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L`ABISSO DEL MALE IL DOLORE INNOCENTE

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L`ABISSO DEL MALE IL DOLORE INNOCENTE
VITO MANCUSO
L’ABISSO DEL MALE
IL DOLORE INNOCENTE
Restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti
(Giona 2,1)
L’introduzione di don Mirko Bellora
Stasera ho la gioia di presentarvi uno degli alunni migliori che ho avuto la fortuna
di incontrare nel mio decennio di insegnamento al Liceo Classico di Desio (1974 –
1984): il dott. Vito Mancuso.
Vito Mancuso (1962) è dottore in teologia sistematica. Dei tre gradi accademici ha
conseguito il baccellierato a Milano, la licenza a Napoli, il dottorato a Roma, presso
la Pontificia università Lateranense. Mi ha molto colpito cosa ha scritto di lui
Sandro Magister sull’Espresso di ottobre 2002:
Cattedra dei credenti. Il libro scomodo d’un teologo fuori le mura.
Il teologo è Vito Mancuso. E il libro affronta il dramma tra Dio e il male dal versante
più impervio, quello dei bambini innocenti che nascono segnati dal dolore: “suprema
immagine dell’Agnello immolato dalla fondazione del mondo”.
Questo è un libro di grande teologia, come di raro se ne scrivono da parte dei teologi
di professione. Perché l’autore non appartiene all’accademia. Lavora nell’editoria, a
Mondadori, di cui dirige la saggistica religiosa.
Con questo libro, Mancuso fa teologia “fuori le mura”. Di certo non entrerà nelle liste
dei conferenzieri di cartello. Ma in tempi in cui vanno di moda le “cattedre dei non
credenti”, perché non dare ascolto, piuttosto, ai credenti ruvidi e scomodi?
A lui affido un tema terribile, una domanda bruciante “perché il dolore
innocente?” Perché tanto dolore a creature che non hanno commesso alcun
peccato, a famiglie che nel metterle al mondo hanno compiuto un atto di speranza,
di amore?
Si dice che sul letto di morte Romano Guardini si sia rivolto ad un amico: “Nel
giorno del giudizio, certo, risponderò alle domande che Dio mi rivolgerà ma io stesso
gli porrò domande: Perché la sofferenza degli innocenti?”
La quarta pagina di copertina del suo libro “Il dolore innocente” (Mondadori) recita
così:
Di fronte all’handicap l’uomo tace. Non ha risposte. Nessuno ha risposte.
Sul piano semplicemente umano c’è solo il silenzio, dietro cui si nasconde la
compassione oppure, più spesso, la paura.
E’ solo la fede in qualcosa di più alto dell’uomo che consente di superare questa
paura
e nel testo sta scritto:
La creazione porta in sé la necessità che Dio soffra. Di più, che Dio venga
sacrificato. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa
agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, proprio
nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico
spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati.
Vito, parlaci dell’abisso del male, del dolore innocente ma soprattutto parlaci
tanto di Dio.
*******
IL DOLORE INNOCENTE
Ripensare il mondo, l’uomo, Dio1
La passione per l’uomo e l’onestà intellettuale
Per costituire l’adeguato atteggiamento spirituale a un discorso sulla sofferenza e
sul dolore, desidero iniziare con due pensieri di due grandi cristiani. Io infatti non
sto parlando della mia sofferenza, non sono un testimone diretto, ma sono uno che
riflette sulla sofferenza degli altri, e lo fa dal punto di vista della teologia
cristiana. A che condizione è lecita questa operazione? Alla condizione richiamata
da queste due frasi.
La prima: “Prima di alzare gli occhi verso i raggi della sapienza, uomo di Dio, per
prima cosa abbandonati al continuo tormento della coscienza”. Sono parole tratte
dal Prologo dell’Itinerario della mente in Dio di san Bonaventura (1217-1274)2.
Richiamano la necessità del tormento e del dubbio prima di ogni discorso su Dio:
senza il tormento della coscienza, senza l’inquietudine, il divino appare vuoto,
inutile, cerimonioso; solo il negativo, solo il tormento che l’anima acquista in un
contatto onesto e disincantato col mondo e con la storia, la innalza rettamente
verso la sapienza divina. Perché, continua Bonaventura, conta molto di più la
exercitatio affectus (la tensione della passione) che non la erudictio intellectus.
La seconda frase è questa: “La gente comune ha il potere di non pensare a ciò che
non vuole pensare... così si conservano le false religioni, ma, presso molte persone,
anche quella vera. Ci sono alcuni però che non hanno il potere di impedirsi di
pensare e che, quanto più lo si proibisce loro, tanto più pensano. Costoro si
liberano dalle false religioni, ma, se non trovano discorsi saldi, anche dalla vera”. È
un pensiero di Blaise Pascal (1623-1662), il numero 668 secondo l’edizione Le
Guern3.
Questi due pensieri ci insegnano che sono essenziali, di fronte alla sofferenza degli
altri, due qualità dell’anima: la passione per l’uomo (perché è da qui che
1
Il testo, che riproduce la conferenza tenuta il 19 marzo 2004 nella parrocchia milanese di Santa Maria del
Suffragio, si basa sul volume pubblicato dall’autore nel settembre 2002 presso Mondadori con il titolo: Il dolore
innocente. L’handicap, la natura e Dio.
