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Storia del trucco acconciatura e abbigliamento attraverso le opere d

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Storia del trucco acconciatura e abbigliamento attraverso le opere d
COMUNICARE CON L’ARTE
Dott.ssa Clara Chierici
Durata: 10/15 ORE
Modulo: Tecnica della comunicazione
Destinatari: Abilitazione professionale estetica - Abilitazione professionale
acconciatura - Qualifica biennale estetica
STORIA DEL TRUCCO E DEL COSTUME
ATTRAVERSO LA STORIA DELL’ARTE
Si può considerare ogni opera d’arte uno strumento per comunicare la metodologia utilizzata dalle
donne vissute nelle diverse epoche per abbellirsi.
Tali metodi sono definiti “trucchi” ovvero, espedienti per far risaltare il corpo a fini religiosi,
culturali o semplicemente secondo i canoni estetici del tempo, infatti i visi colorati, le acconciature
dei capelli, i tatuaggi sulla pelle, le orecchie forate, i gioielli e l'abbigliamento possono essere
interpretati come veri e propri messaggi.
Riassumendo le differenti accezioni utilizzate dai dizionari nella descrizione del significato della
parola “trucco”, tale termine è inteso con una doppia valenza: da un lato possiede un aspetto
coincidente con la cosmetica, da un punto di vista etimologico, però, si opera una differenza fra
trucco
e
cosmesi
vera
e
propria.
Cosmetica dal greco kosmetikòs, "atto ad abbellire", e questo da kosmèo, "adorno, io abbellisco",
che a sua volta deriva nientemeno che da kòsmos, "ordine" in opposizione al disordine del caos.
La cosmesi è dunque l'intuizione estetica col fine esclusivo di esaltare le qualità somatiche, la
freschezza e l'armonia del corpo. Il trucco, invece, è l'operazione estetica materiale con un
cosmetico decorativo che «cancella il volto come natura, per rivelarlo come artificio» (P. Magli,
"La maschera dell'idolo", in G. Butazzi e A. Mottola Molfino, La donna fatale, De Agostini, 1991).
Il truccarsi, perciò, implica una modificazione, anche se episodica e provvisoria, per mezzo di
cosmetici e altri espedienti. Infatti, se in primo luogo s’intende trucco le sostanze con cui si dipinge
il viso rendendo lo stesso più armonico e aggraziato, in secondo luogo si possono intendere trucchi
come quegli stratagemmi individuati dall’uomo stesso per rendere la figura più vicina ai canoni
estetici del tempo (es. corsetti, lacci, tacchi alle scarpe, acconciature particolari, colore della pelle
etc.).
I trucchi sono da sempre stati utilizzati per raggiungere un ideale di bellezza vigente in quell’epoca
storica e proprio per questo è logico pensare come possa essere stato differente il modo di servirsi di
trucchi o dell’abbigliamento da un secolo all’altro o allargando l’angolo di visuale, da una nazione
al’altra.
Privilegiare un tipo di trucco, un abito rispetto un altro, è strettamente legato al canone estetico, per
cui si ritiene fondamentale per prima cosa, indagare il canone estetico vigente nelle varie epoche
storiche per poi capire quali strattagemmi sono stati utilizzati per raggiungere tale scopo.
La linea guida per affrontare le due tematiche sarà quella del tempo con un vero e proprio viaggio
nella storia, partendo dalla preistoria, all’Antico Egitto, alla Grecia antica poi l’Antica Roma
proseguendo il viaggio con il Medioevo, il Rinascimento, l’Età Moderna e concludendo con l’Età
Contemporanea fino ai giorni nostri.
LA PREISTORIA
INQUADRAMENTO STORICO
La preistoria corrisponde a quel periodo lungo due millenni che parte dall’origine dell’uomo fino
alla comparsa delle più complesse forme di organizzazione sociale.
Comprende diverse epoche: Paleolitico e Mesolitico (presenza di cacciatori- raccoglitori), il
Neolitico (economia produttiva), Età del Rame (introduzione della metallurgia, maggiore
complessità nell’organizzazione sociale). Dopo di chè si entra nella protostoria (fase di passaggio
tra la preistoria, caratterizzata dall’assenza di fonti scritte, e la storia conosciuta grazie alle fonti
scritte) suddivisa a sua volta in Bronzo Antico, Medio, Recente e Finale (introduzione di questo
metallo e produzioni di armi e gioielli in bronzo) ed Età del Ferro (introduzione del Ferro e
realizzazione di armi in ferro).
CANONE ESTETICO
Enfatizzazione di alcune arti del corpo collegate alla gravidanza, esaltazione della donna come
madre.
La “Venere di Willendorf” (Fig.1), rinvenuta in Austria e conservata nel Museo di storia naturale di
Vienna databile tra 40.000 e il 15.000 a.C. così come anche la “Statuina di Venere” (Fig.2)
rinvenuta a Dolni Vestonice, sono la riproduzione di donne con braccia appena accennate, nel caso
della Venere di Willendorf raccolte sopra al seno, e totale assenza del viso e dei piedi mentre
particolarmente evidenziati sono il seno, i glutei e il ventre.
Fig. 1 Venere di Willendorf - vista frontale; semi - laterale, posteriore-
In queste “veneri” l’accentuazione degli attributi femminili più
appariscenti ha un significato simbolico e magico: è esaltazione
della donna come madre, come creatrice di un nuovo essere umano
destinato a perpetuare la specie in un’epoca dove la civiltà viveva in
condizioni molto difficili.
Fig.2 Statuina di Venere, da Dolni Vestonice.
PRESENZA DEL TRUCCO E DELL’ABBIGLIAMENTO
Un gruppo di archeologi guidati da João Zilhão dell'Università di Bristol, hanno rinvenuto in due
siti archeologici della Muncia in Spagna, frequentati dall’uomo di Neanderthal, conchiglie forate e
utilizzate come monile datate 50 mila anni fa, precedenti all’arrivo dell’uomo anatomicamente
moderno nel nostro continente, e colori naturali che indicano come l’uomo di Neanderthal avesse
capacità cognitive avanzate che gli permetteva una consapevolezza di sé.
Tra i colori naturali si attesta l’uso del giallo, rosso, viola e nero, ottenuti dai minerali in varie
tonalità cromatiche, venivano impastati applicati sul corpo in occasione di cerimonie religiose o
semplicemente come elemento che caratterizzava la tribù stessa.
Non abbiamo informazioni archeologiche riguardo la presenza del make-up esclusivo per il viso
ma tracce di minerale natrojarosite, di colore giallo, il medesimo elemento che gli egizi usavano
come ombretto in epoche più recenti.
L’abito nasce nelle epoche primitive con la primaria funzione di difendere l’uomo dagli agenti
atmosferici ma anche da colpi e ferite.
L’uomo inizia a coprire il corpo nel paleolitico, 8500 anni fa utilizzando le pellicce degli animali
cacciati.
In un secondo tempo accanto ad una migliore coscienza di sé e una
sempre maggiore complessità sociale, compaiono tecniche di
conceria, che permettevano di cucire le pelli con aghi ricavati dalle
zanne dei mammut.
Scavi moderni nelle necropoli datate tra l’età del Bronzo e del ferro
hanno portato alla luce strumenti in ceramica quali fusaiole e
rocchetti, utilizzati per la filatura e la tessitura, oltre che in metallo
quali spilloni e fibule, considerabili chiari indicatori della presenza
dell’abbigliamento.
Fig.3 Ricostruzione dell’abito della
defunta della Tomba 29, Necropoli
Località Fontanelle (Salerno).
L’ANTICO EGITTO
INQUADRAMENTO STORICO
Con Antico Egitto si intende la civiltà sviluppatasi in quella sottile striscia di terra paludosa fertile
che si distende lungo le rive del Nilo a partire dalle sue cateratte al confine col Sudan fino allo
sbocco nel Mediterraneo e suddiviso in quattro grandi fasi: l'epoca arcaica o protodinastica (31602705 a.C.), l'Antico Regno (2705-2035 a.C.), il Medio Regno (2035-1550 a.C.) e il Nuovo Regno
(1552-1070 a.C.) più altri periodi più corti (periodo Tanita, Libico, Kushita, Saitico, Epoca Tarda,
1070- 332 a.C.) nelle quali si sono succedute XXXI Dinastie.
Politicamente l’Egitto era uno stato al cui potere c’era il faraone.
CANONE ESTETICO
L’arte nel senso attuale del termine non esisteva nell’Antico Egitto, e se era presente una
conoscenza dell’arte, questa non andava oltre i confini della sua esperienza religiosa, gli egizi
usavano l’arte figurativa, al pari della scrittura, per la comunicazione e la propaganda politica.
L’Egitto era profondamente influenzato dalla magia, da una fede nell’esistenza di forze trascendenti
invisibili e onnipotenti che occorreva propiziarsi per assicurarsene l’aiuto e il faraone rappresentava
il tramite per raggiungere queste forze.
Accanto al politeismo (centralità del faraone) era viva nel popolo anche la concezione di un grande
dio unico, con cui si identificava il dio sole RA.
I canoni estetici relativi alla struttura fisica non sono rigidi, tuttavia le rappresentazioni giunte fino a
noi mostrano figure snelle e con membra minute, ma non emaciate, in cui le tipiche curve femminili
sono ben disegnate, non a caso siamo ancora in una società nella quale il ruolo prevalente della
donna è quello di procreatrice.
IL TRUCCO
Nell’Antico Egitto i sacerdoti confezionavano unguenti a base di timo, origano, mirra, incenso,
lavanda, oli di sesamo, di oliva e di mandorle. Questi prodotti, usati soprattutto per la
mummificazione dei corpi dei defunti, erano impiegati anche per massaggiare il corpo dei vivi dopo
il bagno, per preservarlo dagli sgradevoli effetti della sudorazione. Così, all'aspetto culturale si
accompagna anche quello profano: accanto ai prodotti per il tempio, si diffonde l'uso dei cosmetici
anche per la vita quotidiana sia per le classi più abbienti, ché per gli artigiani e gli operai.
Il papiro Ebers (ca. 1550 a.C.) riporta, tra le altre cose, la prima ricetta di cosmetico: in essa si parla
di
vari
profumi
impastati
con
polvere
di
corno
e
sangue
di
lucertola.
Per gli antichi Egizi la bellezza era importante quanto la salute pertanto, i cosmetici fungevano
anche
da
medicinali.
Il famoso trucco applicato al contorno degli occhi con galena nera (un solfuro di piombo di colore
grigio scuro) o malachite verde (un minerale color verde-smeraldo) aveva il triplice scopo di
abbellire, proteggere e curare: il sole e l'aria di quei luoghi causavano riverberi intensi e la finissima
sabbia dava fortissime irritazioni oculari. Il trucco con galena nera o malachite verde assicurava agli
antichi Egizi la cura del tracoma (un'infezione virale dell'occhio), dell'emeralopia (ovvero la
riduzione della vista durante il crepuscolo) o la più comune congiuntivite. Alle finissime polveri di
queste sostanze venivano aggiunti grassi animali, cera d'api o resine, che rendevano il prodotto in
grado di essere spalmato e garantivano sia l'attività terapeutica ché quella cosmetica (Fig. 4).
Fig. 4 Effigie in calcare dipinto della regina Nefertiti, Amarna, 1344 a.C. circa.
Non a caso, nei papiri questa usanza è indicata col termine mesdemet, che significa "che fa parlare
gli
occhi".
Almeno fino all'Antico Regno (2705-2250 a.C.) il trucco non variava secondo il sesso (più tardi
inizierà la distinzione nei colori per maschi e femmine). Le statue in pietra calcarea dipinta di
Rahotep e della moglie Nofret datate al 2630 ca. rinvenuta in una tomba a Meydum lo confermano:
entrambe hanno gli occhi sottolineati da un tratto di malachite verde, con una spessa riga sulla
palpebra inferiore (Figg.5, 6, 7).
Fig.5, Statue in pietra calcarea dipinta di Rahotep e di sua moglie Nofret, Meydum, 2630 ca.
Fig. 6 Particolare di Nofret
Fig7 Particolare di Rahotep
Da fonti scritte sappiamo come gli Egizi importassero dall'Oriente oli essenziali e minerali utili alla
produzione di unguenti e profumi già nel 3500 a.C.
L'uso più importante di olii aromatici e di essenze avveniva nella mummificazione: la credenza
tradizionale che il corpo si fosse dovuto conservare per poter rivivere dopo la morte portò allo
sviluppo di metodi di imbalsamazione tra l'inizio del periodo dinastico e l'era Cristiana.
Pratica perfezionata solamente con l’11° dinastia (2000 AC).
I corpi venivano rapidamente essiccati con natron anidro, un sale naturale composto da carbonato
di sodio e cloruro o solfato di sodio, quindi la superficie della pelle veniva rivestita con resine
aromatiche ed il corpo era avvolto in un telo di lino. Non era praticata nessuna eviscerazione, ma
un'oleoresina simile alla trementina era iniettata nell'ano per sciogliere gli organi. Un grado di
conservazione ancora migliore fu ottenuto nel Nuovo Regno (1570-1070 AC), quando gli organi
interni venivano eviscerati e posti in natron, trattati con resina bollente, avvolti in bende e collocati
in quattro distinte giare. La cavità lasciata nel corpo veniva lavata con vino di palma e spezie e
riempita con un materiale provvisorio, quindi l'intero corpo posto in natron per 40 giorni, trascorsi i
quali veniva lavato nelle acque del Nilo.
Era solito riempire il cranio con bende di lino imbevute di resine e la cavità del corpo con sacchi di
lino contenenti mirra e imbevuti di resina. Poi, la superficie esterna del corpo veniva cosparsa da
una miscela di olio di cedro, cera e gomme e spezie. Infine, dopo aver riempito il naso e le orbite
degli occhi con panni di lino, l'intero corpo veniva rivestito da una resina fusa per chiudere i pori. Il
processo di imbalsamazione era probabilmente terminato entro il 52° giorno successivo alla morte.
Nel 1973 le resine prelevate dalla mummia di Ramsete V furono analizzate e si scoprì che erano
composte da olio di ginepro, olio di canfora e la gommo-resina mirra.
