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G E N N A I O 2016 - La dimora del tempo sospeso

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G E N N A I O 2016 - La dimora del tempo sospeso
IL CALENDARIO DI REBSTEIN
2016
A CURA DI FRATE SANTIAGO
GENNAIO
PAVEL FRIEDMAN PAUL CELAN NADIA AGUSTONI
LUIGI DI RUSCIO PAOLO FICHERA GIANMARIO LUCINI
PHILIPPE JACCOTTET FRANCESCO MAROTTA
FERNANDA ROMAGNOLI CRISTINA BOVE REB STEIN
GIORGIO BONACINI CRISTINA ANNINO GIULIANO MESA
MARINA PIZZI LISA SAMMARCO MARILENA RENDA
FERNANDA FERRARESSO RENE’ CHAR FERRUCCIO MASINI
DARIO CAPELLO LORENZO PITTALUGA FEDERICO ZULIANI
MASSIMO BOTTURI DANIELE POLETTI NINO IACOVELLA
SPYROS ARAVANIS ANTONIO BUX ADRIANO PADUA
ANTONELLA BUKOVAZ LUCETTA FRISA
2
La farfalla
L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere di castagno
nel cortile.
Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.
Pavel Friedman (1921 – 1944)
3
Fuga di morte
Nero latte dell’alba noi lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti
Nella casa vive un uomo che gioca con i serpenti e scrive
scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive s’affaccia sulla soglia e vi brillano le stelle aduna con un fischio i suoi cani
con un fischio chiama fuori i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda di suonare ora per la danza
Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa vive un uomo che gioca con i serpenti e scrive
scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti
Egli grida scavate più a fondo voi là e voialtri cantate e suonate
prende il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
scavate più fondo con le vanghe voi là e voialtri suonate ancora per la danza
Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca con i serpenti
E grida suonate più dolce la morte la morte è un mastro tedesco
grida strappate ai violini suoni più cupi poi salirete come fumo nell’aria
così avrete una tomba nelle nuvole lì non si sta stretti
4
Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con una palla di piombo colpisce proprio te
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi cani contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Paul Celan, Mohn und Gedächtnis, 1952
Traduzione di Francesco Marotta
5
i diari dell’olocausto
i diari dell’olocausto mi fan venire in mente
edipo a colono con la giovane antigone
che dà la mano a un cieco e nient’altro.
non una parola li segue, solo un vecchio
e sua figlia e i segni del vuoto intorno a loro,
lo spavento delle genti che in segreto
vedono la ragazza come un toro
e la corsa nella polvere con un dio che le urla dietro
di fermarsi: “è una ragazza, non può raspare la terra
fino alle tombe”.
ma non capiva la sua risposta: “va via! la polvere
cosa vuoi che dica la polvere, qui viviamo,
qui moriamo, un dio non ci ha salvato”.
Nadia Agustoni, Dai libri di lettura, 2009
6
Raccolgono la neve
con le mani coperte di sangue guasto
la mettono sulla bocca
per tutti i gelati
che quest’estate non hanno avuto
montano su pezzi di legno
e scivolano per tutti i sogni che non hanno fatto
e sarà giorno di festa anche per loro
fuori dalle case
con le vesti bucate
le scarpe sfondate
mentre la neve fascia di gelo le case
in questa vostra terra
dove dio ci ha fatti bastardi
Luigi Di Ruscio, Non possiamo abituarci a morire, 1953
7
la luce dimentica la carne
e il sapore che si dà
spesi in svilimento di preghiere;
il bambino: “stammi vicino
ora che viene sera e la luce
sfrontata immacola il pensiero”.
Ha bruciato le rose per fare
della vita un lembo che bastasse,
una tana da uccello, una piazza
civile; sai è altro, puoi altro:
nulla è innocente, mano stringe
mano ed è privilegio, caduta in colpa:
la rosa che baci era morta,
alito antico, la rosa
che baci moriva in palpebre e
carezze spese in ultimi sogni;
vittima e sorella, le vene
danzano in aspre sentenze?
