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martha harris: un indelebile ricordo creativo
Carlo e Rita Brutti
Martha Harris: un indelebile ricordo creativo
L’amicizia è uno strumento ermeneutico… che è stato trascurato
per la preoccupazione scientifica dell’oggettività,
che si è trasformata quasi in mania…
e per il ricorso abusivo alla soggettività…
L’amicizia è uno strumento ermeneutico perché ha a che fare con
la struttura stessa sia dell’interpretans che dell’interpretandum
(R. Panikkar in A. Rossi, Pluralismo e armonia)
Un ricordo creativo
Quando il ricordo di una persona è indelebile? Quando non lo affidiamo
soltanto alla memoria di lontani eventi condivisi, che motivi contingenti ci
ripresentificano, evocandoci di quella persona i tratti che la resero per noi
importante. Il suo ricordo è indelebile quando è vivo e operante in noi, quando è
entrato a far parte della nostra personalità e del nostro stile di vita, alimentando
quel mondo ideale, che era pure il suo e che, incontrandola, ci ha aiutato a
costruire. Il rapporto con quella persona, allora, non si esaurisce in sporadiche e
occasionali rimemorazioni: esse – pur con tutta l’atmosfera emotiva che le
accompagna – rimarrebbero circoscritte nello spazio-tempo di quelle evocazioni,
mentre quel rapporto continua a persistere in un indelebile ricordo creativo.
Così stando le cose, di tale esperienza come si può parlare? Cosa “dire” senza
rischiare di congelarla in più o meno puntuali riesumazioni quando non è
possibile inscriverle in una sorta di (auto)biografia spirituale, giustificabile solo se
redatta da personalità alla Sant’Agostino o alla Rousseau (che è così raro
incontrare)?
Ciò detto, non possiamo – né vogliamo – sottrarci all’affettuoso invito di Meg
Harris che abbiamo inteso come la richiesta di una testimonianza del nostro
incontro con sua Madre, di quanto essa ha significato per noi e – anche
attraverso noi – per il diffondersi della cultura psicoanalitica in Italia. Una
testimonianza che non vorremmo però declinare “al passato”, ma alla luce del
nostro rapporto “attuale” con Martha, nello spirito di quella “compresenza”
(Capitini A., 1966) che ci permette di “convivere” con questa amica e maestra di
sempre. Per farlo, dovremmo cercare di rendere cosciente proprio quella
dimensione viva del rapporto con Martha che, entrata a far parte di noi, opera
1
senza che ne siamo consapevoli: come ogni insegnamento che – veramente
appreso – è diventato inconscio e non ha bisogno di essere pensato per ispirare e
guidare il nostro agire.
L’invito di Meg ha rappresentato, allora, un’opportunità per incontrarci di
nuovo con Martha Harris in un dialogo esplicito, al quale abbiamo convocato
anche altri maestri-amici che continuano a esserci compagni di strada. Abbiamo
cioè potuto ritrovare Martha presente di fronte a noi e ascoltare di nuovo quelle
sue parole che, pur veicolate da scritti “antichi”, ci hanno rivelato aspetti “inediti”
e temi che soltanto ora scopriamo urgenti. Ha così preso avvio un autentico
dialogo fra “con-temporanei” il cui incontro non si inscrive in una astratta
coincidenza cronologica ma in quella profonda comunione kairologica (Panikkar R.,
1984) che ci fa sentire amici di chi condivide la vita nella specifica qualità
conferitale dallo snodo esperienziale attuale; di chi sente, cioè, che le domande
che urgono, ora, possono essere comprese solo da chi se le sta, ora, ponendo. E
non importa se con parole pronunciate – o scritte – molti anni fa (in un diverso
tempo cronologico) perché, come capita con i classici, di esse, in momenti diversi
della nostra vita, scopriamo significati nuovi in grado di illuminare le nostre
attuali incertezze.