2
Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, Prologo, paragrafo 4; cf. tr. it. Itinerario della mente
verso Dio, a cura di Massimo Parodi e Marco Rossini, Rizzoli, Milano 1994, 87.
3
Blaise Pascal, Pensées, n° 668, in Oeuvres complètes, a cura di Michel Le Guern, vol. II, Gallimard, Paris
2000, 817.
scaturisce il “continuo tormento della coscienza”; se si avesse solo passione per
Dio, sacrificando ad essa il bene dell’uomo, la coscienza sarebbe imperturbabile,
come effettivamente avviene in alcune tradizioni spirituali) e la passione per la
verità, l’onestà intellettuale che ricerca “discorsi saldi”, che non si accontenta più
di esortazioni e di appelli ai sentimenti.
La tentazione dei credenti
Il primo passo che abbiamo compiuto è importante perché, da sempre, di fronte
alla sofferenza la tentazione religiosa ricorrente è quella di comportarsi come gli
amici di Giobbe. La storia è nota: Giobbe, a causa di una poco nobile scommessa
tra Dio e Satana, viene colpito prima con la perdita di tutti i suoi beni, poi con la
morte dei suoi dieci figli, poi con una dolorosa malattia che gli rende putrida la
carne. Dopo giorni di silenzio, Giobbe giunge a maledire il giorno della sua nascita.
Alle sue parole roventi e persino blasfeme, rispondono i tre amici che erano venuti
a trovarlo, Elifaz, Bildad, Zofar. Essi riconducono il male abbattutosi su Giobbe al
suo peccato. Il loro pensiero è chiaro: il mondo è governato da Dio in modo giusto,
razionale e infallibile; per questo, se a un uomo capita qualcosa di male, è perché
egli deve scontare una colpa. Non a caso ciò che maggiormente li irrita nelle
repliche ostinate di Giobbe, è che egli non smette di proclamarsi giusto, innocente.
Di fronte al paradigma teologico consolidato del dolore sempre colpevole, Giobbe
si ostina a dichiararsi innocente. È uno dei primi casi nella storia dell’umanità della
presa di coscienza da parte dell’uomo della presenza paradossale di un dolore
innocente, senza perché, inspiegabile, di qualcosa cioè che contesta l’ordine e la
razionalità del mondo. Di fronte alla razionalità della natura e della storia
affermata da Elifaz, Bildad e Zofar (e da Eliu poco dopo, e anche da molti pensatori
cristiani nei secoli successivi), Giobbe oppone una visione opposta: nella natura e
nella storia c’è qualcosa che non va, non tutti i conti tornano, anzi ci sono pesanti,
profonde ingiustizie. Non è il solo a farlo all’interno della Bibbia ebraica. Ecco ciò
che scrive il profeta Abacuc: “Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e
non puoi guardare l’iniquità, perché, vedendo i malvagi, taci mentre l’empio ingoia
il giusto?” (Abacuc 1, 13). Ed ecco Geremia: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché
io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché
le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?” (Geremia
12, 1).
Alla teologia della provvidenza, alla teologia del governo divino sulla natura e sulla
storia, alla teologia dell’eterna armonia di Elifaz, Bildad, Zofar (e di molti salmi, di
interi libri biblici, di molti teologi cristiani, primo tra tutti Agostino di cui basta
leggere al riguardo il De natura boni), Giobbe, sulla base della forza tragica dei
fatti, replica: “Forse voi tentate di difendere Dio con menzogne e ingiustizie?” (13,
7). È la stessa ribellione che molti secoli dopo porterà Ivan Karamazov, nel celebre
dialogo alla trattoria con il fratello Alëša, a “restituire il biglietto di ingresso nel
mondo”. Il concetto che è in gioco, la questione disputata, è il legame tra Dio e la
sua creazione, il legame tra Dio (che non può non essere pensato come giusto,
pena il non pensare Dio) e il mondo. A chi pensa dal punto di vista di Dio, il mondo
appare ordinato e armonico; a chi pensa dal punto di vista del bene dell’uomo, il
mondo appare disordinato e colmo di ingiustizie. Chi ha ragione? Qual è la giusta
prospettiva cristiana?
Elifaz, Bildad e Zofar sono ancora tra noi. Di fronte alla sofferenza la tentazione
dei credenti, da sempre, è quella di difendere il governo divino e di mortificare le
ragioni dell’uomo. E per fare ciò, non si è esitato e non si esita, talora, a distorcere
la realtà, fino alla menzogna, la stessa che Giobbe rimproverava ai suoi
consolatori.. Le parole che Giobbe rivolge contro i suoi amici sono ancora attuali,
centrano in pieno volto alcune usuali affermazioni della religione e della
predicazione ordinaria. La storia teoretica dell’handicap, come vedremo presto, è
un grande trionfo della teologia degli amici di Giobbe.