Sii il limite esausto, pelle cupa,
e cenere di rosa che ancora brucia.
Paolo Fichera, Lo speziale, 2007
8
Nessun libro contiene la parola
ma la parola contiene tutti i libri
solo così può avere vita e carne
sarà il suo libro impeto e vento.
Nessuna parola contiene il silenzio
ma il silenzio le contiene tutte
l’uomo che sta in silenzio
è un magnifico oratore.
Lascia il mio silenzio giacere nella terra
come il chicco d’inverno
lascia che rimbombi nell’abisso
prima d’ogni giudizio.
Ma non sarà il silenzio a ridarmi
la vita che ho perduto
né il lamento a fermare la sventura
l’innocenza a proteggermi.
Io sono Giobbe e ho lottato col Silenzio
l’ho chiamato in giudizio per farmi giudicare
per questo parlo dal passato come il mare
che lambisce la terra e non la può possedere.
Gianmario Lucini (2008)
9
Il dono inatteso di un albero illuminato dal sole basso di fine autunno, come quando una
candela viene accesa in una stanza che s’imbruna.
Pagine, parole al vento, anche loro dorate dalla luce serale. Benché scritte da una mano
chiazzata dagli anni.
Viole raso terra: «non era che questo», «non era nulla di più», un’elemosina ma senza
degnazione, un’offerta ma senza sentimentalismo, fuori da ogni rituale.
Mi sono inginocchiato quel giorno, non in gesto di rispetto o di preghiera; ma
semplicemente per diserbare. Allora, ho trovato quella macchia di acqua viola, e senza
neppure riceverne il profumo che altre volte mi aveva fatto varcare tanti anni. Come se,
in un istante di quella primavera io fossi stato trasformato: trattenuto dal morire.
Dovremmo dissipare ogni nebbia svuotare ogni spazio, per pura amicizia, meglio: per
amore. Qualche volta si può ancora. Pur non capendo nulla, pur non potendo nulla di
più.
Alla luce di novembre, quella che non fa quasi ombra e si oltrepassa senza esitare, con
un balzo dell’occhio.
Philippe Jaccottet (2003)
Traduzione di Antonella Anedda
10
il segno dice della parola
quello che non è più,
il non ancora –
come una palpebra
abbassata
sull’orizzonte del foglio,
sotto cieli grondanti
della stessa attesa,
fa corpo da sempre
col vuoto
che si lascia alle spalle,
col vuoto che annuncia: –
tacere in ascolto
è il suo volto segreto,
un candelabro semprevivo
sulla spuma d’astro
della parola ritrovata,
perduta,
abitata in passi d’esilio
Francesco Marotta, Da un’eternità passeggera (1998-2003)
11
Falsa identità
Prima o dopo qualcuno lo scopre:
io sono già morta
da viva. E’ di donna straniera
la faccia fra i capelli in giù sporta
che sùbito si ritira,
l’ombra che dietro le tende
s’aggira di sera,
il passo che viene alla porta
e non apre. Suo il canto
che intriga i vicini coprendo
i miei gridi sepolti. Qualcuno
prima o dopo lo scopre. Ma intanto…
Lei a proclamarsi non esita,
lei mostra il mio biglietto da visita.
Io nel buio, in catene, a un palmo
da voi di distanza, sul muro
graffio questa riga contorta:
testimonianza che mio
era il nome alla porta, ma il corpo
non ero io.
Fernanda Romagnoli, Il tredicesimo invitato, 1980
12
Inferni provvisori
Sono strada di tutti
in vista come tralcio di croce
percorrermi si può se lo consente
una lingua tagliente, una lumaca
d’acqua di mezzanotte
o uno sparviero in abito da tè
mi vive dentro una malinconia
che non è della sera
né della botte vuota
ma tracimare di sconsolazione
nel tempo della resa
ho una bisaccia che pareva audace
c’erano dentro quattro virgole
una manciata di parole
perfino un asterisco
e messi insieme
potevano passare per poesia
ma non posso mentirvi, io sono stata
cresciuta dalle suore
mi hanno detto che se dico bugie
vado all’inferno appena muoio.