Come opera il metodo psicoanalitico: il suo vertice osservativo
In questa rivisitazione degli scritti di Martha Harris ci siamo rivolti,
dapprima, a quei piccoli capolavori che la dedizione appassionata e competente di
Romana Negri (Negri R., 1989, 2008) ha reso fruibili, trascrivendo e curando la
pubblicazione delle ricerche sullo sviluppo del bambino che ha messo a punto con
Martha Harris e con Donald Meltzer. Possiamo così riascoltare il racconto di
Martha che ci mostra come il bambino, fin dalla vita intrauterina, impara a
fronteggiare le emozioni, a modularle o ad evitarle; come va strutturando un
proprio stile (che riconosciamo anche nelle fasi successive del suo sviluppo) e una
sua propria impronta caratterologica; come entra in dialogo con l’ambiente
circostante che non solo “trova”, ma che va “costruendo”; come possiamo
riconoscergli piena dignità solo se, con sguardo autenticamente psicoanalitico, lo
osserviamo dal vertice di una sua responsabilità e libertà di scelta e non da quello
di un condizionamento (magari “psichico”) che lo configurerebbe solo come
passivo recettore di proiezioni, plasmato dalla mente dei genitori.
2
Martha Harris, ovviamente, non sottovaluta l’importanza dell’educazione e
del training, né opta per l’idea che tutto quello che capita al piccolo è provocato
solo da lui, dai suoi pensieri, dalle sue emozioni o dalla sua “costituzione”: essa è
sempre attenta alla relazione!
Martha Harris – attraverso il suo modo di commentare e senza bisogno di
esplicite spiegazioni – continua a dirci come deve operare il pensiero di chi lavora
psicoanaliticamente e da quale vertice osservativo si deve porre chi osserva con
l’intenzione di rilevare “lo psichico”. Ci fa vedere che in ogni interpretazione è
sottesa un’opzione fra due teorie presenti, entrambe, nella nostra coscienza:
quelle che vanno sotto il nome di determinismo e di libero arbitrio, assunte dal
pensiero logico come antagoniste e imponenti una scelta. Martha ci lascia
chiaramente intendere che il pensiero psicoanalitico non può che optare per il
libero arbitrio (ricercando la responsabilità-libertà di scelta sottesa ad ogni nostra
azione, come ha dimostrato Freud quando, scoprendo senso e intenzione inconsci
nei lapsus, negli atti mancati e nei sintomi, individuò nella rimozione il tentativo
di liberarsi dalla responsabilità della loro presa di coscienza).
Va subito precisato, però, che l’opzione della psicoanalisi per il “libero arbitrio”
non va confusa con un suo giudizio su come opera la vita, su presunte leggi della
realtà: quell’opzione è solo il riconoscimento “cognitivo” più coerente al proprio
impianto teorico. Ogni psicoanalista sa, infatti, che solo dal vertice del libero
arbitrio possiamo osservare e pensare lo “psichico”, cioè prendere coscienza del
significato e dell’intenzionalità. Ogni psicoanalista sa, o dovrebbe sapere, che non
si tratta di optare per il libero arbitrio contro il determinismo; sa che la vita non
gioca con le categorie dettate dalla coscienza né secondo le sue scissioni. Ma sa
pure che, quando si osserva e si pensa, non possiamo che collocarci su uno di
questi versanti o oscillare fra essi.
A nostro avviso, avendo chiaro tutto ciò, possiamo evitare di confondere realtà e
pensiero riconoscendo, peraltro, che è attraverso il pensiero che “facciamo” il
mondo che “ci fa” (Chiozza L., 2007). Solo con questa chiarezza la psicoanalisi
può interagire anche con altre discipline per un mutuo arricchimento, senza
cercare in esse una validazione alle proprie scoperte (come capita, ad esempio,
con le neuroscienze o la biologia), né offrirsi come un sapere che tratterebbe un
territorio proprio (lo psichico) e pre-determinato da uno presuntamente organico.