In realtà, di fronte a tutto ciò, occorre ribadire con forza una cosa: è lecito parlare
del dolore solo a prezzo di una rigorosa onestà intellettuale. Aprire gli occhi,
guardare onestamente alla vita nel suo scorrere quotidiano. Guardare alla vita per
quello che è, col disincanto di una coscienza adulta. Spesso però i credenti, come
gli amici di Giobbe, questa operazione non intendono compierla. Invece di guardare
all’intera realtà, preferiscono soffermarsi solo su alcuni dettagli a loro favorevoli,
guardano solo a quei pochi casi di miracoli riconosciuti e li eleggono a prova
dell’intervento della mano di Dio. Invece di guardare a una storia devastata dai
milioni di morti innocenti (segno di una storia dominata solo dalla forza), guardano
solo ai racconti delle apparizioni e li eleggono a prova della vicinanza di Dio.
Ma così facendo, si deforma la realtà. Se non ci si pone onestamente di fronte
all’intero della natura e della storia, ma si scelgono solo quegli eventi che servono
per le proprie tesi, si commette un grave errore di prospettiva e si trasforma la
fede in ideologia. Ma la riduzione della fede a ideologia è un grave errore dal punto
di vista umano, ed è un peccato ancora più grave dal punto di vista teologico, è un
peccato contro il primo comandamento, essendo la verità la dimensione propria di
Dio. Gesù di fronte a Pilato sintetizzò così il senso della sua missione: “Per questo
io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla
verità” (Giovanni 18, 37). E prima così aveva pregato il Padre per noi: “Consacrali
nella verità” (Giovanni 17, 17). La disposizione sincera del cuore di fronte alla
verità è la condizione spirituale decisiva per la maturità della fede.
L’obiezione
È proprio per disporsi nel modo migliore alla ricerca della verità, che occorre
ascoltare la più radicale obiezione che giunge oggi al discorso cristiano sulla
sofferenza. Si tratta della filosofia di Friedrich Nietzsche, il pensatore che a mio
avviso rappresenta maggiormente il cuore spirituale del nostro tempo. Nietzsche
potrebbe liquidare questo nostro incontro in maniera molto sbrigativa. Ancora a
parlare del dolore e della sofferenza, voi cristiani? Ancora vi domandate perché il
dolore, perché la sofferenza? Siete proprio dei bambini. La risposta è una sola e
molto semplice: il dolore c’è perché si vive, perché c’è la vita. Senza dolore, la
vita non potrebbe esserci. È la giostra della vita che richiede il dolore, così come
richiede il piacere e la gioia. La vita è fatta così, ve lo dovete mettere in testa. La
vita non guarda in faccia nessuno, è una macchina dai mille ingranaggi che avanza
inarrestabile, incurante dei gemiti di coloro che, soffrendo e morendo, ne
costituiscono il carburante. Il suo progressivo avanzare è gioioso, sereno,
avventuroso, affascinante. Smettetela di pensare al vostro piccolo io, minuscolo e
meschino, e innalzate il vostro pensiero a contemplare la grandezza splendida della
macchina, il suo eterno girare, il suo eterno ritorno, e ringraziate, e ringraziatela.
Gli uomini veri hanno preso coscienza del loro destino, sanno di essere mortali; e
proprio così i più grandi di loro, gli antichi greci, si sono chiamati, “mortali”;
nessun bisogno di scappatoie, altri mondi, vite eterne, tutte consolazioni infantili.
Si vive, se ne gioisce, se ne soffre: punto e basta. I vostri piagnistei sono solo
egoismo mascherato, menzogne dell’io che non si rassegna a morire.
L’aveva già detto Buddha 500 anni prima di Cristo, con la prima delle Quattro
Nobili Verità, che insieme formano il kerygma buddhista: tutta la vita è
sofferenza4. Oggi la biologia ci mostra che Buddha aveva ragione; non è solo
l’uomo a provare dolore, ma anche i mammiferi, gli uccelli e persino i pesci, come
hanno dimostrato alcuni mesi fa i ricercatori dell’università di Edimburgo a
proposito delle trote5. Tutto ciò che sente, che prova sensazioni, tutto ciò che
vive, prova gioia e prova dolore. A chi si ostina a interrogarsi sul perché del dolore,
manca una chiara cognizione di che cos’è il mondo, e la vita in esso. Che cos’è,
infatti, il mondo? Eccone la descrizione di Nietzsche nel celebre frammento 1067
che chiude la raccolta postuma intitolata La volontà di potenza: “Questo mondo è
un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e
bronzea, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma ma solo
si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile, un’economia senza
profitti né perdite… il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più
semplici alle più complesse… un mondo che benedice se stesso… Per questo mondo
volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi?… Questo mondo è la volontà
di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e
nient’altro!” 6
L’obiezione non potrebbe essere più chiara: l’interrogarsi sul dolore è tipico di una
coscienza che legge il mondo in termini moralistici, ultimamente immatura. Si
tratta dell’obiezione più radicale.
Il punto di vista cristiano
A questa obiezione si risponde chiarendo il punto di vista in base al quale
l’autentico pensiero cristiano si dispone. Se i sostenitori dell’obiezione pensano a
partire dal mondo e dalla sua necessità (e quindi non si scandalizzano del dolore,
che non è né colpevole né innocente, semplicemente è), noi cristiani ci ostiniamo a
scandalizzarci di fronte al dolore che affligge la vita dell’uomo a causa del nostro
radicale antropocentrismo. Non è il cosmo, “il sacro timone del cosmo” cantato da
Eschilo nell’Agamennone7, il punto di vista in base al quale guardiamo il mondo.