Perciò vedete
non mi resta scelta:
essere rea confessa d’ogni verso
ed aspettare di morirmi addosso
Cristina Bove, La colpa di essere poeta, 2011.
13
Matura nella polvere
la barca che aspira l’oceano degli occhi
Ma l’acqua è l’alba di nessuno – l’ora di nessun luogo
Solo una volta nell’aprile ferito rosseggia
trascina il giorno fuori dalla pelle dei suoi silenzi
In un tempo di soli recintati
che cede l’oro alle labbra del sonno
e si fa soglia agli astri dell’immenso – ebbri
custodi del passo dei viandanti
Reb Stein, L’oblio dell’evento (1998)
14
Stelle di parole irriducibili
convincono la notte come niente
Sono stelle componibili di fosforo
e di carta: stelle al muro illuminate
disponibili a indicare nell’immane sodalizio
di un tumulto il genio in lotta con il vento
o in mezzo al sonno a congelare.
Ma la luce, che indirizza giù nell’intimo
il suo punto di cattura, non ricorda
non fa male: è una scheggia tra la pelle
qualche linea, colpi sordi recidivi
che raggiungono la vista e forse il cuore.
Così il cielo, inimitabile, portandole
le uccide: con l’ardore di chi sa tutto
di nuvole e di mare, di boati disadorni
suoni scuri come quelli che riducono
nel niente anche la terra e l’irreale.
Sono stelle bianche e nane, stelle rosse
desolate, divorate dalla luce e ritornate
stelle nuove, senza mani: stelle gialle
azzurre e nude dentro sguardi incontrollati
nebulosi, zigzaganti come sciami.
Giorgio Bonacini, Stelle inseguitrici (2010)
15
Una donnina tutta lepre
Una donnina tutta lepre, sveglia,
s’accontenta della giornata e beve acqua
com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni
per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro!
Più tardi
sfoneremo i capelli alla sera. Rivede
tante case crollare per un capello, saranno
persone, cose, non sa, ma non meraviglia
che resti il sughero ancora sulla bottiglia
del fumo. Ce la passiamo
a vicenda. Anche la
città s’incendia ai suoi piedi ora
ch’è buio e lei evapora sulla
pira, entrando in me con gas
letale. Siringa. Chiudo
in tempo col tappo il foro e
niente è più bello qui: lo
sguardo di lei sull’anello al dito, su
me, poi qualcosa di buono, la stufa, quel
caldo oramai più fratello d’un uomo.
Cristina Annino, Ottetto per madre, 2005
16
chissà dove, arriverà del vento,
con una pioggia fitta, le folate.
anche, per fare prima, scrosci,
fole di meraviglia, come a vigilia,
a fare impacchi, bende, beveroni.
nessuna banda a fare chiasso, o sì,
anche, facendo prima, due tamburi,
due chiostre di denti che scongiurano,
quattro mani che fanno giochi d’ombra,
così, per divertire. chissà dove,
nitrire, frinire, facendo in fretta,
nutrire un’altra fine che si stanca.
fa, chissà dove, molto caldo.
fanno dei fuochi, altrove, per scaldarsi.
due o tre sospiri, forse, non di più.
Giuliano Mesa, Chissà, 1999
17
L’inchino del predone
ho un sesto senso che mi fa rapace
pace già panica e forse già logica.
non basto al mondo non ribasso
il prezzo che non incasso. ho una
lapide vermiglia intorno alla gola.
qui mi meraviglio di essere la viva
vedetta di me che già guarda
dormire gl’indici e le vette.
padre conserto madre senza latte
le verità ataviche del palmo.
Marina Pizzi, L’inchino del predone (2008-2009)
18
Sa Sardinna : I vecchi
Qui i vecchi non parlano
raschiano dalla gola boli
di antichi addii
densi come universi
che sputano per terra
come fanno gli dei.
