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VUOI SCRIVERE? SCRIVICI!
VUOI SCRIVERE? SCRIVICI! ANNO I NUMERO 0 FIORILE 2015 [email protected] DIRETTORI DI REDAZIONE PROGETTO GRAFICO FOTOGRAFIE HANNO SCRITTO IN QUESTO NUMERO MENSILE DI LETTERATURA E ALTRO Filippo Romei, Duccio Narbone Saulo D’Isita, Duccio Narbone Margherita Nuti, Saulo D’Isita Filippo Romei, Kenjataimu, Valeria Caliandro, Elettra Gallorini, Gyvenk, Giorgio Bernardini puoi trovare la versione digitale di questo numero sul nostro sito! www.afewwordslab.com Editoriale Da un Universo Parallelo Stazione di Prato Pertugio al Guinzaglio, ore 23.42. Mercoledì. C’è un uomo seduto sulla panchina senza schienale del binario 2. Con i piedi si diverte a distruggere i mozziconi di sigaretta che giacciono tutto intorno a lui, sempre rimanendo seduto. Quando ne vede un più lontano, allunga la gamba per afferrarlo con la punta del piede, poi lo tira a sé, e lo tritura. Pare nervoso, sta aspettando qualcuno. Dopo qualche minuto sente rumore di passi. Qualcuno sta salendo le scale del sottopasso. L’uomo si volta, ha una faccia seccata, ansiosa. Sbuca fuori un Secondo Uomo il quale, vedendolo seduto, gli si fa incontro. L’uomo seduto si alza, ma non muove un passo. Si fermano a pochi centimetri uno dall’altro. Il Primo Uomo esordisce: “Sei in ritardo. Mezz’ora, cazzo. Hai tutto?” . “Certo – risponde il Secondo Uomo – scusami sai, ma avevo parecchio giro stasera. Ecco, tieni.” Tira fuori un giornale arrotolato e lo porge al Primo uomo, che allunga velocemente la mano, lo afferra e lo fa sparire sotto la giacca. Fa per andarsene, quando il Secondo Uomo lo chiama. “Amico, la vita è tua e non mi interessa cosa fai… Ma quella roba finirà per ucciderti. Perché non ti prendi un po’ di cocaina o di eroina invece? Almeno per un pò… Starai meglio dopo, fidati.” Il Primo Uomo, che aveva nel frattempo sceso qualche gradino, si ferma. Tira fuori il giornale, fissa la copertina con quelle tre semplici parole in nero, riflette qualche secondo, poi si volta e fissa negli occhi il Secondo Uomo. “Non posso,amico… Non si può uscire. Non se ne esce mai.” E svanisce. Finito di stampare presso stamperia COLORADO via F. Ferrucci 95/h - Prato (PO) Bocca di Prosa Bocca di Prosa BOCCA DI PROSA Comincio sempre con una battuta qualsiasi sui miei piedi. Se non lo fa ridere va bene lo stesso: è il mio sistema per fargli capire che anche ora, ora come prima, sono sottomessa. Che accetto il rischio di dire una cavolata e apparire ingenua o fuori luogo pur di farlo reagire. Pur di farlo comandare. Spesso la risposta è uno sguardo. Uno sguardo e una bocca che si dischiude; uno sguardo e un grugnito. Reazione matematica. Non passa che un attimo, lui vuota il sacco della sua personalità. Fa lo sprezzante, il complice o l’annoiato. Replica rassicurandomi, dicendomi talvolta che anche i suoi piedi “non sono affatto perfetti”. Più spesso riporta l’attenzione sulla merce: “Là dove conta è tutto a posto”, dice. Per l’appunto ho una terza piena. E un culo magnifico, che confina a nord con le punte dei miei capelli sempre curati. Ho lo sguardo fesso di chi è sempre indifeso, il primo di una lista infinita di regali che mi ha fatto mio padre. Faccio la troia a domicilio. Per il resto del tempo mi godo il guadagno e fingo di avere una specie di lavoro. Il part-time in profumeria è l’antidoto alle esigenze del buoncostume, oltre che il rimedio segreto al veleno del perbenismo. Non mi fa paura quasi nulla, amo il denaro. I soldi mi danno le stesse identiche opzioni che ho sin da bambina, roba che qualcuno si illude di scambiare per libertà. due m.n. Ecco, se mai fossi stata povera per un solo giorno di questi ventiquattro anni su cui si reggono le mie caviglie sottili potrei direi che mi sono conquistata le mie libertà vendendo il mio godimento. Tuttavia questo non è accaduto. E le mie caviglie, che un tempo credevo così sottili, non lo sono affatto. Così, un secondo dopo essermi scostata dal grido soffocato di un avvocato o di un manovale scherzo sui miei piedi che paiono rozzi anche con la pedicure, lo smalto cotto e tutto il resto. E’ tutto facile per me, perché non voglio rinunciare a nulla di ciò che ho avuto. Non mi ha mai angosciato essere posseduta da persone di cui non conosco l’anima, non ho mai trovato una morale nella stimolazione dei corpi. Non mi fa paura nemmeno la bellezza, perché l’ho saputa riconoscere in ogni momento nel mio corpo e in quello di tanti altri che ho sfiorato