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ADOLF HITLER ERA INNOCENTE

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ADOLF HITLER ERA INNOCENTE
HITLER ERA INNOCENTE
Aldo Moscatelli
© 2008, I sognatori Lecce
ISBN 978-88-95068-06-0
Il 10% del prezzo di copertina verrà
devoluto alle associazioni che si
occupano di tener viva la memoria
dell’Olocausto, e impedire così che la
barbarie nazista torni a manifestarsi
fra noi senza che almeno un essere
umano urli: “Io non ho dimenticato!”
Per contattare la casa editrice I sognatori,
consultare il sito internet:
www.casadeisognatori.com
e il blog:
casadeisognatori.splinder.com
Per contattare l’autore:
[email protected]
hitler era innocente by aldo moscatelli is licensed under a
Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non
opere derivate 2.5 Italia License.
Alcuni dei tragici eventi narrati in questo
romanzo sono stati ispirati da episodi
realmente accaduti durante il regime
totalitario nazista
Alle vittime del totalitarismo nazista:
con gli occhi della fantasia ho scrutato
l’orrore che voi deportati avete conosciuto
e patito concretamente nei lager.
Io, spettatore privilegiato, a voi rendo onore.
A Francesca:
grazie per aver pianto assieme a me
mentre guardavamo Schindler’s list…
La dedica, da leggersi in senso contrario, va estesa a
tutti quegli uomini di potere che, in tempi più o meno
recenti, hanno manifestato una comoda avversità alla
guerra, salvo poi (nei fatti) sostenerla, alimentarla,
coccolarla, nascondendo il proprio consenso dietro
un muro di ipocrisia.
Ma ogni muro ha le sue crepe, e fa presto a sgretolarsi…
Pathéin tòn érxanta
(Chi infligge subisca)
Eschilo
PROLOGO
Ho ricevuto la notizia qualche ora fa.
Dormivo.
La voce squillante del telefono ha interrotto il mio sonno inquieto. Non riesco mai a dormire bene, la notte.
Ho sollevato il ricevitore: era lui.
Non udivo la sua voce da anni.
Mi ha comunicato la morte di Rudolf Bahuoff con pacato distacco; se non lo conoscessi, direi che non glien’è importato
granché. Ma io ho colto un perverso piacere nelle sue parole, una
gioia soffocata, celata sotto cumuli di terra ormai smossa, sulla
quale campeggiava da tempo la croce dell’oblio.
Tra qualche giorno la verità verrà allo scoperto: Bahuoff è stato
ucciso, e io so da chi.
Ignoro in quale modo siano andate esattamente le cose, ma è
così che le ho immaginate:
un uomo in là con gli anni sta dormendo, ode un rumore e solleva le palpebre.
La canna di una pistola compare improvvisamente davanti al
suo sguardo insonnolito.
Chi la maneggia è avvolto nella penombra, tace ma sorride.
L’anziano, preso alla sprovvista, stropiccia gli occhi e balbetta
qualcosa.
Silenzio.
Accanto alla pistola compare una vecchia fotografia in bianco
e nero.
L’uomo solleva la schiena dal letto, e si sporge in avanti.
La osserva per bene, poi comprende.
Implora pietà.
L’altro ha un sussulto, e pensa:
nessuna pietà.
Preme il grilletto, parte il colpo.
Schizzi di sangue vermiglio macchiano la parete retrostante.
L’assassino silenzioso va via, senza lasciare tracce.
Domattina chiamerò un vecchio amico, e gli riferirò l’accaduto.
Sono certo che anche la mia voce risulterà fredda e distaccata.
Ma lui mi conosce. Ci conosciamo tutti, fra noi. Perché c’è stato un periodo, nelle nostre vite, in cui il dolore ci ha annullato e
dato forma. Tanti corpi, ma un solo spirito.
La morte di Rudolf Bahuoff ci ricongiunge. Oggi, a distanza di
decenni.
Il cerchio è ormai chiuso, domani si dissolverà.
Ma il mattino è lontano, e in questo momento ho voglia di ricordare…
CAPITOLO 1
Ricordo perfettamente l’istante in cui li vidi per la prima volta.
Camminavano a testa alta, i volti arsi dal sole, i corpi provati da
un viaggio durissimo, disumano. Uno di loro aveva un braccio
ferito; lo capii dalla striscia di stoffa grondante sangue stretta all’altezza del bicipite destro. La fronte dell’altro presentava un
vasto ematoma, ed entrambi zoppicavano vistosamente. Non si
reggevano in piedi…
Ma i loro occhi non tradivano alcuna sofferenza. Un gruppetto
di soldati li insultava, pungolandoli coi loro fucili. Aprirono i
cancelli, e furono spintonati all’interno del lager con calci e sputi. Una scena tristemente nota a tutti noi.
Giunti a un metro da me, la fierezza dei loro sguardi ebbe un
cedimento; vidi i loro occhi riempirsi di lacrime, ma non ci fu il
tempo per un pianto liberatorio. Un soldato urlò qualcosa, e col
calcio del fucile colpì entrambi all’altezza dello stinco. Il più alto
s’accasciò, urlando e ansimando, mentre il crudele aguzzino gli
sorrideva accarezzando l’arma.
Dopo che si fu allontanato, senza dare nell’occhio m’inginocchiai al cospetto del deportato caduto per terra, lo guardai dritto
negli occhi e sussurrai:
– Benvenuti nel lager Libertà.
CAPITOLO 2
Voi non conoscete l’orrore. Quello vero, intendo.
Lo avete intravisto, probabilmente, in qualche immagine di
guerra, o in qualche drammatico episodio della vostra esistenza;
forse lo avete colto in voi, l’orrore, o nei mali di questa società
senza memoria. Vi è passato accanto sussurrando qualcosa nell’orecchio, per poi dileguarsi davanti a un sorriso, a un abbraccio
fraterno, a una frase pregna di speranza. E in voi non è rimasto
che un ricordo sbiadito e trascurabile del vostro incontro con
l’orrore.
Chi, come me, ha conosciuto invece il vero orrore, sa cogliere e
distinguere la sua presenza imperscrutabile, e quella voce senza
tempo. Un riverbero silenzioso, un urlo soffocato dalle molteplici necessità dell’esistenza; prima fra tutte, quella di sopravvivere.
Questo grido straziante confonde il passato col presente, corrode
il futuro, trasforma il più insignificante dei secondi in eternità, e
la più illusoria delle eternità in un unico, crudele secondo.
Perché l’orrore, cercate di capire, non è un’immagine estetica
da osservare e nulla più; né si limita ad albergare fra le pagine
dei libri, o in qualche fotogramma.
Il vero orrore, quello che io ho conosciuto nel lager Libertà, invadeva tutti i sensi umani, come un morbo pernicioso: costringeva lo sguardo a posarsi sui corpi scheletrici degli uomini e delle
donne, morti ancor prima di esalare l’ultimo respiro. S’insinuava
nelle narici sottoforma di fetore, sprigionato dalle carni decomposte dei morti, compatiti e invidiati da tutti noi. Si lasciava udire dalle nostre orecchie, diveniva un flebile grido che partiva dal
cuore e moriva sulle labbra, reclamando libertà. E si toccava e si
lasciava toccare, il vero orrore, corpo solido e raggelante come la
canna di una pistola puntata dritto sulla tua nuca, pronta a espellere tutta la follia di un intero popolo, raccolta e compressa in un
proiettile di piombo. Aveva un sapore, il vero orrore: il sapore
dell’acqua putrida, e del cibo avariato che si era costretti a mandar giù, di tanto in tanto, per ritardare il proprio incontro con la
morte, mai così temuta, mai così agognata.
Questo, e molto di più, è il vero orrore.
Hans e Jurgen lo conoscevano già. Separati dai luoghi del proprio passato, depredati d’ogni dignità, picchiati e poi stipati in
vagoni carichi di ebrei ancora in piedi ma già morti, nell’or-goglio e nello spirito. Un treno in corsa nella storia: ultima fermata,
il lager Libertà.
E adesso erano lì, davanti ai miei occhi, stremati e riversi sul
fondo di una squallida baracca. Chiesero con un filo di voce un
po’ d’acqua. Gli fu portata una spugna imbevuta di liquido scuro, meravigliosamente diafano agli occhi di ogni deportato.
Bevvero con avidità, come bestie da soma. Nel frattempo, si
era raccolta attorno a loro una piccola cerchia di prigionieri,
scrutati con ribrezzo da entrambi. Un atteggiamento, questo, più
che naturale: il disorientamento legato al durissimo viaggio e alle
botte ricevute non aiutava a distinguere i compagni dai nemici.
Rinfrancati dalla sete, riuscirono a sollevarsi, e poi a sedere su
due vecchie sedie situate alle loro spalle. Ansimarono per qualche secondo, senza mai alzare lo sguardo. In seguito, uno dei due
riuscì a pronunciare le sue prime parole da prigioniero:
– Mi chiamo Hans Weizer – disse senza rivolgersi a nessuno in
particolare. Avanzai verso di lui e gli offrii la mia mano.
– Deportato numero 371516. Qui veniamo identificati tramite
codice – lo informai nell’ossequioso silenzio dell’intero dormitorio. Osservò per un istante la serie di cifre tatuata sul mio avambraccio, e rabbrividì senza stringermi la mano.
– Potete chiamarmi Felicien, ad ogni modo – aggiunsi in tono
disteso.
– Dove ci troviamo? – chiese improvvisamente l’altro, senza
presentarsi.
– Nel lager Libertà. Qual è il tuo nome?
– Jurgen Kasparek. Il lager Libertà?
– È un campo di prigionia nazista.
– È tutto vero, allora – sentenziò Hans cercando lo sguardo del
compagno. Quest’ultimo tornò in piedi, e avanzò fino al centro
della stanza.
– Ci hanno parlato di questo posto – balbettò tremante. La maggior parte di noi cominciò a fissarli con crescente curiosità: chi
mai erano costoro?
Ma i nostri dubbi non avrebbero ricevuto un’immediata risposta: l’imminente comparsa del comandante Bahuoff venne annunciata da un calpestio marcato e regolare, seguito dal più atterrito dei silenzi. Quel silenzio imposto col terrore delle armi, che
può reprimere ogni voce ma non il flusso di pensieri. Bastava
guardarsi attorno per rendersene conto; al cospetto di Bahuoff,
nessuno osava fiatare. Ma in quegli occhi, e in quei cuori… tutto
si agitava, tutto parlava il linguaggio dell’odio che non conosce
timore. La nostra voce scalpitava alla ricerca di una via d’uscita,
ma le bocche restavano serrate.
Per paura, o forse per buonsenso.
CAPITOLO 3
Il lager Libertà era un piccolo campo di prigionia, composto
fondamentalmente da cinque settori: quello delle baracche (chiamate comunemente block), in cui trascorrevamo le poche ore di
riposo concesse dai nazisti; quello delle camere a gas e degli inceneritori; quello degli uffici amministrativi, che comprendeva
anche l’ambulatorio medico del dottor Kubik e la piccola fabbrica di armi, in cui alcuni di noi prestavano servizio e che un tempo, nel periodo di maggiore affluenza (la popolazione del lager
non superò mai le duemila unità), era stato utilizzato come
block; a sud si estendeva invece un terreno agricolo di circa dieci
ettari, che produceva parte del cibo destinato ai deportati e ai gerarchi; infine, quella che nei lager di dimensioni maggiori veniva
chiamata zona-comando, era stata trasformata in deposito per le
armi e le vettovaglie.
All’esterno del lager sorgevano invece le dimore delle SS, a un
centinaio di metri dal campo vero e proprio. Si trattava di villette
immerse nel verde, nelle quali soggiornavano anche le famiglie
dei gerarchi. C’erano poi i campi di lavoro esterni, i più temuti
da noi deportati, perché la semplice assegnazione equivaleva a
morte certa, o a patire atroci sofferenze.
Le due zone principali erano separate da un reticolato percorso
da corrente elettrica ad alto voltaggio. In cima, come consuetudine, era stato distribuito del filo spinato. Al centro del reticolo,
inoltre, si ergeva un imponente cancello, costantemente sorvegliato da soldati armati. Ai quattro lati del campo svettavano altrettante torrette di cemento, alte una decina di metri; erano presidiate da sentinelle scelte, che per ovviare alla noia dettata dall’obbligo di restare lassù per ore, saltuariamente si divertivano a
sparare raffiche di mitraglia ai nostri piedi. È facile immaginare
quel che accadeva, le volte in cui la loro mira non risultava particolarmente precisa…
All’interno del lager Libertà, tuttavia, era possibile accertare
una serie di differenze non certo irrilevanti, rispetto ad altri campi di sterminio passati alla storia.
Il decano e i kapò, ad esempio, dormivano in un piccolo capannone a parte. Si trattava di un privilegio esclusivo, attraverso il
quale le SS fomentavano le rivalità interne. Inoltre, i loro giacigli
erano costituiti da letti veri e propri, materassi e reti in ferro del
tutto simili a quelli utilizzati dagli stessi nazisti. Noialtri, invece,
dormivamo su catafalchi in legno, che nel loro complesso ricordavano la struttura di un alveare. Ogni cella poteva accogliere a
malapena un paio di deportati, ed era divisa dalle altre mediante
un asse verticale, anch’esso di legno. Si poteva scegliere il compagno col quale dormire, non fu mai stabilita un’asse- gnazione
numerica o cose del genere. La propria branda, quindi, poteva
essere occupata in qualunque momento da un altro deportato, e
questo fattore generò in determinate occasioni un po’ di acredine, perché di teste calde lì dentro ce n’erano parecchie, tra ex galeotti e barboni rissosi. C’è di buono che l’assenza dei kapò consentì sempre di risolvere quei problemi fra noi; nell’angusto spazio del block il dialogo era possibile, e certamente incoraggiato
da chi, come me, comprendeva bene il giochetto orchestrato dai
nazisti per metterci contro a vicenda. Rumoreggiare durante il
coprifuoco era espressamente vietato dal regolamento, ma con le
dovute cautele non fu difficile aggirare l’ostacolo; c’è da dire
inoltre che i nazisti non temevano nulla da noi, sicuri com’erano
di poter reprimere ogni forma di dissenso.
Nel lager Libertà, la promiscuità sessuale veniva tollerata. Di
più: incoraggiata. Si divertivano a mischiarci come animali, a
esibire i nostri corpi nudi davanti ai detenuti dell’altro sesso; desideravano cancellare ogni traccia della nostra umanità, quel senso del pudore che, al di là di ogni altra implicazione, appartiene
intimamente a ognuno di noi. Il loro scopo era renderci inguardabili gli uni agli altri, spingerci a disprezzarci fra noi. Il puzzo dello sporco e del sangue mestruale ammorbava l’aria dei block, e
nei nuovi arrivati tutto questo provocava una reazione sdegnata,
risvegliando quel senso dello schifo che presto, in una o due settimane, sarebbe scomparso inevitabilmente. Tanto bastava per
diventare simili, se non identici, a quegli ammassi di ossa che girovagavano storditi per il lager. E alla fine, come in un cerchio,
nessuno poteva più disprezzare, ma soltanto essere disprezzato.
A parte la promiscuità, il maggiore elemento di distacco dalla
tipologia classica di lager era un altro: l’assenza quasi totale di
ebrei. Se ne contavano poche decine, e la maggior parte (tra cui
il sottoscritto) non era lì per cause strettamente connesse all’origine semitica. Il regime, infatti, non odiava soltanto i giudei.
Odiava anche gli artisti, le prostitute, gli avanzi di galera, i neri, i
religiosi, i dissidenti politici, gli apolidi, gli zingari, i malati mentali, i barboni, gli storpi. Tutti coloro che non rientravano, fisicamente e culturalmente, nello stereotipo ariano, erano chiusi lì
dentro.
Io fui imprigionato per attività culturali contrarie ai principi del
nazionalsocialismo. Cosa accadde, lo ricordo come fosse ieri…
Poco più che maggiorenne, mi ritrovai a gestire una piccola libreria, ereditata da uno zio paterno agli inizi degli anni Trenta.
Lettore della peggiore specie, quello da sbornia, avevo già divorato centinaia di libri. Quindi, a conti fatti, non avevo letto nulla.
Così come l’aver osservato qualche stella non consente a un essere umano di comprendere la vastità del cielo, allo stesso modo
la lettura di un numero pur significativo di libri non consente di
comprendere, se non in minima parte, la vastità del sapere.
Non fu mai un’attività remunerativa, ma servì comunque a coronare un sogno: quello di trascorrere le mie giornate fra i libri,
compagni inseparabili di un’intera vita. Con l’Europa ormai
schiava di totalitarismi d’ogni colore, e la mia contrarietà alla
guerra, alla violenza, alla discriminazione, nonché in seguito ai
voltafaccia di chi aveva sostenuto fino al giorno prima di essermi
amico, non mi erano rimasti che loro.
Mi piaceva catalogarli in ordine alfabetico, riporli nelle scansie
e leggerne interi brani, scegliendo un’opera a caso senza dare
importanza all’umore del momento. Non visto, passeggiavo fra
gli scaffali e lasciavo scorrere le dita sui dorsi dei libri, come fossero spighe di grano o steli d’erba alta. A volte li accarezzavo. Ci
parlavo anche, nei momenti di maggiore solitudine. Il signor
Goethe conosce a memoria ogni particolare della mia esistenza.
Nei momenti bui, lanciavo occhiatacce a Hemingway. In quelli
felici, discorrevo amabilmente con Epicuro.
Poi un giorno entrò un ragazzino. Chiese una copia del Mein
Kampf. In tutta risposta, gli misi fra le mani una copia di Civil
Disobedience. “Se non vuoi rimbambirti anche tu, leggi Thoreau
e lascia perdere Hitler”, gli dissi. Lui strabuzzò gli occhi e se ne
andò scuro in volto, lasciando la copia sul bancone: era il nipote
di una SS, ma questo lo avrei scoperto il giorno seguente, quando le einsatzgruppen fecero irruzione e devastarono il locale.
Mandarono in frantumi le vetrine, distrussero le opere di Kafka,
Wilde, Mann, Brecht, artisti considerati “deviati” dal regime. Le
bruciarono davanti ai miei occhi, mentre mi riempivano di calci
e pugni. Le fiamme divoravano il sapere celato nei miei libri,
mentre ripensavo all’antica legge del páthei máthos. “Chi soffre
riceve conoscenza”, sostenevano gli ellenici. In quegli istanti,
pensai piuttosto che “chi conosce riceve sofferenza”.
Fui accusato di nutrire simpatie verso l’ateismo, l’omosessualità, la filosofia libertaria. Confusero lo studio con la propaganda,
e senza alcun processo, mi rinchiusero in un treno assieme ad altri innocenti, molti dei quali perirono durante il viaggio. Al nostro arrivo, un terzo dei deportati non scese dal treno. Ad occuparsi di loro furono i sonderkommandos, detenuti che trattavano
i cadaveri e le camere a gas, eliminati a scadenze regolari dalle
SS per impedire loro di divulgare ciò che vedevano. Il regime
non lasciava nulla al caso.
Caricarono i morti su alcuni carretti di legno, e li condussero
verso gli inceneritori. “La loro agonia è stata breve”, disse qualcuno dall’altra parte del filo spinato. Ed io, che a malapena riuscivo a reggermi in piedi, capii che le sofferenze sin lì patite sarebbero apparse inezie, se paragonate a quelle che mi attendeva-
no nel lager. Non solo di tipo fisico, intendo. Col trascorrere dei
giorni si fece spazio in me un’atroce consapevolezza: mai più
avrei letto, o anche semplicemente sfogliato, un libro. Destinato
a trascorrere quel che rimaneva da vivere in compagnia dei miei
persecutori, il privilegio della lettura (ritenuto erroneamente,
oggi, un diritto come altri) non avrebbe mai fatto ritorno. La mia
quotidiana esistenza conobbe un periodo di sospensione, tra il vivere e il non vivere, nel momento stesso in cui mi fu preclusa
questa possibilità. Che non era un semplice piacere, o un passatempo da espletare di tanto in tanto. Era atto vitale, espressione
della massima potenzialità umana: quella di apprendere. L’etimologia stessa lo suggerisce: leggere vuol dire raccogliere, entrare in possesso di qualcosa che non si ha. Arricchirsi. La lettura
di un romanzo non può mutare la realtà e tutto ciò che vi è in
essa, ma può aiutarci a comprenderla. Non è illusione, ma superamento delle verità precostituite, quelle che la società impone
agli individui del suo tempo. Il Mein Kampf ne era zeppo. Ma la
lettura non può essere ingiunta o vietata con le armi, perché in
questo modo perde il suo significato originario. Smarrisce se
stessa. La lettura, quella vera, incita al confronto, spinge l’appassionato ad andare oltre, a leggere il simile e il dissimile. Imporre
o proibire la lettura è pura barbarie, omicidio delle idee, negazione della libertà per eccellenza: quella di scegliere cosa raccogliere.
Nella parte superiore del cancello del lager spiccava una scritta,
il motto del campo; grandi parole forgiate nel ferro erano state
inchiodate al frontone una accanto all’altra, e il loro significato
non lasciava spazio a fraintendimenti:
L’uomo libero non pensa, esegue
Questo c’era scritto. Una massima perfetta, tesa ad annientare i
nostri processi mentali, il bisogno di capire, di chiedersi il perché
di tutto quell’orrore. Per i nazisti non dovevamo comprendere alcunché, ma accettare tutto senza fiatare. Odiavano e temevano la
nostra voce; il minimo bisbiglio li insospettiva, e spesso conduceva a un pestaggio immotivato.
Sarà per questa idiosincrasia nei confronti del dialogo, forse,
che i detenuti venivano smistati all’interno dei block in maniera
caotica. Tedeschi, polacchi, russi, francesi, inglesi, italiani e così
via, senza alcun criterio, se non quello della diversità. Ad ogni
modo, più o meno tutti masticavano il tedesco, chi per ascendenza, chi per professione e chi per cultura personale, ed era in quell’idioma che avvenivano i nostri colloqui. Discutevamo fra noi la
sera, perché durante il giorno ogni accenno di conversazione sul
luogo di lavoro veniva punito nei modi più efferati, compreso
l’omicidio. Ogni scusa era buona per far fuori uno di noi, insomma, e liberare così un posto nei dormitori, o nella fabbrica in cui
prestavamo servizio.
Nella distorta ottica darwiniana abbracciata dai nazisti, soltanto
i più forti meritavano di sopravvivere. Ed è per questo che concedevano ad alcuni di noi la possibilità di guadagnarsi un briciolo di vera vita: i prescelti non soffrivano la fame, né il freddo,
non subivano maltrattamenti e non erano costretti a lavorare duramente. Alla storia sono passati solamente i kapò, ma in realtà i
kapò occupavano il gradino intermedio della scala gerarchica
edificata dalle SS. Quello più alto era appannaggio del lagerälteste, il decano del campo. Nel nostro lager questo ruolo era ricoperto da T.K., chiamato così per via delle sue iniziali; si trattava
di un avanzo di galera, che coi nazisti aveva in comune numerose caratteristiche. Su tutte, l’innata crudeltà.
Al di sotto di T.K. c’erano i suoi aiutanti, i kapò delle baracche,
che godevano dei medesimi privilegi e potevano contare a loro
volta su alcuni assistenti. Il kapò addetto al controllo del mio
block era un tale di nome Fritz.
Fritz era stato in carcere a lungo, per aver commesso uno stupro. Temeva T.K., e lo adulava in tutti i modi. Spesso gli cedeva
cibo, alcol e sigarette entrati clandestinamente all’interno del lager. T.K. apprezzava, ma sapeva che lo scopo ultimo di Fritz era
quello di soffiargli il posto, un giorno o l’altro, per cui lo proteg-
geva ma senza eccedere. I tedeschi si aspettavano l’obbedienza
più totale dai decani, e questo T.K. lo sapeva bene. Un solo errore, la minima indulgenza nei riguardi di Fritz e la sua vita da privilegiato avrebbe avuto termine. Del resto, i nazisti non offrivano competenze così importanti ai primi arrivati. Rivolgevano la
loro attenzione esclusivamente ai criminali comuni; sapevano
che un detenuto qualunque avrebbe approfittato del potere acquisito per alleviare le pene dei compagni, cancellando il nome di
un deportato dalla lista di lavoro, falsificando un referto medico
per consentirne il ricovero in infermeria, oppure favorendone il
trasferimento in un block diverso per sfuggire a un pericolo incombente. La solidarietà non poteva e non doveva trovare spazio
in quel luogo, e per questo motivo occorreva affidarsi ai servigi
di gente senza scrupoli.
A noi, detenuti semplici, tutto ciò appariva paradossale. Sebbene questi signori godessero di privilegi a noi preclusi, il marchio
dell’infamia campeggiava anche sui loro vestiti. Un triangolo di
stoffa colorata cucito sulla parte sinistra della divisa e sulla gamba destra dei pantaloni, infatti, era il simbolo che distingueva i
prigionieri: rosa era quello degli omosessuali, viola quello dei religiosi dissidenti, verde quello dei criminali, rosso quello dei
contestatori politici, nero quello degli asociali, mentre gli ebrei
venivano segnalati col colore giallo. In base alle varie tonalità, i
deportati venivano chiamati di volta in volta rosa, verdi, viola,
rossi, neri o gialli.
A me, chissà perché, era stato assegnato il nero. D’altronde lo
studio richiede isolamento, e l’isolamento genera pensieri di ogni
tipo. Questa era la mia colpa, in fin dei conti: aver pensato. E
quei pensieri, per ordine dei nazisti, dovevano rimanere ben nascosti, e in silenzio. Il duro lavoro, le privazioni, l’annientamento
della volontà, servivano esattamente a questo. Punizione ancor
più dura per chi, come me, ha sempre considerato il libero scambio di idee l’ancora di salvezza per questa umanità alla deriva.
CAPITOLO 4
Il comandante Bahuoff entrò nel block scortato da T.K. e Fritz.
Dapprima ci scrutò tutti con una smorfia di raccapriccio, come
era solito fare davanti ai nostri corpi smunti. Poi si rivolse a Fritz
e domandò:
– Perché questi pezzenti non sono al lavoro?
– Hanno il permesso del medico – rispose il kapò prontamente.
– Davvero? Beh, questo è un campo di lavoro, non un campeggio per ebrei infermi. Il dottor Kubik saprà tutto di medicina, ma
non capisce nulla di economia. Siamo in guerra, per dio, l’ultima
cosa che serve alla Germania è un bivacco di storpi e diarroici.