3
Le riflessioni attivate dal modo di pensare e di operare di Martha Harris ci
appaiono particolarmente pertinenti per evitare che il pensiero psicoanalitico
venga risucchiato in quel realismo ingenuo cui si correla la pretesa, altrettanto
ingenua, di poter “osservare” senza teorie né pre-giudizi: come a dire che si
potrebbe “credere senza vedere” e “vedere senza credere”.
In psicoanalisi, per contro, l’osservatore non può prescindere dall’opzione
consapevole per il vertice dal quale osservare: quello psichico. Se ciò non avviene,
egli si trova ad oscillare più o meno consciamente tra due vertici (psichico e fisico)
e a ritenere rispettivamente soggettivi e oggettivi1 i risultati delle due rilevazioni
sulle quali, peraltro, formulare secondariamente interpretazioni di senso o
fisicaliste.
Si potrebbe discutere a lungo su ciò, ma inevitabilmente sconfineremmo nel
problema dello statuto della psicoanalisi, della sua specificità, del suo rapporto
con la scienza e dello scambio interdisciplinare. Non è certo questo il luogo per
farlo. Vi abbiamo appena accennato perché, affrontando il tema dell’osservazione,
non potevamo non sottolineare l’importanza dei presupposti teorici posti a
fondamento del metodo. In questo senso gli scritti di Harris-Negri si configurano
come veri classici dell’osservazione che ci forniscono preziose indicazioni su un
suo uso corretto sia per la ricerca in psicoanalisi sia per una adeguata formazione
in psicoterapia (non solo dei bambini!) e in tutte quelle discipline nelle quali è
importante attivare la capacità di usare consapevolmente gli strumenti esplorativi
più consoni alla rilevazione dall’animico.
L’osservazione per la ricerca psicoanalitica
Relativamente alla ricerca psicoanalitica, questi lavori ci dimostrano che è
possibile – e senza ricorrere al supporto di altri saperi – purché si svolga in modo
sistematico e inscrivendola rigorosamente entro i criteri propri della psicoanalisi.
Non stupisca peraltro che accanto ad essi annoveriamo l’amicizia quale
“strumento ermeneutico” che, dal versante filosofico, Raimon Panikkar riconosce
capace di pervenire ad una comprensione profonda dell’altro e che – dal versante
1
La consapevolezza che il vertice da cui si osserva entra immediatamente nella costruzione di quanto siamo soliti
ritenere il “dato”, ci permette di riconoscere che nessuna osservazione può dirsi meramente oggettiva né soggettiva e
che non si tratta di trovare una via di mezzo tra esse ma, piuttosto, mantenere una coerenza fra il vertice scelto e i vari
livelli di interpretazione ad esso congrui (chi osserva dall’animico non dovrebbe interpretare cronologicamente e
causalisticamente quanto va rilevando perché si troverebbe ad utilizzare criteri che sono propri per una rilevazione dal
“fisico”).
4
psicoanalitico – Racker indica come basilare attitudine dell’analista consapevole
che “soltanto tra pari vi può essere conoscenza, vale a dire che si può conoscere
dell’altro soltanto quello che si conosce di se stessi” (Racker E., 1961). È il vertice
dell’amicizia – “trascurato per la preoccupazione scientifica dell’oggettività (…) e
per il ricorso abusivo al soggettivismo” (Panikkar R., 1990) – a permetterci di
comprendere, evitando lo Scilla dell’oggettività e il Cariddi del soggettivismo.
Possiamo, così, tornare consapevolmente all’antica massima per la quale
l’osservato risulta sempre dall’incontro (dal rapporto) fra “realtà” e “osservatore”.
L’occhio di quest’ultimo entra sempre nella costruzione del cosiddetto “dato
osservato” che non è tale in sé, al di fuori della relazione conoscitiva. È solo nella
coscienza di chi recepisce – cioè in me – che quel presunto “dato” esiste come tale.