Noi guardiamo il mondo dal punto di vista del bene dell’uomo. Non solo; noi
4
Così si legge nel celebre discorso di Benares: “I cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento
all’esistenza, sono dolore”: da Il discorso della messa in moto della ruota del Dhamma, a cura di Claudio
Cocuzza, in La rivelazione del Buddha, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, vol. I, 8.
5
Cf. il notiziario on line della rivista Le Scienze del 4.5.2003 nel sito www.lescienze.it
6
Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth FörsterNietzsche, ed. it. a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 20014, 561-562.
7
Cf. Eschilo, Le tragedie, a cura di Monica Centenni, Mondadori, Milano 2003, 407.
crediamo che il bene dell’uomo risieda in Dio, e che Dio ne sia garante. Per questo,
per noi, il dolore è un enigma lacerante, e il dolore che colpisce gli innocenti
inquieta le nostre coscienze come più non sarebbe possibile.
Il vertice del dolore innocente si raggiunge con l’handicap. Il problema teologico
che l’handicap solleva lo si può formulare così: come pensare che Dio, che è
amore, possa volutamente creare la vita di un essere umano così segnata
irrimediabilmente dal male? In questo interrogativo sono racchiusi quattro
presupposti teologici, tutti alla pari irrinunciabili per il cristianesimo: che Dio ci sia
e sia creatore e governatore della vita; che sia amore, e amore concreto per
l’uomo; che la vita che ci è data sia unica, senza alcuna replica; che il male esista
e che l’handicap sia tale.
Penso che ci troviamo di fronte alla più drammatica questione che si pone
all’intelligenza credente, con una specificità che sorpassa ogni altro interrogativo.
Chiedersi il perché dell’handicap è guardare l’abisso. L’assolutezza della domanda
sull’handicap consiste nel fatto che qui siamo alle prese con la vita umana nel suo
sorgere, ambito che la Bibbia e il magistero pontificio assegnano in modo assoluto
al dominio di Dio. Se vi è un luogo o un momento nel quale ha senso parlare della
signoria di Dio, ebbene questo è, per eccellenza, il sorgere della vita umana. È per
questo che per il cristianesimo la vita è sacra, per questo suo essere direttamente
e solamente dipendente da Dio. Per le religioni indiane, in particolare per il
giainismo, la vita è sacra in sé: da qui la non violenza assoluta che contraddistingue
il giainismo. La vita, si potrebbe dire, è Dio. Per il cristianesimo, come per
l’ebraismo e l’islam, la vita, invece, non è sacra in sé, tant’è che si può agire
contro la vita, si può uccidere, non solo gli animali ma anche gli uomini quando
occorre (la pena di morte è prevista, seppure come extrema ratio, dal Catechismo
al paragrafo 2267). La vita, piuttosto, è sacra in quanto dominio di Dio. Sono
innumerevoli le affermazioni di Giovanni Paolo II sul legame diretto tra Dio e la vita
umana, in tutte le sue fasi. Mi limito a una citazione sola, dal paragrafo 61
dell’enciclica Evangelium Vitae pubblicata il 25 marzo 1995, in cui riecheggiano le
parole del Salmo 139: “L’uomo, fin dal grembo materno, appartiene a Dio che tutto
scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani… Quando è ancora nel
grembo materno, l’uomo è il termine personalissimo dell’amorosa e paterna
provvidenza di Dio”.
Di contro a queste parole del papa, vi sono i dati dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità secondo cui “oggi nel mondo circa il 5% dei bambini nascono con un
disordine congenito o ereditario”; di questi “si stima che siano 3 milioni all’anno i
bambini che nascono con malformazioni molto gravi, la maggior parte dei quali
muore entro i primi tre anni di vita”8.. Pensato su scala giornaliera, ciò significa
che ogni giorno vengono al mondo oltre 8000 bambini gravemente handicappati.
Ecco quindi che si ripropone, in tutta la sua drammaticità, la domanda: come
intendere la provvidenza? come intendere il rapporto tra Dio e gli uomini? e chi è,
in ultima analisi, Dio?
Ha scritto Kierkegaard: “Se si vuole studiare correttamente il caso generale è
sufficiente ricercare una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto più
chiaramente… Le eccezioni esistono. Se non si è in grado di spiegarle, non si è
8
Dal rapporto 209 del gennaio 1999 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità intitolato Human Genetics and
Noncommunicable Diseases, consultabile sul sito internet della OMS www.who.org
nemmeno in grado di spiegare il caso generale”9. L’handicap è l’eccezione che io
assumo come punto di vista per interpretare il senso del nostro essere uomini.
L’handicap è il punto di vista fisico in base al quale ripensare i tre oggetti
fondamentali del sapere meta-fisico: Dio, l’uomo, il mondo.
Il mondo
L’astronomia ci insegna che quel firmamento di cui parlano i primi versetti della
Genesi, e soprattutto la cultura greca che ha sempre contrapposto il vero essere
celeste al divenire terrestre, non è mai esistito. Di fermo e di incorruttibile
nell’intero universo non c’è nulla. Tutto muta, tutto si evolve, tutto si dissolve. Se
poi andiamo a vedere la vita nella sua concretezza, vediamo che l’handicap è
perfettamente congeniale al dinamismo che muove la vita naturale. Se le prime
forme di vita si sono evolute, se dal primo microbico Adamo di 3 miliardi e mezzo
di anni fa siamo arrivati noi, è perché sono avvenute delle mutazioni. Le mutazioni
che hanno prodotto esseri più forti rispetto all’ambiente sono andate avanti, sono
diventate necessità; le altre, quelle più deboli, sono rimaste solo degli infelici casi,
ovvero nutrimento per i più forti.