– Io ho solamente eseguito gli ordini del dottor Kubik – cercò
di giustificarsi Fritz. Bahuoff sorrise ironicamente:
– Ben fatto, Fritz. Dove sono i nuovi arrivati? – domandò allora
con vivo interesse. Il kapò indicò con un cenno della testa l’angolo in cui stazionavano Hans e Jurgen. L’ufficiale li osservò
compiaciuto, poi mosse nella loro direzione, e ordinò a entrambi
di mostrargli un documento di riconoscimento. Hans e Jurgen tirarono fuori due portafogli di pelle all’apparenza molto costosi,
che consegnarono con evidente rammarico. Bahuoff esaminò le
due carte d’identità, poi sorrise di nuovo.
– Preparate due triangoli di stoffa gialla per questi ebrei – sentenziò dunque senza voltarsi, ma persistendo a fissare i volti impauriti dei novelli deportati.
– In ginocchio – ordinò in seguito con una risolutezza che con
lasciava adito ad alcun tipo di tentennamento.
– Mani dietro la nuca – ingiunse ancora.
I nuovi arrivati eseguirono anche questo ordine, ma senza comprendere il fine ultimo di quelle richieste. Io, che invece ci ero
già passato, sapevo perfettamente cosa stava accadendo: era il
saluto sassone, una sorta di attestato di sottomissione al capo del
lager. Solitamente veniva attuato al di fuori delle baracche, sotto
il sole, e in quella posizione si poteva restare per ore, fino a svenire. E chi perdeva conoscenza veniva ucciso, perché reputato
incapace di sostenere la dura mole di lavoro richiesta dai nazisti.
Il saluto sassone all’interno del block era un’anomalia: e questo,
in chi osservava la scena, destò subito una certa preoccupazione.
Non temevamo per le loro vite, perché Hans e Jurgen erano giovani e robusti, e freschi sul piano delle forze. No: temevamo per
il loro orgoglio. Perché ci sono cose peggiori di un proiettile in
corpo, e credo che questa sia una delle realtà incontrovertibili
emerse dall’esperienza del totalitarismo nazista.
Ad ogni modo, tutti i nostri timori ricevettero conferma nell’istante in cui Bahuoff ordinò ai due di tenere la testa ben alzata, e
gli occhi spalancati. Perché un momento dopo il comandante,
con estrema lentezza, diede fuoco a una sigaretta, abbassò la cerniera dei pantaloni e cominciò a pisciare sui volti dei poveri malcapitati. Poi attaccò a ridere rumorosamente, e a tremare in preda
a quell’eccesso di scherno. Tremando, finì per sporcare anche i
vestiti di Hans e Jurgen, che subirono quella umiliazione senza
battere ciglio, quasi fossero già pronti, fisicamente e psicologicamente, a sopportare qualunque tipo di sopraffazione. Del resto lo
avevano detto loro: del lager Libertà avevano già sentito parlare,
e la conoscenza, si sa, aiuta a non avere paura. O ad averne
meno, se il coraggio non manca.
Dopo averli inzuppati per bene, Bahuoff risistemò la camicia
nei pantaloni e si abbandonò ad una lunga tirata della sigaretta;
successivamente s’inarcò in avanti, guardando Hans e Jurgen
dritto negli occhi. Espirò il fumo sui loro volti, e sorridendo osservò:
– Io sono un tedesco, voi siete feccia. Posso starmene qui e pisciarvi in faccia per tutto il tempo che mi pare. Allora, siamo o
no una razza superiore?
Una grassa risata echeggiò per tutto il block. Tornò ritto, quindi si rivolse a Fritz dicendo:
– Assicurati che i detenuti rimangano nell’attuale posizione
fino a nuovo ordine. T.K., tu vieni con me.
Infine si avviò verso l’uscita, ma il volto di un vecchio musulmano attirò la sua attenzione. Si bloccò a un metro dalla porta,
tornò indietro e gli chiese:
– Tu: perché non sei a lavoro?
L’uomo tremò, e noi anche.
– Dicke füsse – biascicò in un tedesco stentato. Piedi gonfi.
– Però adesso sei in piedi, qui, davanti a me – replicò Bahuoff.
Era una trappola. Qualunque cosa avesse detto o fatto, il vecchio
sarebbe passato dalla parte del torto. Difatti, era assolutamente
vietato restare seduti o sdraiati in presenza di una SS. Tutto quel
che poté fare, dunque, fu cercare un foglietto di carta compilato
dal dottor Kubik, che lo esentava dal prestare servizio in fabbrica. Frugò nelle tasche, e quando l’ebbe trovato lo aprì e lo mostrò al comandante, esibendo un sorriso disperato. Bahuoff lesse
velocemente il referto medico, poi lo strinse fra le mani, accartocciandolo.
– Un uomo che non sta in piedi è un uomo già morto. Qui non
c’è più bisogno di te – disse, ed estraendo velocemente la sua pistola, gli sparò in pieno volto da pochissimi centimetri, centrandolo proprio in mezzo agli occhi. Il corpo del vecchio cadde all’indietro, in un tonfo già udito mille volte, e ogni volta nuovo,
ogni volta agghiacciante. Bahuoff gettò per terra il foglietto di
carta, lanciandoselo alle spalle senza alcun interesse.
Poi andò via, nel silenzio e nell’immobilità generali.
CAPITOLO 5
Fritz stazionava nei pressi dei nuovi arrivati, rimasti nella posizione del saluto sassone per oltre due ore. Ogni tanto rideva, e li
incoraggiava in tono sarcastico, oppure chiedeva loro se fossero
già stanchi. Di tanto in tanto cavava dalla tasche qualche pistacchio, lo sbucciava e lo mandava giù; l’involucro legnoso, invece,
lo tirava addosso a Jurgen e Hans, cercando di centrarli in testa.
– Vedete – diceva – quel che ancora non vi è chiaro è che la situazione attuale non è passeggera. Hitler conquisterà la Russia,
poi si spingerà ancora più in là, verso oriente. Quei musi gialli
non opporranno resistenza, vedrete. Il mondo intero sarà nazista,
poi bisognerà decidere chi deve restare in vita e chi no. Io adesso
sono un prigioniero, ma durerà poco. La mia idea è che presto
l’esercito nazista avrà bisogno di gente con una certa esperienza.
Tipi come me, insomma, abituati per natura al comando. Gli
ebrei come voi, invece, verranno schiacciati come mosche.
– Noi non siamo ebrei – sussurrò Hans a testa bassa. Seguirono
alcuni secondi di silenzio. Fritz, incredulo, gettò per terra il pistacchio che stava per ingurgitare e avanzando verso di lui chiese:
– Che hai detto?
– Che non siamo ebrei – gli fece eco Jurgen.
– Ma tu guarda, abbiamo due duri! – sbottò Fritz, che un istante
dopo si avventava su entrambi, tirando i capelli ora all’uno ora
all’altro, obbligandoli a guardarlo negli occhi.
– Forse non vi è chiaro chi comanda, qui – disse il kapò perdendo saliva da un lato della bocca. Gli capitava sempre, negli
eccessi di ira. – Se io vi dico di stare zitti voi non dovete fiatare.
Ci siamo intesi?
Hans e Jurgen, i volti contratti in una smorfia di rabbia cieca,
non risposero. Fritz mollò i capelli di Jurgen e si allontanò di un
passo, estraendo dal fianco destro della divisa un bastone di legno.
– Posso facilitarvi l’esistenza o rendervi la vita un inferno –
disse con calma, poi sferrò un colpo che centrò Hans in pieno
volto. Sangue denso e scuro cominciò a defluirgli copiosamente
dal naso. Nonostante questo, non proferì lamento. Barcollò per
qualche istante, in un equilibrio sempre più difficoltoso.
– Se cadi ti uccido – minacciò Fritz. Parlava sul serio. Hans
strinse i denti, e riuscì a tener duro. Il provvidenziale arrivo, per
una volta, del decano T.K., lo sottrasse a un pestaggio certo.
– Fritz, Bahuoff ha chiesto di te – disse affacciandosi sul ciglio
della porta. Notò la maschera di sangue in cui era stato ridotto il
viso del nuovo deportato, e sorrise.
– Vacci piano amico – commentò – quel porco musulmano è
crepato e noi abbiamo bisogno di manodopera, o Bahuoff spedisce noi due a lavorare.
Fritz inspirò rabbiosamente e serrò la mascella, ma non obiettò
nulla. Rimise a posto il suo bastone, poi s’avviò verso l’uscio.
T.K. era già sparito. Nell’uscire di scena, tuttavia, qualcuno gli
domandò:
– Ti diverti un mondo, non è vero?
Il kapò volse lo sguardo verso destra. A parlargli era stato
Oskar, un delinquente comune arrivato nel lager assieme a Fritz.
– Che problema hai, amico? Hai avuto la tua occasione, e te la
sei lasciata sfuggire come un idiota. Faccio quello che avresti dovuto fare tu – ribatté Fritz.
Ogni volta in cui si rivangava quell’episodio, Oskar diventava
un blocco di marmo. Il kapò aveva ragione: inizialmente avevano affidato a Oskar il compito di dirigere il nostro block, il numero due. Ma lui, per un motivo che sfuggiva a chiunque, aveva
risposto “no grazie”, ottenendo come ricompensa una scarica di
pugni e calci in tutto il corpo. Eppure, Oskar non era affatto un
santo. Nei suoi trascorsi di delinquente aveva rubato, picchiato e
anche ucciso. Non era migliore di Fritz, da questo punto di vista.
Eppure, l’impatto col lager doveva aver smosso qualcosa nell’animo di quel bestione, qualcosa che non aveva minimamente
sfiorato né Fritz né T.K., malfattori come lui. Quel qualcosa, lo
avrei conosciuto nel tempo.
C’è da dire che i rapporti fra me e Oskar non furono mai idilliaci; io ero il pacifista amante delle lettere e delle arti, lui un galeotto condannato a trent’anni di carcere per aver commesso un
omicidio. Il suo modo di fare violento e scontroso non mi piaceva, ed io, ai suoi occhi, probabilmente apparivo il classico uomo
di cultura che può permettersi di sprecare il proprio tempo tenendo la testa sui libri. Pur tuttavia, dal giorno in cui si sottrasse al-
l’opportunità di diventare il nuovo kapò, una sottile forma di ammirazione nei suoi confronti si destò, silenziosa, in me. Avrebbe
potuto mangiare e dormire a sazietà, ma quel qualcosa di cui parlavo, invisibile ai nostri occhi, lo costrinse a dire di no. Fu un gesto eroico, anche se lui non lo considerò mai tale.
Ad ogni modo, quando Fritz si vide nuovamente stuzzicato da
un detenuto del suo block, avvampò in volto, scosso dalla stessa
rabbia di prima, quella che nasce dall’insubordinazione di un
sottoposto. Però Oskar non era un prigioniero qualsiasi per lui.
Avevano condiviso per mesi la stessa cella, e vissuto insieme la
terribile esperienza della deportazione; inoltre, se non fosse stato
per la coraggiosa rinuncia di Oskar, anche Fritz avrebbe sofferto
la fame e gli stenti. Il suo ruolo, nondimeno, gli imponeva di
sopprimere le voci fuori dal coro; una frase lasciata impunita poteva destare in noi un moto di ribellione, e mettere nei guai il
kapò. I tedeschi non aspettavano altro. Fritz, consapevole di poter essere rimpiazzato in qualunque momento, e senza alcuna
giustificazione, teneva alta la guardia. Per questo motivo avanzò
nella direzione di Oskar, e rispolverò il manganello sporco del
sangue di Hans.
– Non siamo più in prigione: qui comando io, adesso – proferì
battendo ritmicamente il bastone sul fianco destro.
– Non siamo più in prigione? Cristo santo, ma ti sei guardato
attorno? – chiese l’altro.
– Va a farti fottere, Oskar! Sono io che gestisco questa baracca,
tu non puoi mettere becco nelle mie decisioni. Vuoi dare gli ordini? Troppo tardi, povero stronzo, dovevi pensarci prima. Potevi mangiare a sbafo, bere acqua pulita, dormire su un letto vero.
E invece no, dovevi fare l’eroe. Sei entrato qui dentro che pesavi
novanta chili, potevi ribaltare da solo una camionetta delle SS.
Guardati, adesso. Quanti chili hai perso da allora? Quindici?
Venti? Può darsi che tutto questo ti renda orgoglioso, ma qui con
l’orgoglio non si va lontano, ci si ferma alla fossa.
T.K. si affacciò per la seconda volta nel block, richiamando
l’attenzione del compagno con un sospiro spazientito. Allora Fri-
tz s’incamminò velocemente verso di lui, mettendo a posto il suo
manganello. Sapeva che non era il caso di far alterare oltremodo
il decano. Ma la sua rabbia non svanì nell’immediato.
– In cella mi hai salvato il culo in più di un’occasione, ma stai
passando la linea – aggiunse Fritz tornando indietro e afferrando
Oskar per un braccio – quindi questa è l’ultima volta che usi quel
tono con me. Non ti faccio niente, e pago il debito. La prossima
volta non la passerai liscia: tienilo bene a mente.
Questo disse. Seguì un duro scambio di sguardi, poi si allontanò di buona lena.
Hans e Jurgen caddero per terra un istante dopo che Fritz fu
uscito, e in questo modo ebbero salva la vita.
CAPITOLO 6
Nelle ore successive, Hans e Jurgen affrontarono l’iter burocratico del lager, già sperimentato da tutti noi.
Dopo che fu cessata la tortura del saluto sassone, entrambi furono accompagnati nell’ufficio della sezione politica, il luogo in
cui si veniva sottoposti all’interrogatorio di routine, tra botte, minacce e sberleffi. Dati penali e personali venivano registrati su
una scheda, corredata da una bella fotografia del detenuto. Da
quel momento in poi, non si era nulla più che un numero tatuato
sull’avambraccio. Nel primo pomeriggio T.K. tenne loro una
breve lezione su ciò che li attendeva nel lager. Pronunciò la parola “morte” in continuazione, perché il manuale del bravo decano
imponeva di fugare ogni dubbio circa il fine ultimo della deportazione. Seguì il taglio dei capelli, quindi fu il turno della doccia.
Erano i nostri carcerieri a stabilire la temperatura dell’acqua: da
perfetti sadici, si divertivano a farla scendere bollente in estate, e
ghiacciata in inverno. Sempre meglio del gas, ad ogni buon conto.
Nudi come vermi, Hans e Jurgen furono condotti dall’altra parte del campo per il rito della vestizione. Anche a loro furono assegnati dei pantaloni, una divisa a righe, delle mutande, una ca-
micia, una giacca, un berretto, un paio di calze e uno di scarpe,
tutto rigorosamente logoro e sporco. La tappa successiva fu alla
camera dei valori, ove consegnarono il denaro e gli oggetti di
una qualche rilevanza economica che avevano portato con sé.
Gran parte degli averi sarebbe stata razziata, nei giorni successivi, da ufficiali e sottoufficiali, e in misura minore dai kapò; non
era cosa rara osservare al polso di qualche SS l’orologio che,
fino al giorno prima, tutti avevano visto pendere dalla catenina di
un deportato appena giunto nel campo.
L’odissea di Jurgen e Hans ebbe fine con la visita medica, al
termine della quale risultarono di robusta corporazione, e quindi
idonei a svolgere il lavoro pesante.
Vennero assegnati al secondo block: il mio.
Al crepuscolo, come d’abitudine, ci riversammo tutti insieme
nel grande spiazzo, per l’appello serale. Quella era la parte della
giornata più dura e dolorosa da portare a termine. I lavoratori
non vedevano l’ora di andare a riposare, gli infermi non riuscivano quasi mai a reggersi in piedi, e in un modo o nell’altro dovevano sperare nell’aiuto di qualcuno giunto lì da poco, quindi più
forte sul piano fisico. L’appello durava solitamente un’ora, ma
poteva protrarsi per l’intera notte, nel caso in cui un detenuto si
fosse reso irreperibile. Tempo addietro, durante la seconda adunanza, una donna di origini marocchine non aveva risposto alla
chiamata. L’intero corpo dei detenuti fu bloccato per cinque ore
nella piazza, sotto la pioggia battente. La temperatura esterna
non arrivava allo zero, e numerosi soldati iniziarono a setacciare
ogni angolo del lager, alla ricerca della donna scomparsa. Il suo
corpo senza vita fu rinvenuto in fabbrica, steso sul pavimento.
Aveva tentato di trascinarsi al di fuori della struttura, strisciando
coi gomiti, ma la morte se l’era portata via a metà del percorso.
Con le ultime forze, però, era riuscita a strappare il triangolo rosa
che la identificava come omosessuale. Bahuoff ordinò che le venisse ricucito, al momento di gettare il cadavere nella fossa.
In quella occasione, nelle cinque ore d’attesa altri sette detenuti
morirono a causa del gelo. I nostri corpi, già provati dalla fame e
dal duro lavoro, non potevano sopportare esposizioni prolungate
al freddo. Da quel giorno, ognuno di noi comprese profondamente di non essere responsabile soltanto della propria vita. Un
tentativo di fuga, un banale ritardo o un suicidio potevano condurre altri individui alla morte. Quell’episodio colpì tutti, indistintamente, e da allora nulla di simile si verificò nel lager.
A volte, quando Bahuoff era ubriaco, ci chiedeva di cantare
l’inno del campo, una canzoncina scritta da una detenuta polacca, Tamara Zmuda. Tamara era laureata al conservatorio, e suonava il pianoforte divinamente. Un giorno Bahuoff le chiese di
andare a casa sua per suonare qualcosa; eseguì, su richiesta degli
ufficiali, alcuni brani di Chopin, Mozart e Liszt. Il comandante
ne restò talmente impressionato da chiederle di comporre un carme per il lager. O meglio, glielo impose. Tamara fu scaltra. Ne
inventò uno dal carattere trionfalistico, perfettamente in linea
con la grandeur ricercata dai nazisti, ma breve. Sapeva infatti
che una strofa in meno avrebbe potuto salvare la vita a più di un
prigioniero malato. E così, a seconda dei capricci del nostro peggiore aguzzino, almeno due volte la settimana ci ritrovavamo a
cantare con voce goffa e roca questi versi:
Ave Germania,
madre di tutti noi.
A te io rendo onore
dall’alba al tramonto,
per avermi accolto nella tua terra immacolata.
Giusta o ingiusta tu sei la mia patria,
e col lavoro mi rendi libero.
Un altro giorno muore,
ma per sempre io sarò
tuo fedele servitore.
Grazie Germania, grazie mio Führer
Bahuoff e i suoi sottoposti ridevano come matti durante l’esecuzione. Sapevano che nessuno di noi si rispecchiava in quelle
parole, e che la nostra riconoscenza era pura facciata, esibita per
volere delle armi. Ma ne godevano ugualmente, e a volte cantavano con noi, scoppiando in un applauso fragoroso al termine di
quella puerile esibizione.
Terminato l’appello serale, Hans e Jurgen conobbero per la prima volta la mensa del lager, una baracca desolata in cui una donna dall’aspetto mascolino riempiva di cibo la nostre scodelle,
chiamate in gergo militare gamelle o gavette, quasi sempre di
latta e di colore rosso. La parola cibo era chiaramente un eufemismo: le pietanze che ci somministravano non possedevano alcun
valore nutritivo, ma servivano unicamente a placare per qualche
ora la fame, e a tenere caldi. Per questo le mandavamo giù. Tuttavia, una delle principali cause di infezione era proprio il doppio
pasto quotidiano, giacché le gamelle venivano lavate frettolosamente, con una sciacquata veloce sotto l’acqua fredda; passavano così di bocca in bocca, ogni giorno, e non avendo in dotazione forchette o cucchiai, né tanto meno coltelli, identificati come
potenziali armi d’offesa, al mattino e alla sera nuove labbra si
adagiavano sul bordo della scodella, depositando germi e batteri
che una semplice sciacquata non poteva certo portar via.
Inoltre, molto spesso le gamelle non venivano utilizzate per lo
scopo cui erano destinate. C’è da dire che il problema dell’approvvigionamento s’incrociava, nella vita del campo, con numerosi altri problemi. Uno dei più gravi, restando in tema di condizioni igieniche, era quello legato all’espletamento dei bisogni fisiologici. Per urinare e defecare avevamo a disposizione, ognuno
all’interno del proprio block, una semplice buca, collocata lontano dalle brande. Naturalmente, essendo alcuni di noi gravemente
malati, non tutti potevano concedersi il lusso di alzarsi in piena
notte per trascinarsi fino al fosso. Per questo motivo, le gamelle
lasciate accanto ai letti durante le poche ore di riposo divenivano
prede degli infermi, che dopo averle usate come contenitori per
feci o urina, le abbandonavano accanto alle brande, o sui cumuli
dell’immondizia. Il mattino dopo una squadra raccoglieva le ga-
vette ancora sporche e le passava sotto l’acqua, come al solito:
da quel momento in poi, la loro libera circolazione aveva inizio.
Nessuno sapeva, né intendeva scoprirlo, cosa mai avesse accolto fino alla sera prima la gamella utilizzata per cibarsi. Già di per
sé la sbobba che i nazisti ci passavano non aveva alcuna parvenza di cibo: a mezzogiorno e a sera si disponeva di un primo, la
“minestra”, e di un secondo, chiamato “porzione”. La minestra
consisteva in un litro scarso di acqua calda, in cui galleggiavano
pezzetti di patate marce dal lunedì al giovedì, rape il venerdì e il
sabato, orzo stracotto la domenica. La porzione, invece, veniva
identificata solitamente con un pezzo di pane fasullo, pieno di
segatura più che di crusca; cinque volte alla settimana ci si poteva spalmare sopra qualche ricciolo di burro, le volte restanti il
pane serviva a mandare giù una salciccia bruciacchiata, e due
cucchiai di marmellata in pessimo stato di conservazione. Nei
periodi abbondanti, uno strato di formaggio spalmabile, insapore
e inodore, ornava la superficie scura delle fette di pane.
Al loro primo incontro con le vettovaglie del campo, Hans e
Jurgen preferirono rinunciare quasi del tutto alla propria razione
di cibo, che donarono disgustati ad alcuni ucraini stipati in un angolo. Durante il pasto, ci osservarono a lungo con aria incredula,
probabilmente chiedendosi con che coraggio riuscissimo ad ingoiare quello schifo. Ma erano lì soltanto da poche ore, e andavano capiti. Dal giorno seguente, anche loro avrebbero ceduto all’istinto di sopravvivenza, che ti imponeva di mangiare, di respirare, di non mollare la presa da quel filo sottile che stringevi per
restare aggrappato alla vita.
Ci trattavano come bestie, e in un certo senso, come tali ci
comportavamo. Per necessità. Ma spente le luci, e adagiati i nostri corpi doloranti sulle brande, qualcosa tornava dal passato per
ricordarci la nostra umanità.
Era il dialogo, il confronto.
CAPITOLO 7
Prima del mio arrivo, i detenuti del secondo block andavano a
dormire senza aprire bocca, rifugiandosi nei propri pensieri e nei
propri ricordi. Una pratica assai pericolosa, perché spesso qualcuno di noi finiva col porsi delle domande cui un singolo uomo
non può offrire risposta. Ne derivava un crescente senso di insofferenza, sfociante in profondi sospiri o in un sonno agitato.
Io offrii a tutti un’alternativa: il dialogo come scappatoia, come
via di fuga dal disagio della riflessione solitaria. Tutti noi, in fondo, tentavamo di capire, ma se ci fossimo affidati unicamente ai
nostri singoli e limitati punti di vista, nessuna spiegazione valida,
o anche lontanamente verosimile, sarebbe mai stata avanzata.
Occorreva un confronto. Ed io, che nella mia vita non ho mai negato a chicchessia il diritto di replica, parlando con tutti e apprendendo da tutti, mi prestavo perfettamente al ruolo di interlocutore prediletto.
La prima discussione, all’interno del nostro block, nacque attorno al tema della musica. Tamara, la pianista, era appena tornata dalla villetta del rapportführer Braun, l’ispettore capo che sottostava unicamente agli ordini di Bahuoff, e che ci detestava a tal
punto da non mettere quasi mai piede all’interno del campo. Le
chiesi il motivo per il quale ai nazisti piaceva così tanto la musica classica. Mi rispose che le SS udivano le note, ma non le comprendevano affatto. Il loro cuore non poteva cogliere la purezza
della musica, i sentimenti ch’essa esprime. Simulavano un fittizio senso di beatitudine, applaudivano ogni esibizione con lo
stesso sorriso inebetito con cui, al circo, tutti noi osserviamo
equilibristi e funamboli sospesi per aria, consci di non poter
emulare le loro acrobazie. Questo pensava Tamara. Il mito del
nazista mecenate le provocava repentini scatti di rabbia; la cultura, ripeteva sovente, non uccide le opinioni, ma le sposta un po’
più in là, per accoglierne altre. Chi uccide le opinioni degli altri
non può amare la cultura, ma usarla esclusivamente a fini personali.
Nel corso della loro prima notte da deportati, invece, Hans e
Jurgen ebbero modo di ascoltare una discussione fra tre personaggi piuttosto noti del block numero due: don Andrea (Andrea
Biazzi era il nome completo), un parroco italiano arrestato per
aver fornito riparo ad alcuni ebrei in una chiesa al confine tra
Francia e Germania, nonché uomo di cultura (parlava tre lingue)
e guida spirituale dei deportati cattolici presenti nel block; Franz
Kozminski, un ebreo polacco che insegnava religione in un istituto privato di Varsavia; e poi Abdul-Hakam Kathir, un vecchio
minatore di Lodz, reo soltanto di non aver rinunciato alla fede
islamica.
Pioveva, quella notte. Hans e Jurgen non avevano aperto bocca
per tutto il giorno, e nonostante molti di noi desiderassero approfondire la loro conoscenza, un certo timore ci impediva di approcciarci ad essi. D’altro canto, era quasi impossibile vederli separati per più di un minuto; se ne stavano rintanati in un angolo,
col volto chino e lo sguardo accigliato, ora in un greve silenzio,
ora impegnati in un dialogo dai toni febbrili. Non sembravano
per nulla rassegnati allo status di deportati; soffrivano la prigionia ben più dei detenuti comuni, che magari vegetavano lì dentro
da oltre due mesi. Comprensibile, e tuttavia preoccupante il loro
atteggiamento. C’era stato il caso di uno slavo, qualche settimana prima, incapace di accettare l’idea di dover restare lontano
dalla famiglia fino all’ultimo dei suoi giorni, e che proprio per
questo si era tolto la vita a distanza di trentasei ore dall’ingresso
nel lager, lanciandosi contro la rete elettrificata.