e conosciuto. E questo, la totale mancanza di timori e tensioni verso conquiste che ho già fatto, fa di me una donna diversa da tutte le altre. Mi vanto nel segreto delle mie consapevolezze di aver letto e capito decine di romanzieri e filosofi: nonostante ciò, credo sul serio di avere il coraggio di esser quel che voglio e dunque di essere diversa, superiore, indifferente alla mediocrità. E se sapessi davvero che mi piace crederlo, me lo farei bastare. La capacità di leggere tutte le situazioni forte della mia realizzazione umana, compreso il conto in banca pesante, fa di me la persona più potente. Una sola minaccia mi sgomenta. Sono i pensieri dell’uomo che mi ha appena avuta. Che strada prendono? Comprendono il mio inganno alla vita? No. A loro non interessa nulla, ovviamente. E questo mi inquieta. Quel silenzio a monte dell’apice di piacere terrorizza la mia certezza di vivere in pace con me stessa ed ogni volta, con un automatismo di cui Freud e Nietzsche da qualche parte si sono certamente occupati, cerco di trovare un modo per neutralizzarlo. Trovo avvincente far proseguire chi mi sta accanto, magari esausto e col fiatone, nel gioco del possesso per cui lui deve continuare ad occuparsi del giocattolo che ha affittato per un’ora. Mi figuro scema, scopro volontariamente la mia superficialità che lo costringe a tenere il timone, a non farlo rimanere zitto. Giorgio Bernardini Comincio sempre con una battuta qualsiasi sui miei piedi. Ha gli anni di Cristo, e le stesse ambizioni. tre Martha MA RT HA quattro Martha La strada era diritta, non si poteva sbagliare: doppio senso di marcia, nessun albero. Martha indossava un vestito beige aderente con una cintura in vita, forse non particolarmente adatto per l’occasione, ma si addiceva alla sua personalità. Era semplice e gli stivali ai piedi davano un tocco alternativo al suo look. Camminava velocemente lungo la strada che portava alla piazza centrale della città. Il locale era là, sotto un balcone. Martha toccò la maniglia della porta per aprirla, ma questa si staccò e le rimase in mano. Una volta dentro, le pareti sembravano reggersi su pile di libri usati, quelli che nessuno vuole leggere più. Ai lati del corridoio stretto c’erano casse di plastica contenenti birre di scarsa qualità. Poi c’era il bancone del bar che sembrava una nave tra le nebbie del porto, effetto creato dalla cappa di fumo di sigaretta. Sul palco il cantante si perdeva in sorrisi, masticava un chewing gum e rifilava accordi a caso: era il pirata con la benda sull’occhio. Sudava tra le cassette di birra, riposte anche lì. Stringeva gli occhi luccicanti di fumo e strimpellava con una piccola chitarra appoggiata sulla sua pancia. Era verde come i suoi pantaloni. La sua camicia grondava note e sudore. La canzone era un lamento d’amore. I tavolini erano pochi e sporchi. Sopra vi erano dei libri impolverati e posacenere. I clienti tutti uguali bevevano vino bianco e succo alla pera mischiati oppure birra. Le cameriere, due, si muovevano come bandiere al vento. La nave stava salpando. Una donna molto grassa stava appoggiata al bancone e ascoltava rapita il cantante. Martha pensò che quella donna di giorno non esistesse e che fosse una proiezione della notte, l’àncora della nave. Il pirata continuava a sorridere e sudare, cantava la sua visione dell’amore distruggendo le corde della chitarra. Il violinista aveva riccioli neri che gli cadevano sugli occhi, risultava leggero e galleggiava nella musica. Il pianista, vecchio e infelice, si ripiegava sullo strumento come un salice piangente. Era alla deriva, abbandonato al naufragio della malinconia. Ecco il momento dell’ultima canzone, il pirata emise un’ unica e lunga nota prolungata, mentre il pubblico lo applaudiva estasiato. Nonostante il fumo del locale riuscì a portare a termine l’acuto, poi sorrise soddisfatto. Gli mancava un dente. Il violinista bisbigliò qualche parola di ringraziamento mentre il pianista immobile continuava a fissare i tasti bianchi. Il cantante-pirata si liberò della chitarra come se fosse un peso, un oggetto ormai inutile e si diresse verso la donna-àncora sorridendo e sudando ancora. Martha si avvicinò per stringergli la mano ma lui la interruppe prima che potesse parlare: “Due daiquiri, anzi tre!”, disse rivolgendosi al barman. “No, grazie. Volevo solo farle i complimenti”, disse lei imbarazzata. Il debole entusiasmo che quell’uomo le trasmetteva era rassicurante. “Via un sorso signorina”, continuò il pirata, “davvero