Il che significa: all’interno della visione del mondo che ci consegna la scienza,
l’handicap è perfettamente coerente. È in totale sintonia con l’idea di una natura
cieca, che non si cura di noi, che è del tutto contingente, che viene dal nulla e che
al nulla è destinata. È questo il palcoscenico sul quale ognuno di noi, senza volerlo,
è comparso. Siamo, come Giona, nel ventre del pesce.
Dio
Ora parliamo di Dio. Per riprendere la definizione classica, Dio è “l’essere
perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra”. Questa definizione
suppone quale sua base concettuale il governo di Dio sul mondo, cioè sia sulla
natura sia sulla storia. Anzi, la ragione della divinità di Dio è esattamente il suo
governo. Se non controllasse la natura e la storia, se non fosse forza, una forza così
assoluta da essere onnipotenza, in questa prospettiva non sarebbe Dio. È Dio,
proprio perché governa; è Dio, perché è il Signore, il pantocrator. L’essenza della
divinità è la pienezza della forza. Questa è la prospettiva classica, in particolare
delle religioni monoteiste, e dei numerosi sistemi di pensiero filosofico e teologico
che vi si richiamano.
L’handicap qui si spiega bene, è stato sempre spiegato bene: è un caso di “dolore
colpevole”. Sono i concetti teologici della somma giustizia e dell’onnipotenza che
impongono di leggere l’handicap come punizione. E così gli uomini hanno fatto per
millenni, e continuano a fare ancora oggi al di fuori dell’occidente. Quando i
discepoli di Gesù, vedendo un cieco nato, chiesero: “Chi ha peccato perché
nascesse così, lui o i suoi genitori?” (Giovanni 9, 2), esprimevano alla perfezione la
teologia del tempo e che avrà a dominare ancora per secoli. Già nell’antica
Babilonia, “più di una volta si giunse al punto che alcuni genitori, provati o
perplessi dopo la nascita del loro bambino, gli diedero come nome proprio un
9
Søren Kierkegaard, La ripetizione, tr. it. di Dario Borso, Guerini e Associati, Milano 1991, 128.
appellativo che riflette questa ossessionante questione: Mîna-arni: «Qual è il mio
peccato?»; Mîna-ahti-ana-ili: «Quale colpa contro un dio ho commesso?»”10.
Cristo, rispondendo ai discepoli, rifiuta il paradigma del dolore colpevole: “Né lui
ha peccato né i suoi genitori” (Giovanni 9, 3), e inaugura la possibilità di parlare di
dolore innocente. Bene. Ma la domanda a questo punto diviene: che fine fanno i
concetti teologici della somma giustizia, dell’onnipotenza, del governo divino?
Dolore innocente vuol dire caso, fatalità, senza perché.. Allora, che cosa dice di
Dio il fatto che vi siano milioni di dolori innocenti, dolori senza perché, che si
abbattono sui figli degli uomini con un carico di sofferenze che più pesanti non si
può? Che cosa dice di Dio il fatto che avvenga qualcosa di così potente che lui,
però, non vuole?
Ecco che ci si frantuma nelle mani il concetto classico di Dio: se ammettiamo il
dolore innocente (rifiutando il dolore colpevole), dobbiamo concludere che Dio non
governa la natura.. Se volete il governo, dovete trovare il colpevole. Se invece
rifiutate di pensare che chi è colpito dall’handicap sia colpevole (lui o i suoi
genitori), allora dovete dimenticare il governo divino personale sulla natura. E,
dopo il ‘900, penso che sia doveroso fare lo stesso discorso sulla storia.
Ma che cosa sono natura e storia? Sono il mondo, o, per usare un’espressione
centrale della filosofia, sono l’essere, l’essere che è dato agli uomini. Eccoci quindi
condotti a dover concepire Dio (per chi ancora vuole pensare questa idea sublime
che ha sempre accompagnato il cammino dell’uomo e che significa luce, per chi
non si arrende alle tenebre del nulla) come al di là dell’essere. Dio = Essere è stata
l’equazione che ha retto il pensiero filosofico e teologico dell’occidente per secoli,
definito da Heidegger onto-teologia. Questo paradigma va mutato, Dio va pensato
non più come essere, ma come trascendenza rispetto all’essere: Dio = al di là
dell’Essere.
Ma a questo punto contro il mio pensiero sorgono due obiezioni, una che proviene
da destra e una da sinistra (se sono lecite queste categorie politiche). L’obiezione
conservatrice è di distruggere la religione, di non riuscire più a pensare la
provvidenza, il senso della preghiera, i miracoli. È lo stesso rimprovero che Elifaz
rivolgeva a Giobbe: “Tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio”
(15, 4). L’altro tipo di obiezione si chiede che cosa significa in concreto pensare
Dio “al di là dell’essere”, e sospetta che non si tratta di altro che di una fuga dalla
realtà, di un estremo escamotage per difendere l’ultimo baluardo dell’idea di Dio
dagli assalti della verità. Io penso che non è così, né per l’obiezione di destra né
per quella di sinistra, e voglio motivarlo guardando all’uomo.
