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Roberto Formigoni
Gianni Alemanno
n. 21
l’attimo
fuggente
Dicembre 2011
direttore
IL QUESTIONARIO DI PROUST
Rispondono Letizia Moratti e Pier Luigi Celli
UN GRANDE
INEDITO!
E inoltre:
IL GOVERNO
DI SOCRATE 2000
I MINISTRI SCELTI
PER MERITO
IL GOTHA DI ECONOMIA
E FINANZA
VALENTINO PARLATO, LUCIO MAGRI, IL MANIFESTO...
LA VITA E LA MORTE PER L’UTOPIA COMUNISTA
Valentino Parlato
Vittorio Feltri
Giorgio Panariello
www.lamescolanza.com
n.21/2011
l’attimo fuggente, anno IV, numero 21 / dicembre 2011 Prezzo E 24,00
Cesare Lanza
EINAUDI
DIXIT
direttore Cesare Lanza
Bambini,
Babbo Natale esiste ed esiste la Befana
esistono i tre porcellini e la fata Morgana
metti un dente sotto il bicchiere,
il giorno dopo c’è un soldino
Peter Pan combatte ancora
contro Capitan Uncino
boschi pieni di folletti e di orsi pasticcioni
elefanti che con le orecchie
volan come aquiloni
esistono i giganti, i draghi,
Artù e Merlino e se segui quelle briciole
puoi incontrare Pollicino
ma anche l’Orco sai esiste,
te lo giuro su me stesso
ti dirà “C’era una volta”,
stai attento,
c’è anche adesso.
l’attimo fuggente
Lettera ai bambini per Natale
LE PAGELLE AL COMUNE DI ROMA
E ALLA REGIONE LOMBARDIA
www.lamescolanza.com
Lucio Magri
l’attimo
fuggente
Letizia Moratti, Pier Luigi Celli, Luigi Einaudi
Direttore Responsabile:
Cesare Lanza
Comitato editoriale:
Antonio Eustor, Domenico Mazzullo, Antonella Parmentola,
Coordinatrice:
Antonella Parmentola
Interventi, articoli ed interviste di:
Lucia Annunziata, Pietrangelo Buttafuoco, Corrado Calabrò, Pier Luigi Celli, Clap,
Luigi Einaudi, Roberto Einaudi, Riccardo Faucci, Simonetta Fiori, Vittorio Feltri, Anna
Maria Isastia, Domenico Mazzullo, Andrea Molesini, Lucio Magri, Letizia Moratti,
Valentino Parlato, Parmantò, Antonella Parmentola, Platone, Enrica Roddolo
Per Studio 254: Ilaria Ammirati, Daniela Baldacchino
l’attimo fuggente, rivista bimestrale, n. 21, dicembre 2011
Editore Lamescolanza s.a.s., direzione, redazione, amministrazione:
Via Marcello Prestinari, 13 – 00195 Roma – tel. 339.2038904
[email protected], www.attimo-fuggente.com
Stampato da Graffiti s.r.l., Via Catania, 8 – 00040 Pavona, Albano Laziale (RM).
Per gli abbonamenti: annuale 120 - Iban IT 74X0760103200000080594831;
c/c postale n. 80594831 intestato a:
Lamescolanza s.a.s.
REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA – N° 242\2007 DEL 12 GIUGNO 2007
INTRODUZIONE
Cesare Lanza
Ecco il governo di Socrate 2000. Letta Presidente, ministri scelti per merito ....................
Corrado Calabrò
Il passo di Natale ..............................................................................................
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
LE PAGELLE DELL’ATTIMO FUGGENTE, I VOTI, LE CLASSIFICHE
QUALCHE SPIEGAZIONE SU GERONZI, IL MERITO... E NON SOLO .....
4
INTERVISTE
4
Parmantò
Pietrangelo Buttafuoco: “Il coltello è il mio oggetto culto” ....................................
156
LIBRI
159
12
IL TOP DELL’ECONOMIA
29
L’ELITE DEI COMUNICATORI
57
Specialisti dell’immagine e delle relazioni ....................................................................
58
I PIÙ GRANDI COMUNICATORI
59
Specialisti dell’immagine e delle relazioni ..................................................................
I PROFESSIONISTI CHE CONTANO
60
63
Nelle relazioni istituzionali, esterne e comunicazione ..............................................
64
GRANDI AGENZIE DI COMUNICAZIONE E RELAZIONI PUBBLICHE
10
11
155
Lucia Annunziata
Il Potere in Italia ......................................................................................................... 160
Anna Maria Isastia
Le donne nella storia dell’800 italiano ..................................................................... 172
Ilaria Ammirati, Antonella Parmentola
Non tutti i bastardi sono di Vienna, romanzo d’esordio di Andrea Molesini .............. 176
BELPAESE
185
Enrico Roddolo
Così Gloria conquistò Calvino, da Il mito veneziano .............................................. 186
NUOVE TECNOLOGIE
191
Smart Grids
La reti elettriche intelligenti accendono la città del futuro ......................................
192
73
SOCRATE 2000 RITORNO AL MERITO
195
REGIONE LOMBARDIA
77
Platone
Apologia di Socrate cap. XXXII e XXXIII ..............................................................
196
COMUNE DI ROMA
81
COSTUME
199
IL MONDO DEL CALCIO
85
QUESTIONARIO DI PROUST
89
Risponde Letizia Moratti ...............................................................................
Risponde Pier Luigi Celli ...............................................................................
PERSONAGGI
Antonella Parmentola
Valentino Parlato, Lucio Magri, il Manifesto. ........................................................................
Lucio Magri
La fine del Pci e le tre scissioni, da Il sarto di Ulm ...............................................
Vittorio Feltri
Il suicidio assistito è giusto? Ciò che conta è poter scegliere .................................
Simonetta Fiori
“Ero contrario, ma con la sua scelta Lucio ha dimostrato di governare la vita” ................
91
95
97
Domenico Mazzullo
Non ho mai considerato la psicoanalisi una scienza ............................................... 200
PAGELLE & CLASSIFICHE
213
ARTE DEL GOVERNO
100
108
114
STUDIO 254
221
Daniela Baldacchino
Le vie di mano sinistra .............................................................................................. 222
INDICE DEI NOMI
226
118
121
Luigi Einaudi
Il programma economico del partito liberale .................................................................... 122
Riccardo Faucci
Luigi Einaudi dagli anni del raccoglimento all’esilio svizzero (1926-1944) .............. 126
Roberto Einaudi
L’eredità di Luigi Einaudi ................................................................................................... 146
SOCIETÀ
151
Cesare Lanza
L’alluvione vista da un genovese d’adozione. Povera città, tradita dai torrenti e dai politici ...... 152
2
Clap
Conoscere i gioielli. Come sceglierli e portarli ........................................................ 214
GLI SPOT DI CLAP
216
Mario Andrea Rigoni
Bud Spencer
Antonello Venditti
Tony Blair
Morgan
Susanna Tamaro
ATTIMI FUGGENTI
Fede e doni
53
56
72
83
84
113
Enrico Ruggeri
Stephen King
Indro Montanelli
Battista Mondin
Emanuele Severino
Jake La Motta
Claudio Baglioni
117
145
150
184
190
198
220
3
INTRODUZIONE
GOVERNO SOCRATE 2000
ECCO IL GOVERNO DI SOCRATE 2000
LETTA PRESIDENTE, MINISTRI SCELTI
PER MERITO
Cesare Lanza
bbiamo il massimo rispetto per Mario Monti e per
tutti i componenti del suo Governo. Auguriamo
dunque a tutti un pieno successo, nell’interesse di
tutto il Paese.
Il nostro movimento Socrate 2000 che si batte per
il ritorno alla meritocrazia e ha raccolto più di mille iscrizioni in tutta Italia e in pochi mesi, agli auguri vuole affiancare tuttavia una provocazione, qualcosa più di un
divertissement: la proposta di un governo alternativo,
con l’indicazione di personaggi molto diversi tra di loro,
ma uniti da un significativo denominatore comune.
Quello che più ci sta a cuore: il successo raggiunto
esclusivamente per qualità e meriti personali.
Ed ecco, dunque, il Governo di Socrate 2000. È un
gioco giornalistico, ma con una radice nient’affatto
scherzosa: pensiamo, infatti, che ciascuno dei nostri
ideali ministri saprebbe svolgere egregiamente il suo lavoro.
Ci sono tecnici, ci sono politici, ci sono alcuni giornalisti, ci sono nomi famosi e altri meno conosciuti.
Probabilmente, avrebbero qualche problema di convivenza. Ma ricordiamo che il nostro movimento, Socrate
2000, è apolitico, disgiunto da lobby di qualsiasi radice,
ideologie, convinzioni politiche, religiose ecc… Perciò
diamo indicazioni che volano tra la realtà e i sogni, la
fattibilità e valori ideali.
Socrate 2000-Ritorno al merito, senza pregiudizi,
esalta la capacità e la qualità e si batte contro ingiustizie e privilegi.
A
4
5
• PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIANNI LETTA
Nella realtà poteva essere il leader del governo formato da Napolitano, o quanto meno vicepresidente di
Monti, insieme con un altro importante personaggio
della vita pubblica italiana: Giuliano Amato. Tutti e due
sono stati bloccati dalla prepotenza dei partiti, dall’ambiguità delle manovre di potere, in modo pretestuoso. Le qualità di Letta e Amato torneranno a essere riconosciute, in futuro.
• SOTTOSEGRETARIO alla PRESIDENZA del CONSIGLIO
ANTONIO CATRICALÀ
Ex presidente di un’importante Authority, un calabrese
elegante ed equilibrato. Conosce bene la macchina
dello Stato. Legato a Letta da una reciproca e forte
amicizia. Ottima scelta di Monti, la confermiamo!
MINISTRI CON PORTAFOGLIO
• Ministero dell’ECONOMIA e delle FINANZE:
CESARE GERONZI
Colpito da una discutibile condanna, improponibile nella realtà. Ma per noi la valutazione della qualità è prioritaria. E Geronzi è uno dei massimi, lucidi e concreti,
esperti di economia e finanza.
• Ministero degli AFFARI ESTERI: GIULIO ANSELMI
Un giornalista dal curriculum prestigioso, appena nominato alla presidenza della Federazione Editori dopo aver
ricoperto la stessa carica come presidente dell’agenzia
di informazione più importante in Italia, l’Ansa. E prima
ancora direttore di varie testate. Diplomatico, ma fermo, istituzionale, col senso dello Stato.
• Ministero dell’INTERNO: FERRUCCIO DE BORTOLI
Direttore del Corriere della Sera e in passato del Sole 24
Ore. Un dirigente nato, per misura, realismo, intelligenza
e anche lui come Anselmi con uno straordinario rispetto
delle Istituzioni, e con un profondo senso della giustizia, e
sensibilità e attenzione verso l’evoluzione della società.
6
• Ministero della GIUSTIZIA: CORRADO CALABRÒ
Profondo conoscitore della macchina dello Stato, e della complessità delle strutture di governo (per decenni
uomo-chiave di tanti ministeri), infine presidente
dell’Agcom. Un uomo equilibrato e di mente libera, sensibile, autorevole, un poeta.
• Ministero della DIFESA: GIULIANO AMATO
Giudizio affine a quello espresso per Letta. Ex presidente
del consiglio, forse la Difesa (nonostante la sua crucialità) potrebbe apparire una deminutio, nelle nostre intenzioni è un riconoscimento al merito. Il dottor Sottile
svolgerebbe bene, con intelligenza, qualsiasi ruolo. È un
peccato che il circo politico abbia impedito a Monti di
utilizzarlo.
• Ministero dello SVILUPPO ECONOMICO E TRASPORTI:
CORRADO PASSERA
Inquilino del Palazzo, conoscitore del potere, dell’economia, della finanza, un leader con varie esperienze e la
capacità di creare un gruppo di lavoro. Quel che ci voleva in un momento difficile. Ottima scelta di Monti. E
Socrate 2000 lo conferma. I meriti sono indiscutibili.
• Ministero delle POLITICHE AGRICOLE E FORESTALI:
MAURO MORETTI
Venuto da zero, con esperienze preziose. Un manager
che arriva dalla gavetta e pensa solo alla concretezza
del suo lavoro. Forse, nella realtà, non gli piacerebbe lasciare il timone delle Ferrovie. In un governo nuovo e
moderno, dove si dà spazio al merito, Moretti è un nome
imprescindibile.
• Ministero dell’AMBIENTE: ANTONIO PADELLARO
Un altro giornalista, il direttore del “Fatto”. Se Marco
Travaglio è il tenore che conquista la platea con gli acuti, Padellaro è il direttore d’orchestra in un giornale che
rappresenta una novità editoriale di particolare interesse. Onesto, pungente, capace di lottare per ideali dimenticati.
7
• Ministero del LAVORO e POLITICHE SOCIALI con delega
alle PARI OPPORTUNITÀ: LETIZIA MORATTI
Una risorsa per l’Italia. Ha fatto bene non sono nel
Consiglio di amministrazione della Banca Commerciale,
come presidente della Rai, come ministro, ma anche
come sindaco di Milano! Si è immolata generosamente,
per lealtà e senso delle Istituzioni, accettando il peso del
declino di Berlusconi, senza prenderne le distanze...
Meriti straordinari, passione per gli ideali, freddezza da
grande manager. Confidiamo che torni presto in prima
linea. Nel governo di Socrate 2000 c’è.
• Ministero della SALUTE: UMBERTO VERONESI
Mi sembra che non ci sia necessità di alcun commento...
• Ministero dell’ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA:
PIER LUIGI CELLI
Ora al vertice della Luiss, prima esperienze manageriali
positive. Colto, determinato, ironico, realista. Nel governo della meritocrazia, ci sta.
• Ministero dei BENI E ATTIVITÀ CULTURALI: VITTORIO SGARBI
I meriti, la cultura, la capacità di divulgazione sono sotto
gli occhi di tutti... Pur di averlo nel ministero che gli compete, Socrate 2000 è disposto a subirne le proverbiali intemperanze.
MINISTRI SENZA PORTAFOGLIO
• AFFARI EUROPEI: MIUCCIA PRADA
Una donna ricca di fantasia e di iniziativa, con spina dorsale, capace di fiutare le convenienze per il Paese.
Socrate 2000 la vorrebbe con sè.
essere l’immagine/salvezza per l’azione inevitabilmente
severa, e forse tetra, di un governo di professori, chiamato a imporre sacrifici e rinunce. Fiorello ci aiuterebbe a
ingoiare qualche rospo...
• COESIONE TERRITORIALE: GIAN ANTONIO STELLA
La punta di diamante, nel giornalismo, delle cronache
che denunciano sprechi, ruberie, contraddizioni, e non
solo, crimini, abusi di potere, razzismi, mafie... Onesto,
coraggioso, documentato, lucidissimo. L’ideale per la
coesione degli italiani per bene. Monti ci faccia un pensierino, non lo lasci nei confini ideali del governo di
Socrate2000, lo chiami come prezioso consulente per la
battaglia all’Italia marcia che vorremmo eliminare...
• RAPPORTI CON IL PARLAMENTO: AGAZIO LOIERO
Un altro politico. Non storcete il naso! Perchè questa
scelta? Ho avuto anche momenti di feroce discussione
con Loiero, ma una qualità fondamentale devo riconoscergliela, ed è sempre quella che ci appassiona: il merito. La qualità di un cervello fine, e libero, capace di valutare con lucidità e capacità sintetica gli intrighi, i limiti,
le prospettive della politica, riconoscendo alla politica i
diritti che deve avere, ma consapevole di storture e devianze. Ha già svolto, bene, l’incarico dei rapporti con il
Parlamento.
• COOPERAZIONE INTERNAZIONALE E INTEGRAZIONE:
DON CIOTTI
Al di là della tonaca, un uomo vero: buono, coraggioso,
leale, pieno di energia e di iniziative. Umile, senza arroganze, forte con i potenti, generoso e altruista con i deboli.
• TURISMO E SPORT: ROSARIO FIORELLO
Forse non si potrebbe staccare dalla sua fenomenale
attività artistica. Ma Socrate 2000 lo implorerebbe, a beneficio del governo e del Paese, di accettare un ruolo
prezioso come “ministro della simpatia”. Fiorello è un
personaggio unificante e sdrammatizzante. Potrebbe
8
9
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
CORRADO CALABRÒ
Il passo di Natale
Gli adulti sanno quand’è giunto il tempo:
s’adunano a migliaia sulle banchine
con i piccoli, pronti alla partenza.
Torrenti in corsa spalla a spalla agli argini,
mare argentato ai piedi degli ulivi
nell’aria infreddolita di vigilia,
lampi sgranati come mortaretti
sui nasi appiccicati ai finestrini,
seconda classe, odor di mortadella.
Perché torno, con loro, alla mia terra?
Dall’alto da sinistra: Lorenza Lei, Corrado Passera,
F u l v i o C o n t i , M a u r o M o r e t t i , L e o n a r d o D e l Ve c c h i o ,
Cesare Geronzi
10
11
I L G O T H A D E L’ E C O N O M I A
ECONOMIA IL GOTHA
Quelli che determinano il destino dell’Italia
LE PAGELLE DELL’ATTIMO FUGGENTE, I VOTI,
LE CLASSIFICHE QUALCHE SPIEGAZIONE
SU GERONZI, ILMERITO... E NON SOLO
L
e pagelle dell'Attimo rappresentano una interessante novità editoriale. In una fase di
crisi economica e finanziaria forse imprevedibile, e particolarmente acuta e allarmante, le pagelle rappresentano un monitoraggio della reale qualità degli addetti ai lavori,
in primis gli amministratori delegati, i responsabili, i manager di rilievo delle più importanti
società italiane, a seguire i professionisti delle relazioni istituzionali ed esterne, della comunicazione e dell'immagine delle società.
Il nostro lavoro è incentrato, per quanto umanamente e in buona fede sia possibile,
su conoscenze e valutazioni dirette e, quando non siano valutazioni dirette, su una sintesi delle informazioni che chiediamo a referenti che consideriamo validi e leali, e che arrivano dalle cronache dei mass media, ogni giorno.
Abbiamo alcune idee naturalmente, per la nostra indipendenza e autonomia di giudizio, e la più importante, come si evince facilmente – lo diciamo a chi fosse interessato – dalla lettura anche rapida delle nostre classifiche. Noi consideriamo le qualità dei manager (qualità umane e professionali) senza mai tener conto dei loro momenti di grazia o disgrazia, siamo soprattutto interessati alla consistenza dei personaggi, al di là di traversie, difficoltà, disavventure (ma anche attacchi personali e scandali precipitosi, complotti, ombre e penombre...) che, in ogni epoca, si possono verificare ai danni di chiunque.
Un esempio, per tutti (ma se ne potrebbero indicare più di uno...)? Cesare Geronzi.
La nostra stima per questo banchiere è altissima, e non scalfibile dalle disavventure che ultimamente gli si sono moltiplicate addosso. Geronzi è stato – e a nostro giudizio, non isolato,
rimane – un personaggio-chiave nei complicati equilibri del Potere in Italia. Un uomo competente, che si è fatto da sè, che arriva dalla gavetta nella miglior Banca d'Italia che si ricordi, un amministratore equilibrato ed intelligente, capace di assumersi responsabilità e rischi.
Non ci impressionano le tempeste giudiziarie, tanto meno le offensive giornalistiche e di tanti ex amici. Ci è di conforto che, di recente, il Corriere della Sera gli abbia riservato un'intera
pagina per dedicargli un'intervista – a cura dell'ottimo Aldo Cazzullo – sul suo passato e sul
suo presente. Un’intervista godibile e ricca di dichiarazioni significative, che si può rintracciare nel nostro sito www.lamescolanza.com e non a caso abbiamo inserito il nome di Geronzi
nel governo ideale proposto da “Socrate2000”, il movimento apolitico e senza fine di lucro,
slegato da qualsiasi lobby, che si batte per il ritorno al merito. Chi fosse interessato, può leggerci sul sito www.socrate2000.com. Sono i manager di questi elenchi, con la loro vocazione, la loro dedizione (o la loro sciatteria, il loro cinico carrierismo...) che potranno fare e disfare l'Italia nei prossimi anni. Tenerli sotto osservazione, con giudizi specifici e personali,
aiuterà i nostri lettori a capire meglio il Gotha e la periferia dell'economia e della finanza, apprendendone o intuendone i retroscena.
La nostra intenzione è di lasciare sempre più spazio, peraltro, non solo all'economia,
ma a qualsiasi settore della vita pubblica, della storia e dell'attualità italiana. Per attribuire riconoscimenti adeguati al merito – grande assente nel nostro Paese. Naturalmente, con il metodo,
trasparente e divulgativo, delle pagelle e delle classifiche, e delle relative motivazioni. Saremo
grati a tutti coloro che vorranno darci una mano con suggerimenti e valutazioni.
12
13
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
Dall’alto da sinistra: Francesco Gaetano Caltagirone, Fedele
Confalonieri, Marina Berlusconi, Gianluigi Aponte, Roberto Cavalli,
Carlo De Benedetti, Mario Draghi
14
15
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
Dall’alto da sinistra: Pier Silvio Berlusconi, Sergio Marchionne, Luigi
Cremonini, Franco Bernabè, Salvatore Ligresti, Vittorio Colao,
Paolo Scaroni
16
17
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
D a l l ’ a l t o d a s i n i s t r a : M a s s i m o Z a n e t t i , F r a n c o Ta t ò , P i e r G a e t a n o
Marchetti, Cesare Romiti, Ennio Doris, Adriano Galliani, Paolo
Andrea Colombo
18
19
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
Dall’alto da sinistra: Giuseppe Orsi, Riccardo Illy, Emma Marcegaglia,
John Elkann, Luciano Benetton, Antonello Perricone
20
21
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
Dall’alto da sinistra: Miuccia Prada, Alessandro Profumo, Rodolfo
De Benedetti, Flavio Cattaneo, Urbano Cairo, Giovanni Petrucci,
M a r c o Tr o n c h e t t i P r o v e r a
22
23
IL GOTHA DELL’ECONOMIA
Dall’alto da sinistra: Ignazio Visco, Innocenzo Cipolletta, Jonella
Ligresti, Guido Maria Barilla, Franzo Grande Stevens, Giorgio Ar mani,
Giuseppe Mussari, Francesco Micheli, Maurizio Costa, Gabriele
Galateri di Genola, Giovanni Bazoli, Fabio De’ Longhi, Piero Gnudi
24
25
26
27
I L T O P D E L L’ E C O N O M I A
Dall’alto da sinistra: Massimo Garbini, Massimo Donelli, Alberto
Nagel, Alessandro Salem, Monica Mondardini, Andrea Guerra,
O s a m a B e s s a d a , A n t o n i o Ta l a r i c o , A l b e r t o B o m b a s s e i , G i a n l u c a
Brozzetti, Francesca Lavazza, Paolo Bertoluzzo
28
29
ECONOMIA, IL TOP
Quelli che detengono importanti posizioni di potere
30
31
I L T O P D E L L’ E C O N O M I A
Dall’alto da sinistra: Carlo Cimbri, Fabrizio Palenzona, Mario Polegato,
Laura Biagiotti, Gaetano Mele, Marco Patuano, Paolo Bertoluzzo,
Bassetti, Claudia Cremonini, Giuseppe Giordo, Beatrice Trussardi,
Giovanni Perissinotto, Giuseppe Vegas, Luca Luciani, Giuseppe Gentile
32
33
34
35
I L T O P D E L L’ E C O N O M I A
Dall’alto da sinistra: Vito Riggio, Cecilia Tosting, Marco Staderini, Lorenzo Bini
Smaghi, Massimo Pini, Maurizio Ughi, Sergio Balbinot, Patrizio Bertelli, Massimo
Capuano, Franz Jung, Sergio Loro Piana, Gaetano Mele, Roberto Sergio,
Mario Boselli, Franco Bassanini
36
37
38
39
40
41
I L T O P D E L L’ E C O N O M I A
Dall’alto da sinistra: Pasquale Cannatelli, Camilla Lunelli, Roland
Shell, Marco Zanichelli, Emanuele Erbetta, Alberto Calcagno,
Ta r a n t o l a , D a n i l o C o p p o l a , S t e f a n o D o l c e t t a , L u i g i G i r a l d i , M a t t e o
Marzotto, Paolo Zegna
42
43
I L T O P D E L L’ E C O N O M I A
Dall’alto da sinistra: Luca Bovalino, Lavinia Biagiotti Cigna, Domenico
P e l l e g r i n o , G i a n c a r l o E l i a Va l o r i , M a t t e o A r p e , G i o r g i o R e s t e l l i ,
KennethChenault, Gaetano Thorel, Gian Mario Tondato, Leo Wencel, Cesare
D’Amico, Franco Moscetti, Amedeo Felisa, Gian Luigi Rondi, Franco Iseppi
44
45
46
47
48
49
50
51
MARIO ANDREA RIGONI
Si può osservare che nelle discussioni politiche, religiose o d'altra
natura la gente non vuole affatto conoscere la realtà delle
cose, ma solo essere confermata nei suoi pregiudizi: è di una
fede, non della verità, che ha bisogno.
(Da “Variazioni sull'impossibile”, 1993)
52
53
L’ELITE DEI COMUNICATORI
Specialisti dell’immagine e delle relazioni
BUD SPENCER
Io credo perché ho bisogno di credere in Dio e nel «dopo»
che c'è oltre la vita. La fede, per me, è un dogma.
Un valore assoluto. Che fa parte della vita di chiunque,
anche di quelli che dicono di non credere.
(Da “Avvenire”, 2009)
Dall’alto da sinistra: Gianluca Comin, Loretana Cortis, Luigi
Vianello, Simone Migliarino, Stefano Mignanego, Raoul Romoli
Ve n t u r i , F r a n c o C u r r ò , P a o l o C a l v a n i
56
57
L’ELITE DEI COMUNICATORI
Specialisti dell’immagine e delle relazioni
I PIÙ GRANDI COMUNICATORI
Dall’alto da sinistra: Daniela Carosio, Alessandro Di Giacomo, Antonio
Gallo, Antonella Azzaroni, Sergio De Luca, Fabrizio Casinelli, Maria
Alberta Viviani, Maurizio Beretta, Mauro Crippa, Federico Angrisano
59
I PIÙ GRANDI COMUNICATORI
Specialisti dell’immagine e delle relazioni
60
61
I PROFESSIONISTI CHE CONTANO
Nelle relazioni istituzionali, esterne e comunicazione
Dall’alto da sinistra: Patrizia Rutigliano, Ivan Dompè,
Manuela Kron, Maurizio Salvi, Renato Vichi, Luca Macario,
Lamberto Dolci
63
I PROFESSIONISTI CHE CONTANO
Nelle relazioni istituzionali, esterne e comunicazione
64
65
66
67
I PROFESSIONISTI CHE CONTANO
Dall’alto da sinistra: Alessandra Bianco, Davide Rossi,
Andrea Prandi, Vittorio Meloni, Piero Zecchini, Sergio Tonfi,
Chiara Bressani, Elena Dalle Rive, Luca Virginio
68
69
70
71
GRANDI AGENZIE
DI COMUNICAZIONE
E RELAZIONI PUBBLICHE
ANTONELLO VENDITTI
Ritornerà dicembre con il freddo e i temporali
e tu sarai già pronta con la lista dei regali
ci incontreremo all’angolo in quel bar di via Frattina
è bello non vedersi come amanti stamattina
sempre...sempre resterai nella mia mente
sempre sempre tu sei il mio regalo e sei per sempre.
(Da “Regali di Natale”, 2008)
Dall’alto da sinistra: Simonetta Prunotto, Giuliana Paoletti,
Rosanna D’Antona, Sara Resnati, Andrea Cornelli, Daniela
Canegallo, Carla Otto, Alessia Bulani, Mirella Villa
72
73
GRANDI AGENZIE
DI COMUNICAZIONE
E RELAZIONI PUBBLICHE
74
75
REGIONE LOMBARDIA
In ordine alfabetico: Paolo Alli, Daniele Belotti, Davide Boni, Giulio Boscagli,
Luciano Bresciani Massimo Buscemi, Raffaele Cattaneo, Alberto Cavalli,
Romano Colozzi, Alessandro Colucci, Giulio De Capitani, Roberto Formigoni,
Andrea Gibelli, Romano La Russa, Carlo Maccari, Francesco Magnano,
Stefano Maullu, Franco Nicoli Cristiani, Massimo Ponzoni, Marcello Raimondi,
Monica Rizzi, Gianni Rossoni, Carlo Spreafico, Sara Valmaggi,
Domenico Zambetti, Massimo Zanello
77
REGIONE LOMBARDIA
78
79
COMUNE DI ROMA
In ordine alfabetico: Gianni Alemanno, Sveva Belviso,
Alfredo Antoniozzi, Antonello Aurigemma, Davide Bordoni,
Enrico Cavallari, Marco Corsini, Gianluigi De Palo,
Dino Gasperini, Fabrizio Ghera, Carmine Lamanda,
Rosella Sensi, Marco Visconti
80
81
COMUNE DI ROMA
TONY BLAIR
La fede è un credere “vivo”, non fermo in un’epoca nella storia,
ma che si muove col tempo, con la ragione, migliorata dalle
scoperte scientifiche e tecnologiche, non in “antitesi” ad esse, e
dirige tali scoperte verso fini umani.
(Da “Il progresso ha bisogno di fede”, marzo 2011)
82
83
IL MONDO DEL CALCIO
MORGAN
Le finestre accese e le ombre tutte quante
insieme a conversare
nelle strade tetre del quartiere un nuovo
centro commerciale
alberi che puntualmente, giorno dopo giorno,
vengono a mancare.
Canzone per Natale soltanto per Natale
tornò dalle battaglie perse e si dimenticò la strada
poi errando si svagò vagando un po’ al museo
di scienza naturale
faceva proprio finta di sapere dove andare!
(Da “Canzone per Natale”, 2003)
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IL MONDO DEL CALCIO
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QUESTIONARIO DI PROUST
Al questionario di Proust - ci sia consentito di dire che noi proponiamo
il testo originale, reso famoso dall'illustre scrittore, senza gli stravolgimenti opportunistici dei mass media – negli ultimi numeri hanno risposto Carlo De Benedetti, patron del gruppo L’espresso-Repubblica,
Corrado Passera, neo super ministro del governo Monti, Corrado
Calabrò, presidente dell'Authority e firma prestigiosa, come poeta,
dell'Attimo Fuggente. Ora è la volta di Letizia Moratti, super manager,
ex ministro, sindaco di Milano e presidente della Rai, un nome in possesso di un prestigiosissimo curriculum, e di Pier Luigi Celli, altro manager di grande caratura, in passato ex leader della Rai e ora direttore
generale dell’università Luiss.
Questa rubrica ha suscitato un notevole interesse e ne siamo lusingati:
senza pretesti riferibili all'attualità o, peggio, alla cronaca, si tratta di
qualcosa di più di un gioco salottiero: un divertissement intellettuale e
culturale in cui, esponendosi con sincerità, i protagonisti della vita
pubblica aprono spiragli sulla loro psicologia e sulla loro identità, consentendo a chi legge di trarne motivabili interpretazioni.
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QUESTIONARIO DI PROUST
QUESTIONARIO DI PROUST
RISPONDE LETIZIA MORATTI
Il tratto principale del mio carattere.
“Dinamismo e ottimismo. Vedo il bicchiere sempre mezzo pieno”.
La qualità che desidero in un uomo.
“L’onestà. E anche l’altruismo”.
La qualità che preferisco in una donna.
“Le stesse: onestà e altruismo”.
Quel che apprezzo di più nei miei amici.
“La sincerità”.
Il mio principale difetto.
“La vanità”.
La mia occupazione preferita.
“Progettare il futuro”.
Il mio sogno di felicità.
“Veder felici gli altri”.
Quale sarebbe, per me, la più grande disgrazia.
“L’infelicità dei miei figli”.
Quel che vorrei essere.
“Me stessa, migliore”.
Il paese dove vorrei vivere.
“L’Italia.
Il colore che preferisco.
“Bianco”.
Il fiore che amo.
“Rosa free spirit”.
L’uccello che preferisco.
“Il colibrì”.
I miei autori preferiti in prosa.
“Tolstoj, Morante, Allende e i pre-Socratici”.
I miei poeti preferiti.
“William Shakespeare, Giacomo Leopardi, Rainer Rilke, Giuseppe Ungaretti”.
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I miei eroi nella finzione.
“Il Piccolo Principe e Ulisse”.
Le mie eroine preferite nella finzione.
“Margherita Gauthier, Penelope”.
I miei compositori preferiti.
“Bach, Mozart, Wagner”.
I miei pittori preferiti.
“Mantegna, Tiziano, Rembrandt, Van Gogh, Picasso”.
I miei eroi nella vita reale.
“Gianmarco, mio marito. E poi Lincoln e Gandhi”.
Le mie eroine nella storia.
“Cristina Belgiojoso e Francesca Cabrini”.
I miei nomi preferiti.
“Gilda e Gabriele”.
Quel che detesto più di tutto.
“Usare la forza contro chi è più debole”.
I personaggi storici che disprezzo di più.
“Hitler, Stalin, Ponzio Pilato”.
L’impresa militare che ammiro di più.
“Gli interventi di pace nei Paesi senza democrazia”.
La riforma che apprezzo di più.
“L’abolizione della pena di morte”.
Il dono di natura che vorrei avere.
“Saper cantare”.
Come vorrei morire.
“Sapendo di aver condiviso con gli altri la mia felicità”.
Stato attuale del mio animo.
“Sereno”.
Le colpe che mi ispirano maggiore indulgenza.
“Gli errori dei giovani e quelli del cuore”.
Il mio motto.
“Quello della mia famiglia: fortiter et generose”.
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QUESTIONARIO DI PROUST
QUESTIONARIO DI PROUST
RISPONDE PIER LUIGI CELLI
Il tratto principale del mio carattere.
“L’orgoglio”.
La qualità che desidero in un uomo.
“La trasparenza”.
La qualità che preferisco in una donna.
“La cura”.
Quel che apprezzo di più nei miei amici.
“L’allegria”.
Il mio principale difetto.
“Reagire a caldo”.
La mia occupazione preferita.
“Scrivere”.
Il mio sogno di felicità.
“Una domenica pomeriggio senza tempo”.
Quale sarebbe, per me, la più grande disgrazia.
“Perdere i miei cari”.
Quel che vorrei essere.
“Quello che sono”.
Il paese dove vorrei vivere.
“Un’Italia meno egoista”.
Il colore che preferisco.
“Il rosso”.
Il fiore che amo.
“La peonia”.
L’uccello che preferisco.
“Lo scricciolo”.
I miei autori preferiti in prosa.
“Dostoevskij, Tolstoj, Hugo, Saramago”.
I miei poeti preferiti.
“Leopardi, Szymborska”.
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I miei eroi nella finzione.
“Non amo gli eroi”.
PERSONAGGI
Le mie eroine preferite nella finzione.
“Non ne ho”.
I miei compositori preferiti.
“Mozart, Puccini”.
I miei pittori preferiti.
“Caravaggio, Bacon”.
I miei eroi nella vita reale.
“Non amo gli eroi”.
Le mie eroine nella storia.
“Non ho eroine”.
I miei nomi preferiti.
“Mattia, Rebecca”.
Quel che detesto più di tutto.
“La falsità”.
I personaggi storici che disprezzo di più.
“Non si disprezzano i morti: hanno già pagato”.
L’impresa militare che ammiro di più.
“Non amo le imprese militari”.
La riforma che apprezzo di più.
“Quella che si deve ancora fare”.
Il dono di natura che vorrei avere.
“Saper cantare”.
Come vorrei morire.
“Sapendolo”.
Stato attuale del mio animo.
“Sereno”.
Le colpe che mi ispirano maggiore indulgenza.
“Quelle che non feriscono gli altri”.
Il mio motto.
“Meglio cinici che patetici”.
Va l e n t i n o P a r l a t o
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PERSONAGGI
VALENTINO PARLATO, LUCIO MAGRI,
IL MANIFESTO... LA VITA E LA MORTE
PER L’UTOPIA COMUNISTA
Antonella Parmentola*
L’
Attimo fuggente è una rivista che ha la fortuna di non essere pressata o spinta, come accade a quotidiani e settimanali, dall’urgenza dell’attualità, perché coltiva l’ambizione di
durare nel tempo, avendo assunto anche nella forma, la natura propria del libro. Capita però che l’attualità, talvolta, sia così prepotente da entrare senza bussare nel nostro lavoro e nella confezione degli articoli.