non gradisce? Con le medicine che prendo non posso bere troppo, ma sa cosa penso? Per bere, e bere molto intendo, bisogna avere fiducia. Io sono un uomo pieno di fiducia.” Le allungò la mano per salutarla. Solo in quell’attimo Martha si ricordò di avere ancora la maniglia nella mano destra. Con disinvoltura la passò alla sinistra, si strinsero la mano e il patto di fiducia tra i due avvenne così. Martha si sentiva come una boa in mezzo al mare. Perdeva la musica. Nonostante la maniglia, non aveva chiuso la porta così tutto le entrava dentro: libri impolverati, sigarette e puzzo di fumo, dischi con lamenti, bottiglie di succo alla pera, taxi, note stonate, supermercati, parcheggi, un biglietto d’amore. In tutto questo c’era la vita, il suo involucro e l’anima. L’uomo muore ma non muoiono gli oggetti. Sono molte le cose che durano oltre il nostro silenzio e non sapranno mai che un giorno ce ne andremo; fuggiti o morti che sia, usciti di scena, come un cantante malconcio in un pub malfamato. Gli oggetti si usurano ma restano, come sempre galleggia una boa nel mare in tempesta. A Martha sembrò di riconoscere qualcuno tra i clienti. Lo fissò per un lungo istante, lui fissò la birra e poi oltre, tra i tavolini e la tappezzeria a strisce bianche e blu in stile marinaro. Elettra Gallorini s.d’i. cinque Piuma d’acciaio PIU MA D’ AC CIA IO sei Piuma d’acciaio En el muelle de san blas Sola en el olvido sola con su espíritu sola en el olvido sola con su espíritu Ogni tanto la radio passava questa canzone e lei guardava un punto nel vuoto e poi rideva malinconica. Erano anni che non si faceva amare da nessuno, perché non credeva in altri amori. Il suo era stato solo ed unico. E ciò che è unico è irripetibile. Se torna un altro unico semplicemente siamo scesi a patto con la nostra insostenibile solitudine e ci creiamo dal nulla qualcosa di unico nuovamente. Ma l'unico non si crea. Nasce. È indipendente dalle nostre volontà. Pensava a lui. Pensava a quel lui così intensamente che ormai si era abituata a quella solitudine che poco a poco era diventata sua amica. Ogni tanto si lasciava un po' trascinare dagli eventi e si scopava qualche uomo; qualche marionetta nelle sue mani da strapazzare un pò e poi se ne andava per la sua strada. Si truccava gli occhi di nero. Un rigo pesante e deciso era l'unico segno di lutto che si permetteva di avere addosso, poi si vestiva di mille colori spesso accostandoli in modo casuale e ridicolo; ma la gente si faceva convincere dalla solarità di quelle tinte così allegre sempre accompagnate dalla sua risata piena e cristallina. Faceva lunghe passeggiate lungo le strade di Madrid e ascoltava, talvolta con insolenza, i discorsi della gente. Le piaceva ritagliarsi uno spicchio di quelle vite e goderne a fondo e poi, alla sera, rimaneva a lungo fuori passeggiando per le strade desolate. Gioiva per l'intimo calore delle luci dei lampadari che vedeva attraverso le finestre ben agghindate di tende bianche ricamate. Le dava un sottile senso di sicurezza e di gioia quella pace familiare anche se non era la sua. Però era bello immedesimarsi. Uno di quei giorni incontrò casualmente un tipo qualsiasi, piuttosto brutto con la voce nasale e un po' cantilenante, ma con qualcosa di familiare in quei suoi occhi neri neri. Si misero a parlare e capì subito che aveva un'intelligenza acuta e il suo sguardo trasmetteva una sensibilità che lui stesso cercava di nascondere attraverso un cinismo che si era inventato di avere. Iniziarono a vedersi assiduamente e si creò un'amicizia piuttosto particolare. Stavano ore a battibeccare su ogni cosa e spesso tornavano a casa sfiniti da tutto quel discutere. Si sfidavano continuamente in tutto. Spesso la gente credeva che fossero fidanzati, ma no. Lei non piaceva a lui o per lo meno è ciò che le faceva credere continuamente con le sue critiche spietate sul suo aspetto fisico e sulla sua intelligenza. Era tutto così confuso. Non si capiva più dove era lo scherzo e dove era la verità di quel che dicevano. Avevano cominciato per scherzo ed erano finiti a non capirci più un cazzo nemmeno loro di tutto quel casino emozionale. Lei comunque una cosa l'aveva capita; tutto ciò era una bella tregua al dolore che continuava ad affliggerla ancora dopo anni per quell'amore unico finito in modo così stupido, per quel gemello perso nella confusione della vita. Quella testa così tenera e delicata che non sarebbe più riuscita a baciare. Quella testa morbida come quella di un