L’uomo
L’handicap ci dice che l’uomo è natura, fragile natura come ogni altra parte del
cosmo, esposta alle ferite del caso. Ma lo stesso handicap ci dice che vi è qualcosa
di più nel fenomeno uomo. Vi sono, per esempio, le storie di coloro che si prendono
10
Jean Bottero, La plus vieille religion. En Mésopotamie, Gallimard, Parigi 1998, 360-361. Era un modo a cui
ricorrevano gli uomini del Vicino Oriente Antico per cercare di interpretare una realtà che li sovrastava. Si ha
qualcosa di simile nel profeta Isaia che riceve l’ordine di chiamare il figlio Mahèr-salàl-cash-baz, ovvero
“Bottino pronto-saccheggio prossimo”, per predire la devastazione di Damasco e di Samaria da parte degli assiri
(cf. Isaia 8, 1-4).
cura degli sfortunati colpiti dall’handicap. Questo avviene, ogni giorno, senza
retorica, poche parole, tanti fatti, nella completa gratuità, perché a volte non si
ottiene proprio nulla in cambio, talora gli interessati non sanno neppure sorridere.
L’handicap è quel luogo abissale, supremamente dialettico, dove appare insieme la
più grande miseria ma anche la più grande nobiltà dell’uomo. Aristotele scriveva
nella Politica: “vi dovrebbe essere una legge che proibisca alle famiglie di allevare
i figli malformati”11. Questa frase ci indica, oltre a una spietata logica politica che
guarda il bene della maggioranza e non i casi singoli, che anche nelle società
precristiane vi erano uomini e donne che non rifiutavano le loro amorevoli cure ai
figli nati diversi.
Vi leggo alcune righe di una lettera tratta da un sito internet dedicato alle persone
disabili (www.disabili.com), firmata Lucia e datata 18 maggio 2001: “Cari bambini,
qualcuno di voi forse non ha futuro ma l’amore che ricevete in dono rende unico e
indimenticabile ogni giorno della vostra piccola vita. Le lenzuola cambiate di
fresco, la coperta rincalzata, il borotalco che vi accarezza la pelle, un gelato, un
nastro tra i capelli, uno splendido vestito nuovo, le coccole la mattina presto, i
pennarelli nuovi, una festa di compleanno, un libro di animali, una sedia sulla
terrazza piena di sole… C’è chi si ingegna per voi, cerca risposte, inventa soluzioni,
lavora giorno e notte per assistervi, per darvi pace. C’è chi vi copre di baci le
guance e vi stringe forte. Con la forza dell’Amore spazza la paura”.
E ora la domanda è: che cosa dice dell’uomo il fatto che di fronte a un errore
infelice della natura, l’uomo, in modo del tutto innaturale, si china sulla vittima di
quell’errore, e spende tempo ed energia per lui, senza alcun tornaconto?
La cura dei portatori di handicap, una delle più sublimi forme di gratuità, ci
testimonia che conteniamo qualcosa di più dell’essere, che possiamo andare al di
là della semplice e cieca natura: possiamo amare. Ho sempre un po’ di pudore a
usare questo povero verbo, che viene confuso, come già scriveva Platone, “con
quel piacere volgare e servile cui viene dato ingiustamente il nome di piacere
d’amore”12. Ma così è, l’ambiguità del linguaggio non è altro che un segno della più
grande ambiguità dalla quale siamo avvolti. Ciononostante, rimane vero il fatto che
gli uomini possono amare, talora scelgono di aderire incondizionatamente al bene,
senza cercare i loro interessi, persino contro i loro interessi naturali. Quanto un
uomo agisce così, senza perché, è visitato dalla grazia. Questa è la vera
trascendenza, in quanto rottura della logica interessata che domina l’essere, logica
espressa al meglio dalla legge d’identità, Io = Io.
La logica del mondo, sia della natura sia della storia, dice una sola cosa: la
dominazione della forza. In questa cornice appare, luminosa, l’intuizione: se c’è il
bene, c’è Dio. Se esiste il bene, allora esiste Dio. L’ha riconosciuto anche uno dei
più grandi logici del ‘900, Wittgenstein, in un pensiero del 1929: “Se qualcosa è
buono, allora è anche divino”13. Il bene è contro la legge della natura, il bene
rompe il piombo dell’immanenza, è la freccia che conduce verso la trascendenza. Il
bene è possibile non in base alla stessa natura, che tira solo verso il basso, ma in
11
Aristotele, Politica, VII, 1335 B; tr. it. di R. Laurenti, Laterza, Bari 1966, 368.
Platone, Lettera settima, 344 B; tr. it. di Maria Grazia Ciani, in Platone, Lettere, a cura di Margherita Isnardi
Parente, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 2002, 93.
13
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 20015, 21.
12
base a un movimento contrario, di origine sovra-naturale. Questo movimento è la
grazia.