Per questo numero avevamo, infatti, programmato un’intervista con Valentino Parlato, fondatore del Manifesto, guru della sinistra, prestigioso maestro del giornalismo italiano. Una lunga conversazione sulla sua vita, i ricordi della Libia e dell’arrivo in Italia,
il lavoro all’Unità, la radiazione dal Pci e il progetto, appunto, legato alla creazione de Il Manifesto insieme con Luigi Pintor, Rossana
Rossanda, Lucio Magri, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Ninetta
Zandegiacomi.
Ma proprio nei giorni di chiusura in tipografia dell’Attimo
siamo investiti da una tempesta: Lucio Magri ha deciso di porre fine
alla sua vita, ricorrendo al suicidio assistito, in una clinica svizzera.
Così come aveva programmato da tempo, almeno da quando era venuta a mancare l’amata moglie Mara (“non solo un dolore ma
un’amputazione di me stesso, che non si rimarginerà”, confessa
Magri nelle pagine finali del libro Il sarto di Ulm).
All’intervista con Valentino Parlato ho affiancato altri sentimenti e pensieri. Con qualche riflessione sulla scelta estrema di
Magri, e rendendo omaggio all’amicizia che legava Valentino e Lucio,
all’amore che legava Lucio alla moglie Mara, alla passione politica
che legava i fondatori del Manifesto ad un mondo, a grandi sogni politici, a illusioni e amarezze, ad un’ideologia che non esiste più.
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Per questo, accanto all’intervista realizzata con Valentino
Parlato, pubblichiamo uno stralcio da Il sarto di Ulm (poesia di
Brecht a cui si ispira il titolo del libro di Magri), l’editoriale di
Vittorio Feltri sul diritto di poter scegliere come morire (Il Giornale
30/11/11), e l’intervista di Simonetta Fiori a Valentino Parlato sulla
morte dell’amico (La Repubblica 30/11/11).
Ulm 1592
“Vescovo, so volare”,
il sarto disse al vescovo.
“Guarda come si fa!”
E salì, con arnesi che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.
Il vescovo andò innanzi.
“Non sono che bugie, non è un uccello,
l’uomo: mai l’uomo volerà”,
disse del sarto il vescovo.
“Il sarto è morto”,
disse al vescovo la gente.
“Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte e lui sta là,
schiantato sui duri, duri selci del sagrato”.
“Che le campane suonino.
Erano solo bugie.
Non è un uccello, l’uomo:
mai l’uomo volerà”,
disse alla gente il vescovo.
*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole,
della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto, il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza.
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PERSONAGGI
VALENTINO PARLATO E LA CERTEZZA
DI UN MONDO MIGLIORE
Le ideologie, giuste o sbagliate che siano, sono pur sempre un
pensiero organico, una concezione della realtà e, quindi, anche
un fondamento per l’azione
Antonella Parmentola
V
alentino Parlato, classe 1931, ha compiuto ottant’anni lo
scorso febbraio e questo gli conferisce il titolo di decano del
giornalismo italiano. Testimone di un mondo che ormai non
c’è più, non ha mai perso il desiderio di scrivere e descrivere i fatti
del mondo. Nato e cresciuto in Libia fino agli anni dell’università, lo
considera un paese di straordinaria bellezza, anche se riconosce che
per un lungo periodo, la Libia è stata senza storia. Espulso a causa
del suo credo comunista, considererà sempre quell’evento un colpo
di fortuna: giunto in Italia, infatti, viene assunto come correttore di
bozze all’Unità ed ha la possibilità di conoscere personaggi entrati
nella storia come Pietro Ingrao.
Spirito indomito, nel 1969 viene radiato dal Partito comunista italiano, forse perché, come ebbe a dire lo stesso Giorgio
Amendola “aveva avuto troppi maestri”. Sempre quell’anno, insieme a Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri, Aldo Natoli,
Luciana Castellina e Ninetta Zandegiacomi fonda Il Manifesto, quotidiano di ispirazione comunista, ma che non è mai stato un organo
di partito.
A più di quarant’anni di distanza, il ricordo di quei giorni è
motivo di entusiasmo: la ricerca dei locali a via Tomacelli, i tavolini, le macchine da scrivere (non c’erano i computer), i tanti giovani
che arrivavano e imparavano, e i meno giovani, non ancora vecchi,
che avevano esperienza di giornalismo e di politica.
Riconosce che oggi la crisi della politica è massima. I partiti, praticamente, non ci sono più e la politica la fanno i mercati, i
quali, peraltro, non sono affatto insensibili agli interessi personali.
Eppure, se dovessi sintetizzare la nostra chiacchierata in una
sola risposta, sceglierei di sicuro l’ultima, perché è un’iniezione di
saggezza e di speranza, che in un momento storico così confuso di100
venta davvero un punto di riferimento: “Insistere sugli obiettivi che
hanno segnato la tua vita, per capire o cercare di capire, cosa cambia
nel mondo è ciò per cui vale la pena vivere; perché un mondo migliore è ancora possibile”.
Il primo ricordo della sua infanzia in Libia. Che paese era?
“Sono nato in Libia, nel lontano 1931 e lì ho vissuto fino all’età di vent’anni. Direi che la Libia è stato il paese della mia crescita, delle esperienze che segnano, della mia formazione. In Libia ho
fatto le scuole, dalle elementari al liceo e lì ci sono state le mie disordinate letture. Nel 1940 l’Italia entra in guerra, a Tripoli cominciano i bombardamenti, ricordo un duro bombardamento navale che
colpì anche casa mia. Nella G.I.L. ero marinaretto e fino al 1945 fui
fanatico patriota e anche fascista, e in questa cultura tenni un diario
che seguiva le vicende della guerra e che poi, verso i 16 anni, bruciai ritenendolo tutto sbagliato. Nel 1940 facevo ancora le scuole
elementari e la guerra e la chiusura delle scuole mi fece avere la licenza elementare in anticipo, ma leggevo: ricordo il Barbagallo di
storia romana e attraverso la lettura di Dux della Margherita Sarfatti
diventai un ragazzo nicciano.
Con la guerra e la paura dei bombardamenti la mia famiglia
si trasferì a Sorman nella concessione di mio nonno e in quella campagna le esperienze furono molteplici: la campagna, il rapporto con
i braccianti libici, il ghibli che bruciava i grappoli d’uva non ancora
matura, la vendemmia e poi i soldati. Reparti della divisione Trieste
si erano accampati vicino alla campagna del nonno e molti di loro
venivano il pomeriggio a bere il vino davanti casa. Io portavo il vino
a questi soldati e sentivo i loro discorsi sulla vita, la guerra, le famiglie, le donne. Al ragazzo che ero, si aprivano nuovi orizzonti. A
Sorman, c’era anche un campo d’aviazione con un’improvvisata biblioteca nella quale c’era di tutto: dalla cura delle malattie veneree
ai discorsi del Duce. Gli ufficiali venivano spesso a casa del nonno
e anche lì ascoltavo i discorsi dei grandi, spesso sorprendenti o, per
me, stravaganti.
A Sorman vissi tutta la ritirata delle forze armate italiane e
tedesche. Gli ultimi reparti a passare furono i tedeschi. C’era un
ufficiale che parlava italiano, che adesso ha più di cent’anni, e che
ogni tanto vedo. Emil Springorum il suo nome, lui disse a mio
nonno che quella sera gli ufficiali avrebbero gradito cenare in casa
e ovviamente mio nonno consentì. I tedeschi portarono in casa la
loro radio, che quella sera annunciò la sconfitta a Stalingrado, ci fu
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il gelo, un ampio silenzio, ma poi alzarono il bicchiere. Di quel
passaggio ricordo che mia nonna fece lo scambio di un chilo di patate con un chilo di zucchero. L’indomani mattina partirono e
Springorum mi accompagnò su una collinetta a vedere le nuvole di
sabbia sollevate dai carri armati inglesi che avanzavano. Mio nonno era molto preoccupato per quel che sarebbe potuto accadere nel
passaggio. Che avrebbero potuto fare i libici che abitavano nelle
case circostanti? E così mio nonno mi insegnò a usare la pistola,
ma tutto andò bene; avevo poco più di dodici anni. Poi quando
l’occupazione inglese si stabilizzò e riaprirono le scuole, ripetei la
quinta elementare a Sorman. Diventai un buon cavallerizzo e una
volta rimasi staffato, ma non ero abbastanza alto da sbattere la testa per terra.
Con l’occupazione inglese (la British Military Administration),
in Libia la guerra finì, la mia famiglia tornò a Tripoli, io ripresi le
scuole ed ebbi la mia licenza liceale. In questa normalizzazione, nacquero amicizie, discussioni, letture, si avevano le notizie dall’Italia (ricordo le elezioni del 1948) e crebbero le mie simpatie per il comunismo, in Libia vietato. È in Libia che comincia il mio comunismo.
Ricordo i compagni più anziani e dirigenti: Errico Cibelli, Giuseppe
Prestipino, Manzari, i fratelli Russo, operai, Nino Caruso, anch’esso
operaio, Sante Pascutto e altri ancora. Insomma, si costituì un partito
comunista clandestino, che produsse l’associazione per il Progresso
della Libia, che raccoglieva personalità libiche, italiane, ebree, e che
chiedeva, in polemica con la comunità italiana fascistoide, l’indipendenza della Libia.
In quegli anni, verso la fine dei ’40, organizzammo un forte
sciopero dei portuali e pubblicammo anche un settimanale, Il
Corriere del Lunedì dove, anche con una rubrica, “Visto da destra e
visto da sinistra”, cercavamo di rappresentare le idee del comunismo. Ma tutto questo non durò a lungo. A un certo punto le autorità
britanniche chiusero il giornale e nel 1951 ci fu l’arresto e l’espulsione dalla Libia di un gruppetto di noi, Cibelli, Prestipino, i fratelli
Russo, Nino Caruso, Nicola Manzari, un comunista anarchico e anche io. Così rinasce la mia vita in Libia, anche se ci sarei ritornato
negli anni ’90 su invito del governo libico di Gheddafi.
La Libia era ed è un paese di straordinaria bellezza: le coste
sul Mediterraneo, il deserto, il gebel e poi – o prima – la ricchezza
archeologica: le rovine di Sabratha, Leptis Magna, dove nacque
l’imperatore Settimo Severo, Cirene, segni di una storia che si è interrotta. Per un lungo periodo la Libia è stata senza storia.
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Quanto alla società, debbo dire che ho vissuto due Libie:
quella di colonia italiana e quella governata dagli inglesi. La prima
colonialista al massimo. I libici, salvo quelli delle grandi famiglie,
vivevano da esclusi, costretti a imparare l’italiano. Va ricordato che
a un certo punto Tripoli diventò provincia del regno d’Italia e che il
fascismo, con la costruzione dei villaggi agricoli e l’insediamento in
questi villaggi di lavoratori agricoli disoccupati che venivano a migliaia dall’Italia, molti dall’Emilia e dal Veneto, puntava a fare in
modo che la popolazione italiana fosse più numerosa di quella libica. E poi c’era il fasto fascista: il palazzo del governatore (Italo
Balbo) che assomigliava ai palazzi del viceré delle Indie. E poi il governatore che, per la messa domenicale delle 11,30 arrivava in chiesa sulla berlina e con un po’ di cavalieri intorno. E durante la messa,
soldati o giovani fascisti stavano fermi in presente d’armi lungo la
navata centrale per tutta la sua durata. Ogni tanto qualcuno sveniva
o faceva finta.
Con gli inglesi, tutto sommato, le cose non andarono male.
Nacquero partiti politici libici; gli ebrei si diedero un bel circolo. Gli
italiani con riferimento al circolo Italia divennero più fascisti.
Dell’occupazione inglese, però, non va dimenticato un fatto terribile. Tra il 1947 e il ’48, non ricordo bene, quando l’Inghilterra votò
contro la formazione dello stato di Israele, le autorità britanniche
consentirono, anzi promossero, un terribile pogrom: per tre giorni i
libici massacrarono gli ebrei, buttandoli anche giù dalle finestre,
senza che ci fosse un intervento da parte delle autorità. Le truppe
erano consegnate in caserma”.
La simpatia per il comunismo era un fatto familiare o suo personale? Come avete vissuto l’espulsione?
“La mia spinta verso il comunismo fu assolutamente personale, maturata soprattutto attraverso le letture e l’incontro con compagni già comunisti e con i quali costituimmo, come dicevo, una
sorta di partito clandestino. Dell’espulsione dalla Libia ricordo che
di notte la polizia bussò a casa dei miei genitori e dichiarò che ero in
arresto e dovevo spicciarmi a vestirmi e prendere le mie cose.
C’era solo da obbedire, ma di nascosto buttai nel giardino della casa vicina tutti i materiali compromettenti. Poi salii nella macchina
della polizia che – colpo di fortuna – non mi portò in caserma, ma al
porto dove trovai un po’ di altri compagni. Bene, non finivo in una prigione libica. Per alcuni di noi l’espulsione significò perdita del lavoro
e l’allontanamento dalle famiglie. Per uno studente universitario, deb103
bo dire, fu una fortuna. Vivere in Italia era meglio di restare in Libia e
laureato diventare un avvocaticchio del Foro di Tripoli, in attesa che mi
espellesse Gheddafi. Debbo aggiungere che fu una fortuna anche per
genitori e nonni, che decisero di tornare in Italia e vendere le loro proprietà prima della cacciata degli italiani dalla Libia”.
Cosa le colpì maggiormente quando arrivò in Italia? Era diversa da come se l’aspettava?
“Prima dell’espulsione ero stato altre due volte a Roma per
gli esami universitari. Era la fine degli anni ’40 e forte fu l’impressione. La bellezza della grande città con i suoi monumenti storici,
ma al di sotto, girando per le strade, anche la miseria. In ogni modo,
c’era più libertà, più vita, c’erano le sezioni di partito, le manifestazioni, gli scioperi. Mi iscrissi subito alla sezione universitari e alla
sezione di quartiere, la sezione Italia di via Catanzaro, dalle parti di
piazza Bologna. E poiché nel quartiere la mia faccia era sconosciuta, i compagni della sezione si inventarono un bel gioco. Io facevo
l’anticomunista e discutevo animatamente in modo da formare un
capannello intorno a noi. Ovviamente i miei argomenti anticomunisti erano assolutamente insostenibili e finiva con il trionfo del compagno comunista ed io che me ne andavo vergognoso. Cose d’altri
tempi e debbo ringraziare i miei genitori che fino a quando non cominciai a lavorare mi mantennero con qualche sforzo”.
Come arrivò a lavorare per l’Unità? C’era un giornalista che le
fece da mentore o che considerava come guida?
“Grazie a Luciana Castellina, all’Unità, cominciai a lavorare come correttore di bozze. Così è iniziata la mia vita da giornalista. E debbo dire che ho un buon ricordo di quell’esperienza.
Restavo, allora l’Unità era in via 4 Novembre, fino alla chiusura del
giornale; per cui la sera incontravo e sentivo parlare di Pietro Ingrao,
Luigi Pintor e altri ancora. Imparavo, vivevo nel giornale ed ero
contento. Poi da correttore di bozze sono passato alla pagina del
Lazio e seguivo la provincia di Roma. Anche quella una bella esperienza. Ricordo le combattive sezioni dei Castelli Romani e poi anche i dissensi interni, le litigate. Insomma, era vita”.
Nel 1969 una nuova espulsione dal Pci? C’è un aneddoto che
chiarisce bene tutta la vicenda?
“Va precisato. Non si trattò di un’espulsione, ma di una radiazione. La prima sanciva la tua indegnità politica e morale e ti
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escludeva per sempre; mentre, per la seconda, non c’era l’indegnità
e, se ti comportavi bene, potevi essere riammesso. Quanto a me, un
provvedimento disciplinare era scontato, anche perché il gruppo dirigente era preoccupato di altre possibili autonomizzazioni da parte
di compagni fortemente legati all’Urss. In ogni modo, avevamo fatto una rivista e preparavamo il manifesto Quotidiano comunista in
polemica aperta con il Pci.
Molti compagni con i quali avevo lavorato fino al giorno prima mi tolsero il saluto, ma io continui a salutare. A questo proposito ricordo che Giorgio Amendola, sotto la cui direzione avevo lavorato, rispose al mio saluto quando andai ad una loro iniziativa come
giornalista del Manifesto. Fui molto contento e gli dissi che lo consideravo come un maestro; al che, Amendola, con il suo vocione, mi
disse: “Tu, tu, troppi maestri hai avuto”. Era abbastanza vero. A conclusione, però, debbo dire, che la radiazione non fu un provvedimento amministrativo. Il Pci di allora era serio e sulla radiazione del
gruppo del Manifesto ci fu un intero comitato centrale del Pci.
Sempre nello stesso anno, come matura la scelta di fondare il
manifesto? In che cosa vi proponevate di essere diversi
dall’Unità?
“La rivista Quotidiano comunista ha successo e crescono nel
paese i gruppi di compagni che sostengono la nostra iniziativa, che
sono scontenti di un Pci che diventerà Pds e poi soltanto Pd e vogliono un rinnovamento della sinistra. Certo, erano altri tempi, ma pressioni e fiducia erano forti. Per tutto questo siamo passati a uno strumento di intervento quotidiano per cambiare la società e la politica;
e se oggi, a più di quarant’anni di distanza, vediamo in che stato è ridotto il nostro paese, la volontà e la determinazione di allora appaiono ancora più forti. Purtroppo, la crisi della politica, prima della crisi dell’economia, ci ha ridotto nelle attuali condizioni.
A più di quarant’anni di distanza, il ricordo del vero
Manifesto quotidiano suscita ancora entusiasmo. La ricerca dei locali a via Tomacelli, i tavolini, le macchine da scrivere (non c’erano i computer), i tanti giovani che arrivavano e imparavano, e i
meno giovani, non ancora vecchi, che avevano esperienza di giornalismo e di politica e che un po’ dirigevano. Ricordo Luigi Pintor,
Ninetta Zandegiacomi, Filippo Maone, Michele Melillo, Giuseppe
Crippa e anche io, che venivo dal settimanale Rinascita. Alcuni
giorni facevamo anche lo strillonaggio. Ricordi di gioventù e di
grandi esperienze”.
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Quale valore avevano all’epoca le ideologie e quale ne hanno oggi?
“Le ideologie, giuste o sbagliate che siano, sono pur sempre
un pensiero organico, una concezione del mondo e, quindi, anche un
fondamento per l’azione. Oggi mi sembrano dissolte, i pensieri sono
tutti di breve periodo e anche rapportati all’interesse personale.
Insomma, una sorta di populismo individualistico. È un po’ il berlusconismo, ma – aggiungo – che l’antiberlusconismo è lo specchio
del berlusconismo”.
Crede che Mani Pulite sia stato un golpe o un percorso efficace
per il rinnovamento della classe politica?
“Né un golpe né un percorso di rinnovamento, ma un segno
di profondo malessere. Mani Pulite segna il passaggio dal craxismo
al berlusconismo. No, non è con i processi in tribunale che si fa il
rinnovamento”.
Come giudica, nel complesso, i vent’anni della seconda
Repubblica?
“Male. I vent’anni della seconda Repubblica segnano l’incapacità di governo delle forze di sinistra (i governi Prodi, Amato,
D’Alema) e il nascere e l’affermarsi di Berlusconi: della sua politica e della sua cultura. Siamo partiti da Mani Pulite e siamo arrivati
a un governo che esclude da sé tutte le personalità politiche. Oggi la
crisi della politica è massima. I partiti, praticamente, non ci sono più
e la politica la fanno i mercati, i quali, peraltro, non sono affatto insensibili agli interessi personali. Sarebbe opportuna un’analisi del
ruolo e della condizione dei manager”.
ditore coincide quasi sempre con un gruppo economico forte o un
potere politico. Diamo un’occhiata ai giornali che troviamo in edicola: tutti hanno un padrone”.
Quali sono i tre giornali che legge per primi la mattina?
“Ovviamente il Manifesto, poi Repubblica e il Corsera”.
Che futuro immagina per la carta stampata? Sarà soppiantata dalle nuove tecnologie?
“Certamente, soprattutto tra i giovani, la carta stampata è
fortemente danneggiata dalle nuove tecnologie, ma mi è difficile
pensare che ne sarà soppiantata. Leggere sulla carta, poter segnare le
righe che ti interessano, conservare qualcosa sono tutte cose importanti a difesa della carta stampata. Ai libri su video ho grande difficoltà a pensarci”.
Nello scorso febbraio ha compiuto ottant’anni. Se le chiedessi per cosa vale la pena vivere, cosa mi risponderebbe?
“Rispondere è difficile. Innanzitutto direi che con gli ottanta
si entra nella fascia della fisiologica scadenza del percorso.
L’orizzonte si accorcia. Pur con un certo distacco, vale ancora la
pena (o il piacere) di vivere per insistere sugli obiettivi che hanno
segnato la tua vita passata, per capire (cercare di capire) che cosa
cambia nel mondo e per insistere a cambiarlo. Un mondo migliore è
ancora possibile e bisogna insistere”.
Anche il giornalismo, negli ultimi anni, è profondamente cambiato. Quando lei ha cominciato, quali caratteristiche doveva
avere un buon giornalista?
“Praticamente non vedo un profondo cambiamento. Dei
giornalisti, sempre, si è detto tutto il bene e tutto il male possibile.
Oggi, a mio parere, quel che difetta nel giornalismo sono gli approfondimenti analitici e le inchieste. L’inchiesta costa ed è pressoché scomparsa”.
Oggi ci sono bravi giornalisti dalla “schiena dritta”, o hanno tutti, chi più chi meno, un padrone?
“Rispondo che certamente ci sono giornalisti dalla “schiena
dritta”, ma aggiungo che tutti hanno un padrone: c’è l’editore e l’e106
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PERSONAGGI
IL SARTO DI ULM
La democrazia italiana era nata già gracile per i ritardi e il carattere elitario del Risorgimento, frenata dal non expedit vaticano, dall’analfabetismo, irreggimentata e compromessa dal fascismo, che era un regime reazionario di massa1
Lucio Magri
La fine del Pci
Arrivo ora all’ultima tappa
del mio lavoro: la fine del Pci. Ci arrivo in condizioni pessime. Anzitutto,
e soprattutto, perché, dopo un breve
intervallo, riprendo la penna in mano
nel momento in cui vivo un dramma
personale profondo. È scomparsa la
mia amatissima compagna, Mara:
non solo un dolore ma un’amputazione di me stesso, che non si rimarginerà, rende opaca l’intelligenza e fiacca la volontà. E proprio sul
letto di morte mi ha imposto la promessa di continuare a campare
senza di lei almeno fino a quando non avrò finito il lavoro che avevo cominciato durante gli anni delle sue sofferenze. E so che se lo
sospendessi ora non sarei più capace di mantenere la promessa.
In secondo luogo, per caso, mi trovo ad affrontare il tema
più complesso, a sua volta doloroso, della fine del Pci proprio nel
momento in cui non il Pci ma l’intera sinistra sembra scomparsa, o
è in totale confusione; e contemporaneamente riaffiora una seria crisi dell’avversario che l’aveva sconfitta e dunque sarebbe più che mai
necessaria. Di più, l’Italia in generale, che per decenni era stata un
1) Pubblichiamo per concessione dell’editore, uno stralcio da “Il sardo di Ulm” di Lucio
Magri, Il Saggiatore, 2009.
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laboratorio di dibattito politico-culturale e di lotte sociali interessanti per tutto il mondo, è oggi declassata al rango di un paese minore e
a volte un po’ indecente: appare quindi improbabile che, nel caos di
una crisi mondiale, di qui si avvii un nuovo ciclo storico; è invece
probabile che da qui, per il momento, maturi piuttosto il peggio. Nel
lungo periodo, se la crisi attuale di sistema si rivelerà duratura, occasioni nuove potrebbero offrirsi, ma nel breve tempo è difficile vedere anche solo da dove cominciare: la strada per la ricostruzione di
una vera sinistra è lunga, un problema di generazioni.
Ma forse proprio questa constatazione spinge a chiedersi se
il Pci non possedesse ancora un patrimonio di idee e di forze per rendere la propria fine meno frettolosa e meno sterile.
Vorrei provare a rispondere. Con due avvertenze. Da qui in
poi sarò costretto a usare la memoria personale per colmare i vuoti
degli archivi e anche della recente storiografia, con tutti i rischi che
ne derivano. D’altra parte dovrò talvolta inserire riferimenti autobiografici, dato che in quelle vicende ho avuto un ruolo e una responsabilità non irrilevanti.
Le tre scissioni
Separazioni e scissioni hanno punteggiato l’intera storia del
movimento operaio, in quasi ogni paese e in molte epoche: tra socialisti e comunisti, ma anche all’interno di entrambi. In ogni caso le
scissioni sono costate un prezzo pesante. Gramsci, che ne era uno
dei promotori, disse di quella del 1921: è stata necessaria, ma anche
una sciagura. Ciò non vuol dire che tutte abbiano portato un eguale
disastro, o siano nel tempo state egualmente sterili o irreversibili. E
neppure che tutte siano state il semplice riflesso di un grande conflitto ideologico e politico. In buona parte le loro conseguenze erano
più o meno pesanti, più o meno definitive, anche in rapporto al contesto in cui si collocavano, a chi e perché le produceva, al progetto
che le animava.
Quella del 1991, che colpiva il Pci, fu una delle peggiori.
Bertinotti, molto più tardi, ne offrì una fotografia seducente ma ingannevole, con una semplice frase: «I passeri con i passeri, i merli
con i merli». Se dalla scissione, infatti, fossero via via emersi da un
lato un forte partito riformista legato alla migliore tradizione socialdemocratica e, dall’altro lato, un partito comunista realmente rifondato, la frase di Bertinotti sarebbe stata appropriata. Purtroppo però
non era questo che stava avvenendo, tanto meno quello che sarebbe
avvenuto.
109
In realtà le rotture furono due, anzi tre. La prima, più importante e più ovvia, era la nascita immediata di due nuovi partiti a contendersi l’eredità. Quello ideato da Occhetto, che si chiamava Partito
democratico della sinistra, con il simbolo della Quercia; e quello
promosso da Garavini, Cossutta, Libertini, Serri e Salvato che, dopo
molto discutere, prese il nome di Rifondazione comunista. Una seconda frattura era meno importante e visibile, ma invece aveva effetti indiretti rilevanti.
Parlo della frattura fra quasi tutti i dirigenti nazionali e locali, che avevano condotto la battaglia del no (e invece aderirono al
Pds, e ci rimasero per molti anni generalmente insoddisfatti e silenziosi), e la loro base che prevalentemente si diresse invece verso
Rifondazione. Anche per questo Occhetto, ma non solo lui, si convinse che la scissione sarebbe fallita o si potesse rapidamente riassorbirla.
I nuovi soci però al Pds non arrivavano ancora e non arrivarono neppure quando, poco dopo, il vento di Tangentopoli cominciava a smantellare il Psi e la Dc (mentre Rifondazione raccolse in pochi mesi 119mila militanti), cosicché l’esordio del nuovo «grande
partito» nel 1992 raccolse il 16% dei voti alle elezioni politiche, e si
trovò più che dimezzato nei suoi iscritti.
Questa seconda frattura pesò anche su Rifondazione, non in
termini quantitativi ma nel suo progetto politico. Le adesioni, infatti, che raccoglieva provenivano dalla base popolare militante, formatasi in compiti operativi o in vertenze sindacali, legata da un senso di appartenenza, molto entusiasta, ma non abituata alla riflessione politica e giustamente arrabbiata con il «nuovismo» e i suoi risultati. Per farne un partito, anzi per rifondarlo – Togliatti lo sapeva –
occorrevano organizzazione, pensieri chiari, lotte dure ma poca demagogia; soprattutto un gruppo dirigente capace di pedagogia e ricco di idee e di prestigio, unito dall’esperienza e solidale. In mancanza di questo un popolo staccato all’improvviso da un partito di massa, che si sentiva tradito, poteva facilmente cadere nel massimalismo
o irrigidirsi in un culto acritico del passato.
Una terza scissione era ancor meno visibile ma a mio parere
forse la più grave; perché colpiva non solo il Pci ma la democrazia
italiana. La democrazia italiana era nata già gracile in origine per i
ritardi e il carattere elitario del Risorgimento, poi frenata dal non expedit vaticano e dall’analfabetismo, infine irreggimentata e compromessa dal fascismo, che era a sua volta, non dimentichiamolo, un regime reazionario di massa.
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Il Pci aveva dato un contributo essenziale alla rinascita democratica e al suo compimento. Anche per il fatto in sé di esistere
come partito di massa, cioè radunando milioni di uomini, educandoli e coinvolgendoli in una partecipazione politica attiva, cementandoli con una cultura comune che dava la fiducia di poter cambiare il
mondo con l’azione collettiva. La maggioranza di loro apparteneva
alle classi subalterne che, sempre e ovunque, sono le più lontane e
diffidenti rispetto alle istituzioni, ancor più lontane dai problemi internazionali. Un partito di questo carattere e queste dimensioni (con
il supporto di molteplici organizzazioni collaterali) era unico in
Europa. Nel corso dei decenni, però, quei caratteri erano molto impalliditi: nel bene (per esempio l’allentarsi del dogmatismo ideologico e della struttura gerarchica) ma ancor più nel male (la separazione tra dirigenti e lavoratori, il professionismo politico, la scarsità di
giovani, l’assimilazione della cultura corrente). Alla fine degli anni
ottanta il partito di massa era quindi ormai un’altra cosa. Resta però
il fatto che il Pci non solo conservava il 28% dei voti, ma aveva
1400000 iscritti, in parte ancora attivi e politicizzati, il 40% dei quali era iscritto da oltre vent’anni, proveniva dal mondo proletario, e
custodiva una memoria.
Era quello che anche Occhetto chiamava lo «zoccolo duro»,
una risorsa e un vincolo. Che occorresse un rinnovamento del partito più che ogni altra cosa era evidente, ma lo era anche il fatto che
uno strappo improvviso, anche simbolico, dell’identità, se non provocava ribellione per abitudine alla disciplina, avrebbe prodotto un
esodo. E l’esodo ci fu, colossale: complessivamente, se si guardano
le cose da vicino e non ci si basa solo su comunicazioni ufficiali, circa 800mila persone si allontanarono dalla politica attiva. E poiché
non è vero che le classi subalterne restano per natura legate alla sinistra – mentre è vero invece che se non le convince e orienta un’organizzazione, le orienta la televisione – l’esodo, di tale ampiezza e
di queste classi è peggiore della scissione e apre un varco alla demagogia populista.
A questo punto posso ben dire che il mio lavoro questo punto
posso ben dire che il mio lavoro è terminato, essendo venuto meno
l’oggetto principale. Posso anche dire che era utile farlo. Ho restaurato la memoria sul comunismo del Novecento, e del Pci in particolare,
colmando delle lacune, confutando le manipolazioni. Forse posso anche pensare di aver fornito argomenti seri per dimostrare che il comunismo novecentesco non è stata una sciagura né ha lasciato solo un
mucchio di ceneri. Non ho nascosto, né mi sono nascosto nulla di
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quanto sapevo o che ho pensato. Questo principale obiettivo è stato
raggiunto. Un altro obiettivo però – direi meglio, una speranza – l’ho
mancato. Speravo di trovare nella concreta esplorazione di un lontano
passato, qualche forte appiglio per capire meglio e dare significati più
vasti alla parola «comunismo». Di tali appigli non ne ho trovati a sufficienza, né sul piano del pensiero né su quello dell’esperienza. Marx,
al riguardo, era stato molto cauto. Quando gli si chiedevano i tratti di
una società comunista si concedeva solo qualche accenno. Gramsci vi
aveva aggiunto il tema del «nuovo tipo umano». Togliatti aveva detto
che il pensiero di Gramsci permette di «andare oltre» la democrazia
progressiva. Il movimento del Sessantotto aveva espresso la stessa
esigenza ma spesso nella pratica contraddicendola. I grandi partiti del
movimento operaio (comunisti come socialdemocratici) l’avevano in
sostanza accantonata: la parola comunista, come quella socialista, riferite a un traguardo finale, erano usate come equivalenti: indicavano
entrambe, in modo diverso, una lunga transizione senza troppo occuparsi verso dove. Questo era comprensibile perché i tempi non erano
maturi: lo sviluppo economico, la lotta di classe, l’istruzione di massa
avrebbero di per sé definito l’obiettivo e permesso di raggiungerlo.
Ormai però era passato più di un secolo: economia opulenta,
istruzione, governo dello Stato non producevano affatto una nuova
civiltà, tanto meno un «rovesciamento della storia» o un «nuovo e
superiore tipo umano». Era giunto quindi il momento di chiarire che
cosa significava dire comunismo, in opposizione al capitalismo dei
nostri tempi, e di precisare le finalità e le forze capaci di affermarlo;
oppure adeguarsi al corso delle cose. La debolezza della sinistra di
ogni paese e di ogni scuola era questa, quasi incolmabile. Poteva
cercare di colmarla, in tempi lunghi, solo l’Occidente avanzato. Altri
paesi avevano ancora altri temi di cui occuparsi e se ne occuparono
bene (Cina) o crollarono (Urss).
Ma ancora una volta la sinistra europea disertò la prova. E la
disertò sciogliendosi o arrendendosi. Lo stesso fece il Pci, che aveva resistito nella sua diversità e, disertando, pagò il prezzo più alto
trovandosi di fronte, inatteso, il fenomeno Berlusconi (come a suo
tempo la relativa arretratezza dell’Italia aveva prodotto per prima il
fascismo). Da quanto più in alto (e più inconsapevolmente) si cade,
tanto più ci si fa male.
Non posso esorcizzare questa delusione, poiché la storia reale deve essere riconosciuta per ciò che è stata. Ma, in questo caso,
consente di essere affiancata, per concludere, da un tentativo di «storia controfattuale». La storia controfattuale non è un’elucubrazione
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costruita in tempi e in base a esperienze successive. Deve essere applicata alla situazione cui si dedica, sulla base di idee già allora presenti, tanto da poter ipotizzare una possibilità che non si è realizzata
ma poteva realizzarsi.
È legittimo in questa chiave tornare a chiedersi: esisteva
qualche possibilità che, ancora negli anni ottanta, il Pci non finisse
in un collasso? Aveva ancora un patrimonio culturale non utilizzato,
ma ormai utilizzabile, cui ricorrere (mi riferisco in questo caso al
«genoma Gramsci»)? Ed erano mature contraddizioni o forze nella
realtà su cui far leva per avviare una rifondazione comunista anziché
una liquidazione (mi riferisco alla globalizzazione neoliberista già in
atto)? A me pare di sì. E per non sembrare un matto o un visionario
ricorro a un piccolo espediente. Pubblico, come appendice di questo
libro, larga parte di un testo scritto nel 1987 senza apportarvi correzione alcuna. È un testo non personale, ma già destinato a essere la
base di una mozione collettiva da presentare al XVIII congresso del
Pci, in alternativa a quella di Occhetto. Due anni dopo fu riassunto e
integrato nella piattaforma discussa e accettata da tutta l’Assemblea
del fronte del no, che rappresentava un terzo del Pci. Poi venne di
nuovo chiuso in un cassetto. Doveva essere un buon cassetto, perché
vent’anni dopo, almeno a me, non sembra tanto invecchiato.
SUSANNA TAMARO
La fede non è passività. Apre alla vita. È lucidità, stupore, camminare e partecipare alla comprensione della vita.
Se non mi stupisco, non capisco il mondo. Non parlo di Dio, ma
d’intuire qualcosa che mi sfugge, di curiosità, perché tutti nasciamo e abbiamo davanti a noi la morte.
E io sono molto curiosa di sapere: c’è troppa realtà, perché intorno ci sia soltanto questa realtà.
(Da “Guardarsi dentro, con o senza fede”, 2008)
113
PERSONAGGI
IL SUICIDIO ASSISTITO È GIUSTO?
CIÒ CHE CONTA È POTER SCEGLIERE
Vedovo, afflitto dal male oscuro e deluso dalle tante sconfitte politiche, a 79 anni Lucio Magri ha deciso di togliersi la vita in una
clinica specializzata. Va onorato
Vittori Feltri
N
oi di una certa età abbiamo un privilegio: quello di ricordare
ciò che i giovani non sanno o sanno poco e confusamente.