L'imbalsamazione continuò attraverso l'epoca dei Romani fino all'era Cristiana, quando cadde in
disuso, insieme alla pratica di bruciare l'incenso, in quanto considerata una pratica Pagana.
L'uso di questi unguenti fu poi adottato anche da altri popoli del Mediterraneo, dapprima nell'area
medio-orientale,
poi
in
quella
europea.
ABBIGLIAMENTO
Nell'Antico Regno gli uomini usavano un perizoma oppure un gonnellino dall'estremità sovrapposte
(Fig. 8, 9) che durante le dinastie del Medio Regno si trasformò allungandosi fino alle caviglie
caratterizzato da pieghe e trasparenze. Il torace era coperto con una stola di tessuto: molto usato era
il colore bianco e il tessuto di lino mentre la lana non era gradita per motivi religiosi, in quanto la
pecora come animale vivo era considerato impuro.
I nobili usavano adornarsi con gioielli e usavano sandali in papiro o legno di palma con lacci di
cuoio. Le donne usavano tuniche aderenti lunghe con una o due bretelle (Fig. 10). Successivamente
divennero ornate di complessi disegni e colorate ma la maggior caratteristica fu l'impiego del
sottilissimo trasparente lino, chiamato bisso, e delle cinture. Sempre durante il Medio Regno si
incrementò l'uso di gonne lunghe e di stoffa a pieghe sul busto lasciando le braccia scoperte.
Fig.8, Statua a copia in scisto,raffigurante
Micerino e la regina Khamerernebty II, Giza;
Fig.9, Statuetta in alabastro di re Pepi I
inginocchiato in atto di offrire libatori, 2380 a.C. ca.
2530 a.C. ca.
Fu proprio durante il Medio Regno che l'abito, divenuto più complesso acquisiva svariate fogge atte
ad individuare la classe sociale di appartenenza come si evidenzia nelle immagini funebri (Fig. 10).
Fig.10, Moglie e marito con un fiore, Tomba di Nacht.
Entrambi usavano nelle cerimonie un cono profumato sulla testa e le donne si ornano con un fiore
di loto. Anche il sovrano portava sia il gonnellino che la gonna lunga ma di suo uso esclusivo era il
copricapo nemes (Fig. 11 - 12).
Fig. 11 Statua in scisto di re Thutmosi III
indossante la nemes e la gonna shendyt ,
Fig.12, Parte superiore di un colosso in
arenaria di Amenofi IV, 1356 a.C, ca.
Karnak, 1460 a.C
Poteva portare pettorali in oro con pietre e smalti, la corona e lo scettro. La testa era rasata e spesso
coperta con copricapo di cuoio. Il popolo si abbigliava in maniera diversa dai nobili, sia per motivi
economici che pratici: semplici calzoni, gonnellini, quando addirittura non lavorassero nudi, sia
uomini che donne (Fig. 13).
Fig.13, Pittura parietale della tomba di Nebamun nella Tebe occidentale, con scena di musicisti che intrattengono ospiti
ad un banchetto, 1356 a.C, ca.
PETTINATURE E ACCONCIATURE
Dall’arte egiziana si nota come gli egizi fossero attenti al modo di acconciare la capigliatura: i
bambini portavano i capelli molto corti o rasati con l'eccezione di una parte che veniva raccolta in
un ciuffo per poi farlo ricadere sulla spalla destra tagliato poi all'età di dieci anni, quando
diventavano adulti mentre le bambine portavano semplicemente i capelli corti.
Gli alti dignitari avevano piccoli ricci che coprivano le orecchie formando una curva dalle tempie
alla nuca (Fig. 7).
Le donne portavano inizialmente i capelli molto corti, poi le acconciature si allungarono sempre di
più (Fig.6). I sacerdoti avevano l'obbligo di radersi completamente testa e corpo: un segno di
purificazione necessaria per l'accesso ai sacri templi (Fig. 14).
Fig. 14 Sacerdote
Fig. 15 Osorkon I
A partire dalla V dinastia si diffuse l'utilizzo di parrucche semplici soprattutto tra i dignitari e le loro
famiglie. Erano composte da sottili treccine di capelli veri, raccolte utilizzando spilloni di vario
materiale come legno, osso o avorio, oppure formate da fibre vegetali arricchendo poi ornamenti,
considerati al tempo, espressione del rango sociale di appartenenza (Fig. 15).
LA GRECIA ANTICA
INQUADRAMENTO GENERALE
La Grecia, pur essendo una nazione, non divenne mai uno stato, e si organizzò secondo una visione
municipalistica (le polis), che garantiva una più diretta partecipazione alla vita politica delle classi
sia aristocratiche sia borghesi. Tale libertà si rifletté significativamente nella produzione artistica
infatti, se all’artista viene riconosciuta la libertà, esso può variare la propria visione dell’arte, e, di
conseguenza, può raggiungere obiettivi diversi, e migliori, rispetto agli artisti delle generazioni
precedenti. Al contrario, se il clima politico non è basato sul principio delle libertà individuali,
appare evidente che anche l’artista non gode di quel fervore di ricerca e perfezione individuale, che,
da sempre, rappresenta una motivazione fondamentale per i progressi dell’arte.
La nostra conoscenza dell’arte greca è decisamente parziale, dato che molta produzione artistica è
totalmente scomparsa e noi ne abbiamo una vaga conoscenza solo attraverso le fonti.
Del tutto ignota è ad esempio la pittura: le fonti storiche ci parlano di famosi pittori le cui opere
erano oggetto di grande ammirazione al loro tempo. È da considerare che la pittura, sia quella
pratica su muro sia quella mobile su supporti lignei, è molto più fragile rispetto ad altre opere
d’arte: una statua può anche sopravvivere millenni sotto terra o in fondo al mare, ma non può certo
conservarsi in analoga situazione un dipinto o un affresco.
Le uniche testimonianze pittoriche che ci sono giunte dall’antichità sono frutto sempre di casi
eccezionali: o si tratta di dipinti realizzati in tombe o sono il frutto di eventi straordinari, quali i casi
di Pompei ed Ercolano, la cui particolare sorte, legata all’eruzione del Vesuvio, ci ha consegnato
affreschi e mosaici che in condizioni normali sarebbero stati anch’essi distrutti.
Un discorso diverso si può fare per la produzione scultorea:
anch’essa è andata in gran parte perduta ma, pur non avendo più molti originali, le opere greche ci
sono note grazie alle numerosissime copie di epoca romana. Da esse, pur con le dovute
considerazioni che trattasi pur sempre di copie, è stato possibile ricostruire il percorso storico e
l’evoluzione stilistica dell’arte plastica greca.
In sintesi, possiamo suddividere l’arte greca in tre periodi fondamentali:
1. periodo di formazione
2. periodo di maturazione
3. periodo di diffusione.
1. Il periodo di formazione va dal 1100 al 650 circa a.C. In questa fase si assiste ad una produzione
artistica ancora legata a schemi rudimentali, dove predomina una stilizzazione geometrica di fondo,
memore ancora della produzione che in queste zone avvenne in età neolitica e del bronzo, e che va
sotto il nome di arte cicladica, una ulteriore partizione di questo periodo può essere sinteticamente
fatta tra due periodi principali:
il periodo geometrico (XI-VIII sec. a.C.): in cui predomina uno stile astratto e decorativo, ottenuto
con motivi geometrici. Anche la figura, sia umana che animale, venne resa con una
geometrizzazione costruttiva, che tendeva a rendere le varie parti di un corpo a figure elementari
quali il triangolo, il trapezio, il cono, il cilindro, la sfera, eccetera.
Questa stilizzazione e geometrizzazione, permane nella produzione greca di fatto fino al VII secolo
circa, quando la statuaria greca comincia per la prima volta a
cimentarsi nella produzione monumentale e non più nella limitata
produzione di idoletti di ridotte dimensioni. È il periodo in cui la
cultura greca guarda ad oriente, ispirandosi a modelli egiziani e
babilonesi. Ciò le permette di superare il suo orizzonte, fino a quel
momento di limite provinciale, per avviarsi a quella radicale
evoluzione che la porta ad essere il nuovo baricentro della
produzione artistica del Mediterraneo.
il periodo orientale (prima metà del VII sec. a.C.): in questo
periodo, sotto l’influenza delle grandi culture orientali, si iniziò a
produrre la grande statuaria e l’architettura monumentale dei templi.
Nella figura eretta prevale la posizione stante di evidente
derivazione egiziana (Fig. 16).
Fig.16 Kouros monumentale, intorno
al 600 a.C.
2. Il periodo della maturazione, (dal 650 al 330 circa a.C.) vide l’arte greca raggiungere le alte
vette di una espressione artistica piena e matura, e che resterà insuperata in tutto il mondo antico. In
base all’evoluzione stilistica, questo periodo, di eccezionale fioritura, può essere suddiviso nei
seguenti periodi:
il periodo arcaico (650-480 a.C.): è il periodo in cui iniziò a mostrarsi l’autonomia del gusto greco,
nel momento in cui le influenze orientaleggianti erano pienamente superate. Di questo periodo sono
soprattutto le statue dei kouroi e delle kore, fanciulli di ambo i sessi che rappresentano
probabilmente portatori di offerte alle divinità. La produzione si orienta secondo tre stili
fondamentali: il dorico, lo ionico e l’attico. Il primo, che si sviluppa nell’area occidentale della
Grecia, si orienta ad una forma massiccia e di grande impatto volumetrico; lo stile ionico assunse
invece caratteristiche più slanciate e raffinate; lo stile attico, che si sviluppò ovviamente ad Atene,
rappresenta una sintesi di volumetrie doriche e raffinatezze estetiche ioniche (Fig. 17, 18, 19).
Fig.17 Kore del peplo, 540 a.C.
Atene, Museo dell’acropoli.
Fig.18 Kore VI sec. a.C.
Fig.19 Kouros di Melos, VI sec.
a.C., Atene, Museo dell’acropoli.
il periodo severo (480-450 a.C.): fase di transizione dal periodo arcaico a quello classico, in cui
emergono le grandi figure di scultori quali Mirone, ed inizia la grande statuaria in bronzo. Periodo
definito “severo” per una caratteristica singolare: le statue smettono di sorridere. In pratica nelle
statue realizzate fino al 480 a.C. nei volti delle statue gli scultori cercavano di evidenziare la forma
plastica della bocca tirando in fuori le labbra e accentuando le fossette al loro punto di
congiunzione. In questo modo le statue avevano inevitabilmente un aspetto sorridente. Quando
infine si decise di abbandonare questa tecnica del modellare le bocche, le statue smisero di
sorridere. In realtà il periodo severo fu importante nell’evoluzione della statuaria greca non per
questo particolare, ma perché in questa fase inizia quella grande ricerca che portò al periodo
classico. È il periodo di Mirone che introduce nuove forme e tecniche di rappresentazione, quali la
ricerca del movimento. È anche il periodo in cui gli artisti greci iniziano la produzione delle
sculture in bronzo secondo la tecnica della fusione a cera persa (Fig.20, 21).
Fig.20 Discobolo di Mirone, 460 a.C. ca.
Fig.21 Efebo, 480 a.C.
il periodo classico (450-400 a.C.): coincide con l’età di Pericle, con la realizzazione sull’acropoli di
Atene del Partenone e con l’attività di grandi scultori quali Fidia (Fig.23) e Policleto. È il momento
di maggior equilibrio estetico dell’arte greca, ed è quello che è stato sempre considerato di maggior
perfezione. Con loro si raggiunse in pratica quell’equilibrio della rappresentazione che sembra il
coronamento del sogno greco: ottenere il pieno controllo della rappresentazione plastica. Policleto
fu inoltre l’inventore di importanti norme che saranno di fondamento per tutta la statuaria
posteriore: la posizione a chiasmo (che sostituisce finalmente la rigida simmetria della posizione
stante) e la regola del canone, utile per il proporzionamento della statue che raffigurano figure
umane (Fig.22).
Fig.22 Ricostruzione del Doriforo di Policleto, 450 a.C.
Fig. 23 Fidia, Hestia, Dione ed Afrodite, ala destra del frontone est del partenone, 445- 450 a.C, Atene
il periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.): è il periodo in cui si assiste ad una svolta
significativa nella statuaria greca, alla progressiva ricerca di un espressionismo maggiore meno
legato alla pura forma estetica. È il periodo di grandi artisti quali Skopas, Prassitele e Lisippo
(Fig.24- 25- 26). Ed è anche il periodo in cui un nuovo senso di decadenza sembra incrinare la
eroica perfezione dei modelli classici. Si assiste in pratica ad una nuova ricerca in cui alla
perfezione formale si coniuga la introspezione psicologica, elemento finora assente nella statuaria
greca.
Fig.24 Afrodite Cnidia di Prassitele.
Fig. 25 Photos di Skopas.
Fig. 26 Apoxyomenos di Lisippo.
3. il periodo della diffusione (323 - 31 a.C.): è la fase in cui l’arte greca non è più lo stile nazionale
di alcune città greche e delle loro colonie, ma diviene uno stile internazionale, diffuso in tutta l’area
del Mediterraneo ed oltre.
A questo periodo si dà, di solito, il nome di arte ellenistica. Esso va convenzionalmente dalla morte
di Alessandro alla battaglia di Azio, quando i romani divennero i padroni assoluti di tutte le
principali aree in produzione ellenistica. La vita della polis è superata in quella più vasta degli stati
e l’arte è chiamata a celebrare gli ideali religiosi, celebrativi dei vari re e principi.
CANONE ESTETICO
L’arte greca si lega indissolubilmente con il concetto di classico. Al termine classico, più che
l’individuazione cronologica di un periodo storico preciso, va richiesto il contenuto estetico di una
particolare visione dell’arte. Il classico, possiamo dire, si lega al concetto di perfezione assoluta. È
classica un’arte non derivata da un gusto individuale e soggettivo, ma ispirata a valori universali ed
eterni.
L’arte greca arrivò ad un simile risultato durante la fase detta «periodo geometrico» nella quale si
affermò una nuova visione del manufatto artistico, in cui prevaleva la volontà di affidarsi alla
matematica e alla geometria. Lo spirito matematico, pur quando si esaurì tale fase, rimase una
costante della visione artistica greca, anche nei periodi successivi.