passerotto. Già...ma Eduardo era una dolce pausa a tutte quelle continue intrusioni del passato. Quando parlava di politica con quel suo modo distante, quasi come se buttasse via le parole, lei lo guardava con ammirazione senza farglielo notare. Aveva iniziato ad essere un po' gelosa delle donne con cui lui usciva. La dolce pausa diventava sempre più ingombrante. Iniziava a pensare a lui sempre più spesso e a volte cercava di evitare di incontrarlo per non mostrargli quella debolezza. Avevano iniziato in amicizia ed erano graffianti l'un con l'altra e adesso lei cadeva così per uno sciocco sgambetto ormonale. Lui aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Un po' la cercava e un po' la evitava. Quando giocavano spesso la buttava sul letto e faceva allusioni sessuali, ma poi se ne andava. Ormai lei dava per certo che lui avesse capito e che si stesse solo divertendo a provocarla per gonfiare un po' il suo ego malandato. Poi una sera andarono ad una festa insieme. Era una festa qualsiasi di quelle che fanno d'estate nei parchi con tutte le lucine colorate. Una di quelle patronali, di quelle che vanno vissute da lontano per godere: musiche e voci in lontananza, luci in lontananza, odori di dolciumi in lontananza. Goderne senza farsi male. Farcisi coccolare senza doverci stare per forza in mezzo. Stava là, vicino al laghetto, a vedere tutto da lontano e l'acqua le rimandava una gentile brezza estiva lasciandole addosso un senso di malinconia così profonda, che le riapriva quella voragine insaziabile e spietata. Così si ricordava di quelle estati passate insieme a quel lui senza far niente, un nulla pieno. La solitudine quella sera la stava pressando un pò. Le scese una lacrima e la lasciò scendere maestosa, senza fermarla. Era sicura di non essere vista. Poi si sentì chiamare all'improvviso da quella voce nasale così intima. “Ehi, ti ho portato la birra...che stai facendo qui?” non voleva girarsi e farsi vedere così. Rimase ferma un attimo, immobile con il collo teso. Lui si fece in avanti e la guardò e per la prima volta non usò il suo solito sarcasmo, le chiese cosa avesse e poi senza aspettare una reazione le disse che doveva andare avanti e che doveva dimenticarsi l'ex. Quella parola così neutra per lui, quella parola spogliata del suo significato era così tanto violenta alle sue orecchie. Lei deglutì un poco e cercò di spiegargli con parole semplici che lei non pensava all'ex, che lei non aveva perso il suo ragazzo, ma che aveva perso suo padre e suo fratello e il suo gemello e il suo miglior amico e la custodia di quella parte di sé che ormai se ne era andata via per sempre e che non si sarebbe mai dimenticata, perché in quei casi dimenticare fa ancora più male. Lui spazientito le disse che cosa lei avesse intenzione di fare e se volesse restare in quella situazione tutta la vita. Le parlava tra il disinteressato e lo spazientito e poi sbottò con un semplice “E allora che vuoi fare? Trova una soluzione, no?” Lei si avvicinò al suo volto guardandolo fermamente dritto negli occhi e gli disse “Cosa fai tu quando qualcuno muore?” Lui la guardò allibito cercando di dire qualcosa e poi disse “Niente.” Lei distolse lo sguardo e quasi con arroganza, con la tempra di chi la sa lunga, confermò con un decisivo “Appunto”. Stava per andarsene quando lui la buttò a terra come faceva sempre, quando voleva giocare fingendo di essere stressato dal continuo lagnarsi di lei, o quando voleva smorzare un pò la tensione. sette Piuma d’acciaio Poi la guardò con fermezza negli occhi. Era la prima volta che la guardava così direttamente senza lo scudo di cinismo e sarcasmo che usava sempre. Lei avvertì un lampo di paura. Le piaceva e anche tanto, ma lui la stava per baciare solo per gonfiare il suo ego malandato, forse. Si guardarono intensamente per almeno un paio di minuti lunghissimi. Poi la baciò con timidezza e con timore. Rimasero così a baciarsi per tanto tempo. Le appariva la faccia del passato ovunque, anche se per la prima volta cercava di sfuggirgli. Tornarono a casa insieme in quella notte già consumata e paralitica. Una volta arrivati si guardarono profondamente. Voleva tanto fare l'amore con lui ed essere avvolta dal suo sguardo così tanto familiare. Poi decise solo di farsi abbracciare, mentre piangeva poche lacrime. Aveva paura che forse le sarebbe piaciuto di più. Sembrava quasi che lui avesse compreso il suo dolore e le diceva parole dolci per farla addormentare. La mattina lei si svegliò ancora