Ieri, quando ho letto sulla Repubblica che Lucio Magri era
morto suicida in Svizzera, assistito da un medico amico in una struttura idonea a quel genere di pratica odiata dai cattolici, il mio primo
pensiero è corso agli anni Cinquanta e Sessanta, quando lui, Lucio,
era democristiano e passeggiava lungo il Sentierone, a Bergamo
(città nella quale abitava), con un gruppo di amici del partito. Era un
giovane avvenente, brillante, e molte ragazze se lo mangiavano con
gli occhi. Già. Magri cominciò la sua carriera politica nella Dc, anche se non aveva le stigmate del baciapile orobico, forse perché originario di Ferrara.
Evidentemente era cattolico,come quasi tutti i bergamaschi,
di nascita o di adozione, in quegli anni in cui l’odore dell’incenso e
del fumo di candela sovrastava quello della polenta. Ma gli uomini
per fortuna, o per disgrazia, cambiano idea con facilità. Lucio la
cambiò. E da virgulto dello Scudocrociato, che gli avrebbe assicurato un futuro comodo e agiato, divenne un dirigente comunista. Ma
anche nel Pci assunse posizioni eretiche e fu radiato con vari compagni, gente di qualche peso, tra cui Rossana Rossanda, Luciana
Castellina e Luigi Pintor. E fu con loro tra i fondatori del Manifesto,
mensile divenuto quotidiano e movimento politico.
Non spesso, ma a Bergamo egli tornava e si incontrava, ovviamente sul Sentierone, con vecchi compagni: Eliseo Milani, deputato del Pci e del Manifesto(morto pure lui) e Carlo Leidi, notaio
rosso (morto pure lui). Ecco la tragedia: avere buona memoria significa avere in testa una fila di lapidi. Una sera Leidi m’invitò a cena
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(nella sua cascina sobriamente restaurata) nonostante passassi per un
avversario politico: ero considerato socialista perché dirigevo
Bergamo Oggi, foglio scapigliato e concorrente fastidioso del curiale Eco. A tavola sedevano anche Lucio Magri ed Eliseo Milani, che
conoscevo superficialmente: qualche parola scambiata al Balzer, il
locale all’epoca più frequentato. Milani era burbero all’apparenza e,
di fatto, un giocherellone.
Magri era un tipo elegante, curioso, dall’eloquio forbito: mi
rivolse una raffica di domande sul giornale che facevo e sulla mia
esperienza al Corriere. Poi la conversazione, dominata da Leidi, scivolò presto in politica. Argomento centrale: Craxi, il craxismo, la sinistra, Milano da bere. Le solite cose di quegli anni. Lucio mi sembrò, fra tutti, il più sereno, distaccato, direi obiettivo. Non alzò mai
la voce che, comunque, tradiva una certa passionalità. Si concesse
qualche digressione improntata a pessimismo sul futuro della sinistra. Era scettico sulle possibilità dell’eurocomunismo e del compromesso storico di aprire una nuova strada politica. Diciamo pure che
era negativo su tutto ciò di cui discutevamo.
Complessivamente, Magri mi fece – per quel che conta- una
buona impressione. Lo rividi una mattina all’aeroporto, Orio al
Serio, da cui decollammo per Roma. Facemmo quattro chiacchiere
che confermarono il mio giudizio su di lui: un gentiluomo, amabile
e garbato. Adesso che lui è morto nel modo che sappiamo, immagino le polemiche, le riprovazioni, le condanne. Ne faremo indigestione. In questo nostro strambo Paese, dove i libertari si sono convertiti al bigottismo, i postcomunisti amano il puritanesimo, la destra ex
fascista si apparenta con la sinistra, e il conformismo è il denominatore comune di tutti quanti, non solo non si può più andare a donne
(perdonate l’espressione volgare e antiquata: serve per capirsi al
volo) ma nemmeno decidere come crepare. Vietato. Magri è stato
un’eccezione, un vero ribelle che non posso nascondere di apprezzare, ammirare. Si ribellò al piattume democristiano quando la Dc era
potente, si ribellò al Pci quando era al massimo del fulgore (chiunque scommetteva sul trionfo del marxismo)e, coerentemente con la
sua sublime incoerenza, si è ribellato all’idea che togliersi la vita sia
un sacrilegio. Ma quale sacrilegio? È una scelta.
Deprecabile? Deprecate, deprecate, però non negate a una
persona responsabile, lucida e consapevole il diritto di porre fine
alle proprie sofferenze. Ciò che non ho ancora detto, ma mi affretto
a farlo, è che Magri era depresso. Forse lo era sempre stato (qualche
115
sintomo del mal di vivere forse lo avevo intuito in lui), di sicuro lo
era di più dal giorno in cui la moglie, Mara, fu portata via da un tumore. Come si fa a non comprendere lo stato d’animo di un uomo
che in 79 anni di vita ha visto svanire ogni sogno? Il partito cattolico è scomparso, il comunismo è fallito, il capitalismo fa schifo ma è
ancora qui a far danni, la moglie non c’è, la giovinezza è sfiorita da
lustri, il desiderio di combattere è scemato, il futuro è un vicolo cieco e angusto:ma per quale motivo Lucio, non potendo più appoggiare la testa sul seno di Mara e sentirne il calore, avrebbe dovuto stare
qui ancora, magari fissando ore e ore il soffitto della stanza?
Perché avrebbe dovuto seguitare a trascorrere notti e notti
insonni tentando di respingere i tetri pensieri che il cervello mette in
circolo, sempre gli stessi, sempre più cupi e ossessivi? In attesa di
chi e di che cosa? Del Natale? Della visita dei nipotini? Di un’altra
malattia in aggiunta alla depressione che, se ti piglia, t’ammazza
dentro, dopo averti strappato anche il desiderio di un caffè e di respirare l’aria fredda del mattino? Immagino il rovello di Lucio. Vado in
Svizzera a farla finita? Massì. Vado. Poi, quando sarà arrivato lì la
prima volta, avrà avuto paura: non di morire, questo no, ma del protocollo da rispettare per fare il salto nel nulla liberatorio. E sarà tornato sui suoi passi. Mail tormento non gli avrà dato tregua.
Cosicché, altro viaggio in Svizzera. E avrà recuperato la forza di
bere il calice della morte, mentre i medici lo idratavano per rendere
meno aspro il sorso dell’addio. Non pietà, onore a Lucio Magri.
Il Giornale, 30 novembre 2011
116
ENRICO RUGGERI
Abbiamo avuto tempi in cui
quei rami di agrifoglio
vestivano quaderni e pensierini,
mentre l’albero già spoglio
di cartone e cellophan
si colorava a festa
per attendere la visita del prete.
E poi le luci intermittenti.
come i nostri più segreti sentimenti.
Ed eravamo tanti:
amici coi parenti,
vicini e conoscenti
che non ci sono più.
(Da “Il Natale dei ricordi”, 1999)
117
PERSONAGGI
“ERO CONTRARIO, MA CON LA SUA SCELTA
LUCIO HA DIMOSTRATO DI GOVERNARE
LA VITA”
Parlato, cofondatore con Magri del Manifesto, parla del compagno
che ha scelto il suicidio assistito. Abbiamo litigato, non sono riuscito a
dissuaderlo. Ribelle e perfezionista voleva andarsene in modo pulito”
Un singolare impasto di raziocinio e romanticismo.
“Ma Lucio era questo, anche nella sua vita politica. Passione
e ragione. Se penso a tutte le volte che abbiamo litigato...”.
L’ultima volta?
“No, recentemente ci azzuffavamo non sulla politica ma su
questa sua decisione di farla finita, però niente da fare. Lucio è sempre stato così, quando si mette in testa una cosa... Litigi accesissimi
ci furono quando il Pdup nel 1973 annunciò di voler fare del
Manifesto un organo di partito. Figurarsi Luigi, Rossana ed io, che i
partiti li detestavamo, poi anche il Pdup non è che ci piacesse tanto”.
Simonetta Fiori*
Ma è vero che non “vi pigliavate”, caratteri diversi?
“Lui raziocinante e incline alla teoria, io “arrangista” e fatalista: due modi diversi di stare al mondo...”.
“C
E tra Magri e Pintor erano scintille?
“Un rapporto conflittuale e insieme solidale. Avevano due
personalità mica da ridere, con due opposte concezioni del giornale
e della politica. Maggiori affinità legavano Lucio e Rossana, attenti
alle ragioni della ricerca teorica e appassionati entrambi di filosofia
tedesca. A Luigi della filosofia non gliene fregava niente”.
he volete sapere da me? Posso dire che è un gesto che attiene alla sua personalità, mescolanza di razionalità pura e
di passione. E poi l’anagrafe non è cosa da sottovalutare.
Avere ottant’anni, che si fa più? Solo un avvenire di malattie, questo
Lucio me lo ripeteva spesso”. Valentino Parlato passa veloce nei corridoi del Manifesto, le spalle leggermente incurvate, il sorriso accennato, lo sguardo affettuoso. I redattori lo salutano con serena sobrietà,
l’abbracciano ma senza lutto, coi padri si fa così, li si rassicura per esserne rassicurati. Arriva una telefonata della Rossanda, che racconta il
suo ultimo viaggio con Lucio. È stata lei, la sorella maggiore, l’amica
forte e generosa, ad accompagnarlo in Svizzera. L’ex direttore
Barenghi tenta di alleggerire l’atmosfera con ricordi di zuffe lontane.
Parlato asseconda, è gentile, ma come distante: “Mi mancano i miei
amici. Mi manca Luigi. E mi manca Aldo Natoli. Con loro mi sarebbe piaciuto parlare di Lucio, del suo gesto”.
Lei, Parlato, come lo decifra?
“È il prodotto di una razionalità estrema, ma non possiamo
trascurare la cifra sentimentale, la scomparsa della moglie. Per un
uomo avventuroso come lui, Mara rappresentava l’ordine, l’ancoraggio forte. Lucio ha cominciato a morire insieme a lei”.
Ve ne parlava?
“Sì, raccontava che avrebbe voluto morire con Mara, ma che
lei gliel’aveva impedito. No, devi finire il libro, devi scrivere il saggio sul comunismo, ci tieni tanto. E io – diceva – le ho tenuto fede,
ho concluso il libro. E ora sono arrivato al termine”.
118
Il fratello Giaime era un grande germanista.
“Sì, Luigi amava molto Rilke. Ecco proprio su questo classico di recente ho litigato con Lucio. Recensendo il libro di Luciana
Castellina, scrissi che senza Rilke il Manifesto non ci sarebbe stato.
Lucio la prese malissimo, “ma che cazzo c’entra Rilke con la lotta di
classe?”...”.
Vi vedevate spesso?
“Sì, abitiamo vicini, lui in piazza del Grillo e io in via del
Boschetto. Ci capitava di giocare a scopone. Se non vinceva, si seccava”.
Manie di protagonismo?
“Era un po’ egocentrico, narciso sì, d’una vanità singolare.
Era convinto di essere bello”.
Lo era.
“Sì, ma anche di essere agile. Quando salivamo le scale, faceva quattro scalini per volta. Anche negli ultimi tempi”.
119
E i suoi amori un po’ spettacolari, il legame con Marta
Marzotto?
“Cazzate di Lucio”.
ARTE DEL GOVERNO
Era un perfezionista?
“In tutte le cose che faceva, era costituzionalmente spinto ad
eccellere. Anche quando scriveva un articolo. Io riesco a farli così
così, lui no, poteva starci giorni. Era molto meticoloso”.
Lo è stato anche in morte: tutto deciso nel dettaglio.
“Sì, le pompe funebri già allertate, la lettera ai compagni”.
Una morte estetica?
“No, una morte pulita. Voglio morire senza sfasciarmi sul
selciato o in qualche altro modo atroce. Avrebbe voluto che passasse sotto silenzio. Cosa impossibile”.
Un gesto che secondo lei ha un valore politico?
“Solo nel senso di dire “no”. Un “no” alla politica italiana
dell’ultimo ventennio, sinistra inclusa. “La sinistra italiana che conosciamo è morta”, scrisse Luigi poco prima di morire. Così la pensava anche Lucio”.
Ma lui voleva dare al suo suicidio un carattere di denuncia?
“No, è stato un gesto personale. Però non gli saranno sfuggite le conseguenze pubbliche. Voglio anche aggiungere che questo
suicidio fa crescere il peso della sua personalità, la sua capacità di
governare la vita fino in fondo”.
Lei difende il diritto al suicidio?
“Sì, se uno è padrone della vita è anche padrone della sua
fine. Nella Costituzione non c’è scritto che tutti i cittadini hanno il
dovere di campare finché morte naturale non li fulmini”.
Per uno che ha fatto politica per tutta la vita non è una fuga?
“No. È un giudizio definitivo sulla propria condizione, e sullo stato più generale delle cose, come se dicesse: per me, a 80 anni,
non c’è più niente da fare”.
Eretico in vita. Ed eretico in morte.
“La verità è che questo suicidio mi turba profondamente. Ho
come l’impressione di non aver fatto abbastanza. Non mi sono arrabbiato abbastanza. L’ho subìto, insomma, e non me lo perdono”.
Luigi Einaudi
La Repubblica, 30 novembre 2011
120
121
ARTE DEL GOVERNO
IL PROGRAMMA ECONOMICO
DEL PARTITO LIBERALE
Scritto durante la lunga “crisi di fine secolo”, questo articolo
pubblicato su La Stampa, il 12 ottobre 1899, rappresenta una
limpidissima professione di fede liberale di Einaudi, pronto a
esaltare quelli che definisce i sacri “principi di libertà”2
Luigi Einaudi
I
l programma di un partito francamente liberale dovrebbe consistere nell’elevare le sorti delle varie classi sociali, provvedendo
efficacemente, più che non i restringimenti della libertà o i moti
rivoluzionari, al benessere di quegli umili ai quali è rivolta tanta parte delle cure e dei pensieri dei governi moderni.
Il partito liberale per attuare un programma economico favorevole alla prosperità nazionale, e soprattutto al bene delle classi lavoratrici, non ha bisogno se non di volere, e volere fortemente, l’attuazione, graduale bensì, ma risoluta di quei principi di libertà e di
tutela, che ne informarono l’esistenza fin da quando il partito si
formò nel nostro paese.
Principi vecchi, ma dalla cui violazione da parte di molti partiti ed anche, è doveroso riconoscerlo, degli stessi liberali, derivarono
molti fra i malanni che ora affliggono l’Italia contemporanea.
Per accrescere il benessere delle classi lavoratrici non vi è
altro mezzo se non accrescere la quantità di ricchezza prodotta nel
nostro paese. Se la produzione annuale dell’Italia aumenterà, aumenteranno non solo i profitti e gli interessi dei direttori delle industrie e dei commerci, ma si accresceranno altresì, per la maggior richiesta, i salari dei lavoratori.
2) Per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo uno stralcio da “In lode del profitto e altri scritti”, di Luigi Einaudi, a cura di Alberto Giordano, IBLLibri, 2011 Riproduzione
riservata.
122
Ora la principale condizione affinché la ricchezza possa aumentare è la mancanza di ostacoli e di impedimenti posti dallo Stato
a questo sviluppo ed a questo incremento. In Italia lo Stato è uno dei
più efficaci strumenti per comprimere lo slancio dell’iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie e per divergere gli scarsi capitali dalle industrie che sarebbero naturalmente feconde, per avviarli alle industrie che diventano produttive grazie
soltanto ai premi, ai dazi protettori, alle estorsioni esercitate in guise svariate a danno dei contribuenti.
Il partito liberale dovrebbe prendere una posizione nettamente contraria a tutte queste ingerenze dello Stato nel campo riservato alla iniziativa individuale. Vi è una questione la quale può esercitare una decisiva influenza sull’avvenire del nostro paese: la rinnovazione dei trattati di commercio.
Noi abbiamo ripetutamente discusso la questione su queste
stesse colonne ed abbiamo concluso che l’interesse del nostro paese richiede imperiosamente il passaggio dalla politica protezionistica durata in Italia dal 1878, ad una politica doganale liberistica, la quale dia
modo alle industrie agrarie di svilupparsi liberamente, e tolga quella
protezione doganale che gli industriali stessi confessano oramai inutile
e il cui unico effetto è di taglieggiare le masse dei contribuenti, facendo pagare più cari di quanto altrimenti non sarebbero il pane, i vestiti,
i prodotti delle grandi industrie metallurgiche e tessili, ecc.
Lo slancio che l’adozione della politica doganale liberistica
imprimerebbe a pro delle industrie naturalmente produttive, crescerebbe la quantità di ricchezza annualmente prodotta; aumenterebbero i salari e questi avrebbero una maggiore potenza d’acquisto.
Il partito liberale dovrebbe adottare come piattaforma la
riforma doganale in senso liberista. In ciò esso non farebbe se non
rivendicare i principi che sono sempre stati suoi peculiari e che ora
altri partiti cercano di far passare come propri. In Italia una politica
doganale siffatta vanta l’adesione del
Nostro più grande uomo di Stato, Camillo Cavour, il quale
osò, e con felice risultato, inaugurare in condizioni ben più difficili
delle presenti un programma di libertà.
Poiché l’azione in questo senso deve essere pronta e rapida,
il partito liberale deve essere favorevole ad una diminuzione dei premi alla marina mercantile e della protezione doganale all’industria
degli zuccheri. In questi due problemi si annida uno dei più grandi
pericoli, non solo alla solidità dell’erario pubblico, ma anche alla
prosperità nazionale.
123
I premi non sono mai bastati a creare una grande marina mercantile, mentre sono un aggravio minaccioso e crescente per le nostre
finanze ed un’ingiusta sottrazione di milioni alle borse dei contribuenti, i quali hanno diritto di adoperare i propri quattrini per accrescere il
proprio benessere e non il benessere di pochi costruttori.
Lo stesso si dica della protezione all’industria degli zuccheri. La costruzione affrettata di numerose fabbriche di zucchero negli
ultimi anni è gravida di pericoli per il paese, attirando capitali verso
una industria la cui unica ragione di esistenza è il divario fra la tassa
sugli zuccheri prodotti all’interno ed il dazio sugli zuccheri esteri.
II partito liberale combattendo i sistemi coi quali si cerca di
dar vita ad industrie artificiose, tutelerà da una parte le ragioni del
pubblico erario e dall’altra farà sì che i capitali si rivolgano a quei
campi dove la loro applicazione è più feconda di utili. In tal modo il
partito liberale avrà spianata la via all’attuazione della seconda parte del suo programma: la riforma tributaria. Questa è anch’essa
un’opera di libertà ed è resa agevole da una politica economica che
accresca la ricchezza sociale, aumentando le fonti di reddito da cui
il finanziere può trarre le entrate occorrenti per lo Stato.
La riforma tributaria voluta dal partito liberale si ispira a due
concetti sommi: diminuire il fabbisogno, il che si ottiene falcidiando, come sopra si disse, nelle spese di premi e di aiuti alle industrie
private, e dando incremento alla prosperità nazionale, il che renderà
possibile una non lontana conversione del debito pubblico.
Il partito liberale potrà, pur diminuendo le spese, dotare più
convenientemente alcuni servizi pubblici, soprattutto civili, i quali
ora non possono compiere il loro ufficio, perché lo Stato si interessa
di ciò di cui non dovrebbe occuparsi, e fa male quelle cose che sono
la sua funzione specifica. Ridotte le spese, il partito liberale, giovandosi del momento presente in cui una nuova onda di prosperità sembra percorrere l’Italia e giovandosi delle sue stesse riforme rivolte
ll’aumento della ricchezza sociale, potrà senza timore intraprendere
un’opera simile a quella che è stata compiuta dal partito liberale inglese nella prima metà del XIX secolo: la riduzione delle aliquote
tributarie e la trasformazione graduale delle imposte.
II partito liberale inglese ha compiuto tutte le sue grandi
riforme in questo modo: 1) diminuire, in un momento naturalmente
favorevole per l’economia nazionale, i dazi e le aliquote delle imposte dirette cominciando da quelli più gravosi per l’economia nazionale; 2) giovarsi dell’impulso che le sue stesse riforme davano alla
prosperità economica del paese per risarcire le perdite del suo erario,
124
con un maggior provento dei dazi e delle aliquote ridotte, e per procedere innanzi in questa via di alleggerimento delle sorti dei contribuenti.
Questa medesima politica deve proporsi il partito liberale
italiano, ispirandosi al concetto fondamentale che ha costituito la ragione principale della sua formazione e della sua esistenza: ridurre
l’ingerenza dello Stato a quelle funzioni a cui la natura sua specifica
lo chiama, e lasciando libero il campo allo sviluppo della iniziativa
individuale nelle industrie e nei commerci.
Informato a questi principi di libertà, il partito liberale italiano potrà combattere e vincere. La sua vittoria sarà soprattutto la vittoria degli umili, ai quali sarà assicurata una mercede più abbondante e dotata di maggior potenza d’acquisto che non al presente.
Quando la gente minuta starà bene, cesseranno le lagnanze,
ed i partiti socialisti più non potranno far credere al popolo che la salute stia nel regolamentare ogni cosa, nel fare intervenire lo Stato in
ogni minimo atto della vita privata a tutela dei deboli. I deboli e gli
umili saranno diventati forti e grandi e sapranno fare da sé.
Del resto il partito liberale non si rifiuta (e lo conforta anche
in ciò l’esempio classico dell’Inghilterra) ad adottare quelle norme
di legislazione sociale le quali siano imperiosamente richieste da
motivi di igiene, di moralità e di tutela della razza contro la degenerazione fisica conseguente all’eccessivo lavoro di notte e di giorno,
alle fatiche durate in locali malsani, ecc.
Il partito liberale si vanta anzi di volere con una adatta legislazione sociale prevenire il sorgere di condizioni che in qualunque
modo impediscono all’individuo di svolgere liberamente tutte le sue
facoltà.
Combattendo per questo programma i liberali sanno di dover
lottare contro ostacoli numerosi, contro tutte le forze organizzate
alla difesa del privilegio e del vincolismo; ma sono disposti a superare ogni fatica, perché sono sicuri di combattere per la causa della
civiltà.
125
ARTE DEL GOVERNO
LUIGI EINAUDI DAGLI ANNI
DEL RACCOGLIMENTO ALL’ESILIO
SVIZZERO (1926-1944)
Nel 50° anniversario dalla morte del grande statista, una serie di
eventi ne ricorda le idee e l’operato straordinario. Pubblichiamo
uno scritto inedito del Professor Riccardo Faucci, tra i maggiori
studiosi di Einaudi in Italia
Riccardo Faucci*
1. In meno di un anno, fra il 1925 e il ’26, il regime obbliga Einaudi a cessare la collaborazione al “Corriere” e l’insegnamento alla Bocconi: due palcoscenici che avevano contribuito in
modo determinante alla sua immagine di scrittore e professore
ascoltato e autorevole. Gli era rimasto il seggio di senatore, ma
non partecipò più ai lavori del Senato, se si eccettua il voto del
maggio 1928 contro la riforma elettorale che introduceva la lista
unica di candidati approvata dal Gran Consiglio del fascismo; e il
voto del maggio 1935 contro l’ordine del giorno favorevole alla
campagna d’Etiopia. Ma proprio il forzato raccoglimento consentì all’economista, che attraversava gli anni della piena maturità, di concentrarsi sui filoni più autentici della sua riflessione.
Al termine di questo lungo periodo gli toccò un’altra prova: l’esilio in Svizzera, anch’esso fonte di ispirazione preziosa
per le sue idee sul federalismo e in generale per la sua filosofia
del Buongoverno.
Nel corso di questa meditazione la sua statura di scrittore
crebbe ancora. Il suo stile letterario doveva toccare un equilibrio
classico di austerità e di arguzia; il suo giudizio su uomini e cose
del presente e del passato doveva farsi più personale e incisivo.
Man mano che il fascismo stringeva i freni, Einaudi sentì gravare sulle proprie spalle l’onere di essere un punto di riferimento
per molte coscienze. Insomma, era ormai e non poteva non sen126
tirsi un “maestro di color che sanno”, accanto al riconosciuto
maestro nelle discipline letterarie e filosofiche, Benedetto Croce,
con cui non a caso si misurò in un duello intellettuale tutt’altro
che impari.
2. Sorvegliato dalla polizia (quando nella nuova casa di
via Lamarmora arrivavano ospiti, un poliziotto stazionava discretamente nei pressi), Luigi vedeva crescere e affermarsi i tre figli.
Tutti e tre decisi antifascisti. Mario, il primogenito, si laureò con
Gioele Solari con una tesi su Edmund Burke. Scartata l’idea di
mandarlo a Ginevra alla Società delle nazioni (fu sentito Piero
Sraffa in proposito), sviluppò i propri interessi di storia delle idee
politiche perfezionandosi con Harold Laski a Londra. Incaricato
dal 1931 a Messina, alla fine del 1932 si sposò con una delle figlie di Roberto Michels, Manon, e si trasferì negli Stati Uniti,
evitando di dover giurare fedeltà al regime, una volta che fosse
diventato professore ordinario. Roberto, il secondogenito, di due
anni più giovane di Mario, si laureò in ingegneria. Finì presto nei
rapporti della polizia al duce.
“La notte del 23 marzo 1929 – si legge in uno di questi
rapporti – venne sorpreso nell’atto di attaccare sui manifesti elettorali [del plebiscito di quell’anno] talloncini gommati, con le
scritte: “Per la memoria di G. Matteotti non votate” – “In memoria di Amendola non votate” – “In memoria di don Minzoni non
votate” – “Viva l’Italia libera non votate”.
L’Einaudi fu arrestato. Perquisito venne trovato in possesso di altri talloncini e di due fogli dal titolo: “Salvate le vostre
anime”, con frasi inneggianti alla ribellione contro il Regime tirannico e dittatoriale prossimo alla fine.
Si dovette alla clemenza di S. E. il Capo del Governo, se
l’Einaudi non fu denunziato al Tribunale Speciale. Fu rilasciato
in seguito a dichiarazione che era pentito di quanto aveva commesso e prendeva l’impegno d’onore che l’atto non si sarebbe più
ripetuto. Dichiarazione che egli rilasciò a denti stretti e soltanto
per accondiscendere alle vivissime pressioni del padre”.
Restò nel mirino del regime. Nel 1934 Mussolini in persona gli annullò la nomina a sindaco della società di elettricità Alta
Italia, nomina avvenuta su proposta del presidente dell’IRI
127
Alberto Beneduce. Così scrisse al ministro delle finanze Guido
Jung, autore del provvedimento: “La nomina dell’ing. Roberto
Einaudi… deve essere revocata. Quel signore deve essere invitato a dimettersi. Coi precedenti [suoi], non si possono tenere posti
in Società parastatali. Probabilmente l’on. Beneduce non li conosceva, nella loro realtà e gravità”.
Finalmente, Giulio, anche lui studente al liceo “d’Azeglio”
con professori come Umberto Cosmo e Augusto Monti, e a contatto con compagni che si chiamavano Norberto Bobbio e
Massimo Mila, di pochi anni più anziani, interruppe gli studi di
medicina per diventare editore. Per la neonata casa editrice assunse il simbolo di una rivista, “La cultura” di Cesare de Lollis,
da lui edita. Un enigmatico struzzo che teneva nel becco un lungo chiodo, ma stando a testa ben alta. Voleva dire (per chi sapesse intendere) che in tempi come quelli che correvano bisognava
avere uno stomaco di struzzo, ma non nascondere la testa sotto la
sabbia.
Il 15 maggio 1935 Giulio fu arrestato nel quadro della repressione del gruppo torinese di “Giustizia e libertà”, di cui facevano parte Vittorio Foa, Carlo Levi, Leone Ginzburg, Mila e altri
ancora. Il 24 giugno Luigi ebbe un incontro con il vice-questore
Mambrini, delegato all’interrogatorio di Giulio. Di questo colloquio tenne una specie di verbale ad uso privato, in forma di botta
e risposta, in cui rifulge non solo la sua arguzia, ma anche la sua
maturità di giudizio politico. L’apparato repressivo del regime si
presenta ai suoi occhi come “un’organizzazione meravigliosa”,
che accoppia la meticolosità del burocrate nel raccogliere prove a
carico dei sospettati, allo scrupolo del filologo che ordina e collaziona “codici, tipi e archetipi”. Sembra di leggere Foucault.
Einaudi ha parole di condanna per i cosiddetti fuorusciti, che paragona impietosamente agli emigrati di Coblenza durante la
Rivoluzione francese; ed è orientato ad assegnarsi il compito di
un lungo, paziente lavoro intellettuale.
L’azione di Luigi a pro di Giulio andò a buon fine, perché
il figlio poté continuare l’attività editoriale, seppure al prezzo
della cessazione della ricordata rivista “La cultura” e soprattutto
della “Riforma sociale”, la creatura prediletta di suo padre. O meglio: Luigi fu messo di fronte all’alternativa, davvero perfidamente congegnata, fra chiudere la “Riforma” e pubblicarla con
altro editore. Scelse ovviamente la chiusura.
128
Dalle ceneri della “Riforma sociale” nacque la “Rivista di
storia economica” (1936-1943), in cui insieme a storici economici come Gino Luzzatto e Armando Sapori, si ritrovano antichi
colleghi e collaboratori ed esordiscono giovani discepoli: Attilio
Cabiati, Riccardo Bachi, Mario de Bernardi, Aldo Mautino e
Mario Lamberti. I temi sono soprattutto di storia e metodologia
dell’economia e della finanza. La rivista fu tollerata dal regime,
che soltanto durante la guerra impose una drastica riduzione del
numero delle pagine.
Einaudi sapeva bene come il regime colpisse duramente
la gente qualunque. Nel 1937 appuntava nel diario:
“Parla una maestra [di Chianale in val Varaita]: un suo
cugino Andreis, laureato in legge si è rovinato per ragioni politiche. Non può far niente. Nessuno lo impiega. Un’insegnante
[di] Savigliano conversa con lui. Fu licenziata. Non trova più
posto.
Parla un prete: certi ubriaconi cantavano in un villaggio
pianura canzone Sacco e Vanzetti. Il direttore filanda denuncia.
Giudicati e condannati”.
3. All’università di Torino il regime cercò presto di adottare misure di discriminazione contro i professori in fama di antifascisti, come quella del 1928 che sospendeva Einaudi, Ruffini e
Loria dalle commissioni di esame. Ma gli studenti, compresi
quelli fascisti come il figlio del quadrumviro De Vecchi, si ribellarono all’idea di sostenere gli esami con professori che non li conoscevano, e la cosa non ebbe seguito. Ben più grave fu l’obbligo del giuramento “di formare cittadini operosi, probi e devoti
alla Patria e al regime fascista” imposto nel 1931 ai professori ordinari delle università italiane. Nella facoltà di giurisprudenza torinese Einaudi e Loria giurarono, non così Ruffini che, pur senatore del Regno, perse la cattedra.
Il giuramento gli costò non poco rovello. Alla vigilia si
recò a Napoli da Benedetto Croce, che gli consigliò di piegarsi, di
fronte al rischio che l’università fosse tutta occupata da docenti
fascisti. È quanto Einaudi stesso consigliò di fare ai suoi allievi
diretti e indiretti. Il giovane Antonio Pesenti lo ricorda nelle sue
memorie. Pesenti, già attivo nell’antifascismo, nel 1935 fu arrestato e condannato a 24 anni di carcere. Dopo la guerra Einaudi
129
scrisse a Pesenti, allora ministro delle finanze del governo
Bonomi, dandogli atto della sua inflessibilità.
Con un’altra vittima del Tribunale Speciale fascista
Einaudi ebbe un lungo rapporto, che durò oltre il ventennio e proseguì per tutta la vita. Ernesto Rossi aveva cominciato a collaborare alla “Riforma sociale” con minuziose indagini sul bilancio
dello Stato. Nel 1931 fu condannato a 20 anni. Einaudi tenne una
lunga corrispondenza con lui, dapprima tramite la moglie Ada, e
poi – quando, nel 1939, Rossi in seguito a un’amnistia uscì di
carcere per essere assegnato al confino di Ventotene – scrivendo
a lui stesso. Gli fece avere liste di libri da leggere, gli dette suggerimenti per eventuali traduzioni e, negli anni di guerra, accolse
signorilmente i rimbrotti di Rossi circa il suo preteso passatismo
“alla Monaldo Leopardi” – rimbrotti che il confinato, che non
aveva inibizioni, non esitava a rivolgergli.
4. Einaudi entrò in contatto con molti giovani economisti nella sua veste di consulente italiano per la Rockefeller
Foundation, che assegnava borse di studio per ricercatori europei desiderosi di studiare nelle università americane. Lui stesso
aveva visitato gli Stati Uniti nel 1926, ed era stato impressionato dalla vitalità di quel paese, in confronto con gli standard europei e italiani. Il fatto che gli studenti stessi servissero a tavola alla mensa universitaria gli sembrava emblematico di una società dinamica, in cui tutti fanno gavetta senza aspettarsi aiuti
da nessuno e con fondate probabilità di migliorare la propria
condizione. Questo spirito di iniziativa gli doveva apparire
soffocato dall’esperienza del New Deal, che considerò nient’altro che una forma di statalismo autoritario. Selezionò per le borse Rockefeller diversi economisti destinati ad affermarsi, fra i
quali Giovanni Demaria, futuro direttore del “Giornale degli
economisti” e rettore della Bocconi; Renzo Fubini, un valido allievo di Einaudi che perì ad Auschwitz; Attilio da Empoli, che a
Chicago scrisse un libro sull’equilibrio economico che lo fece
conoscere all’estero, e Alberto Breglia, che nel 1949 collaborò
al “Piano del Lavoro” della CGIL.
Non andò in America, ma in Inghilterra, Piero Sraffa,
che con Einaudi si era laureato nel 1920. Aveva scritto
sull’Economic Journal di Keynes sulla crisi delle banche italiane nel dopoguerra e poi sul Manchester Guardian con critiche
130
alla politica monetaria del governo fascista, che fecero incollerire Mussolini. Trasferitosi a Cambridge dal 1927 (era stato
Keynes a chiamarlo), mantenne con Einaudi una fitta corrispondenza su libri di antiquariato che andava cercando per sé e per
lui. In due circostanze si mostrò tale conoscitore di testi economici antichi da permettersi di correggere nientemeno che il
maestro: nel 1930, a proposito della priorità fra Ricardo, James
Mill e James
Pennington nella formulazione della teoria dei vantaggi
comparati; e nel dopoguerra, a proposito della prima edizione
della Physiocratie. La sua edizione dei Works and Correspondence
di David Ricardo fu esaltata da Einaudi in una recensione che ne
metteva in rilievo l’impeccabile filologia.
Un altro contatto con l’Inghilterra era costituito dalla prosecuzione della collaborazione all’Economist. Fra il 1925 e il
1940 Einaudi vi pubblicò centosettanta articoli. I commenti alla
politica economica italiana, pur sobri e stringati, lasciano trasparire il giudizio personale, che è dapprima abbastanza favorevole,
con riferimento alla politica monetaria e fiscale, poi sempre più
critico, a proposito della Carta del lavoro del 1927, della fondazione dell’Istituto Mobiliare Italiano (novembre 1931), e finalmente dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (gennaio
1933). Da rilevare l’equazione corporativismo = New Deal, che
suona implicitamente condanna del corporativismo, data la ricordata repulsione einaudiana per la politica economica di
Roosevelt.
5. Consolidò la sua fama di specialista di finanza pubblica anche dal punto di vista della teoria. Fin dall’anteguerra il suo
nome era legato alla questione della “doppia tassazione del risparmio”. Negli anni fra le due guerre Einaudi si muove in due
direzioni. Da una parte, allarga il proprio discorso alla spesa pubblica, indispensabile a fornire una valutazione complessiva del sistema. Dall’altra, identifica il tributo ideale con l’imposta fondiaria applicata mediante catasto. La tradizione italiana, che dagli
economisti milanesi del Settecento, passando per Carlo Cattaneo,
arriva agli autori del catasto del regno d’Italia, considera oggetto
della tassazione il reddito “normale” secondo le capacità dei diversi terreni. Ne consegue la necessità di effettuare le revisioni
catastali solo dopo lunghi intervalli di tempo, per dar modo ai mi131
gliori agricoltori di operare efficacemente, realizzando guadagni
sulla differenza fra reddito effettivo non tassato con la fondiaria e
reddito normale tassato. Si arriva indirettamente all’esenzione del
risparmio, dato che il reddito normale si intende al netto del risparmio stesso.