Quella notte piovosa, però, Hans e Jurgen ascoltarono attentamente i discorsi dei tre uomini di fede.
Il primo a prendere la parola fu don Andrea, sdraiato su un
fianco a qualche branda di distanza dalla mia. D’acchito, domandò ai suoi interlocutori se fossero interessati a chiacchierare un
po’ con lui, dal momento che non riusciva a prendere sonno. Kozminski annuì prontamente, Abdul sorrise.
La voce di don Andrea, limpida e ferma, echeggiò allora nel silenzio generale, ponendo a tutti i presenti in ascolto una domanda angosciosa:
“Vi siete mai chiesti il perché di tutto questo?”
Molti annuirono, poi scrollarono le spalle, quasi a voler evitare
il confronto su quel tema. Non era semplice soppesare le cause
della nostra prigionia, specie dopo una durissima giornata di lavoro, segnata come sempre da urla, botte e crimini consumati
nell’omertà comune. Tuttavia, Abdul ammise:
– Mi pongo la stessa domanda ogni giorno, padre Biazzi. Lo farei ogni minuto, ogni secondo forse, se potessi. Ma qui si tratta
di salvare la pelle, e se rifletto non dormo, se dormo non riposo,
se non riposo lavoro male, e se lavoro male i nazisti mi fanno
secco. Per quel che posso, quindi, evito di pensarci. Ma certe
volte… la mattina, appena sveglio… non posso farne a meno.
– E a quale conclusione sei arrivato? – chiese don Andrea.
– Nessuna, purtroppo. Questa situazione è assurda. Siamo in
tempo di guerra, è chiaro, ma una grande guerra c’è stata pure
trent’anni fa, e certe cose non sono accadute.
Padre Biazzi assentì e aggiunse:
– Le persecuzioni nei confronti delle persone come noi durano
ormai da anni. Qui il nemico non è più l’esercito avversario, ma
civili scelti con cura all’interno della massa. Perché?
– Perché non siamo graditi al regime – sospirò Kozminski.
– Naturalmente. Ma per quale motivo?
– Perché siamo ostili.
– Ostili? Il sottoscritto, forse. Io che ho volutamente nascosto
qualche ebreo nella mia chiesa. Ma gli altri? Abdul, per esempio,
che ha fatto di male per finire qui dentro?
– Sono un musulmano, ho la pelle scura: non è già abbastanza?
– replicò lo stesso Abdul sforzandosi ancora una volta di sorridere.
– Significa che non è quel che facciamo a trasformarci in nemici – spiegò don Andrea – ma quel che siamo.
Kozminski annuì e precisò:
– I tedeschi credono nell’esistenza di una razza ariana, della
quale si proclamano gli eredi. Chi non è ariano oggi non lo diventerà certamente domani, va dunque isolato ed eliminato. Tutto qui. I nazisti non odiano soltanto gli ebrei come me, e questo
lager lo conferma. Vogliono eliminare tutto quel che c’è stato
prima del loro arrivo. Fingono di allearsi con italiani e giapponesi, ma li disprezzano profondamente. Su questo Fritz ha ragione.
– Io credo che Hitler sia l’Anticristo – intervenne all’improvviso Abdul, che come molti musulmani ragionava in termini
strettamente coranici. Nonostante lo scetticismo presente sui volti degli altri deportati, me compreso, egli proseguì:
– Non ha alcun Dio, e si è votato allo sterminio dei credenti.
Chi ci perseguita disprezza la nostra fede, perché non ne ha.
– Parli dei nazisti? – domandò il professore.
– E di chi altrimenti?
– Allora sbagli: ce l’hanno eccome una fede, ma la ripongono
in Hitler.
– Hitler è un uomo, come me e te – replicò Abdul – e chi di noi
può competere con l’Altissimo? L’arroganza dei tedeschi verrà
presto condannata. Li attende una punizione maggiore, credetemi.
– È questo che dobbiamo fare? Attendere? – domandò una zingara ungherese nel buio del capannone.
– Nel Corano è scritto: sopporta con pazienza, come sopportarono i messaggeri risoluti. Non cercare di affrettare alcunché.
– Attendete, bravi: proprio come Pio XII e quell’altro prima di
lui – polemizzò Dimitri, un compagno del block.
Padre Biazzi sospirò, poi disse:
– La mia fede mi impone di accettare tutto questo, caro Dimitri.
La tua posizione è differente, per te è tutto più semplice. Quanto
al Papa, dai un’occhiata all’enciclica Mit brennender sorge, poi
ne riparliamo.
Dimitri, che al di là di uno spiccato ateismo stimava profondamente don Andrea, sembrò sul punto di ribattere, ma infine lasciò perdere. Riguardo alle palesi differenze fra un detenuto e
l’altro, fu proprio padre Biazzi a mettere in chiaro alcune cose; e
cioè che l’insofferenza per la promiscuità sessuale era esattamente ciò che i nazisti si auguravano di provocare in noi; che gli
omosessuali, le donne e gli atei non andavano discriminati, perché a quello pensava già il regime (“e le sacre scritture di qualunque religione”, aggiungeva Dimitri provocatoriamente). Che
la discordia non poteva albergare in un luogo come il lager Libertà, dove chiunque, ognuno a suo modo, era considerato diverso dall’altro, e per questo indegno di vivere.
Il parroco italiano, libero di proseguire, aggiunse allora:
– Gesù Cristo esorta ad amare i nostri nemici, a fare del bene a
coloro che ci odiano, a benedire coloro che ci maledicono, a pregare per coloro che ci maltrattano. Tuttavia, continuo a domandarmi il perché di tutta questa sofferenza, di tutto questo orrore.
– Probabilmente non è in nostro potere dare un senso a ciò che
accade – ipotizzò il professor Kozminski – possiamo tentare, è
ovvio, ma rischiamo di sbatterci la testa. E l’ultima cosa che desidero, dopo una giornata di lavoro, è arrovellarmi inutilmente il
cervello.
– Non ti interessa capire? – domandò stupito don Andrea.
– Siamo nelle mani di Dio, padre Biazzi, e soltanto la sua misericordia può tirarci fuori di qui. Dio non rigetta l’uomo integro,
e non sostiene la mano dei malfattori. A me basta questo: la certezza che prima o poi tutto passerà.
– E nell’attesa che facciamo?
– Siamo uomini di fede, no? Allora preghiamo. Per noi e per gli
altri.
– Concordo – disse Abdul con voce ferma. Don Andrea sospirò
ancora, mostrando a tutti un paio di occhi lividi e tristi:
– Voi parlate bene, amici miei. Parlate come dovrebbe parlare
un vero credente. Ma ci sono compagni, in questo lager, che non
seguono affatto la parola di Dio, non pregano e non osservano i
comandamenti; nonostante questo, noi soffriamo le loro stesse
pene. Se volessi peccare anch’io di presunzione, chiederei: per
quale motivo? A cosa serve dunque la nostra fede? Ma voi tire-
reste in ballo i martiri, ovviamente, quindi vi rivolgo un’altra domanda: come faremo a convincere chi non crede che la cosa giusta da fare, nella situazione in cui ci troviamo, è attendere?
Il professor Kozminski si guardò attorno, annuendo mestamente:
– Non possiamo obbligarli ad agire in un modo piuttosto che in
un altro – chiarì – ma è nostro dovere parlare, consigliare, mostrare la via. Io ho la Torâh, tu i Vangeli, Abdul il Corano. C’è
chi non ha nulla, e per questo va aiutato. Non parliamo per noi
stessi, ma in vece dell’Altissimo. Che si creda nel Dio biblico, in
Gesù Cristo o in Allah, è nostro compito invitare alla prudenza e
alla moderazione, allontanando i deportati dalla tentazione di una
ribellione sanguinosa e per di più sterile, ai fini della nostra liberazione.
Abdul approvò il discorso del professore, ma il viso di padre
Biazzi non mutò espressione, restando freddo e compassato.
– Non concordi? – gli domandò Kozminski.
Don Andrea si sdraiò sulla branda, e tirò verso l’alto la coperta
lercia con la quale doveva far fronte al freddo notturno. Così restò, nel silenzio generale, per qualche secondo. Chiuse gli occhi,
deglutì. Infine parlò:
– Non so più cosa dire, né cosa pensare. Prego ogni giorno,
come voi, e come voi attendo un segno dal cielo. Soffro in silenzio, lavoro la terra, mangio quel che mi vien chiesto di mangiare.
Da settimane. Non ho più una Bibbia da poter leggere, e così mi
vedo costretto a recitare mentalmente i passaggi che ricordo meglio. Negli ultimi mesi, però, fatico non poco. Le parole si confondono, fuggono via. Soltanto un passo, che lo voglia o meno,
si ostina a tornarmi in mente.
Attendemmo per un po’ che padre Biazzi ci svelasse il brano
cui alludeva, ma il perdurare di un malinconico silenzio scoraggiò i suoi interlocutori, che preferirono non trascinare oltre quella conversazione. Soltanto Tamara, sorridendo dolcemente, riuscì a chiedergli:
– Quale passo, padre?
E don Andrea, fissando un punto imprecisato nel vuoto, scandì
con voce incerta questi pochi versi:
voi, che pur siete saggi, tollerate facilmente gli stolti.
In realtà sopportate chi vi riduce in schiavitù,
chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante,
chi vi colpisce in faccia.
Lo dico con vergogna: come siamo stati deboli!
CAPITOLO 8
Il mattino seguente, dopo aver mandato giù quel liquido insapore ma caldo che i crucchi chiamavano caffé, ebbe inizio il primo appello della giornata.
Molti di noi giungevano nello spiazzo ancora frastornati dal
sonno; gli squilli dei fischietti ci svegliavano tra le quattro e le
cinque del mattino, dunque alle prime luci dell’alba. Nei successivi trenta minuti occorreva rifare il letto, vestirsi, lavarsi, bere il
caffé e correre come disperati nel luogo preposto.
Due cose rimangono scolpite nella mia memoria, per quel che
riguarda le grandi adunate. La prima è certamente la fatica cui
dovevamo far fronte per restare dritti e immobili durante le operazioni; bastava infatti un piccolo movimento, un colpetto di tosse o uno starnuto per destare l’ira dei nazisti, ed essere puniti con
un minimo di cinque vergate. La seconda è lo spettacolo pietoso
dei moribondi, che si trascinavano all’esterno del block per rispondere alla loro ultima chiamata; fra l’altro, i tedeschi non accettavano che i detenuti utilizzassero un tono di voce basso e flebile durante l’appello, per quanto gran parte della popolazione
del lager fosse gravemente malata, e curata col solo ausilio di
un’aspirina. Un rimedio inutile, così come inutile era la tintura di
iodio, l’altro medicinale tollerato all’interno del campo. Nonostante le gravissime infezioni di cui eravamo portatori, insomma,
le SS pretendevano da noi una risposta ferma e decisa, scandita a
voce alta, sotto il sole cocente o sotto la pioggia scrosciante. Chi
non era in grado di eseguire un compito così semplice poteva
tranquillamente farsi da parte.
Quel giorno, in contrasto con la procedura abituale, Bahuoff si
occupò in prima persona dell’appello. Fu spontaneo interrogarsi
sul perché di quella levataccia, dal momento che il comandante
poteva dormire tranquillamente fino alla otto, e lasciare che fossero T.K. o i sottufficiali ad occuparsi della cosa. Non appena
cominciò a urlare i nomi presenti sulla lista che stringeva fra le
mani, però, capimmo che era ubriaco. Probabilmente l’appello
rappresentava l’atto conclusivo di una nottata trascorsa tra fiumi
di alcol. Iniziò dunque a storpiare i nostri nomi, pronunciandoli
in maniera errata per puro diletto. Tra una pausa e l’altra rideva,
o bestemmiava. Credeva di metterci in difficoltà, ma fortunatamente ognuno di noi riuscì a cavarsela. Tutti, tranne un deportato: il piccolo Tomas.
Tomas era un ragazzino di dodici o tredici anni, ed era muto.
Non saprei dire se dalla nascita o meno. In realtà non sapevamo
nulla di lui: come era finito lì dentro, quando era arrivato, chi
erano i suoi genitori… niente di niente. Teorie ne circolavano
parecchie. C’era addirittura chi sosteneva che Tomas fosse il figlio di un qualche gerarca, nato da una relazione extraconiugale
con un’ebrea, e che l’uomo lo avesse rinchiuso nel lager per coprire lo scandalo. Quanta dose di realtà ci fosse in quella leggenda non è dato sapere. Fatto sta che Tomas era lì con noi sin dall’inizio, e che il suo fisico, nonostante le molteplici privazioni e
la fatica del lavoro, reggeva bene. Anche troppo. Alcuni credevano che il ragazzo avesse trovato il modo di intrufolarsi nelle
cucine del lager, e rubare di nascosto il cibo. Altri, quelli che lo
ritenevano il figlio ripudiato di un gerarca, suggerivano l’idea
che fosse il padre, sospinto dai sensi di colpa, ad allungargli di
tanto in tanto qualche pasto sostanzioso. Si ragionava di queste
cose a debita distanza da lui, ovviamente, perché in fin dei conti
non era nostra intenzione ferirlo; le sue origini e la sua resistenza
fisica erano diventati argomenti di discussione quotidiana, ma
senza alcuna malizia. Se ne parlava così, con la stessa leggerezza
con la quale si discute del caldo o del tempo che passa. Eravamo
affezionati a Tomas; molti di noi cercavano di proteggerlo, assumendo a volte atteggiamenti un po’ paternalistici, ma tutto ciò
non infastidiva il ragazzo, che quasi sempre si limitava ad annuire e a mostrare un mezzo sorriso. Tuttavia, quel che davvero colpiva in lui, al di là della robustezza e dei misteri che si trascinava
dietro, erano gli occhi. Grandi e neri, perennemente vigili, perennemente tristi. Quegli occhi raccontavano una storia silenziosa,
costellata di violenze, soprusi e lutti. Osservando la realtà, Tomas dialogava con essa. E i suoi occhi, a volte, divenivano lo
specchio fedele dei nostri stessi pensieri, e della nostra sofferenza.
Durante i due appelli giornalieri, Tomas sapeva di dover alzare
prontamente il braccio destro per segnalare la propria presenza.
Per questo motivo, T.K. e Fritz lo avevano collocato in prima
fila, posizione dalla quale era più semplice vederlo. Nell’arco di
mesi il rito dell’alzata di mano non aveva creato problemi: il
kapò o il sottufficiale di turno urlava il suo nome (non il cognome, praticamente ignoto a tutti), lui sollevava il braccio nel tipico
saluto romano, e il gioco era fatto.
Ma non quel giorno…
Quando Bahuoff, già ubriaco e furibondo di suo (probabilmente per non aver indotto all’errore un solo deportato con quello
scherzetto dei nomi storpiati) arrivò a metà dell’elenco, urlò con
voce impastata il nome del piccolo Tomas. Questi rispose all’appello nel modo in cui era abituato, cioè puntando il braccio in
avanti, verso l’alto. Bahuoff montò su tutte le furie. Scaraventò
per terra la cartellina con l’elenco, e avanzò a grandi falcate in
direzione del ragazzino, rimasto saggiamente nella stessa e identica posizione.
– Quando il tuo schifoso nome ha il privilegio di uscire fuori
dalla mia bocca devi urlare presente! – strepitò allora gesticolando come un forsennato. Era sbronzo da far schifo, nessuno lo
avrebbe mai riportato alla calma. Tomas lo sapeva, e non azzardò alcuna mossa, sebbene l’autocontrollo mandasse in bestia i tedeschi. Invidiavano la calma e la temperanza, qualità per loro ir-
raggiungibili; e come spesso accade a chi non può possedere
qualcosa, finivano per disprezzare il talento e il suo custode. All’improvviso Bahuoff, come d’abitudine, sembrò ritrovare la padronanza di sé, ma era un giochino sin troppo noto a tutti i detenuti. In realtà, quell’apparente quiete fungeva da preambolo per
uno scatto d’ira ancor più violento.
– So quel che si dice in giro… che sei muto – esordì il comandante girando attorno al corpo inerte di Tomas – ma io credo che
questa sia tutta una sceneggiata, un bel modo per spifferare qualcosa in giro, e poi passare per insospettabile.
Davanti al silenzio reiterato del ragazzo, Bahuoff perse nuovamente le staffe:
– E abbassa quel braccio, idiota! Hai visto passare il Führer per
caso? – domandò allora tirandogli giù il braccio, e quasi cadendo
per via di quel gesto inconsulto. Poi tirò fuori la sua pistola, e la
puntò alla tempia del ragazzo.
– Di’ presente – intimò. Il gelo cadde sull’intero campo. Non ci
era consentito voltare lo sguardo, ma io sapevo che gli occhi di
tutti i deportati, in quel momento, erano puntati su Bahuoff. Fritz
e T.K. stazionavano a un paio di metri dal comandante. Potevo
vederli: T.K., come al solito, ghignava di gusto, masticando lupini o qualcosa di simile; Fritz seguiva con attenzione la scena,
credendo forse di essere a teatro. Alla mia sinistra c’era il professor Kozminski, alla mia destra Tamara. Non ne sono certo, ma in
quegli istanti mi parve di udire una bestemmia, che sibilò attraverso le labbra socchiuse della pianista. “Bastardo”, disse. Una
sola parola, mozzata quasi a metà, pronunciata con tono stridulo,
per soffocare un urlo che quasi certamente l’avrebbe condotta
alla fossa. Se Bahuoff l’avesse udita, non ci avrebbe pensato due
volte a piantarle un proiettile in testa, e Chopin o Liszt non l’avrebbero di certo aiutata, stavolta. Fortunatamente il comandante
era troppo ubriaco per poter cogliere sussurri o sguardi sdegnati.
Tutti gli altri, paralizzati dal terrore, tacevano.
– Avanti, figlio di una troia ebrea: rispondi all’appello! – urlò
Bahuoff ancora più forte. Il gran capo era giunto ai limiti delle
sue capacità di sopportazione. Lo capii da quella imprecazione
gratuita. Perché Bahuoff, nonostante manifestasse gli stessi istinti omicidi di ogni brava SS, volgare non lo era di certo. Ai sottufficiali troppo sboccati intimava spesso di darsi una calmata, e di
ampliare il vocabolario. La cosa non deve sorprendere. Una bestemmia dà voce a un animo inquieto, alterato; e a molti nazisti,
come già detto, piaceva ostentare una serenità fittizia, poiché la
calma è indice di sicurezza interiore, e la sicurezza era tutto ciò
che occorreva alle SS per sterminarci a loro piacimento.
La sicurezza di poterci soggiogare. La sicurezza di averci rinchiuso in un luogo dal quale non era possibile fuggire. La sicurezza di poter fare di noi ciò che volevano.
– Ho ucciso sei storpi come te, stanotte – aggiunse Bahuoff afferrando i capelli di Tomas e ficcandogli la canna della pistola in
bocca – ma nel tamburo è rimasto un colpo: è tuo, se lo vuoi.
Il ragazzo ebbe paura sul serio. Udii i suoi denti tremolare attorno alla superficie cromata della pistola. Quel suono, forse, lo
percepirono tutti. E tutti trattennero il fiato. A distanza di pochi
secondi un altro rumore, ancor più minaccioso, echeggiò nel- l’aria: quello del grilletto accarezzato da Bahuoff, il tamburo che
iniziava a girare, il colpo in canna pronto a partire. E la voce inesistente di Tomas, che con un lamento disperato tentò di scandire
il proprio nome. Ne uscì, invece, un gorgoglio afono, più simile
a una richiesta di soccorso che ad altro.
Tomas era muto sul serio, qualunque imbecille lo avrebbe capito in quella circostanza. Ma Bahuoff cercava soltanto una scusa
per far fuori un altro di noi. Se il ragazzo fosse riuscito a urlare
miracolosamente il proprio nome, di certo Bahuoff avrebbe arringato la folla gridando: “Avete visto? Sa parlare! È una maledettissima spia!”, e lo avrebbe ucciso comunque. Poteva ammazzarci tutti per un banale capriccio, ma a Bahuoff piaceva legittimare i propri crimini con valide argomentazioni.
Le prime lacrime di Tomas, accompagnate da lancinanti singhiozzi, giunsero a straziarci il cuore. Fu allora che qualcuno decise di rispondere a quell’invocazione d’aiuto. Forse istintiva-
mente, forse consapevolmente. Un uomo dall’animo già sconvolto, ma dal temperamento calmo come l’acqua immota: don
Andrea Biazzi.
CAPITOLO 9
La storiografia, fortunatamente, ha messo in luce le gesta di
quegli eroi (Perlasca, Wallenberg, Schindler, Sugihara e molti
altri) che, durante l’Olocausto, mossi da uno straordinario altruismo, misero a repentaglio la propria esistenza per salvare quelle
di decine, a volte centinaia, di esseri umani. Grandi imprese, che
il tempo ha giustamente nobilitato. Ci furono individui, però, che
di vite ne salvarono ben poche; a volte una soltanto. Per questo
motivo, forse, nessuno li ricorda.
Andrea Biazzi appartiene a quest’ultima categoria. Solitamente
nella memoria collettiva rimangono impressi i salvataggi di massa, quelli in grado di trasformare il semplice uomo in un grande
uomo. Il rischio compiuto da colui che compie l’atto, in particolare, amplifica l’aura di sacralità che ne avvolge la figura.
Andrea Biazzi non fu quel tipo di eroe, né probabilmente immaginò mai di poterlo diventare. Non fece alcunché di grandioso
per passare alla storia. Si limitò a esclamare: “Signore, quel ragazzo è muto per davvero”, proprio nel momento in cui la pistola
di Bahuoff stava per esplodere il colpo. Non fu un gesto eclatante, me ne rendo conto, specie se paragonato alle peripezie che
dovette affrontare chi, per anni, si prodigò per la sopravvivenza
in clandestinità di un numero spropositato di ebrei. E non credo
che don Andrea conoscesse in anticipo la reazione che Bahuoff
avrebbe avuto. Contava di dissuaderlo, questo è certo, ma suppongo che mai avrebbe immaginato di vedere il comandante
estrarre la pistola dalla bocca di Tomas, puntarla nella sua direzione e fare fuoco così, a bruciapelo.
Eppure, così andarono le cose. Il proiettile gli si conficcò in
piena fronte; il parroco italiano franò per terra, e una vasta chiaz-
za di sangue denso iniziò ad allargarsi attorno al suo corpo esanime. Bahuoff non lo degnò di una sguardo, ma tornò immediatamente a puntare l’arma contro la tempia sinistra di Tomas. In
quelle condizioni avrebbe sparato anche a Hitler, se solo il Führer si fosse permesso di sfiorargli una spalla.
Noialtri restammo impietriti. Tutta quella crudeltà, quella violenza senza senso… non riuscivamo a comprenderla, né a combatterla. Tentare di far ragionare Bahuoff non sarebbe servito a
nulla, e la salma di don Andrea era lì a ricordarcelo. Una voce,
da dentro, oggi mi rimprovera e urla: avreste potuto! Ed io domando alla mia coscienza: fare cosa? Aggredire Bahuoff? Le
sentinelle appostate sulle torrette di guardia, al minimo accenno
di rivolta, avrebbero compiuto una mattanza. Deboli e disarmati
quali eravamo, cosa mai avremmo potuto ottenere uccidendo il
comandante del campo? Qualcun altro avrebbe preso il suo posto, Braun o chi per lui, e per noi nulla sarebbe mutato. La fossa
comune avrebbe ospitato un numero imprecisato di nuovi cadaveri, e l’inceneritore avrebbe lavorato un po’ più a lungo. Tutto
qua.
Questo pensavo, mentre un ragazzino inerme rischiava di essere ucciso senza motivo. Chissà quanti detenuti, al pari di Andrea
Biazzi, avrebbero voluto riportare Bahuoff alla ragione, ma il sacrificio del parroco ci aveva indicato la via: il dialogo non serviva a nulla contro quel mostro. Qualcuno potrebbe pensare che simili ragionamenti servissero a mascherare una generale carenza
di coraggio, ma il termine “codardia”, all’interno del lager Libertà, non aveva senso d’esistere. Il fatto stesso di voler continuare a
vivere, nonostante le angherie, gli omicidi, le percosse e le minacce, sia fisiche che psicologiche, certificava il nostro coraggio.
Perché in un lager nazista era più semplice lasciarsi morire, abbandonando il corpo ai continui richiami della morte, piuttosto
che sforzarsi di vegetare. Altri potrebbero sostenere che non di
coraggio si trattava, bensì di mero istinto di sopravvivenza. Sbagliato: l’istinto di sopravvivenza, lì dentro, moriva dopo pochi
giorni. In seguito subentrava un istinto differente, quello che ci
chiedeva non più di vivere o morire, ma di evitare il dolore. E
nel contesto del lager, ciò equivaleva ad annullare ogni percezione. Non provare alcunché, insomma, per eludere ulteriori tormenti.
Sì… scaraventarsi contro la recinzione elettrificata avrebbe
reso felice più di un deportato. Un po’ tutti, credo, meditammo
di farlo sul serio, prima o poi.
Eppure. Eppure resistevamo. Ognuno a modo suo, ognuno per i
propri motivi, ma resistevamo. E a volte la violenza subita era
più semplice da accettare, rispetto alla violenza patita dagli altri.
Quel che stava accadendo al piccolo Tomas, e la morte di don
Biazzi, ci sconvolgevano nel profondo. Nessuno di noi, però,
aveva la forza o il modo di reagire. Nessuno, eccetto chi, dalla
vita, ormai non attendeva più nulla. Qualcuno come Oskar, l’ex
compagno di cella di Fritz. Fu lui, coraggiosamente, a rompere
gli indugi, e a parlare a Bahuoff con tono sprezzante. La morte
non lo spaventava, e in seguito avremmo capito il perché.
– Quel ragazzino non intonerà il Parsifal soltanto perché è lei a
ordinarglielo, comandante – dichiarò Oskar laconicamente. Gli
occhi di Bahuoff, già gonfi e iniettati di sangue per via dell’alcol,
strabuzzarono increduli.
– Tu… – disse avanzando velocemente nella sua direzione, e
facendosi spazio tra i detenuti spingendoli a terra con violenza.