Ci sembra che questo assunto costituisca il fulcro dell’“osservazione” nella ricerca
psicoanalitica perché, assumendolo, gli psicoanalisti sanno di non osservare un
particolare territorio detto “psiche”, cioè un pezzo della realtà caratterizzato da
qualità sue proprie, diverse da quello designato come “soma” (che costituirebbe il
territorio di competenza della medicina organica). Noi non attribuiamo alla realtà
quella scissione che è la nostra coscienza ad operare: noi sappiamo che ciò che
non è cosciente non è assente, ma inconscio e che Freud ha scritto che compito
della psicoanalisi è ricercare lo psichico inconscio, sempre. Alla fine della sua opera
egli arriva a specificare che lo psichico genuinamente inconscio, quello cioè più
nascosto alla nostra consapevolezza, possiamo ricercarlo e trovarlo proprio in
quelle rilevazioni del reale che ci appaiono come “somatiche” (Freud S., 1939).
L’approfondimento di queste riflessioni, durante il nostro cammino nella
perlustrazione del retroterra epistemologico più proprio al pensiero psicoanalitico
– anche grazie a nuovi compagni di strada – ci permette di ipotizzare che Martha
Harris, quando insegnava, si collocasse su di esso. In questo senso pensiamo che
ella, di fatto, praticasse e insegnasse la psicoanalisi da un versante a-dualista,
cioè dal versante di chi non confonde una presunta “realtà in sé” con le
organizzazioni attraverso le quali la nostra coscienza l’assume (Chiozza, 2005). Ci
piace pensare che sia questa la ragione per la quale Martha e Romana, all’epoca,
non si siano tanto soffermate a disquisire su quegli equivoci dibattiti in merito
alla nascita della vita psichica; all’avvio della capacità simbolica; all’assenza o
presenza dello psichico; all’emancipazione dello psichico dal corporeo (cioè su
quando quelle due presunte dimensioni del reale si dissocerebbero). Si sono, per
5
contro, preoccupate di continuare a osservare, sempre, “dall’animico” e in tal
modo han trovato lo psichico in tutte quelle situazioni da cui era stato
frettolosamente cancellato perfino dagli stessi psicoanalisti (Brutti C., Parlani R.,
1990; Brutti C., Parlani Brutti R., 2003). Lo han trovato nei comportamenti del
feto, del neonato; nei cosiddetti “automatismi”; nelle reazioni istintive e negli
stessi istinti: in sintesi, in tutta quell’area consensualmente pre-definita come
“non psichica” ma “somatica in sé” (=senza senso). È in ragione di tutto ciò che i
testi di Martha e Romana ci appaiono rigorosi esempi di una ricerca
rivoluzionaria.
L’osservazione per la formazione: uso e abuso
Quanto all’osservazione per la formazione in psicoanalisi, Martha Harris
l’utilizzò come strategia specifica di apprendimento. In questa sede ci limiteremo
a considerare che, nei suoi commenti alle “osservazioni” di Romana Negri, non
cede mai alla tentazione di utilizzarle come supporto di formule psicoanalitiche (o
sociologiche)
psicoanalitica
pre-confezionate.
“selezionati
per
Ella
rifugge
eliminare
dall’uso
i
di
problemi
pezzi
della
fondamentali”
teoria
e
le
contraddizioni che l’osservazione può rivelare (Harris M., 1981). In tal modo ci
guida alla conquista di un’attitudine cognitiva tesa a rafforzare la capacità di
sottrarci agli errori di pensiero più diffusi. Ci mostra come evitare di sovrapporre
ingenuamente la nostra teoria cosciente ad una osservazione ritenuta “a-teorica”.