Oltre al risparmio, secondo Einaudi, nella tassazione del
reddito fondiario ciò che viene esentato perché non calcolabile è
il piacere di sentirsi proprietari. Einaudi canta questa gioia, consistente in una specie di rendita spirituale, con inconsueto lirismo:
“Il piacere psicologico, che sta nell’immaginazione del
miglioramento futuro del fondo, nell’assaporamento dell’invidia
provata dal vicino o dall’amico…; il piacere famigliare di sapere
i figli forniti di un mezzo di esistenza, di uno strumento di lavoro
indipendente dalla buona grazia altrui…; il piacere politico, che è
di acquistare clientela nel paese per conseguire cariche pubbliche”.
Einaudi scriveva nel 1924. Può sembrare una visione anacronistica, specie se si pensa che il “piacere politico di conseguire
cariche pubbliche” ormai si conseguiva per altre vie. Ma Einaudi fu
sempre fedele a questa immagine di proprietario-imprenditore agricolo, in cui domina l’ideale dell’indipendenza economica – ideale
che si doveva ad ogni costo difendere dagli attacchi di chi in quegli
anni parlava di end of laissez-faire e di sempre nuovi agenda dello
Stato.
Cinque anni dopo, Einaudi affronta il tema più arduo dal
punto di vista teorico: il rapporto fra tassazione ed equilibrio economico. L’economista ritiene di poter dimostrare che l’”ottima
imposta” è quella che mantiene invariate le decisioni di risparmio
(che per Einaudi, da economista prekeynesiano, coincide con
l’investimento). Tali decisioni sono governate dal saggio d’interesse, che in presenza di un maggior risparmio favorito dalla tassazione “ottima” non potrà non diminuire.
Il gusto per la ricerca erudita, ma mai fine a se stessa,
spinge Einaudi a ricercare precedenti storici alla sua “ottima imposta”. Lo soccorre la sua magnifica biblioteca di classici dell’economia e della finanza. Studiando il pensiero fisiocratico, scopre che anche Dupont de Nemours e Mercier de la Rivière avevano il concetto di ottima imposta, come quella che non si trasferi132
sce mai e quindi non turba l’equilibrio economico. Ancora: autori molto lontani fra loro, come il filosofo Hobbes, l’”aritmetico
politico” Petty e l’economista modenese Bosellini convergono
nel ritenere che solo la tassazione sul consumo non sposta l’equilibrio e non scoraggia, o distorce, l’impiego dei fattori produttivi.
Invece, Einaudi mostra diffidenza per i “sommi principi
utilitaristici” dell’imposta, in particolare i “principi del sacrificio” (conosciuti anche ai tempi di Stuart Mill), che, basandosi
sulla confrontabilità interpersonale delle utilità, gli sembravano
legittimare pericolosamente sistemi fiscali fortemente progressivi
o addirittura espropriatori.
6. Nel 1938 Einaudi produce il suo contributo conclusivo
alla teoria della tassazione, i Miti e paradossi della giustizia tributaria, che definisce con orgoglio “i prolegomeni all’ideale trattato che vorrei aver scritto”. E ciò, nonostante avesse già pubblicato i ponderosi Principii di scienza della finanza, che avrebbero
conosciuto otto edizioni e ristampe fra il 1932 e il 1963.
Al centro della polemica einaudiana è il “mito del sovrappiù” che anima i dottrinari affetti da “satiriasi tributaria”, cioè
sempre vogliosi di nuovi cespiti da colpire. La storia del sistema
tributario italiano, che il sessantaquattrenne Einaudi è in grado di
raccontare per averla personalmente vissuta e commentata in articoli e libri, è piena di esempi di imposte volute dai dottrinari
nell’ambizione di realizzare una giustizia assoluta.
Einaudi commenta: “Il comando: pereat mundus, sed fiat
iustitia, non giova qui dove si tratta di far giustizia allo scopo di
serbare in vita, coll’imposta, la città terrena”. Al cittadino qualunque basta la “città terrena”, con le sue quotidiane imperfezioni,
ma con almeno la certezza di non essere sottoposti al furor dei
“giustizieri tributari”.
Come uscirne? Il rimedio proposto da Einaudi è radicale:
introdurre elementi di volontarietà nel sistema. Bisogna rifarsi
alla prassi dell’Atene di Pericle, in cui i cittadini più ricchi erano
chiamati a un contributo (liturgia) per la copertura delle spese per
l’allestimento di spettacoli teatrali e affini. Il riconoscimento della qualifica di cittadino onorevole era considerato incentivo sufficiente.
Al di là della proposta, che sa di bizzarra provocazione, vi
è nel libro l’intuizione assai calzante che il concetto di reddito
133
imponibile è esso stesso un “mito”, una fictio cui certo è impossibile rinunciare, ma che copre una realtà talmente variegata e
differenziata che – ecco il paradosso accanto al mito – soltanto il
riferimento a una entità astratta come il reddito ordinario o normale può evitare il summum jus, summa iniuria. La progressiva
divaricazione, in questi ultimi decenni, fra il reddito “imponibile”
e il reddito reale ed effettivo – con tutta la messe di fringe benefits consistenti in integrazioni delle remunerazioni sotto forma di
servizi e benefici non monetari, sottratti da, o non passibili di, accertamento – rende lo spirito della requisitoria di Einaudi tutt’altro che anacronistico, ma al contrario del tutto in linea con i problemi di oggi.
7. Era rimasto in ombra il concetto di Stato. La maggioranza degli scienziati delle finanze in Italia aderirono alla teoria
delle élites elaborata da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Chi
comanda (ecco il machiavellismo) inganna i contribuenti disinformati e acquiescenti. Questi ultimi sono vittime dell’”illusione finanziaria” circa la corrispondenza fra la disutilità del prelievo fiscale e l’utilità della spesa pubblica. Applicare alla scienza delle finanze i principi dell’economia pura era un’ingenuità.
Altri invece la pensavano diversamente. Antonio de Viti
de Marco riteneva che la teoria di Mosca-Pareto valesse per lo
Stato “monopolistico” e autoritario, in cui massima è la distanza
fra produttori e consumatori di servizi pubblici; ma non per lo
Stato “cooperativo”, in cui “tutti i cittadini che pagano imposte
sono anche i cittadini che consumano i servizi pubblici”. Come
nelle cooperative private i produttori sono soci allo stesso modo
dei consumatori, nello Stato cooperativo vi è identità fra governanti-produttori di servizi pubblici, e governati-consumatori. Lo
Stato cooperativo non è altro che lo Stato liberal-democratico.
Einaudi si sentiva legato all’insegnamento e alla figura
di de Viti, che nel 1931 aveva preferito dimettersi dalla cattedra
per non dover giurare. Negli anni successivi si adoperò perché
il nome dell’economista pugliese non cadesse nell’oblio, facendo ristampare a Giulio il manuale di de Viti, che implicava il ripudio dello Stato autoritario e l’apologia dello Stato liberale.
Per questo Einaudi nel 1942 scese in campo contro l’antico allievo Mauro Fasiani, il quale aveva definito lo Stato “moderno”
(corporativo) come quell’organizzazione in cui si manifesta
134
completa identità fra governanti e governati, non come singoli
ma come collettività. Il sapore hegelo-gentiliano della teoria di
Fasiani fa indignare il maestro. Lo Stato secondo Fasiani è “un
mostro. L’ipotesi suppone l’assurdo: che possa darsi uno stato il
quale operi nel proprio interesse di collettività senza preoccuparsi degli interessi degli uomini vivi che lo compongono…
Non esiste infatti l’unità stato concepita come distinta dai cittadini dello stato medesimo… Cacciato dalla porta, il concetto
dello stato monopolistico rientra dalla finestra della entità superiore, diversa e trascendente, detta stato concepito come unità”.
La distinzione autentica, secondo Einaudi, non è quella fra un
tipo di stato e un altro, ma fra “Stato e non-Stato”, fra pacifica
convivenza intesa come condivisione di obiettivi, ed egoismo di
classi e gruppi al potere, fra “bene e male”. De Viti non avrebbe detto meglio.
Da tempo Einaudi aveva preso le distanze dalla teoria machiavellica delle élites che si avvicendano al potere senza nessun
fine che non sia appunto il potere stesso. No, queste non sono le
uniche élites di cui ci narra la storia. Accanto e contro di esse, talvolta emergono altre élites che non aspirano ad altro che a realizzare il bene pubblico (che è anche il loro, beninteso). Gli esempi
non mancano. Nel 1938 aveva esaltato il ruolo de I pazzi e i savi
nella creazione della terra italiana; gli uomini che nei secoli hanno trasformato la pianura padana in una formidabile macchina
economica. Essi non sono stati mossi (soltanto) dal calcolo del
tornaconto immediato, ma da una più ampia e in certo senso più
morale visione di progresso nel lungo periodo.
Inoltre, aggiunge Einaudi, l’esperienza storica recente e
meno recente mostra tendenze alla riduzione della sfera di sovranità statuale per l’emergere di corpi intermedi e di organismi sovranazionali. Ne consegue che il vero Stato moderno non è né
corporativo né centralistico.
Ci voleva una grande sensibilità politica a parlare in questo modo nell’Europa in fiamme per la guerra e in bilico fra dittatura e democrazia. Si può dire che Einaudi fosse già pronto spiritualmente per il “suo” dopoguerra.
8. La “Riforma sociale” negli ultimi sette-otto anni di vita
è sempre più la voce del suo direttore. Scomparso nel 1928
Giuseppe Prato, suo alter ego ma più di lui antisocialista e bene135
volo verso il fascismo, Einaudi prende per mano la rivista e ne fa
la palestra delle sue idee.
Uno dei temi è quello della politica di rivalutazione della
lira rispetto alla sterlina a quota Novanta, realizzata da Mussolini
nel 1926-27. Einaudi è favorevole alla rivalutazione, nonostante i
dubbi degli industriali esportatori, che temevano i contraccolpi di
una lira troppo forte. Per lui una politica contraria di svalutazione
avrebbe indebolito il nostro credito all’estero e a lungo andare
non avrebbe consentito neppure il sostegno delle esportazioni.
Approva le misure di liberalizzazione del mercato dei cambi, ma
confida che la Banca d’Italia, retta con polso fermo da Bonaldo
Stringher, sia in grado di gestire il difficile mercato delle valute
impedendo il sorgere di tensioni.
Mentre ritiene che la incipiente crisi economica internazionale debba essere fronteggiata con misure interne, sulla natura
di essa Einaudi dà una spiegazione generica e una specifica.
Quella generica riguarda il fatto che, da che mondo è mondo, crisi economiche ci sono sempre state. Esse sono per molti versi dovute a “errori d’uomini”, ai loro calcoli e comportamenti spesso
guidati da moventi non economici (e, per Einaudi, neppure morali). Il motivo specifico della “crisi presente” è dovuto a uno
“squilibrio fra la distribuzione della produzione e quella del reddito”. La composizione dell’offerta in beni di consumo e strumentali può essere diversa dalla distribuzione del reddito fra risparmio e investimento. Ecco che può manifestarsi un eccesso di
offerta di beni di consumo da una parte, e un eccesso di risparmio
che non trova sbocco dall’altra. Diagnosi che risente di motivi sismondiani sulle sproporzioni fra produzione e consumo, e di motivi malthusiani sulla differenza fra potere di acquisto e volontà di
acquisto. La ricetta di Einaudi ha però un sapore soprattutto
malthusiano: rilanciare una domanda di beni “di lusso”, non standardizzati, non di massa, perché il mercato per questi ultimi è ormai saturo.
Naturalmente, non c’era nulla di buono da attendersi da
un intervento dello Stato a sostegno della domanda dei ceti più
poveri, salvo l’inflazione e lo spiazzamento della domanda privata da parte di quella pubblica. Anche Malthus diffidava dei lavori pubblici come panacea. Non era dunque lui il maestro di
Keynes, nonostante l’abile lettura che questi ne aveva fatto negli
Essays in Biography.
136
9. Quando Einaudi visitò Cambridge, nel 1929, non riuscì
a incontrare di persona Keynes, assente. Ma il dialogo a distanza
con l’economista inglese fu ugualmente molto fitto in quegli
anni. Come molti intellettuali italiani, Einaudi aveva apprezzato
le Economic Consequences of the Peace, molto critico verso le
condizioni che i vincitori avevano imposto alla Germania, e in
generale verso lo spirito grettamente revanscista della Francia di
Clemenceau. Presto, però, compaiono i motivi di dissenso, sia
ideologici che strettamente economici. Dal primo punto di vista,
a Einaudi non va giù la mescolanza di liberalismo politico e di
statalismo economico di Keynes, quale risulta dal pamphlet The
End of Laissez-Faire del 1926. A maggior ragione, trova sconcertante la visione “congiunturale” e quasi casuale delle origini del
capitalismo offerta (un po’ paradossalmente, è vero) da Keynes.
Il capitalismo moderno sarebbe nato da una fortunata combinazione di circostanze, quali la scoperta delle miniere nel Nuovo
Mondo, con la conseguente formazione di “profitti da inflazione”, i bottini dei corsari inglesi, e così via. La spiegazione di
Einaudi è di tipo strettamente classico: l’accumulazione di capitale è stato un fenomeno di durata plurisecolare, basato sia su fattori sia strutturali, sia psicologici, come l’astinenza, la laboriosità,
lo spirito di sacrificio di milioni di operatori.
La “Riforma sociale” pubblicizzò fra i propri lettori il
pamphlet di Keynes The Means to Prosperity del 1933, che utilizzava il concetto di moltiplicatore elaborato da Richard Kahn due
anni prima, e indicava la politica del bilancio in disavanzo come
cardine di una politica di ripresa economica. Lo pubblicizzò, ma
per criticarlo, non per approvarlo. In un saggio orgogliosamente
intitolato Il mio piano non è quello di Keynes, Einaudi si domanda da dove mai Keynes pensasse di ricavare le risorse per occupare i lavoratori e i fattori produttivi attualmente inerti.
Evidentemente, dalle tasche dei risparmiatori, perché “senza lepre non si fanno i pasticci di lepre”. L’indebitamento non è mai
una buona politica. Ancor meno persuaso è Einaudi che la reflazione, cioè l’aumento del livello dei prezzi per riportare i rapporti fra debitori e creditori a prima della crisi, sia un rimedio efficace. L’aumento del livello generale dei prezzi non è un toccasana
per i profitti. Piuttosto, bisogna lasciare che le forze di mercato
operino liberamente, ripristinando il giusto rapporto fra i prezzi
dei vari beni – i prezzi relativi -, senza preoccuparsi che qualcu137
no ci perda. Le crisi economiche sono, infatti, benefiche nello
sgombrare i mercati da imprenditori incapaci. L’intervento statale a difesa indiscriminata di tutti provoca ancora più guai.
Ripristinare i corretti rapporti fra prezzi e costi di produzione è quello che una politica pubblica di salvataggi non sa
fare. Le politiche di intervento allontanano, non affrettano l’uscita dalla crisi.
Infine, la recensione alla General Theory, che Keynes si
era affrettato a inviargli fresca di stampa, nel 1936. Essa tocca
quasi esclusivamente le categorie keynesiane della preferenza per
la liquidità e della moneta come “fondo di valori”; categorie che
Einaudi accetta, ma soltanto come sintomo di un disagio che colpisce gli operatori in periodi di crisi e di sfiducia nel futuro, come
quello verificatosi durante il Terrore. Non si può fare di esse,
dunque, il fondamento dell’analisi monetaria. Come dimostravano i lavori di Charles Rist e soprattutto di Arthur Marget, il nesso
moneta-prezzi definito dalla teoria quantitativa della moneta,
aveva, esso sì, valenza generale.
10. In quel medesimo 1933 in cui più aspra era stata la sua
polemica con Keynes, Einaudi dà alle stampe uno dei suoi capolavori, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra
italiana, per la collana di storia della guerra mondiale della
Fondazione Carnegie pubblicata dalla Yale University Press e,
per i contributi italiani, dalla Laterza. Essa costituisce una rimeditazione delle cause della crisi postbellica che ha condotto alla
fine dell’Italia liberale e all’avvento della dittatura. Il veleno è
stato il collettivismo: non (solo) quello degli operai, ma (soprattutto) quello degli industriali, abituati a ottenere tutto dallo Stato.
“Alle aspirazioni millenarie chiaramente manifestate dagli operai
verso l’ideale di un nuovo ordine comunistico… rispondeva l’ideale delle classi dirigenti industriali di un’economia regolata
dall’alto”. Come meravigliarsi dell’affermazione del corporativismo fascista, che combinava insieme queste due aspirazioni, entrambe dannose?
Di fronte al corporativismo, Einaudi assunse il severo ruolo
di difensore dell’economia ortodossa di fronte ai corifei della “fine
dell’homo oeconomicus” e della “nuova scienza”. Ugo Spirito, un
filosofo gentiliano con la passione dell’economia politica, e
Rodolfo Benini, un insigne statistico conquistato dal fascismo, ave138
vano accusato l’economia di essere una “mezza scienza” perché
non si era interessata abbastanza dello Stato, appiattendosi sul manchesterismo dei fanatici del laissez-faire. Einaudi insorge. Non soltanto i grandi economisti, a cominciare da Smith, non hanno affatto
trascurato lo Stato e gli hanno affidato importanti funzioni economiche, ma la pretesa astrattezza e astoricità sono il prodotto di una riflessione autenticamente scientifica tesa alla conquista delle “verità” sotto forma di teoremi.
Di conseguenza, una storia delle dottrine economiche può
essere scritta soltanto a partire dalle “verità”, e deve scartare senza pietà gli “errori”, che spesso dipendono da incursioni della filosofia, della politica, dell’ideologia. Polemizzò in questo senso
con Roberto Michels, che, nutrito di storicismo tedesco e di sociologia, aveva scritto un’opera scientificamente “impura”,
Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche.
11. In realtà, al di là della difesa delle teorie economiche
dagli assalti di chi pur criticandole non le padroneggiava a sufficienza, Einaudi non condivideva nell’intimo una concezione
asettica della scienza economica. Era un umanista, e riteneva che
la morale, intesa come disciplina che studia i fini e i valori, influisse sulla scelta dei mezzi.
Scienza dei mezzi o dottrina (anche) dei fini? Per due diverse strade Einaudi arriva a questa seconda definizione della
scienza economica, che implicitamente si contrappone a quella
data nel 1932 da un economista inglese da lui assai stimato,
Lionel Robbins.
La prima strada è quella della rivisitazione di alcuni economisti del passato, condotta sulle pagine della sua nuova
“Rivista di storia economica”. Le riletture in chiave umanistica di
Le Play, Sismondi e altri lo fortifica nella convinzione che gli
economisti più interessanti sono stati anche dei moralisti, o meglio, che gli economisti-moralisti sono i più interessanti.
La seconda strada che egli batte è quella del dibattito con
Benedetto Croce su liberismo e liberalismo.
Nel 1927, all’inizio della lunga discussione, Einaudi sposa le posizioni che Vilfredo Pareto aveva sostenute nel suo dibattito con lo stesso Croce sui fondamenti della scienza economica,
all’inizio del secolo. Il “principio del valore”, afferma Einaudi
d’accordo con Pareto, non è affatto il cardine dell’economia
139
come scienza, come continua a credere Croce. Lo è invece il
prezzo. Nessun significato scientifico, invece, ha il preteso “principio del liberismo” che secondo Croce oscurerebbe le teorie degli economisti; Croce qui prende un abbaglio.
Nel corso della discussione, tuttavia, mentre Croce sembra concedere che il liberismo è una mera massima empirica,
Einaudi s’interroga sulla rilevanza anche “religiosa” del liberismo o liberalismo economico. Tutto intento a definire il carattere
speculativo-filosofico della sua “religione della Libertà”, Croce
tende a minimizzare i contenuti empirici e storici del liberalismo.
Invece Einaudi è giustamente preoccupato del funzionamento
delle istituzioni liberali, che sole possono assicurare l’effettiva libertà della gente comune, e non solo degli “anacoreti” (liberissimi secondo l’impostazione crociana, ma a costo di vivere fuori
del mondo). Ma le istituzioni liberali non possono funzionare
bene se non è assicurato un certo (notevole) grado di libertà economica. Questa è il sale della libertà politica.
Nel corso della sua riflessione, Einaudi vola alto per definire l’economia politica come dottrina dei fini e quindi della libertà protetta da sane istituzioni; ma Croce ascende ancora più
su, nell’empireo di una Libertà filosofica dove della libertà economica (e forse perfino di quella politica) non c’è gran bisogno.
Sul piano teorico i due non si incontrano mai.
Anzi, nonostante il rispetto reciproco, l’uno svaluta l’opera dell’altro. Per Croce, Einaudi, in quanto economista, doveva limitarsi a “calcolare, non filosofare”; in pratica, preparare programmi (elettorali?) per il Partito liberale. Per Einaudi, al contrario, un vero economista non si sarebbe mai adattato a questa parte. Nel 1950, in uno scritto per un volume in onore di Croce,
Einaudi doveva chiarire puntigliosamente il suo punto di vista:
anche gli economisti avevano “filosofato” a modo loro, ma con
costrutto non inferiore a quello del sommo pensatore (che peraltro, lasciava capire, non aveva avuto grande influenza su di loro).
Più che Croce, fu Wilhelm Roepke, un economista tedesco esule dal suo paese dopo l’avvento di Hitler, a influire sulla
concezione einaudiana di libertà. Il mix di umanesimo romantico
e di fede nel mercato che traspare da La crisi sociale del nostro
tempo colpì profondamente Einaudi, che meditando su Roepke
pervenne alla fondamentale distinzione fra “economia di concorrenza” e “capitalismo storico”: la prima è insieme il prodotto del
140
ragionamento economico e dell’aspirazione umana alla sempre
maggiore libertà; il secondo è il portato di esperienze diverse, l’esito di una vicenda tutt’altro che priva di ombre. In sostanza, gli
uomini di buona volontà debbono proporsi di introdurre sempre
maggiore concorrenza nel capitalismo storico. Morale, teoria e
storia erano felicemente ricongiunte in un’unica costruzione.
12. Il 17 luglio 1943, otto giorni prima dell’attesa caduta
del regime, Badoglio incontrò il re, e dell’esito riferì a Ivanoe
Bonomi. Si trattava di preparare il ritorno al regime statutario, e
per far ciò era opportuno richiamare alla vita politica alcune personalità non compromesse, fra cui Luigi Einaudi.
Il 28 luglio Einaudi scrisse una lunga lettera a Bonomi sul
tema che in quel momento gli stava più a cuore: quello del ritorno alla libertà di stampa, secondo i canoni sperimentati nell’Italia
liberale e che avevano avuto il loro migliore frutto nel “Corriere”
di Luigi Albertini. E si proponeva di riprendere la penna, dopo 18
anni di forzato silenzio. Ricominciò sul “Giornale d’Italia” e sul
“Corriere” con due articoli, uno sulla “tempesta monetaria” e
l’altro sulla ricostruzione del paese, per la quale “non occorrono
decenni”.
Il 4 settembre Einaudi assumeva la carica di rettore dell’università di Torino, ma già il 22, con l’occupazione tedesca,
era costretto a fuggire, anziano di sessantanove anni e zoppicante per la gamba lesa nell’incidente stradale occorsogli nel 1926. Il
suo diario della fuga attraverso le Alpi, secondo una narrazione
impassibile ma non per questo meno coinvolgente, è stato di recente oggetto di un documentario assai ben fatto.
Il rifugiato politico Einaudi non era una persona qualunque. Attraverso i colleghi di Losanna e Ginevra (dove insegnava
Roepke), e soprattutto attraverso gli altri italiani espatriati, ottiene di conoscere diversi uomini politici svizzeri (specie del
Canton Ticino) e a partecipare a iniziative giornalistiche locali.
Tiene anche delle lezioni a un campo per studenti italiani.
Fondamentale è la sua collaborazione al supplemento della
“Gazzetta ticinese” intitolato suggestivamente “L’Italia e il secondo Risorgimento”. Via il prefetto!, del 15 luglio 1944, è una
celebre requisitoria contro l’accentramento amministrativo di
matrice napoleonica, e insieme una lode del movimento partigiano, che ricostruisce lo Stato spontaneamente e dal basso.
141
Ritrova Ernesto Rossi, e su richiesta di lui e di Altiero
Spinelli scrive I problemi economici della federazione europea,
con una precisa ripartizione fra le materie da affidare all’autorità
federale (moneta, dazi, trattati di commercio) e quelle che devono rimanere ai singoli Stati. Scrive anche una voce economica
per un testo di educazione civica, Uomo e cittadino. Il testo, Il
mercato e i prezzi, sarà rifuso nelle Lezioni di politica sociale. Un
altro interlocutore, sempre sul tema delle autonomie, è Adriano
Olivetti.
Ma non si dimentica della politica. Viene contattato da
Maria José di Savoia per organizzare la propaganda a favore della monarchia, nella prospettiva di un referendum istituzionale a
guerra finita. Di questo incontro con la tenace principessa vi è arguta traccia nel suo diario.
Quando rientra a Roma, il 10 dicembre 1944, per assumere la carica di Governatore della Banca d’Italia, Einaudi ha come
sempre le idee chiare sul da farsi. Salvataggio della monarchia e
forte impegno a favore delle autonomie, difesa del mercato e delle libertà fondamentali, a cominciare dalla libertà di stampa e
d’insegnamento, sistema elettorale che favorisca i “terzi partiti”,
considerati come quelli più provvisti di idee e di ragionevolezza.
In Svizzera il laico Einaudi è diventato un credente, che segue la
Messa accanto alla credente donna Ida, con il messale aperto sotto gli occhi. Insomma, ha i requisiti per diventare un padre della
nuova Italia.
*Dice di sé.
Riccardo Faucci (Livorno 1945) è professore ordinario di storia del pensiero economico nella Facoltà di giurisprudenza dell’università di Pisa, dove
insegna anche economia politica. Oltre alla biografia di Luigi Einaudi (Utet
1986), alla quale ha lavorato per sette anni, ha pubblicato, sempre per la
Utet, una storia dell’economia politica in Italia dal Cinquecento ai nostri
giorni (2000). È condirettore della rivista internazionale “History of
Economic Ideas” e dirige con altri colleghi una collana specialistica per l’editore Giappichelli di Torino.
142
Bibliografia3
Le citazioni fra virgolette dei passi di Einaudi dal diario e da altri scritti sono
tratte da R. Faucci, Luigi Einaudi, Utet, Torino 1986. La “Rivista di storia economica” è disponibile in ed. anastatica, a c. di R. Romano, Einaudi, Torino
1977. La lettera di Einaudi a Pesenti è in appendice a A. Pesenti, La cattedra e
il bugliolo, La Pietra, Milano 1972. Per la corrispondenza fra L. Einaudi ed E.
Rossi cfr. Carteggio (1925-1961), a cura di G. Busino e S. Martinotti Dorigo,
Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1987.
Per le opere di Einaudi cfr. Fondazione Luigi Einaudi - Torino, Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi (dal 1893 al 1970), a c. di L. Firpo, Torino 1971. Sui
suoi libri rari cfr. Fondazione Luigi Einaudi - Torino, Catalogo della biblioteca
di Luigi Einaudi, a c. di D. Franceschi Spinazzola, 2 vol., Torino 1981;
Supplemento, Torino 1991.
Le opere finanziarie di Einaudi richiamate sono: La terra e l'imposta, a c. di R.
Romano, Einaudi, Torino 1974; Contributo alla ricerca dell'”ottima imposta”,
rist. in Id., Saggi sul risparmio e l'imposta, Einaudi, Torino 1958; Contributi fisiocratici alla teoria dell'ottima imposta, in L. Einaudi, Scritti economici, storici e civili, a c. di R. Romano, Mondadori, Milano 1973; La teoria dell'imposta
in Tommaso Hobbes, sir William Petty e Carlo Bosellini, ibidem; I sommi principii utilitaristici e l'imposta, “Riforma sociale”, luglio-agosto 1933; Miti e paradossi della giustizia tributaria, in Scritti economici, storici e civili, cit.; Del
concetto dello stato “fattore di produzione” e delle sue relazioni col teorema
dell'esclusione del risparmio dall'imposta, “Giornale degli economisti e annali
di economia”, luglio-agosto 1942; Ipotesi astratte e ipotesi storiche, e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, in Id., Scritti economici, storici e civili, cit.; I pazzi ed i savi nella creazione della terra italiana, “Rivista di storia
economica”, giugno 1938.
Di A. de Viti de Marco cfr. i Principi di economia finanziaria, Boringhieri,
Torino 1961.
Le considerazioni sulle difficoltà attuali di accertamento del reddito imponibile, che in parte giustificano la posizione scettica di Einaudi, sono tratte da S.
Steve, Miti e paradossi della giustizia tributaria, “Mondo economico”, 14 giugno 1980.
Sulla stabilizzazione della lira dopo Quota Novanta cfr. L. Einaudi, Dei metodi per arrivare alla stabilità monetaria e se si possa ancora parlare di crisi di stabilizzazione della lira, “Riforma sociale”, 1930, giugno.
Sulle crisi cfr. L. Einaudi, Riflessioni in disordine sulle crisi, “Riforma sociale”, gennaio-febbraio 1931; Della teoria dei lavori pubblici in Malthus e del
tipo delle sue profezie, “Rif. Soc.”, marzo-aprile 1934.
Su Keynes cfr. L. Einaudi, Come si giunse al Trattato di Versailles (Dal libro di
un economista), rist. In Id., Gli ideali di un economista, La Voce, Firenze 1921;
Il mio piano non è quello di Keynes, “Rif. Soc.”, marzo-aprile 1933; Della moneta 'serbatoio di valori' e di altri problemi monetari, “Rivista di storia economica”, giugno 1939. Il saggio di Keynes su Malthus è in J. M. Keynes, Politici
ed economisti, Einaudi, Torino 1974.
La collaborazione all'”Economist” è in L. Einaudi, “From our Italian correspondent”. Luigi Einaudi's articles in The Economist, ed. by R. Marchionatti,
vol. II, 1925-1946, Olschki, Firenze 2000.
Sul corporativismo e i problemi di metodo cfr. L: Einaudi, Se esista, storicamente, la pretesa ripugnanza degli economisti verso il concetto dello stato produttore, “Nuovi studi di diritto, economia e politica”, settembre-ottobre 1930;
Del modo di scrivere la storia del dogma economico, “Rif. Soc.”, marzo-aprile
1932; La Corporazione aperta, “Rif. Soc.”, marzo-aprile 1934.
143
Il dibattito Croce-Einaudi è raccolto in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a c. di P. Solari, n. ed. con pref. di G. Malagodi, Ricciardi, Milano-Napoli
1987. Cfr. anche L. Einaudi-B. Croce, Carteggio (1902-1953), a c. di L. Firpo,
Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1988. Cfr. anche L. Einaudi, La scienza economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946.
Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a c. di C.
Antoni e R. Mattioli, II ed., Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1966, vol. 2°.
Sull'esperienza svizzera cfr. L. Einaudi, Di taluni insegnamenti della Svizzera
nel momento presente, “Svizzera italiana. Rivista mensile di cultura”, dicembre
1943, nn. 24-25.
Sul federalismo: Problemi economici della federazione europea, “L'Italia e il
secondo Risorgimento”, agosto-settembre 1944, rist. in L. Einaudi, La guerra e
l'unità europea, Comunità, Milano 1948.
Della letteratura secondaria, ai fini dei punti qui trattati cfr. Commemorazione
di Luigi Einaudi nel centenario della nascita (1874-1974), Fondazione Luigi
Einaudi, Torino 1975; L'idea dell'unificazione europea dalla prima alla seconda
guerra mondiale. Relazioni tenute al convegno di studi svoltosi presso la
Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 25-26 ottobre 1974), a c. di S. Pistone,
Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1975; F. Forte, Luigi Einaudi, il mercato e il
Buongoverno, Einaudi, Torino 1982 (specie per i rapporti Einaudi-Keynes); C.
Cressati, L'Europa necessaria. Il federalismo liberale di Luigi Einaudi, con un
saggio introduttivo di R. Faucci, Giappichelli, Torino 1992; A. Giordano, Il
pensiero politico di Luigi Einaudi, presentazione di V. Zanone, Name, Genova
2006.
STEPHEN KING
Avevo l'abitudine di dire agli intervistatori che scrivevo
tutti i giorni eccetto Natale, il Quattro Luglio, e il giorno del mio
compleanno. La verità è che quando scrivo, scrivo tutti i giorni,
fanatico o no. Ciò significa anche il giorno di Natale, il Quattro
Luglio, e il giorno del mio compleanno.
(da “Mucchio d'ossa”, 1998)
144
145
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L’EREDITÀ DI LUIGI EINAUDI
Si sentiva giornalista, più che politico o professore universitario e
voleva spiegare all’uomo della strada anche le più complicate situazioni sociali o teorie economiche, in modo semplice e diretto4
Roberto Einaudi*
L
uigi Einaudi era mio nonno..., Sturzo fu designato da lui nel
1952, quando era Presidente della Repubblica italiana, come
senatore a vita. Mio padre, Mario, incontrò Sturzo in esilio a
Londra nel 1927 e successivamente sviluppò con lui un lungo e proficuo rapporto negli Stati Uniti, dal 1940 al 1946, quando ambedue
erano esuli in terra americana.
Mio padre era emigrato negli Stati Uniti nel 1933 per evitare di dovere prestare il giuramento al partito fascista, obbligatorio
per chi insegnava. Si potrebbe dire che anch’io ero, in qualche
modo, esule, perché quando nacqui a New York nel 1938, i miei genitori erano ancora italiani e non avevano allora acquisito la cittadinanza degli Stati Uniti. Questi rapporti intensi e fruttuosi tra mio padre e don Sturzo sono stati documentati dalla Fondazione Luigi
Einaudi di Torino nel volume Corrispondenza americana, 19401944, contenente più di duecentocinquanta lettere tra i due. Inoltre,
la pubblicazione dell’importante volume politico di Sturzo L’Italia e
l’ordine internazionale, fu curato interamente da Mario Einaudi a
New York e le copie stampate lì e spedite in Italia, ancora distrutta
dalla guerra, senza nemmeno la carta per stampare.
Queste notizie, sconosciute ai più, sono stare recuperate grazie agli archivi, essenziali per riacquisire la nostra storia, spesso dimenticata, testimoni del nostro passato: facilitano la lettura del nostro presente e del nostro futuro. Per questa ragione sono importanti
i fondi archivistici come quelli della biblioteca di Stato di San
Marino e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Alla sua morte,
nel 1961, a ottantasette anni, Einaudi aveva collezionato oltre
4) Dagli “Atti del convegno della serie Maestri di libertà - Luigi Einaudi: Maestro di libertà,
economista e presidente professore”, a cura di Renato Di Nubila, febbraio 2011.
146
50.000 volumi, 20.000 riviste e quotidiani e un numero imprecisato
di documenti. Per assicurare la crescita della biblioteca e dell’archivio, e farli diventare una risorsa attiva per una larga comunità di studiosi, come era nel volere di Luigi Einaudi, la famiglia decise di donarli ad una fondazione che fosse in grado di accoglierli e ordinarli.
Oggi la biblioteca della Fondazione Luigi Einaudi di Torino conta
oltre 220.000 volumi, più di 400.000 documenti, consultati da circa
diecimila studiosi l’anno. Sono finalizzati alla ricerca negli studi
economici, storici e sociali e rappresentano una delle più importanti
collezioni al mondo nel loro campo di specializzazione. La
Fondazione Luigi Einaudi di Roma, invece, fu costituita l’anno dopo
la morte di Einaudi, come supporto culturale al Partito liberale italiano, in cui Einaudi militava.
Negli anni si è trasformata in una fondazione che promuove
studi e iniziative culturali per contribuire alla conoscenza e alla diffusione del pensiero liberale, indipendente dai partiti politici. Anche
la Fondazione di Roma ha buoni archivio e biblioteca, limitati alla
cultura liberale della seconda metà del novecento.
Ieri ero a Trieste per presenziare all’apertura dell’esposizione Luigi Einaudi e l’Europa, un’edizione ridotta della grande mostra
L’eredità di Luigi Einaudi, riproposta dal Centro studi Luigi Einaudi
di Trieste e inaugurata dal ministro degli Esteri Frattini. Parlare ieri
dello stretto rapporto tra Einaudi e Trieste e della delicata questione
dei confini dopo l’ultima guerra mondiale, della sua visita, quale
presidente della Repubblica, alla città dopo la riunificazione con la
madre patria nel 1954, accolto da una folla immensa, era forse più
facile di parlare oggi dei rapporti tra Einaudi e San Marino, che conosco poco (...).