– Tu… stronzetto da due soldi… come ti permetti di rivolgermi
la parola? – urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Alzò la pistola, e cominciò a premere il grilletto come un indemoniato, dimenticando di aver finito i proiettili. Cercò ulteriori munizioni
all’interno delle tasche, ma senza risultato. A quel punto Oskar si
fece coraggio, e avanzò di un passo. Bahuoff ebbe paura. Arretrò
repentinamente, quasi cadendo per via di quell’imprevisto dietrofront. I nazisti non erano abituati a indietreggiare al cospetto
di un detenuto. E Oskar, sebbene avesse già perso un quarto o
poco meno del proprio peso, e dell’antica prestanza fisica, era
ancora in grado di suscitare timore in chi lo affrontava. Bahuoff
tentò allora di sguainare il manganello che gli pendeva sul fianco
destro, ma sbronzo com’era, non riuscì a estrarlo. Avendo già offerto uno spettacolo indecoroso, capì che proseguire lo avrebbe
reso ancor più patetico agli occhi dei detenuti, e dei sottoposti
che adesso, stipati alle sue spalle, osservavano preoccupati la
scena. Recuperò dunque un minimo di autocontrollo, e sistemando con cura il colletto della camicia attirò l’attenzione di T.K. e
Fritz. Poi ordinò:
– Portatelo nel bunker. Fategli male, ma non uccidetelo: a quello penserò io.
Si guardò attorno, e il capannello di sottufficiali fu apostrofato
con una certa stizza:
– Voi! Non avete nient’altro da fare? Siamo in guerra, per la
miseria!
Le SS sfollarono rapidamente e kapò e decano, deliziati, presero in consegna Oskar, per nulla intimorito dalle minacce di Bahuoff. Andò via, piuttosto, con un sorrisetto di sfida stampato sul
volto, un ghigno sarcastico che non aveva nulla a che vedere con
la nota spacconeria del carcerato medio. Non mostravano odio i
suoi occhi, né sete di vendetta. Il suo atteggiamento poteva essere riassunto in un’unica parola: indifferenza. Qualcuno la scambiò per la solita sbruffonata, altri per un’inestimabile dimostrazione di coraggio. Ma si trattò, lo so per certo, di semplice indifferenza.
Ben più turbato da tutto quel trambusto ne uscì invece Bahuoff.
Attendevamo una punizione esemplare per l’intero block, come
spesso era accaduto in passato, ma non ci furono rappresaglie di
alcun tipo. Accigliato e palesemente scosso, chiese a un’altra SS,
l’ufficiale Dirkschneider, di completare l’appello al posto suo,
ammettendo di aver bevuto troppo, e di necessitare di un lungo
riposo. Non degnò di uno sguardo alcun detenuto al momento di
allontanarsi, eccetto Abdul il musulmano.
– Tu, getta quel cadavere nella fossa – ordinò con ritrovata possanza in riferimento alla salma di Andrea Biazzi, per poi scomparire barcollante nell’opposta direzione.
I sonderkommandos restarono al proprio posto.
Tutto tornò velocemente nella norma, e l’appello proseguì senza intoppi. Soltanto don Andrea mancò la chiamata. In quei frangenti, il suo corpo veniva trascinato mestamente da Abdul il quale, né visto né udito dalle SS, aveva chiuso gli occhi del povero
parroco, e passo dopo passo, scandiva a bassa voce i versi di una
preghiera musulmana in suffragio dei martiri, udita troppe volte
nel chiuso nel secondo block.
CAPITOLO 10
Nel lager si lavorava dall’alba al tramonto, per un totale di otto
o dodici ore, a seconda della stagione. Le mansioni da svolgere
erano ampiamente differenziate, e potevano avere luogo all’interno o all’esterno del campo. Quelle interne erano meno debilitanti per la nostra salute, ma altrettanto massacranti. C’era chi lavorava i campi, come me, chi veniva impiegato nella falegnameria, o nell’industria collocata all’interno del block sei. Nei campi
si coltivavano frutta e ortaggi per i nazisti, ma anche orzo, patate
e crusca per noi deportati. In falegnameria si poteva essere destinati a un’infinità di lavori, tutti inerenti le strutture chiuse del lager: block, torrette di controllo, ville degli ufficiali, e così via.
Nella piccola fabbrica della sesta baracca, che io non ho mai visto se non dall’esterno, si costruivano invece pezzi di ricambio
per l’artiglieria pesante dell’esercito nazista; fu attraverso quegli
opifici che il Ministro dell’industria del Reich trovò la manodopera occorrente per far funzionare l’apparato industriale del paese.
I deportati più fortunati, o benvisti dai kapò, venivano collocati
all’interno dell’infermeria e della mensa, luoghi in cui il massimo dello sforzo fisico consisteva nello spostare una pentola colma d’acqua o il corpo di un deportato. A volte vivo, più spesso
morto.
I campi esterni, invece, erano tutta un’altra storia. Lì non si lavorava: si moriva. E non fu certo una caso se ebrei e dissidenti
politici vi furono impiegati in massa. Opere di scavo, di terrazza-
mento, costruzione di edifici, persino il traino dei carri… questi e
altri incarichi distruggevano il fisico e lo spirito più resistenti
nell’arco di pochissime settimane. Per non parlare di quel che accadeva nelle cave di pietra. Ai nazisti, infatti, il regolare svolgimento dell’attività interessava relativamente. Era la possibilità di
farci fuori, coi sistemi più fantasiosi e crudeli, il loro autentico
obiettivo. Spesso si divertivano a disporsi in due file parallele,
attendendo il passaggio di un deportato carico di pietre; una volta
nel tunnel, il malcapitato veniva frustato a sangue, e la sua unica
salvezza consisteva nel tirarsene fuori il prima possibile. In molti, tuttavia, persero la vita per non aver corso abbastanza velocemente, o per aver fatto cadere un masso durante la traversata.
Al tramonto, di ritorno dai campi di lavoro esterni, parecchi deportati portavano sulle spalle i cadaveri dei compagni periti. E
ogni giorno, al tramonto, il sottoscritto sollevava lo sguardo dalla
vanga per accertarsi che gli amici del block due tornassero, ancora una volta, sani e salvi. Questa pratica mi costò in più di un’occasione una vergata sulle terga, ma non vi rinunciai mai, escogitando nuovi metodi per beffare la sorveglianza. Era il mio personale modo di combattere l’ideologia nazista, che intendeva soffocare la nostra umanità, il nostro radicamento alle semplici abitudini, agli atteggiamenti emotivi. Io sollevavo lo sguardo perché
ero in ansia per qualcuno: pensare a un individuo che non fosse
me, infondeva nel cuore un senso di pace e autostima che nessuna vergata avrebbe mai potuto piegare. Non sarei diventato quel
che volevano loro; non avrei concentrato tutta l’attenzione unicamente sul mio corpo stremato dalla fatica. Non avrei ceduto allo
spirito di competizione, né alla legge del più forte. Non mi sarei
ridotto come Fritz e T.K., che ormai ci consideravano dei nemici
da combattere, per continuare a godere dei privilegi riservati all’elite. Questo mi imponeva la mia cultura, la personalissima
concezione della libertà maturata in anni e anni di letture ed
esperienze di vita. Ed è questo che ai nazisti non piaceva. Il lavoro stesso cui fui destinato rispondeva a questo ordine di cose. Ricordo ancora le parole che Bahuoff spese in merito: “I parassiti
come te devono spegnere il cervello e imparare ad usare la zappa”. Argomento chiuso. Mi fu tassativamente vietato di entrare
in contatto con materiale cartaceo d’ogni genere, poiché un deportato che brandiva una vanga, paradossalmente, veniva considerato meno pericoloso di un deportato con un libro fra le mani.
Ma pensandoci bene, non gli si poteva dare torto; i segni lasciati
sul terreno sono ben visibili a tutti, e basta una pioggerellina per
cancellarli. Ciò che una penna scrive, invece, può restare celato a
occhi indiscreti, ed eternarsi nel cuore di chi legge. Il problema
comunque non si pose mai; un accattone polacco, arrivato da
poco, mi disse che nel lager di Buchenwald aveva visto coi suoi
occhi una biblioteca con migliaia di titoli. Peccato si trattasse di
libri graditi al regime, o di quotidiani nazionalisti. Nel lager Libertà, invece, giornali, romanzi o pamphlet non ne circolarono
mai, neanche per vie traverse (quelle del mercato nero).
Era la diffusione delle idee a preoccuparli, insomma. Io ero un
avido lettore, e nell’ottica dei nazionalsocialisti tendevo a mostrare eccessivo interesse nei riguardi delle opinioni altrui. Riflessioni che germogliavano e prosperavano senza svelarsi: tutto
questo non era gradito. Di più: li terrorizzava. Il duro lavoro
avrebbe dovuto zittire le mie idee, ucciderle sul nascere, e impedirmi di crearne delle nuove. Questo si aspettavano da me, ed era
esattamente quel che non ero disposto a concedere.
Tra i deportati del secondo block, soltanto in otto lavoravano al
di fuori del lager: il piccolo Tomas, impegnato assieme a un’altra
ventina di ragazzi nella costruzione di un sentiero secondario;
Hans e Jurgen, subito spediti nelle terribili cave di pietra, e poi
Jacques e Hermann, che prestavano servizio come muratori.
Jacques era un testimone di Geova belga, piccolo e mansueto,
gran lavoratore, stranamente dotato di una notevole forza fisica,
nonostante la corporatura minuta. Di poche parole, non aveva
mai creato alcun problema, né a noi né ai nazisti. Tuttavia, il non
aver rinunciato alla propria fede lo aveva condannato ai lavori
esterni. Il giorno in cui Fritz gli chiese di consegnargli la bibbia
che nascondeva nella tasca interna della giacca, Jacques perse
ogni possibilità di svolgere un’attività meno faticosa. Rifiutò, infatti, di consegnare il libro sacro a quell’avanzo di galera. Pronunciò un “no” gentile ma risoluto, di quelli che si accompagnano a un sorriso di circostanza. Fritz non la prese tanto bene. Lo
aggredì col suo manganello, cercando di strappargli la bibbia
dalle mani; e sebbene Jacques gli arrivasse a malapena alle spalle, non riuscì ad averla vinta. Fritz allora chiamò rinforzi, e dovettero pestarlo in quattro per poterlo piegare.
Da allora Jacques perse il suo preziosissimo libro, ma non la
speranza di poterne rientrare in possesso. Dichiarò a più riprese
di attendere fiducioso la vendetta del suo dio. Una vendetta globale, però, di stampo apocalittico, contro tutti i mali del mondo.
Citava a piene mani Taze Russell e Rutherford, parlava della
“fine del sistema di cose”. Oggi discorsi di tal fatta riescono appena a strappare un sorriso, ma in quegli anni, con Hitler padrone di metà pianeta, la fine razionale della specie umana raggiunta
per mezzo della guerra era un argomento che impensieriva parecchia gente.
Hermann, al contrario di Jacques, dalla vita non attendeva punizioni divine o catastrofi di vario genere. “L’apocalisse? È già
arrivata!” sosteneva sorridente. Sorrideva spesso, Hermann. Più
di tutti noi messi assieme. “Deformazione professionale” diceva
ancora. Parlava del suo lavoro passato, ovviamente: clown in un
circo ambulante. Aveva girato l’intera Germania col suo carrozzone, toccando persino alcune nazioni limitrofe. “Poi un giorno
la gente si è stancata di ridere per le buffonate di un clown, e ha
preferito rivolgere lo sguardo su Hitler”. Sapeva essere pungente, il vecchio Hermann, e anche terribilmente serio. I sorrisi della
gente erano per lui cose preziose, da donare e ricevere al momento giusto. Non viveva fuori dalla realtà, soffriva come noi.
Ridere non rappresentava una fuga, bensì una necessità dello spirito. “C’è stato un tempo in cui i tedeschi rabbrividivano nel vedere un domatore circondato da belve feroci, sotto il telo di un
circo; oggi, invece, assistono con distacco al massacro di un inte-
ro popolo, nelle strade delle loro città, e anche oltre, nei ghetti e
in decine di lager”.
Un uomo saggio, il mio amico Hermann.
Quella notte, di ritorno dall’appello serale, molti deportati assediarono la sua branda per ricevere informazioni sul povero
Oskar. Tra i due, infatti, era nata una bizzarra amicizia. Oskar
non era un uomo di molte parole, se ne stava in disparte e non
entrava nelle conversazioni, anche a costo di spingercelo dentro.
Hermann, al contrario, dialogava con tutti, sollevava il morale
con una battuta delle sue, cercava di offrire speranza parlando
del dopo, della libertà che ci attendeva al di fuori del lager. Il suo
era un ottimismo ingenuo, e non poteva avere presa su un galeotto già deluso dalla vita come Oskar. Nonostante questo, Oskar
gradiva la compagnia di Hermann come nessun’altra. Per una
questione di equilibrio, forse. Perché nelle loro discussioni, Hermann parlava un po’ meno e ascoltava un po’ di più, mentre
Oskar parlava un po’ di più e ascoltava un po’ meno. Il concetto
di complementarietà, insomma, ben si sposava con la loro amicizia.
Fui il primo a chiedere informazioni su Oskar. Passai accanto a
Tamara e le chiesi di seguirmi. Senza far rumore, come sempre,
ci avvicinammo a Hermann e domandai:
– Che si dice di Oskar?
Lui mi guardò scuro in volto, ma si sforzò di sorridere:
– È ancora nel bunker. E dio solo sa per quanto tempo lo terranno chiuso lì dentro.
Tamara rabbrividì, e anch’io. Nessuno dei due, per fortuna,
aveva mai avuto a che fare col bunker, ma ci erano stati riferiti
episodi agghiaccianti al riguardo. Il bunker, per inciso, era la prigione del lager. O meglio, una prigione nella prigione. Oggi, col
termine “cella” intendiamo una stanzetta di quattro metri per
due, con letto, cuscino, armadietto e magari un bel televisore. Il
bunker del lager, invece, era una specie di cassa da morto verticale, talmente stretto da consentire l’ingresso a un solo uomo,
che non poteva nemmeno sdraiarsi al suo interno; all’altezza del
viso si apriva una grata attraverso cui veniva gettato il cibo in
faccia al detenuto, che per ottenerlo doveva abbaiare come un
cane per decine di minuti. Spesso i carcerieri si divertivano ad
aprire la finestrella e a sputare, certi che il prigioniero non avrebbe potuto allargare le braccia per ripararsi con le mani. Nei casi
peggiori, veniva gettato all’interno del bunker il contenuto notturno delle gamelle, e l’angusto spazio si riempiva immediatamente della puzza insopportabile delle feci miste a urina, che colavano sul corpo del malcapitato fino a rapprendersi. Tutto questo per giorni, a volte settimane.
– L’ha combinata grossa, lo uccideranno di sicuro – balbettò
Tamara, attirando in zona altri detenuti, compresi Hans e Jurgen.
– Tieni bassa la voce – le rimproverò Hermann – e niente piagnistei. Oskar è ancora vivo, e non ha paura. Seguite il suo esempio: fatevi coraggio.
– Io volevo soltanto dire che mi spiace per lui – precisò Tamara
docilmente. Hermann rise e ribatté:
– Oskar non avrebbe pietà di te, se fossi tu a marcire in quella
cella.
– Perché ha salvato la vita a quel ragazzino, allora? – domandò
Jurgen all’improvviso, entrando (per la prima volta dal suo ingresso nel lager) all’interno di una conversazione collettiva.
– Il motivo lo conosce soltanto lui – mentì Hermann – ma non
credo che gliene importi granché del piccolo Tomas. Se fosse qui
adesso, probabilmente ci direbbe che è stato padre Biazzi a salvare la vita del ragazzo, e non lui. Oskar è intervenuto perché gli
andava di farlo. Tutto qua.
Parecchi di noi scossero il capo, per nulla propensi ad accettare
quell’interpretazione dei fatti.
– Ad ogni modo, è andata come è andata. Non possiamo fare
nulla per lui – concluse Hermann infischiandosene dello scetticismo raccolto in giro.
– Qualcosa sì – dissi. Hermann voltò le spalle.
– E cosa? – domandò ancora girato.
– Se Bahuoff lo uccide… io voglio saperlo – risposi.
– E questo lo chiami “fare qualcosa”? A quel punto tutto sarebbe inutile, cosa ci guadagneresti?
– Nulla di concreto. È proprio per questo che voglio saperlo.
CAPITOLO 11
Non saprei dire con esattezza quale ruolo giocai io, Felicien
Delacroix, all’interno del block numero due, durante il mio periodo di detenzione.
Mi parve di notare, tuttavia, una certa tendenza a ricercare il
parere del sottoscritto. Avevo superato da poco i trent’anni, ma il
tempo trascorso nel lager mi aveva trasformato velocemente in
un anziano, con una certa esperienza alle spalle. Era un circolo
vizioso, perché uno dei motivi che mi tenne in vita fu proprio la
maggiore resistenza fisica dovuta all’età. Indipendentemente da
tale fattore, ai compagni di block piaceva interrogarmi su questioni di taglio generale, ascoltare le mie interpretazioni. Quel
che dichiaravo rappresentava per loro un’alternativa al già detto.
Le opinioni di altri prigionieri, intrise di precetti religiosi o politici, erano note a tutti; la mia voce, invece, offriva la possibilità
di udire qualcosa di meno dogmatico, per quanto opinabile e incerto. Anche per argomenti di minore rilevanza fu più volte richiesta la mia consulenza. Il nostro quotidiano si basava sull’invenzione di stratagemmi sempre nuovi coi quali garantirsi la sopravvivenza, e davanti ai tanti problemi scaturiti dalla convivenza coi nazisti, il consiglio di un detenuto dal lungo corso come
me poteva spesso risultare prezioso.
Quella notte, fu proprio Jacques a farmi visita.
Io e il testimone di Geova eravamo in disaccordo praticamente
su tutto, ma col tempo s’instaurò fra noi un rapporto d’amicizia
cordiale, fondato sul rispetto reciproco. In quell’ottica, lo spunto
per un nuovo confronto ci fu fornito dal dialogo appena conclusosi tra me e Hermann.
– Hai ragione Felicien, sapere che un compagno non c’è più,
per rammaricarsi e ricordarlo, è pur sempre qualcosa – esordì restando in piedi accanto a me.
– Io, però, non lo faccio con spirito cristiano – puntualizzai
guardandolo negli occhi. Jacques sorrise:
– Lo so. E di questo dovrai rispondere a qualcuno lassù, non
certo a me.
Tacque per alcuni secondi, poi scosse il capo, sconsolato.
– Il fatto è che – ricominciò – l’altro giorno è morto Basel, oggi
padre Biazzi, domani forse toccherà a Oskar. E io mi chiedo
quando arriverà il mio turno…
Continuai a fissarlo. Il suo sguardo piangeva lacrime amare,
nonostante le gote perfettamente asciutte. Per questo motivo,
preferii lasciarlo parlare:
– C’è quel sottufficiale, nei campi di lavoro esterni, che ci dà il
tormento. Sai, quel ragazzino arrivato dalla capitale. Non fa che
lamentarsi del nostro lavoro, dice che prima o poi ci ammazzerà
tutti. È giovane, e vuole fare carriera. Bestemmia in continuazione, perché a giorni diventerà padre. “Invece di stare accanto a
mia moglie”, urla, “sono costretto a stare qui, a fare da balia a un
gruppetto di porci”. Se soltanto avesse la pazienza di scambiare
quattro chiacchiere con me, forse riuscirei a riportarlo sulla retta
via.
– Don Andrea ci ha provato a ragionare col nemico, e hai visto
che fine ha fatto – affermai risoluto. L’ultima cosa di cui avevamo bisogno era che qualcun altro si prodigasse nel tentativo di
instaurare un dialogo coi tedeschi. Il mio interlocutore concordò
mestamente:
– È vero, Felicien. Sono macchine di morte, la nostra sofferenza non ha alcuna importanza per loro. Ma se col dialogo non
possiamo fermarli, in che modo allora? Non possiamo sopraffarli
fisicamente; io stesso mi rifiuterei di andare contro i comandamenti divini, se mi si presentasse l’occasione di uccidere uno di
loro. Siamo in molti, ma stanchi e debilitati. Alcuni di noi non
vedranno l’alba, a causa degli stenti. Per non parlare dei vecchi e
dei bambini, che verrebbero spazzati via come fuscelli, in caso di
rivolta.
– Una lotta di questo tipo andava organizzata prima che ci rinchiudessero qui, non ora – confermai abbattuto. Jacques distolse
lo sguardo e tacque di nuovo, e così io. Poi si voltò ancora nella
mia direzione; in una gran quiete domandò:
– Come possiamo uscirne, Felicien?
Sospirai profondamente. Dopo qualche attimo di riflessione replicai:
– Sai bene che non posso rispondere a questa domanda. Non so
cosa sia più saggio fare, se attendere o reagire, se chinare il capo
o sollevarlo per l’ultima volta. Guardati attorno, Jacques: cosa è
rimasto di quel che un tempo eravamo, di quel che un tempo
avevamo? Il nostro corpo è cambiato, la nostra vita anche; non
abbiamo più un lavoro, né un’identità. Le nostre famiglie sono
state sterminate, le nostre case bruciate. Il passato non esiste più,
e il futuro sembra così lontano! Però, se non ho alcuna garanzia
di tornare un uomo libero, posso almeno augurarmi di essere ancora vivo, domani, e continuare a sperare. Sperare cosa, esattamente, non saprei. Ma comincio a credere che l’unico modo per
non impazzire del tutto sia proprio questo: vivere alla giornata, e
nella peggiore delle ipotesi andare via lasciando qualcosa a chi
resta. Un’utopia, magari. O un’illusione.
Jacques sorrise, e mi guardò per un po’ senza proferire parola.
Infine, dopo aver stretto debolmente la mia mano, mi augurò un
buon riposo, e scomparve nel buio del capannone.
Discorsi di quel tipo non agevolavano l’arrivo di Morfeo, nelle
poche ore che separavano la notte dall’alba. Se qualcosa andava
evitata, in quel lasso di tempo, era proprio la possibilità di perdere i preziosi minuti di riposo concessi dai nazisti. Usufruirne adeguatamente aumentava le probabilità di sopravvivenza, poiché
un corpo temprato dal riposo rendeva decisamente di più sul lavoro, e un lavoro ben svolto evitava almeno in parte lo scontro
coi nazisti.
Tuttavia, nei minuti successivi sprecai gran parte di quel tempo
voltandomi da una parte e dall’altra, in preda a riflessioni e ricordi ormai datati. Agitarsi non era d’aiuto, poiché riportava alla
mente tutto ciò che ci si era sforzati di reprimere e dimenticare.
Proprio come il mare, che nelle grandi burrasche porta a galla i
suoi cadaveri, e attende fremente la bonaccia, per respingere sul
fondo ciò che agli uomini deve restare celato.
Fu così che, riaprendo gli occhi per l’ennesima volta, intravidi
le sagome di Hans e Jurgen, intenti a discutere come sempre fra
loro, e questa volta più animatamente del solito. Ebbi l’impressione, poi confermata, che entrambi mi osservassero di soppiatto,
per poi tornare a dialogare. A un certo punto, però, Jurgen sembrò stancarsi di quel colloquio, e senza fare rumore abbandonò la
sua branda per muovere nella mia direzione, cercando al contempo di mostrare un timido sorriso. Sollevai la schiena facendo
leva sui gomiti, quindi domandai:
– Non riesci a dormire?
Il volto di Jurgen si contrasse in una smorfia piuttosto eloquente. Sollevò le spalle, e rispose:
– Sono distrutto, ma fatico ad addormentarmi. In tutta onestà,
non riesco ancora a capacitarmi di essere finito in questo posto.
– Questo vale anche per Hans? – chiesi ancora.
– Soprattutto per Hans – replicò prontamente – ed è proprio lui
che mi preoccupa. Non riposa seriamente da giorni. Perde peso.
Non fa che parlare di fuga, e di reclami.
– Dov’è la novità? – domandai impassibile. Tutti noi, infatti,
dormivamo poco e male, dimagrivamo a vista d’occhio, e più o
meno esplicitamente pensavamo alla fuga o al suicidio. Jurgen
comprese, e ammutolì all’istante. In fin dei conti le sue rimostranze apparivano fuori luogo, soprattutto perchè manifestate in
presenza di un “vegliardo” del lager.
– Mi rendo conto – disse soltanto. Il silenzio tornò fra noi, per
poi essere scacciato dai nuovi lamenti del mio interlocutore:
– Noi… io e Jurgen, intendo… non dovremmo essere qui.
– Nessun deportato dovrebbe trovarsi qui – replicai sullo stesso
tono.
– Tu non puoi capire.
– Spiegati meglio, allora.
Il suo sguardo si accese.
– Noi non siamo ebrei, Felicien. Hans è nato a Sachsenhausen,
io a Chelmno. Siamo tedeschi a tutti gli effetti. Il nostro unico
reato è quello di aver avuto dei progenitori giudei.
– Non siete i soli, che mi risulti. Io sono ebreo da parte di madre, per quanto agnostica. I campi di concentramento pullulano
di cittadini tedeschi rinchiusi a causa della discendenza ebraica.
Le leggi naziste sono molto chiare al riguardo.
Jurgen inspirò profondamente, incrociando le braccia all’altezza del petto.
– Avanti Felicien, guardami bene! Ho gli occhi verdi, la carnagione chiara, i capelli biondi. La mia fede è cristiana, sono stato
battezzato col rito cattolico. Cos’ho in comune con un ebreo?
– Le origini, a quanto pare – dichiarai senza scompormi – e in
quanto alla tua fede, non urlerei ai quattro venti di essere un cristiano, dopo quel che è capitato al povero don Andrea.
Jurgen scosse il capo, visibilmente infastidito dalle mie obiezioni.
– Continui a non capire – aggiunse.
– Ho capito benissimo, invece. Tu e Hans vi ritenete le uniche
vittime del sistema, e non vi rendete conto che qui dentro lo siamo tutti. Nessuno merita di fare questa fine: né voi né tutti gli altri deportati, ebrei e non ebrei.
– Sarà come dici tu, Felicien, ma io sono un tedesco, e ho sempre dimostrato di amare questa terra. Come potrei rappresentare
una minaccia per la mia stessa nazione?
– È questa l’ingiustizia?
– Sì, Felicien. Io credo di sì.