Per questo, tutti coloro che vogliono negare la trascendenza negano con attenta
determinazione la possibilità della purezza del bene e dell’amore, riconducendo
tutto a istinto, a impulso, a interesse mascherato. Ma il bene puro esiste, e quando
si manifesta, la natura e la storia, con la loro pesantezza, vengono trascese. È il
regno della leggerezza, della luce, della grazia; è il mondo divino. Se c’è il bene,
c’è Dio. E il bene, c’è.
L’esistenza del bene puro, sovra-naturale, è il filo d’oro che conduce all’esistenza
di Dio. Basta fare il bene, per essere di Dio. Non occorrono leggi, precetti, norme,
divieti, osservanza di tempi e stagioni, riti, sacramenti (tutto questo è stato abolito
come via di salvezza dalla novità cristiana). Per la salvezza, cioè per essere di Dio,
occorre solo che l’anima aderisca al movimento del bene, che percepisca il suo Io
come radicale e gratuita relazione, lo stesso movimento che fa delle tre persone
trinitarie un’unità indissolubile. Questo è ciò che in teologia si chiama ontologia
trinitaria.
Vi sono delle parole che in modo supremo presentano tale concetto di
trascendenza: “Prendetene e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo”. Qui siamo
in presenza del ribaltamento della logica naturale. La logica naturale, che guida la
natura e la società, è retta da un movimento centripeto che vede ogni cosa
(persona, occasione, concetto etc.) come nutrimento e accrescimento dell’Io. Le
parole dell’Eucaristia ne sono il ribaltamento; qui ci si muove in modo centrifugo,
l’Io, invece di nutrirsi degli altri, si fa nutrimento per gli altri: “Prendetene e
mangiatene tutti, questo è il mio corpo”.
Pensando la trascendenza in questo modo riusciremo anche a rispondere alla
domanda più difficile: dov’è Dio? Quante volte ci siamo chiesti dov’è Dio, pensando
a questo universo muto, al freddo degli spazi cosmici, a questo mondo retto dalla
forza nel quale la croce è il simbolo per eccellenza della sorte che tocca ai giusti,
alla cieca indifferenza della natura che talora strazia le membra di alcuni suoi
figli… dov’è Dio? La risposta cristiana è sempre la stessa: ubi charitas, ivi Deus.
Dove c’è l’amore, c’è Dio. E siamo solo noi uomini che possiamo creare l’amore, è
la più alta opera d’arte che può uscire dalle nostre mani. Il senso che il
cristianesimo conferisce alla vita sta tutto qui, nell’amare, all’interno di un mondo
che non conosce l’amore.
Dal dibattito
Affidarsi e interrogarsi
Qualcuno ha detto che l’unica soluzione è quella di affidarsi. Ci sono delle maniere
di vivere la fede che sono di questo tipo, però ce ne sono altre che invece non
rinunciano mai allo scavare, all’interrogarsi, perché la fede è anche conoscenza.
Proprio perché è un atto integrale dell’uomo, la fede cristiana è conoscenza,
consegna una visione di Dio, una visione dell’uomo, una visione del mondo. La fede
cristiana da questo punto di vista si contraddistingue per avere una pretesa
estremamente forte, direi assoluta. Di tutte le religioni che esistono è solo il
cristianesimo che ha una dogmatica così estesa, così sviluppata. Perché? Perché,
ovviamente, nulla è a caso nel mondo dello Spirito, mentre tutto è a caso nel
mondo naturale. Io penso che nel mondo dello Spirito, governato dall’anima, nel
mondo delle idee nulla è a caso. Se la dogmatica è esattamente per la pretesa di
verità che il cristianesimo contiene. Se voi leggete i Vangeli la parola “verità” ha
un’importanza eccezionale. Quando Gesù dice: “In verità, in verità vi dico”,
quando di fronte a Pilato dice “Per questo sono venuto al mondo, per rendere
testimonianza alla verità” e ancora, quando prima di uscire dice: “Padre,
consacrali nella verità”, tutto questo non è un artificio retorico.
La fede non può non essere strettamente connessa alla percezione della verità, per
questo certamente è affidamento, ma non può essere affidamento nel senso di
staccare la spina del pensiero, del cervello, nel senso di non fare propri i tormenti,
le inquietudini. Personalmente io la vivo così, ma non solo personalmente. E penso
che sia proprio una figura della fede cristiana, sia una esigenza della fede cristiana.
La storia del cristianesimo lo dimostra.
Dobbiamo pensare, non dobbiamo avere paura di pensare, aver paura di andare a
sbattere col pensiero così come se fosse una macchina che va a finire contro una
parete. Penso che se la fede oggi ha delle chance per continuare ad andare avanti,
e sicuramente le ha, è proprio per questo amore per la verità e per il bene. In
questo mondo dominato solamente dall’interesse immediato, dal “per me”, è
importante riuscire a porre queste grandi battaglie per il bene, il vero, il giusto.
Poi peraltro Dio, come sapete bene, è un termine relativo, lo diceva già Isaac
Newton, cioè relativo a noi. È come dire padrone, che è relativo a un servo. E che
cosa significa Dio? È esattamente il vero, è sapere che nella stessa questione
teologica di fondo è in gioco esattamente il vero, il senso del mondo, il senso della
vita. Ma noi crediamo che la nostra fede sia il senso della vita? Lo crediamo, sì, ma
questo può essere qualche cosa che non abbia a che fare con la verità?