Vorrei parlare dell’eredità di Luigi Einaudi, vista dai giovani. Durante lo svolgimento della mostra a Torino, una anziana signora venne a visitare l’esposizione, osservando con attenzione i pannelli e la documentazione esposta. Tutto ad un tratto si trovò davanti ad una lettera che lei stessa aveva scritto da bambina a Luigi
Einaudi, suo compaesano, quando era stato eletto Presidente della
repubblica italiana. Potete immaginare la sua emozione nel vedere
quella lettera che lei non ricordava di aver scritto. Da quell’episodio
venne l’idea di bandire un concorso tra i giovani visitatori della mostra, con il tema: “Se tu oggi potessi scrivere una lettera a Luigi
Einaudi, cosa gli diresti?”. Il premio era un viaggio a Roma al palazzo Quirinale per gli studenti vincitori e i loro professori. In poco
tempo avevamo ricevuto centinaia di lettere, molte delle quali bellis147
sime. Vorrei leggervi stralci di alcune di quelle vincenti, che furono
premiate con una medaglia della Presidenza della repubblica.
Stefano Albezzano, da Alba, scrive: “Per noi ragazzi, oggi
non è sempre facile entrare in contatto con profondi ideali, che diano un senso alla nostra vita ed orientino nella giusta direzione l’andamento della società... I giovani hanno bisogno di grandi esempi, di
modelli alti, a cui ispirare le loro scelte e i loro comportamenti, e
proprio la Sua esperienza può rappresentare una guida importante
per tutti coloro che continuano a credere nella possibilità di realizzare una società migliore, più giusta e più libera”.
Jessica Carraro Celin, studentessa all’istituto Luigi Einaudi
di Padova, usa una carta che ha come sfondo una vignetta dell’epoca che mostra una persona che attraversa la strada su una corda tesa
in alto tra due edifici, con la dicitura: “E quello lassù cos’è? Il ministro del bilancio”. Scrive Jessica: “Mi piace pensare a te come nella
vignetta che ti rappresenta un uomo di equilibrio. Sei riuscito a trovare un equilibrio in una realtà sociale molto complicata, senza mai
cadere: hai teso la corda, aperto la strada, verso un futuro migliore.
La stessa corda su cui oggi siamo in bilico, in uno scenario internazionale complesso e con una realtà interna piena di problemi. Grazie
di tutto, una tua piccola collega giornalista”.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Luigi Einaudi si sentiva giornalista, più che politico o professore universitario. Voleva
spiegare all’uomo della strada anche le più complicate situazioni sociali o teorie economiche, in modo semplice e diretto.
La terza e ultima lettera che vorrei leggere, e ripeto questi
sono solo stralci di scritti molto più lunghi e articolati, è di Elena
Serbin, anche lei di Padova, ma proveniente da un piccolo paese dell’ex Unione Sovietica. Scrive: “C’è un’altra sua idea che mi ha convinto e mi è piaciuta molto, quella della limitazione della sovranità
degli stati per raggiungere la pace. Mi sembra un’idea straordinaria.
Su questa sua idea si fonda l’Europa, a cui anche io mi sento di appartenere per i valori che esprime e in cui mi riconosco anche se,
come si dice, sono un’extracomunitaria”.
Sono rimasto molto colpito dalle tante lettere ricevute dai
giovani. Hanno dimostrato che questa nostra scuola, tanto criticata e
disastrata, riesce, malgrado tutto, a produrre risultati eccellenti, di
cui sarebbe stato fiero Luigi Einaudi.
In occasione dell’assegnazione del titolo Maestro di libertà a
Luigi Einaudi, è stato emesso dalla Repubblica di San Marino un
francobollo di 3,30€, con la figura di Einaudi in primo piano e, nel148
lo sfondo, la bandiera italiana e l’Italia. È un bel ricordo nell’anno in
cui ricorrono i 150 anni dell’unità d’Italia e a 50 dalla morte di
Einaudi (...).
Concludo. Tutte le personalità che sono state insignite dalla
Repubblica di San Marino con il titolo di Maestro di libertà hanno
un tratto comune. Concetto Marchesi, grande latinista, comunista;
Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano, cattolico; Luigi
Einaudi, giornalista, professore, liberale e laico; tutti hanno creduto
fino in fondo ai propri valori. Piuttosto che piegarsi all’ideologia dominante, hanno preferito l’esilio in terra straniera. Luigi Einaudi dovette espatriare in Svizzera, passando a piedi attraverso un colle alpino a tremila metri di altezza, in una bufera di neve, a sessantanove
anni con una gamba malandata e una squadra fascista alle calcagna.
Trovò un paese ospitale, dove poté approfondire i suoi studi, scrivere liberamente, per preparare un futuro migliore per la sua amata patria.
Avere le proprie idee e sostenerle con convinzione, non vuole dire non essere disposti ad ascoltare le opinioni altrui. Nel discorso di accettazione della carica di Presidente della Repubblica, pronunciato nel Parlamento italiano nel 1948, Luigi Einaudi disse: “e se
v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da
voi è questa: di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non poter più sentire la gioia,
una delle più pure che cuor umano possa provare, la gioia di essere
costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se
stessi di avere, in tutto o in parte, torto...”.
Questa è l’essenza del dialogo, della libertà. La libera discussione e l’ascolto di opinioni diverse, la possibilità di farle proprie, in tutto o in parte, se hanno qualche elemento condivisibile.
Dice di sé.
Roberto Einaudi. Membro del Consiglio di amministrazione delle fondazioni Luigi Einaudi di Torino e Roma.
149
SOCIETÀ
INDRO MONTANELLI
Avvicinandosi il 25 dicembre, decine di migliaia di teneri abeti
vengono strappati dai boschi della Penisola per allestire
il tradizionale albero di Natale. Ogni anno lo scempio si ripete,
tra la generale indifferenza. Soppresso l' Ente protezione animali,
figuriamoci se qualcuno ha voglia di proteggere gli alberi.
Diciamo la verità: la sola pianta che interessi all'italiano medio
è la pianta stabile.
(Da “Controcorrente”, 1979)
Gli angeli all’opera dopo l’alluvione di Genova
150
151
SO
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L’ALLUVIONE VISTA
DA UN GENOVESE D’ADOZIONE.
POVERA CITTÀ, TRADITA DAI TORRENTI
E DAI POLITICI
Genova è la città dell’attesa, della pazienza e della sapienza dell’attesa
come il pescatore che al ritorno a casa può essere sorridente,
fiero della sua buona pesca, ma anche avvilito e senza bottino
Cesare Lanza*
Q
uanto può essere dolorosa, per i genovesi e per chi ama
Genova, la tragedia della nuova alluvione? Per me, moltissimo. Se la Calabria, dove sono nato, è la mia infelice e dignitosa madre, e se Roma, dove oggi vivo, è una languida e disponibile amante, e se Milano è la moglie che tutti vorrebbero, precisa, laboriosa, dinamica, intrisa del senso del dovere, Genova... ecco,
Genova, dove ho vissuto la mia vera vita, è il mio amore di sempre:
indistruttibile, un amore di umore variabile come il tempo che la distingue, tra il sole mite e l’aspra tramontana. L’amore avvolto da
straordinarie contraddizioni, il fascino raro di una fusione perfetta
dei sentimenti più diversi, la coesistenza di pregi visibili e di limiti,
difetti, vizi nascosti.
A Genova, sì proprio come succede in amore, c’è parte di
tutto. La bellezza naturale, come quella di Boccadasse, l’incantevole spiaggetta nel cuore della città e gli storici vicoli cantati da De
Andrè, il lungomare di corso Italia, snob e malinconico, privo di indulgenze alla commercializzazione. Ma anche le case ammucchiate
e strozzate sulle colline, gli orribili edifici delle cosiddette delegazioni, i goffi e pretenziosi minigrattacieli. C’è un’avarizia grottesca
e spietata, ma anche un altruismo spontaneo, un popolare spirito di
solidarietà; c’è l’affetto tenero e prioritario per i cani e in genere per
gli animali, così come la diffidenza atavica per gli umani; sopravvivono antiche famiglie tra le più ricche d’Europa e ancora non si
estinguono i camalli, sangue proletario e generoso del porto; ci sono
le speculazioni di raider e avventurieri, ma anche la voglia diffusa e
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saggia di un sano risparmio, il presentimento del futuro, da affrontare con prudenza e positività.
Se dovessi cercare sintesi estreme di odio e di amore, come
succede nei litigi o nei momenti di estasi delle passioni incontenibili, direi della mia Genova che è sempre sospesa tra un bigottismo
conservatore, sordo e muto, almeno in apparenza indistruttibile, e
una vocazione fisiologica al desiderio di cambiamento, a una trascinante rivoluzionarietà, ma solo quando la città – stremata, esasperata – perde la pazienza (non a caso, storicamente, è stata spesso la
metafora, il primo segnale, l’inizio di ribellione di una società che
cerca e a volte impone novità, per voltare pagina: come negli scontri di piazza De Ferrari, nel luglio ‘60, contro il governo Tambroni).
Mi dice bonariamente mia moglie, che è assai più giovane
e in questa città è anche nata: “Genova è la moglie del pescatore”.
E si spiega così: è la città dell’attesa, della pazienza e della sapienza dell’attesa; il pescatore parte e al ritorno a casa, dove l’attesa,
fiduciosa e dignitosa, si è consumata tra scetticismi evidenti e contenute speranze, al ritorno a casa il pescatore può essere sorridente, fiero della sua buona pesca, ma anche avvilito e senza bottino
(o, in casi estremi, non torna affatto, vittima dell’imprevedibilità
del mare).
Ciò che detesto di Genova, ma fa anche sorridere, a proposito di buon senso e imprevedibilità, è il gergale modo di dire, “maniman”. Intraducibile, in una sola parola, dunque provo a spiegarlo a
chi genovese non è. C’è il sole, ma anche un esile, esilissimo, timore di pioggia? Il genovese prende l’ombrello e dice: “Maniman venisse a piovere...”. Parto per un breve viaggio e sono in ottima salute? Da buon genovese, in valigia metto anche qualche medicina di
uso comune: “Maniman mi sentissi male...” Non succede, ma se
succede sono attrezzato! Piccole, ma intramontabili aridità mentali –
esaltate dal genio di Gilberto Govi, nel suo teatro dialettale, irresistibile anche per chi non abbia familiarità con il gergo “zeneìs”, pressoché incomprensibile.
E poi a Genova c’è il “mio” Genoa. Non è di Genova, come
superficialmente si crede, l’altra squadra calcistica, la Sampdoria.
Arriva da una “delegazione”, per simpatica che sia: Sampierdarena.
E porta una maglia a strisce, più adatta ai ciclisti che a giocatori di
calcio. Mentre il mio Genoa... Il Genoa è la squadra più antica
d’Italia, fondata nel 1893 da pionieri inglesi, che non disdegnavano
di giocare a cricket, oltre che a football. Mi innamorai del Genoa
quando avevo pochi anni, di colpo, perchè ero dietro la sua porta e
153
vidi piangere il portiere, Nani Franzosi, perchè si era lasciato scivolare dalle mani il pallone.
Un errore elementare, un gol – anche se non ricordo bene –
determinante. Il portiere che piange, il pubblico che consola con gli
applausi. Brilla la scintilla di un amore istintivo e da quel pomeriggio, dopo più di sessant’anni, l’emozione non si è spenta. Essere genoani non è come essere tifosi di un’altra squadra, per forte e famosa che sia (escluso, forse, il Torino). Il Genoa è un simbolo di vita:
sfortuna, difficoltà, contrarietà, sciagure; e tuttavia sopravvivenza,
grazie alla capacità indomabile di lottare, di non arrendersi mai.
Quando il Genoa, pochi anni fa (per la seconda volta) precipitò in
serie C, la città era piena di bandiere e di manifesti a sostegno della
“sua” squadra.
INTERVISTE
Dice di sé.
Cesare Lanza. Ha già pronte due lapidi, che gli piacciono molto, per quando sarà. Una è firmata da un’amica, Marina Poletti: “Era un uomo tutte
case e famiglie”. L’altra, pensata da un ex allievo e poi amico, Massimo
Donelli: “Da ragazzo si comportava come un adulto. Da adulto, come un
ragazzo”. Gli mancheranno molto i cinque figli, che in vita ha trascurato, le
due mogli, gli amori vissuti o anche semplicemente sognati, il poker, le
scommesse, i libri... e anche le partite del Genoa, non importa se vincenti
o perdenti. Tante cose, tanti affetti: perchè morire?
Pietrangelo Buttafuoco
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PIETRANGELO BUTTAFUOCO:
“IL COLTELLO È IL MIO OGGETTO CULTO”
Quando Benigni prende per le palle qualcuno fa arte, se la stessa cosa la fa Fiorello viene tacciato di volgarità. Tutti gli artisti e
gli intellettuali fanno a gara per farsi accreditare dalla sinistra
Parmantò*
S
iciliano, catanese, 48 anni, figlio d’arte, se avesse deciso di dedicarsi alla politica, come per un periodo della sua vita ha anche immaginato. Inizia, invece, la sua carriera nel giornalismo,
entrando al Secolo d’Italia, quotidiano dell’allora Movimento sociale italiano.
Da quel momento in poi è un’escalation di incarichi ed attività: direttore editoriale, conduttore televisivo, presidente del teatro
Stabile di Catania, scrittore ed, ovviamente, giornalista. Eppure, la
professione che l’ha più gratificato, dandogli un imprinting importante è quella di libraio. Paradossalmente, dice di aver trovato porte
chiuse solo con la destra al governo, si definisce un utilizzatore primario di facebook e twitter e il suo sogno nel cassetto? Diventare
possidente. Secondo regola antica: casa per quanto sia sufficiente e
terra tanto quanta se ne perde nello sguardo.
Da ragazzo, quando si pensava adulto, si immaginava come? Ha
sempre desiderato diventare giornalista?
“Mi pensavo architetto. Oppure pittore. Ho avuto anche la
fase della politica e perciò, per tradizione familiare, mi immaginavo
deputato o qualcosa di simile. Giornalista mai. Piuttosto scrittore.
Insomma, una strada da artista”.
È vero che non ha nessun hobby, il suo piatto preferito sono le
lenticchie e un personaggio che ammira è Cyrano de Bergerac?
E perchè?
“Non ho hobby ma tanta manualità per cui mi butto sempre
a fare i lavori. Siano essi di muratura, falegnameria e un poco di
156
meccanica. Ho grande rispetto per l’agricoltura verso cui nutro un
culto. Non potrei mai considerare un hobby il fecondare un terreno
o potare un ramo. Sì, mi piacciono le lenticchie per via del loro sapore terroso e ammiro il Cyrano perché proclama e dice tutto ciò che
è essenza di poesia e libertà”.
L’impegno politico per quelli della sua generazione era un must.
Cosa è cambiato nel tempo? È solo una questione di antipolitica?
“È cambiata la volontà di potenza. L’idea che il mondo potesse cambiare in ragione di una bandiera. E poi è venuta meno la
sovranità territoriale per cui tutto ciò che accade in Italia, oggi, è vicenda di un misero cortile. Ben altra cosa dallo stare al mondo in
un’altra parte del mondo. Come in Nord Africa, adesso. O come in
India, in Cina, insomma, in tutto il continente euroasiatico dove veramente si decide il futuro”.
Perché la cultura per molti anni è stata o sembra essere stata
appannaggio solo della sinistra?
“Perché hanno una grande professionalità nell’aggiudicarsi
il campo del cosiddetto immaginario. E poi perché hanno l’astuzia di
mercato. Quando Benigni prende per le palle qualcuno fa arte, se la
stessa cosa la fa Fiorello (come fece a suo tempo con Baudo) viene
tacciato di volgarità. Tutti gli artisti e gli intellettuali fanno a gara per
farsi accreditare dalla sinistra. Anche in tempi di destra imperante. Lo
stesso Gianfranco Fini, per farsi sdoganare, s’è rivolto alle centrali
battesimali dell’egemonia culturale. Da La Repubblica a Fabio Fazio.
Come diceva Totò? E poi dice che uno si butta a sinistra”.
E quali, se ce ne sono, le responsabilità degli intellettuali di destra?
“Non esiste un pubblico di destra. Le rispondo, infatti, con
un aforisma di Michele Serra. Doppia è la sventura dello scrittore di
destra. Quelli di sinistra non lo leggono perché è di destra. Quelli di
destra, invece, non leggono”.
Crede che il suo orientamento politico l’abbia danneggiata professionalmente? In altre parole, perchè non le è stato mai affidato un programma di approfondimento o quando l’hanno fatto è
durato solo una stagione o in reti minori?
“Non mi hanno affidato programmi di approfondimento perché non so approfondire, evidentemente. E poi, quando è capitato, è
stato sempre per farmi fare la foglia di fico. E sul mio orientamento
politico, infine, se mi abbia danneggiato o meno, non so dirle. Le
porte chiuse le ho avute solo con la destra al governo”.
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Come scrittore ha affrontato il rapporto tra islam e occidente.
Che idea complessiva, sinteticamente, si è fatto? Crede si arriverà mai ad una convivenza pacifica?
“Mai. Non ci sarà mai convivenza. E l’idea che mi sono fatta è
questa. L’Islam è una religione. L’Occidente è solo secolarizzazione”.
LIBRI
Scorrendo il suo curriculum, si scopre che è stato direttore di
una rivista, conduttore televisivo, presidente del teatro Stabile di
Catania, scrittore. Quale di queste professioni la gratifica maggiormente?
“Quella che non ha citato: libraio”.
Deve essermi sfuggita. Perché il libraio?
“Perché sono stato libraio, in Sicilia, ed è l’esperienza da cui
ho ricavato l’imprinting. Ogni volta che vado al Salone del Libro è
un tuffo di nostalgia. E ho mantenuto lo stesso giro d’amici. Gli stessi che ho incontrato da libraio li frequento da scrittore”.
E quali sono i 5 libri da leggere assolutamente?
“Il santo Corano, i Veda, l’Iliade, le Storie di Tito Livio,
Pinocchio”.
Da qualche settimana conduce su Rai5 una trasmissione sugli
oggetti culto della nostra epoca. Quale tra gli oggetti che sono
stati e saranno raccontati descrive meglio la società di oggi?
“Il telefonino. Racchiude tutto ormai. Dal giornale alla possibilità di fare un giornale e dunque, per dirla con Max Weber, assolvere alla preghiera quotidiana dell’uomo a noi contemporaneo”.
Quale è, invece, il suo oggetto culto?
“Il coltello. In tutti i sensi”.
Che rapporto ha con le nuove tecnologie? Twitter, facebook?
“Pratico tutte le tecnologie. Sono un utilizzatore primario”.
Ha anche lei un sogno nel cassetto, qualcosa che desidera fare e
non ha ancora fatto?
“Altro che. Diventare possidente. Secondo regola antica:
casa per quanto sia sufficiente e terra tanto quanta se ne perde nello
sguardo”.
*Dice di sé.
Parmantò. Oui, c’est moi.
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Il potere in Italia, Lucia Annunziata
159
SOM
L IMB A
RR
I IO
IL POTERE IN ITALIA
L’influenza di Silvio Berlusconi negli ultimi due decenni è stata
sicuramente determinante, ma se si guarda invece agli equilibri
sostanziali del potere, riguardanti la struttura economica, il suo
ruolo si rivela molto più marginale5
Lucia Annunziata
Every hero becomes a bore at last
Ralph Waldo Emerson
I
l dubbio sul potere è forse il più rilevante che gli uomini possano
coltivare. Capire i suoi meccanismi significa, infatti, conoscere
quali sono le logiche di selezione e promozione sociale di una
nazione, qual è la sua identità. Capire chi ci comanda davvero è la
richiesta di massima trasparenza. Che, dopotutto, rimane una delle
virtù cardinali della democrazia.
Chi comanda oggi in Italia? Silvio Berlusconi è (o è stato) il
nuovo Principe? La Seconda Repubblica ha apportato davvero sostanziali cambiamenti nella struttura di comando del paese o, secondo il vecchio adagio italian-gattopardesco, tutto doveva cambiare affinché nulla cambiasse? Infine, i nuovi poteri, se davvero esistono,
sono in grado di gestire, oltre alle esigenze nazionali, anche quelle
globali? Sono, insomma, all’altezza delle sfide che li attendono?
Nel nostro paese non è corta la lista di uomini che contano:
Silvio Berlusconi, il papa, Giorgio Napolitano, Mario Draghi,
Giovanni Bazoli, Carlo De Benedetti, Corrado Passera e una decina
di altri fra banchieri, uomini d’affari, giudici. Ma, al di là delle singole persone – pure fondamentali nella definizione del potere, che è
forza altamente individuale –, la necessità di capire nasce dalla consapevolezza dell’imminente fine di un ciclo, in cui coincidono il de5) Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo stralcio da “Il Potere in Italia – con un testo di Armando Spataro”, di Lucia Annunziata, Marsilio Editori 2011. Riproduzione riservata.
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clino di una forma della politica, di una maggioranza di governo e di
un modello economico del paese.
Nel 1992, sotto i colpi delle picconate di Cossiga, l’onda
d’urto di Mani pulite travolse la Prima Repubblica. Negli anni successivi si definì il passaggio a una nuova fase con una serie di riforme, istituzionali e no: il referendum sulla legge elettorale, la legge
sulle privatizzazioni, l’accordo sul contratto collettivo di lavoro, per
nominare le più importanti. Il risultato è l’indebolimento della tradizionale struttura statalista e del vecchio sistema politico proporzionale. Su queste basi nasce la Seconda Repubblica.
Quasi vent’anni dopo, questa Seconda Repubblica è al suo
tramonto. È dunque tempo di un nuovo bilancio, non tanto centrato
sulle persone, ma sulle tendenze strutturali. Analizzando se, e in
quale senso, siano cambiati i luoghi, gli uomini, le istituzioni, il sistema finanziario e politico, quali siano gli effetti della modernizzazione.
Il risultato di questa ricerca è meno scontato di quel che ogni
giorno si legge sui giornali. In particolare per ciò che riguarda l’uomo che è, di diritto, il deus ex machina di questa Seconda
Repubblica.
L’influenza di Silvio Berlusconi negli ultimi due decenni è
stata sicuramente determinante, ma questo vale soprattutto per la
trasformazione della politica e la ridefinizione della cultura pubblica. Se si guarda invece agli equilibri sostanziali del potere, quelli riguardanti la struttura economica, il ruolo giocato da Silvio
Berlusconi si rivela molto più marginale di quel che si percepisce.
Nuovi protagonisti e nuove ricchezze si sono affermati in
questi anni in Italia; i destini di grandi gruppi sono cambiati, ma tutto ciò è il risultato di trend economici (la Fiat ne è l’esempio perfetto) o di nuove regole di sistema (il potere delle banche di oggi nasce
dalle misure di privatizzazione di vent’anni fa) più che di una capacità della politica di guidare l’economia. I mutamenti nel mondo
economico, tuttavia, non sono tali da aver rinnovato l’intero sistema:
il profilo sociale dell’Italia della Seconda Repubblica rimane, dal
punto di vista del potere, una sorta di palude. Un sistema anziano per
età e per concezione il cui declino, anche per effetto della situazione
internazionale, si sta facendo, non a caso, sempre più rapido.
«La vita è una ricerca di potere; e questo è un elemento di
cui il mondo è talmente saturo – non c’è crepa o fenditura in cui non
si trovi – che nessuna onesta ricerca è senza ricompense». Questa
concezione extrapolitica, onnicomprensiva, vitalistica e, in fondo,
161
pessimistica del potere, elaborata da Ralph Waldo Emerson in
Condotta di vita, sembra essere oggi, fra le tante possibili, la più
adatta a descrivere la forma pervasiva, mista, potremmo dire, che il
potere ha assunto nelle società moderne. Quando ci volteremo indietro e guarderemo a questi anni, cosa vedremo nella Seconda
Repubblica?
Cosa ricorderemo dei suoi riti, delle finalità, dell’etica, dei
vezzi e degli strumenti, degli uomini che l’hanno fatta? Probabilmente
tutto questo convergerà in una sola immagine: la ricchezza.
Nell’arco di tre generazioni l’Italia ha cambiato pelle – dal
piano Marshall al boom economico, fino ai pinnacoli del quinto posto, poi settimo, fra le prime economie del mondo. Ma mai, neppure
nei momenti di maggiore autocompiacimento, avremmo immaginato di poter diventare quello che siamo dagli anni novanta in poi: una
società definita dalla ricchezza.
Potenza, sviluppo o malattia? O, piuttosto, sindrome della
fine di un’epoca, che ricorda da vicino l’asiatica luxuria, il male che
investì la Roma trionfante della tarda repubblica e ne trasformò l’austero stile delle origini?
Quell’identificazione fra potere e denaro, in cui lo sfoggio di
lusso e opulenza esprimeva le nuove tendenze all’individualismo
nella competizione politica, decretò nei fatti la fine delle virtù repubblicane e anticipò la nascita dell’impero.
Il prevalere del denaro come definitore sociale non è, tuttavia, un fenomeno solo italiano. L’enorme accumulazione generata
dalla Nuova Economia, a partire dagli anni ottanta, riporta in
Occidente il potere economico e ne cambia il volto e l’identità. Per
la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, cioè dall’impiego
di massa del petrolio, negli anni novanta l’uomo più ricco del pianeta torna a essere un «bianco» – Bill Gates –, e non uno sceicco. Il denaro ritorna in Occidente con la forza di una vendetta, fa saltare tutti i parametri, si conta in zilioni invece che in milioni e diventa divinizzato e sfacciato simbolo del potere, con cui si fonde totalmente.
Alla fine del secolo XX, potere e denaro sono ormai la stessa cosa, due concetti interscambiabili. Non è certo la prima volta
nella storia che questa fusione avviene, ma ogni volta che si presenta, la sua forma non è mai scontata. Nei momenti di nascita e affermazione di grandi società, una dinamica di «frizione» fra potere e
ricchezza è sempre stata un elemento virtuoso. Nella Roma repubblicana, come nella formazione dell’America moderna, e persino
nelle fasi iniziali, di «movimento», delle grandi esperienze autoritarie del secolo scorso (nazismo, fascismo, comunismo), fino alle de162
mocrazie del dopoguerra, inclusa quella italiana, il rapporto fra virtù
pubblica e denaro è sempre stato definito dalla separazione.
La virtù pubblica, anzi, è stata specificamente intesa come
servizio alla collettività, misurata dal suo grado di disinteresse, dalla sua capacità di controbilanciare o regolare in favore del bene collettivo gli appetiti dell’accumulazione privata.
Certo, nella pratica reale, anche della più perfetta forma democratica, i due aspetti non sono mai davvero stati separati – la dinamica è stata spesso quella dell’uso reciproco, al fine di trarre forza l’uno dall’altro. Molta ipocrisia ha coperto la realtà delle pubbliche virtù. Il denaro è una dama il cui potere di seduzione è sempre
al lavoro. Ma la fine di ogni distinzione, la totale sovrapposizione di
ricchezza e potere, ogni volta che si è manifestata ha sempre costituito un dirompente elemento di limitazione delle libertà. In altre parole, quando il denaro sostituisce e definisce il potere politico, i cittadini perdono peso, perché diminuisce la rappresentanza dei loro
interessi.
In questo senso, la fine del XX secolo appare come una vera
rivoluzione antropologica che rimette il denaro al centro delle nostre
società. In Usa il suo culto spazza via quel che rimane del vecchio
Embarrassment of Riches, così ben descritto da Simon Schama. I rituali dei riluttanti ricchi dell’Old Money vengono sostituiti dallo
sfacciato esibizionismo dei banchieri di Lehman Brothers, la cui cinetica brama di acquisizione – le case, l’arte, le donne, la maniacale
cura del corpo – ricorda appunto, molto da vicino, l’esibizionismo
ellenistico della classe dei nuovi ricchi romani fustigati da Catone.
Da questa accumulazione sganciata da qualunque valore dell’etica pubblica proviene la crisi che oggi stiamo sperimentando.
Quello che è avvenuto in Italia negli ultimi vent’anni è parte
di questo processo. Sappiamo bene che la ricchezza ha dominato anche la Prima Repubblica, ma nella Seconda viene spazzata via l’antica, pudica, distanza della vita pubblica dal denaro, che diventa la
natura stessa del potere politico, la definizione dell’identità sociale.
Non è affatto un caso, dunque, che in queste condizioni l’Italia affidi la sua leadership all’uomo più ricco. È un segno dei tempi.
Eppure, questo intreccio fra denaro e politica, in Italia assume una sua particolarità, definisce quell’«anomalia » che fa del berlusconismo un fenomeno a sé anche rispetto alle democrazie ugualmente malate di denaro (Usa, Gran Bretagna, Francia, tra le altre).
La differenza consiste nella natura del patrimonio personale del
Cavaliere e nel modo in cui egli riesce a farlo interagire con il potere politico.
163
Sulla ricchezza personale di Silvio Berlusconi l’Italia si è arrovellata moltissimo – non c’è quasi nessuna cifra dei conti personali del Cavaliere che non sia stata osservata e analizzata. E, in effetti,
abbiamo abbastanza chiaro, oggi, quanto questa ricchezza abbia
contato nella sua scalata e, parimenti, quanto centrale sia stato l’utilizzo del potere politico per difenderla e aumentarla: il conflitto di
interessi.
Si è fatto, invece, meno caso a come il potere personale conferitogli dalla doppia investitura del voto e del denaro sia stato usato
per ristrutturare l’intero sistema politico. È questa l’anomalia italiana:
il premier non si limita a impiegare il denaro per vincere una campagna elettorale (come fanno tutti), ma lo riusa poi per continuare a vincere, distorcendo e reinventando le regole della competizione.
La sua ricchezza non è stata solo un modo per arrivare alla
politica, dunque, ma anche per forgiarla. Un processo che ha completamente trasformato la nostra sfera pubblica. È il maggiore successo di Silvio Berlusconi, la prova che lo consacra, indipendentemente dagli anni che ha trascorso a Palazzo Chigi, come la singola
più rilevante personalità della Seconda Repubblica. Intendiamo qui
raccontare come tale trasformazione è stata possibile. Nato dalla ricerca di un gruppo di giornalisti, questo lavoro prende prima forma
come base di una serie di speciali che vanno in onda su Rai3 tra marzo e maggio 2011. Poi, nella versione espansa, diventa questo libro,
una sorta di integrazione tra comunicazione televisiva e carta stampata che è, a nostro parere, parte della molteplicità di lingue attraverso cui parla oggi il mestiere dell’intellettuale collettivo. Quasi ogni
definizione di potere distingue tra forza e consenso, cioè fra il potere come conseguenza di un esercizio di pressione e quello costruito
su un’adesione volontaria. È la fascinosa distinzione che Machiavelli
faceva tra Leoni e Volpi.
Proprio grazie all’uso del suo enorme patrimonio, Silvio
Berlusconi percorre un’audace strada che unifica le due possibilità.
Come premier prende il controllo dello stato, l’apparato che gestisce il consenso; come uomo ricco usa il suo personale portafogli
per forzare (comprare, piegare) la parte di consenso che non gli viene offerta.
Non è di poco interesse che quest’operazione si concretizzi
nella scelta, anche giuridica, di riunire forza e consenso attraverso la
creazione di un partito basato su una «leadership carismatica».
Esperimento, insegna Weber, generalmente di natura autoritaria (e
destinato alla rovina, ma questa è la parte di Weber che i berlusconiani preferiscono non leggere). Con la differenza che il sogno ber164
lusconiano di leadership si fonda non su un discorso ideologico, ma
sul denaro. Non è difficile tracciare questa evoluzione attraverso le
cronache degli scorsi due decenni. Il primo passo è la formazione di
un partito in cui il denaro è determinante. Il denaro è il pilastro su
cui si fonda la discesa in campo del Cavaliere.
Se è vero, infatti, che la vittoria elettorale alle politiche del
1994 è ottenuta grazie a un indubbio consenso popolare, decisivi
sono anche gli assegni provenienti dal business di Berlusconi. Forza
Italia e il Biscione sono, in un primo momento, perfettamente sovrapposti. Il successo elettorale del capo, dunque, costituisce il successo finanziario di tutti quelli che dell’azienda fanno parte. Nel
tempo, questo rapporto fra denaro e politica si rivelerà sempre più
chiaramente: se si fa un bilancio, oggi, della classe politica creata da
Berlusconi, è evidente come tutti coloro che hanno lavorato per lui
ne abbiano ricavato un forte arricchimento personale – che si tratti
del primo gruppo di gladiatori «scesi in campo» nel 1994 e poi, con
l’eccezione di pochi, a mano a mano dismessi, o delle ultime veline
nella decadenza degli anni Duemila.
Il rapporto fra ricchezza e volontà del capo è stato in questi
anni la chiave dell’esperienza politica del centrodestra: il leader
chiede, ottiene e ricambia. Che si tratti di giornalisti di brillante intelligenza, di politici locali in grado di muovere voti in elezioni decisive, di avversari che con un’astensione possono cambiare le sorti
di una crisi di governo o di giudici che hanno responsabilità in
Cassazione o in un qualunque tribunale, l’obbedienza al capo è sempre ben remunerata. La ricompensa può variare da cariche a incarichi, da nomine in vari organi dello stato o in comitati d’affari, a una
direzione o, anche, solo a una sostanziosa liquidazione in cash.
Basta uno sguardo ai 740: la politica, in epoca berlusconiana,
letteralmente, paga. Il denaro o, meglio, la sua sottrazione, è anche potente strumento di coercizione nei confronti di chi non obbedisce. I settori che non si adeguano ai piani del leader vengono attaccati con strumenti economici prima ancora che politici: (la minaccia di) provvedimenti legali ad hoc contro le aziende sono lo strumento con cui Palazzo
Chigi ha tenuto sotto scacco, e spesso ha piegato, molti interessi e attività economiche e/o politiche non favorevoli al governo. Clamoroso il
controllo esercitato sulle aziende della comunicazione – Rai, Sky,
Telecom; nell’elenco entrano di diritto anche Alitalia e Fiat, sia pure
con modalità diverse. Per descrivere il rapporto denaro-coercizioneconsenso nulla, però, è più indicato del meccanismo dei pubblici appalti, una sorta di scatola cinese che ha propagato la fedeltà al governo con
una capillarità mai sperimentata prima. Protezione civile docet.
165
Il Berlusconi sceso in campo in nome della sua ricchezza,
sfoggiando il suo patrimonio che, faceva intendere, sarebbe stato
condiviso con i sostenitori, giocava tutto su una promessa metaforica al suo «pubblico elettorale». E ha funzionato: il sogno di un’Italia
con meno lacci e lacciuoli, con più libertà individuale per arricchirsi è stato un potentissimo generatore di quella maggioranza di elettori che lo ha premiato in varie legislature. Ma la promessa di arricchimento si è rivelata molto meno metaforica per i molti che sono
entrati nella costruzione della macchina del consenso del capo.
Berlusconi non avrà certo arricchito il paese, ma un numero di persone sufficienti a sostenerlo e a farlo governare, sì. La tanto ricercata formula del suo successo è tutta qui, ed è la più semplice del mondo. Questo schema ha avuto un impatto profondo sulla vita pubblica, non fosse altro perché, per reggerlo, le istituzioni dovevano essere cambiate. L’obbedienza assoluta al leader, e non agli elettori, è
stata perfettamente trasposta nella riforma che più ha modificato la
rappresentanza democratica: il Porcellum.
In questo sistema elettorale bloccato, in cui a decidere chi
viene eletto è il vertice, il parlamento cambia profilo, con deputati e
senatori che non hanno più obblighi nei confronti dei votanti, ma
solo verso colui che li ha messi in lista.
D’altra parte, il ruolo chiave assunto dal denaro nel modello
berlusconiano basta da solo a spiegare l’attenzione con cui è stato
seguito dai custodi della legalità. Quello della magistratura è, di tutti i campi di battaglia apertisi in questi anni, il più controverso e decisivo.
Al di là di tutti i discorsi sulla «politicizzazione» dei magistrati, la centralità del conflitto fra potere politico e potere giudiziario, come per quello economico, ha radici soprattutto strutturali.