Vi era, in questo atteggiamento, le premesse per lo sviluppo del razionalismo greco.
In questa fase, la produzione artistica, ridotta a sperimentazioni geometriche, finì per produrre
oggetti e rappresentazioni del tutto antinaturalistiche, in cui prevaleva una schematizzazione
geometrica di tipo quasi astratto.
L’inversione di tendenza avvenne nel cosiddetto «periodo orientale», quando l’arte greca venne a
spostarsi sul piano del confronto con le arti orientali, arti in cui prevaleva la rappresentazione
volumetrica e la produzione della grande statuaria. L’arte greca iniziò a convertirsi al naturalismo,
ma senza perdere il suo essenziale spirito matematico.
Uno dei concetti guida del naturalismo greco è la proporzione. Gli artisti greci non si limitano ad
osservare il corpo umano. Lo misurano, per individuare i rapporti numerici, che esistono tra una
parte e l’altra, e tra le singole parti e il tutto. Arrivarono così a definire che, in un corpo perfetto ed
armonico, la testa, ad esempio deve essere l’ottava parte dell’altezza.
Dopo di che, la statua, indipendentemente dalla sua dimensione, risulterà proporzionata, se rispetta
il medesimo rapporto. Ossia:
rapporti della rappresentazione = rapporti della realtà
L’arte greca classica cerca di rappresentare la realtà, depurata da qualsiasi forma di soggettivismo
sia percettivo sia interpretativo. Giunge così nella statuaria, a risultati che, sul piano della fedeltà
anatomica, non ha eguali.
Il concetto di proporzione fu alla base dell’istituzione del canone di Policleto, ma fu anche alla base
degli ordini architettonici. Canone ed ordini divennero, quindi, strumenti normativi che fissavano le
leggi e gli ambiti in cui poteva muoversi la creatività artistica. Essi contribuirono molto a definire
l’omogeneità stilistica dell’arte greca, pur restando un astratto strumento matematico.
Ma il concetto di classico va oltre: l’artista greco non vuole rappresentare l’individuo ma l’uomo,
ossia il limite perfetto a cui può giungere la forma umana. E a ciò, giunge per approssimazioni
successive: sceglie le parti migliori, che riesce ad individuare nei singoli individui, e le assembla.
Un simile atteggiamento portò alla formulazione del mito, come racconto archetipo, in cui non
importa la verità ma la verosimiglianza, dove ciò che conta non è il ricordo di un fatto particolare,
ma l’espressione di un significato universale. La rappresentazione dell’uomo ideale, non è altro che
una ricerca del mito.
Ma, oltre che forma, il corpo umano è anche movimento. Può modificare il proprio aspetto in base
alla posa, all’espressione del viso, ai gesti che compie. Ed anche qui, il classico è tale perché ricerca
il momento di maggior armonia formale. Quell’istante, che prende il nome di momento pregnante,
di grande concentrazione interiore, o di assenza di emozioni, che rendono eterno un singolo istante.
Proporzione ed armonia: queste sono le due ricette principali dell’arte classica. E da allora, nel
successivo sviluppo dell’arte occidentale, sono divenute le caratteristiche di qualsiasi «classico».
IL TRUCCO
Il cosmetico più diffuso nell'antica Grecia era indubbiamente la biacca (pigmento inorganico
costituito da carbonato basico di piombo) che dava alla pelle un colore bianco, copriva i leggeri
inestetismi e uniformava la colorazione della pelle. Per dare colore si usava invece il rosso del
minio (ossido di piombo di colore arancione), oppure quello che si otteneva da una pianta, l'anchusa
tinctoria, o dal phukos (un'alga marina) applicato sulle labbra e sulle guance con un pennello,
mentre su ciglia e sopracciglia si passava un leggero strato di polvere nera di antimonio (Fig. 27,
28).
L'uso di questi belletti era tuttavia vietato durante il lutto e le cerimonie legate ai misteri di
Demetra. Nell'antica Grecia la cura del corpo era soprattutto l'arte dell'unzione e dei massaggi, che
diventavano talmente raffinati da individuare, per ogni parte del corpo, unguenti diversi: lavanda
per il corpo e rosa per il viso.
Fig. 27, Pittura pompeiana dalla Casa
dei Dioscuri, rielaborazione da un originale
di Nikias, seconda metà del IV sec. a.C.,
Napoli.
Fig. 28, Pittura pompeiana dalla Casa dei Casti
Amanti, seconda metà del IV sec. a.C.,
Napoli.
I Greci adoravano i profumi. Teofrasto fu probabilmente il primo scrittore greco a trattare della
profumeria: il suo lavoro principale era sulla Botanica, mentre le sue opere minori riguardavano la
profumeria dove per esempio, definisce il profumo composto (distinto cioè dal profumo di fiore)
come un profumo artificialmente e deliberatamente prodotto. Egli descrisse anche le materie prime
impiegate nella preparazione dei profumi.
ABBIGLIAMENTO
L'abbigliamento dell'antica Grecia era generalmente di carattere molto semplice, spesso costituito
da un unico rettangolo di stoffa, non cucito, ma drappeggiato intorno al corpo, con stili pressoché
identici sia nell'abbigliamento maschile che in quello femminile (chitone). L'unico capo a fare parte
unicamente del guardaroba femminile era il peplo. Tale moda rimase praticamente invariata nel
corso degli anni, in cui cambiarono soltanto i tessuti ed i materiali utilizzati ed il modo in cui essi
venivano indossati, a seconda del quale era possibile distinguere il diverso ceto sociale
dell'indossatore.
ABBIGLIAMENTO MASCHILE
L'abito nazionale degli uomini greci era il chitone, lunga tunica, cucita su un lato e fermata sulle
spalle da bottoni, o da una cucitura, e molto simile al suo corrispettivo femminile (Fig.29).
Nel corso degli anni il chitone fu relegato ad abito per le circostanze formali e le cerimonie solenni,
e sostituito a partire dal V secolo dal più pratico chitoniskos, lungo sino alle ginocchia e fermata in
vita da una cintura. Gli schiavi invece ne indossavano una versione meno pregiata, e fissata su una
sola spalla, in modo permettere loro maggiore comodità nel lavoro. La versione destinata ai bambini
invece era lasciata libera senza cintura, così come quella indossata dai soldati al di sotto delle
corazze. Materiale maggiormente diffuso era la lana, e soltanto in rare occasioni il lino. Il chitone
corto (fino alle ginocchia), a differenza del chitone podères, è il vestito di tutti i giorni indossato da
quanti (cacciatori, soldati, eroi impegnati nelle loro quotidiane fatiche, servi, artigiani), costretti a
far movimento, abbisognano di una veste che non ostacoli la loro attività (Fig. 30)
Fig. 29, Auriga di Delfi, chitone ionico.
Fig.30, Ceramica attica, raffigurazione
di soldati, chitone.
L'himation era il mantello utilizzato tanto dagli uomini quanto dalle donne, indossato al di sopra
della tunica, semplicemente appoggiato sulla spalla e fatto ricadere sul fianco. Poteva
eventualmente anche essere ripiegato a quadrata ed appoggiato sulla spalla, oppure portato
appoggiato da una spalla all'altra, privo di cuciture o spille. In ogni caso, i modi in cui l'himation
poteva essere drappeggiato erano innumerevoli, e spesso indicativi della posizione sociale e della
professione di chi lo indossava (Fig.31, 32, 33).
Fig. 31 Himation portato da solo.
Fig. 32 Demostene con l’himation
Fig. 33 Himation
Il tribonio di provenienza spartana era un mantello più ruvido e più grezzo, che lasciava scoperte le
gambe, e fu adottato come divisa distintiva dei filosofi.
La clamide (o anche claina) era un corto mantello di tessuto leggero, di utilizzo prettamente
militare, che veniva fissato sulle spalle o intorno alla gola da un fermaglio. L'utilizzo della clamide
si diffuse anche fra i Romani e i goti e rimase in uso sino al 300 d.C. La chlamys era un mantello da
equitazione (e da viaggio) e come tale era comunemente indossato dai ragazzi nell’età dell’efebìa
(un periodo di formazione militare della durata di tre anni, collocabile dai diciotto ai vent’anni). La
chlamys compare spesso in combinazione col pètasos, un cappello a larghe tese frequentemente
calzato dai viaggiatori, attributo, tra l’altro, del messaggero degli dèi Hermés (Fig. 32).
Fig. 32 Apollo del Belvedere, seconda metà II sec. a.C. con clamide.
ABBIGLIAMENTO FEMMINILE
Abito nazionale delle donne greche era invece il peplo, rettangolo di stoffa (generalmente lana) che
veniva drappeggiato intorno al corpo sino a formare una sorta di tunica, che lasciava le braccia
scoperte, e veniva fermato in vita da una sorta di cintura. Comunemente il peplo veniva rimboccato
al di sopra della cintura, creando un effetto simile a quello di una moderna blusa. L'utilizzo del
peplo come vestito unico è attestato sino alla seconda metà del VI secolo, quando fu sostituito dal
chitone, ed il peplo divenne una specie di mantello o come camicia da notte o abito casalingo. Il
peplo tuttavia fu continuato ad essere usato come abito unico dalle donne spartane. I colori più
diffusi di tale abito erano quelli naturali come il bianco o lo zafferano (Fig. 33, 34, 35).
Fig. 33, Peplo.
Fig. 34, Realizzazione di un peplo.
Fig. 35, Nike di Samotracia, peplo.
Fig. 36, Zeus ed Era alle nozze, lato B
del cratere Francois, peplo.
Il chitone, di origini ioniche, era costituito da due teli rettangolari sovrapposti e cuciti insieme sui
lati. L'abito veniva fermato in vita da un cordone o una cintura, e fissato sulle spalle, inizialmente
da spille fibule, ed in seguito da vere e proprie cuciture. Dal chitone ionico era possibile, tramite
spille appuntate nella parte superiore dell'abito, ricavare anche delle maniche, ed era generalmente
lungo sino ai piedi, a differenza del chitone dorico, che invece poteva essere anche più corto, ed era
cucito soltanto su un lato. Il chitone era sempre vestito insieme ad un mantello, che poteva essere o
il peplo o l'himation (Fig. 37, 38).
Fig. 37 Chitone.
Fig. 38 Realizzazione di un chitone.
L'himation era un mantello comune ad entrambi i sessi, al punto che lo stesso mantello poteva
essere indossato indifferentemente dalla moglie o dal marito. Col tempo l'himation femminile
assunse qualche differenza, ottenuta da qualche maggiore decorazione, o con bordi frangiati.
Poteva essere indossato intorno alla testa, oppure fatto passare da sotto l'ascella alla spalla opposta.
Pochissime notizie sono giunte relative all'utilizzo di biancheria intima nella Grecia antica. Si sa per
certo che le donne utilizzassero una fascia di tessuto a mo' di reggiseno, chiamata stròphion. Alcune
fonti riportano che spesso esso è indicato anche con i nomi di tainìa o di mìtra, molto
probabilmente a seconda della forma e della grandezza dell'indumento (Fig. 39).
Fig. 39, Himatio.
CALZATURE
In linea generale si possono distinguere due tipi di calzature: “stivaletti” in pelle di diversa altezza
che, comunque, fasciano e chiudono interamente il piede (embàdes, endromìdes, kòthornoi) e
sandali (krepìdai e blàutai) (Fig. 40,
Per quanto riguarda gli embàdes, termine generico che “descrive” una calzatura nella quale il piede
letteralmente “entra” (embàino significa entrare), si tratta di stivaletti in pelle, talvolta raffigurati
senza lacci, caratterizzati, in alto, da un risvolto (ptèryx): quest’ultimo manca nell’endromìs la
quale, per il resto simile a un embàs, poteva fasciare il polpaccio
(endromìs bassa) o sfiorare il ginocchio (endromìs alta). I kòthornoi sono
invece calzari di origine orientale larghi e comodi (fasciano interamente il
piede e risalgono talvolta la gamba fino al polpaccio). Calzari femminili
per eccellenza, adatti a camminare in ambienti chiusi, domestici, anche gli
uomini, per ciò stesso tacciati di effemminatezza, non mancano di calzare
kòthornoi. La krepìs è invece un sandalo che lascia trasparire il piede
dietro un reticolo spesso molto semplice di legacci che non supera mai le
caviglie.
Fig. 40, Embades.
Le dita del piede sono generalmente mantenute ferme da una correggia che passa fra il pollice e
l’indice. Il tallone è protetto da una serie di legacci in pelle che si staccano dalla suola. Talvolta,
invece, le krepìdai sono chiuse da un reticolo di legacci (polyschidés) che avvolge tutto quanto il
piede. Le blàutai sono invece sandali maschili di lusso, come i sandàlia delle donne, caratterizzati,
come i krepìdes, da un sistema di cinghie. Sul tondo interno della kylix a figure rosse, del Pittore di
Brygos, databile al 490-480 a.C. circa è raffigurato un giovane, disteso su di una klìne, in atto di
cantare. Il giovane, prima di sdraiarsi a banchetto, si è tolto le scarpe: il ceramografo le raffigura
effettivamente sotto la klìne. Non si tratta di sandali bensì di calzari privi di allacciatura e di
risvolto, simili a endromìdes. Si noti, inoltre, il bastone da passeggio, nodoso e con l’estremità
superiore ricurva, che il banchettante ha appoggiato dietro la klìne. Sui vasi compaiono bastoni di
ogni tipo, muniti di impugnature ricurve o a testa di stampella: di lunghezze variabili, sono spesso
alti fino alle spalle e oltre (in questo caso i personaggi vi si appoggiano con le ascelle e il bastone
viene raffigurato obliquo). Il bastone da passeggio era considerato un segno di benessere sociale. Si
trattava di un accessorio quasi indispensabile nella tenuta di un Ateniese alla moda.
I principali centri di produzione di calzature si trovavano in Sicilia, nel Mar Nero, la Cirenaica e
l'Asia minore, in cui i calzolai si occupavano tanto della conciatura delle pelli quanto della
fabbricazione delle scarpe. La colorazione, avveniva con le stesse tecniche utilizzate per i tessuti,
attraverso l'applicazione di cortecce vegetali, pigmenti di origini minerale o metallica e terra rossa.
in oltre i greci usavano come vestito la tela.