Satana … il demonio
È un tema a me abbastanza caro, perché la mia tesi di dottorato è stata una
interpretazione della filosofia di Hegel, il cui titolo è “Hegel teologo” e con il
sottotitolo “e l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo”. Chi è Satana?
Qual è il concetto che la sua figura veicola? Satana veicola l’ambiguità della
dimensione spirituale. Noi comunemente pensiamo che la dimensione spirituale sia
la dimensione del bene, che sia la dimensione di Dio. La figura di satana, che è
puro spirito, invece, ci dice che la dimensione spirituale, lei stessa, è rotta, è
ambigua. Non a caso tutti coloro che hanno maggiormente studiato il peccato (sto
pensando a Shakespeare, sto pensando a Dostoewski, sto pensando a Goethe, sto
pensando al Faust) hanno presentato i più grandi peccatori come i più grandi
uomini di spirito, come grandi intellettuali, grandi amanti della conoscenza. Quindi
la figura di Satana, il simbolo di Satana è esattamente il simbolo dell’ambiguità
dello spirito. Hegel pensava che la vita spirituale per se stessa, la vita
dell’intelligenza, la cultura fosse la soluzione del problema della vita, fosse il vero.
La figura di Satana, all’interno soprattutto del Nuovo Testamento, ci insegna che
invece l’ultima parola non è la conoscenza, ma è l’amore. Prima ho difeso
assolutamente la conoscenza, è importantissima la conoscenza, ma è proprio la
figura di Satana che ci insegna come la conoscenza ultimamente non sia salvifica,
ma dalla conoscenza può venire il vertice del bene e anche il vertice del male e
quindi ciò che è ultimamente salvifico non è il conoscere, ma è l’agape, la carità,
l’amore. È fare quelle cose che fa quella donna di cui vi ho letto la lettera.
Questo per quanto riguarda la figura speculativa di Satana. Altra cosa importante è
il parlare del demonio: negli ambienti teologici e nelle parrocchie oggi se ne parla
pochissimo, poi c’è un satanismo che è molto diffuso. Noi dobbiamo prendere
consapevolezza che il vertice della rivelazione del demonio si ha nei Vangeli.
L’Antico Testamento quasi non conosce la figura del diavolo. Satana, che fa la
scommessa con Dio a proposito di Giobbe, è veramente una figura marginale
all’interno dell’Antico testamento. Più cresce la rivelazione, più si giunge al vertice
della rivelazione, più si presenta anche la contro-rivelazione. Non a caso Satana è,
per definizione, l’antiCristo. Satana non è nemico di Dio, non c’è nulla che possa
essere nemico di Dio. Satana è nemico di Cristo, è il nemico, cioè, dell’Uomo Dio.
La parola diavolo, come saprete, deriva dal greco, e significa dia-ballo, divisore,
colui che vuole dividere. Che cosa vuole dividere il diavolo? Esattamente l’uomo da
Dio, in questo senso è l’antiCristo e in questo senso Cristo è il simbolo per
eccellenza, perché Uomo-Dio. Dio certamente è creatore anche di Satana, creatore
della dimensione spirituale, ma la dimensione spirituale, così come la dimensione
naturale, è lasciata al gioco della libertà. E così come la dimensione naturale è
libera, così anche la dimensione spirituale è libera, anzi lì si ha anche
supremamente la libertà consapevole di se stessa.
L’iniqua distribuzione del dolore
E’ la distribuzione del dolore il vero problema. E’ l’iniqua distribuzione del dolore
che mi porta a dire che non c’è governo. Se il dolore avvenisse in maniera
matematica esattamente sulla testa dei malvagi, come per altro molti
sostenevano, se ci fosse il filo diretto dolore-malvagità e viceversa, prosperità e
bontà personale, non ci sarebbe problema ma ciò che fa problema è questa iniqua
distribuzione del dolore. Già il profeta Geremia (cap.12) diceva: “Vorrei disputare
con te sulla giustizia, perché le cose dei malvagi vanno bene e quelle dei buoni
vanno male?” e così dice il profeta Abacuc, con parole durissime rivolte a Dio: “Tu
dagli occhi così puri che non puoi vedere niente di male, ma perché invece adesso,
tutto questo male che vedo? E tu che cosa fai, dove sei? Il problema vero è l’iniqua
distribuzione del dolore: ma come si esce da questo problema? Per non guardare in
faccia all’iniqua distribuzione, per non voler riconoscere l’iniqua, la casuale
distribuzione del dolore, il caso del dolore gli uomini, hanno caricato per secoli
molti genitori di dolore infinito, ancora più infinito di quanto non fosse ricevere un
figlio così, di colpevolezza.
Pensare che ci possa essere una positiva volontà divina di far nascere un bambino
disabile al 100%, mi è francamente difficile e, secondo me, è anche ingiusto
pensare che Dio ponga al mondo volutamente un essere così, per educare l’anima
di qualcuno. Non sarebbe giusto. Questo è il biglietto che Ivan Karamazov
restituiva: “Se le lacrime di un solo bambino dovessero contribuire all’eterna
armonia”, diceva nel notissimo dialogo con il fratello Alioscia ne I Fratelli
Karamazov. Anch’io restituirei quel biglietto dovendo pensare a un Dio così.
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