abbracciata a lui e si sentì come felice. Si sentì calma. Fuori c'era il sole, si sentiva bene, colma di energia. Aprì la finestra, poi si voltò a guardarlo piena di affetto e alla fine scavalcò la finestra leggiadra come una piuma, e si fece avvolgere dal vuoto là sotto. Sforbiciate Gyvenk SFORB ICIATE La più bella sforbiciata che abbia mai visto nella mia vita è stata eseguita da Igor Protti in un Bari – Cremonese 2-1 del campionato 1995-1996. La scoprii per caso su un Guerin Sportivo che mio padre portò a casa una domenica di abbastanza anni fa, ed è rappresentata da un' unica foto, un solo movimento perfetto: colpisce la palla, che gli sta arrivando da sinistra, di pieno collo destro completamente lievitato dal suolo, la schiena perpendicolare al terreno. La gamba sinistra è girata indietro, quasi sotto la natica, la gamba destra è in ipertensione verso l'alto, come ci fosse un gancio immaginario a tenerla in cielo, e fungeva all'atleta da periscopio in sostituzione della testa, rimasta sotto nello slancio, impossibilitata ad agire. La didascalia sotto la foto diceva: Protti impegna il portiere in sforbiciata. Folgorato dall'abbagliante scoperta, la ricerca della sforbiciata perfetta divenne per me una vera e propria crociata da intraprendere. Cominciai col coinvolgere mio cugino, col quale ci intrattenevamo in lunghissime sessioni di prova ai giardini di via B. , in cui ci posizionavamo vicino ad un albero, per l'occasione investito della carica di Palo della Porta, e a turno ci mettevamo a sforbiciare. otto Lui giudicava le mie ed io le sue, con i gradi di giudizio che consistevano in fluidità del movimento, accuratezza del tiro e fedeltà alla “Foto di Protti”, l’ideale stilistico al quale ci ispiravamo. Entrando di più nel particolare, ciò che valeva più punti in assoluto era qualcosa di molto più impercettibile all'apparenza, ma che decorava il tutto di una vena sensoriale che potrebbe essere riconducibile, se parliamo di biliardo, al colpo ovattato che la punta della stecca sferra alla palla bianca, o alla vibrazione ruvida, ma docile, delle corde della racchetta dopo un rovescio in slice, se invece si prende in esame il tennis: sentire il THUD! Dicesi sforbiciata /sfor.bi.cià.ta/ , il gesto tecnico in uso nel gioco del calcio che consiste nel colpire un pallone volante con le spalle rivolte alla porta. Si differenzia dalla più banale rovesciata da una sola quanto macroscopica differenza, ovverosia quando anche la gamba d'appoggio si stacca da terra insieme alla gamba che deve colpire il pallone, in modo tale da avere una rotazione del busto che ci permetterà di imprimere maggior forza al tiro tramite un movimento mulinatorio delle gambe. nove Sforbiciate Sforbiciate archivio privato. Non trovai immediatamente qualcosa da aggiungere, pertanto continuò: - quando fai gol in sforbiciata, anche se sei scarso a giocare, ti senti un campione. Fanno stare bene. E poi mi piace il suono del pallone, quando lo colpisci in pieno. Non sai dov'è la porta, lo intuisci ma non la vedi, per cui non sai dove finirà esattamente la palla. Ma se arrivi a sentire quel suono, sai che andrà nella direzione giusta. - Hai ragione – soggiunsi sorridendo. Conoscevo bene quel suono - ora però alzamene una tu. - Vestito così ti sporchi – mi disse con finta preoccupazione, in realtà si notava chiaramente che non voleva dividere il suo personale palcoscenico col primo venuto – facciamo così, domani ritorni e facciamo un po' per uno, va bene? - No . Bene così, continuamo pure – soggiunsi, e mi rimisi ad alzargli palloni. -Quante vuoi che te ne alzi ancora? - Quante ne servono – mi rispose. Lanciai la palla. Lo vidi cominciare il movimento mentre il pallone si dirigeva veloce verso di lui, lo vidi rimanere a mezz'aria, nell'istante in cui il corpo rimane in bilico tra il ruvido del suolo ed il soffice dell'aria, con la coda dell'occhio osservò la sfera in arrivo, valutò il momento dell'impatto e poi... THUD! - L'hai sentito? L' hai sentito vero? - Mi gridò alzandosi. Filippo Romei Tira a Campare, ma Campare se la cava sempre. Requisito fondamentale è quello che, atterrando, si debba finire culo a terra e gambe all'aria, pena il declassamento a rovesciata classica. Postilla: alla “tedeschina”, il gol in sforbiciata vale venti punti. Questo per puntualizzare. In vita mia, non ho mai conosciuto un essere umano che sia rimasto insensibile dopo aver visto una sforbiciata di collo pieno finire sotto l'incrocio dei pali di una qualsiasi