COPRICAPI
I copricapi nell'antica Grecia avevano una funzione meramente pratica, ed erano principalmente
utilizzati per proteggere l'indossatore dai raggi del sole, durante il lavoro nelle campagne, o per
proteggere dal freddo. Le fattezze di tale copricapo potevano variare a seconda del luogo e della
regione. La kausίa era un lungo cappello di feltro piatto, di origine
macedone, mentre il berretto frigio era un copricapo conico con la punta
ripiegata in avanti, di origine anatolica (Fig. 41).
L'unico cappello destinato alle donne era invece il krήdemnon, di forma
simile al petaso maschile. Infine il polos era un copricapo di forma
cilindrica o quadrangolare, tipico nelle rappresentazioni delle divinità
femminili, ed effettivamente impegnato in cerimonie.
Tra gli accessori del vestiario femminile non mancano infine cuffie
(sàkkos) per raccogliere i capelli.
Fig. 41, Berretto frigio.
MATERIALI
Il materiale più utilizzato nella tessitura dei capi di abbigliamento era la lana. Più esotico e costoso
era ritenuto invece il cotone, importato dall'Oriente. Anche il lino era utilizzato, principalmente
nella realizzazione delle divise militari che necessitavano di essere più leggere e più pratiche.
Per i vestiti più costosi e raffinati era impiegato il bisso, una specie di seta naturale marina, ricavata
da un filamento che secernono alcuni molluschi.
I colori maggiormente presenti nell'abbigliamento erano, ovviamente, il bianco naturale dei tessuti,
ma anche alcune colorazioni naturali come il giallo o il turchese.
Meno comune era il rosso, in quanto la tecnica di colorazione impiegata, prevedeva l'utilizzo della
porpora, e rendeva notevolmente più alti i costi di produzione. Tuttavia il rosso era il colore che
veniva indossato dalle etere e dai ballerini, quindi, in ogni caso era ben poco diffuso.
PETTINATURE E ACCONCIATURE
Le donne dell'età classica avevano tendenzialmente i capelli molto lunghi che amavano portare con
una scriminatura nel centro: le morbide ciocche erano poi raccolte sulla nuca e legate con nastrini,
diademi, spilloni o cerchi metallici oppure trattenute all'interno di retine a loro volte adornate da
pietre preziose. Il tipo di reticella più usato era la Calantica che svolgeva la doppia funzione di
fascia e velo.
Molto popolare era inoltre incorniciarsi il volto da trecce che potevano anche essere lasciate libere
sulle spalle. Le trecce, così come i capelli lunghi, rappresentavano un must delle acconciature
femminili nell'antica Grecia e le donne aristocratiche avevano membri della servitù assunti per
pettinarle e intrecciare le loro chiome. Le più eccentriche decidevano infine di tingersi i capelli di
nero
intenso
tendente
al
blu
in
modo
da
ottenere
riflessi
metallici.
La maggioranza degli uomini greci invece optava per i capelli "a giardino", ovvero ricci corti che
circondavano la testa mentre coloro che decidevano di portarli più lunghi li legavano in un nodo
sulla fronte chiamato Crobilos. Anche i capelli avevano la loro importanza: ne sono testimonianza
le numerose rappresentazioni della classica acconciatura "a pieghe"; inoltre, era assai frequente la
colorazione dei capelli, specialmente in biondo, o la loro profumazione con il nard (lavanda) (Fig.
42, 43).
Fig. 42, Acconciature.
Fig. 43, Acconciature.
ANTICA ROMA
INQUADRAMENTO GENERALE
La storia romana, o storia di Roma antica, espone le vicende storiche che videro protagonista la città
di Roma, dalle origini dell'Urbe (nel 753 a.C.) fino alla costruzione ed alla caduta dell'Impero
romano d'Occidente (nel 476, anno in cui si colloca convenzionalmente l'inizio dell'epoca
medievale).
Parlando di arte romana ci si riferisce quindi alle opere realizzate nel periodo incluso tra la
fondazione di Roma e la caduta dell'Impero d'Occidente, avvenuta nel 476.
Un patrimonio artistico e culturale eccezionalmente abbondante in ogni campo del sapere e
dell'arte.
La vittoria romana in Asia Minore sui Seleucidi a Magnesia nel 189 a.C. e la conquista della Grecia
nel 146 a.C., con la presa di Corinto e di Cartagine, costituiscono due date fondamentali per
l'evoluzione artistica dei Romani. Fino a quest'epoca il contatto con l'arte greca aveva avuto un
carattere episodico, o più spesso mediato dall'arte etrusca e italica. Ora Roma possedeva
direttamente i luoghi in cui l'arte ellenistica aveva avuto origine e sviluppo e le opere d'arte greche
vennero portate come bottino a Roma. La superiorità militare dei romani cozzava con la superiorità
culturale dei greci e questo contrasto venne espresso efficacemente da Orazio, quando scrisse: “la
Grecia sconfitta aveva sottomesso il fiero vincitore” (Graecia capta ferum victorem cepit).
Per qualche tempo la cultura ufficiale romana disprezzò pubblicamente l'arte dei greci vinti, ma
progressivamente il fascino di questa arte raffinata conquistò, almeno nell'ambito privato, le classi
dirigenti romane favorendo una forma di fruizione artistica basata sul collezionismo e
sull'eclettismo. In un certo senso i Romani si definirono in seguito i continuatori dell'arte greca in
un arco che da Alessandro Magno giungeva fino agli imperatori.
Ma, come riconosciuto da numerosi studiosi, vi sono alcune differenze sostanziali tra arte greca e
romana, a partire in primo luogo dal tema principale della rappresentazione artistica stessa: i Greci
rappresentavano un logos immanente, i Romani la res. In parole più semplici, i Greci trasfiguravano
in mitologia anche la storia contemporanea (le vittorie sui Persiani o sui Galati diventavano quindi
centauromachie o lotte fra Dei e Giganti o ancora amazzonomachie), mentre i Romani
rappresentavano l'attualità e gli avvenimenti storici nella loro realtà.
Le forti differenze tra greci e romani si desumono anche da quanto scrive lo scrittore latino Plinio il
Vecchio nella Naturalis Historia”:
(LA)
(IT)
« Graeca res nihil velare, at contra
« È uso greco non coprire il corpo [delle statue],
Romani ac militaris thoracis addere. »
mentre i Romani, in quanto soldati, aggiungono la
corazza. »
(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 18)
La forza morale e il senso di eticità delle rappresentazioni dei miti greci si era già comunque
logorata nei tre secoli dell'ellenismo, quando da espressione comunitaria l'arte si era "soggettivata",
diventando cioè espressione di volta in volta della potenza economica e politica di un sovrano, della
raffinatezza di un collezionista o dell'ingegnosità di artefice. In questo solco i Romani procedettero
poi ancora più a fondo, arrivando a rappresentare l'attualità concreta di un avvenimento storico:
prima di loro solo alcuni popoli del Vicino Oriente avevano praticato tale strada, rifiutata dai Greci.
L'uso "personale" dell'arte nell'arte romana permise alla fioritura dell'arte del ritratto, che si sostituì
all'astrazione formale delle teste nelle statue greche.
USO DELL’ARTE ROMANA
La produzione artistica romana non fu mai "gratuita", cioè non era mai rivolta a un astratto
godimento estetico, tipico dell'arte greca. Dietro le opere d'arte si celava sempre un fine politico,
sociale, pratico. Anche nei casi del migliore artigianato di lusso (vasi di metalli preziosi e caramici,
cammei, gemme, statuette, vetri, fregi vegetali architettonici, ecc.) la bellezza era connessa al
concetto di sfarzo, inteso come autocelebrazione del committente della propria potenza economica e
sociale.
Le sculture ufficiali, per quanto valide esteticamente, avevano sempre intenti celebrativi, se non
addirittura propagandistici, che in un certo senso pesavano più dell'astratto interesse formale. Ciò
non toglie che l'arte romana fosse comunque un'arte "bella" e attenta alla qualità: la celebrazione
imponeva scelte estetiche curate, che si incanalavano nel solco dell'ellenismo di matrice greca.
Appare chiaro che nell'arte romana la creazione ex novo, a parte alcune rare eccezioni (come la
Colonna Traiana), non esiste, o per lo meno si limita al livello più superficiale del mestierante.
Manca quasi sempre una cosciente ricerca dell'ideale estetico, tipica della cultura greca. Anche il
momento creativo che vide la nascita di una vera e propria arte "romana", tra la metà del II secolo
a.C. e il secondo triumvirato, fu dovuto in massima parte alle ultime maestranze greche e italiote,
nutrite di ellenismo.
In questo i Romani seguirono il solco degli italici, presso i quali la produzione artistica era sempre
rimasta qualcosa di artigianale, istintivo, condizionato da fattori pratici esterni.
Ma la freschezza dell'arte romana è data comunque dalla straordinaria aderenza alle tematiche e
dalla mirabile capacità tecnica, anche in schemi ripetuti infinite volte.
Un fenomeno tipicamente romano fu la produzione in quantità di massa di copie dell'arte greca,
soprattutto del periodo classico databile tra il V e il IV secolo a.C. Questo fenomeno prese avvio nel
II secolo a.C. quando crebbe a Roma una schiera di collezionisti appassionati di arte greca, per i
quali ormai non bastavano più i bottini di guerra e gli originali provenienti dalla Grecia e dall'Asia
Minore. Il fenomeno delle copie ci è giunto in massima parte per la scultura, ma dovette
sicuramente riguardare anche la pittura, gli elementi architettonici e le cosiddette arti applicate. Le
copie di statue greche di epoca romana hanno permesso la ricostruzione delle principali personalità
e correnti artistiche greche.
L’ECCLETTISMO
Con l'afflusso a Roma di opere greche provenienti da molte epoche e aree geografiche è naturale
che si formasse un gusto eclettico, cioè amante dell'accostamento di più stili diversi, con una certa
propensione al raro e al curioso, senza una vera comprensione delle forme artistiche e dei loro
significati.
Ma l'eclettismo dei romani riguardava anche la presenza della tradizione italica, che si era inserita a
uno strato molto profondo della società. Per i romani non solo era naturale accostare opere d'arte in
stili diversi, ma l'eclettismo si riscontrava spesso anche nella medesima opera, assorbendo da più
fonti diverse iconografie, diversi linguaggi formali e diversi temi.
L'importanza dell'eclettismo nella storia artistica romana è anche data dal fatto che, a differenza di
altre culture, non comparve, come di tendenza, al termine e al decadere culturale, ma all'inizio della
stagione artistica romana. Il passo decisivo che segnò uno stacco tra arte greca e romana fu
senz'altro la comparsa del rilievo storico, inteso come narrazione di un evento di interesse pubblico,
a carattere civile o militare. Il rilievo storico romano non è mai un'istantanea di un avvenimento o di
una cerimonia, ma presenta sempre una selezione didascalica degli eventi e dei personaggi,
composti in maniera da
ricreare
simbolica
una
ma
leggibile (Fig. 44)
narrazione
facilmente
Fig. 44,Rilievo storico, Ara di Domizio Enobarbo.
Gradualmente il soggetto storico si cristallizzerà in alcuni temi legatI ai luoghi, ai tempi ed ai
personaggi ritratti tramite i quali la rappresentazione diventava immediatamente esplicita e
facilmente comprensibile a chiunque.
CANONE ESTETICO (Roma imperiale dal 29 a.C)
Lo stereotipo della bellezza femminile nell’antica Roma è la matrona dal corpo giunonico, cioè
abbondante (da Giunone, la principale dea romana).
La matrona dell’impero non solo è opulenta nelle forme, ma è anche carica di trucco e di gioielli, e
vestita in modo ricco e sfarzoso, come opulenta, ricca e sfarzosa è la Roma dell’età imperiale. La
donna romana cura molto la propria persona: utilizza creme e cosmetici e, per migliorare il proprio
aspetto, ricorre perfino all’infoltimento della capigliatura con l’applicazione di capelli indiani
(scuri) o germanici (biondi o rossi) e anche di colore diverso da quello naturale: primi esempi di
toupet e meches.
Per i nobili romani, la moglie, dal corpo prosperoso, vistosamente truccata, ingioiellata e
lussuosamente vestita, deve rappresentare la ricchezza e la generosità del marito (Fig. 45).
Fig. 45, Ritratto di donna romana,
non identificata, 69- 96 a.C.
IL TRUCCO
I Romani impararono a curare il loro aspetto fisico dopo la conquista della Grecia (146 a.C.),
assumendo dai Greci le relative usanze. Profumi, cosmetici e belletti si diffusero così nel mondo
romano, trovando nell'età imperiale la massima diffusione, nonostante l'opposizione dei moralisti
legati a modelli comportamentali tradizionalisti e anti-ellenici. Si pubblicarono addirittura dei
manuali di bellezza come il De medicamine faciei feminae di Ovidio, trattato poetico di toletta
femminile.
Attraverso le informazioni forniteci da scrittori latini quali Plauto, Catone, Varrone, Cicerone,
Properzio, Catullo, Marziale, Giovenale e altri, si è in grado di ricostruire l'importanza dell'uso dei
cosmetici
nella
vita
individuale
e
sociale
della
civiltà
romana.
A Roma non si conosceva l'uso del sapone: racconta Plinio il Vecchio che tutti usavano come
detergenti la soda o la creta finissima o, ancora, la farina di fave e, dopo il bagno massaggiavano il
corpo con olio di oliva per proteggersi dalle infreddature. Il sapone che conoscevano i Romani era
utilizzato come tintura per capelli, scrive Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (Libro 28,
capitolo 47): «prodest et sapo, galliarum hoc inventum rutilandis capillis. fit ex sebo et cinere,
optimus fagino et caprino, duobus modis, spissus ac liquidus, uterque apud germanos maiore in usu
viris quam feminis» ("Il sapone, anche, è molto utile a questo fine, un'invenzione dei Galli per dare
una tinta rossastra ai capelli. Questa sostanza è preparata da sego e dalle ceneri, le migliori per lo
scopo sono le ceneri di faggio e il grasso di capra: ce ne sono due generi, il sapone duro e quello
liquido, entrambi molto usati dalla gente della Germania, gli uomini, in particolare, più delle
donne").