Se ne stanno seduti e
reggono sul filo delle schiene
lo squadro dritto dei muri
per quando verrà la sera
a sagomare le ombre
e i loro contorni
da lasciare in testamento : i vecchi,
la morte li disegnerà a figura intera
nella piazza del paese
i più fortunati avranno anche un volto.
Lisa Sammarco, Sa Sardinna (2009)
19
Può fiorire anche la ruggine se un albero è vicino,
se foglie, spighe e cardi spingono e straziano
di una macchina la muscolatura; è questa
propulsione che ricorda allo scheletro teatrale
quando le sue estremità si provano a toccare.
Qual è la cosa che più amate di questi luoghi
che non conoscete? Quale anemia vi coglie
se intrecciate le mani alla trama screziata
di strade e piazze partorite domani?
Questa città è un nuovissimo sedimento
che non nasconde nulla a gru e scavatrici,
e non trattiene pietre impolverate, collane
ossidate, cucine corrose, lenti sbeccate,
piatti e quaderni, lavatrici e coltelli.
Acqua di palude, germe di malaria.
Marilena Renda, Ruggine, 2012
20
Ho ancora un po’ di febbre
forse è la temperatura
che mi apre l’intelletto e
sento in frequenze insolite
le solite cose che si sentono dovunque.
I giornali sono fradici di notizie
che sono solo necrologi:
dai morti per le bombe
ai decapitati malcapitati lungo una strada periferica
o nel bersaglio del centro di una l/ama.
Apostrofi tra le re(l)azioni ormai s’immettono tra noi
sempre in uno snodo di tangenti
e spesso nemmeno un sibilo,un sussurro
un filo di voce mentre si consuma il suicidio
perché questo credo che accada:
si uccide l’altro per vedere se stessi morire
più di una volta.
Fernanda Ferraresso, Nel lusso e nell’incuria (2010)
21
Settentrione
– Ho passeggiato in riva alla Folie. –
Alle domande del mio cuore,
se non ne faceva,
cedeva la mia compagna,
tanto inventiva è l’assenza.
E i suoi occhi in deflusso come il Nilo viola
parevano contare senza fine i loro pegni
propagandosi
sotto i ciottoli freschi.
Di lunghe canne taglienti
andava chiomata la Folie.
In una qualche parte
viveva quel rivolo la sua doppia vita.
Improvviso invasore l’oro crudele del suo nome
veniva a dar battaglia alla fortuna avversa.
René Char, Le Nu Perdu, 1964-1970
Traduzione di Vittorio Sereni
22
Nei venti aridi del mattino la parola fiorisce
che ancora non conosci mentre cammini
per breve tempo ancora nella luce
con le tue crudeltà e i tuoi misteri
con i tuoi ozii e la tua febbre
sazio come coloro che vivono
non mai sazio come le cime dei più alti rami
Quella parola non fu neppure taciuta
solo il ginepro ardente si consuma
per volontà di dire la vertigine lunga del mare
nei perdimenti dei voli sul filo dell’arenile
Vanamente tu credi di averla udita una volta
dalle labbra di quelle fanciulle
che al cuore cupo dell’alloro s’avvicinano dolci
come le piogge notturne al limite della pineta
Vanamente tu credi di averla perduta una volta
nel brusio di una lenta estate
quando ondeggia la conca del cielo
nel grano delle costellazioni
Ferruccio Masini, La mano tronca, 1975
23
La polvere scossa
al primo rimbombo, questione
di un attimo, di un niente
poi il giudizio, in silenzio
e in novità di luce.
“Annunciali tu i nomi, tutti,
leggili sulle tue carte stese,
allontanami i pensieri”.
Parlano di questo andare, del cielo
mirabile, non raggiunto. C’è un muro
di cinta, esiste, visibile, lontano
non ha confini.
E nasconde il giardino.
Ma qui nulla sorregge nulla.