porta, anche se non posso escludere che ne esistano. Al di là del semplice contesto, che può interessare o meno, a livello tecnico la rovesciata non ha alcuna ragione di esistere. Se anche volessimo ammettere che in alcune situazioni possa apparire come unica soluzione d'intervento, resta un dato oggettivo il fatto che le basi della sua esecuzione sono l'antitesi stessa del senso del gioco, inteso come raggiungimento di un obiettivo percepibile. Sforbiciare affascina non solo in quanto simbolo di imprevedibilità e fantasia, quanto piuttosto come momento di incoscienza, lo spartiacque esistenziale che ci fa prendere atto che si può raggiungere uno scopo evitando pure di avercelo davanti. Ha il sapore di uno scherzo e l'aspetto di un destino ineluttabile. dieci Scoprii tutto questo un tardo pomeriggio di marzo di tre anni fa. Abitavo allora molto vicino ai giardini di via B. , dove da un pò di tempo avevo cominciato a notare un ragazzino che si soffermava sempre ben oltre l'ora in cui i suoi compagni di partitelle facevano ritorno a casa. Avrà avuto undici anni, magro ma nevrile, capelli corti biondicci, baricentro basso, occhio sveglio. Si piazzava vicino ad un albero, poi gli voltava le spalle, con le mani si alzava la palla a campanile e sforbiciava. Minimo ne sparava via una ventina. Se faceva troppo buio, si accostava ad uno dei radi lampioni del giardino e si metteva a sforbiciare sotto il cono di luce. Ero rimasto molto colpito dalla regolarità del suo impegno e dalla costanza con la quale si sforzava di ripetere il gesto quasi meccanicamente, percepivo in lui il desiderio di voler giungere a qualcosa di diverso della semplice familiarità, così un giorno decisi di offrirmi come “lanciatore di palloni” per cercare di capire le ragioni che guidavano la sua dedizione. - Se sai fare le sforbiciate piaci a tutti – fu la sua risposta. undici Henry is Dead HEN RY IS DE AD dodici Henry is Dead Puntualmente, nel nuovo Medioevo, si ripropongono serate clonate a stampo fordista. Ognuna, tronfia nella sua locandina e addobbata di numeri e vettori, si bea d'originalità invogliando con natura da sirena i molti che fingono di crederci e i più stronzi che, forse, ci sperano davvero. La sera ci si ammassa e poi, già stanchi, s'entra nel porcile. Panoramix al centro della mescita distribuisce pozioni per l'inganno, inebriati gli astanti si comportano come ladri e rubano il sole al domani per illuminare stanze buie, maleodoranti, cariche di voglie e speranze vacue, di rapporti effimeri e morti sul nascere, di fiumi di parole il cui unico scopo è direzionare le alte frequenze che infiammano gli umani come molecole d'acqua sui fornelli e costringendoli, al modo d'anidridi, ad urlare e agitarsi prima d'evaporare. Dapprima, mossi dai tonici, s'improvvisano salti; poi, nei fotogrammi concessi dai flash, ci si guarda attorno e si cerca Lei, qualsiasi, e la si trova, sempre perfetta. Nell'approccio ora tutto sembra espressione necessaria, unta di burro fuso la mano muove al contatto, tondo e morbido nel palpare le forme protese come teneri diosperi caldi e zuccherini; s' avvicinano le teste, si sfiorano le labbra e, per un istante, ci si illude di poesia ma, appena le lingue s'incrociano, esonda una chimica marcia e fetida che scuote i corpi, li straccia e li costringe in un avviluppo nodoso come tra piumati screziati di fango e rettili incrostrati. Nei giorni che passano, l’accumulo non si smaltisce ma gonfia, straborda e piega le giunte cardaniche sotto il peso insostenibile di una leggerezza finta e artificiale per concezione. Infine, curvi e ammalati, si cerca l'antidoto, pensando di poter bere anche quello. Ma l'antidoto non s'aggiunge. Togliere: questa la chiave; selezionare con piglio da abile alchimista ciò che realmente vale e farlo crescere, proteggerlo al riparo da tutti gli attacchi umani, sonori e alcolici che senza sosta pretendono di curare le ferite che loro stessi aprono. Calmi, distendersi in un unico punto d'evolvente metamorfosi e cullarsi nella costruzione puntuale e riposata. Creare valore riconoscendo chi ancora s'erge nel sacrificio e nell'atto impegnativo del rischiare, a dire, a fare, a essere. Infine, suonare la melodia nuova: chi è sveglio ne sarà attratto in modo inevitabile. Tutto il resto, semplicemente, è contorno e noia e vomito che cambia profumo per vestirsi da Domenica; va escluso perchè già banale, già capito, già inutile e già fuori dall'orizzonte degli eventi che brucia come la vita