Lo fissai a lungo, e qualcosa mi parve di cogliere, nei suoi occhi.
– Non credi? – domandò Jurgen sulla difensiva, cercando di
sbucar fuori da quello stato d’imbarazzante torpore.
– Io credo – iniziai con calma – che tu non stia dicendo la verità.
– Non ti seguo – ribatté lui mostrando un sorriso stentato.
– Mio caro Jurgen, questo lager è diverso da tutti gli altri, ormai lo avrai capito anche tu, no? Di ebrei e basta, qui dentro, se
ne contano pochi. I prigionieri del lager Libertà hanno qualcosa
in più, qualcosa che li rende vittime di un’ostilità maggiore. Io,
ad esempio, non sono mai stato considerato un semplice ebreo,
ma “soggetto pericoloso in grado di diffondere idee, teorie e nozioni contrarie ai principi del nazionalsocialismo”. Per essere
rinchiusi nel lager Libertà, insomma, non basta aver pregato sulla Torâh, o possedere un albero genealogico compromettente.
Occorre aver commesso un crimine più grande.
Jurgen s’irrigidì, e arretrò di un passo.
– Non so di che stai parlando – concluse a denti stretti, per poi
mostrarmi le spalle quasi con disprezzo. Io lo lasciai andare, ma
quando fu a qualche metro di distanza da me lo ammonii dicendo:
– Se hai voglia di riparlarne, sai a chi rivolgerti. Ma vedi di
sbrigarti: potrei essere morto, domani.
CAPITOLO 12
Passarono i giorni.
Nell’arco di una settimana, altri due carichi di deportati giunsero a ingrossare le fila del lager Libertà. Fu quindi necessaria l’eliminazione mirata di vecchi e malati, che perirono nella camere
a gas. Il sottoscritto riuscì a cavarsela ancora una volta, per dei
motivi che tuttora fatico a comprendere. Qualcuno tirerà in ballo
la provvidenza, o l’imperscrutabilità del volere divino.
Idiozie. Nudo e inconsapevole di quel che ti attendeva, stretto
fra le quattro, fetide mura di una camera a gas, alzavi lo sguardo
e lo vedevi lì davanti a te, l’unico e onnipotente dio, colui che
avrebbe deciso nell’arco di pochi secondi se lasciarti sopravvivere o meno. Era la superficie bucherellata di quel pezzo di ferro
arrugginito, posto cinquanta centimetri più in alto della tua testa,
a lasciar cadere la spada. E a te non restava che attendere, sperando nella sua clemenza.
Sapeste quanta gente, scandendo ad alta voce una preghiera, è
poi morta per via dell’acido cianidrico, il gas utilizzato dai nazisti. Con voce forte ma inquieta, iniziavano a recitare il pater noster, o a declamare interi passi del corano, e a volte persino i lamenti del biblico Giobbe giungevano fino alle mie orecchie. Inevitabilmente, una dopo l’altra quelle voci si spegnevano, come
fiammelle battute dal vento. E in cuor tuo ringraziavi che non ci
fosse spazio per alcun dio tra le mura del lager. L’unico giudice
della tua vita era il Caso, e non un’entità metafisica pronta a salvare soltanto i suoi adepti. Questa certezza era quasi consolatoria, lì dentro. Perchè lì dentro, la morte conservava una matrice
anarchica.
Ad ogni modo, l’autunno era giunto in punta di piedi fra noi.
Le escursioni termiche avvertite tra le ultime ore del mattino e
quelle centrali della notte risultarono ben presto insostenibili. Il
freddo, in particolare, divenne il primo nemico contro il quale
combattere, almeno sul piano della resistenza fisica. Gli stenti e
la fame, nella loro rigorosa continuità, non ci sorprendevano più.
Ma dopo tre mesi di caldo e tempo mite, i tre-quattro gradi delle
ore notturne incisero profondamente sulla salute di numerosi deportati, compresa la mia; la stagione malinconica per eccellenza
mi regalò un bel raffreddore, e una febbre che ben presto salì
vertiginosamente. Tamara, che si era presa cura di me in quei
giorni, dormendo al mio fianco e scaldandomi col suo abbraccio
(un’abitudine consolidata fra di noi, ormai indifferenti a qualunque implicazione di carattere morale), chiese a Fritz di portarmi
dal dottor Kubik. Fritz sapeva bene che Tamara godeva di una
certa simpatia presso il comandante. E sebbene Tamara avesse
più volte rifiutato, nel tempo, i tanti privilegi che Bahuoff diceva
di volerle accordare, restava la pianista personale del rapportführer, la beniamina delle feste, nonché autrice ufficiale dell’inno
del campo. In quelle feste era solita accettare unicamente il cibo,
che a rischio di essere scoperta e di rimetterci la pelle nasconde-
va ovunque, per dividerlo coi compagni di block una volta tornata a casa, fra di noi. Vettovaglie deliziose, roba di classe, giunte
chissà da dove per onorare la visita di qualche gran signore, solitamente ufficiali e colonnelli di altri lager.
Alla luce di quanto detto, Fritz si vide bene dal negare a Tamara una richiesta del genere. Fu lui stesso ad accompagnarmi dal
dottor Kubik, che al mio arrivo aggrottò un po’ la fronte e tirò su
gli occhiali con l’indice della mano destra, soppesandomi con
occhio clinico.
– Può sedersi lì – disse indicando una sedia di legno, dopodichè
pregò Fritz di lasciarci soli. Mi palpò la gola, auscultò velocemente la schiena, s’informò sui sintomi e poi mi consegnò un
bicchiere d’acqua e la solita aspirina, che mandai giù senza fiatare.
– È un miracolo che lei sia ancora vivo – disse voltandomi le
spalle. Kubik evitava di guardarmi negli occhi. Da un pezzo, ormai.
– Lei è un dottore, crede che per vivere sia sufficiente che cuore e polmoni si diano da fare – replicai, ma lui non disse nulla.
Poi, mentre Kubik riempiva un formulario medico, chiesi:
– Posso domandarle se ha notizie di Oskar?
Sapevo perfettamente che con Kubik, a differenza del medico
precedente, era possibile parlare. Il dottore cominciò a gironzolare distrattamente per lo studio, fingendosi indaffarato.
– Non è in mio potere rivelare alcunché – disse – però mi pare
che fosse ancora vivo, stamattina. Consideri che i prigionieri del
bunker solitamente vengono portati qui già morti, o in fin di vita.
– Spera di non doverlo visitare, allora.
Si voltò nella mia direzione e rispose:
– L’ha combinata grossa, stavolta.
– Bahuoff ha…
– No, non mi interessa cosa ha detto o fatto Bahuoff. Non sono
il suo tutore. Al contrario: è lui a dare gli ordini, io devo soltanto
eseguirli. È questo che impone il regolamento militare. Bahuoff
avrà avuto le sue buone ragioni per agire in quel modo.
Kubik odiava Bahuoff: lo pensavo da sempre. L’accorata difesa
operata dal medico, contrariamente alle sue intenzioni, rendeva
ancor più manifesto tutto ciò. Avrei voluto dirglielo in quei momenti, sbattergli in faccia una verità che non poteva negare,
ma…
Ma tacqui. Lasciai che fossero i miei occhi a parlare. Kubik incassò lo sguardo e annuì lentamente. Quindi tolse gli occhiali,
stropicciando gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra.
– Sono stanco – disse – questa lunga guerra ci sta uccidendo.
Tutti… chi nel corpo, chi nell’anima.
Non replicai nulla, continuai semplicemente a fissarlo. Kubik
non aggiunse altro; si avvicinò alla scrivania in radica, compilò
velocemente un permesso e me lo consegnò.
– Riposo totale per ventiquattro ore. Tornerà a lavoro domani
pomeriggio, se le sue condizioni di salute glielo consentiranno.
Si avviò verso la porta, che aprì in tutta fretta, invitandomi a
uscire.
– Può riaccompagnare il detenuto nel suo block, non c’è bisogno di ricoverarlo in infermeria – disse infine a Fritz, che in tutto
quel tempo aveva atteso nel corridoio dell’ambulatorio.
– Sissignore – fu il laconico commento di Fritz. Ci allontanammo così dallo studio medico, ma quando gettai un’occhiata al di
sopra delle mie spalle mi avvidi che il dottor Kubik continuava a
seguirmi con lo sguardo.
Passai l’intera giornata, e buona parte del mattino seguente, a
riposare. Se da un lato tutto questo aumentava le mie possibilità
di sopravvivenza, attraverso il recupero delle forze fisiche, dall’altro quello stop forzato obbligava la mente a fare i conti col
passato, coi ricordi di una vita.
Mi viene chiesto spesso, da reduce di guerra quale io sono,
cosa mi fornì la forza di tirare avanti in quei lunghi, interminabili
mesi. I ricordi, suggerisce sempre qualcuno. E io scuoto la testa,
sforzandomi di sorridere. No, i ricordi non aiutavano. Al contrario: erano una prigione dalla quale, a un certo punto, non si vole-
va più uscire. Un luogo caldo e accogliente, all’apparenza; in
realtà, un’arma a doppio taglio. Rivangare volti ed episodi risultava piacevole, ma anche terribilmente debilitante per lo spirito,
che si vedeva costretto a rimpiangere persone quasi sempre già
morte, rimaste vive soltanto nel limbo della rimembranza. Si finiva per guardare al passato con intensa nostalgia, e a cogliere
nel presente una realtà insostenibile. Nulla di cui sorprendersi,
quindi, se poi l’insofferenza sfociava in gesti estremi.
I nostri ricordi potevano essere paragonati alla semplice neve.
Apparentemente raffreddavano gli animi, intorpidivano i sensi,
donando piacevoli sensazioni. Dopo un po’, però, cominciavano
a bruciare, a fare male. Quello era il punto di non ritorno. Tirarsene fuori equivaleva ad aver salva la vita, altrimenti ci si scottava mortalmente.
La neve, già. Quella notte cadde copiosa, imbiancando l’intero
lager. Osservai la sua discesa attraverso l’unica finestra del
block. Il nitore della neve cozzava decisamente coi toni scuri
della struttura carceraria; in sé, l’accostamento non era affatto
sgradevole, da un punto di vista estetico. Pareva di trovarsi in un
film in bianco e nero, dalle atmosfere sognanti e dilatate.
In questa cornice, quella stessa notte, si tenne l’ennesima discussione attorno ai temi del nazismo, della prigionia e delle modalità attraverso cui uscirne. Protagonisti ne furono tre deportati
dalle idee differenti, accomunati dal bisogno di capire.
Io li lasciai parlare, ascoltando attentamente.
Ero disposto a tutto, dopo ore di continue riflessioni, pur di non
restare intrappolato nei miei stessi ricordi.
CAPITOLO 13
Cominciavo a stare meglio, fisicamente, quando la discussione
ebbe inizio. A vederli, quei tre, davano l’impressione di essere
imparentati. Vestiti nella stessa maniera, con una bella stella di
colore rosso a spiccare sulla divisa a strisce del campo. Dissiden-
ti politici: questo diceva l’astro infuocato. Eppure, le loro idee
non collimavano affatto, trattandosi di individui dall’estrazione
culturale alquanto differente. Quella di Filippo, ad esempio, era
spiccatamente monarchica. Di origini sabaude, egli non perdeva
occasione per rimpiangere i tempi dei vecchi re italiani, e per rivendicare l’importanza dello Statuto albertino, che in pratica conosceva a memoria.
Dimitri, invece, era il classico comunista cresciuto a pane e Lenin.
Michail, infine, aveva militato nel movimento anarchico cecoslovacco, piccolo ma decisamente agguerrito, almeno a giudicare
dagli aneddoti che lo stesso Michail ci raccontava con accenti
trionfalistici.
Nel russare sommesso dei detenuti già precipitati in un sonno
profondo, Dimitri, sdraiato sulla sua branda, lo sguardo rivolto al
soffitto e le mani giunte dietro la nuca, esclamò con un rantolo
rabbioso:
– Non ne posso più.
Un po’ tutti coloro che, svegli e pensierosi, stazionavano in
quei paraggi, si voltarono a guardarlo.
– Cosa c’è Dimitri? – domandò Filippo. Il vecchio bolscevico
attese qualche secondo prima di formulare la risposta. Alcuni
compagni, già abituati agli sfoghi amari ma effimeri del solito
deportato stanco e psicologicamente provato, sfollarono rapidamente. Io restai con l’orecchio teso, pochi altri rimasero in zona.
– Non ne posso più di starmene qui, fermo, ad aspettare che un
altro schifoso giorno di violenze arrivi, e così il giorno dopo, e
l’altro ancora.
– Cosa vorresti fare? La rivoluzione proletaria? – domandò Michail in tono sarcastico, inserendosi in questo modo all’in- terno
della conversazione.
– Ci vorrebbe davvero, la rivoluzione proletaria! – esclamò Dimitri.
– Probabilmente, se all’interno del lager esistesse un proletariato – obiettò invece Filippo.
– Tu non capisci: proletario non è soltanto il morto di fame.
Ogni persona sfruttata, ogni individuo schiacciato dall’apparato
burocratico è fondamentalmente un proletario. E qui che si fa? Si
lavora diciotto ore al giorno in quello schifo di industria, o nelle
cave di pietra, senza salario, senza diritti, senza libertà.
– Il tuo amico Marx sosteneva che col lavoro l’uomo afferma
se stesso – rincarò Filippo.
– Sì, ma l’uomo di cui parla Marx è tutta un’altra cosa. È un lavoratore che…
– Santo cielo, ancora con questa solfa! – sbottò Michail.
– Oh, il nostro compagno anarchico! Perché, tu cosa suggerisci
di fare?
Michail si guardò attorno, avvertendo su di sé più di uno sguardo.
– Io propongo la cosa più naturale di questo mondo: l’insurrezione spontanea, dal basso, senza guide né fini secondari.
– E in che modo speri di riuscirci? – domandò Hermann, steso
sulla sua branda. Michail rise.
– Un’arma per ciascuno di noi e il gioco è fatto.
– Stai parlando di violenza, vero? – chiese con tono allarmato
Jacques, soggetto notoriamente contrario a qualunque ipotesi di
rivolta sanguinaria.
– La rivoluzione, da che mondo è mondo, è sempre stata violenta. Alternative non ce ne sono.
– E dove speri di rimediare le armi?
Michail tacque, prendendo posto accanto a Filippo.
– Non so, forse dovremmo cercare di portare qualcuno dalla
nostra parte. Corromperlo in qualche modo.
– Mercanteggiare col nemico? – proruppe Dimitri.
– Pensa al fine, amico mio, e il mezzo parrà lecito anche a te.
– Non se ne parla neanche. Non venderò mai l’anima a quei
porci nazisti.
– Stalin però lo ha fatto – sibilò Hermann.
– Vero. Ma col tempo ha cambiato idea.
– Gliel’ha fatta cambiare Hitler, l’idea – aggiunse Filippo correggendo il tiro.
– Spiacente, non prendo lezioni da un filomonarchico. Ricorda
che se i re d’Italia e Germania avessero mostrato un po’ di polso,
oggi non ci troveremmo in questa situazione.
– Sarà, ma nei lager ci siamo finiti tutti, anche noi monarchici.
– Una specie di legge del contrappasso – commentò Michail
con amarezza.
– Che non ha risparmiato neanche voi – gli fece eco Dimitri –
dal momento che molti compagni anarchici si sono bevuti il cervello, a quanto pare. In Italia avete salutato Mussolini come l’uomo nuovo, quello in grado di concretizzare i vostri deliri populisti. È ridicolo: rifiutate i rivoluzionari di professione di cui parla
Lenin, però poi accogliete a braccia aperte il primo dittatore che
bussa alla vostra porta.
Michail chinò il capo, pensieroso.
– Non tutti in Cecoslovacchia si sono lasciati fregare – cercò di
giustificarsi – e abbiamo lottato a lungo prima che la nostra terra
venisse trasformata in uno squallido protettorato.
– Lo so. Ma non era l’unità d’intenti la vostra arma segreta?
Non siete voi a reclamare mille corpi ma un solo uomo, e una
sola volontà? È inutile girarci attorno, Michail: in un certo senso
qui tutti abbiamo delle colpe.
– Io non ho mai prestato interesse a queste cose – affermò una
voce femminile anonima.
– È una colpa anche questa. La politica si è interessata di te,
mentre tu dormivi beata – le rispose Filippo.
Trascorse un buon minuto, o giù di lì, senza che nessuno fiatasse. A quel punto fu il sottoscritto a prendere la parola, anche
se per rivolgere una semplicissima domanda:
– Assodato che qui siamo tutti colpevoli, come sperate di tirarci
fuori da questa situazione?
– Ho già detto la mia: occorre entrare in possesso di armi, elaborare un piano e aspettare il momento propizio. La sete di libertà farà il resto – propose Michail.
– Attendiamo che gli inglesi ci vengano a salvare, dopo aver
avuto la meglio sui nazifascisti – replicò Filippo.
– Speri ancora in Churchill? E noi che facciamo nell’attesa che
i sudditi di sua maestà si precipitino a salvarci? – domandò provocatoriamente Michail.
– Quello che facciamo da settimane: cerchiamo di mantenerci
in vita.
– Io credo che attendere il soccorso di un popolo amico, di un
liberatore – asserì Dimitri – sia in qualche modo necessario. Personalmente confido in Stalin però, non in Churchill.
– Stessa domanda: che facciamo nel frattempo?
– Organizziamo la resistenza, utilizzando le uniche armi a nostra disposizione, quelle passive.
– Ma di che stai parlando?
Dimitri esitò qualche istante prima di formulare la sua risposta.
– Uno sciopero – disse infine. Alcuni di noi si abbandonarono a
una fugace risata.
– Lo so, può sembrare assurdo, ma rifletteteci un istante: se noi
incrociamo le braccia, chi manderà avanti la fabbrica di armi?
Chi costruirà le loro strade? Chi lavorerà la terra?
– Qualcun altro – sentenziò Tamara a bassa voce – dal momento che la manodopera non manca di certo, ai nazisti. Qui, e in altri campi di concentramento, affluiscono centinaia di deportati
ogni settimana. Nessuno di noi è fondamentale per la sopravvivenza del lager. Siamo pedine, rimpiazzabili a piacimento di chi
ci sfrutta. Se così non fosse, perché ci massacrerebbero di botte?
Perché ci ucciderebbero nei modi più brutali? Siamo una fonte
inesauribile di manodopera, questa è la verità.
– E quando non ci sarà più alcun ebreo, alcun oppositore politico o religioso… che faranno? – domandò Dimitri.
– Inventeranno nuovi nemici, nuovi reati. Gli ebrei lasceranno
il posto ai giapponesi, o agli svizzeri, e basterà un foruncolo per
essere identificati come nemici del Reich. Voi pensate di poter
porre un freno alla follia nazista. In questo, amici miei, risiede il
vostro errore più grande, la vostra colossale illusione.
CAPITOLO 14
L’indomani, durante le prime ore della giornata, ebbi modo di
sfruttare il periodo di riposo concesso da Kubik. Fu senz’altro un
bene, dal momento che la febbre era diminuita ma senza scomparire del tutto; la neve, inoltre, non voleva saperne di arrestare
la propria discesa, e adesso ricopriva per intero il lager. Se fossi
uscito, nelle condizioni di salute in cui versavo, avrei fatto certamente la fine di quei dodici detenuti che, in pieno orario di lavoro, perirono miseramente nell’indifferenza generale. Un paio di
questi riuscii a scorgerli coi miei stessi occhi, mentre in piedi davanti alla finestra, osservavo i miei compagni lavorare la terra.
Si accasciarono al suolo lentamente, tentando dapprima di reggersi a una vanga, poi al terreno innevato. A nulla valse la speranza di vederli rialzare, o che le ultime briciole di forza accorressero in loro aiuto. Annientati dall’affanno, e sotto lo sguardo
vigile di una SS armata di fucile, il loro ultimo respiro fuggì via.
Si ripetevano le scene di sempre: il corpo, quell’involucro scheletrico senza parvenza d’umanità, crollava su un fianco, per non
muoversi mai più. Qualche nazista gli si accostava, lo colpiva
debolmente con la canna del fucile; una volta constatato il decesso, schioccava le dita e giungevano i sonderkommandos, che armati di tenaglie afferravano il cadavere per il cranio e lo trascinavano verso la fossa comune, a volte servendosi di piccoli carretti.
Questo vidi, quel mattino, attraverso i vetri opachi della nostra
finestra. Ma il resto della giornata avrebbe riservato a tutti noi
immagini ben peggiori.
La tredicesima vittima fu portata in spalla dal povero Hermann,
che dovette procedere lentamente dall’esterno del lager sino all’inceneritore. Fu proprio lui a darmi la notizia, una volta recuperate le forze.
– Jacques è morto – disse soltanto. Osservai gli altri detenuti,
che alla spicciolata riprendevano posto all’interno del block.
Nessuno parlò, eppure sembrava che tutti ripetessero quelle stesse parole: Jacques, il testimone di Geova, è morto.
– Com’è successo? – chiesi.
– Il gioco del confine – rispose Hermann.
Il gioco del confine… un terribile tranello teso a scadenze regolari da qualche SS in vena di divertimento.
– Chi? – domandai ancora.
– Il sottufficiale della capitale… nessuno ricorda mai il suo
nome.
Il piccolo Tomas mi fissò per qualche istante, poi distolse lo
sguardo facendo finta di nulla.
Era tutto chiaro, del resto. Jacques aveva già accennato al sottufficiale giunto da poco nel lager. Stava per diventare padre per
la prima volta, voleva restare accanto alla moglie, vedere nascere
il primogenito.
E allora realizzai: il figlio era nato, necessitava quindi di una licenza per allontanarsi un paio di giorni. Qualche collega doveva
avergli suggerito il giochetto del confine. Bastava avvicinarsi a
un detenuto, e ordinargli di oltrepassare la linea che delimitava la
zona riservata ai prigionieri, ovviamente sotto la minaccia delle
armi. Ogni detenuto sapeva bene che un solo piede posto al di là
del confine avrebbe inevitabilmente attirato l’attenzione dei cecchini appostati nei paraggi. Tuttavia, negare l’ordine poteva
comportare conseguenze peggiori. E a noi, sempre in bilico tra
vita e morte, tra volontà di non arrendersi e desiderio di veder
cessare le proprie pene, non restavano che pochi secondi per scegliere.
Jacques era stato ucciso dal sottufficiale in persona, non da una
sentinella. Tuttavia, scartai subito l’ipotesi che il testimone di
Geova avesse oltrepassato di sua volontà la linea di confine. Non
lo avrebbe mai fatto, per coraggio e per una spiccata contrarietà
al suicidio. Il suo aguzzino doveva averlo spinto, simulando l’evasione; di questo potevo star certo, perché i soldati che impedivano un tentativo d’evasione venivano premiati con somme in
denaro o una licenza premio. E quel sottufficiale desiderava fol-
lemente andar via per quarantott’ore, da trascorrere con moglie e
figlio.
Tutto tornava.
Rientrando dal campo, Tamara mi guardò e senza dire nulla
corse ad abbracciarmi. Qualcuno, probabilmente, le aveva comunicato la morte di Jacques. Il collo mi si inumidì velocemente di
calde lacrime, e qualche flebile singhiozzo risuonò nel chiuso del
block.
La consapevolezza della tragicità della nostra situazione giungeva così, senza preavviso, e lì restava per ore, lasciandoci ammutoliti. Tutto appariva vano, indefinito, superfluo.
Occorreva che qualcuno tornasse a restituire un senso alla nostra sopravvivenza. Quel qualcuno, di lì a poche ore, avrebbe assunto le sembianze del povero Oskar.
Fummo svegliati nel cuore della notte da un Bahuoff in evidente stato di alterazione; barcollava tremendamente, urlando i suoi
sproloqui in faccia a noi detenuti. Pareva al culmine della gioia,
e di tanto in tanto accennava qualche passo di danza, rischiando
regolarmente di finire per terra.
Non appena fu dato l’ordine di schierarsi, ci ritrovammo tutti
assieme nello spiazzo del lager, sotto la neve. Poi apparvero in
lontananza tre uomini, stretti l’un l’altro. Ai lati c’erano Fritz e
T.K., al centro Oskar, o quel che ne restava. Il volto del nostro
compagno di block era stato ridotto in uno stato pietoso. Gli
ematomi violacei spiccavano crudelmente sulla pelle avvizzita e
cerulea; i capelli sembravano strappati alla radice, come erbacce
di poco conto, e il cranio, gli occhi e le labbra presentavano inequivocabili rigonfiamenti. Non si reggeva in piedi, e sbandava di
continuo, per quanto Fritz e T.K. tentassero in ogni modo di tenerlo in posizione verticale; ma più che sostenerlo, i due sembravano schiacciarlo tra i loro corpi pieni d’energia. Ridacchiavano
come al solito, da perfetti sadici quali essi erano.
Una volta terminato il veloce quanto inaspettato appello, al
quale persino Oskar fu costretto a rispondere, Bahuoff cominciò
a passeggiare avanti e indietro nei pressi della prima fila di detenuti.
– Dove sono quei nuovi deportati del block due? – domandò
con crescente impazienza.
– Ne sono arrivati parecchi in questi giorni – sibilò Fritz guardandosi attorno.
– Lo strizzacervelli e il filosofo – specificò allora Bahuoff.
T.K. comprese al volo, e declamò ad alta voce i nomi di Kroger
e Sammet, i nuovi arrivati.
Kroger proveniva da un paesino affacciato sul Reno, e aveva
svolto per anni la professione di psicologo presso un’università
austriaca. Sammet, invece, era un professore di filosofia. Di più,
sul loro conto, non avrei saputo dire in quella prima fase della
nostra reciproca conoscenza.
Comunque, i due avanzarono dalle retrovie col petto in fuori,
rispondendo celermente alla chiamata. Bahuoff li guardò sorridente e disse:
– Siete qui da pochi giorni, dovete imparare cosa può succedere
a chi sminuisce la mia autorità.
Sembrava piuttosto lucido, il comandante; evidentemente il
freddo notturno aveva già disperso i fumi dell’alcol. Indicò poi
due vanghe posate per terra.
– Prendete quegli arnesi e cominciate a scavare una buca, non
troppo larga, ma abbastanza profonda da poterci calare un uomo
fino al collo.
Bahuoff guardò Oskar, e sorrise ancora. Quel che stava per accadere fu immediatamente chiaro a tutti. Le dita delle mia mani
cominciarono a convergere verso il centro, quasi automaticamente, fino a stringersi in due pugni carichi di odio e tormento.