Neppure quello sguardo che
ti riverbera, non si lascia incontrare
solo il sogno sale, scivola dalle mani.
La destra è aperta, vi si legge dentro:
vampate di pensiero
agitate dal passo degli anni,
dalla flessione delle voci:
è la tua stanata severa linea della vita.
Dario Capello, Dove tutto affiora, 2009
24
Dio
L’orizzonte, le sue tenie – vaste
cicatrici a disporre l’occhio
alla rete – rive, ancora specchi.
Eppoi imparo a starmi cieco
vedendomi visto dal nulla.
Informa. E’ un progetto di estasi.
Sonno. Allargano i futuri
segni a quarti fluttuanti
di dicembrina luna. Muoio.
L’alba mi redime. Il Dio
iroso erompe sul mio volto:
è fulgido, mirabilmente assente.
Lorenzo Pittaluga, L’indulgenza, 1997
25
Avrei voluto portarti con me, Ossip Emili’ovic,
ma Marina ha ragione: l’America non si addice
ai tuoi piedi, e so che sei contento di aspettarmi laggiù
assieme a Proserpina, e agli dei della casa
a cui è stato interdetto il passaggio del mare.
Quaggiù, sappi, godo l’estate delle persone non grate
in questo deserto di grattacieli posti a difesa
del nulla che viene, e che vive nei fiumi,
nelle grandi pianure delle metropolitane.
L’Armenia, qui, è tavolini con tovaglie a quadretti
con i bordi macchiati, e non c’è spazio
per le nostre lentezze, per il tuo modo di
aspettare che la notte si alzi, che vengano a dirci
che è ora di andare. L’esilio si sconta nei tabacchi
ignoti, nel sali e scendi per i supermercati.
Mancano, poi, le pattuglie, e per questo
se ne sentono i passi avanzare, tra i tombini
sopra le tombe levigate dei mezzi piani. Il mondo,
oltre il mare, è fatto per chi crede ai profeti,
per i-senza-vergogna nel dire “io”. Mi
manchi. Aspettami, te ne prego. Tornerò
26
perché il buio di Mosca è diverso, con te
e pure la radio annuncia in un modo diverso
che è meglio dormire con le finestre sprangate.
Federico Zuliani, Quaderno americano (2011)
27
Il suonatore
Per tutto il tempo, case e paesi
in ogni uguali;
le piccole chiesette affrescate a vecchie voci,
pantografi sfuggiti alle rondini.
Io suono
lo zufolo dei semplici assemblati dal lavoro,
ché questa culla è l’acqua dei morti
un calendario. Potessero le stelle piovigginare insieme
ti conterei del cielo lombardo meno duro,
di come il vento spazza i metalli
e dei fossati.
Dove ubriachi a volte, gli amanti, fanno il salto.
Ti porterei a vedere i confetti alle vetrine,
e gli abiti da sposa sorretti da un normanno
che con creanza ha spilli alla bocca
e mani d’oro.
Le librerie dai lumi sfacciati, e le poete,
sedute in uno specchio di tegole
più in alto, della madonna ascesa al suo fianco.
Avresti il pane, diviso sulle assi malferme dei cantieri;
tappeti di rugiada e di juta per pregare
sui marciapiedi senza soffitto.
E ancora scale,
fiumane di salmoni che spingono ad uscire
per cementarsi in bocche di orso, fino a sera.
Massimo Botturi (2011)
28
Chi non mangerà per non cacare
e bagnerà labbra stomaco pioggia
quello potrà dirsi un maestro.
Colui è negazione del lavoro.
Chi non proferirà parola a lungo
accompagnando frase con gesto
mentre l’incandescenza riverberosa della spenta
lampadina nell’ufficio dell’agenzia provinciale
quello potrà dirsi un maestro.
Colui sta nella negazione del superfluo.
Chi smemora, la duna col vento
l’onda uguale che muta dietro il dumeto
via dai cancelli arbitrari quello potrà
forse dirsi un maestro più di quanto lo sia
il crapulone il facondo l’affastellatore.