stessa. Kenjataimu Vive, e di questi tempi è quasi tutto. m.n. Nel magma bulimico di carne molle e fetidi odori, dove ogni cosa spinge e chiede d'entrare, l'uomo è già morto, annullato al suolo, sgraziato e deforme come un aborto vestito a principe. Blackout. Il giorno dopo, sopravvissuti alla battaglia, si contano le cicatrici e ci si promette l'espiazione, si finge di pentirsi ma in verità già si contano i minuti che ci separano dal nuovo appuntamento, dalla nuova festa, dal nuovo scandalo. Si viaggia a ritmo incessante, campionato da notifiche mobili, eteree come i messaggi che coinvogliano; nel panopticon c' addobbiamo con giacca scura, sorrisi di plastica e calici frizzanti, immortalando scatti che nel loro delirio vorrebbero raccontare ciò che, in questa forma, non è, non è mai stato, mai sarà. Dall'intuizione di Houllebecq si riscontrano i rapporti sociali come vaporosi contratti di mutuo beneficio e l'atto del sesso come masturbazione a due; tutto il resto, vinto, giace inerme sul fondo, schiacciato senza respiro dal carico di rumore e merda che assorda, giorno dopo giorno. tredici Incipit IN CI PI T quattordici La corsa sulla ghiaia ha un ritmo in cinque quarti, ad almeno 110 bpm di velocità. La ragazza che corre inciampa nel bastone della vecchia signora, che produce due suoni distinti, quello dei passi, lenti e in levare, ed uno sottile, isolato, scavato dal bastone, fedele come un tamburo imperiale lo è a Napoleone. Dita di vento suonano i raggi delle ruote della bici come fosse un'arpa. I bambini seduti nei passeggini salutano i ciclisti, poi piangono, soprani, per interrompere il brulicare dei discorsi ansiosi delle madri e quelli inquieti dei mariti, che guardano il culo della passante che corre sulla ghiaia, in cinque quarti, ad almeno 110 bpm di velocità. INDICE In questo concerto circolare, poi, ci sono io che segno le pause seduta su una panchina, che spesso non so quando iniziare a contare e quando smettere, poiché il tempo, qui, non esiste, e se non esiste il tempo, non esiste principio. Solo mondi, che scivolano in mondi, che rotolano in mondi e si collegano al mondo. C'è un motivo per cui sono qui. Sto aspettando il direttore d'orchestra: il matto. Lungo il sentiero balla un valzer con sé stesso, sorride, e ogni tanto si ferma per farsi abbracciare dall'orizzonte, aprendo le braccia a sua volta. Non parla mai, non mi vede, almeno non fino a oggi, che è venuto da me e mi ha detto: " non esiste un limite". E pensare che mi siedo spesso sulle mura di questa città, proprio perché mi fanno sentire sul confine, bidimensionale, e poi invisibile. Al sicuro dall'abisso e al riparo da tutta la responsabilità che nei secoli abbiamo scaricato verso il cielo. Se l'incipit davvero esistesse non avrebbe un incipit. Sarebbe un animale rotondo, un'illusione albina, una mano che disperata si spinge fuori dal mare dell'inconscio per farsi afferrare e trascinare nel frastuono. È sempre stata lì e non l'hai vista, come un vecchio amante rimesso a nuovo che ha ancora voglia di te, di me, di tutti quanti. Una voce dietro una porta che non ha mai smesso di cantare. La mia cartolina di Lucca è di quelle un pò kitsch, che se le apri suonano e, molto spesso, stonano. La ghiaia sta al bastone della vecchia signora come i passeggini stanno al vento, le bici stanno ai mariti come le madri stanno al culo delle passanti e Napoleone sta alla mia mano invisibile, che scrive sopra il limite che non esiste un limite. Valeria Caliandro m.n. quindici ZOODIACO ARIETE *** A cena prenderete fischi per fiaschi, risultato: sarete sobri ma farete un casino della madonna. TORO * Farete un corso di decoupage solo per capire che cazzo sia un corso di decoupage. Non lo capirete. Legenda: * Tornate nelle fogne ** Bella zio! *** Provateci con tutti/e GEMELLI * Dopo trentotto anni di convivenza quotidiana scoprirete che vostro fratello gemello in realtà è uno svedese biondo alto due metri che non parla una parola in italiano. Vostra madre, interrogata, glisserà. CANCRO ** Travolti da una sete feroce comincerete a distillare alcol nella cantina di vostra nonna. Passata l'euforia, scoprirete di aver sbagliato ricetta e vi ritroverete con settecento litri di tè al gelsomino. Il vostro nuovo business plan: cercare inglesi. LEONE ** Rimarrete vittime di una trappola semantica dopo aver scommesso di non cadere nel vizio del gioco. La vertigine vi procurerà un senso di nausea e una voglia innaturale di comprare una gigantografia dello