Semplicemente, in queste condizioni, era inevitabile.
Per Silvio Berlusconi i magistrati hanno avuto una funzione di freno all’affermazione della sua egemonia molto più efficace di quello della politica che, come abbiamo visto, si è lasciata
docilmente blandire e modellare. Non che il Cavaliere abbia perso del tutto la sua battaglia. A ben guardare, come spiega nel corso di questo libro Armando Spataro, uno dei pubblici ministeri più
autorevoli d’Italia, una riforma della magistratura, nei fatti, è stata già imposta.
Se si prende come termine di paragone proprio il 1994 e si
torna con la mente alla grande reazione pubblica a favore dei componenti del pool di Milano, che chiedevano di essere trasferiti per
protestare contro il decreto salva-ladri, si intuisce che quel picco di
166
sostegno e di popolarità la magistratura non l’ha mai più raggiunto.
Lo scontro con la politica ha portato a molte fughe, rotture e a scelte diverse dentro i ranghi dei magistrati. Rispetto al 1994 è cambiata la mappa delle organizzazioni, il Csm, e, anche, la percezione della giustizia nel paese. Eppure, per la natura del potere qual è oggi,
quello fra politica e magistratura rimane il più formidabile dei confronti. Il più aperto. Una sorta di cruna d’ago attraverso cui passerà,
in un modo o nell’altro, ogni potere futuro.
La forza indiscussa di una leadership che è insieme politica
ed economica ha poi cambiato, nella pratica reale, anche le figure
istituzionali, imponendo un premierato di fatto, assente nella nostra
Costituzione. Che Silvio Berlusconi governi il paese dalla sua abitazione privata, Palazzo Grazioli, più che da Palazzo Chigi, sede del
Primo ministro, è un banalissimo, ma chiaro, segno di questa trasformazione.
Effetto collaterale del premierato di fatto è l’evoluzione, anche questa nelle cose, del ruolo del capo dello stato. Per bilanciare
efficacemente le forzature compiute dall’inquilino di Palazzo Chigi,
infatti, anche il presidente della repubblica è diventato sempre più
«interventista», assumendo un ruolo di policy maker e di guida pubblica molto più attivo di quello di «notaio» e garante assegnatogli
dalla Costituzione.
Infine, sotto il peso del berlusconismo è cambiato il sistema
dei partiti. I partiti tradizionali sono stati schiacciati dall’asimmetrico accesso ai fondi rispetto a quello del premier e costretti a una rincorsa alla leadership forte di impronta berlusconiana.
Vent’anni dopo possiamo dunque dire che, mentre in parlamento si è continuato a discutere sulla necessità di cambiare architettura istituzionale, le riforme sono state imposte dai fatti.
Da proporzionale e parlamentare che era, il nostro sistema,
oggi, appare fondato su due presidenzialismi – uno al Quirinale e
uno a Palazzo Grazioli (che qui definiamo il sesto palazzo tra quelli
in cui albergano i poteri istituzionali) – e su un parlamento «decerebrato» la cui rappresentanza è stata sostituita dai parlamenti locali
(le Regioni) e dagli amministratori, scelti non a caso essi stessi con
quel voto diretto che echeggia le stesse aspirazioni a una leadership
forte che si respirano dentro Palazzo Chigi.
Di questa autonomia locale c’è poco da rallegrarsi: senza
l’intermediazione nazionale del parlamento essa è diventata, grazie
all’imitazione della leadership personalizzata nazionale, ragione di
una divisione del paese affidata al moltiplicarsi di forme di caudillismo. L’Italia del primo decennio degli anni Duemila somiglia molto
167
più all’Afghanistan dei warlords che alla democrazia turbolenta, ma
modesta e fattiva, del dopoguerra.
Se in politica Silvio Berlusconi è stato in grado di forgiare
la Seconda Repubblica, non ha avuto la stessa influenza sulla struttura economica del paese. Per lui, il premier imprenditore, si tratta
di una paradossale sconfitta. Le dinamiche tra il premier e il sistema economico – banche, aziende, media, Confindustria –, nel corso degli anni, sono state di volta in volta di apertura, di scontro, di
alleanza, di diffidenza, ma, nell’insieme, il mondo imprenditoriale
coltiva nei confronti del Cavaliere una relazione opportunistica:
pur prestandosi a molte convergenze quando è a Palazzo Chigi (si
piega al suo peso politico e/o coglie tutte le occasioni di fare affari, come dimostra il caso Alitalia), non ne accetterà mai la leadership progettuale.
Perché Silvio Berlusconi non domina il suo stesso mondo?
Questa è forse la domanda più interessante, anche perché la risposta
ci offre, per converso, un giudizio sul potere economico italiano,
sulla sua identità e sui suoi meccanismi di riproduzione.
A noi pare che le relazioni fra Berlusconi e questo ambiente
non siano necessariamente determinate da differenze politiche,
come da più parti ci viene raccontato. Una delle rappresentazioni del
potere in Italia segue, infatti, troppo spesso le linee ideologiche: lo
scontro fra banche e Palazzo Chigi è stato interpretato come un confronto fra destra (premier) e sinistra (banche); ugualmente alla
Confindustria sono stati attribuiti alternativamente, a seconda di
quale fosse il tasso di approvazione del premier, l’uno o l’altro
orientamento politico.
Nella nostra ricerca abbiamo, invece, trovato più convincente leggere queste relazioni sulla base degli interessi strutturali che
ogni settore rappresenta. La competizione per spazi e dominio, gli
spiriti animali del mercato risultano la migliore spiegazione. Si
prenda l’esempio delle banche.
Sono da sempre il terreno di conquista più complesso per il
Cavaliere a causa dell’incredibile potere che esercitano, con le loro
vaste partecipazioni, sul sistema economico. Di conseguenza, i banchieri hanno spesso assunto, nella narrativa dei media democratici, i
panni di novelli partigiani contro la dittatura degli affari del premier.
È possibile che alcuni banchieri, individualmente, siano elettori di centrosinistra, ma, se si guarda alla sostanza dei fatti, le relazioni fra Berlusconi e le banche non sono state di profondo scontro. Anzi.
Negli ultimi vent’anni il peso degli istituti di credito in Italia è cresciuto a dismisura. Non sarebbe stato possibile se non avessero avuto un
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ruolo «armonico» dentro il sistema, cioè di sostanziale appoggio. Al
tempo stesso, le banche hanno lavorato a mantenere una loro funzione distinta dalla politica. Non è un caso che la forza di questi istituti
affondi le radici in una riforma istituzionale, la privatizzazione delle
banche all’epoca dei governi Amato e Ciampi, il cui scopo era proprio
quello di dare al settore un’identità autonoma. Ed è quello che, a nostro parere, le banche hanno difeso nel rapporto con Berlusconi.
Complesso anche il rapporto con Confindustria, e per ragioni abbastanza comprensibili: gli interessi economici del premier imprenditore non sono gli stessi di tutti gli altri imprenditori. Ci sono
pochi dubbi sul fatto che Confindustria abbia per molti anni sostenuto politicamente il centrodestra, ma alla fine, dentro l’associazione
degli industriali, la competizione di mercato ha sempre prevalso sul
consenso politico.
Rivelatrice, in questo senso, è la graduatoria dei dieci uomini più ricchi d’Italia. La sua evoluzione è il ritratto degli interessi industriali, la mappa dell’evolversi del capitalismo nostrano.
Interessante notare che Silvio Berlusconi da qualche anno non ha
più il primato e continua a perdere posizioni in questa lista dove dominante è il made in Italy – un settore in cui il premier imprenditore ha pochi o nessun investimento. Infine, rilevante è anche il fatto
che dalla graduatoria dei dieci più ricchi del paese siano scomparsi
gli imprenditori proprietari di grandi aziende come gli Agnelli. Il capitalismo italiano, in altre parole, è sempre meno fondato sulla grande industria e questo rende anche meno rilevante il peso del «governo» negli affari – tradizionalmente, infatti, la grande industria ha più
interconnessioni (doveri sociali, incentivi, piani di sviluppo nazionale ecc.) con la politica.
Potremmo dunque concludere che il premier non ha «dominato» il mondo degli affari, nonostante ne sia parte, perché la politica è sempre meno centrale nel sistema industriale italiano.
In questa logica, il caso più emblematico è certamente quello di Sergio Marchionne che è anche uno dei pochi uomini nuovi del
potere in Italia. Finché è capo della Fiat, Marchionne tratta rispettosamente con Palazzo Chigi ed è una figura minore, sia pur amatissimo a sinistra. Diventa invece un personaggio chiave (questo non è
un giudizio di merito ma di potenza) nel sistema quando ne fuoriesce, cioè quando decide di inserirsi nell’onda della globalizzazione
affrancandosi dall’Italia.
In altre parole, Marchionne è la prova che alcuni dei nuovi
poteri non sono più specificamente nazionali e sono dunque fuori
dalla portata di qualunque premier.
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Identico, anche se in un contesto diverso, il caso dell’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che prende il posto del
francese Jean-Claude Trichet alla guida della Banca Centrale
Europea. Draghi aveva già una dimensione internazionale, legittimata peraltro da quando, nel 2006, era diventato presidente del
Financial Stability Forum. Ma la sua nomina all’Eurotower, avvenuta nel momento in cui è scoppiata la crisi del debito pubblico italiano, gli ha dato, nei fatti, un potere d’influenza sulla nostra economia
superiore a quello attribuitogli dalla stessa carica.
Nell’estate del 2011, sua era la firma in calce alla lettera inviata dalla Bce a Palazzo Chigi, nella quale venivano elencati i punti delle riforme da inserire nella manovra da 50 miliardi di euro
come condizione per ridurre lo spread dei Btp italiani rispetto ai
bond tedeschi. Un caso clamoroso di inversione di peso di poteri,
che nei fatti ha reso l’ex governatore l’uomo chiave per il riassetto
economico del nostro paese. Come Marchionne da Detroit ha modificato le relazioni sindacali, così Draghi da Francoforte pare destinato a scrivere una pagina inedita nel ridisegnare la governance istituzionale che ci guida. Nessun luogo è più adatto a spiegare le intense
dinamiche all’interno del mondo degli affari come il «Corriere della
Sera», che le contiene tutte. La venerabile testata, che da sempre è lo
specchio della classe dirigente del Nord del paese, negli anni di
Silvio Berlusconi ha subito un’ennesima trasformazione, passando
da pura espressione «culturale» del suo mondo di provenienza al
ruolo di data room degli interessi di buona parte del sistema economico italiano. Nella vicenda del quotidiano milanese si possono così
leggere molto bene i «limiti» del potere di Berlusconi e l’esistenza
di un potere che non necessariamente passa attraverso di lui.
Intorno al «Corriere» si è combattuta, in questi anni, forse la
più grande battaglia per l’autonomia di un giornale. Nel dire questo
non si sminuisce il peso delle vicende di altri media. La Rai è stata
sicuramente il luogo in cui il conflitto di interessi di Berlusconi ha
pesato di più e il prezzo che ha pagato si comincia forse a poterlo
calcolare solo ora. Nella difesa dell’autonomia dei media sono stati
centrali tutti i quotidiani, a cominciare da «Repubblica» per finire
con il recentissimo «Fatto Quotidiano», passando per tutte le altre
maggiori testate, dalla «Stampa» al «Sole 24 ore».
Ma il caso «Corriere» è il più significativo, proprio perché
chi fosse riuscito a conquistare la testata si sarebbe assicurato il controllo della governance di buona parte del sistema economico. Il fatto che negli ultimi vent’anni – se si esclude la parentesi di Stefano
Folli – i direttori del «Corriere» siano stati solo due, Ferruccio de
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Bortoli e Paolo Mieli, entrambi chiamati per due volte a ricoprire
quest’incarico, è forse rivelatore di quanto alto sia stato il livello di
scontro. Un’assoluta anomalia nel mondo dei media, spiegabile solo
con la necessità degli editori di mettersi in mani affidabili ed esperte. Il castello societario che è stato eretto intorno a via Solferino, il
complesso gioco di scatole cinesi di partecipazioni incrociate, di
quote pesate e contate, la dicono lunga su come il potere economico
si è riorganizzato negli ultimi lustri e quale struttura si è data. E, studiando la cattedrale societaria di cui il «Corriere» è la facciata pubblica, non si può non pensare che il premier ha fatto tanto, e ottenuto molto, ma non ha mai saputo eguagliare la sapienza e l’abilità con
cui la struttura economico-mediatica si è preservata. Più che espressione del Quarto potere, il «Corriere» è dunque un potere in sé. Di
fatto, uno dei nuovi poteri d’Italia.
Questa è oggi la mappa sulla quale ci si muove in Italia. In
gioco c’è la successione all’uomo della provvidenza. Come tutte le
spartizioni ereditarie, anche la successione a Silvio Berlusconi non
sarà esente da lotte sanguinose e avverrà secondo linee conflittuali.
Bisogna capire, adesso, cosa del berlusconismo finirà con
l’eclissarsi del Cavaliere e cosa, invece, è ormai divenuto parte del
paese e delle sue istituzioni. Non ultimo il suo modello di leadership, per molti versi già assimilato dal sistema, sia pure in varie forme. Il populismo a forti venature mediatiche è oggi presente, a destra come a sinistra, potenziato dallo sviluppo dei nuovi media.
Michele Santoro, Marco Travaglio, Beppe Grillo, Roberto Saviano
sono icone di una richiesta di rappresentanza diretta. La Lega,
Antonio Di Pietro e il Pd delle primarie sono altrettante espressioni
del tentativo dei partiti tradizionali di rinnovarsi inglobando l’idea di
«popolo», invece che di «classe».
Ugualmente d’impatto è stata l’idea del Presidente
Imprenditore. Lo si riscontra nella seduzione che la politica esercita
oggi su un ceto sociale – banchieri, professionisti e uomini d’impresa – che in passato avrebbe considerato anatema qualunque commistione con la politica. In questo passaggio c’è la prova dell’avvenuta mutazione (quasi genetica) della nostra classe imprenditoriale.
Quello che abbiamo fin qui tracciato è un sistema dissestato, incoerente, in cui interi pezzi funzionano indipendentemente gli uni dagli
altri, se non addirittura gli uni contro gli altri. Non meraviglia che
sia anche in profonda crisi di credibilità.
4 settembre 2011
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I IO
LE DONNE NELLA STORIA DELL’800 ITALIANO
Nella lotta per l’indipendenza e l’unificazione nazionale, nei rituali della nazione, nelle istituzioni della nazionalizzazione, le
donne sono uscite dagli spazi domestici – reali e simbolici – per
interagire con lo spazio pubblico
Anna Maria Isastia*
P
er comprendere il ruolo delle donne nel corso del lungo
Ottocento italiano, dobbiamo prima capire cosa è stato il
Risorgimento: un movimento di giovani uomini e di giovani
donne, nonché il primo tentativo di modernizzazione politica
dell’Italia e, dunque, una grande conquista civile per tutti6.
È giusto sostenere che il Risorgimento è stato un movimento ‘di massa’, un movimento di popolo, anche se è evidente che parlare di popolo, di masse, di opinione pubblica a metà ’800, comporta necessariamente una preventiva consapevolezza della distanza
temporale e della conseguente diversa valenza che questi termini
hanno oggi e avevano allora.
Gli italiani di metà ‘800 sono in larga maggioranza contadini e vivono in case sparse e piccoli casali, oppure in comuni piccoli
e piccolissimi.
La nascente opinione pubblica coinvolge solo coloro che
abitano nei centri urbani grandi e piccoli, ma certo non raggiunge le
masserie e i casali.
Parlare di movimento di massa a metà ‘800 significa dunque
che decine di migliaia di persone si sono sentite coinvolte in un progetto che aveva come scopo l’indipendenza dallo straniero e l’unificazione della penisola italiana; e significa che centinaia di migliaia
di persone hanno condiviso in qualche modo programmi e aspettative comuni.
6) Pubblichiamo per gentile concessione dell'autrice Anna Maria Isastia, uno stralcio dal saggio di apertura del volume: L'Unità delle donne: il loro contributo nel Risorgimento, Quaderni
2009-2011 Soroptimist International d'Italia, 2011. Presentato il 7 dicembre 2011 a Roma.
Riproduzione riservata.
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Ideali, modalità e risultati hanno fatto sì che, raggiunta l’unità, il risorgimento italiano sia diventato un modello per tutti i popoli e tutti i paesi che aspiravano all’indipendenza, alla libertà, ad
una profonda riforma del loro paese.
A fine ‘800, perfino gli intellettuali riformisti cinesi conoscevano e ammiravano personaggi come Mazzini, Garibaldi e
Cavour e scrivevano che la Cina si trovava nella stessa situazione in
cui versava l’Italia all’inizio del secolo, auspicando la nascita anche
in Cina di personaggi come loro.
Nel cuore dell’India, oggi si possono acquistare libri in cui
Sri Aurobindo (celebre per lo yoga integrale) parla di Mazzini. La
stessa cosa avviene in Kurdistan o in Tagikistan.
Tante rivoluzioni nazionali si sono realizzate nel sangue e a
prezzo di molte vite umane. La rivoluzione italiana, al contrario, è
stata condotta in maniera profondamente diversa e senza sconvolgimenti sociali.
La storia come scienza nasce in stretto collegamento con la
nazione, serve a suscitare la coscienza nazionale nelle élites e ad articolare il discorso sulla nazione basato sul sangue, sul consenso,
sulla cultura o sulla religione.
Da tutte le situazioni che fanno la storia, si è a lungo ritenuto che le donne fossero completamente assenti in quanto era loro assegnata la sfera del privato, mentre quella pubblica apparteneva ai
soli uomini.
Le donne hanno cominciato a riemergere dal silenzio del
passato quando la ricerca storica ha iniziato a privilegiare nuovi filoni di ricerca. Si è così scoperto che pubblico e privato non erano
così separati e che i momenti di incontro e di contaminazione erano
tanti.
Nella lotta per l’indipendenza e l’unificazione nazionale, nei
rituali della nazione, nelle istituzioni della nazionalizzazione, le
donne sono uscite dagli spazi domestici –reali e simbolici- per interagire con lo spazio pubblico.
L’identità di molte donne, così come l’identità di tanti uomini, si è realizzata in rapporto alla costruzione dalla nazione.
Sappiamo bene che guerre e rivoluzioni sono state sempre fattori potenti di accelerazione della modernizzazione delle mentalità e dei
costumi dei popoli.
La popolazione italiana di metà ‘800 era giovane, molto giovane. Una persona su quattro aveva meno di dieci anni, la metà meno
di venticinque e la media dell’età delle donne era di ventisei anni.
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L’iconografia, al contrario, ci restituisce foto di donne appesantite dagli anni, infagottate in abiti neri e con i capelli imbiancati.
Lo stesso si può dire degli uomini e, dunque, facciamo fatica a pensare Francesco Crispi senza i folti baffi bianchi e Giorgina Craufurd
Saffi giovinetta. Anche Mazzini non era quel vecchio ‘menagramo’
che abbiamo tutti visivamente presente, ma era stato un giovanotto
molto corteggiato che suonava la chitarra e cantava canzoni d’amore.
Nell’Italia dell’800 che sta cambiando, la famiglia viene assumendo un ruolo nuovo. Mentre prende forma il concetto di nazione, si va elaborando anche il discorso sulla famiglia nucleare e noi
oggi abbiamo riscoperto il grande tema della centralità politica del
mondo domestico come modello di organizzazione, anche come
fonte di modelli di legittimazione. La famiglia e la Nazione sembrano costituire l’ordito e la trama di uno stesso tessuto e la famiglia è
utilizzata per costruire un supporto importante del processo di nazionalizzazione.
Ecco allora riapparire le donne, tante giovani e giovanissime
donne che interagiscono con gli uomini nei lunghi anni della preparazione di progetti e tentativi rivoluzionari. Sono “giardiniere” negli
anni della Carboneria e poi diventano mazziniane, garibaldine, cavouriane. Sono nobili e popolane, raffinate scrittrici e analfabete, di
tutte le regioni d’Italia.
È forse il biennio 1848 – 1849 il momento di massima visibilità femminile, dopo la lunga preparazione dei decenni precedenti.
Poi, lentamente, quando allo spontaneismo delle insurrezioni subentra
il lavoro delle Cancellerie finalizzato alle alleanze politiche, la presenza delle donne comincia a farsi meno incisiva anche se non meno importante. Mazzini si rivolge più volte ‘alle donne d’Italia’ e la stessa
cosa fa Garibaldi per spronare loro, e attraverso loro, i loro uomini.
Le donne di pensiero, le intellettuali, le aristocratiche, quelle che hanno lasciato una lunga serie di scritti dovrebbero essere conosciute, ma le donne d’azione, le popolane analfabete sono del tutto sconosciute ai più.
Al momento dell’unificazione, alcune donne sono perfino ammesse al voto, in virtù del loro riconosciuto patriottismo: a Napoli,
Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, una taverniera legata
alla cosiddetta “camorra liberale”; mentre a Recanati vota Maria
Alinda Bonacci, una poetessa monarchica della buona borghesia.
Nelle incisioni popolari dedicate ai cortei che festeggiano
l’unificazione, le donne raffigurate sono tante, giovani, al braccio di
un uomo o tenendo un figlio per mano. Dopo il 1861, però, le cose
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cambiano. Il nuovo Stato promulga anche leggi relative all’ambito
domestico. E qui cominciano le dolenti note. L’Italia unificata è retta da una monarchia e tutta la normativa sulla famiglia ripropone più
o meno lo stesso modello: il marito è il ‘capo’ della famiglia, come
il re è il ‘capo’ della nazione. La moglie e i figli sono a lui subordinati senza differenze.
Il modello della monarchia consente di riaffermare il predominio del ruolo paterno e di rigettare qualunque richiesta di parità
venga dalle donne.
L’amor di patria ha posto le basi per la politicizzazione delle donne che però – a differenza degli uomini – nell’Italia diventata
nazione, non hanno conquistato il diritto alla cittadinanza.
È questa, la profonda differenza tra i due generi, che ha segnato a lungo la storia delle donne.
Le donne non sono considerate cittadine perché i due cardini che definiscono la cittadinanza sono la leva e il voto, ma le donne non ‘facevano il soldato’ e non potevano andare a votare.
Se poi riflettiamo al fatto che la maggior parte delle patriote
era di sentimenti democratici e repubblicani, ci rendiamo conto che
esse si sono trovate in una situazione di doppia marginalità: escluse
dalla piena cittadinanza in quanto donne e, inoltre, legate alla parte
politica che era stata sconfitta dai monarchici liberal moderati.
Tra le donne attive nel Risorgimento italiano, ci sono parecchie straniere o, comunque, con esperienze culturali europee; e sono
loro le più conosciute. Penso a Jessie White Mario, a Giorgina
Craufurd Saffi, a Sara Levi Nathan, a Cristina Trivulzio di Belgiojoso
e a tante altre. Accanto a loro una folla di popolane e di donne della
piccola e piccolissima borghesia che solo oggi stanno finalmente
riemergendo dal silenzio in cui erano state relegate. Queste donne
sono presenti a Milano e a Palermo, a Roma e a Messina, a Napoli e
a Venezia. La loro presenza è dimostrata in Puglia come in Liguria,
al di là degli steccati culturali e delle persistenze di mentalità che le
riporteranno a casa dopo il 1861.
Credo veramente che il frutto migliore delle celebrazioni di
quest’anno sia legato alla nuova attenzione dedicata alle donne
dell’Ottocento.
*Dice di sé.
Anna Maria Isastia. Le piace da sempre scavare negli archivi e restituire
l’anima a fatti e persone del passato. Le viene naturale trasmettere agli altri le sue conoscenze in modo semplice e colloquiale.
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I IO
NON TUTTI I BASTARDI SONO DI VIENNA
Dopo anni dedicati alla letteratura per ragazzi, Andrea Molesini
scrive il suo primo romanzo e conquista, inaspettatamente, il
premio Campiello. Un titolo solo all’apparenza provocatorio:
ha, infatti, la forma dell’endecasillabo e danza intorno al libro
Ilaria Ammirati* – Antonella Parmentola
N
el 1986 Alberto Ongaro, veneziano, si aggiudicò il Premio
Campiello con La partita. Quest’anno la 49ª edizione del
premio Campiello è stata vinta, dopo ben venticinque anni,
da un altro veneziano, Andrea Molesini con il suo Non tutti i bastardi sono di Vienna: 102 voti contro gli 80 della seconda classificata
Federica Manzon con Di fama e di sventura (Mondadori).
Non tutti i bastardi sono di Vienna, pubblicato dalla palermitana Sellerio (che torna a vincere il Campiello a 30 anni esatti dall’affermazione di Gesualdo Bufalino con La diceria dell’untore,
esordiente scovato allora dalla recentemente scomparsa Elvira) segna l’esordio come romanziere di Molesini, scrittore in realtà già
molto attivo nel campo della letteratura per ragazzi.
Si tratta innanzitutto di un libro di ricostruzione storica, in un
arco temporale che va dal 9 novembre del 1917 al 30 ottobre del 1918,
cioè quel periodo compreso tra la disfatta di Caporetto e l’occupazione austriaca. Siamo in un piccolo paese del trevignano, Refrontolo, a
ridosso del Piave. Protagonisti della vicenda una ricca famiglia, gli
Spada, e la propria servitù, costretti a vivere ospiti a casa propria, divenuta sede prima del comando tedesco e poi austroungarico. È perciò la storia della resistenza italiana durante la Grande Guerra: non
una resistenza armata, ma costituita, essenzialmente, da una rete volontaria di disturbo verso le azioni militari nemiche.
Non tutti i bastardi sono di Vienna, tuttavia, non è solo questo: è anche romanzo di formazione. Romanzo di odio ed amore. Di
personaggi.
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“Secondo zia tutti i libri degni di questo nome raccontano un
andare continuo che assomiglia al luccicare dell’acqua dei fiumi
(…). Non è la meta del viaggio che conta... io non leggo per sapere
come va a finire… quel luccichio che mi acceca lungo la strada, è
quello che mi piace”. Le pagine del romanzo, da cui è tratto il frammento, hanno proprio questo dono ed onestamente, al di là di premi
e riconoscimenti già assegnati e che verranno, forte è la tentazione
di centellinare le ultime cinquanta, perchè dispiace arrivare alla fine
e salutare la serva Teresa, il nonno Guglielmo, la nonna Nancy, Zia
Maria, Paolo, la sua Giulia, Don Lorenzo, Renato, che di pagina in
pagina, si sono lentamente staccati per diventare reali.
Non tutti i bastardi sono di Vienna. Come mai questa scelta, che
potrebbe in qualche modo essere fuorviante?
“Innanzitutto la forma del titolo: è un endecasillabo con l’accento sulla quinta sillaba, quindi con una piccola irregolarità che punge l’orecchio. L’orecchio italiano è molto sensibile a queste variazioni. Tant’è che ci sono dei buffi errori che mi riferiscono i miei amici
librai, quando i lettori chiedono il libro. Tra i più divertenti, una signora, per esempio, ha chiesto Tutti i bastardi sono di Dobbiaco, un altro
ha chiesto Non tutti i bugiardi sono tedeschi, e sono tutti endecasillabi per altro; insomma spostano le sillabe, ne mettono una al posto dell’altra, ma alla fine il risultato è sempre il medesimo, quindi una certa
memorabilità questo titolo l’ha conquistata. Poi non è che un titolo
debba descrivere il contenuto del libro, deve camminargli accanto:
ho una mentalità più da poeta in questo caso che da narratore. Il titolo deve danzare intorno al libro. Ovviamente, la spiegazione che
dò alla stampa, quella più semplice, è che la guerra in genere imbastardisce tutti i rapporti umani, tra soldati e civili, uomini e donne,
giovani e anziani, classi sociali diverse. Ma c’è da dire che il titolo
nacque anche un po’ per caso, come succede talvolta”.
Ma la forma dell’endecasillabo era voluta?
“Sì, perché i miei titoli sono sempre endecasillabi o settenari, facilmente ricordabili, perchè hanno una forma che rimane impressa nell’orecchio italiano, naturale per la nostra lingua”.
Se dovesse ambientare un romanzo nel tempo presente, chi sarebbero i “bastardi”?
“Bastardi sono un po’ tutti. Non sono tutti di Vienna… ce
n’è qualcuno anche a Vienna. Ovviamente il titolo può girare, Non
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tutti i bastardi sono di Roma o di Venezia… quindi si può veramente giocare. Non c’è una categoria che merita questo titolo in particolare, anche se tutti oggi pensano alla classe politica, ma poiché lo
pensano tutti credo che sia banale, perché è più facile dare la colpa
agli altri: la verità è che anche noi cittadini abbiamo molte colpe sulle quali non ci piace riflettere”.
Lo scorso 3 settembre, durante la serata di premiazione al teatro
La Fenice, Bruno Vespa aveva auspicato che fosse tratto un film
dal suo romanzo, che è invece diventato pièce teatrale per la regia di Roberto Milano. Ha partecipato alla stesura della sceneggiatura?
“No”.
Non si è preoccupato che lo spirito del testo venisse in qualche
modo rimaneggiato o tradito?
“No, perché penso che ciascuno ha il suo mestiere. Non ho seguito la sceneggiatura in alcun modo. Di fatto è un’altra opera, che
tende a calcare, anche da vicino, il mio libro. C’è un problema, ma che
attiene alla scelta dello sceneggiatore, rispettabile, anche se non la
condivido del tutto. E cioè: Non tutti i bastardi sono di Vienna è una
tragedia, ma raccontata con il modo e nei toni di una commedia. È una
tragedia intrisa di umorismo e di un tono leggero, danzante. Ora la
scelta dello sceneggiatore è stata quella di eliminare l’aspetto umoristico e di mettere in scena solo il tragico. Lavoro comunque egregio,
considerato il tempo a disposizione, ma avrei preferito mantenere la
dualità che è l’essenza vera del libro. Perché il vero incipit del libro è
Il terzo fidanzato della donna aveva i piedi troppo grandi per essere
considerato intelligente. Questo è il clima vero dentro la villa. Fuori
c’è la guerra, un clima più aulico. Però se alla dimensione tragica si
toglie il cuore ridente viene menomato lo spirito del romanzo”.
Come è riuscito a calarsi così perfettamente in un adolescente
come Paolo?
“Paolo è un diciassettenne quasi diciottenne, quindi quasi un
uomo. Bisogna tener conto che nel 1917 si era uomini prima, c’era
la guerra tutt’intorno. Era un ragazzo prossimo alla maturità, maturità raggiunta durante la narrazione; questo è anche un romanzo di
formazione. Calarmi in lui l’ho trovato naturale. Avevo bisogno di
una voce narrante che avesse il piglio del rapinatore, non il fare del
questuante, di chi affronta, spiritualmente, la vita a mano armata, ca178
pace di meravigliarsi di fronte ai personaggi che metteva in scena, di
modo che anche il lettore subisse la stessa meraviglia”.
Il romanzo ha preso spunto dal ritrovamento del diario di memorie della sua prozia Maria Spada e la stesura del libro è durata 5
anni circa. Lei ha dichiarato “ho sentito fortemente cose che non
sono riuscito a trattenere dal parlare, che premevano fortemente
dentro per essere dette. I personaggi si sono coagulati. Hanno fatto
un po’ il lavoro per conto proprio. Mi hanno aggredito. Hanno voluto essere raccontati.” Sembrerebbe quasi che scrivere sia un incubo più che un piacere! Ed è stato piacere o sofferenza?
“Le due cose insieme: un piacere sofferto, mettiamola così,
con un gioco di parole. È una fatica, è anche un po’ frustrante perché
non si è mai soddisfatti – credo che capiti a tutti gli scrittori. Valery
una volta scrisse una frase bellissima una poesia non è mai finita, ad
un certo punto viene abbandonata. Con il romanzo capita la medesima cosa, anzi di più, visto che è più lungo. Dunque non si è mai
soddisfatti, ma del resto se uno scrittore fosse pienamente soddisfatto, credo, non scriverebbe più. Si insegue una perfezione irraggiungibile. Però è certo un grande piacere, una grande fonte di gioia. Ma
c’è anche un aspetto di incubo visto che la notte ripensi a quanto
scritto. Non tutto viene subito in mente e c’è una lotta continua con
la propria soddisfazione”.
Il romanzo si apre e si chiude con la figura della serva Teresa.
Tutti i personaggi femminili (ad eccezione di Loretta, che per gelosia e stupidità, provoca un danno enorme) fanno una gran bella figura. Ha fiducia nelle donne?
“Sì, soprattutto in tempo di guerra le donne sono rocce in
mezzo alla corrente. Chiamate a una sorta di resistenza passiva che
in realtà è molto attiva. Come il mito di Penelope che soffre nella tristezza dei giorni, che spalma il suo coraggio costruendo un inganno
continuo nei confronti dei Proci. Mentre Ulisse consuma il suo dolore nell’azione, Penelope deve attendere: è la pazienza, l’arguzia, è
un’altra strategia, ma nessuno può dire chi dei due soffre di più. E
qui le donne sono delle Penelopi molto forti, sono loro che reggono
il mondo… ma questo è sempre stato nella guerra”.
Quando non c’è la guerra le donne non hanno questo potere?
“No, le donne lo hanno sempre, è evidente. Fanno i bambini, li educano… hanno un compito straordinario e per niente facile.
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Ma in guerra tutto si accentua. Anche simbolicamente il libro inizia
con questo oltraggio alle ragazze che vengono violentate, come in
ogni guerra. Perché è come dire al nemico “sei sconfitto sotto ogni
punto di vista”; il dramma più grande per un uomo, infatti, è l’umiliazione di non saper difendere suo figlio o sua moglie. Le donne,
dunque, subiscono il più grande oltraggio, ma poi reggono e costruiscono la resistenza di un popolo, ne sono il nervo. È sempre stato
così, credo. Nel libro questo aspetto è molto sottolineato. Le donne
sono il futuro di un popolo, le sue guardiane, la fonte da cui nasce la
forza”.
Ha dedicato il premio Campiello ad Elvira Sellerio, scomparsa
lo scorso anno, ed ai librai e ai bibliotecari, «che in questo momento di difficoltà hanno bisogno di sostegno». Cosa pensa degli
e-book: non teme che il libro digitale possa finire per uccidere il
libro cartaceo? E che la libera disponibilità in rete dei testi possa mettere in crisi il mondo dell’editoria letteraria come ha già
fatto con quello dell’editoria musicale?
“Non credo sia la medesima cosa. Francamente però mi
sembra così più pratico il libro, non hai bisogno di batterie, puoi
stropicciarlo, puoi farci le orecchiette, puoi sottolinearlo, puoi tenerlo in tasca, ha un odore, è fisico… sostituirlo con uno schermo che
può essere o meno retroilluminato, potrebbe risultare più pratico
quando hai un romanzo che pesa dei chili ed invece un supporto ne
pesa molto meno. Ma poi si scarica la batteria, cada a tera, si rompe…
È una cosa che non trovo pratica, uno strumento straordinario, ma non pratico. Alla fine credo che il libro come carta stampata
non morirà. Non dobbiamo spaventarci del mezzo con cui verranno
raccontate le storie: l’importante è che ci siano buone storie e grandi personaggi che calcano la scena del canto. Abbiamo bisogno di
storie, sono il cibo dell’anima”.
Cosa pensa dei premi letterari?
“Feci una battuta al Campiello: “Mi piacciono quelli che
vinco io”. Tutti diciamo che ce ne sono troppi, ma in fondo sono
una festa del libro e danno visibilità Quelli importanti sono poi lo
Strega e il Campiello. Quest’ultimo è più interessante perché ha
una duplice giuria: quella dei letterati che fa una prima selezione e
quella popolare di lettori, anonima, che in qualche modo corregge
il giudizio dei letterati. Inutile essere ipocriti: sappiamo che i giu180
rati dei premi letterari subiscono molte pressioni, hanno tutti in
cassetto un libro da pubblicare e nessuno vuole inimicarsi la casa
editrice che quel libro potrebbe pubblicare. Campiello, infatti, grazie alla giuria popolare spesso lo vince uno scrittore inaspettato,
che spariglia i conti”.
Su Wikipedia Andrea Molesini ancora non “esiste”. Intanto
però esiste la voce Non tutti i bastardi sono di Vienna. Trovo sia
una soddisfazione. Non crede?