Avrei voluto usarli, quei pugni, per impedire a Bahuoff quel- l’inutile, inumana esecuzione.
Oskar era già morto, potevo vederlo coi miei occhi. I suoi, di
occhi, probabilmente non vedevano niente. E se anche avessero
colto nitidamente l’immagine dei detenuti intenti a scavargli la
fossa, il suo cervello non avrebbe realizzato ciò che accadeva.
Era già morto, vi dico, e quei miei pugni, in fin dei conti, non sarebbero serviti a nulla, se non ad allargare un po’ la buca, per
spingerci dentro anche il mio corpo. Avrei tenuto compagnia ad
Oskar, senza per questo salvargli la vita. Tamara, che accanto a
me batteva i denti per il freddo e per la rabbia, aveva perfettamente ragione: non potevamo porre alcun freno alla follia dei
nostri persecutori.
Quando Kroger e Sammet ebbero terminato il proprio compito,
Bahuoff ordinò al decano e al kapò di calare Oskar nella buca, in
posizione eretta. Poi chiamò altri due detenuti e chiese loro, con
posticcia gentilezza, di ricoprire la fossa. A distanza di cinque
minuti, soltanto la testa del nostro compagno sbucava dal terreno
cosparso di neve. E l’unico segno di vita consisteva nel fumo
che, a intervalli regolari, si propagava in maniera informe dalla
sua bocca, per via del freddo.
In quel frangente, forse attirato dalle risa sguaiate del comandante, fece la sua comparsa il dottor Kubik. Osservò accigliato il
volto tumefatto di Oskar, e avanzò lentamente nella sua direzione. Si piegò sulle ginocchia, poi tastò con pollice e indice il collo
del nostro compagno di block.
– Cosa c’è dottore? Ritiene i miei metodi poco ortodossi? – gli
domando Bahuoff con fare sardonico, prorompendo poi nell’ennesima risata. Kubik non batté ciglio, ma negò col capo.
– Tutt’altro, signore. Ritengo che la punizione inflitta al detenuto non sia equivalente all’offesa arrecata.
– Che cosa suggerisce? – domandò allora Bahuoff, visibilmente
compiaciuto.
– Un’umiliazione peggiore, che serva da lezione a tutti.
Avvicinò la bocca all’orecchio destro del comandante, e bisbigliò qualcosa che obbligò Bahuoff, ancora una volta, a sghignazzare in maniera inconsulta.
– Mi piace, mi piace – assentì allora entusiasticamente, forse
sorpreso dalla proposta del medico.
– Ci sto, dottore. Anzi, sarò il primo della lista.
Poi volse lo sguardo nella direzione di T.K. e Fritz.
– Voi due… che ne dite di pisciare su quell’alberello che spunta dalla neve? – domandò indicando Oskar. T.K. rise.
– Ci consideri già arruolati – disse quindi a nome di entrambi.
– Ne servono altri, però. Vediamo un po’…
Bahuoff iniziò a scorrere con l’indice della mano destra la lista
dei detenuti. La sua perfidia lo avrebbe indotto quasi certamente
a scegliere fra i compagni di block del condannato.
– I quattro che hanno scavato e ricoperto la fossa sono già qui.
Io direi di tenerceli, ma non bastano – sibilò chiedendo consiglio
a un interlocutore invisibile.
Occorrevano altre persone. Improvvisamente, in barba alle rigorose leggi del campo, avvertii la mano di Tamara stringere impietosamente la mia. Senza muovere di un solo millimetro la testa, spostai lo sguardo verso destra e intravidi Tamara che, con
gli occhi serrati sino alle lacrime, muoveva impercettibilmente le
labbra, senza emettere il minimo rumore.
Stava pregando…
– Si facciano avanti Hermann Thode e quel piccolo bastardo
che finge di essere muto… come si chiama?
– Tomas – suggerì Fritz.
Tamara mollò la presa, e riaprì gli occhi.
– Tomas, sì. Però ne voglio un altro.
– Se non le spiace vorrei essere l’ultimo della lista – intervenne
Kubik avanzando di un passo.
– Mi pare giusto. In fondo l’idea è stata sua – commentò Bahuoff.
Poi chiamò a raccolta i detenuti incaricati del medesimo compito, li contò uno ad uno, e con la sigaretta stretta fra le labbra,
come d’abitudine, si avvicinò all’inerme Oskar slacciando la cinghia che gli reggeva i pantaloni.
CAPITOLO 15
Non ci girerò attorno troppo a lungo. Alcuni ricordi possiedono
il dono naturale di riemergere con facilità dagli abissi della memoria, ma altri, simili ad aghi conficcati fra le pieghe del nostro
cervello, vanno afferrati per l’estremità sporgente e tirati su con
calma e cautela.
Il ricordo dell’umiliazione di Oskar appartiene a quest’ultima
categoria, per cui tutto quello che posso rammentare è che Bahuoff fu il primo a inzuppare per bene il volto del nostro compagno. Toccò poi a T.K., quindi a Fritz. Si alternarono in dolorosa
successione i sei detenuti; fra questi, l’ultimo della lista fu proprio Hermann, l’unica persona che poteva considerarsi a ragion
veduta un amico del prigioniero sepolto sotto la neve. Quando
gli fu davanti, braccia stese sui fianchi e fronte aggrottata, guardò Oskar e serrò la mascella. Quest’ultimo, nel frattempo, aveva
ripreso i sensi, e fissava il dottor Kubik con un’espres- sione che,
lì per lì, non riuscii a decifrare. A distanza di pochissimi secondi,
Bahuoff iniziò a dare in escandescenza.
– Piscia in faccia al tuo amico o seppellisco anche te, ma a testa
in giù – gli intimò mettendo mano alla pistola.
Hermann non mosse un muscolo. Allora Oskar balbettò qualcosa, qualcosa che noi, distanti diversi metri, non riuscimmo a
comprendere. A quel punto Hermann si voltò e annuì col capo.
Alcuni di noi credettero che il cenno d’assenso fosse stato rivolto
al comandante Bahuoff, ma così non fu. Poche ore più in là ne
avrei avuto conferma.
Seppur visibilmente rammaricato, il nostro compagno di block
fu costretto a eseguire l’ordine. Eppure, quando tornò a schierarsi fra noi, non vidi pentimento sul suo volto, né rabbia alcuna.
Giunse quindi il turno del dottor Kubik, che lentamente si parò
al cospetto di Oskar. Fece scivolare verso il basso la cerniera dei
pantaloni, senza che il suo volto tradisse alcuna emozione. Proprio come Hermann.
– Apri la bocca – disse quindi all’improvviso.
Più di qualcuno, fra i detenuti, trattenne a stento un grido di ripugnanza e disapprovazione. Io, convinto di cominciare a capire,
continuai a osservare la scena in silenzio.
Sulle prime Oskar negò debolmente col capo. Era ferito, spossato e forse ammalato, e quel gesto dovette costargli non poca
fatica. Bahuoff tornò ad accarezzare la pistola, e il medico se ne
accorse.
– Dai retta a me – ripeté Kubik – faresti meglio a tenere aperta
la bocca.
Si scambiarono un altro sguardo. Silenzioso. Lunghissimo. Con
un ulteriore, enorme sforzo, Oskar socchiuse la bocca, mostrando a tutti noi due fila di denti assai rade. Per via dei pestaggi subiti nei giorni precedenti, suppongo.
Kubik sorrise, poi fece quel che doveva.
Dopo aver richiuso la lampo dei pantaloni, ritornò a stazionare
nei pressi di Bahuoff, ponendosi sull’attenti. Quando l’ebbe accanto, il comandante scoppiò a ridere:
– Diavolo di un medico! Pisciargli in bocca… e poi sarei io il
cattivo. È lei il vero mostro! – esclamò tra le risate sue e dei
kapò. Kubik scrutò il cielo e chiese al comandante:
– Lo sapeva che “Frankenstein” non è il nome del mostro, ma
quello dello scienziato?
Bahuoff restò serio per un istante, poi lo colpì sulla spalla con
una gran pacca e tornò a ridere sguaiatamente, e con lui tutti gli
altri.
Kubik sorrideva.
CAPITOLO 16
Il giorno seguente, ognuno di noi fu costretto a muoversi nel
campo senza poter prestare alcun soccorso al povero Oskar, che
restava, assiderato e agonizzante, nel personale block riservatogli
da Bahuoff. Fritz ci vietò espressamente di parlare col detenuto;
T.K. rincarò la dose, vietando persino il semplice sguardo, anche
durante gli appelli.
Oskar era già morto per Bahuoff; e noi, noi che non avevamo
alcun diritto di pensare, dovevamo forzatamente condividere l’idea del comandante. Non esisteva più, quell’uomo, era un ricordo, un fantasma del passato, il simbolo di quel che rischiava ogni
oppositore del regime nazista. Se ci avessero chiesto: “qualcuno
di voi riesce a notare una qualche presenza umana lì, nei pressi
dello spiazzo?”, noi avremmo dovuto rispondere di no.
No, signore, io non vedo alcuna presenza umana.
Io non vedo occhi gonfi, non vedo labbra sanguinanti, né sofferenza né dignità, dietro quelle palpebre serrate.
Io non vedo un essere umano, perché qualunque cosa ci sia,
piantata nella neve, non può più essere definita un essere umano.
Certo, quel qualcosa tenterà d’ingannarmi, mostrando ossa,
muscoli e lacrime, ma non è che un’imitazione. Tutti noi siamo
imitazioni di vita.
Non lasciamoci ingannare, per la miseria! Ognuno vede quel
che desidera vedere.
C’è qualcuno lì?
No, signore, nemmeno un respiro.
Si fece un gran parlare del dottor Kubik in quelle ore. C’è chi si
mostrò sorpreso dall’atteggiamento del medico, chi disgustato,
chi amareggiato. Più o meno tutti, insomma, nutrivamo la speranza che almeno nel cuore di Kubik fosse rimasto un minimo di
pietà umana. E invece…
Soltanto Hermann preferì tacere, mentre io, per quanto dubbioso, mi limitai a manifestare i medesimi sentimenti dei nostri
compagni.
Durante la notte, a distanza di ventiquattro ore dall’umiliazione
pubblica di Oskar, non tutti trovarono la forza di addormentarsi
nell’immediato. Del resto, bastava affacciarsi alla finestra per vedere ciò che i nazisti non volevano che vedessimo. A memoria
d’uomo, non ci fu agonia più lunga e straziante di quella patita
da Oskar. Per quanto crudeli, le consuete punizioni corporali duravano tutt’al più qualche ora, poi il corpo cedeva, o i nazisti si
stancavano di giocare e dispensavano proiettili. Ma quel che subì
Oskar, ancora vivo nonostante il digiuno, e le percosse, e gli oltraggi… no, nessuno lo patì mai.
Il signor Kroger, ribattezzato da Bahuoff “lo strizzacervelli”,
venne a trovare me e Tamara quella notte. Anche lui, come tutti,
aveva bisogno di parlare; e a maggior ragione, dal momento che
era lì con noi soltanto da pochi giorni.
Non so perché scelse proprio noi due, fra tutti gli interlocutori
possibili, ma lo scoramento che mostravano i suoi occhi la diceva lunga sul suo stato mentale.
Aveva bisogno di sfogarsi, ed essere ascoltato.
– Dovrò abituarmi a mostruosità di questo tipo, suppongo –
disse con tono flebile, cercando al contempo di abbozzare un timido sorriso. Annuii mestamente, gettando un’occhiata al di là
della finestra.
– Non possiamo fare niente per quel disgraziato? – domandò
sedendosi sul pavimento, a gambe incrociate.
– Pregare perché tiri le cuoia il prima possibile – replicai freddamente.
– Io, a dire il vero, confidavo in qualcosa di meno negativo.
– Allora può sperare inutilmente che qualcuno o qualcosa gli
salvi la vita.
Kroger incassò anche quella risposta senza scomporsi.
– Bizzarro, mi avevano parlato in altri termini del deportato Felicien Delacroix – disse soltanto. Risi, poi domandai:
– Davvero? E cosa si dice in giro?
– “Una persona compassionevole”: così ti hanno definito.
Tamara mi lanciò un’occhiata, io ribattei:
– So esserlo al momento giusto, signor Kroger. Questo posto ti
insegna a essere realista, però, che tu lo voglia o meno. Ne ho viste tante in queste settimane, e so che qui il tempo si è fermato.
Risveglio adunata lavoro cibo lavoro appello cibo riposo. Tutti i
giorni la stessa storia, come in un cerchio. Una sola incognita: la
sopravvivenza. Sappiamo quel che ci attende domani, ma non
sappiamo se questo “domani” potremo vederlo e viverlo. Certamente lo subiremo. Solo la morte, e nient’altro, può spezzare il
cerchio.
Il mio interlocutore sollevò un lato della bocca, e passò una
mano sul volto corrugato.
– Sensi di colpa, Kroger? – domandò Tamara.
Lui annuì senza nasconderlo.
– Gliel’ho scavata io, quella fossa.
– E ora vorresti tirarlo fuori – proseguì lei.
– Sì, e anche Sammet non riesce a darsi pace.
– Non ne avete motivo, né tu né lui – dissi io.
– Balle. Quelle pale non si sono messe a scavare da sole.
– Qual era l’alternativa? Disobbedire all’ordine? Un buco in testa: questo avresti ottenuto. Le vanghe sarebbero finite comunque in altre mani. E quella fossa, amico mio, c’era già, da giorni.
Nessuno poteva vederla, eccetto Oskar. Perché è stato lui, mettendosi contro Bahuoff, a scavarla con le sue stesse mani.
– Sì, mi hanno raccontato qualcosa. Dicono che abbia salvato la
vita a un ragazzino muto.
– Salvato la vita… chi può dirlo? Magari ha spostato le lancette
un po’ più in là, e Tomas resta secco domani. Oskar sapeva benissimo a cosa andava incontro, ma se n’è fregato altamente, per
motivi che solo lui conosce.
– Forse voleva dirci qualcosa – suggerì Tamara.
Sollevai le spalle, non avendo alcuna risposta certa da offrire.
La quiete della notte ci zittì per qualche secondo, e Kroger tornò
in piedi, pronto ad andare via.
– Quel tale… il medico del campo – accennò prima di allontanarsi definitivamente.
– Il dottor Kubik?
– Proprio lui. Per alcuni ha dei modo garbati, e forse un cuore,
almeno rispetto agli altri nazisti, ma da quel che ho potuto vedere
non è che una canaglia della peggiore specie.
Tamara assentì, io replicai:
– Qui nessuno conosce l’altro. Il deportato che oggi ti offre un
pezzetto del suo pane, domani potrebbe essere nominato kapò e
pestarti a sangue per uno starnuto. Il medico del campo non
sfugge alla regola. In un altro contesto, forse, Kubik avrebbe il
volto del tranquillo vicino di casa, il bravo dottore che accorre in
aiuto quando a tua figlia sale l’influenza. Ma qui, nel lager, tutto
s’abbruttisce, diventa volgare. Perché prima o poi i lupi ti impongono una scelta, unirti al loro branco o a quello degli agnelli.
Sacrificare o sacrificarsi, cacciare o essere cacciato.
– Stai cercando di giustificarlo? – domandò Tamara interdetta.
– Non lasciatevi ingannare, questo è ciò che dico. Voi guardate
la neve adagiarsi sul terreno e pensate che tutta la neve sia bianca. E se lo stivale di un nazista vi colpisce in pieno volto, osservate la suola di chi vi calpesta e pensate che tutte le suole siano
nere. Fate attenzione, vi dico, perché la neve può sporcarsi di grigio in seguito al nostro passaggio. E un po’ di neve, certe volte,
può accumularsi ancora limpida fra le pieghe nascoste di una
scarpa.
CAPITOLO 17
La porta del block si aprì violentemente nel bel mezzo della
notte. Fecero dunque il loro ingresso Fritz, T.K., Kubik e, nello
stupore generale, anche Oskar. Il fantasma di Oskar, a giudicare
dal colorito del suo volto.
– Non la seguo, dottor Kubik. È sicuro che tutto questo sia regolare? – domandò T.K. lasciando che il corpo di Oskar franasse
al suolo, una volta negatogli il sostegno.
– Gliel’ho già detto mille volte – replicò d’acchito il medico,
osservando la massa informe di detenuti che, alla spicciolata, tornava confusamente in piedi, ancora in preda al sonno.
– Bahuoff però… – accennò Fritz, subito interrotto dal medico
con un gesto della mano.
– Ho chiesto giorni fa al comandante di autorizzare alcuni esperimenti di alto profilo scientifico, da svolgere su cavie umane
vive. Bahuoff non ha obiettato nulla, e ha firmato tutti i documenti. In questo momento, però, si trova in Polonia, in visita
presso un altro lager. Ho assunto io il comando, per quel che riguarda la vita dei degenti. Posso disporne a mio piacimento, anche perché il rapportführer sta dormendo, e non credo che verrà
sin qui per valutare la situazione. Se poi tu e T.K. temete per la
vostra incolumità, potete stare tranquilli: avete dissotterrato il
corpo di quest’uomo dietro mio ordine. Tuttavia, non immaginavo affatto che lo stato di salute del deportato fosse compromesso
a un livello così alto. È più di là che di qua, e ai fini del mio
esperimento non serve assolutamente a nulla.
– Ma respira ancora!
Kubik deglutì nervosamente, senza mai togliere gli occhi di
dosso a Fritz:
– Mi pare che qui sia il sottoscritto a indossare un camice, no?
Ho studiato attentamente le risposte neuro-motorie del detenuto,
nonché lo stato delle funzioni vitali. È ridotto uno schifo, e non
passerà la notte.
– Ributtiamolo nella fossa – propose T.K.
Il medico chinò il capo e guardò Oskar per qualche secondo:
– Non se ne parla. Sono le due di notte, l’ultima cosa che desidero è sprecare altro tempo. Neanche in punto di morte ha combinato qualcosa di buono, questo schifoso.
Ordinò ai due di rompere le righe e andare a dormire, complimentandosi pubblicamente per l’ottimo lavoro svolto quella notte. Tronfi e impettiti, Fritz e T.K. scomparvero velocemente dalla scena. Kubik li seguì a ruota, negando palesemente gli sguardi
di chi, come me, lo contemplava nel tentativo di capire il perché
delle sue azioni. Quell’uomo sembrava burlarsi di tutti, e proiettare diverse personalità in molteplici punti, come in un gioco di
specchi.
Quando la porta del block venne nuovamente chiusa, ci precipitammo in massa a soccorrere Oskar.
Per prima cosa adagiammo il corpo sulla sua vecchia branda, e
lo coprimmo con cinque o sei coperte. Poi qualcuno fece giungere dalle retrovie il secchio e la spugna; nel secchio c’era dell’acqua, in realtà neve disciolta ormai da diverse ore.
Come già detto, l’arte della sopravvivenza sollecitava ognuno
di noi a ideare nuovi stratagemmi coi quali adattarsi alle diverse
contingenze. Fu Abdul il musulmano a suggerire l’idea della
neve: bastava riempirsi le tasche poco prima del rientro serale, e
il gioco era fatto. Nel giro di qualche minuto la neve cominciava
a sciogliersi e a gocciolare, occorrevano quindi rapidità e prudenza. Le SS vigilavano attentamente, non era facile fargliela
sotto il naso. Neanche la neve potevamo considerare nostra, ai
loro occhi. Ma il gioco funzionò, e bene. Certo, con quel freddo
non era piacevole avvertire il gelo che trapelava attraverso i vestiti giù fino alla nuda pelle, ma questo espediente consentì a
tutti noi di poter contare su una riserva non indifferente di acqua.
Al mattino, c’era sempre qualcuno che provvedeva a gettare l’eventuale residuo nella fossa degli escrementi. Quella notte, però,
non ne andò sprecata neanche una goccia.
Ormai a temperatura ambiente, inumidimmo palpebre, labbra e
polsi del moribondo, nella speranza di fargli riprendere i sensi. In
effetti Oskar aprì quasi subito gli occhi, ma cominciò a blaterare
frasi sconnesse. Era disidratato, e spaventosamente contratto nei
movimenti. Nonostante il gran freddo, la sua fronte scottava, e
qualcuno ebbe la buona idea di adagiarvi la spugna imbevuta
d’acqua, preventivamente strizzata. Si calmò un po’ a distanza di
venti minuti; i nostri sguardi vigili registravano ogni mutamento
nel tono della voce o nell’espressione del volto.
Dopo circa un’ora, alcuni di noi cedettero al sonno, e presero
posto nelle rispettive brande, assicurandosi però che qualcuno restasse di guardia. Il folto nugolo di persone stipato alle nostre
spalle, così, sfollò lentamente, detenuto dopo detenuto.
Quando Oskar riaprì gli occhi e cominciò a parlare con voce
calma e sommessa, eravamo rimasti forse in dieci ad ascoltarlo:
io, Tamara, Hans, Jurgen, Hermann, Abdul, il piccolo Tomas, il
professor Kozminski e anche Kroger e Sammet, se ricordo bene.
Le sue parole avrebbero segnato per sempre alcuni di noi, edificando le fondamenta della nostra futura libertà.
CAPITOLO 18
– Sta zitto, e cerca di riposare – disse Hermann a Oskar girando
dal lato fresco la spugna che gli inumidiva la fronte.
– Sono ridotto male, eh? – domandò Oskar per la seconda volta. Hermann, da sempre l’unica persona degna di considerazione
per lui, non resse lo sguardo e finse di sistemare con maggior
cura le coperte.
– Te la caverai – rispose guardando nel vuoto.
Oskar non abboccò, e squadrò tutti noi in cerca di conferme.
Un po’ tutti provammo a sorridergli, a mostrarci sereni. Ma Tamara tremava, io simulavo a stento e gli occhi del piccolo Tomas… gli occhi del piccolo Tomas non erano mai stati così grandi e scuri come in quella occasione.
Oskar capì, e deglutì.
– Almeno crepo come un essere umano – commentò allora nel
riverente silenzio, la voce arrochita dalle pene sofferte.
– Piantala – insistette Hermann.
– State alla larga dal bunker, non potete immaginare che vi fanno lì dentro – bisbigliò Oskar tentando di mostrare a tutti le braccia cariche di tagli e lividi. Non riuscendoci, continuò a parlare:
– Quei crucchi del cazzo speravano di vedermi schiattare coi
loro occhi… ma io li ho fregati, per dio!
In quel mentre tossì, ma Hermann non gli rimproverò nulla.
Voleva parlare, il vecchio Oskar, dirci quel che c’era da dire prima dell’inevitabile. Era evidente, ormai, che non ce l’avrebbe
fatta, e da quel momento in poi nessuno osò zittire la sua voce.
Si sarebbe spenta da sola, col trascorrere dei minuti.
– Nel bunker del lager non puoi fare altro che pensare, di tempo ne hai a sufficienza. E allora ho ricordato un mucchio di cose,
errori compresi. Nessun pentimento, per carità, non sono il tipo
d’uomo che si pente, io. Ma dieci anni fa ho ucciso un tizio, lo
sapete tutti. Ci avevo provato con sua moglie, ma quella lì non lo
teneva mica l’anello al dito! Apriva le gambe a tutti i clienti del
bar, la troia, senza mai ammettere di essere sposata. Fesso non lo
sono mai stato, quindi m’accodai come tutti gli altri. Bell’affare!
Indovinate un po’ chi fu l’unico a essere pizzicato dal marito?
Rise a stento.
– Quel pazzo si presentò sotto casa mia, una notte. Poche parole e un solo azzardo: una bella coltellata. Centrò una spalla, e a
momenti ci restavo secco. Io tirai fuori il mio, di coltello, e contrattaccai, ma con più precisione. Gli bucai un polmone, e il resto
è storia. Mi spedirono in gattabuia, della legittima difesa non
gliene fregò un cazzo a nessuno. Lo scoprii più tardi: avevo ucciso un avvocato, per la miseria, con una sfilza di amicizie e agganci da far paura. La moglie finse di non conoscermi durante il
processo, e tanti saluti alla libertà.
Riprese fiato.
– E proprio ieri, sapete, in quella buca ho ricordato gli anni passati in galera. Anni piacevoli, al confronto. Mi è tornato alla
mente un secondino, un certo Breuer. Menava botte da orbi, ed
era rispettato da tutti. Non per le botte, intendiamoci: quelle dopo
un po’ impari a evitarle o a incassarle con dignità. Breuer si preoccupava per noi, questa è la verità; ci teneva in scacco, ma offriva cibo, sigarette, alcolici, e anche consigli. Era saggio, a
modo suo. Diceva: “pestare e basta non serve a niente, perché
così il carcerato ti prende sulle palle, dimentica che significa vivere e una volta fuori si sente a disagio, e allora la prigione a che
serve, dico io?”.
Rise di nuovo.
– Una volta ci fu un’invasione di topi; si facevano spazio negli
interstizi, sbucavano da sopra, da sotto, dai cessi… ovunque!
Breuer fu l’unico a prendere in considerazione le nostre lamente-
le. Eravamo carcerati, non bestie. Non so esattamente come ci
riuscì, ma risolse il problema nel giro di una settimana. Ne catturò uno, e lo fece impazzire. Non chiedetemi come, sta di fatto
che i topi iniziarono ad aggredirsi l’un l’altro, a massacrarsi a vicenda. Non ne restò vivo nemmeno uno.
Sospirò.
– Qui, invece, sono tutti dei piccoli Hitler. Se ne fottono di noi.
Bene o male, vogliono tutti un po’ di potere in più. Una stella
sulla divisa, una casa, cibo migliore o che so io. Breuer pensava
al dopo, al nostro rientro nella società. I nazisti no, e sapete perché? Perché noi non conosceremo mai alcun ritorno. Siamo destinati a tirare le cuoia qui. La loro perfetta società ariana non ha
bisogno di noi.
Riprese fiato, questa volta più a lungo.
– Adolf Hitler è innocente, amici miei. Ve lo dico io. Ci ho
messo un po’ a capirlo, ma alla fine mi è parso chiaro. Hitler è
arrivato, un bel giorno, e ha cominciato a raccontare stronzate. Il
popolo gli ha creduto, e lo ha eletto. Non ha spianato i fucili per
ottenere la fiducia dei tedeschi. Li ha convinti con le promesse,
con le belle parole. Che gran fregatura! Pensate un po’: lui progetta lo sterminio di interi popoli e la gente lo acclama, io uccido
un tizio per legittima difesa e vengo sbattuto in galera. È tutto
alla rovescia, c’è qualcosa che non va nella testa delle persone.