staff di Medicina 33. Assecondatela pure. VERGINE * Occhio che sui vostri valori c'è ancora il cartellino con il prezzo. Non è elegante. BILANCIA *** In culo a chi vi vuole moderati suonerete una chitarra elettrica in fiamme nudi sul tetto del Pirellone durante una grandinata. Nessuno vi ostacolerà ma il giorno dopo verranno scambiate occhiate di intesa come a dire "Anche meno". SCORPIONE * Subirete uno shock emotivo importante dopo aver scoperto che, per massimizzare l’effetto delle supposte, il culo, deve essere il vostro. SAGITTARIO * Travolti dall'eterogenesi dei fini inizierete a memorizzare le cifre del pi greco per poi ritrovarvi in Nuova Zelanda ad allevare pecore merinos.Va bene così. CAPRICORNO ** L'euforia iniziale che proverete dopo aver finito la collezione di francobolli verrà presto soppiantata dalla tristezza di non avere così tanti amici a cui spedire cartoline. Cambiate hobby. ACQUARIO *** L'improvvisa realizzazione che il numero dei vostri anni equivale ai giri che avete fatto attorno al sole vi coglierà di sorpresa durante una cena di lavoro. Dall'emozione per questa scoperta rilascerete un peto della durata di 72 secondi a tonalità variabile sulla scala di do. A tavola i vostri colleghi vivranno un ampio spettro emotivo compreso tra il disgusto e la sincera ammirazione. Complimenti. PESCI ** Il vostro gigantesco orgoglio vi impedisce una vita serena al punto che, dopo aver confuso una volta il sale con lo zucchero davanti ai vostri familiari, ogni mattina riperpetrate apposta lo stesso errore e preferite macinare sale grosso nel vostro caffè piuttosto che riconoscere di aver sbagliato. Datevi una calmata.. sedici ARITMIE Antonio, 44 anni, impiegato male, coniugato. Ariccia (RM) Attilio Vergogna (Danzica 1927) è criminologo, glottologo e web designer. Dopo una serie di complicazioni fisiche dovute ad un eccessivo uso di lasagne, sopravvive grazie ad un complicato sistema di specchi e pompe idrauliche (progetto finanziato dalla U.E. ). Ha all’attivo numerose pubblicazioni mediche sulla riproduzione delle mazzancolle. Egregio professor Vergogna, Debbo raccontarle la mia storia. Sono sposato con una donna meravigliosa da diciotto anni, madre dei nostri due figli, S. e N. , che hanno rispettivamente tredici e dieci anni. Lavoro come impiegato contabile presso una grossa azienda che produce toner per stampanti, certo non faccio il pilota di NASCAR ma è un impiego sicuro, che mi permette di sostenere dignitosamente la famiglia. Il fatto è che adesso, una famiglia, forse non ce l'avrò più. È stato una domenica di sei settimane fa, una data che non potrò dimenticare. Mi ero ritrovato, cosa per me assai rara, a dover trascorrere un intero pomeriggio in solitario, poiché mia moglie si era recata a far visita ad una cugina malata di difterite, e i miei figli erano rimasti a dormire da alcuni amici. Decisi di farmi un bagno rilassante. Inebriato dal calore dela vasca e dalle morbide essenze dei sali profumati, mi lasciai trasportare in un mondo di irrefrenabile voluttà, al punto che avvertii nitidamente un violento desiderio di morsicarmi il testicolo destro. Non che il sinistro non fosse attraente, ma il destro aveva quasi un'aria di sfida nei miei confronti, solleticava le mie voglie mandibolari con una postura languida, provocante. Trascorsi l'intero pomeriggio a cercare quell'abbraccio innaturale denti-contro-palle, ma fallii. Adesso ogni fibra del mio corpo avverte questo desiderio morboso, ho smesso di dormire, non guardo più mia moglie, trascuro i ragazzi. Lei adesso è convinta che io la tradisca, e non so come parlarle. Ma questo desiderio... è irrefrenabile. Cosa mi consiglia di fare? Gentile Antonio, Non la conosco a sufficienza per arrivare a consigliarle una direzione precisa in merito ad un argomento tanto delicato, posso però esprimermi in merito alla sua situazione psicologica, notando quanto essa sia alquanto travagliata. Innanzitutto l'idea di MORDERE UN COGLIONE può, in senso piuttosto ampio, essere un'idea piuttosto stuzzicante, basta distinguere fra coglioni e coglioni. Le suggerisco pertanto di iniziare da questo semplice test: se ami come dici la tua famiglia, e non vuoi assolutamente rischiare di mandare tutto a rotoli, cospargi di feci (tue o di altri) il tuo testicolo destro, e ne perderai il desiderio. Se invece ciò che ti preme maggiormente è di soddisfare le tue tue animalesche esigenze, cospargilo di miele di castagno AND ENJOY ! Tuo, Vergogna SENTIMENTALI diciassette