Argilla e pietra nel succo identico del ripetersi.
Daniele Poletti, Immarcescibile (2012)
29
Lettera (Battaglia di Nikolajewka)
Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne,
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio
Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane
Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve
e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto
Nino Iacovella, Latitudini delle braccia, 2013
30
Albero genealogico
La mano che uccise
il bambino di cinque anni
a Gaza, nel 2012,
era la mano di suo padre
in Vietnam, nel 1967,
e di suo nonno
in Spagna, nel 1936.
Il bambino ucciso
a Gaza
in Vietnam
e in Spagna
spirato l’ora
che l’orologio indica
nella chiesa bombardata
in Croazia, nel 1991.
Il futuro biografo del 21° secolo
senza dubbio
faticherà di meno.
Spyros Aravanìs, 2011
Traduzione di Massimiliano Damaggio
31
Nel ritardo si scorgono le altrui ombre
avvicinarsi lente ai sigilli della memoria
correre per i binari paralleli del respiro
stringendo in mano la rottura della luce,
il capovolgimento dell’anatomia, il sacro
mistero della porta socchiusa; e ancora
l’apertura della maniglia interna, scorre
l’altra mano, tira via la chiave del giorno
dove la serratura resta una specie bianca
di flessibilità del paradiso, una sconosciuta
solidarietà a spirale, il gene interno marcio
della differenza; e come un batterio succhia
attacca l’aria vuota, ammorba la proiezione
dell’epidermide invisibile, e infetta nel calco
di quella forma cieca, dove contrae l’occhio
la conversione orale, l’analogia del mistero.
Antonio Bux, Trilogia dello zero, 2012
32
non una storia non un sogno questo silenzio semina
soffio e non luce frequenza che il buio subisce e leviga
trama di termine in blocchi sospesi e rintocchi
nuova abitudine e vista del verso per retro d’immagine
dentro la gabbia dei globi oculari che occlude i colori
laddove la lima per mano rimane e poi s’agita e preme
profonda come in sangue rigirandosi a spaccare i capillari
dal piano remoto in cui sorgono scisse e concrete
le parti e le pause sospese che fanno discorso
protesa a procedere oltre al contagio all’ascesa
nel farsi saliva del suono che in bocca stentato s’accenna
ai moduli d’aria teatro non gesto del dire
che espresso nei segni e nei codici in vertice emerge
e per spazi traversi oltre i vincoli ad alba s’inscena
Adriano Padua, La presenza del vedere, 2009
33
Una volta concepita la fermezza
non c’è vento o idea o luce
che possa scardinare
l’intimità con le venature del legno
della roccia della foglia delle ali
o il lento velluto delle tende
per tirare in qua e in là il futuro.
È tutto come fosse nostro e ci accade
di stare nel posto giusto al momento
giusto e di fare scorta di erba
per prati che non sono più
oppure di perdere tempo, piccolo o grande
nel fare di ogni giorno un luogo
separato dai giorni e dai luoghi intorno.
Come se potesse essere un bene
durevole il presagio dell’occhio e della mano
si insinua nella mente contemporanea
e l’abitudine non è mai delusa
l’abitudine abusa dell’appagamento
tra i beni minimi o minori che siano.
Tra i cuscini intanto cresce una muffa
che sa di profezia.
Antonella Bukovaz, Sto (2014)
34
La follia è protezione dal male
della terra quante città sommerse
per non mostrarsi mai agli invasori
lasciamoli arrivare noi si rimuove
il bel paesaggio e i nostri amati averi
da loro disprezzati, anche i templi
si nascondono a custodire i sogni
il fiato sacro degli dèi le spighe
nel sottosuolo, i diari segreti
come pozzi d’acqua nel deserto
ma solo a noi tocca sapere dove
è stato steso il velo a riparare
linfa e sperma respiro e ragione
che il vero saggio non chiamerà follia.
Lucetta Frisa, Sonetti dolenti e balordi, 2013
35
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