Ci fa capire che tale obiettivo può essere perseguito solo conoscendo a fondo la
teoria di riferimento e quindi consapevoli che essa è implicitamente in azione già
nel momento in cui crediamo di osservare solo un “dato”. Ci indica che uno
psicoanalista mai può dimenticare che quanto osserva è, sempre, la relazione in
atto fra lui e il paziente, così come si sta articolando in quel momento e che, per
comprenderla, deve scoprirne il senso non “fuori” di sé, ma – come già
sottolineato – nella propria interiorità.
Ci
siamo
soffermati
sull’osservazione
finalizzata
alla
formazione
in
psicoanalisi perché esprime un nostro interesse riattualizzato. Per molti anni,
infatti, anche noi abbiamo utilizzato l’osservazione per la formazione di
psicoterapeuti, operatori psichiatrici, educatori, assistenti sociali, terapisti della
riabilitazione, ecc.. Via via, però, ci siam resi conto che tale strumento, diventato
6
di moda, veniva spesso “pervertito” fino ad essere utilizzato, addirittura, per
etichettare una presunta nuova professione (quella dell’osservatore, appunto) che
autorizzava a “diagnosticare” quanto osservato (nelle scuole, in istituzioni per
l’infanzia, nel rapporto delle madri con i loro bambini)2 e consigliare modificazioni
di comportamenti e atteggiamenti giudicati erronei. Non ci soffermiamo a
descrivere i livelli di confusione che si raggiunsero, ma non possiamo non
ricordare che nel corso della nostra storia abbiamo spesso assistito anche al fatto
che training centrati sull’osservazione venissero presi come una specie di analisi
di gruppo, alternativi a quest’ultima. Sentimmo allora la necessità di prendere le
distanze da tali derive, ma lo abbiamo fatto solo dopo aver dato alle stampe un
nuovo volume dei Quaderni di psicoterapia infantile che intitolammo “Uso e abuso
dell’osservazione” (Brutti C., Parlani R., 1996).
Oggi questo rinnovato incontro con Martha Harris, e con chi sempre ha indicato
le grandi valenze dell’osservazione psicoanalitica3 senza abusarne, ci sollecita a
onorare il metodo e a riprenderlo con autenticità nelle nostre pratiche formative
per evitare che diventi copyright solo di chi lo usa male.
In questa rivisitazione del nostro incontro con Martha Harris, ci siamo
particolarmente soffermati su un testo – “L’individuo nel gruppo: apprendere a
lavorare con il metodo psicoanalitico” (Harris M., 1981) – che le chiedemmo trenta
anni fa. Allora condividemmo con lei e con Donald Meltzer il progetto ideale di
esportare il sapere psicoanalitico negli ambiti – terapeutici ed educativi – nei quali
ci trovavamo ad operare. In particolare, nei nuovi servizi psichiatrici che si
stavano sviluppando in Italia alla luce della c.d. “antipsichiatria”. Già allora
preconizzavamo che si dovesse sostituire la psichiatria che, per la sua scelta
fisicalista si configurava come una impropria terapia dell’anima, con la
2
Si venne a creare cioè un equivoco conseguente al fraintendimento dell’indicazione di metodo per la quale,
nell’infant-observation, l’osservatore non deve intervenire nella relazione in atto fra madre e bambino. La scissione fra
osservare e operare è finalizzata, nel metodo correttamente applicato, solo a sottrarre l’osservatore dalla responsabilità
di intervenire, per metterlo più a contatto con la responsabilità di riconoscere le proprie “reazioni interne”
nell’interazione con quanto sta osservando. La scissione suddetta quindi è temporanea e artificialmente stabilita da un
setting finalizzato a rendere sempre più cosciente l’allievo del modo in cui interagisce – in genere senza rendersene
conto – con quanto percepisce. Tende, inoltre, a fargli capire che non si è mai “neutrali” e che non si è mai al di fuori di
ciò che percepiamo. Tutto l’opposto dell’idea che l’osservatore possa capire qualcosa che riguarda esclusivamente la
relazione fra altri soggetti.