“Su Wikipedia oramai si trova tutto, che non ci sia io non è
un problema, non è questa una misura del valore delle cose, tanto
meno degli uomini. È un’enciclopedia un po’ casuale, diciamo così,
una fonte comunque di informazioni utili”.
Lei è anche traduttore di opere di poesia americana. Nel 2008 ha
vinto il Premio Monselice per la traduzione letteraria. Il suo romanzo, nella prima edizione straniera, in lingua spagnola, è diventato “Entre Enemigos”, un titolo ben diverso. Condivide l’antica accusa “Traduttore – traditore”, oppure pensa, con Walter
Benjamin, che l’opera della traduzione è possibile in quanto ogni
lingua particolare si richiama, in fondo, ad una “lingua paradisiaca” in cui è radicata ogni espressività linguistica?
“Quello del traduttore è un lavoro molto ingrato, non gli viene mai riconosciuto alcun merito, ma che in realtà è fondamentale,
perché poi dal traduttore dipende la personalità del libro. Un lavoro
difficile, quasi impossibile, direi, perché è difficile tradurre: cioè nel
tradere, nel consegnare al nuovo lettore la traduzione è inevitabile
che ci siano dei tradimenti.
Ho smesso di fare il traduttore perché mi rattristava vedere
che il testo originale era, comunque, più bello del mio. Alla fine è
ovvio che è sempre così. Oserei dire che la poesia è intraducibile,
ma bisogna tradurla. Lavoro molto frustrante, ma allo stesso tempo
molto bello. Pound una volta disse ai giovani poeti: “quando la vostra ispirazione vacilla, traducete”. Trovo che questo sia un grande
insegnamento, perché la traduzione è un modo per affinare i propri
mezzi linguistici e scoprire nuove forme espressive nella propria lingua, senza, tuttavia, dire cretinate perché di fatto si utilizza l’ispirazione di un altro”.
A proposito di Pound, ha dichiarato che “da bambino vedevo passeggiare, alto e irraggiungibile, Ezra Pound”. È stato questo sen181
timento vissuto da piccolo a portarla a curare le traduzioni delle sue poesie?
“Mi sono piaciuti alcuni aspetti delle sue poesie, molto strani, per la verità. Le sue sono poesie a volte anche inutilmente difficili, infarcite di citazioni, ma per questo molto interessanti perché rispecchiano bene la grande confusione dell’anima moderna, che è
poi la nostra. Non c’è più un sistema di riferimenti filosofici, teologici, e anche morali netti e chiari. È una grande macedonia, in tutti i
sensi, e con questa macedonia dobbiamo vivere, non c’è niente da
fare”.
È ben nota la solidarietà di Pound al fascismo, solidarietà che gli
procurò un’incriminazione per tradimento da parte del
Governo americano e poi la prigionia. Che rapporto ha con questo aspetto controverso della personalità umana ed intellettuale
di Pound?
“Ho sempre pensato questo: esistono uomini straordinari che
hanno idee terribili, stupide. Il problema è che siamo tutti ad un tempo intelligenti e stupidi. E l’intelligenza è molto limitata. Magari un
grande poeta non capisce niente di matematica o di politica.
Pound riteneva che il Duce fosse un grande statista. È sorprendente come un uomo così intelligente, con i suoi mezzi conoscitivi potesse fare questa considerazione. Forse Mussolini era un leader dotato, ma non un grande statista visto dove ci ha portato, leggi
marziali prima e sconfitta materiale dopo. Si condanna da sé. Quindi
che Pound lo potesse stimare è qualcosa che francamente mi sorprende; ma come dicevo la stupidità non ha confini e tocca tutti.
Anche un genio può avere grandi zone d’ombra. Non è giusto, tuttavia, giudicare un uomo solo dalle sue pecche. C’è una poesia di
Lowe – grande poeta – su Pound che mette in bocca a Pound questa
frase: “quando dicevo quelle cazzate sugli ebrei a Radio Roma, Olga
(la sua amante n.d.r.) sapeva che era tutta merda eppure mi amava”.
La trovo bellissima per spiegare tutto questo”.
In occasione dell’arresto, Pound disse: «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non
valgono nulla o non vale niente lui». Lei è docente di letterature comparate all’università di Padova, e quindi è a contatto
con le giovani generazioni. Pensa che oggi ci sia ancora qualcuno pronto ad abbracciare fino in fondo le proprie convinzioni o
pensa che la caduta delle ideologie abbia determinato uno
182
spaesamento storico ed esistenziale, sia negli intellettuali sia
nei giovani?
“Senz’altro c’è più confusione, c’è più cinismo, nessuno crede in niente e nessuno vuole rischiare. Questo però è molto italiano
come atteggiamento: gli italiani fanno la rivoluzione solo se i carabinieri sono d’accordo. Non siamo un popolo vocato al coraggio,
siamo educati sin da piccoli a fare compromessi e questo è molto
grave. Ma non voglio generalizzare, per fortuna siamo tutti individui
singoli. Credo che nasceranno sempre uomini disposti a rischiare
tutto per le loro idee. Nel caso di Pound, c’è da dire che le sue idee
erano davvero pessime e mi dispiace che si sia sentito in dovere di
patire per delle idee indifendibili oggettivamente”.
Accennava alla scrittura di libri per ragazzi: nel 1990 ha vinto il
Premio Andersen per il libro “Quando ai veneziani crebbe la
coda” e nel 1999 il Premio Andersen alla carriera. Poi ha smesso
di scrivere questo tipo di letteratura. Come mai questa brusca
interruzione?
“C’è una motivazione specifica. Mentre scrivevo nel 1999 la
mia ultima fiaba, Aquila spenta pubblicata da Mondadori, come tutti i miei libri per ragazzi, mi accorsi che in qualche modo cominciavo a ripetermi. Fu come una sensazione, non che nella realtà la fiaba fosse ripetitiva. Ma quell’impeto interiore che mi costringeva a
scrivere stava venendo meno. Così, visto che ho scritto qualche libro
che considero bello, mi sono detto perché scrivere cose mediocri?
Dunque meglio smettere”.
“Io trovo i miei versi intingendo il calamaio nel cielo”. Sono bellissimi versi di Alda Merini. Qual è il suo calamaio?
“Assolutamente non il cielo, anzi direi l’opposto, la terra e la
realtà. Amo la res, la concretezza assoluta della vita. Trovo che la
realtà abbia un’immaginazione straordinaria e dobbiamo leggerla in
modo immaginativo. Bisognerebbe bandire l’astrazione dai nostri libri: più si è concreti, più si rischia di dire cose interessanti, anche
senza esserne consapevoli”.
Richiamandosi al secondo monologo dell’Amleto, ha detto che
nell’uomo “c’è una tensione tra la polvere della strada e la scintilla divina che c’è in tutti noi. Noi aspiriamo a qualcosa che è più di
noi, lì aspiriamo e poi ci ritroviamo con il culo per terra. In questa
tensione c’è tutto il noi essere uomini. Questa tensione la narrati183
va è chiamata ad onorare”. Come la onorerà nel futuro prossimo,
quali sono i suoi progetti?
“Sto scrivendo, un po’ a fatica, un nuovo romanzo. Scrivere
un bel libro – possibilmente più bello di quest’ultimo -, un libro intenso e vivo, questo è il mio progetto”.
B E L PA E S E
*Dice di sé.
Ilaria Ammirati. Trentottenne romana è mamma di tre bambine, la sua rivincita alla condizione di figlia unica. Ama i cani ed il cinema, che definisce il posto più bello del mondo. Insieme a Stromboli, l’isola del cuore. Ha
il sogno di scrivere una sceneggiatura e di firmala Lapilla.
Il mito veneziano, Enrica Roddolo
BATTISTA MONDIN
C’è una fede che si arricchisce dei concetti della ragione e c’è
una ragione che si arricchisce dei doni della fede.
(Da “Storia della metafisica”, vol. 2, 1998)
184
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SBOEM
LM
P AAERSIEO
IL MITO VENEZIANO
Venezia è la città sull’acqua che da secoli strega viaggiatori, intellettuali, poeti, romanzieri, musicisti. L’autrice, in questo personale viaggio letterario che tanto assomiglia ad un romanzo,
conduce il lettore alla scoperta della Serenissima attraverso pagine che uniscono racconto storico, architettonico e letterario
Enrica Roddolo*
Così Gloria conquistò Calvino7
Quel 1954 compare però in Laguna un mito, seppur stagionato, del cinema a stelle e strisce. È Gloria Swanson, che sfolgora
«il bianco dei suoi quadrati denti aggressivi e dei tondi bulbi degli
occhi attorno alle iridi d’acciaio, piena di forza e allegria in quella
bruna pesante carne di veterana. Ecco il cinema, questa infinita potenza e vitalità che la gente confusamente cercava in quest’atrio era
lei, Gloria Swanson, la progenitrice, venuta dalla favolosa età dell’oro di Hollywood fin qui», scrive Italo Calvino, cronista d’eccezione per la serata inaugurale della quindicesima edizione.
Già, il cinema in quegli anni parla americano. E non senza
polemiche.
«il Festival di Venezia è un mezzo festival, un festival dimezzato, come il Visconte del racconto di Calvino», sostiene il critico de «l’Unità», Tommaso Chiaretti, già un paio d’anni prima. «Noi
vorremmo assistere a qualcosa che fosse una Olimpiade del Cinema,
un incontro di fraternità dove Pudovkin possa stringere la mano a
Chaplin e Ciaureli possa discutere con John Ford. Oggi a Venezia
questo non è possibile, e ce ne dispiace». Non è possibile perché c’è
il vento gelido della Guerra Fredda che ferma alla frontiera le pellicole provenienti dai Paesi sovietici.
7) Pubblichiamo per gentile concessione dell'autrice uno stralcio da “Il mito veneziano. Una
città magica che si legge come un romanzo”, di Enrica Roddolo, Vallardi Editore, 2011.
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Venezia, sui cartelloni che invitano ad assistere alla rassegna, si fa vanto dell’apertura a tutte le nazioni del mondo, ma è un
mondo davvero dimezzato, per metà congelato nel frigidaire dell’equilibrio del terrore. Così vuole che sia la Democrazia Cristiana, che
in quegli anni veglia sulla Mostra. E, se a «l’Unità» non piace la politica del governo democristiano, senza esclusione di questa manifestazione cinematografica – mondana autorizzata, potenziata e protetta proprio dal governo, è innegabile che anche negli anni Cinquanta,
come già nei Quaranta, i talenti cinematografici in Laguna rappresentino solo una porzione dell’arte cinematografica mondiale.
Neppure con gli amici americani i rapporti saranno sempre
idilliaci. Nel 1956, la potente Mpaa (Associazione dei produttori
hollywoodiani) non tollera la sfrontatezza di Venezia che pretende,
da quell’anno in poi, di scegliere i film in concorso. Si tratta della
riforma al regolamento voluta dal nuovo direttore Floris Luigi
Ammannati che, appena insediato, dichiara: «Non accetteremo più
la partecipazione per Nazioni, ma quella per film: e questi film vogliamo sceglierli noi». Per tutta risposta Hollywood manda a dire
che per nessun motivo al mondo accetterà simili condizioni: in fondo perché Venezia non può fare come Cannes? O come si è sempre
fatto a Venezia, prima di allora? Così, niente da fare, in quell’edizione, per il «film dell’anno 1956», come lo aveva definito la critica del
londinese «The Times», ovvero Moby Dick. Film di produzione inglese ma di distribuzione americana (Warner Bros), che Venezia
avrebbe voluto proiettare sugli schemi del Lido ma che non sfugge
al veto della Mpaa.
Mentre Venezia cresce, si acuisce anche il duello con l’altro
festival, quello di Cannes, sulla Croisette. Mi spiegò il grande regista
italiano Ermanno Olmi, mentre cercavo di andare alle origini della
Mostra del Cinema veneziana, che per capire il duello infinito tra
Venezia e Cannes è il caso di guardare a Parigi, alla Ville Lumière.
Basta insomma pensare a come questa città riesca ad attratte i turisti,
l’attenzione, la curiosità e il desiderio dei visitatori che ogni anno, instancabilmente, fanno rotta sulla capitale adagiata sulla Senna:
«Perché i francesi hanno il gusto dello spettacolo, della grandeur…
un retaggio dei fasti di Versailles, del Re Sole e anzi della precedente
stagione fiorentina con Maria de’ Medici alla corte d’Oltralpe. Senza
contare che, a differenza del Lido, la Costa Azzurra vive tutto l’anno».
Aggiunse poi: «A fare la differenza tra Venezia e Cannes c’è anche o
soprattutto il senso dello scambio, del commercio che permea sin dalla sua prima edizione il Festival di Cannes: un festival che non si è
187
mai arroccato in alto su una torre, sdegnando il mercato e le sue esigenze, ma al contrario è sempre stato molto attento al suo aspetto
commerciale. E mi dispiace anche parecchio che a trionfare nei nostri
festival sia sempre il contrasto politico e non , come dovrebbe, il valore autentico del cinema. Del ricordo in cui sono stato consigliere
della Biennale ricordo anche la poca fiducia che ci caratterizza in
quanto italiani, e la scarsa considerazione che nutriamo per il nostro
lavoro, che si traduce in un’incapacità di vendere al meglio quel che
realizziamo: restiamo dei pessimi venditori di noi stessi e del nostro
lavoro, e neppure ci siamo mai posti il problema di come promuoverci al meglio. In fondo, perché stupirsene? È la stessa incapacità che
abbiamo avuto per anni di capire e valorizzare il nostro straordinario
patrimonio artistico: solo adesso, da qualche anno a questa parte, ci
sono uomini politici che finalmente hanno capito l’importanza di valorizzare le città d’arte, le mostre d’arte… se un giorno capiremo anche l’esigenza di valorizzare il paesaggio italiano allora avremo la
chiave di volta per cambiare».
La forza di Venezia nel mondo del cinema, a confronto di
Cannes, ha provato a spiegarmela anche Gian Luigi Rondi, oggi anima del David di Donatello e nel 1973 direttore della Mostra del
Cinema, che a metà degli anni Novanta sarebbe diventato anche presidente della Biennale. «Sono stato più volte in giuria al Festival di
Cannes, e a Cannes la regola aurea è: si premia con la Palma d’oro
un film che avrà anche un grande successo di pubblico. Il Gran
Premio della Giuria va invece, in genere, a un film di ricerca linguistica. Seguendo una metodologia che durante la mia presidenza veneziana ho cercato di ricalcare. Perché a Venezia si rimproverava
spesso di dare il Leone d’oro a un film coreano, a un film destinato
insomma a non avere un particolare successo di pubblico e, anzi, che
magari non sarebbe neppure uscito nelle sale… Allora pensai: assegniamo anche al Lido il Gran Premio della Giuria a un film di ricerca e il Leone d’oro a un film destinato a incontrare il favore del pubblico. Nonostante ciò, è vero che Cannes rivaleggia con Venezia e
spesso le ruba la scena. Ma va anche detti che Venezia ha dalla sua
la forza del cinema d’autore. Non a caso, guardando il Palazzo del
Cinema al Lido ho sempre pensato: ecco, sul Palazzo del Cinema
sventolano le bandiere dei Paesi in gara, ma idealmente ci sono le
bandiere dei singoli autori».
Ancora, è sul grande schermo di Venezia che il mondo ha scoperto il neorealismo. «E il neorealismo non solo fece conoscere nel
mondo un’Italia diversa (non retorica, non legata al passato, non lega188
ta al Paese di grandi memorie bensì a un presente drammatico), ma
fece molto di più. Perché il neorealismo non ha comportato soltanto
una rivoluzione di contenuti, bensì di linguaggio», come mi ha spiegato il regista Carlo Lizzani, straordinario testimone della grande storia
del ciak italiano nel dopoguerra. «Anzi, direi proprio che è stata quasi
più importante la rivoluzione di linguaggio, del linguaggio attraverso
il quale questi contenuti sarebbero stati comunicati al mondo».
E mentre il mappamondo s’innamorava dell’Italia di celluloide, i vecchi spazi al Lido non bastavano ormai più. Anche Felice
Laudadio, autore, regista e in una parola uomo di cinema a 360 gradi, provò a rilanciare Venezia e il suo cinema. «Avevo capito (non
era difficile in fondo) che per rilanciare Venezia e il suo festival gli
spazi ristretti e obsoleti del Lido non potevano bastare, ne avevo
parlato con (Walter, ndr) Veltroni, e prima ancora con un mio amico
di vecchia data, Rodolfo Molo, viscerale amante di cinema… Così
una sera a cena, a Roma, provammo insieme a pensare cosa si potesse fare per far uscire la Mostra del ghetto del Lido, un ghetto che ne
fa l’eterna seconda dopo Cannes e ormai dopo Berlino. Si poteva costruire un’altra sala, tanto per cominciare. Ma con quali fondi?
Molo, patron della Sisal, entusiasta del progetto, mise sul piatto 4
miliardi di vecchie lire, mentre al resto, fino a 2 miliardi di lire,
avrebbe contribuito il governo…». Ma poi non fu così facile concretizzare il piano. Laudadio non si perse d’animo. «Nel 1998, per
esempio, mancavano all’appello moltissime stanze, 350 circa, per
ospitare delegazioni di produzioni cinematografiche straniere.
Allora, disperato, mi rivolsi a una compagnia di navigazione proponendo all’armatore di mettere a disposizione della Mostra una nave.
La disponibilità fu data, l’accordo ormai prossimo alla firma quando
(eravamo ormai a pochi giorni dall’inaugurazione del festival) arrivò una telefonata anonima con la quale si minacciava di dar fuoco
alla nave se questa avesse ospitato le delegazioni a Venezia per la
Mostra. E poco dopo, sorpresa, arrivò dagli albergatori veneziani la
disponibilità a mettere a disposizione le camere che mancavano all’appello. D’improvviso, le 350 stanze che servivano c’erano tutte…
Ho il presentimento che un giorno Venezia morirà per avidità».
*Dice di sé.
Enrica Roddolo. Giornalista e scrittrice, vive e lavora a Milano.
Caposervzio del settimanale il Mondo, è contributor anche di diverse testate del gruppo Rizzoli Corriere della Sera.
189
NUOVE TECNOLOGIE
EMANUELE SEVERINO
Non è innata la fede, perché, se fosse innata, non ci sarebbe
bisogno della grazia del messaggio di Dio. Quindi è non innata,
è storica, viene dal di fuori. Se si parla dell’innatezza della fede,
si distrugge la soprannaturalità – o meglio si distrugge quella soprannaturalità – che per il Cattolicesimo è essenziale alla fede.
(Da “La fede e il problema della verità”, 1999)
La città del futuro
190
191
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SMART GRIDS LE RETI ELETTRICHE
INTELLIGENTI ACCENDONO LA CITTÀ
DEL FUTURO
C
on eolico e solare i clienti Enel diventano anche produttori,
case e centri urbani cambieranno volto
Il nome è inglese, Smart Grids. Ma c’è molto di italiano nelle reti elettriche intelligenti che rivoluzioneranno il nostro modo di
vivere in città, in casa e la nostra viabilità.
In un mondo che ha raggiunto i sette miliardi di abitanti, tutela dell’ambiente e gestione oculata delle risorse energetiche sono
ormai priorità assolute.
Fondamentale è, e sarà sempre di più, la crescita dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, che, secondo alcune stime, nel 2050 in
Europa dovrebbero coprire il 50% della produzione totale. Già oggi
sono in costante aumento i nuovi impianti di generazione piccoli e
grandi che producono energia pulita sfruttando anche il sole o il vento. Ma questo inevitabilmente costringe a ripensare il funzionamento delle reti elettriche. Non più imperniate su poche grandi centrali
che riforniscono città e imprese, ma ridisegnate su un numero elevato e sempre crescente di piccoli impianti disseminati sul territorio. Il
futuro, insomma, sarà caratterizzato dalla presenza di consumatori
che saranno al tempo stesso anche produttori. Gestire efficacemente
questa novità, con la necessaria flessibilità dettata dall’incostanza
della produzione di energia elettrica da fonti quali il sole e il vento,
dipendenti dalle condizioni meteorologiche e dall’alternanza giornonotte, è la vera grande sfida delle reti intelligenti.
Una sfida che vede comunque l’Italia all’avanguardia nel
mondo grazie ad Enel. I 36 milioni di contatori elettronici installati
nel nostro Paese, infatti, rappresentano il tassello fondamentale su
cui costruire le nuove infrastrutture intelligenti basate sulle smart
grids. Ed è su questo tassello che Enel è partner di Genova e Bari,
candidate a diventare Smart Cities europee, ovvero “città intelligen-
192
ti”, mentre a Malaga in Spagna, dove Enel è presente con Endesa, e
a Buzios in Brasile con la divisione di Enel in Sudamerica, stanno
nascendo i primi ”pilot test” per la rivoluzione delle reti. Con l’obiettivo di creare le condizioni per garantire la massima efficienza
energetica degli edifici, migliorare e razionalizzare l’illuminazione
pubblica, far decollare reti energetiche e sistemi di trasporto a basse
emissioni di CO2 e ridurre così le emissioni di gas e l’effetto serra
attraverso un uso razionale delle fonti rinnovabili. Fino a sviluppare
completamente le potenzialità della nuova rete elettrica sia all’interno delle abitazioni, con l’avvento della domotica e delle “case intelligenti”, sia nella viabilità, con la diffusione delle auto elettriche, comodamente ricaricabili da casa, con la home station, o in strada grazie alle public station che via via verranno installate.
Attraverso le smart grids dunque, la distribuzione dell’energia sarà in primo luogo più efficiente. I flussi di elettricità potranno
essere bidirezionali consentendo al cliente di consumare secondo le
sue necessità, ma anche di immettere nella rete l’energia prodotta.
Serviranno così tecnologie digitali adeguate per raccogliere e gestire le informazioni necessarie a controllare i flussi di corrente e a
convogliare l’energia a seconda delle esigenze del momento.
Una rivoluzione con al centro il cliente stesso: destinato a diventare sempre più protagonista nel duplice ruolo di consumatore e
produttore e investito anche da una responsabilità maggiore, nella
consapevolezza che grazie ad un uso razionale dell’energia elettrica,
attraverso ad esempio comportamenti che spostino i consumi nelle
fasce orarie a prezzo più basso, anche l’impatto ambientale potrà essere ridotto al minimo.
Ma le reti intelligenti serviranno anche a migliorare la qualità complessiva del servizio, a ridurre i tempi di gestione delle richieste della clientela e ad ottimizzare il controllo dei flussi di energia in qualunque momento.
L’impegno di Enel in questo campo è proporzionato alle dimensioni della sfida. In ambito europeo, attraverso Enel
Distribuzione, coordina Address, uno dei progetti europei del settore. Fa parte inoltre dell’Advisory Council della Technology Platform
Smart Grids, la piattaforma tecnologica nata con l’obiettivo di creare una visione condivisa delle reti europee per il 2020 e gli anni a venire. E sempre con l’obiettivo di creare partnership di eccellenza a
livello europeo Enel ha fondato insieme ad altri 10 grandi distributori elettrici Edso for Smart Grids, un’associazione senza scopo di
lucro destinata a gestire i progetti pilota per la sperimentazione del193
le reti intelligenti e a studiare e analizzare i risultati delle soluzioni
tecnologiche più innovative.
Il ruolo chiave del contatore elettronico
La chiave del futuro? Gli italiani l’hanno già in casa. È il
contatore elettronico di Enel. Se oggi il nostro Paese è all’avanguardia nel dibattito sulla realizzazione delle smart grids, il merito è proprio del contatore intelligente. Uno strumento su cui Enel ha puntato con decisione già dieci anni fa con un investimento totale di 2,1
miliardi di euro e che oggi consente al nostro Paese di essere largamente in anticipo rispetto alla scadenza fissata dalle Autorità in ambito europeo. Scadenza che impone una diffusione dei nuovi contatori dell’80% entro il 2020: già dal 2006 infatti in Italia la diffusione è al 99%, con 32 milioni di contatori elettronici installati da Enel
Distribuzione e altri 4 milioni forniti ad altre aziende distributrici.
Senza contare i 13 milioni di contatori elettronici in fase di installazione in Spagna e un ulteriore milione fornito da Enel ad altre utilities europee.
Ma perché è così importante? Garantendo la massima trasparenza, consente in qualsiasi momento di monitorare i consumi,
comunica a distanza i dati relativi alla lettura e gestisce, sempre a distanza, qualunque operazione contrattuale del cliente, evitando tra
l’altro, una dispersione nell’atmosfera di 30 mila tonnellate di CO2
all’anno. Ma soprattutto, con l’infrastruttura di Telegestione, è il pilastro su cui poggeranno le smart grids, le reti intelligenti.
S O C R AT E 2 0 0 0
RITORNO AL MERITO
IL MOVIMENTO DI CHI SI BATTE
PER IL RITORNO AL MERITO.
LE PARTECIPAZIONI E LE COLLABORAZIONI
AL SITO SONO LIBERE PER TUTTI COLORO
CHE CREDONO NELL’INDISPENSABILITÀ
DELLA MERITOCRAZIA
I NOSTRI INDIRIZZI:
Via Marcello Prestinari, 13
00195 Roma
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RITORNO AL MERITO
L’APOLOGIA DI SOCRATE
Q
ui di seguito pubblichiamo i capitoli XXXII e XIII da
L’apologia di Socrate: opera giovanile di Platone, scritta tra
il 399 e il 388 a.C., è considerata la fonte più attendibile sul
processo a Socrate.
Il processo si svolse ad Atene nella primavera del 399 a.C.;
Socrate fu accusato di empietà e di aver corrotto i giovani, ma in
realtà fu immolato alla ragion di Stato. I democratici speravano di ridurlo al silenzio e, magari, di spedirlo in esilio, com’era capitato
qualche anno prima a Protagora e ad Anassagora.
Platone, suo discepolo, volle illustrare l’autodifesa del maestro, rivivendola e ripensandola in una forma poetica e drammatica,
che assunse la forma letteraria che oggi conosciamo e che a tutti è
nota come L’apologia di Socrate.
Platone
XXXII – La morte è in ogni caso e per chiunque un bene
Cerchiamo anche per altra via di vedere come c’è molto da
sperare che la morte sia un bene.
Morire infatti è una delle due cose: o è un precipitare nel
nulla, per cui il morto non ha più sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione dell’anima da
questo luogo ad un altro.
Se è un precipitare nel nulla e un cessare di ogni sensazione,
quasi come un sonno in cui nulla si vede, neppure il sogno, gran
guadagno allora è la morte. Se si considera infatti una di quelle notti in cui si è dormito profondamente senza nulla vedere, neanche lo
stesso sogno, e si raffronta alle altre notti e giorni della propria vita
e si dovesse decidere, dopo aver riflettuto, per stabilire quante notti
196
e giorni si sono vissuti meglio e più dolcemente di quella, immagino che non solo l’uomo comune, ma lo stesso grande Re in persona,
troverebbe queste ben poco numerose rispetto alle altre.
Se tale dunque è la morte, gran guadagno essa è, perché allora l’infinito tempo è una sola e unica notte.
Se poi la morte è una trasmigrazione da qui ad altro luogo,
ed è vero quel che si dice, cioè che là dimorano tutti i morti, qual
bene, o giudici, potremmo noi allora aspettarci maggiore di questo?
Se, giungendo nell’Ade, dopo esserci liberati da questi qua che si
danno il nome di giudici, si troveranno i veri giudici, quelli che anche là giudicano, Minosse, Radamànto, Eaco e Trittolèmo e tutti gli
altri semidei che in vita furono giusti, sarebbe forse da disprezzare
tale trasmigrazione? O al contrario, non sarebbe essa di tal valore da
pagare qualsiasi prezzo pur di potere conversare con Musèo, Orfeo,
Esiodo e Omero?
Quanto a me, se tali cose sono vere, preferirei morire mille
volte. Oh! quale meravigliosa conversazione sarebbe la mia quando
mi imbattessi in Palamede e Aiace il telamonio e in qualche altro dei
tempi antichi morto per ingiusto giudizio! Raffronterei la mia sorte
alla loro; e ciò penso sarebbe per me motivo di dolcezza. E soprattutto amerei trascorrere il tempo ad esaminare ed interrogare quelli di là,
come sono solito esaminare questi di qua, per scoprire chi di loro è sapiente e chi invece crede di esserlo e non lo è affatto. Quanto, infatti,
non pagherebbe ciascuno di voi, o giudici, per interrogare colui che
guidò l’esercito contro Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e
donne che potrei nominare? Quale inesprimibile beatitudine sarebbe
parlare con loro, vivere in loro compagnia, esaminarli! Non avverrebbe di certo, a causa di codesto esame, che quelli di là mi uccidessero,
poiché oltre ad essere per molte ragioni più felici di noi, sono ormai
immortali per tutto il restante tempo, se è vero ciò che si dice.
XXXIII – L’uomo giusto non ha nulla a temere dalla morte
E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere
nulla di male, nè da vivo nè da morto, e che gli Dei si prenderanno
cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così
per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie
del mondo era per me il meglio.
Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io
non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e
197
con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E
in questo essi sono da biasimare. Tuttavia io li prego ancora di questo: quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato voi se vi sembrano avere più cura
del denaro o d’altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di essere qualche cosa senza valere nulla, svergognateli come ho fatto io
con voi per ciò che non curano quello che conviene curare e credono di valere quando non valgono nulla.
Se farete ciò, avremo avuto da voi ciò che era giusto avere,
io e i miei figli.
Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a
vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che
a Dio.
COSTUME
JAKE LA MOTTA
Eravamo così poveri che a Natale il mio vecchio usciva di casa,
sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa
e diceva: spiacente ma Babbo Natale si è suicidato.
198
A dangerous method, locandina film
199
SCOOMSM
TU
AM
R IEO
NON HO MAI CONSIDERATO
LA PSICOANALISI UNA SCIENZA
Nel film A dangerous method, tratto dall’omonimo romanzo di
John Kerr, Sigmund Freud e Gustav Jung perdono quell’alone
di intoccabili con cui la storia li ha sempre trattati, mostrandosi
per quello che erano in realtà, due uomini come tutti gli altri,
scossi da passioni e rivalità
Domenico Mazzullo*
o visto il film di David Cronenberg A dangerous method il
giorno stesso in cui è uscito in programmazione nelle sale
cinematografiche. Mi sembrava un obbligo, un tributo doveroso al regista che così coraggiosamente, o imprudentemente,
si è addentrato nel terreno scottante dei due “padri della psicoanalisi”, o meglio del “padre” e del “figlio”, che come in ogni buona famiglia, in questo caso quella della psicoanalisi, si ribella al
padre che vuole esercitare ancora la sua autorità e il suo potere su
di lui, e rompe con lui i rapporti, si oppone a lui, per percorrere
una sua strada autonoma, o forse per definire la sua personalità,
per proclamare la sua indipendenza e autonomia.
Nihil sub sole novi dicevano gli antichi e anche in questo
caso si dimostra quanto avessero ragione e quanto avessero compreso, molto prima della psicoanalisi, la natura umana, le sue debolezze, le sue dinamiche interiori e la forza delle passioni al di
là ed al di sopra di ogni ragionamento, in termini di rapporti padre-figlio e anche naturalmente uomo-donna.
Ho visto, dicevo, il film il giorno stesso in cui è uscito e al
termine di questo, a chi mi ha chiesto un parere e se mi fosse piaciuto, ho risposto, senza troppo pensare, un “no” secco, deciso,
sicuro, inappellabile, immediato e non frutto di riflessione o elaborazione, e precisando che il film mi appariva ben fatto, con
somma cura dei particolari, della ambientazione, dei costumi,
H
200
dell’arredamento, ma privo o scarsamente dotato di contenuto,
freddo, didascalico, distaccato, senza anima; in ultima analisi,
una bella cornice, ricca, elegante, prestigiosa, ma mancante di un
quadro adeguato ed alla altezza della preziosità della cornice.
Confesso che non sarei più tornato sul film, archiviandolo
nella memoria tra quelli visti, ma dei quali non serbare traccia oltre un certo tempo ed un certo spazio, per non ingombrare un
contenitore mnestico, non infinito e già sufficientemente affollato, per non sottrarre luogo necessario ad altri film più importanti
e da rammentare invece per sempre. Confesso che se non fosse
stato per questo articolo richiestomi, certamente questo sfortunato film sarebbe stato traghettato rapidamente nel territorio inesplorato dell’oblio della mente e lì vi sarebbe rimasto per sempre,
ma la richiesta di scrivere su esso, mi ha obbligato, visto il mio
senso del dovere, a rivederlo altre due volte, per ben esaminarlo,
per coglierne dei significati che alla prima visione mi fossero
sfuggiti, per modificare eventualmente il mio giudizio, per ravvedermi, se fosse stato necessario e conseguentemente pentirmi.
Nel frattempo, sempre per quell’innato senso del dovere di cui
sopra, ho acquistato in libreria e letto tutto d’un fiato il libro –
edito per i Tipi della casa editrice Frassinelli, da cui il film è stato tratto, scritto dallo psicologo clinico statunitense di New York
John Kerr ed intitolato in originale A Most Dangerous Method,
tradotto con il titolo italiano di Un metodo molto pericoloso, libro
che uscì nel nostro paese già nel lontano 1996, ma al quale il pubblico non dedicò molta attenzione, ed edito una seconda volta
adesso, sulla scia della versione cinematografica, come testimonia il richiamo evidente in copertina, con un’immagine emblematica del film.
Con molta sincerità auguro al libro miglior sorte di quanta ne ha avuta in precedenza, perché è un lavoro molto pregevole, accuratissimo, molto documentato ed attendibile, riguardante
una vicenda reale di cui solo da poco tempo abbiamo preso conoscenza, ma anche un’epoca storica, un rapporto umano, una rivalità, anch’essa molto umana, un ambiente scientifico, un clima
culturale, una costruzione intellettuale, che avrebbe avuto risvolti imprevedibili, che avrebbe influenzato la cultura, la letteratura,
il costume, l’educazione, il modo di pensare, il comune sentire, il
cinema e il teatro, i rapporti umani, i codici morali, i comporta201
menti etici, non solo al presente, ma anche anzi soprattutto nel futuro e nel cui influsso e influenza ancora siamo pienamente immersi e sommersi, anche a tanti anni di distanza e soprattutto in
un ambito scientifico le cui acquisizioni avrebbero dovuto sopravanzare e mettere in crisi quanto era stato proposto ed accettato
come scienza.
Mi riferisco ovviamente alla psicoanalisi, al metodo psicoanalitico molto opportunamente definito, nel libro e nel film
“un metodo molto pericoloso”, ma forse il termine “pericoloso” è
usato, in entrambi, con un’intenzionalità e in un’accezione ben
diversa da quella in cui la intendo io. Ma non voglio anticipare i
tempi.
Il libro di John Kerr, si legge come un romanzo, un romanzo storico che si svolge nei primi anni del 1900 tra la Vienna
di Sigmund Freud e la Zurigo di Karl Gustav Jung ed ha come
protagonisti maschili i due padri della psicoanalisi, o meglio
come dicevo avanti, il padre ed il figlio prima prediletto e scelto
dal padre come suo successore, il quale figlio quando raggiunge
la maggiore età si ribella al padre, ne contesta le idee e sceglie di
percorrere una sua strada autonoma e solitaria, perpetuando quello che dal padre fu visto, letto ed interpretato come un tradimento.
In mezzo a questi due protagonisti maschili a completare
i tre vertici di un triangolo classico e, mi si consenta, scontato
nella sua essenza ed esistenza, una donna, una giovanissima donna russa, ebrea russa, affascinante quanto enigmatica, Sabina
Spielrein, prima paziente di Jung, poi quasi inavvertitamente scivolata nel ruolo di sua amante e poi, dopo il rifiuto e ripudio di
questi, divenuta paziente di Sigmund Freud, (anche amante?
Forse. Non è dato saperlo, ma plausibile ipotesi visto il costume
regnante in quel periodo e non solo, negli ambienti psicoanalitici
e l’attenzione di Freud verso le giovani pazienti.).
Sabina Spielrein fu testimone quindi della rottura drastica,
ineludibile, inappellabile, inevitabile, aggiungerei io, tra il maestro Sigmund Freud e il suo allievo prediletto, di grandi speranze,
figlio spirituale del primo e suo erede in pectore, destinato a proseguire la strada tracciata dal padre-maestro e invece transfuga,
traditore irriconoscente e irriverente, così fu considerato da chi si
ritenne vittima del tradimento, oppure autonomo scopritore di
202
una nuova via, da percorrere in libertà e coerenza interiore, secondo chi ne fu artefice e i suoi seguaci.
