cathedral. A date between 1750 and 1760 certainly seems plausible: the
scenographic effect seems to foreshadows the style he adopted a few
years later in St. Teonisto in Treviso. This scenographic effect, especially
in the figurative part, recall themes which are common to the great
Venetian painters of the eighteenth century. The architectural
composition is noteworthy : it simulates a structure with an arcade of
Corinthian columns, pilasters, cornices, the whole animated by pleasant
figures of cherubs bathed in light , holding garlands of deep blue flowers
against a sky furrowed by clouds where the Mangilli family stands out.
Two pleasant frescoes fanlights are also attributed to Andrea Urbani ;
they are in black and white, with lively little figures in elegant frames.
Fresco by Domenico Fabris in
the Sofa Room
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Next to the “Conference Room “there is the “Sofa Room”, formerly the
ball room designed by the architect Andrea Scala in 1851 and
immediately after decorated with pleasant ornamentation by Giovanni
Pontoni, one of the many excellent craftsmen of the nineteenth century.
the frescoes on the central circle of the ceiling were done by Domenico
Fabris from Osoppo. It is a conventional painting which does nothing to
increase the reputation of the author, though it demonstrates his
undoubted technical ability. At the end of the nineteenth century, the
room was embellished by the two statues of Luigi Minisini which are
now in the courtyard.
The nearby dining room, with a beamed ceiling and woodcovered walls
where the coats of arms of the noble families of Friuli are painted, from
1355 (de Ottanicis ) to 1914 (Deciani), was done at the express wish of
the Count del Torso soon after he purchased the house in1924.
Frescoes of the corridor
In some of the bedrooms two eighteenth century wardrobes excite
admiration. One of them has four doors, is L-shaped and decorated with
ribbons and garlands of flowers, all painted very professionally. The
frescoes in the narrow corridor which joins the two parts of the building
have been attributed to Andrea Urbani, to Francesco Chiarottini and to
Giovanni Morelli.
On the walls there are two alternating motifs: a vase on a pedestral
between artificial niches; and ovates containing delicious views of
imaginary scenes and solemn classical architecture. In the small internal
courtyard, some precious sculptures are preserved. There are two finely
modelled statues by Luigi Minisini representing, as is written on the
scroll which they hold in their hands, the two Greek Philosophers
Heraclitos( “every thing from fire ”) and Democritos ( “every thing from
the atom” ). There is a fine stone seventeenth century lavabo, some
Romans statues all tondo, two beautiful bas reliefs, again from the
Roman age, including one by C. Clodio, a masterpiece of efficient
portrayal.
The park outside is rendered particulary fine by its longstemmed plants
and its very size. Inside there is a massive construction which would
appear at first sight to date from the Renaissance; an open, cube-shaped CISM Internal Court
loggia, where the vault is decorated with grotesque paintings which are
good in ideas but poor in execution .
63
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M. BUORA, Motivi comuni tra ossuari e sarcofagi aquileiesi: a proposito di un interessante cinerario da Aquileia nell’arredo
antiquario di Palazzo Mangilli a Udine, atti del convegno, in corso di stampa.
A ciò si aggiungano i siti web consultati e indicati nel testo, per le informazioni e il corredo fotografico.
Per le notizie sugli Antonini e per la revisione storica della prima parte si ringrazia la dott.ssa Liliana Cargnelutti.
Altre preziose notizie sono state gentilmente offerte da Francesca Tamburlini.
Le notizie sono state raccolte, assemblate e stese dalla prof.ssa Francesca Venuto,
referente del progetto “Alla scoperta dei beni culturali della città e del territorio”
per il Liceo Classico “J. Stellini” di Udine.
Materiale scolastico ad uso interno.
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