3
Già nel nostro omaggio a Martha Harris convocammo, nel 1989, alcuni di coloro che ne avevano seguito il pensiero a
dedicarle scritti sull’osservazione del bambino che pubblicammo nel volume da noi curato Osservazione e sviluppo del
bambino. Un omaggio a Martha Harris (Quaderni di Psicoterapia Infantile,18).
7
psicoterapia psicoanalitica. Abbiamo avuto modo di raccontare (Brutti C. e R.,
2010), che in quel periodo, settori della Neuropsichiatria Infantile e della
Pediatria, in Italia (si potrebbe dire in Europa), avendo colto il grande potenziale
del pensiero psicoanalitico, avevano cercato di alimentarne le proprie discipline (e
le rispettive prassi). Fenomeno importante anche se non esente da “confusioni
mimetiche”
e
appropriazioni
indebite.
Esso
ha
comunque
avuto
grandi
conseguenze per la Psicoanalisi perché ne ha favorito la diffusione e incrementato
il successo. Ma il prezzo che essa ha pagato in questa operazione di consenso è
stato una traduzione talora distorta, spesso un vero e proprio tradimento delle
sue scoperte.
Come si diventa psicoterapeuti: interroghiamo Martha Harris
Fu in quel contesto che Martha Harris e Donald Meltzer vennero in Italia
accettando di trasmettere il pensiero psicoanalitico sull’evoluzione del bambino
agli “operatori” per l’infanzia. Ogni tentativo di veicolare il sapere di una
disciplina ad altre può evitare la confusione solo se chi lo tenta continua a
interrogarsi sulla propria teoria e sui propri metodi; sulla differenza con le
discipline limitrofe; sulle modalità di trasmissione della dottrina; sul rapporto tra
istituzioni formative e allievi e, infine ma non ultimo, sul senso etico che sottende
queste operazioni. Temi sui quali non tutti sono disposti a soffermarsi e dialogare.
Questi interrogativi Martha Harris ha continuato a porseli (e a proporli anche alla
nostra coscienza) nel suo continuo dialogo con Donald Meltzer e Wilfred Bion. Ne
dà testimonianza lo scritto sopra ricordato con il quale entriamo, a nostra volta,
in dialogo. Oggi possiamo farlo a partire dall’esperienza che stiamo conducendo di
direzione e docenza nella Scuola di psicoterapia psicoanalitica dell’Istituto
Aberastury; un’esperienza che ci fa attualmente condividere quegli stessi
interrogativi che Martha Harris allora si poneva e noi ci riproponiamo oggi con
una nuova urgenza. Tentiamo qui di riformularli in modo sintetico anche a
rischio di farli apparire ingenui: che significa diventare psicoanalista? Come si
può garantire una buona “formazione”? La psicoterapia è una professione, un
mestiere che può essere appreso o è l’esplicitazione di doti innate? Può diventare
psicoterapeuta solo chi ha caratteristiche specifiche? E quali sarebbero:
accoglienza, sensibilità, desiderio di aiutare, capacità di immedesimarsi negli
altri, intuizione, intelligenza?
8
Tenteremo di dare alcune risposte a questi interrogativi deducendole da
Martha Harris. Ella mette in guardia dalla “tendenza a idealizzare l’attività di
psicoanalista o psicoterapeuta” (Harris M., 1981) sottolineando che la psicoanalisi
è una professione che richiede – potremmo dire come ogni lavoro – un
apprendimento continuo. Per questo le istituzioni formative devono mirare a far
maturare negli allievi un atteggiamento onesto, incoraggiandoli a rinunciare al
loro progetto se non si trovano nelle condizioni di affrontare e sostenere le
richieste del training. Richieste che per Martha (sulla scia di Bion) non sfidano
l’intelligenza dell’allievo perché “non è affatto necessario avere una intelligenza
fuori dal comune per essere psicoanalisti, ma […], bisogna essere in grado di
funzionare in condizioni di stress” (Harris M., 1981). Ne consegue che chi forma
non può né deve proteggere gli allievi da esperienze difficili e frustranti, né credere
di doverne alleviare l’inevitabile solitudine (Harris M., 1981).