Sabina Spielrein fu testimone di questo dissidio incolmabile, di questa frattura, di questa lacerazione dell’ideologia psicoanalitica da poco nata. Solamente testimone? O anche causa inconsapevole, involontaria responsabile?
Non è dato saperlo, ma è giusto ed opportuno, a mio parere sospettarlo ed ipotizzarlo alla luce delle debolezze e delle miserie inconfutabili dell’animo umano, delle umane meschinità,
delle umane rivalità, che consapevoli della loro umile natura,
amano ammantarsi di paludamenti ideologici, nobili e rispettabili, sussiegosi e altisonanti, per coprire, per nascondere le proprie
nudità, le proprie vergogne, le proprie ragioni inconfessabili ed
inconfessate.
Ricordo a questo proposito la meravigliosa opera del nostro Luigi Pirandello Vestire gli ignudi.
Se la vicenda della frattura, della incolmabile rottura tra
Freud e Jung, può, deve essere vista ed interpretata come il logico, naturale conflitto, inevitabile e sano, tra un padre che non
vuole rinunciare alla sua autorità, alla sua supremazia, al suo potere ed un figlio che, resosi autonomo e fattosi consapevole di esserlo, reclama il proprio diritto a staccarsi da chi gli ha dato la
vita, per percorrere, pur rispettandolo e riconoscendogli il merito,
una propria via autonoma, libera, nuova, personale, non rinnegando, ma diversificandola da quella da cui proviene, se è vera ed
attendibile, comprensibile e logica questa interpretazione, perché
non dovrebbe essere altrettanto vera, o almeno plausibile, ipotizzabile, intuibile, quella meno nobile e meno onorevole, ma forse
più umana, più terrena, più comprensibile e comune, della naturale, eterna rivalità tra due uomini, tra due maschi della specie
umana, che lottano e si contendono le grazie e i favori di una
femmina, di una donna, che amante prima dell’uno e da questi rifiutata, si è rivolta coscientemente e consapevolmente all’altro,
suscitando la struggente gelosia del primo, seppur artefice della
rottura, ma incapace di tollerare l’idea che il suo “giocattolo”, rifiutato, fosse diventato il godimento di un altro, dell’altro, del padre il cui potere suscita invidia, gelosia, rivalsa?
Perché i padri della psicoanalisi, coloro che a loro dire
hanno per primi scandagliato le viscere profonde e nascoste del203
l’animo umano, avrebbero dovuto essere immuni, esenti o vaccinati contro le passioni, recondite, nascoste, occulte di quello stesso animo umano che loro stessi avrebbero investigato, ma di cui
sono inevitabilmente anche loro portatori e vittime?
Forse che l’investigare l’animo umano con la lente della
psicoanalisi ci rende superiori, immuni, esenti dalle sue miserie e
meschinità?
O che l’investigatore, lo scopritore, lo scrutatore è al di
sopra degli altri, dei suoi oggetti di studio e di indagine, nonché
di teorizzazione, moderno superuomo al di là del bene e del male,
occupante una dimensione di extraterritorialità ove le leggi umane, della psiche umana, da lui scoperte e codificate non contano,
non vigono, non esistono, o meglio per lui, in veste di legislatore,
non valgono?
E che dire della povera Sabina Spielrein che “curata” da
Jung, secondo il nuovo rivoluzionario metodo inventato da Freud
e da lui applicato, si è, povera lei, giovanissima e isterica, innamorata del suo medico e salvatore Karl Gustav Jung, secondo le
migliori tradizioni della neonata psicoanalisi, provando entro di
sé quell’impetuoso sentimento che la stessa psicoanalisi ha denominato transfert, evocando inevitabilmente nel suo medico un
sentimento o una passione analoga, chiamata, per pudore controtransfert e di cui anche Jung fu naturalmente vittima?
Ma purtroppo la storia ci insegna che se Sabina era giovanissima e libera, Jung altrettanto non era, né giovanissimo, né libero essendo sposato ad una donna ricchissima e per giunta in attesa di un figlio, donna che naturalmente contribuiva copiosamente al benessere economico del medico di Zurigo.
Orbene a Sabina non occorse molto tempo per irretire, con
le sue arti femminili, accentuate dalla personalità isterica, dal fascino della sua patologia, o presunta tale e dalla sua determinazione, il
cuore e l’anima del suo dottore il quale, senza farsi troppo pregare,
scelse per la sua giovane paziente una terapia molto più personale e
privata, particolare ed esclusiva, nonché molto più economica per la
sua paziente stessa, visto che rinunciò volontariamente ad ogni
compenso pecuniario, come ebbe a precisare più tardi, per difendersi da accuse poco onorevoli circa la sua professionalità.
Ma purtroppo Jung non era solo, aveva famiglia, ossia
una figlia e soprattutto una moglie gelosa e ricchissima, alla qua204
le egli non seppe rinunciare in favore del suo sogno d’amore assieme alla giovane Sabina, per la quale sicuramente provava una
passione superiore a quella residua nei confronti della moglie, ma
purtroppo per lei non dotata dello stesso benessere economico e
della stessa rassicurante immagine borghese nella quale Jung viveva, operava, e si produceva.
Così, drammaticamente per la povera Sabina, il nostro
giovane medico-amante, quando la moglie scoprì la tresca e minacciò di far scoppiare lo scandalo, essendosi limitata per ora
solo a spedire lettere anonime, con una brusca impennata di sensi di colpa, di senso di responsabilità, di desiderio di espiazione e
di normalizzazione, ma soprattutto di borghese e rassicurante
tranquillità, dette improvvisamente e ineluttabilmente il benservito alla povera paziente-amante, riducendola tout-court al primitivo ruolo di sola paziente, proponendole di tornare allo status quo
ante, dimenticando quanto ci fosse stato tra loro.
La povera Sabina non sopportò lo shock, la delusione e lo
sgomento e sentendo di aver bisogno, ora ancor più di prima, di
un trattamento psicoanalitico ulteriore e profondo, delusa dal medico, ma non dal metodo, ritenuto non ancora pericoloso, non
pensò di meglio che rivolgersi direttamente al padre, non ancora
contestato, della psicoanalisi, al dottor Freud in persona, padre
putativo e mentore del suo ex medico-amante, recandosi a Vienna
presso il suo studio di Bergasse 19.
Chi pensa male sostiene che la scelta proprio di Freud,
come suo medico, da parte di Sabina Spielrein, sia stata dettata,
forse, anzi certamente del tutto inconsciamente, da un femminile
desiderio di vendetta nei confronti di colui che la aveva rifiutata.
Il risultato della sua indagine psicoanalitica ci è ignoto e quindi
su questa ipotesi non abbiamo lumi.
Qui, a Vienna, divenendo una nuova paziente di Sigmund
Freud, paziente privilegiata, vista la sua provenienza, potette godere del paternalistico aiuto del medico, della sua didattica vicinanza,
della sua illuminante presenza e sostegno, tanto che riuscì a concludere gli studi di medicina iniziati sotto la giurisdizione e la guida di Jung, e a divenire una psicoanalista anche lei, gratificata dall’onore di vedersi affidare dei casi dallo stesso Sigmund Freud.
Ma soprattutto Sabina Spielrein potette assistere personalmente al maturarsi e al concludersi dell’ormai irrimediabile,
205
profondissimo dissidio tra i due psicoanalisti, che giunsero infine
ad interrompere ogni loro rapporto definitivamente e per sempre.
Per dovere di cronaca dobbiamo dire che Sabina, ormai
psicoanalista, si schierò sempre dalla parte di Freud, prendendone le parti anche nei propri scritti scientifici, non ripagata purtroppo da un’analoga considerazione da parte di questi nei suoi
confronti, ma forse il maestro era troppo in alto per prendersi
cura e attenzione dei suoi allievi e discepoli.
Fin qui la storia, meravigliosamente narrata, trattata e
analizzata da John Kerr nel suo libro, cui va il merito incontestabile di aver gettato una luce scientifica, se possibile, ma almeno
quanto mai documentata, sui complessi e controversi rapporti tra
i due medici, i due psicoanalisti, ma soprattutto i due uomini, così
fondamentalmente diversi tra loro, eppure così influenti l’uno
sull’altro, così vicini, eppure così opposti, viennese uno, svizzero
l’altro; ebreo uno, ariano l’altro; ebreo uno protestante l’altro; di
famiglia modesta uno, di provenienza più abbiente l’altro; rigidamente materialista uno, sempre più attento e affascinato dal trascendente l’altro; fortemente sicuro di sé e del proprio valore
uno, tormentato dai dubbi l’altro; ma entrambi accomunati dalla
viscerale passione per “un metodo molto pericoloso”.
Da quanto detto si evince come sia stata un’impresa difficile, ardua e pericolosa tradurre in immagini, ridurre nelle rigide
regole di un film le vicende, non tanto fisiche e materiali, quanto
piuttosto psicologiche, affettive, emozionali, interiori e soprattutto intime dei tre personaggi che si trovarono ad essere protagonisti, testimoni ed artefici di un momento importante della nostra
storia, della nostra cultura, della nostra stessa esistenza, non dico
scienza, a puro titolo personale, perché non considero e non ho
mai considerato la psicoanalisi una scienza.
Mi assumo tutta intera la responsabilità di quanto affermo.
Dopo aver letto il libro di John Kerr, da cui il film è tratto
e avendolo rivisto altre due volte, in occasione della stesura di
questo articolo, devo umilmente ammettere che il mio giudizio riguardo al film, forse troppo frettolosamente espresso, o a mia discolpa formulato sulla scia delle emozioni conseguenti a quanto
avevo visto per la prima volta sullo schermo, è radicalmente cambiato, mutato, sovvertito, invertito, dovendo confessare, prima a
206
me stesso e poi agli altri, la mia superficialità, la mia avventatezza, la mia precipitosità nel giudicarlo negativamente e conseguentemente riconoscere essere esso invece un ottimo film, perfettamente fedele e aderente al testo scritto e, per quanto possibile attraverso le immagini, capace di descrivere egregiamente i tre
personaggi protagonisti, soprattutto nei loro caratteri più peculiari, nelle rispettive strutture di personalità, condizionanti e determinanti il loro comportamento, le loro scelte, anche le loro ideologie e le loro rivalità e conflittualità, le loro umane debolezze e
le loro linee di forza, le loro paure, le loro meschinità umane, la
loro fine.
Il film, infatti, condensa nelle due ore di immagini e dialoghi le seicento pagine documentatissime del libro da cui è stato
tratto e da cui prende le mosse, fornendoci un quadro condensato, ma esaustivo, immediatamente coglibile ed interpretabile,
comprensibile e verificabile dei personaggi, attori e protagonisti
della vicenda personale ed intima e privata, ma anche involontari, o semivolontari protagonisti di una vicenda culturale, di costume, di storia, di letteratura, di educazione, di ambiente, non di
scienza, perché di scienza non si è trattato, almeno a mio modesto parere, anche se come tale si è voluta ammantare e glorificare, vicenda che prende il nome di psicoanalisi e di cui ancora
oggi, a più di cento anni si parla e si discute, si cita, ci si incontra
e ci si scontra, si legge e si opera, si “cura” o si presume di farlo,
soprattutto dicevo si parla, spesso a sproposito e con superficialità, presumendo da parte di molti di conoscerla, mentre non la si
conosce affatto, se non per sentito dire, il che è, mi si permetta,
troppo poco ed insufficiente.
Il film ha il merito, a mio parere, di gettare uno sguardo,
impietoso, crudo ma veritiero, sulla personalità, sulla intimità,
sull’anima, sulla morale, sulla più profonda natura di due uomini,
che furono ritenuti, e lo sono tuttora “grandi”, nel campo del pensiero, della psicologia, della conoscenza dell’animo umano, ma
che furono essi stessi vittime e portatori di quelle stesse debolezze, di quelle stesse meschinità, di quelle stesse miserie dell’animo, che fanno di tutti noi, nessuno escluso, degli esseri umani a
pieno diritto; di due uomini che si ritennero, ognuno nella propria
individualità e personalità, al di sopra degli altri, mentre, sempre
a mio parere, non lo furono affatto, ma si inserirono, a pieno di207
ritto, in quella categoria, o specie che si chiama umanità, con tutte le sue altezze e bassezze, con tutte le sue miserie e le sue nobiltà, con tutti i suoi egoismi e le sue generosità, i suoi atti coraggiosi e le sue vigliaccherie, i suoi meriti e i suoi difetti, le sue meschinità e le sue generosità.
Chi si ritiene migliore degli altri, solo per questo certo non
lo è. Chi si ritiene al di sopra degli altri, forse è al di sotto o al massimo pari agli altri. Nessuno escluso. Non fu meglio degli altri
Sigmund Freud, chiuso nel suo orgoglioso distacco e nella sua prosopopea di padre della psicoanalisi, che non accettava critiche, che
non accettava contrasti o visioni dissimili dalle sue, incapace di autocritica e di ripensamenti, paranoicamente certo di essere nel giusto.
Tutti sanno che nel 1938, nella Vienna occupata dai nazisti a Sigmund Freud venne concesso il privilegio di fuggire all’estero, portando con sé i propri cari. Nella lista composta dal fondatore della psicoanalisi entrarono la moglie, i figli, la cognata, le
due assistenti, il medico personale con la famiglia, e perfino il
cane. Ma non le quattro anziane sorelle, Marie, Rosa, Pauline e
Adolfine, che dimenticate, abbandonate dall’illustre fratello al
loro destino, morirono tutte in campo di concentramento.
Non fu meglio degli altri Karl Gustav Jung, il quale, roso dai
dubbi, dalle incertezze, dai ripensamenti, dai sensi di colpa, e forse
anche da un puro e semplice calcolo economico, dopo aver tradito
il giuramento di Ippocrate, avendo fatto di una sua paziente la propria amante, quando vide messa in pericolo la sua reputazione e il
suo benessere tranquillamente e gaudentemente borghese, grazie
alle sostanze copiose della moglie, ripudiò la sua paziente-amante e
la abbandonò al proprio destino, turbato solamente, non dai rimorsi,
ma dal disappunto perché la sua ex paziente-amante si era rivolta,
per proseguire la cura interrotta, a Sigmund Freud, ormai già rivale
ed antagonista.
Ma Jung dimenticò presto la povera Sabina, consolandosi, sostituendola con una nuova paziente, divenuta anche essa
amante. Repetita iuvant.
Forse fu meglio degli altri in generale, ma certamente dei
primi due sì, la povera Sabina Spielrein la quale, superstite e ripresasi dalle cure dei suoi due medici, divenne anche Lei medico
e poi psicoanalista ahimè. Sposata ad un ebreo russo, tornò nel
208
suo paese di origine, ove si dedicò, non a teoriche elucubrazioni
filosofico – psicologiche come facevano i suoi maestri, ma molto
più concretamente alla cura dei bambini più poveri, istituendo i
famosi “Asili bianchi” ove venivano assistiti i bambini più poveri o orfani.
Ma la vita, come spesso succede, non ricompensò la povera Sabina con la gloria che invece arrise agli altri due e con gli
onori conseguenti. Fu, infatti, perseguitata da Stalin perché ebrea
e successivamente, quando la Germania invase la Russia, sempre
perché ebrea, fu uccisa, assieme alle figlie dai nazisti.
Tutto questo nel film di Cronenberg non c’è.
Esso si ferma prudentemente prima, ma è sufficiente a
gettare uno sguardo, a farci capire e comprendere il clima nel
quale la psicoanalisi nacque e prese corpo e vigore, l’ambiente
della alta borghesia e nobiltà viennese e mitteleuropea in genere,
non certo alle prese con problemi bassi e banali, infimi, tipici del
proletariato o della popolazione rurale costituiti da difficoltà reali di sopravvivenza fisica, di necessità materiali, di bocche da sfamare, di malattie vere e serie, dovute alla denutrizione o alle pessime condizioni igieniche e di vita, ma piuttosto con ben più gravi problemi e difficoltà serissime, ossia con turbamenti dell’animo e crisi esistenziali nate e sviluppatesi nei salotti della società
benestante, ove le problematiche erano certo più elevate e nobili,
più complesse e difficili, più affascinanti e impegnative, fatte
esse di traumi infantili non risolti, di insoddisfazioni coniugali, di
rivalità muliebri e frustrazioni femminili, il tutto condito con un
sottofondo di sessualità nascosta e repressa, occultata e rimossa,
vero flagello di quella società, che non aspettava altro che il genio liberatore di Sigmund Freud il quale, armato della arma segreta della psicoanalisi, finalmente giungesse a liberarla da secolari catene che la avvinghiavano e la costringevano, impedendone la normale e salutare espressione.
E finalmente venne il giorno tanto atteso della liberazione, non collettiva, ma dei singoli pazienti, i quali, per mezzo del
fatale strumento della psicoanalisi cui si affidavano per anni, riuscivano finalmente, dopo un difficilissimo, durissimo e lungo lavoro a conquistare infine la propria libertà.
Alcuni di questi pazienti, ma solo quelli di sesso femminile, giovani e piacenti, potevano coronare la loro liberazione dive209
nendo anche amanti, vestali addette al talamo del sommo sacerdote della psicoanalisi e dei suoi discepoli, in primis, come abbiamo avuto modo di vedere, Karl Gustav Jung, e dei tanti altri che
come e dopo di lui abbracciarono la neonata religione.
Sì perché di religione si tratta, quando si parla di psicoanalisi, non di scienza, perché questa ultima, la scienza, si muove
terra terra, sul terreno infido e sdrucciolevole delle teorie che devono essere dimostrate da prove sperimentali, mentre solo la religione e con essa la psicoanalisi, possono godere del privilegio,
dell’onore di enunciare dogmi che, per definizione, non sono tenuti all’onere della prova.
E come fondatore di una nuova religione laica, si comportò Sigmund Freud il quale, enunciati una serie di dogmi, nelle
sue opere, non ammise mai, ripeto mai, mai concesse che essi potessero essere messi in discussione, criticati, confutati, ma tacciò
come eretici e dissacratori coloro i quali, dal di dentro, osavano
proporre dei dubbi, delle strade nuove, delle incertezze, delle riflessioni ulteriori.
Per primo ne fece le spese Jung, seguito da tanti altri, tacciati di eresia ed espulsi dal tempio.
Il film in questione, con poche immagini, ma soprattutto
con gli interminabili e noiosi, dotti dialoghi tra i due protagonisti
maschili, ci rende perfettamente ragione di quanto detto in precedenza e ci proietta in un attimo nel mondo incantato e fumoso
delle fantasie e delle elucubrazioni mentali dei due medici che,
arrogatisi il diritto di curare le anime dei loro pazienti, dimenticando completamente quale è il primo dovere del medico, ossia
quello di curare, guarire se possibile, lenire le sofferenze dell’altro, si inerpicano, moderni alpinisti della mente, o sprofondano,
speleologi degli abissi dell’animo, in discorsi teorici, fumosi e incomprensibili, noiosi e inconcludenti, inapplicabili e autoreferenziali, tesi solo a gratificare l’ego di chi li formula e di chi li produce, o di costituire il terreno per battaglie ideologiche assolutamente fini a se stesse e destituite di ogni valore e significato pratico, che in questo caso sarebbe, particolare trascurabile e trascurato, rappresentato dalla finalità di curare e guarire i pazienti.
Se gli stessi discorsi fossero stati formulati da due filosofi cultori di filosofia teoretica, non avrei avuto nulla da obiettare,
ma in bocca a due medici, mi risultano offensivi nei confronti
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della sofferenza vera dei malati, quelli veri, almeno e non quelli
fittizi e di comodo.
Mi si consenta solo di descrivere una scena, che considero emblematica del film e della materia in questione: Sigmund
Freud, circondato dai suoi discepoli, tra i quali ancora per poco
Jung, sulla nave che li sta portando a New York, in vista della
Statua della Libertà, chiede retoricamente ai suoi apostoli: ”Ma si
rendono conto che gli stiamo portando la peste?”.
Forse l’unico, vero momento di sincerità, di consapevolezza, di modestia, di autocoscienza del moderno “untore”, il
quale ha sparso il contagio di una pestilenza che ancora ci domina e ci soggioga, con le sue mille ramificazioni e forme diverse.
I lettori avranno certamente compreso che non provo simpatia, ammirazione, considerazione per la psicoanalisi, la sua teoria e la sua prassi, i suoi sacerdoti e i suoi sostenitori, i suoi adepti, ma solo una profonda compassione e solidarietà nei confronti
di chi ne è vittima inconsapevole.
Credo che alla ideologia psicoanalitica e ai suoi derivati,
che ha permeato e che continua a dominare la nostra società, la
nostra cultura, la nostra educazione, sia da addebitare la colpa di
aver fatto morire, di aver condannato alla estinzione, il senso di
responsabilità, individuale e collettiva, fondamentale pilastro interiore di ogni individuo e di ogni società civile e dal quale scaturiscono direttamente i sensi di colpa, se quella responsabilità non
la abbiamo assunta.
In questo riconosco alla psicoanalisi, perfettamente meritato l’appellativo di “Un metodo molto pericoloso”.
E per concludere e non annoiare oltre l’incauto lettore,
torno per un attimo al primo giudizio espresso a caldo dopo la
prima visione del film e del quale mi sono pentito: “a chi mi ha
chiesto un parere e se mi fosse piaciuto, ho risposto, senza troppo pensare, un “no” secco, deciso, sicuro, inappellabile, immediato e non frutto di riflessione o elaborazione, e precisando che
il film mi appariva ben fatto, con somma cura dei particolari,
della ambientazione, dei costumi, dell’arredamento, ma privo o
scarsamente dotato di contenuto, freddo, didascalico, distaccato,
privo di anima, in ultima analisi, una bella cornice, ricca, elegante, prestigiosa, ma mancante di un quadro adeguato ed alla
altezza della preziosità della cornice.
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Perché, mi sono chiesto, se il film, ad un’analisi ed una lettura più approfondita e attenta, ora mi appare valido e ben fatto, perché tuttavia mi è apparso “freddo, didascalico, distaccato, privo di
anima”?
Non il film, ma la psicoanalisi e i suoi inventori sono privi di anima.
PA G E L L E & C L A S S I F I C H E
*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, specialista in psichiatria.
Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario.
Romanticamente illuminista.
Conoscere i gioielli. Come sceglierli e portarli,
Patrizia Di Carrobio
212
213
P A G E L LSEO M
& MCAL R
A ISOS I F I C H E
CONOSCERE I GIOIELLI.
COME SCEGLIERLI E PORTARLI
Un saggio prezioso sotto tutti i punti di vista: sia per chi voglia
avvicinarsi ad una materia solo all’apparenza frivola, sia per
chi, già appassionato, voglia trovare notizie ed approfondimenti
Clap*
U
n po’ per lavoro, un po’ per piacere ho avuto l’opportunità di
leggere l’ultimo libro di Patrizia di Carrobio Conoscere i
gioielli. Come sceglierli e portarli8 ed è stato amore a prima
vista, o meglio a prima lettura.
Credo, infatti, che la mia vera natura sia simile a quella della gazza ladra, perché reagisco a tutto ciò che brilla proprio come il
celebre volatile immortalato da Gioacchino Rossini (per la verità
solo gazza e niente ladra… tanto per rassicurare familiari e forze
dell’ordine): ma ciò che luccica mi attrae al punto che se in metropolitana, in treno o anche per strada mi capita di intercettare un
gioiello particolarmente scintillante la tentazione di chiedere alla
proprietaria di poterlo ammirare più da vicino è fortissima. Qualche
volta lo faccio (specie se sono da sola), qualche altra volta il timore
di essere scambiata per una male intenzionata mi frena.
Così il saggio della di Carrobio mi ha totalmente coinvolta
(l’ho letto nel giro di un weekend), non solo perché mette nero su
bianco riflessioni ed argomentazioni che, con le dovute proporzioni,
sono parte di me da sempre, ma anche perché, come la di Carrobio,
questa passione l’ho ereditata dalla nonna paterna, della quale, per di
più, porto il nome.
Il capitolo del cuore è quello dedicato ai diamanti, dalle notizie storiche e tecniche che ho cercato di imprimere a fuoco nella
mia mente, alle celebri quattro C, che sin dall’adolescenza ho mandato a memoria. Carat, Cut, Colour, Clarity (carato, taglio, colore,
purezza) sono un must per chi voglia avventurarsi nell’acquisto di
una pietra bella e di valore, ma per non sbagliare nel portafoglio ho
sempre con me la scala di colore del Gia (Gemological Institute of
America).
Come per la Formula Uno, secondo, ma sempre in prima fila
sulla griglia di partenza, è il capitolo sulle perle: la chiarezza con cui
si affronta la differenza tra perle naturali e perle coltivate, colorate e
tinte dona, per un attimo, a chi legge l’illusione di poter diventare,
da quel momento in poi, un’esperta in materia. La verità è ben diversa e solo una lunghissima esperienza professionale può conferire
l’autorevolezza per valutare queste magnifiche gemme, ma la prova
dei denti è suggerimento utilissimo: se, infatti, mettete sotto i denti
una perla e la sentite ruvida è vera, se è liscia è falsa.
Un po’ dopo, ma solo un po’, il capitolo delle pietre preziose. Zaffiri, rubini, smeraldi… si è catapultati in un mondo altrettanto complesso ed affascinante, che va dal Kashmir alla Birmania,
passando per l’Inghilterra: chi di voi non ha in mente il celebre zaffiro regalato prima da Carlo a Lady Diana e poi da William a Kate?
Un saggio prezioso sotto tutti i punti di vista: sia per chi voglia avvicinarsi ad una materia solo all’apparenza frivola, sia per
chi, già appassionato, voglia trovare notizie ed approfondimenti su
un settore che muove non solo tanti soldi, ma anche tanti interessi.
Ps. Su un’unica cosa non concordo con la di Carrobio: ho
vissuto a Montreal per qualche anno, a cavallo del millennio. È vero
che quando nevicava il cielo era bianco per settimane, ma non l’ho
mai trovato cupo, anzi: capitava che quando finiva di nevicare ed
usciva il sole il cielo fosse di un azzurro che raramente ho ritrovato.
*Dice di sé.
Clap. La sua vita è in un battito d’ali, nell’applauso del pubblico.
8) Conoscere i gioielli. Come sceglierli e portarli. Patrizia di Carrobio – Salani editore, 15€ .
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P A G E L LSEO M
EM
CA
LR
A ISO
SIFICHE
PA G E L L E & C L A S S I F I C H E
GLI SPOT DI CLAP
Spot, reclame, consigli per gli acquisti… Alcuni sono delle vere e
proprie opere d’arte, altri invece realizzazioni assolutamente
mediocri. Da spettatrice, ogni giorno o quasi, vi dirò la mia opinione sulle pubblicità in onda in tv, attraverso un breve giudizio
e un voto espresso in numero di applausi o, come preferisco dire,
clap (metafora del suono dell’applauso). Da zero a dieci clap!
Clap
Jennifer Lopez per Fiat 500, il gruppo di Elio e le Storie Tese
p e r l ' a m a r o C y n a r, G i o v a n n i R a n a p e r l ' o m o n i m a a z i e n d a ,
D o n a t e l l a Ve r s a c e p e r H & M .
Seguono i loghi delle principali aziende citate
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STUDIO 254
CLAUDIO BAGLIONI
Quanto è tardi e qui a casa mia
lei non chiama più
è un Natale da buttare via
lei non viene più guardo il telefono
e penso a lei
vetri appannati son gli occhi miei
quanta neve sta venendo giù
chi la fermerà
la candela è ancora accesa
presto si consumerà.
Dio tu stai nascendo
e muoio io
tu che faresti al
posto mio
ora che perdo pure lei
ho dato un calcio
ai sogni miei.
(Da “Notte di Natale”, 1971)
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ST
OUMDMI O
A R2I5O4
LE VIE DI MANO SINISTRA
Daniela Baldacchino*
L’
uomo, fin dalla notte dei tempi, si è sempre rapportato con
il trascendente, giungendo alle conclusioni più disparate
circa l’esistenza o meno di entità superiori. Nel corso dei
secoli ai pantheon politeisti si sono sostituiti culti di matrice monoteista. Secondo il professor Thomas Karlsson, docente di storia dell’esoterismo occidentale presso l’università degli studi di Stoccolma,
la mente umana tende, per ragioni di comodità, a dividere il mondo
in coppie di opposti: maschile-femminile, luce-oscurità, bene-male.
Questo tipo di categorizzazione è stato utilizzato anche in riferimento alle religioni. In Occidente il Cristianesimo ha evidenziato la differenza tra gli opposti di bene e male operando una netta cesura, che ha condotto alla visione dualistica tipica dell’ortodossia.
Da un lato il bene, la salvezza, l’obbedienza a Dio ed alle sue regole; dall’altro la disobbedienza, il caos, la dannazione.
Nel Vangelo di Matteo troviamo il concetto chiaramente
espresso:
“E saranno riunite davanti a Lui tutte le genti ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e
porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra” (cit. Matteo
25:32-33).
Balza agli occhi il parallelismo zoomorfo che finisce per individuare il bene con le pecore poste alla destra del Signore e il male
con i capri posti alla Sua sinistra. Questa distinzione ben si presta all’introduzione del discorso relativo alle “vie di mano destra” e “vie
di mano sinistra”.
Col termine via di mano destra ci si riferisce solitamente alle
religioni monoteiste che, seguendo i canoni dell’ortodossia, perseguono la salvezza eterna attraverso il rispetto di regole che tendono
ad avvicinare l’uomo alla luce divina.
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Tutto ciò che è connesso col terreno e il materiale appare
non puro rispetto a ciò che viene definito luminoso e celeste. Tale visione porta ad una netta separazione tra bene (Dio) e male (tutto ciò
che si allontana da Dio).
L’adepto della via di mano sinistra rifiuta, invece, tale categorizzazione non escludendo aprioristicamente l’utilizzo di energie e metodi eterodossi. Il fine ultimo dell’adepto è trascendere se
stesso; egli non mira alla riunificazione con Dio, ma al mantenimento della propria individualità attraverso la conoscenza.
Interessante è vedere la differente considerazione della donna che emerge nelle vie di mano sinistra tradizionali di matrice tantrico-indiana, se rapportate alle vie di mano destra; queste ultime,
infatti, hanno seguito nel corso dei secoli una cultura androcentrica
che è stato un po’ il leitmotiv di tutte le religioni monoteiste.
Islam – Nella IV Sura denominata An- Nisa’ (le donne) al
versetto 34 si legge:
“Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono
[per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele*. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse.
Allah è altissimo, grande.”
[“battetele”: interrogato in merito a questa forma di punizione
maritale, l’Inviato di Allah (pace e benedizioni su di lui) l’ha sconsigliata con fermezza e, in caso estremo, l’ha permessa a condizione di
risparmiare il volto e che i colpi vengano inferti con un fazzoletto o
con il siwâk (il bastoncino che si usa per la pulizia dei denti).
Cristianesimo – La concezione androcentrica emerge nella
Genesi (3,6) dove si narra che fu la donna a commettere per prima il
peccato originale mangiando dall’albero della conoscenza del bene e
del male. Sempre nella Genesi, in seguito alla cacciata dall’Eden si
legge in riferimento ad Eva: “...Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà” (Gn 3,16). Piuttosto noto è il pensiero di S.
Paolo circa il ruolo delle donne nella società:
1 – Corinzi (11,7)__”L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio, la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo,
né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per que223
sto la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza.”
1 – Corinzi (14,34)__”Come in tutte le comunità di fedeli, le
donne “tacciano”, perchè non è loro permesso parlare, stiano invece
sottomesse come dice anche la Legge”
Efesini (5,22)__Le mogli siano sottomesse ai mariti come al
Signore. Il marito, infatti, è capo della moglie, come anche Cristo è
capo della Chiesa, Lui che è il salvatore del suo corpo. E come la
Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano sottomesse ai loro mariti in tutto.”
Dio è definito in termini precipuamente maschili: Padre,
Signore, Re. Nello stesso dogma trinitario a “Dio padre” viene associato “Dio figlio”; la terza persona della Trinità, neutro nell’accezione greca “pneuma” – aria, soffio vitale – e femminile, nella maggior
parte dei casi, in quella ebraica “ruach” – forza, vita – , viene tradotta con il termine maschile Spirito. Nell’antico testamento il termine “ruach” ricorre 378 volte e solo in una trentina di casi è inteso
con il significato maschile di “vento” o “respiro”.
Tuttavia nella tradizione cristiano – gnostica Dio viene descritto come una divinità sessuata: Padre e Madre del tutto. Gli gnostici avevano una considerazione della donna già profondamente diversa: nella comunità marcionita, ad esempio, non mancavano preti
e vescovi donne.
Nelle vie di mano sinistra il ruolo della donna non è visto
in contrapposizione a quello dell’uomo, non è posto in maniera
tale da doverne definire la superiorità, l’uguaglianza o l’inferiorità.
Viene esaltata la complementarità del principio maschile e femminile, ognuno a suo modo unico ed indispensabile nella propria particolarità. Si rifiuta la visione dualistica che attribuisce la luce e
l’uranico al maschile; lo ctonio e l’oscurità al femminile.
Alla base delle vie di mano sinistra si pone il tantrismo indiano; nei Tantra la Sakti altro non è se non la forza femminile e sinistra, creatrice e distruttrice allo stesso tempo, la cui energia sfocia indifferentemente sia nella donna che nell’uomo. Secondo la
concezione tantrica la realtà, pura coscienza (chit) costituisce insieme alla beatitudine (ananda) e all’essere (sat) il Satchitananda.
L’illusione (maya), nasconde però la realtà, scindendola in coppie
di opposti che limitano e costringono l’individuo alterando la sua
percezione. I riti tantrici si avvalgono dell’utilizzo di elementi magico-simbolici: mandala (diagrammi circolari raffiguranti l’universo), yantra (diagrammi geometrici composti da triangoli, linee
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e cerchi concentrici raffiguranti la convergenza del molteplice nell’unità), mantra (formule verbali a più sillabe), bija (formule verbali ad un’unica sillaba) e mudra (posizioni particolari di mani e
dita raffiguranti un “sigillo”).
Nella cerchia degli iniziati al tantrismo è riservata particolare attenzione a coloro che perseguono il sentiero della mano sinistra;
per loro viene usato il simbolo del guerriero (kshatriya) al fine di
esaltarne il coraggio. La via di mano sinistra tradizionalmente più
pericolosa da seguire è anche quella che conduce a risultati spirituali più eclatanti: il siddha, cioè l’adepto realizzato nel cammino di
mano sinistra perdendo ogni residuo di dualità, riesce a trascendere
qualsivoglia legge o morale.
La diade bene-male esiste ed ha senso solamente per coloro
che anziché dominare l’illusione si lasciano trarre in inganno da
essa: se decido di mangiare un cibo avariato lo faccio nella piena
consapevolezza che questa azione porterà il mio corpo a stare male;
allo stesso modo lo scegliere di allontanarsi dal Dharma, cioè dal
“come le cose sono per loro natura” porta alla non liberazione dal
samsara (ruota della vita: nascita-morte-rinascita) e all’intervento
del Karma per il ristabilimento del naturale equilibrio. La vera liberazione, quindi, si raggiunge con l’espulsione dalla ruota samsarica.
Per questo nelle vie di mano sinistra si arriva al superamento del dualismo bene-male; perchè nulla è indegno di osservazione,
nulla va trascurato ma tutto va considerato ed analizzato. Gli opposti perdono, quindi, importanza in quanto il campo di indagine viene esteso anche alla parte oscura al fine di canalizzare la conoscenza verso la trascendenza del sé. L’attenzione non viene focalizzata
sulla perfezione di Dio, ma sull’essere umano e sulle sue infinite potenzialità; per il cui sviluppo non basta solo la contemplazione della
luce divina, ma occorre anche il passaggio attraverso quelle zone
d’ombra che divengono fonte preziosa di conoscenza.
Dice di sé.
Daniela Baldacchino. Ama scrivere fin dal giorno in cui ho scritto la prima
tremolante parola. Considera la lettura una fonte inesauribile di ricchezza,
le piace leggere di tutto: dai grandi classici, passando per la letteratura gialla e noir, sino ad arrivare ai romanzi che narrano di mondi lontani e fantastici. L'intelligenza è un dono e il sapere la alimenta rendendoci liberi.
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