Le donne romane, per ottenere una carnagione perfettamente candida usavano applicare come
fondotinta una creta speciale o, in alternativa, la nivea cerussa (pomata pericolosa perché a base di
carbonato di piombo) ( Fig. 46, 47).
Le labbra o le guance rosse erano ottenute utilizzando, come facevano le antiche greche, la polvere
di minio, l'estratto di anchusa tinctoria o ancora il distillato di phukos, oppure il succo delle more
del gelso o la pericolosa sandracca (solfuro di arsenico).
Tutto il necessario cosmetico era preparato fresco da schiave specializzate, le cosiddette cosmetae.
Fig. 46, Ritratto di donna romana.
Fig.47, Ritratto di donna romana.
In quest'epoca è attestato anche l'uso di creme depilatore, tra cui il psilothrum, una pasta depilatoria
a base di olio, pece, resina e sostanze caustiche che serviva a liberarsi dai peli superflui e a rendere
liscia
la
pelle.
Per esaltare la propria avvenenza le donne dell'antica Roma usavano anche dipingersi dei nei
giudiziosamente distribuiti sul viso e sul corpo. Si tingevano le sopracciglia, sottolineando la forma
degli occhi con cenere, se si voleva un colore scuro, o con croco di Cidno, quando se ne desiderava
uno
marrone
dorato.
Racconta Plinio il Vecchio che Poppea, l'amante-moglie dell'imperatore Nerone, aveva l’abitudine
di fare il bagno nel latte di asina ed era consuetudine far mungere trecento asine ogni giorno per
riempire la sua vasca da bagno. Oltre a questo, la bellissima matrona usava il prezioso latte,
impastato con mollica di pane, per preparare maschere che ogni sera applicava sul viso.
L'intuizione di Poppea non era in fondo sbagliata: più ricco di lattosio rispetto al latte vaccino, il
latte d'asina ammorbidisce la pelle e contiene molti ceramidi (acidi grassi) oggi impiegati nelle
creme
antirughe.
Tra paste e infusi vari ottenuti, come ricorda Plinio, da testicoli di toro o feci di coccodrillo, api
affogate nel miele, uova di formiche pestate, grasso di cigno e di pecora, midollo di cervo e di
capriolo, burro, lupini, fave, ceci e così via, un ruolo importante svolsero anche le taerme, tra cui
quelle di Caracalla, costruite fra il 212 e il 217 sul colle Aventino e splendidamente conservate,
vero e proprio apogeo della cosmesi dell'antica Roma.
Le terme sono luoghi centrali nell'Antica Roma dal punto di vista sociale ed igienico, strutture
incredibilmente complesse e moderne, suddivise in diverse sale al loro interno (Fig. 48, 49, 50).
Fig.48, Ricostruzione di terme romane.
Fig. 49, Rovine delle terme di Allianoi, Turchia II sec. a.C.
Fig.50, Plastico di terme.
Il processo si svolgeva probabilmente così: dopo lo sport e l’attività fisica, il bagnante nudo veniva
unto con oli aromatici da uno schiavo, entrava in una camera di vapore dove il corpo veniva
raschiato con un utensile metallico per rimuovere l'eccesso di olio e sudore, il bagnante entrava
quindi un una camera tiepida (entro una vasca con acqua calda) ed infine in una piscina di acqua
fredda. La combinazione degli oli e dei bagni forniva un'eccellente dermo-purificazione.
ABBIGLIAMENTO
L'abbigliamento romano ha avuto in mille anni mutamenti dovuti a situazioni economiche politiche
culturali e ad influssi provenienti da altre popolazioni. Le regole molto rigide a partire dalla tarda
età repubblicana, con l'emanazione di particolari leggi per frenare l'uso di articoli di lusso e alla loro
importazione, specie dall'oriente, non fermavano i romani, ad acquisti sempre più ricercati e
lussuosi.
Durante il periodo repubblicano, i conservatori riportavano compiaciuti l'austerità e la sobrietà del
l'abbigliamento confezionato dalle matrone e loro collaboratrici, solo ed esclusivamente in seno al
nucleo familiare.
Plinio il Vecchio diceva: -... oggi si vanno a comprare i vestiti di seta in Cina, si vanno a pescare le
perle in fondo al Mar Rosso, a trovare nelle viscere della Terra gli smeraldi, oggi addirittura si è
inventati di bucarsi il lobo delle orecchie: non bastava portare i gioielli nelle mani, sul collo o fra i
capelli, dovevano essere conficcati anche nel corpo".
I romani attribuivano un fortissimo valore simbolico all'abito che dimostrava età, rango e status di
chi li indossava. Augusto, massimo restauratore di antichi valori si occupò anche di abbigliamento e
desiderò che la toga diventasse una specie di divisa di stato.
Gli abbigliamenti si confezionavano con fibre vegetali (cotone, lino, canapa), con fibre animali
(lana, seta), per ultimo con pelli e cuoio, in qualche occasione facevano uso di pelliccie animali.
ABBIGLIAMENTO MASCHILE. A contatto del corpo nudo gli uomini usavano il subligar o
cintus o campestre un semplice indumento che copriva il basso ventre (Fig. 51, 52).
Fig.51,Realizzazione di un subligar.
Fig.52, Subligar e tunica interior.
Questo capo di vestiario in uso per diverso tempo fu sostituito dalla tunica interior o subacula o
strictoria, una semplice camiciola a contatto con la pelle. Sopra a questo primo indumento si
posizionava la tunica che era realizzata con due pezzi di stoffa di cotone o lana cuciti insieme, in
modo che quello della parte davanti arrivasse alle ginocchia e quello di dietro ai polpacci, una cinta
tratteneva ai fianchi questi due lembi. Svetonio racconta che Augusto, particolarmente freddoloso e
cagionevole di salute, arrivasse ad indossare in inverno, sotto una toga, quattro tuniche (subuculae),
una sopra l'altra, una camicia, una maglia di lana e delle fasce attorno a cosce e gambe. Era
necessario che la tunica non fosse troppo lunga e sempre tenuta stretta da una cintura. Nel terzo
secolo dopo Cristo, venne di moda l'uso di larghe maniche sino ai polsi, ma qualcuno parlò di moda
effeminata. Il tipo più elaborato di queste tuniche era la Dalmatica, che diversi portavano al posto
della toga, realizzata in lino, lana o seta (Fig. 53)
Questo indumento veniva usato anche dai sacerdoti del rito
Cristiano o Mitraico, qualche volta veniva usato anche senza
maniche, e in questo caso prendeva il nome di Colubium.
La tunica palmata era una tunica speciale, ornata di ricami a forma
di foglia di palma, che veniva indossata dai trionfatori (Fig. 54)
Fig.53, Tunica Dalmatica
Fig. 54, Probabile copia di denario in argento di augusto, raffigurante Tunica palmata e quadriga.
Il clavus, era un ornamento della tunica o della toga consistente in una lunga striscia normalmente
colorata di porpora, con disegni diversi a seconda del rango di appartenenza, latus clavus (senatori),
angustus clavus (cavalieri), ecc....
Ma l'abbigliamento più importante, più classico, utilizzato in tutti i riti, cerimonie e ricorrenze
importanti era la toga. Solo chi godeva della cittadinanza romana aveva il diritto di indossare la
toga e l'autorità doveva vigilare che gli stranieri non la indossassero (Fig.55, 56).
Fig. 55, Toga.
Fig.56, Realizzazione di una toga.
La toga, era normalmente realizzata in lana, quindi abbastanza pesante,
costituita in un unico pezzo a forma di mezzo cerchio schiacciato con il
diametro che poteva raggiungere anche i 5 metri di lunghezza.
Chiaramente questo indumento era meno usato in provincia e non si
usava affatto in campagna o nelle mura della propria casa. La toga era
in sostanza l'abbigliamento ufficiale per tutti coloro che svolgevano
attività importanti di qualsiasi tipo e genere, a partire dal magistrato,
dal politico, dall'uomo ricco e influente (Fig.57).
Indossare la toga era un'operazione abbastanza lunga e complessa e
difficilmente risolvibile da soli. Era uno schiavo (vestiplicus), sin dalla
sera precedente, ne disponeva le pieghe per rendere più semplice il
lavoro nel giorno successivo.
Fig. 57, Marco Aurelio con toga.
Il togato che si presentava ad un comizio politico, doveva indossare una toga bianchissima (resa
così bianca da un bagno in calce liquida), che doveva rendere l'immagine di una persona pulita,
candida (donde il nome di candidato).
I ragazzi, portavano la toga pretesta bordata di porpora sino all'età di 17 anni, subito dopo potevano
finalmente indossare la toga virilis e fare il primo ingresso nel foro con un rito importante che
testimoniava il passaggio dalla adolescenza alla maturità.
I trionfatori sfoggiavano un abito particolare di origine Etrusca, la toga purpurea indossata sopra la
toga palmata, dal terzo secolo a. C. la toga purpurea, fu sostituita dalla toga picta con ricche
decorazioni ricamate.
Nell'esercito si portava il paludamentum, un mantello simile alla clamide greca riservato ai gradi
più alti, altri mantelli come il sagum e la poenula per quelli più bassi. I militari contribuirono a
diffondere un mantello di origine Gallica, talvolta usato anche con i pantaloni delle popolazioni
celtiche e germaniche, chiamata palla gallica o caracalla, prediletto dall'imperatore Marco Aurelio
Antonino Bassiano, passato alla storia con il soprannome di Caracalla (Fig. 58).
Fig.58, Augusto di Prima Porta,
Paludamentum, attorno i fianchi,
I sec. d.C.
L'abbigliamento era completato dalle scarpe: le soleae (una specie di sandali da frate, una semplice
suola legata con lacci al piede) o le crepidae (sandali di cuoio intrecciato) o i calcei (stivaletti chiusi
o aperti sul davanti, utilizzati in città) o le caligae (scarpe con corregge intrecciate, usate
prevalentemente in campagna e dai soldati).
Questa la descrizione che Svetonio fa dell'abituale e semplice abbigliamento dell'imperatore
romano, Ottaviano Augusto:
(LA)
(IT)
« Veste non temere alia quam domestica usus
« Non portò altra veste che una per uso
est, ab sorore et uxore et filia neptibusque
domestico, confezionata da sua sorella, sua
confecta; togis neque restrictis neque fusis,
moglie, sua figlia o dalle sue nipoti; le sue toghe
clavo nec lato nec angusto, calciamentis
non erano né strette né larghe, la sua striscia di
altiusculis, ut procerior quam erat videretur. Et
porpora né grande né piccola, le scarpe erano
forensia autem et calceos numquam non intra
piuttosto alte, per apparire più alto di statura.
cubiculum habuit ad subitos repentinosque
Aveva sempre nella sua camera vestiti di
casus parata. »
campagna e calzature, pronto per i casi
improvvisi e repentini. »
(Svetonio, Augustus, 73.)
ABBIGLIAMENTO FEMMINILE. Le donne usavano come biancheria intima delle mutandine
(subligar), ed una specie di fascia per reggere il seno (fascia subligaris o mammillare), sopra
indossavano la tunica interior lunga sino ai piedi. Sopra la tunica si posizionava la stola che è
l'abito nazionale come la toga per i maschi adulti (Fig. 59, 60).
Fig.59 Giovani donne raffigurate in un mosaico
della Villa Romana del Casale, Piazza Armerina
Fig.60 Amanti raffigurati in un mosaico della Villa Romana
del Casale, Piazza Armerina
La stola era stretta alla vita da una cintura che poteva ripetersi anche sotto il seno. Nella Roma
primitiva uomini e donne vestivano allo stesso modo, ma ben presto l'abito femminile si differenziò
da quello maschile. La differenza era anche nei colori vivaci e talvolta nei ricami.
Le donne romane delle classi alte, dovevano risultare piuttosto vistose se si considerano oltre agli
abiti i molti gioielli, il trucco e le sontuose e costruite acconciature che prediligevano (era molto di
moda la parrucca bionda realizzata con capelli di donna nordica).
Sopra la stola a seconda della stagione si usavano le sopravvesti, tra queste ricordiamo in età
repubblicana il ricinum, un semplice mantello quadrato che copriva le spalle ed il capo, e la palla,
un comune mantello che poteva anche avere un cappuccio per il capo (Fig. 61).
Fig. 61, Statua di Livia Drusilla
trovata a Paestum, con stola e palla.
Con il terzo secolo anche per le donne come per gli uomini vennero di moda tuniche fino ai piedi
con lunghe maniche, di tessuti ricercati da portare anche senza cintura (tunica talaris o dalmatica).
Le donne si adornavano con pettini, spille (fibulae) e, se potevano permetterseli, con numerosi
gioielli: orecchini, collane, catenelle (catellae) intorno al collo, anelli alle dita, al braccio e alle
caviglie.
PETTINATURE E ACCONCIATURE
Anche le acconciature erano considerate un abbellimento: erano molto elaborate, costituite da
riccioli sovrapposti in altezza che potevano raggiungere anche i quaranta centimetri, e
preferibilmente di colore biondo oppure rosso acceso. Per coprire la canizie si usava il mallo delle
noci. Mentre gli uomini non portavano copricapi riparandosi dal sole o dalla pioggia con un lembo
del mantello o sollevando il cappuccio (cucullus) della loro paenula, la donna romana metteva tra i
capelli un nastro di color rosso porpora o un tutulus, una larga benda collocata a forma di cono sulla
fronte.
Osservando le sculture delle donne dell’antica Roma, si resta colpiti dalla creatività della
acconciature, molto elaborate soprattutto se si tratta di donne sposate delle classi elevate. Se la
moda romana rimase nei secoli relativamente semplice e immutabile, l’evidenza dello status sociale
venne affidata perlopiù ai tipi di tessuto, ai gioielli, agli accessori e, appunto, alle acconciature.
Se le fanciulle potevano anche solo raccogliere i capelli con una crocchia sul retro o con un nodo a
spirale nella parte superiore della testa, le donne dedicavano alle acconciature molto tempo e sforzo.