Ci sembra, in sintesi, che Martha Harris ci guidi verso queste conclusioni:
 quella dello psicoanalista è una professione che va depurata da ogni
idealizzazione perchè ben sappiamo che l’idealizzazione rappresenta una
facile copertura di sentimenti di onnipotenza e un terreno di coltura di
quelle difese (maniacale-estorsiva-paranoidea) attraverso le quali si cerca di
evitare il contatto con la realtà;
 come ogni professione va “professata” (Chiozza L., 2007), cioè assunta tanto
da entrare nella struttura dell’identità personale. Questo processo richiede
che la persona assuma con onestà, autenticamente, ciò che va fatto.
Le parole “onestà” e “autenticità” – che ricorrono in tutto lo scritto di Martha
Harris – potrebbero far pensare ad un richiamo moralistico, ma evocano molto di
più: in esse (diremmo con Racker) è compendiato il senso della terapeutica
psicoanalitica, cioè della “scienza psicoanalitica”4 e, quindi, anche della sua etica5
(Racker E., 1961).
4
Oggi possiamo dire che la psicoanalisi è, a pieno titolo, “scienza” perché siamo consapevoli che questa parola va
sottratta all’uso riduttivo che ne ha fatto quel filone del sapere inquadrato come “scienza della natura” e incernierato
intorno all’equivoco principio di oggettività. Oggi la fisica quantistica, la biosemiotica, ecc. reclamano di diritto lo
statuto di scienza che, accanto ad esse, non può non essere riconosciuto anche alla psicoanalisi (che non ha bisogno di
tradire se stessa adattando, come alcuni vorrebbero, il proprio pensiero a principi e criteri ad esso alieni).
5
Racker scrive che l’etica della scienza è ricercare la verità e, coerentemente, la psicoanalisi, in quanto scienza, è la
ricerca della “verità di noi stessi”. Questo assunto rimanda al principio socratico (conosci te stesso) ma rivisitato alla
luce dell’importanza degli affetti nella creazione di sistemi di copertura per occultare quanto stiamo rimuovendo.
Troppo spesso si dimentica che il primo momento della rimozione è sempre cosciente e, quindi, che portarlo avanti
implica la costruzione di sistemi bugiardi e ipocriti che una terapia autenticamente psicoanalitica dovrebbe aiutarci a
smontare.
9
Tale richiamo si configura come la direzione di marcia di una terapia volta
a far diminuire le difese che sostengono attitudini regressive e irresponsabili. Non
evitare all’allievo il contatto con la frustrazione, guidarlo continuamente alla
ricerca della “verità” dei propri affetti e pensieri, diventano le linee-guida non solo
per la formazione degli analisti ma anche per la terapia e per l’educazione. Dal
sapere e dalla prassi psicoanalitici impariamo, così, che l’atteggiamento corretto è
quello di aiutare il paziente a confrontare desiderio e bisogni, in modo da
apprendere ad agire con efficacia in quella realtà che non sentirà più ostacolo al
piacere, ma il solo “luogo” in cui poterlo perseguire. In altri termini, è la “capacità
di fare il lutto” a venire rafforzata in una terapia che contrasti infantili attitudini
di possesso, sostenute costruendo mappe erronee e perfino immorali.
Un giorno lontano Donald Meltzer, parlando dell’esperienza che insieme a Martha
andava conducendo per il mondo, ci disse che lui era il seminatore e Martha la
coltivatrice. Nessun seme può dar frutto se non è accompagnato nel suo sviluppo
dall’attenzione e dalla pazienza del coltivatore. Martha continua questa sua
indispensabile missione. E noi continuiamo a provare stupore e gratitudine per
aver incontrato una persona così straordinaria.
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12
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