Ho commesso un omicidio, è vero, per colpa mia una persona
adesso non c’è più; posso dire però di aver agito d’istinto, di non
aver avuto il tempo e il modo di ponderare bene. Ma a un sostenitore di Hitler, che attenuante vuoi concedergli? Non c’è scusa
che tenga. Così, oggi abbiamo Hitler, la guerra, i lager, le persecuzioni e tutto il resto.
Tossì di nuovo, e di nuovo ancora. Qualcuno rigirò la spugna.
– Hitler, Bahuoff, Braun e tutti gli altri, sono stati creati dal sistema. La base li ha presi e piazzati al vertice. Qualcuno, come
me, chiudeva gli occhi e tirava avanti per la sua strada. Che
m’importa, dicevo, se il nuovo cancelliere sarà nazista, socialista
o a pallini? Per me non cambierà nulla. Un idiota, ecco cos’ero.
E un ignorante. Non li conoscevo mica i piani di Hitler. Mentre
lui parlava di razze inferiori e di dominio, io mi sbronzavo in
qualche bettola di periferia. Beh, almeno una scusa ce l’ho: l’ignoranza, appunto. E qualche tedesco di buon cuore è rimasto là
fuori, ne sono certo. Non tutti si sono lasciati infinocchiare dal
regime. Il problema sta nel numero.
Un’altra pausa, per prendere fiato e ordinare i pensieri. Oskar
non era mai stato così loquace, e così lucido.
– Hitler è innocente, nel contesto. È un pazzo che ha bussato a
tante porte, ha chiesto permesso ed è stato accolto ovunque a
braccia aperte. Hitler è la conseguenza, non la causa. Mi pare di
essere l’unico ad averlo capito, qui dentro. Il Führer è comparso
perché qualcuno desiderava il suo arrivo. Quando ha parlato, sapeva bene che gli avrebbero dato retta. Poi ha iniziato a dire
“fate questo e fate quello”, perché a quel punto nessuno avrebbe
negato i suoi ordini. Sono solo un ignorante, per carità, ma questo mi pare di aver capito in tutta questa sporca faccenda…
Oskar chiuse gli occhi, e sospirò pesantemente. Era stremato.
Hermann gli consigliò di riposare, e molti di noi annuirono
meccanicamente. Lui, senza riaprire gli occhi, si dichiarò concorde. Per qualche altro minuto restammo lì a tenergli compagnia, poi lo stesso Hermann ci pregò di lasciarli soli. Era notte
fonda, e occorreva riposare. Un ultimo sguardo al povero Oskar,
poi a dormire.
“Coraggio”, fu l’incitamento col quale la maggior parte di noi
si accomiatò dal nostro compagno di block. Tamara, in lacrime,
riuscì soltanto a stringergli debolmente la mano. Il piccolo Tomas restò impietrito al suo cospetto. Fu Kozminski a prenderlo
per un braccio e a portarlo via. Io mi attardai un pochino, per
chiedere a Hermann se fosse certo di non desiderare un po’ di
compagnia. Lui sorrise e rispose:
– Soltanto io so come trattare questo bestione. Non sa resistere
alle mie battute. In fin dei conti lavoravo in un circo, no?
Ricambiai il sorriso, e restai qualche secondo a guardarli. Hermann sapeva benissimo che Oskar non ce l’avrebbe fatta, ma desiderava dirgli addio a modo suo.
– Dovevi vederti ieri, calato in quella fossa, mentre uno ad uno
ti pisciavamo sulla testa – gli confidò mentre mi allontanavo in
punta di piedi – avevi la faccia rigata di giallo, e il fumo saliva al
cielo per via del freddo. Sembravi un ghiacciolo al limone, porca
miseria!
Hermann era sulla strada giusta. Una volta disteso sulla branda,
una risata giunse alle mie orecchie.
Era quella di Oskar.
CAPITOLO 19
Oskar morì come gli eroi dell’epos greco: alle prime luci dell’alba.
La cosa non stupì nessuno, ma addolorò tutti. Davanti al suo
corpo inerte, Hermann decise di rivelare ad alcuni compagni di
block una verità che, per settimane, soltanto lui aveva conosciuto, e serbato gelosamente. Oskar sarebbe morto comunque, a distanza di pochi mesi. Ancor prima di essere condotto nel lager
Libertà, infatti, gli era stata diagnosticata una malattia terminale,
di quelle che non si curano affatto. Kubik non si era accorto di
nulla, e nemmeno noi. Si trattava di un male invisibile.
Ancora oggi mi chiedo perché Hermann abbia avvertito la necessità di confidarci quel segreto. Probabilmente desiderava che
Oskar non venisse ricordato come un eroe, né come un volgare
delinquente, ma come un semplice uomo, con la sua storia, i suoi
sbagli, le sue fortune e le sue sfortune. Quei due avevano un
punto in comune, a dirla tutta: detestavano la superficialità, e si
tenevano distanti da celebrazioni e svilimenti. Cercavano il giusto mezzo, insomma. Tuttavia, questo non cambiava nulla. Poco
importava se Oskar fosse morto da eroe o da vigliacco. Poco importava se ci fosse stata una precisa volontà, nel cercare di salva-
re la vita al piccolo Tomas. O se avesse rifiutato il ruolo di kapò
per compiere, nelle ultime settimane di vita, un atto nobile. Nella
memoria collettiva, sarebbero rimaste le sue parole, il suo volto
sofferente, la sua dignità. Tutto il resto… gli errori, i vizi, le
spacconerie, le risse, le sbronze, gli anni di carcere…
Tutto il resto, dicevo, apparteneva a lui, e con lui moriva.
Ci fu un viavai di persone. Qualcuno pianse, altri no.
Abdul e Kozminski pregarono insieme per la sua anima.
Alla salma pensarono invece i sonderkommandos, chiamati sul
posto da T.K. e Fritz. Speravano di vederlo morire coi loro occhi, quei due. E la delusione fu tanta, quando constatarono il prematuro decesso.
A distanza di un’ora, il corpo esanime di Oskar troneggiava
sulla pila di cadaveri stipati nella fossa comune.
CAPITOLO 20
Non fu semplice ricominciare la solita vita, all’interno del lager.
Sembrava di vederlo ancora lì, il povero Oskar. La notte non
trascorreva senza che qualcuno lo nominasse, rivangando frasi o
gesti. Hermann, in particolare, non perdeva occasione per ricordarcelo, con una citazione o un aneddoto. Gli mancava sul serio,
ma sorrideva e andava avanti. Come tutti, del resto. Anche i detenuti degli altri block, per qualche giorno, s’informarono di nascosto sullo stato di salute di Oskar. E quando rivelavamo la terribile verità, un sincero dolore compariva nei loro sguardi; seguivano frasi di rammarico e di vivo cordoglio, quasi Oskar fosse
diventato, nel tempo, uno stretto parente dei detenuti del block
due. Ci stringevano la mano, poi andavano via scuotendo il capo.
Che lo desiderasse o meno, quel vecchio galeotto aveva lasciato
qualcosa dietro di sé. Si tornò a parlare di rivolta, di lotta attiva e
passiva, di strategie. Dimitri avanzò addirittura l’idea di metter
su un sindacato. Eppure, nonostante la mole di teorie e proponi-
menti, nulla mutò davvero. Anzi, col trascorrere del tempo le
cose andarono peggiorando.
Decine, forse centinaia di nuovi deportati giunsero ogni giorno
nel lager, per un’intera settimana. Si trattava esclusivamente di
ebrei, e da questo particolare capimmo che qualcosa, là fuori,
stava cambiando. Ai nuovi arrivati, infatti, veniva ordinato soltanto di spogliarsi e fare una doccia. Su dieci ebrei, nove morivano per via del cyclon b, il gas utilizzato per sterminarci. Cadaveri
bluastri, bagnati di sudore e urina, venivano trasportati ogni giorno verso l’inceneritore; donne soprattutto, ma anche bambini e a
volte neonati. I pochi sopravvissuti servivano a rimpiazzare i detenuti più vecchi.
Fu proprio in quei giorni che, forse per scaramanzia, cominciai
a credere di essere giunto al capolinea. La mia longevità era fonte di disonore per il regime, di questo ero cosciente. Ciò nonostante, per motivi che in quelle circostanze mi sfuggirono, le SS
parevano ben più interessate a far fuori i discepoli di Abramo appena giunti, piuttosto che i vegliardi del campo. Riuscii a scamparla anche in quella occasione, insomma, mentre l’ince- neritore lavorava giorno e notte senza sosta.
Anche in questo caso si diede il via a tutta una serie di congetture, ma la soluzione finale del problema ebraico rimase per noi
un fattore ignoto.
Tra tutti i detenuti, quello che mostrò il maggiore nervosismo
fu Hans Weizer. Dalla notte in cui Oskar morì, Hans sembrò perdere l’uso della parola. Se ne stava appartato nel suo cantuccio,
mangiava a debita distanza dagli altri detenuti; se gli si rivolgeva
il saluto, ricambiava a denti stretti e fingeva di non avere tempo
per scambiare quattro chiacchiere. Il suo atteggiamento, inequivocabilmente, recava i segni di un duro contraccolpo psicologico. Fu proprio Jurgen, suo compagno di branda, a farmelo presente.
– Temo per il suo equilibrio mentale – confidò a me e a Tamara
in una notte rigida ma senza neve.
– Hai provato a parlargli? – domandò lei.
– Un mucchio di volte. Ma lui dice di non preoccuparmi, che
sta bene e via di seguito. Mente a se stesso più che agli altri.
– Pensi che la morte di Oskar abbia a che fare con questa storia?
– Sì. Lo fissavo dritto negli occhi, mentre lui ascoltava le parole di quel poveraccio, e qualcosa ho visto. Quei discorsi su Hitler
lo hanno scosso nel profondo, ne sono sicuro.
Sospirai e dissi:
– Hanno scosso le coscienze di tutti, a quanto pare. Io non faccio che pensarci.
– Anch’io – confessò Tamara.
– Non posso dire che a me siano scivolate addosso – intervenne
Jurgen.
– Ma?
– Ma ho continuato a comportarmi nella maniera di sempre.
Hans, invece, non impreca più, non si lamenta del cibo schifoso
o delle ore di lavoro. Ho paura che abbia accettato tutto. Se ne
sta zitto, in un angolo; loquace non lo è mai stato, ma con me si
confidava, si confrontava. Ne abbiamo passate tante insieme, e
questa sua indifferenza adesso mi preoccupa, e non poco.
– Forse è solo un periodo. Gli passerà – proseguì Tamara. Jurgen sbuffò, reclinando leggermente la testa:
– Sarà. Ma ho paura dei suoi sbalzi di umore, di quello che potrebbe fare in preda allo sconforto.
L’aria s’appesantì all’improvviso.
– Stai parlando di suicidio? – domandai.
– Anche. Ve l’ho già detto, noi non dovremmo essere qui. Per
quanto possa suonare come una bestemmia alle vostre orecchie,
io e Hans non possiamo essere paragonati ai semplici ebrei. Il
nostro passato ci pone su piani differenti. Non ci consideriamo
migliori di voi… non più, almeno. Ma diversi sì. E quando penso
alla vita che ci attendeva, prima che giungesse il confino, non so
se reputarmi il più infelice o il più fortunato degli uomini. Pensieri di questo tipo girano anche nella testa di Hans, il suo silenzio è un campanello d’allarme, e va tenuto in seria considerazione.
Tamara mi guardò perplessa, io schiarii la voce e poggiai una
mano sulla spalla di Jurgen.
– Farò come dici, Jurgen: ne terrò conto. Eppure, tu continui a
rivendicare una diversità che, in tutta franchezza, mi sembra decisamente fuori luogo. Io invece mi ostino a pensare che tu e
Hans nascondete qualcosa. L’ultima volta ti sei alzato e allontanato. Lo farai anche questa volta?
Jurgen chinò il capo, poi lo sollevò e rispose:
– No, ma… non è ancora il momento, Felicien. Cerca di capire.
Lo fissai negli occhi.
– Farò anche questo, Jurgen: mi sforzerò di capire.
Lui sorrise e chiese educatamente:
– Posso andare?
Gli lanciai una lunga occhiata, e nel silenzio imposto dalla notte salutò sia me che Tamara, avviandosi poi nella direzione opposta.
Il suo taciturno compagno di branda, che scrutai da lontano, lo
attendeva con le mani sotto la nuca e lo sguardo rivolto verso il
soffitto.
Aveva altro a cui pensare, lui.
CAPITOLO 21
Altri vagoni carichi di ebrei giunsero nei due giorni successivi.
L’inceneritore lavorò instancabilmente, bruciando i corpi di uomini, donne e bambini, senza più alcun criterio. I vecchi detenuti
sembravano improvvisamente scomparsi agli occhi dei nazisti. I
nostri occhi, invece, osservavano impotenti la morte di quelle
persone; non conoscevamo i loro nomi, quei volti apparivano e
scomparivano con la medesima velocità. Forse era questa la nuova trovata del regime: raccogliere e falcidiare, impedendo l’instaurazione di qualunque forma di solidarietà. Noi “anziani”, in
fondo, provati da settimane e settimane di stenti, non potevamo
rappresentare un problema. Ma i nuovi gruppi di ebrei, ancora in
salute e temprati da quello spirito solidale che è tipico delle popolazioni semitiche, potevano riuscire laddove noi avremmo miseramente fallito, nonostante tutta la buona volontà. I vecchi detenuti, dunque, facevano comodo: ormai addomesticati e perfettamente in grado di svolgere le mansioni assegnate tempo addietro, come automi. Nel caso di un malfunzionamento dovuto al
logorio delle giunture, l’automa veniva gettato nella fossa comune e prontamente rimpiazzato. Ma solo in caso di necessità.
Sorse in noi il dubbio che le sorti della guerra stessero pendendo in favore della Germania nazista. Il ragionamento era piuttosto semplice: se qui continuano ad arrivare nuovi ebrei, si discuteva fra noi, allora significa che i tedeschi hanno ampliato i loro
confini; invadendo nuovi territori, avranno catturato nuovi ebrei,
che adesso smistano nei vari lager; di conseguenza, i nazifascisti
stanno avendo la meglio su inglesi, russi e americani.
Un’ipotesi del genere non poteva che turbarci profondamente,
dal momento che annullava qualunque possibilità di uscir vivi da
lì. Avremmo voluto scambiare quattro chiacchiere con qualche
detenuto giunto da poco, ma i pochi ebrei dirottati nel nostro
block provenivano a loro volta da altri lager. Ignoravano completamente l’andamento del conflitto, esattamente come noi.
Non c’era alcun modo, quindi, di giungere alla verità. Nel nostro
microcosmo non restava che attendere pazientemente, e rassegnarsi a dover vivere nell’incertezza, sperando che qualcosa
d’impor- tante, un segno, giungesse prima o poi dall’esterno.
In quegli stessi giorni, però, anche la vita del lager registrò alcune novità di una certa rilevanza. Una di queste mi fu rivelata
da Tamara durante la consumazione del rancio. Attirò la mia attenzione con uno sguardo eloquente, poi ci spostammo separatamente nell’angolo più lontano, per non dare nell’occhio. Col
capo chino sulla gamella, colma di brodaglia e pezzi di patate
marce, bisbigliò quasi impercettibilmente:
– Sono stata da Kubik, oggi, per pulirgli lo studio.
Io annuii, fingendo di guardare altrove.
– Mi ha detto che rischia il licenziamento – continuò.
– Per la storia di Oskar?
– Sì. Bahuoff è andato su tutte le furie. Voleva che Oskar morisse nella fossa, solo come un cane.
Passò un sottufficiale, e per qualche secondo ce ne restammo in
silenzio. Una volta lontano, riprendemmo il discorso:
– Sapeva tutto – svelò Tamara.
– Di che parli?
– Della malattia di Oskar. Ma ha tenuto chiusa la bocca per evitare che i nazisti lo uccidessero subito.
Quella rivelazione mi lasciò interdetto. Per un attimo, mi chiesi
se fosse stata una buona idea lasciare che il povero Oskar trascorresse in quel modo le sue ultime settimane di vita. Ma supposi, a ragione, che lo stesso Oskar avesse apprezzato l’omertà
del medico, e optato in definitiva per una morte lenta ma dignitosa, piuttosto che andare al creatore con una pallottola in mezzo
agli occhi.
– Che ne sarà di Kubik? – domandai accantonando momentaneamente quelle riflessioni.
– Non lo sa nemmeno lui. Per il momento resta dov’è: tra qualche giorno un collega di Bahuoff verrà a visitare il nostro campo,
e il comandante vuole che tutto sia perfetto.
– Dunque?
– Ognuno dovrà restare al proprio posto, Kubik compreso. Le
tensioni interne non sono ben viste dal regime, lo sai.
Annuii di nuovo, poi ci allontanammo in opposte direzioni,
come due perfetti estranei.
Con la conclusione della giornata, le informazioni carpite da
Tamara vennero rese note a tutti. Molti deportati furono costretti
a rivedere la propria opinione su Kubik, altri restarono scettici, la
maggior parte non si pronunciò. Libera di poter parlare senza il
terrore di essere punita, ulteriori particolari sul medico del campo furono rivelati dalla stessa Tamara. Tutto partì da un’affermazione sibillina di Michail, il nostro compagno anarchico:
– Kubik andrebbe manovrato – suggerì in tono oggettivo.
– Che intendi dire? – domandò Abdul.
– Quello che ho detto. Se nel cuore del medico è rimasto un
briciolo di pietà umana, significa che gli ideali del nazismo non
hanno attecchito del tutto. Forse potremmo servirci di lui per…
– Piantala con questa storia – lo interruppe Dimitri con sguardo
torvo.
– Perché no? Potrebbe tornarci utile.
– Io non collaborerò mai con un nazista. Cosa credi, che a Kubik la divisa l’abbiano regalata? Avrà fatto qualcosa per meritarsela, no?
– Ci sono persone che hanno aderito al nazismo per paura – ribatté Michail.
– Lo so bene, ma le persone di cui parli tu non fanno domanda
per lavorare in un lager, né le spediscono qui per simpatia. Si
iscrivono al partito e gettano la tessera in un cassetto, poi aiutano
gli ebrei a nascondersi da qualche parte.
– Ma Kubik non è il tizio che ha proposto a Bahuoff di pisciare
a turno sulla testa di Oskar? – domandò uno degli ebrei da poco
giunti nel lager, un tale Herschell.
– Già, bella roba – commentò Dimitri serrando la mascella.
– In realtà credo che le cose siano andate diversamente – intervenne Tamara.
– Che vuoi dire? Eravamo lì, abbiamo visto coi nostri occhi
come si sono svolti i fatti – berciò Dimitri.
– Io invece credo che Kubik – replicò Tamara – deve aver pensato che le ferite sul volto di Oskar, quelle aperte e sanguinanti,
andassero in qualche modo curate. L’unico modo era… sì, insomma… disinfettarle con l’urina. Non poteva mica usare della
tintura di iodio davanti a Bahuoff.
– Certo! E perché gli avrebbe ordinato di aprire la bocca, quando è giunto il suo turno? Te lo dico io perché: per umiliarlo, per
lasciargli sul volto uno di quei segni che non si vedono, a occhio
nudo.
Tamara sospirò, poi chiese:
– E se invece lo avesse fatto per aiutare Oskar? Era disidratato,
a Kubik bastava un’occhiata per capirlo. Malgrado tutto stiamo
parlando di un medico. È lo stesso discorso di prima, non potendo allungargli una caraffa piena d’acqua è ricorso al rimedio più
estremo.
– Quando è arrivato il mio turno, Oskar ha bisbigliato: “fai
quello che dice Kubik” – rivelò Hermann dalla sua branda.
– Forse aveva capito che il dottore cercava di salvargli la vita –
ipotizzò Filippo.
Dimitri si guardò attorno, incredulo.
– Ma bravi – disse ruotando su se stesso – preferite credere all’innocenza di un maledetto nazista piuttosto che alle parole di
un vostro compagno.
– La gente cambia, Dimitri, è possibile che Kubik sia rinsavito
per motivi che noi ignoriamo – rincarò Michail.
– Rinsavito, già. Ma lui è ancora lì, a cena coi gerarchi, con una
bella svastica cucita sulla divisa.
– Non credi che la gente possa cambiare? – lo interrogò Michail.
– La gente sì. I nazisti no.
– Beh, abbiamo uno psicologo fra noi. Lei che ne pensa, dottor
Kroger?
Nella confortante quiete del block, si levò la voce tranquilla ma
risoluta dell’interpellato.
CAPITOLO 22
– Qualunque persona può mutare il proprio modo di vedere le
cose – esordì Kroger – l’importante è che si insinui il dubbio. I
dubbi ribaltano le prospettive, e le nuove prospettive generano
altri dubbi. È un circolo vizioso, insomma.
– E le sembra poco? Io non ho visto nazisti tormentati dai dubbi, qui dentro – osservò Dimitri.
– Non sia precipitoso nei giudizi, qui si parla di psiche umana.
Dall’esterno può sembrare che nelle nostre teste non accada nulla, invece c’è un manicomio lì dentro: impulsi elettrici, reazioni
chimiche e quant’altro. Non una sola cosa rimane zitta e immobile. La nostra mente, che a noi pare così vicina, è simile invece
a una stella lontana. Il problema è che non possediamo gli strumenti adatti per osservarla. Possiamo interpretarne i fenomeni,
questo sì, ed esprimere teorie più o meno plausibili. Ma in questo
campo ci si sbaglia spesso. Una teoria è valida oggi, domani non
si sa.
– Kubik, comunque, i suoi dubbi ce li aveva sin dall’inizio – intervenne il signor Sammet, ormai noto a tutti come “il filosofo”.
– Non la seguo – disse Kroger.
– Beh, a quanto pare il medico non ha rivelato ad anima viva la
malattia di Oskar, nemmeno al comandante Bahuoff. Vuol dire
che ha tenuto il gioco al nostro compagno fin dal primo momento, no?
– Suppongo di sì.
– Dunque Kubik si è mostrato accondiscendente, rischiando il
posto di lavoro e forse la vita. Sappiamo anche che Oskar non
ispirava immediata simpatia, per via dei suoi atteggiamenti un
po’ altezzosi. Intendiamoci, questo è ciò che mi è stato riferito,
non parlo a titolo personale. Sta di fatto che Kubik lo ha aiutato
lo stesso. Possiamo dedurre che il medico del campo ne abbia
agevolato la sopravvivenza, non solo senza guadagnarci nulla,
ma forse controvoglia. Non credo di offendere la memoria di
Oskar se sostengo che, agli occhi di un estraneo, per di più nazista, egli restava un assassino, un galeotto da strapazzo.
– Quindi? – domandò Kroger.
– Quindi facciamo due calcoli: quanti detenuti sono giunti in
questo lager nel passare dei mesi? Migliaia, lo sappiamo tutti. E
ora chiediamoci se, per caso, Kubik non abbia agito sin dall’inizio nell’ombra, intercedendo in favore di altri detenuti. Forse anch’io ero destinato a morire, ma è bastata una sua firma su un referto medico, o una piccola bugia, per salvarmi la vita.
– Questa è buona: stai a vedere che adesso Kubik è un benefattore, un amico del popolo – borbottò Dimitri.
Stavolta fu Kroger a intervenire:
– Anch’io la pensavo diversamente sul conto del dottore. Poi
Felicien – e qui mi lanciò un’occhiata – ha detto alcune cose.
Cose da far riflettere. Ora, Dimitri, lei ha più volte sostenuto che
Oskar fosse vittima del sistema. Le chiedo allora: non è possibile
che anche il dottor Kubik lo sia?
Quell’interrogativo si spense nel silenzio generale. Soltanto
Sammet, massaggiando con impegno un braccio dolorante, concordò dicendo:
– Io sono qui da poco, ma non ho mai visto Kubik alzare un
solo dito contro i detenuti, perdere la calma o altro. Di tanto in
tanto urla e ci insulta, ma potrebbe trattarsi di una recita. Un
modo come un altro per ingannare Bahuoff e farla franca. Non vi
pare?
Kozminski rispose:
– Forse. Però Dimitri non ha tutti i torti. Kubik indossa una divisa nazista, la sfila prima di andare a dormire e la rimette il
giorno seguente. Come può, un uomo di cuore, compiere per
anni lo stesso gesto, ogni santo giorno?
– Questo non vuol dire niente – replicò Jurgen unendosi al
gruppetto dei dialoganti – quella divisa potrebbe essere una maschera, da togliere o indossare a seconda del caso. Quel pezzo di
stoffa non indica nulla. Potrebbe aver avuto un senso, tempo addietro, e averlo perso col passare dei mesi. Non prendiamoci in
giro, questo posto cambia la mente delle persone. Guardate T.K.
e Fritz: erano due come noi, una volta. Adesso ci bastonano, e
scambiano battute e sorrisi con le SS. Prendete Oskar, invece: è
entrato qui da assassino, e se n’è andato da eroe.
– Questi discorsi mi danno il voltastomaco, non fanno altro che
generare confusione – ribatté Dimitri.
– Ma i dubbi… – sibilò Kroger, subito zittito dallo stesso Dimitri:
– Piantiamola con queste stronzate, una volta per tutte. Giustificare un solo nazista significa guardare in faccia quei mostri e
chiedersi: “quanti di loro hanno una buona ragione per umiliare,
torturare, derubare e uccidere?”. Se discolpiamo Kubik, dovremo
concedere attenuanti ad altri. Me ne frego delle giustificazioni,
io. A noi deportati, quale scusante è mai stata concessa? Nessuna! Siamo ebrei, neri, comunisti, anarchici, omosessuali, musulmani, zingari, avanzi di galera… tutto, fuorché uomini. Se apro
bocca, non ho ragioni. Se tiro il fiato dopo otto ore di lavoro, non
ho ragioni. Se protesto, se penso, se respiro… non ho ragioni,
per dio! Qui nessuno si sforza di capire noi, perché noi dovremmo sforzarci di capire loro?
Dimitri ci guardò furioso, uno per uno. Non ottenendo risposta,
si congedò coi pugni stretti in tasca e lo sguardo accigliato. Si
parò davanti alla finestra, in totale solitudine, e lì restò per il resto della discussione, senza più intervenire. Il suo sfogo era comprensibile, e in parte ragionevole. Per quanto ci sforzassimo di
venire a capo di qualcosa, restavamo sempre lì, al punto di partenza.