Erano assistite da esperti parrucchieri che aumentavano il volume della chioma o la allungavano
tramite ciuffi posticci e parrucche.
I capelli venivano tinti e decolorati, stirati e arricciati tramite ferri roventi, scolpiti con un esercito di
forcine, retine e ausili meccanici di vario tipo. Grande importanza avevano poi gli accessori che
venivano apposti sulle chiome: nastri, fermagli, forcine preziose erano accessori indispensabili
affinché il risultato fosse sofisticato quanto si conveniva.
Le tinture arrivavano dalle più svariate parti dell’impero: l’henné, ad esempio, molto usato durante
l’epoca imperiale, veniva dall’Egitto.
Le tonalità erano estremamente varie e pare arrivassero fino all’azzurro.
I primi stili sono abbastanza semplici, e vanno dalla ciambella e chignon all’usanza di legare
strettamente i capelli alla sommità della testa con dei nastri, all’usanza etrusca. Ben presto però
queste semplici pettinature vennero sostituite con grandiose creazioni che per altezza e
complicazione non hanno avuto rivali fino alla corte francese di Luigi XVI. La pettinatura era così
importante che venivano commissionate acconciature rimovibili per i busti, in modo che
l’immagine della persona ritratta venisse ricordata al culmine della moda dell’epoca.
I capelli venivano anche profumati attraverso prodotti appositi; per l’acconciatura venivano usati
diversi tipi di pettine e spazzole, nastri, retine in fili d’oro finemente intessute, nastri, ghirlande di
fiori e gioielli preziosi: l’oro e le perle erano molto usati negli ornamenti per i capelli.
Anche gli uomini, dal canto loro, col passare dei secoli presero a farsi arricciare e tingere i capelli –
tra i primi che sfoggiarono boccoli artificiali ricordiamo l’imperatore Adriano e suo figlio Lucio
Cesare; chi soffriva di calvizie iniziò a farsi applicare capelli posticci, la qual cosa era presa molto
di mira dai poeti satirici romani (fig. 62, 63)
Fig. 62, Acconciature.
Fig. 63, Testa di donna romana
con acconciatura.
IL MEDIOEVO
INQUADRAMENTO GENERALE
Con Medioevo s’intende l’età intermedia tra l’antica e la moderna.
Secondo l’accezione più diffusa è il periodo compreso fra la caduta dell’Impero Romano
d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492).
CANONE ESTETICO
In quest'epoca la bellezza fisica è considerata dominio del Maligno, pertanto rappresentata solo
come attributo della Madonna e dei santi.
In particolare la bellezza maschile non è attributo valorizzato come nel periodo classico: il corpo
risulta di conseguenza nascosto da strati di abiti, ampiamente panneggiati quasi a celarne la vera
forma. Sono rappresentati nudi solo i progenitori o il Cristo in croce i cui corpi esprimono la
sofferenza legata al peccato (Fig. 64).
Fig.64, Masaccio, La cacciata dei progenitori dall’Eden, Cappella Brancacci, Firenze, 1424-1425.
Il corpo della donna, su cui grava il peccato di Eva, è considerato fonte di perdizione e perciò
l’avvenenza fisica ritenuta appannaggio del Male.
L’austera morale medioevale impone nuovi canoni estetici: il corpo della donna deve essere esile e
acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi
stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice
di un futuro fecondo come madre.
L’incarnato riluce del candore di un giglio o della neve, proprio
a sottolineare la natura virginale della donna.
Nell’iconografia medioevale prevale la rappresentazione mistica
e ieratica della figura femminile: la donna viene svuotata di ogni
connotazione sensuale e ritratta esclusivamente nella sua
sacralità, tanto che ad essere rappresentate sono soprattutto
Madonne e sante, sempre legate al ruolo salvifico che esse
svolgono (Fig.65).
Fig.65,Simone Martini, Annunciazione, 1333 (particolare)
Nel periodo XI - XII secolo d.C. era considerata di moda la bocca piccola, le donne ambivano ad
avere
occhi
grandi
e tondeggianti
con
sopracciglia
ad
arco
e pelle
bianchissima.
Per riuscire ad avere uno sguardo, il più seducente
possibile, le donna più ardite si pitturavano di blu o di
verde le palpebre, e usavano dei prodotti argillosi
stemperati
in
acqua.
Ovviamente la Chiesa condannava queste pratiche e
già durante i primi secoli del cristianesimo: San
Cipriano consigliava alle giovani donne, per evitare la
dannazione eterna, di non adornarsi con gioielli e di
non cambiare il colore dei capelli né di acconciarli
tanto che anche le parrucche erano malviste perchè si
temeva che potessero impedire alla benedizione di
giungere sulla testa.
Fig. 66, Raffigurazione di musicanti medioevali.
Anche gli uomini però non erano esenti di ingiurie se
si scoprivano a curarsi capelli, la barba, o se si facevano il bagno; ma, ironia della sorte, in seguito,
con le crociate e l'intensificarsi delle rotte mercantili in Oriente, furono reintrodotti prepotentemente
trucchi, unguenti, pomate e profumi. Nell'epoca feudale poi, il modello culturale cortese si diffuse
ampiamente come pure l'ideale di bellezza nordica con le narrazioni dei trovatori che
pubblicizzavano la fama di bellissime castellane. Fu così che si diffuse il modello di bellezza
femminile normanna: carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondi.
IL TRUCCO
Ma anche se la Chiesa si opponeva il Medioevo ebbe le sue mode che cambiavano nel corso dei
secoli; per sottolineare la spiritualità si allungarono le linee degli abiti femminili: il polsino svasato
delle
maniche
diventò
uno
strascico,
e
la
vita
si
alzò
sin
sotto
il
seno.
La moda di allora imponeva un seno piccolo, un corpo flessuoso e adolescenziale, mani allungate e
volto
ovale
(Fig.66).
Le sopracciglia venivano rasate del tutto, come anche la fronte che in questo modo risultava più
ampia; il volto, le mani e i denti dovevano essere bianchissimi (Fig.67).
Con l’utilizzo di questi artefici, i volti risultavano privi di intensità ed espressività, che oggi noi
ricerchiamo con il trucco e con l'uso sapiente delle matite, per cui le donne ricorrevano ad un velo
di rosso sulle gote,mentre le sopracciglia depilate venivano ripassate con il nero. In occasioni
speciali uomini e donne ingaggiavano addirittura pittori professionisti che dipingevano i loro volti
con i colori ad olio o a tempera.
Fig.65, Particolare di un volto di donna del medioevo.
Fig.66, Ritratto di giovane donna, Antonio
Del Pollaiolo
Riguardo trucco e abbigliamento le prostitute dovevano farsi riconoscere: a Padova nella seconda
metà del Trecento dovevano indossare un berretto rosso mentre a Bologna e a Firenze dovevano
portare
un
sonaglio
attaccato
al
copricapo,
a Milano potevano sfoggiare gioielli e tessuti pregiati mentre a Brescia lo sfarzo era permesso
principalmente per rendere più attraenti le prostitute e scoraggiare gli uomini a praticare la sodomia,
una
pratica
molto
diffusa
allora.
Le prostitute si truccavano quotidianamente gli occhi di marrone, verde, turchese o grigio e
delineavano
le
palpebre
con
una
riga
nera.
In tale contesto si inserì con prepotente autorevolezza il primo trattato di cosmetica della storia
datato al XIII sec e fu ritrovato a Madrid: il "De Ornatu Mulierum" (Sui cosmetici delle donne)
comunemente noto come “Trotula Minor” della medichessa della Scuola Medica Salernitana
Trotula De Ruggiero.
Il “Trotula Minor”, più antico manuale estetico prodotto da una donna medico per altre donne e
aspiranti medici è un trattato che insegna alle donne come preservare e migliorare la propria
bellezza e come curare le malattie della pelle mediante una serie di precetti, consigli e rimedi
naturali. Nell’esposizione l’autore nomina spesso le mulieres salernitanae ad autorevole esempio,
dà lezioni di make-up, suggerisce come nascondere le rughe, rimuovere gonfiori da viso e occhi,
depilare il corpo, schiarire la pelle, nascondere le macchie e le lentiggini, lavare i denti ed eliminare
l’alitosi, tingere i capelli, fare la ceretta, curare labbra screpolate e gengiviti. Fornisce inoltre
indicazioni per preparare ed utilizzare unguenti ed erbe curative per il viso e i capelli e dispensa
consigli per migliorare il benessere mediante bagni di vapore e massaggi. Nell’opera, la cosmesi
non risulta un aspetto frivolo: al contrario, secondo il concetto di bellezza di Trotula la donna deve
raggiungerla per entrare in accordo con la filosofia della natura, per cui la sua arte medica era
ispirata alla bellezza come estrinsecazione di un corpo in salute e in armonia con l’universo.
Il lavoro riporta 96 piante e derivati, 20 preparati di origine animale e derivati, 17 minerali, e 6
preparati misti, quali ingredienti per 63 ricette totali, in grado di ottenere altrettanti rimedi a scopo
cosmetico e/o medicinale.
Le numerosissime ricette riportate nell’opera di Trotula attestano l’esistenza di un’importante
cosmesi medievale. In particolare, la seconda parte del trattato include capitoli che contengono
ricette e specifica ingredienti e dosaggi, procedure per la preparazione, modo di applicazione, e
risultati attesi. Per esempio, di seguito è riportata una delle ricette di Trotula che spiega come
accentuare il colore delle gote: “si prendano radici di brionia rossa e bianca, le si lavino, e tritino
finemente e le si mettano ad essiccare. Di poi le si riducano in polvere e si mescolino ad acqua di
rose, e con un panno di cotone o di lino molto sottile, si unga il viso che acquisirà un certo rossore.
Per la donna che mostra un colorito bianco naturale, le si dona un colorito rosaceo se le occorre
rossore, così che con un tipo di pallore finto o mascherato il colorito rosso appaia come se fosse
naturale”.
Per fare biondi i capelli, Trotula propone una tintura ottenuta con la corteccia di sambuco, fiori di
ginestra, zafferano e tuorlo d’uovo; oppure un altro unguento con api incenerite in un barattolo e
mescolate ad olio e latte di capra. Mentre per allungare i capelli e tingerli di nero, raccomanda un
unguento ottenuto facendo bollire in olio la testa e la coda di una lucertola verde. Per quanto
riguarda il make-up del viso e delle labbra, suggerisce una miscela di miele, cetriolo ed acqua di
rose, bollite fino a divenire la metà del volume iniziale. Secondo i consigli di Trotula il trucco sulle
labbra va applicato strofinando la corteccia delle radici dell’albero della noce e cospargendoci sopra
un colore artificiale, ottenuto con albume e prezzemolo, e alla fine cenere di allume. Per schiarire il
viso Trotula consigliava, invece, un unguento di cera ed olio.
La gran parte delle piante menzionate nel trattato ed anche le altre utilizzate dalla Scuola
Salernitana per le preparazioni sperimentali erano inizialmente spontanee nell’area poi, soprattutto a
partire dal XIV sec., furono coltivate assieme ad altre piante introdotte, nei Giardini della Minerva
di Salerno.
Da un confronto con gli attuali cosmetici, si evince chiaramente che quelli medievali erano molto
più grassi (erano soprattutto unguenti), poiché venivano di solito preparati con grassi animali e ciò
permetteva ai principi attivi in essi contenuti di esplicare la loro azione a livello topico sulla pelle
per un lungo periodo di tempo. I cosmetici moderni invece sono preparati in emulsioni (creme, latte,
sieri) offrendo all’utilizzatore una migliore gradevolezza del prodotto.
Tuttavia, la gran parte dei derivati vegetali riportati nel trattato sono ancora oggi utilizzati nei
cosmetici moderni.
È difficile identificare anche tutte le malattie cutanee riportate nel trattato, a causa della
nomenclatura dell’epoca e l’uso del latino. Ad esempio nel Medioevo “scabbia” era il nome
associato a numerose malattie cutanee, incluso eczema, psoriasi, acne e vaiolo. I buoni risultati
ottenuti trattando il cuoio capelluto con aceto per l’eczema seborroico o per la psoriasi lasciano
pensare però che, quando Trotula menziona detti trattamenti per la “scabbia grave”, quasi
certamente si faccia invece riferimento proprio ad eczema seborroico e psoriasi. È quindi poi di
conseguenza difficile valutare approfonditamente l’efficacia dei rimedi trattati.
Comunque, al tempo, tutte le patologie pruriginose del viso (acne, eczema, psoriasi, tinea,
impetigine) erano attribuite alla presenza sottocutanea di vermi e questi erano genericamente
denominati scabbia.
Trotula descrive nel suo trattato un primordiale “scrub” facciale: consiglia di utilizzare un
detergente esfoliante preparato con briciole di pane per levigare la pelle del viso.
Quando nomina i vermi sottocutanei “che talvolta provocano la caduta dei capelli”, probabilmente
allude alla seborrea che si manifesta con acne sul viso ed alopecia androginica sul cuoio capelluto.
Qualche rimedio è chiaro, come l’uso di metodi fisici per la depilazione (gomma arabica, mastice
del lentisco), del mercurio per le infestazioni, e il miele come idratante. È interessante notare che
oggigiorno nel XXI secolo ancora utilizziamo cosmetici basati su moltissimi principi attivi già
menzionati nel trattato medievale, mentre i derivati di origine animale non lo sono più.
Trotula volse il suo interesse non solo sui problemi della cute, ma anche sulle affezioni oculari ed
orali. Lo sbiancante dei denti può, secondo lei, essere ottenuto con metodi meccanici come lo
strofinio del marmo.
Viene descritto anche una specie di peeling primitivo (probabilmente per l’acne post-parto)
sfruttando l’effetto irritante della cipolla, infati, l’effetto anti-acne è dovuto all’alto contenuto in
essa di allina e miscele simili allo zolfo43. Attualmente è noto che la cipolla possiede anche un
effetto antiaging poiché contiene acqua (90%), proteine (1,5%), e vitamine, quali B1, B2, e C
insieme a potassio, polisaccaridi, come anche peptidi, flavonoidi, ed oli essenziali e vi sono state
inoltre ritrovate anche prostaglandine a rivelare anche il loro effetto antiinfiammatorio.
L’aiuto di Trotula alle donne si esplica anche in un altro campo: l’uso di agenti astringenti e tinture
rosse, consigliato dalla medichessa per far sembrare vergine una donna che non lo è più.
Da un punto di vista storico, l’opera di Trotula è molto importante anche per lo studio delle
tendenze estetiche del Medioevo, come pure delle condizioni sociali delle donne. È davvero
impressionante scoprire, grazie a tale testo, come molti problemi estetici avvertiti dalle donne
dell’epoca siano gli stessi tutt’oggi quali la crescita dei peli, la calvizie, le tinture per capelli, il
melasma, le rughe. Ma altre condizioni, quali ad esempio la cellulite non sono proprio considerate
perché il modello di bellezza femminile era differente da quello attuale.
A tal proposito è interessante notare che, nonostante sia risaputo che l’ideale medievale di bellezza
femminile fosse incarnato nella donna normanna dai capelli biondi, la pelle chiara e gli occhi
azzurri, invece, nell’opera di Trotula, sono riportati metodi per scurire i capelli e qualche metodo
estetico arabo, confermando ulteriormente il ruolo chiave della Scuola Medica Salernitana di
cerniera e sintesi tra le tradizioni mediche dell’area mediterranea.
Nel Medioevo, per quanto l’uso del trucco diminuisca notevolmente, inizia a svilupparsi la
convinzione che un viso bianco sia simbolo di nobiltà, mentre un viso scuro sia la prova di un
lavoro all’aria aperta, quindi di appartenenza a una classe sociale più bassa. Le donne utilizzavano
quindi varie paste per schiarirsi il viso: ossidi di argento o mercurio misti a grasso, oppure biacca,
allume (alluminio e potassio), borace (sodio e boro), limone, aceto e bianco d’uovo. Con l’avvento
del feudalesimo si mantiene la preferenza per incarnati chiari, ottenuti anche con argilla
polverizzata o canfora, ma si introducono altri due importanti “must”: la fronte alta, che veniva
depilata, e guance più scure, ottenute con polvere di zafferano.
ABBIGLIAMENTO
ABITI FEMMINILI
Dagli atti e dalle cronache di epoca federiciana sappiamo che l'abito femminile era composto da tre
capi: la camicia (testimoniata a Bari a partire dal 1021 con il nome di càmiso), la tunica (o
gonnella) e la guarnacca(sopraveste).
La camicia, detta anche interula o sotano era una specie di sottoveste lunga fino ai piedi,
confezionata solitamente, per i vestiti più semplici, in lino e cotone leggero. Il tessuto variava a
seconda delle possibilità economiche della cliente, le donne di alto rango sociale tendevano a
impreziosire gli abiti con guarnizioni ricamate o liste di tessuto frappato (in frange) lungo i bordi e
la scollatura, solitamente quadrata. La camicia era priva di bottoni, ed erano sconosciute le tasche.
La moda dei bottoni in oro, argento e pietre preziose nasce in Francia nel XIII secolo per poi
diffondersi lentamente in tutta Europa.
Fig. ,67, Ritrovamento della reliquia di San Marco, part., mosaico, 1270 ca. Venezia, Basilica
di San Marco - Camicia, tunica e guarnacca-
Sulla camicia le donne infilavano la tunica, un abito lungo, di tradizione bizantina dalle maniche
molto larghe, che spesso aveva dei profondi spacchi sui fianchi per lasciare intravedere la camicia
sottostante di diverso colore. Le tuniche delle donne nobili erano confezionate in zendàli (seta
simile al taffetà), broccati (velluti impreziositi da fili d'argento e d'oro), e applicazioni di perle e
pietre preziose. Tessuti che di certo le donne del popolo e delle campagne non potevano
assolutamente permettersi. Queste ultime adoperavano tessuti semplici come lino e cotone,
d'inverno si coprivano con abiti in lana, il cui modello di base rimane lo stesso (Fig.67, 68, 69).
Fig. 68, Tunica composta.
Fig. 69, Tunica.
La guarnacca era una sopraveste, aperta sul davanti, con maniche ampie pendenti fino all'orlo
foderate di pelliccia, il pelo infatti era rivolto verso il corpo, mentre il lato esterno veniva ricoperto
di tessuto.
Gli abiti femminili erano fermati in vita da cordoncini annodati o cinture di stoffe ricamate e ornate
di laminette d'oro o dipinte con smalti.
Accessori fondamentali erano i copricapi, il modello più diffuso era la corona turrita, una fascia
circolare su cui si appoggiavano merli con applicazioni di pietre e perle.
A Venezia nel XIII secolo nasce un copricapo che avrà molta fortuna in tutto il Medioevo l'hennin,
a forma di cono rigido, in velluto o in seta, al cui vertice veniva applicato un velo o un pizzo. Le
fate delle fiabe di origine medievale, infatti, vengono tutt' oggi rappresentate con questo copricapo.
La vera novità della prima metà del Duecento è la tunica che si allunga sul dietro a formare lo
strascico:
(…) di canno ti vististi lo 'ntaiuto (strascico)/ Bella di quel jorno son feruto (…)
così cantava Cielo d'Alcamo nel noto Contrasto, sottolineando la particolarità dell'abito della donna
amata.
ABITI MASCHILI
Gli abiti maschili nei primi secoli del basso medioevo non si differenziano molto da quelli
femminili:
La tunica, a tinta unita, poteva essere di varie lunghezze, per i poveri non doveva superare il
ginocchio. Priva di bottoni, la tunica prevedeva una scollatura a punta sul davanti.
Sulla tunica gli uomini infilavano la guarnacca, sopraveste senza maniche con cinture di vario tipo
in metallo o corda, un capo della cintura pendeva fino all'orlo. In inverno si adoperavano lunghi
mantelli trattenuti sul petto da lacci, novità di origine franca.
Tuttavia rimase l'uso di indossare sopra la tunica, in inverno, un giubbotto di pelle con il pelo verso
l'esterno.
Accanto a tessuti pregiati come il velluto e la seta, il basso medioevo eredita la passione per le pelli
e le pellicce, largamente usate in epoca altomedievale. Il commercio e la produzione del cuoio
rimasero, dunque, uno dei settori principali anche dell'economia tardo medievale.
Scena cortese con Federico II che porge una rosa ad una dama, affresco, Bassano del Grappa,
Palazzo Finc
La grande necessità di materia prima, cioè di pelli di animali di diverso tipo, veniva soddisfatta
dall'utilizzo delle pelli degli animali macellati per uso alimentare, in prevalenza agnelli e capre. Ma
la richiesta sempre maggiore di capi d'alta sartoria e di qualità superiore, fecero crescere l'industria
dei pellami pregiati: di bufalo, cavallo, camoscio, cammello, coniglio, cervo, lupo. Il commercio del
pellame pregiato avveniva prevalentemente per via mare, o attraverso i fiumi nell'Europa centro-
settentrionale. I principali mercati e punti di rifornimento erano la Spagna, il Nord d'Africa,
l'Oriente e le Fiandre, in Italia avveniva prevalentemente la conciatura e la lavorazione del pellame
grezzo o semi lavorato.
Federico II attorniato dai sudditi, exultet, salerno Biblioteca Capitolare
Gli abiti adoperati per l'inverno come cappe e mantelli erano, nella maggior parte dei casi, imbottiti
o predisposti ad esserlo. Le cappe femminili, ampie ed avvolgenti avevano la superficie fra le spalle
e la cintura rivestita con pance di vaio, noto anche come scoiattolo siberiano, animaletto dalla
pelliccia pregiata. L'uso delle pellicce di vaio e di candido ermellino distingueva l'élite delle corti,
mentre le pelli di agnello e montone erano diffuse tra nobiltà minore e cavalieri.
I capelli venivano portati dall'uomo di media lunghezza, con la frangia a metà della fronte e,fermati
da cerchi, venivano raccolti in piccole cuffie (Infulae).
Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e
stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si
portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si
chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole.
Fig.72, Ricostruzione di stivaletti e scarpe medioevali.
Fig.73, Giovanni di Balduccio, San Pietro
martire e tre devoti, 1340-1350.
Fig.74, Giovanni da Milano, Martirio di San
Bartolomeo, Polittico di Prato, 1355- 1360
Le calzature erano confezionate in cuoio e in genere con pelle d'agnello. I poveri adoperavano
zoccoli in legno o generalmente pianelle; le raffinate scarpe a punta in tessuto colorato e suolate
all'interno erano esclusiva delle classi sociali elevate. Accessori importanti nella moda maschile
erano le borse realizzate in cuoio, in forma rettangolare (scarselle), trapezoidale (elemosiniera), a
forma di bisaccia, tipologia particolarmente usata dai pellegrini in viaggio, o sotto forma di eleganti
valigie per la clientela raffinata. Le scarselle venivano legate alle cinture, confezionate in cuoio con
applicazioni metalliche.
Nel XIV e XV secolo la moda francese ha larga diffusione in Italia, anche se il popolo rimane
comunque estraneo alle trasformazioni del gusto. I più recettivi, in questo senso, sono sicuramente
la borghesia e l'aristocrazia, che alla moda raffinata unirono la ricercatezza negli arredi delle case.
A. Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in città, sec. XIV, Sala della Pace, Palazzo Pubblico di
Siena
Le trasformazioni più importanti sono legate ai tessuti adoperati, molto più ricercati, molto più
preziosi: gli abiti diventano fastosi. Velluti, broccati, damaschi e seta, questi sono i materiali più
utilizzati. Per le donne resistono le guarnacche, ora senza maniche, aperte sui fianchi, mostrano il
colore dell'abito sottostante. Il capo viene imprigionato da pettinature sempre più complicate, a
volte bizzarre: semplici corone stilizzate legate al viso da un velo o da una retina che contiene i
capelli, cerchi metallici con velo, o turbanti di velluto imbottiti posizionati di traverso sulla fronte.
A partire dal XV secolo si diffuse la moda della cuffia con i prolungamenti, tipo corna, ai due lati
del volto, che nei casi eccessivi, potevanoraggiungere i trenta cm di lunghezza.
Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon governo in città, XIV sec., Sala della Pace, Palazzo Pubblico
di S
A partire dal Quattrocento gli abiti maschili si accorciano, le calze si allungano fino ai fianchi e
diventano bicolore, viene indossato al posto della tunica il giustacuorelungo o meno lungo, scollato
fino alla vita ma con un largo risvolto in tessuto diverso trattenuto da un cordoncino che passava
negli occhielli. Si diffonde la moda per le maniche tagliate verticalmente che permettono alla
camicia sottostante di uscire.
Gli abiti erano spesso imbottiti con fieno che allargavano spalle e torace, la vita stretta da cinture
con borchie metalliche. Gli abiti più ricchi presentavano i risvolti in pelliccia. Per gli uomini si
diffonde la moda dei cappelli la cui varietà è per l'epoca impressionante: turbanti, coni, a cilindro
con la tesa larga, a cuffia, cappucci, berretti di pelle e di tessuto (il velluto è il materiale più
adoperato). Il copricapo più diffuso era sicuramente il mazzocchio, cappello con un lembo
appuntito che scendeva sulle spalle. Per le donne si diffonde l'uso del cerchio di borra (lana grezza)
coperto da un panno colorato che gira a fascia intorno alla testa.
Andrea Mantegna, Camera degli sposi, part. della corte, affresco, 1465-74, Mantova, Castel San
Giorgio
Gli abiti femminili subiscono nel XV secolo un radicale cambiamento: nasce il bustino attillato e
alto, irrigidito da stecche di legno o avorio; la scollatura diventa profonda. Dal bustino si staccava la
gonna drappeggiata e arricciata, spesso rialzata con ganci d'oro o d'argento. Le maniche lunghe
erano attaccate alle spalle con cordoni che spesso terminavano con fermagli, infilati in occhielli
aperti nell'abito. Come nell'abito maschile, si diffonde l'uso dei tagli sulle maniche verticali e
orizzontali da cui usciva a sbuffi la camicia. Lo strascico degli abiti importanti si appesantisce e si
allunga.
Jan Van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434, olio su tavola, National Gallery Londra
La differenza tra un abito raffinato e un abito mediocre non era dato dal modello quanto dal colore.
Nel XIV e XV secolo alcuni colori come il verde erano adoperati esclusivamente dagli esponenti
dei ceti alti, cortigiani e signori. Alle popolane era vietato l'uso di colori sgargianti, anzi nella
maggior parte dei casi gli abiti poveri si distinguevano dal colore grezzo, tessuti cioè che non
avevano subito la tintura, uno dei momenti più delicati della manifattura delle stoffe.
Chi poteva, invece, indossava abiti dai colori decisi: il più prezioso era lo scarlatto, il morello era un
colore paonazzo scuro, il lionato (giallo fulvo) era molto ricercato e l'alessandrino (azzurro
screziato) andava per la maggiore.
Anche i tessuti indossati in realtà rivelavano l'origine sociale di chi li indossava: il panno balveto
era adoperato dagli operai, il bianchetto dai frati, il perso (di color nero tendente al rosso) dai
cavalieri e il vergato (tessuto rigato) era destinato ai servi, ai messaggeri e ai garzoni.
Nel Quattrocento prevale il tessuto lavorato (velluto e seta in prevalenza) con decorazioni floreali,
che all'astrattezza delle figurazioni orientali univano la tendenza naturalistica dell'arte occidentale.
Il motivo più ricorrente era quello del frutto del melograno, unito al cardo e al fiore di loto.
Le scarpe per gli uomini potevano essere a punta o a forma quadrata nell'estremità, diffusi erano gli
stivaletti in pelle alti al polpaccio. Le donne preferivano scarpe basse chiuse alla caviglia o
allacciate con un passante; dalla Francia si diffonde l'uso della pantofola.
L'abito non era indispensabile solo per evidenziare la categoria sociale di appartenenza, a volte
diventava necessario per emarginare o etichettare determinate categorie "umane" considerate
pericolose: le meretrici, i lebbrosi e gli appartenenti a minoranze etnico-religiose come gli ebrei e i
saraceni erano obbligati ad indossare i segni distintivi dell'infamia.