Il silenzio e le teste basse palesavano lo stato di profonda, amara riflessione nel quale eravamo caduti. Soltanto Hermann, abbracciando la sua coperta per ripararsi dal freddo, rivelò ai presenti:
– A volte mi chiedo che diavolo sta succedendo al mondo intero. Dittature ovunque… Germania, Italia, Russia, Spagna, Jugoslavia… in ogni paese c’è qualche pazzo furioso che ha preso in
mano il potere e non intende mollarlo. Come fa la gente a seguire un idiota in certe follie?
– La tirannia è vecchia come il mondo – gli rispose Kroger.
– Ma qui non si parla di un Dionigi qualsiasi, queste dittature
presentano caratteristiche nuove – replicò Sammet.
– Formalmente sì, ma un tiranno resta sempre un tiranno. Ambisce al potere, alla gloria personale. Il successo lo inebria, come
una droga. E il popolo, a sua volta, si lascia sedurre dalla prospettiva della ricchezza.
– In Russia la fucilerebbero per una teoria del genere, dottor
Sammet. Le dirò: in Spagna c’è un mio collega, José Ortega,
pessimista quanto e più di lei. Se il popolo chiede e ottiene tutto
dallo Stato, dice Ortega, finisce allora per diventare schiavo del-
lo Stato. Una specie di cagnolino fedele, insomma, del tutto acritico. Io invece sostengo che le idee di un dittatore non sempre
riescano a trovare terreno fertile. Inghilterra e Stati Uniti lo dimostrano.
Kroger scosse il capo, sorridendo ironicamente:
– Questione di fortuna, forse di tempo. In quei paesi non è ancora nato un Hitler, un Mussolini o uno Stalin. Poco importano
le tradizioni democratiche, il retroterra culturale, le condizioni
economiche e tutto il resto. Il dittatore è figlio della propria terra
e della propria pazzia, non chiede permessi, sa adattare il passo
al terreno più duro. Il successo ottenuto è direttamente proporzionale alla grandezza delle sue bugie. Raccontare frottole ma risultare credibile: è questa la scommessa.
– Non è scritto da nessuna parte che il popolo debba necessariamente credere a certe cavolate – obiettò Filippo.
– Questo in teoria. La realtà che ci circonda dice altro. Nazismo, comunismo, fascismo… qui non si tratta di un manipolo di
esagitati, ma di interi popoli. Lei può anche non capire come e
perché certe cose accadano, ma non può chiudere gli occhi e fingere pure che non avvengano.
– Mi dica allora perché avvengono – lo sfidò Filippo.
– Se avessi le risposte in tasca non mi troverei qui, amico mio.
– Santo cielo, lei è uno psicologo, ha studiato una vita. Deve
pur esserci qualche risposta nei suoi libri!
– A dire il vero potrei citarle una sfilza di psicologi, ma a cosa
servirebbe? Prendiamo… non so, Gustave Le Bon. Il singolo
individuo è mite e onesto, ma nella massa perde la ragione e
tanti saluti al buonsenso: questa è il suo pensiero. Io l’ho declamato, da bravo psicologo. È cambiato qualcosa forse?
– Sta dicendo che si tratta di teorie inutili?
– Non esageriamo: più che altro non offrono risposte certe. I
primi a dividersi su questi argomenti sono gli studiosi, non a
caso. Puoi spendere un’intera vita a elaborare una dottrina,
un’idea nuova, ma nel bene e nel male qualcuno dopo di te cercherà di confutarla. Funziona così, gliel’assicuro. Lei pretende
di trovare risposte nei libri, invece al massimo può scovare interpretazioni, che non sono propriamente la stessa cosa. Prendiamo due menti brillanti, Tarde e Durkheim. Per Gabriel Tarde i cambiamenti sociali si diffondono con l’imitazione, comincia uno e il gioco è fatto, a quel punto la cosa diventa inarrestabile. È una buona spiegazione, mi pare. Ma un minuto dopo
Durkheim lo smentisce sostenendo una tesi opposta, e cioè che
è la società a formare i cittadini. Chi ha ragione? Tutti o nessuno? E ha davvero importanza, nel contesto in cui ci troviamo?
Non ne ho idea. Per me le insurrezioni, le resistenze armate, le
opposizioni politiche, non sono altro che effetti. La dittatura genera facili entusiasmi e grandi diffidenze, adesioni smodate e lotte a oltranza. Il dittatore è l’albero, tutto ciò che ne viene non è
che il frutto.
– Idiozie. È esattamente il contrario.
Una voce si levò, solitaria, dal fondo del block. Un po’ tutti rivolgemmo lo sguardo nella direzione di Dimitri, ma accanto a lui
un’ombra avanzò fino a rendersi presenza. Si trattava di Hans.
Non apriva bocca da giorni, e ad alcuni di noi fu impossibile mascherare un certo stupore nel vederlo procedere a testa alta sino
al centro del capannone, lì dove la discussione era in corso. Jurgen, compagno di sventura e interlocutore prediletto, lo fissava
in silenzio.
– Non è d’accordo con me? – chiese Kroger in tono conciliante.
Jurgen rispose con prontezza:
– La sua teoria non sta in piedi. Facile, prendersela col primo
venuto. Hitler… non è neanche tedesco! Prendiamocela con noi
stessi, invece: quando si finisce in ospedale per aver mangiato
una bistecca avariata, non bisogna denunciare il cuoco straniero,
ma l’allevatore del luogo.
– Si tratta di punti di vista, in fin dei conti – ribatté Kroger.
– Infatti: voi credete che i problemi siano quadri appesi alle pareti, e invece no. I problemi sono statue, bisogna girarci attorno.
Si esprimeva in maniera bizzarra, il detenuto Hans Weizer.
Quell’introduzione risultò ostica ai più, ma nessuno osò inter-
romperlo, o chiedere spiegazioni. La sua loquacità, al contrario,
ci rendeva felici; e il nostro silenzio, a sua volta, lo incoraggiò a
proseguire:
– Su una cosa soltanto lei ha ragione: il nazismo è un enorme
albero, con grandi rami e migliaia di frutti già marci. Il tronco
che sorregge la struttura ha un nome e un cognome: Adolf Hitler.
Il fogliame, i piccoli e grandi rami, e tutto il resto, invece, hanno
altrettanti nomi, e volti, e voci. C’è chiunque là dentro: da
Himmler a Röhm, da Bahuoff a Kubik, dai grandi gerarchi al più
inutile dei sonderkommandos. Ci siamo anche noi, nessuno
escluso. E il popolo dov’è? C’è, ma non si vede. Si nasconde.
Per questo è importante individuarne la posizione: non in cima,
ma nel sottosuolo. Osservate bene le radici. Senza di esse l’albero non avrebbe conosciuto alcuno sviluppo. Hanno fornito nutrimento alla pianta, poi al tronco, infine ai rami, alle foglie, ai frutti. Diceva bene Oskar: Hitler è la conseguenza, non la causa.
– Anche noi deportati siamo “popolo”, e a maggior ragione –
osservò Michail.
Hans rise:
– No, vecchio mio, noi non siamo più niente. Il popolo è quello
che ha eletto Hitler. Il popolo è quello che se ne sta tappato in
casa, osserva e non fa nulla. Sammet parlava di insurrezioni e resistenza armata, ma in Germania non c’è stato alcun reale movimento d’opposizione, che mi risulti. Il popolo ha partorito Hitler,
non può rinnegarlo. Non più, ormai. E se quell’albero, oggi, vi
colpisce coi suoi rami, non sperate di buttare giù il tronco e risolvere così il problema. Ogni dittatore rispecchia le aspettative popolari; il povero si affiderà sempre a qualcuno che sappia riscattarlo, il ricco si affiderà sempre a qualcuno che sappia conservare o accrescere la sua ricchezza. È la storia dell’uomo. Per cui,
quando Hitler verrà sconfitto, o rovesciato politicamente, o creperà di suo, non gioite troppo a lungo. Il pericolo di una nuova
dittatura resterà comunque, se il terreno rimarrà fertile.
– Hitler resta secco e qui non cambia nulla? Gran bella prospettiva. E come diavolo si fa a sconfiggere il nazismo? – domandò
Michail.
– È il potere il vero nemico. L’ho capito ascoltando le ultime
parole di Oskar. Nemmeno lui, forse, se ne rendeva conto. Ci ho
riflettuto a lungo, in questi giorni, e sono giunto alla conclusione
che tutto nasca da lì. Non parlo del potere spicciolo, intendiamoci; il contadino che lotta per un salario decente non desidera il
potere, ma la sopravvivenza, e un minimo di equilibrio tra chi ha
tutto e chi non ha niente. Il potere di cui parlo io, invece, è l’esatto contrario: la rottura di un equilibrio. Perché se un singolo potere cresce, la cosa va a scapito di tutto il resto. Pensate alle foreste: se una pianta, un animale o che so io prende il sopravvento,
ti parte l’intera foresta. Il popolo non se ne rende conto. I tedeschi sono stati degli imbecilli, e così gli italiani, e i russi. Hanno
creduto che i loro dittatori, con la guerra, le conquiste coloniali,
il massacro delle minoranze, operassero per il bene comune.
Stronzate. Tanto nel piccolo quanto nel grande, la rottura di un
equilibrio agevola pochi e svantaggia moltissimi. Così, mentre
Hitler divora tacchini, Bahuoff si accontenta dei polli, T.K. della
pelle bruciacchiata, i sonderkommandos delle ossa, e il popolo
tedesco fa la fame, ingurgitando pane nero. L’illusione che tutto
ciò sia transitorio tiene buona la gente. La vittoria è vicina, urla il
Führer, e tutti annuiscono soddisfatti. Passerà, dicono, tra un po’
mangeremo tacchino anche noi.
Hans riprese fiato, poi concluse il suo discorso:
– Non è vero. I deboli s’indeboliranno e i forti si rafforzeranno.
Nel frattempo, il potere li consumerà. L’equilibrio è ormai logoro, bisogna ricostruirlo. I nazisti, gente scaltra, l’hanno rimpiazzato con uno di loro invenzione, assolutamente fasullo. È un ingranaggio, un meccanismo perfettamente calibrato, almeno all’apparenza. In realtà, è un giocattolino di carta. Basta poco per
manometterlo. Ma in che modo, per la miseria! Sono giorni che
non penso ad altro. Perché qui si tratta di agire, le chiacchiere ormai stanno a zero. Bisogna fare una scelta: accettare tutto questo,
o trovare il modo di combatterlo. Ed io, in tutta onestà, sono
stanco di combattere…
Hans si guardò attorno, gli occhi gonfi e spossati. Non aggiunse
altro. Fissò per un attimo Jurgen, poi si avviò lentamente, percorrendo a ritroso il tragitto che lo aveva condotto sin lì.
Noi, muti e inerti, lasciammo che le tenebre lo accogliessero
nuovamente.
CAPITOLO 23
L’aria stagnante non ha mai abbandonato il lager, durante la
nostra permanenza. Nonostante il continuo andirivieni dei detenuti, il marciare dei gruppi esterni, le camionette guidate spesso
da qualche sottufficiale ubriaco, le grandi adunate, lo scivolare
lento e ordinato dei prigionieri in coda al rancio, e il rientro serale… nonostante tutto questo, a volte si nutriva l’impressione che
nulla fosse accaduto davvero. Che ogni singolo gesto fosse svanito sul nascere, dissolvendosi nella nebbia di un incubo perpetuo.
Questa sensazione s’acuì, in quei giorni. Le esecuzioni a getto
continuo di nuovi ebrei generavano strani pensieri. Ognuno di
noi, pur non ammettendolo apertamente, pensava (e forse sperava) di dover morire casualmente, da un giorno all’altro. Si trattava di un pensiero inespresso ma presente, il primo ad affacciarsi
una volta svegli, l’ultimo a tenere compagnia prima del riposo.
Eravamo nella terra di confine; nessuno augurava a se stesso la
morte, ma al contempo nessuno di noi recalcitrava, ormai, davanti alla possibilità di dover morire improvvisamente. A questo
punto eravamo giunti, dopo mesi di tribolazioni.
L’attenzione morbosa con la quale i nazisti sterminavano gli ultimi arrivati ci pose inevitabilmente in secondo piano. Lo ammetto con grande imbarazzo: nutrivamo la sensazione che non
più la sola vita ci venisse negata, ma anche la morte. Ai detenuti
del secondo block, d’altronde, le parole di Hans avevano tolto
ogni speranza: eravamo lì per restare, persino la caduta di Hitler
non avrebbe cambiato nulla. Eravamo convinti che i nazisti fossero in procinto di vincere la guerra; una volta piegato il mondo
ai suoi voleri, il Führer avrebbe spadroneggiato per decenni. Alla
sua morte, qualcun altro ne avrebbe raccolto l’eredità. Per noi,
invece, non c’era alcun futuro. Soltanto un presente reiterato all’infinito. Nessuna progenie, nessuna vera vita. La fine sarebbe
giunta, ma chissà quando, e con ogni probabilità, non per nostra
scelta. Invecchiare fino a divenire completamente inutili per il
regime. Poi morire. Questo, il pensiero che terrorizzava tutti noi.
Questa, la motivazione che ci spingeva a scorgere nella morte un
male minore. In fondo eravamo destinati tutti a perire. Perché
non essere i primi della lista, dunque?
Gli interrogativi fluivano inarrestabili: perché attendere che le
ginocchia vadano in malora, che gli occhi ci confondano, che le
mani inizino a tremare e la mente venga ottenebrata da folli propositi? Ci viene chiesto di sparire dalla faccia della terra, no?
Moriamo, allora. Cosa importa se quel deportato è un ebreo appena giunto nel lager e io no? Nessuno dei due è ariano, che differenza c’è per voi?
Musulmani: così i nazisti chiamavano i prigionieri senza più alcuna parvenza di vitalità. Ne circolavano parecchi per il lager. Li
osservavamo con un misto di pietà e disgusto; ci dispiaceva terribilmente per loro, ma la sola idea di poter sprofondare nel medesimo stato di alienazione mentale, ci terrorizzava ancor di più. In
qualche modo, essi rappresentavano lo stadio finale della nostra
involuzione; decine di menti brillanti, entrate nel lager a testa
alta, si erano ritrovate nel giro di un mese a girovagare senza
meta per il campo, gli occhi socchiusi e la fronte aggrottata; rimuginavano in continuazione le stesse parole, che uscivano a
stento sottoforma di brusio. A volte erano le sole labbra a muoversi in maniera concitata, senza emettere però alcun suono.
Tentare di riportarli alla ragione non serviva a nulla. Non riconoscevano più il tuo volto, ignoravano voci amiche e comandi superiori. I nazisti si divertivano a torturarli nei modi più fantasio-
si, per studiarne le reazioni. Urla, spintoni e manganellate. A volte giochi crudeli, come quello di legare loro i piedi con una corda
assicurata alla camionetta e trascinarli ad alta velocità in giro per
il campo, riducendo quei disgraziati a fagotti insanguinati. Ancor
più triste era dover constatare come essi continuassero a blaterare i soliti, sconnessi ragionamenti di sempre, anche in quelle
condizioni.
Le peggiori angherie, però, in quei giorni furono inflitte agli
ebrei di recente acquisizione.
Un mattino, in particolare, vidi rientrare i detenuti dei campi di
lavoro esterni. Due di loro, imprigionati da pochi giorni, venivano insultati e bastonati da un festoso manipolo di SS. Si trattava
di Herschell e Norma, marito e moglie. A ogni passo faceva seguito un colpo ben assestato all’altezza del polpaccio. Ne scaturiva un lamento, e il tentativo di reggersi in piedi, nonostante tutto.
Cadere per terra poteva risultare fatale, in determinate occasioni.
Nonostante questo riuscirono a raggiungere l’interno del lager e
a mettersi in salvo. Giunta l’ora del riposo, li raggiunsi per accertarmi del loro stato di salute.
– Le gambe fanno un po’ male, ma stiamo bene – affermò Herschell massaggiando un ginocchio.
– Perché tutte quelle botte? – domandai.
Herschell temporeggiò:
– Siamo ebrei, Felicien, le botte ci spettano di diritto. Se poi ti
scoprono a mormorare qualcosa, il diritto diventa dovere.
Norma, nel frattempo, teneva la testa bassa.
– Ci siamo abituati, ormai – proseguì lui – certe cose non ci
sorprendono più. È dall’epoca delle leggi razziali che va avanti
questa storia. Mi ricordo, sai? Abitavo a Berlino, e un bel giorno
aprii la porta della drogheria nella quale mi servivo abitualmente.
La gestiva un signore in età avanzata, gentile e gran lavoratore.
Me ne sto lì, e comincio a sfogliare mentalmente la lista della
spesa, e lui sai che fa? Afferra un posacenere d’ottone e me lo
tira addosso. Poi mi dice di andare via, ché gli ebrei non li voleva più nel suo negozio, e non voleva passare per fiancheggiatore.
Non riuscì a colpirmi con quell’affare, in fondo si trattava di un
povero vecchio; ma il negozio era suo, non potevo pretendere di
essere gradito e per di più servito. Per anni non aveva avuto nulla
da ridire sul mio conto, “buongiorno” e “buonasera”, qualche
frase buttata lì per fare conversazione e tanti sorrisi. E all’improvviso non ero più benaccetto nel suo negozio. Feci dietrofront
e richiusi la porta alle mie spalle. Mi voltai un’ultima volta, per
osservarlo attraverso la vetrata, e i suoi occhi mi sembrarono
così tristi e impauriti! Chissà che fine ha fatto…
Norma scosse il capo, scoraggiata. Aggiunse alle parole del
marito queste poche frasi:
– Siamo brava gente, noi. Non abbiamo mai creato problemi ad
anima viva, in Germania. Mio padre ha combattuto durante la
grande guerra. Il sindaco gli conferì persino un’onorificenza. Poi
è arrivato Hitler e tutto è cambiato. Mio padre non era più un
eroe di guerra, soltanto un ebreo. Lo hanno deportato a Dachau,
due anni fa. Da allora non ho più avuto notizie di lui.
Herschell accarezzò i capelli della moglie, poi riprese la parola:
– Io sono arrivato in Germania parecchi anni fa, dopo aver vissuto nella Russia sud-orientale, proprio al confine con l’Europa.
Lì la situazione si era fatta pesante. Le deportazioni nei campi di
prigionia gestiti dal Gulag erano all’ordine del giorno. Le persone morivano di fame, e in giro si vedevano e raccontavano cose
terribili, da mettere i brividi: gente arrestata e picchiata senza
uno straccio di prova, contadini costretti a mangiare cani e gatti,
chiese bruciate, cannibalismo. Di tutto. A me piaceva l’idea dei
lavoratori al potere, l’uguaglianza e tutto il resto. Ma anche le
chiese, i romanzi di Melville e le poesie di Whitman. Americani,
certo, ma che importa? Non accettavo, insomma, l’idea che qualcuno venisse a dirmi cosa doveva piacermi e cosa no. Nazismo e
comunismo non sono poi così diversi, da questo punto di vista:
in entrambi i casi devi obbedire e basta, non sei libero di esprimere un dissenso, anche di poco conto. Le dittature sono tutte
uguali. Non puoi avere un’opinione tua, perché questo ti fa passare immediatamente dalla parte del nemico. Conoscevo un tizio,
un ucraino, che un giorno è stato arrestato senza motivo. La sua
colpa era questa: aver avuto per due anni, come vicino di casa,
un presunto cospiratore. Si salutavano a malapena, ma per il regime la semplice conoscenza era più che sufficiente come capo
d’accusa. Sono ossessionati dalla diversità d’opinione, sia loro
che i nazisti. Vedono nemici ovunque. Rossi o neri, vie di mezzo
non ce ne sono. Se sei un po’ meno rosso, come me, finisci in Siberia. Se sei un po’ meno nero finisci in un lager. Un commento,
una battuta di spirito, e sei fottuto. Non sopportavo la politica di
Stalin, e sono fuggito. Non avendo parenti o legami di alcun
tipo, ho attraversato il confine clandestinamente, insieme a quattro amici. Se i russi mi riacchiappano, finisco in Siberia anch’io.
Qui sono un ebreo, e merito di morire. Lì, non si capisce perché,
sono un nemico del popolo, e merito di morire ugualmente. Ho
attraversato mezza Europa per passare dalla padella alla brace. I
primi mesi passati in Germania sono stati terribili, dovevo nascondermi di continuo. C’era già la storia dei ghetti, ma in qualche modo sono riuscito a tirare avanti. Ho conosciuto Norma e
l’ho sposata di nascosto. Poi la repressione è andata aumentando,
siamo stati catturati, ed è cominciato il giro turistico: prima Ravensbrück, poi Buchenwald, adesso qui. Mio padre sosteneva
che questo è il destino del popolo ebraico, e nulla potrà cambiarlo. Siamo i perenni emigranti, ovunque sgraditi. Alziamo le tende in un paese, e il governo ci caccia. Il popolo, nel frattempo,
tace e acconsente. Perché la gente, nell’esistenza di un profugo,
vede soltanto la parte finale: l’arrivo. Se ne frega di quel che c’è
stato prima. Ignora la disperazione che spinge un uomo ad abbandonare la terra in cui è nato, e gli interminabili spostamenti, e
la fame, la sete, il dolore. La gente pensa che tra noi ci si diverta
ad essere sporchi e vestiti di cenci. Pensa che sia piacevole dover
bussare a mille porte per cercare uno straccio di lavoro. Se le
persone ci guardassero negli occhi, e ascoltassero le nostre storie, le cose cambierebbero. Invece ci accusano di reati che non
abbiamo nemmeno commesso, e che probabilmente nessuno di
noi commetterà mai. Ci accusano di rubare lavoro, ma siamo di-
soccupati e senza un soldo. Ci accusano di non volerci integrare,
ma siamo lì da due giorni.
– Ovunque è la stessa storia – proseguì per lui sua moglie – in
Europa come nel resto del mondo. Avevo un cugino, in America,
che lavorava un pezzetto di terra in Oklahoma, come mezzadro.
Un giorno la banca gliel’ha sequestrato. Si è visto costretto ad
emigrare verso la California. Una volta lì, lo hanno trattato come
un pezzente, un miserabile. Lui chiedeva soltanto un lavoro, per
sfamare moglie e figli. Li hanno mandati via, a suon di botte e
insulti, lui e tutti gli altri. Okies, li chiamano. E così un giorno si
è tolto la vita, perché non riusciva più a sostenere quella situazione, le responsabilità che gli erano piovute addosso all’improvviso, e le continue umiliazioni.
– Gran brutta storia – commentai.
– Mi spiace soprattutto per i figli di quel povero cristo – aggiunse Herschell – mi chiedo come riusciranno a cavarsela.
– Voi ne avete? – domandai senza preoccuparmi di apparire indiscreto. Fu Norma a rispondermi:
– Ci abbiamo pensato, in questi anni, ma non ci è parso il caso.
Non è un buon momento per mettere al mondo un figlio. Quando
le acque si saranno calmate, e qualcuno ci avrà liberato, allora sì
che ci metteremo d’impegno. Ne avremo tanti. Quattro, forse
cinque. Non è vero? – e nel porre quell’interrogativo guardò
Herschell e gli sorrise.
– Sicuro – confermò l’uomo – siamo giovani e forti. Per questo
i nazisti non ci hanno ancora eliminato. Lo sapevi, Felicien? Al
nostro arrivo ci hanno preso uno per uno e piazzati su una bilancia. I dieci più grossi avrebbero avuto salva la vita. Vecchi e
bambini, purtroppo, non facevano parte della contesa. Ormai li
eliminano sul luogo, gracili e malnutriti come sono. Sotto i quarant’anni, le possibilità di sopravvivenza aumentano. Sotto i
quindici e sopra i cinquanta, crollano a picco. Nonostante la
fame e la miseria, io e Norma raggiungiamo ancora il quintale e
mezzo, pesati insieme. Per questo siamo salvi. È uno schifo, eh
Felicien? Essere vivi o morti per via del peso, neanche fossimo
bestie invece che esseri umani.
Scosse il capo:
– No che non lo facciamo, un figlio. In mezzo a questi maiali
non avrebbe futuro. Quando qualcuno ci avrà tirato fuori di qui
cercheremo di recuperare il tempo perduto. Un figlio all’anno.
Che ne pensi, amico mio?
Sorrisi, dissimulando il pessimismo che da giorni gravava sulle
mie spalle, un tempo così forti. Osservai per l’ennesima volta il
vasto ematoma che chiazzava di viola il polpaccio destro di Herschell e chiesi:
– Chi te l’ha procurato quello?
– Il nuovo ufficiale, un ragazzino della capitale. Avrà sì e no
vent’anni.
Ricordai il povero Jacques, e realizzai subito chi fosse la SS in
questione.
– L’ultima volta in cui ne ho sentito parlare era ancora un sottufficiale – spiegai ostentando indifferenza.
– Si vocifera che la promozione l’abbia ottenuta impedendo un
tentativo d’evasione.
Digrignai nervosamente i denti, stavolta. Ecco a cosa era servita la morte di Jacques: a rendere ancor più potente un aguzzino
esaltato.
– Scommetto che anche tu non ricordi il suo nome – ipotizzai
tentando di rivolgere altrove i miei pensieri.
– Invece sì: Schwartz. Se l’è fatto ricamare sulla divisa, per non
essere più sfottuto dai colleghi. Quando Bahuoff l’ha visto, è
scoppiato a ridere. Quel ragazzino è una testa matta. Dovevi vederlo, mentre Bahuoff gli rideva in faccia. Si capiva benissimo
che lo avrebbe accoppato con le sue mani, se solo avesse avuto a
che fare con un sottoposto o un parigrado. Quando il comandante è andato via se l’è presa coi detenuti. Una minima distrazione
ed erano bastonate sulla schiena.
Tornai ad osservare il suo livido, e dissi:
– Per ridurti la gamba in quello stato devi averla combinata
grossa.
Coprì il ginocchio e drizzò la schiena, puntando con lo sguardo
il secchio dell’acqua.
– Non sarà questo a uccidermi – affermò tracotante, per poi allontanarsi con la medesima disinvoltura. Non più alla portata
delle sue orecchie, la voce di Norma si levò timidamente per ammettere, nonostante il rossore apparso sulle sue guance:
– Vuoi sapere perché lo hanno bastonato? Perché ha detto di
amarmi. E lo ha detto a voce alta.
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