Per quanto riguarda le meretrici, disprezzate a causa del lavoro condotto, per ovvi motivi, ma ben
tollerate all'interno della società,l'Imperatore Federico II imponeva, nel suo Regno, la netta
separazione fra le donne oneste e quelle pubbliche obbligando queste ultime ad indossare una veste
corta sfrangiata nel basso affinché fossero immediatamente riconoscibili e non fossero confuse con
le altre donne. In Francia invece le prostitute erano costrette ad indossare, sull'abito o fra i capelli,
un nastrino rosso (anguilette), questo segno distintivo aveva una duplice funzione: distinguere la
donna dalle altre "oneste" e garantire ai clienti una fornicazione qualificata.
Alla pari di tutti gli altri marginali anche il lebbroso era costretto ad indossare i segni della
diversità: il suo passaggio era annunciato da lontano dal suono di sonagli o dal rumore provocato
dalle maniglie mobili di ferro della battola; era inoltre obbligato ad indossare un cappuccio e un
colletto di stoffa bianca, affinché la sua diversità fosse immediatamente visibile.
Nel 1221 l'Imperatore emanò le Assise di Messina in cui presentava l’editto generale riservato ai
giudei affinché portassero abiti particolari per distinguerli dai cristiani, i tratti distintivi erano il
colore celeste per gli abiti e l'obbligo di portare la barba solo per gli ebrei adulti. Questa legge non
era certo una novità, infatti già nel 1215 il IV Concilio Lateranense aveva emanato delle norme per
isolare le comunità ebraiche da quelle cristiane, obbligando Ebrei e Saraceni ad indossare abiti
particolari:" …costoro di ambedue i sessi, in ogni provincia cristiana e in ogni momento siano
segnalati agli occhi del pubblico come ebrei e saraceni per mezzo del tipo del loro abito".
Part. affresco castello della Manta, metà XV secolo
Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e
stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si
portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si
chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole.
GLI ECCLESIASTICI
Nel Medioevo, ma anche oggi, non tutti gli ecclesiastici svolgevano le stesse funzioni, avevano lo
stesso rango o la medesima importanza e siccome nel Medioevo l'abito aveva un alto valore
simbolico, i diversi gruppi si differenziavano anche per la veste che indossavano.
Così, ad esempio, i Frati Minori o francescani, indossavano una tunica color grigio, cinta in vita da
una
corda
e
sandali
senza
calze
(Fig.79).
Anche per i monaci ed i frati di altri ordini l'abito da indossare era stabilito dalla regola che
seguivano che ne fissava forma, tipo di stoffa e colori. In ogni caso si trattava di abiti
semplici ma funzionali, adatti al lavoro anche manuale che essi dovevano affrontare.
Fig.79, Un monaco medievale.
Se volgiamo lo sguardo alle più alte cariche della Chiesa la situazione appare molto diversa.
Vescovi e cardinali provenivano spesso da famiglie ricche e potenti con potere sia spirituale che
materiale: si circondavano di un seguito di cavalieri riccamente vestiti con stoffe preziose che
spesso riproducevano i colori dello stemma famigliare del loro signore.
Nella vita pubblica indossavano l'abito ecclesiastico, che nel caso dei cardinali era rosso, ma spesso
anche abiti preziosi e gioielli di gran valore.
ACCONCIATURE
In Europa è soprattutto a partire dal Medioevo che sono comparsi in capo alle donne accessori e
gioielli fastosi, spesso volti a ostentare lusso e opulenza e contemporaneamente dal XV secolo
inoltre sono apparse in Italia molte fogge di pettinature rendendo la testa uno dei veicoli privilegiati
delle mode del periodo.
Dietro a questi ornamenti era presente una moltitudine di significati, infatti essa era riconosciuta
come la parte del corpo maggiormente degna di riguardo, in quanto sede delle facoltà intellettuali.
Nella cultura occidentale una particolare considerazione verso il capo è da sempre presente, tant’è
vero che proprio sulla testa sono posti i simboli distintivi del potere spirituale e temporale quali la
mitria vescovile e la corona regale. Inoltre, secondo la gerarchia del pensiero medievale e
rinascimentale era considerato maggiormente lecito decorare ciò che la natura stessa ha posto più in
alto: i piedi e le gambe erano, infatti, considerati inferiori gerarchicamente. Tramite accessori e
gioielli, il capo diveniva così emblema del proprio rango, del gusto e della sensibilità alle mode e
questo specialmente per quanto riguarda le donne, esposte quasi come dei manichini viventi per
esibire lo status della famiglia di appartenenza.
Fig.80, Proposte di acconciature medioevali.
Le dame del XV secolo erano ben consce di questo ruolo sociale, e facevano della loro testa un vero
e proprio campo di rappresentazione: grazie a un sistema di ornamenti, i cui materiali, colori e
forme erano codificati nella normativa suntuaria, il capo femminile era in grado di comunicare una
miriade di significati, legati soprattutto alla condizione sociale e personale, a manifestazione del
privilegio e agio economico, ma anche sudditanza, lutto o marginalità.
La pettinatura variava anche secondo l'età: le fanciulle e le donne più giovani portavano i capelli
divisi da una riga al centro e due trecce che scendevano sul petto, talvolta lunghe fino alle
ginocchia, o ulteriormente allungate da pendenti appesi a ciascuna estremità mentre le donne adulte
portavano i capelli raccolti e spesso coperti da fasce di stoffa o foulard.
Dopo il 1200 la moda delle lunghissime trecce tende a scomparire per lasciare il posto a capelli più
corti
tenuti
fermi
da
un
cerchietto
e
lasciati
liberi
sulle
spalle.
Le vedove e le suore portavano il soggolo, un ampio copricapo di tessuto leggero che nascondeva
completamente i capelli, le tempie, il collo e la parte superiore del petto (Fig.80).
I CAPELLI DEI RE MEROVINGI
Fig. Clodione II
Fig. , Teodorico II
Fig. Chidelberto III,
All'inizio del regno di Carlo Magno nel secolo 8º (700- 800 d.C.), si stabilì una forte alleanza con il
Papa di Roma, fondando il Sacro Romano Impero Germanico. Carlo Magno portò nel suo regno i
vecchi costumi romani, e gli uomini cominciarono a usare i loro capelli più corti e più
meticolosamente curati. Il taglio di capelli corti e ben pettinati era più o meno "romano", in
opposizione al paganesimo barbaro dei periodi precedenti e più in sintonia con il cristianesimo.
I CAPELLI DEI RE CAROLINGI:
Carlo Magno (740-814)
Luigi V (967-987)
Nei pressi del 10° secolo (901-1000 d.C.), la Chiesa Cattolica iniziò ad emettere editti contro la
lunghezza dei capelli degli uomini, e la necessità di coprire con veli le teste delle donne.
Nel 1073, il Papa Gregorio VII vietò l'uso di barba e baffi tra il clero, i sacerdoti poi, cominciarono
a dare istruzioni alla popolazione raccomandando di radersi la barba per essere un buon cristiano.
Nel 1096 l'arcivescovo di Rouen annuncia che “gli uomini che portavano la barba sarebbe stato
scomunicato dalla Chiesa” e il re inglese Enrico accetó nel 1130 di tagliare i capelli e la barba,
sotto la pressione della Chiesa. Da allora, e fino al 15 ° secolo, era raro vedere barbe negli uomini.
Immagini di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e poi dei re d'Inghilterra, sono
rappresentate solo con i baffi, anche se tra i Normanni l'uso di barbe erano molto importante per
individuare i maschi maturi dai giovani.
Dal 11 ° secolo in poi, era molto popolare l’ "acconciatura alla paggio", un taglio di capelli con
frangia e capelli corti sopra le orecchie fino al collo.
Nel famoso arazzo di Bayeux, una tela di 224 piedi di lunghezza, realizzata in Normandia, in
Francia, nel 11 ° secolo, che racconta la storia della conquista delle isole britanniche 'dai francesi
normanni, sono raffigurate immagini che mostrano come gli uomini utilizzati i capelli alla quel
tempo.
.
Il De Ornatu Mulierum di Trotula si mostra essere un testo molto importante anche per la cura e
l’ornamento dei capelli perché riporta ricette, applicazioni anche per la cura di patologie del cuoio
capelluto e per abellire la chioma secondo i gusti del tempo.
In questo antico trattato è creduto che la seborrea e la forfora siano state prodotte da vermi che
crescono sotto il cuoio capelluto, e al fine di eliminarli era consigliato lavare i capelli con aceto,
acqua di rosmarino, ortica, menta, timo e altre erbe. E tutto questo, in ogni caso, ha contribuito alla
igiene capillare e alla salute del cuoio capelluto.
PER I CAPELLI BIONDI:
“Per colorare i capelli in modo che sia d'oro: prendi la corteccia esterna del noce e la corteccia interna del
medesimo albero, cuoccile in acqua, e con quella stessa acqua stempera allume e galle, e con queste sostanze
stemperate ungi la testa, dopo averla lavata, e sovrapponendo delle foglie, e legando con una fascia per due giorni,
potrai così effetuare la colorazione. Inoltre, pettina la testa perché ciò che è attacatto ai capelli vada via come
superfluo. Poi applica la tintura che si fa con croco orientali, sangue di drago, ed alcanna, della quale la maggior
parte serà stemperata con un decoto di bresiglio; e consentono alla donna di rimanere così per tre giorni, ed il
quarto giorno lasciarla sia lavata con acqua calda, e non potrà mai essere rimossa con facilità”.
“Prendere la scorza mediana del sambuco, fiori di ginestra, croco, e tuorli di uova; queste sostanze cuocciano in
acqua e si raccolga la materia che vi rallegerà, sopra e quindi siano spalmati i capelli”.
“Chiudi in una pentola nuova il maggior numero possibili di api, ed in tal modo bruciale, tritale con olio, e quindi
ungi la testa; por lo stesso scopo è efficace la agrimonia, tritata con latte di capra”.
PER I CAPELLI ROSSI:
"Se una donna vuole avere i capelli rossi e folti, se li lavi spesso con questa lavanda: aggiungi della celidonia a
trucioli e foglie di bosso; aggiungi ancora agrimonia cotta a lungo; dopo di che bisogna prendere una pentola dal
fondo minutamente bucherellato, con sopra, ben aderente, un panno bianco su cui si dispone uno strato di cimino, un
altro di paglia tritata con prevalenza d'orzo, un terzo di trucioli o foglie di bosso; la quarta zona la fornisca l'ipia, la
quinta la celidonia; quindi si disponga un filtro duplice, triplice o quadruplice, costituito da sabbia fine, polvere di
liquirizia, cenere di frassino o di vite. L'acqua va colata attraverso la pentola suddetta e i capelli, lavati spesso con
questa lavanda, vanno avvolti finché siano asciutti. Così, in breve tempo, diventeranno meravigliosamente belli.
Quando è il momento di pettinarli, vanno sparsi sopra questi ingredienti, ridotti in polvere fine: chiodi di garofano,
noce moscata, rosa essiccata, galanga, e ancora costo, pepe, cardamomo, cannella. Dopo aver lavato i capelli con
questi ingredienti aggiungendo acqua di rose, si pettini avendo cura di inumidire anche il pettine. Se si aggiunge
muschio, se ne acquisterà in pregio".
PER I CAPELLI NERI:
"E siste un ritrovato saraceno per rendere i capelli neri: prendi la buccia di una melagrana molto dolce, trítala e
falla bollire in aceto o in acqua, poi cólala. Al liquido così ottenuto aggiungi polvere di galla e di allume in grande
quantità, in modo da renderlo una poltiglia assai densa e la donna impregni i suoi capelli con questa sorta di pasta.
Poi si stemperi della crusca con olio e si ponga al fuoco in un recipiente fino a che la crusca sarà completamente
abbrustolita: la donna sparga questa sostanza sul capo fino alla radice dei capelli, poi lo bagni e di nuovo impregni
i capelli con la pasta suddetta e la lasci in la testa per tutta la notte perché i capelli si ungano meglio, poi li lavi e
saranno tutti neri". “Prendere una lucertola e stacatte la testa e la coda; lo cuoccia bene in olio comune e con tale
olio unga la testa”.
PER LA CRESCITA E FOLTEZZA DEI CAPELLI:
"Prendi pane d'orzo con la crosta, macinare con sale e grasso d'orso. Ma prima, bruciare il pane d'orzo. Con questa
miscela ungere la testa, e il pelo crescerà. Al fine di rendere i capelli folti, prendi agrimonia e corteccia di olmo,
radice di verbena, radice di salice, abrotano, i semi di lino bruciati e polverizzati, e radice di canna. Cuocciano tutte
queste cose in latte di capra o in acqua e lavare la testa (che prima sarà rasata)".
DEPILAZIONE:
"Per diventare tutta morbida e liscia, senza peli dalla testa ai piedi, una donna per prima cosa deve recarsi ai bagni
pubblici; se non e'e abituata, faccia un bagno di vapore in questo modo: prendi tegole e pietre al calor bianco,
mettile dentro una stufa e la donna ci si sieda sopra. Oppure, in altro modo: prendi tegole calde o pietre nere calde e
mettile in una stufa o in una buca scavata per terra: poi versaci sopra acqua calda in modo che si sviluppi vapore e
la donna ci si sieda sopra tutta avvolta in panni per sudare. Quando abbia ben sudato, entri in acqua calda e si lavi
con la massima cura; poi esca dal bagno e si asciughi bene con un telo di lino. Poi si unga tutta con la seguente
crema depi- latoria: prendi della calce viva passata per bene al crivello e mettine quattro once in un vaso di
terracotta e falla cuocere finche diventi poltiglia; poi prendi un'oncia di ossido di arsenico e fa' cuocere ancora e
senti con una penna se e cotta a sufficienza: attenta che non cuocia troppo e che non resti troppo a lungo sul- la
pelle, perche ustionerebbe terribilmente. Ma se capitasse che la pelle fosse ustionata a causa della crema
depilatoria, prendi del populeone, stemperalo con olio di rosa, o di viola, o con succo di sempreviva e applicalo
finche il bruciore non si plachi e poi ungi con balsamo bianco, finche I'irritazione sia scomparsa".
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