Storia del trucco acconciatura e abbigliamento attraverso le opere d
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Storia del trucco acconciatura e abbigliamento attraverso le opere d
COMUNICARE CON L’ARTE Dott.ssa Clara Chierici Durata: 10/15 ORE Modulo: Tecnica della comunicazione Destinatari: Abilitazione professionale estetica - Abilitazione professionale acconciatura - Qualifica biennale estetica STORIA DEL TRUCCO E DEL COSTUME ATTRAVERSO LA STORIA DELL’ARTE Si può considerare ogni opera d’arte uno strumento per comunicare la metodologia utilizzata dalle donne vissute nelle diverse epoche per abbellirsi. Tali metodi sono definiti “trucchi” ovvero, espedienti per far risaltare il corpo a fini religiosi, culturali o semplicemente secondo i canoni estetici del tempo, infatti i visi colorati, le acconciature dei capelli, i tatuaggi sulla pelle, le orecchie forate, i gioielli e l'abbigliamento possono essere interpretati come veri e propri messaggi. Riassumendo le differenti accezioni utilizzate dai dizionari nella descrizione del significato della parola “trucco”, tale termine è inteso con una doppia valenza: da un lato possiede un aspetto coincidente con la cosmetica, da un punto di vista etimologico, però, si opera una differenza fra trucco e cosmesi vera e propria. Cosmetica dal greco kosmetikòs, "atto ad abbellire", e questo da kosmèo, "adorno, io abbellisco", che a sua volta deriva nientemeno che da kòsmos, "ordine" in opposizione al disordine del caos. La cosmesi è dunque l'intuizione estetica col fine esclusivo di esaltare le qualità somatiche, la freschezza e l'armonia del corpo. Il trucco, invece, è l'operazione estetica materiale con un cosmetico decorativo che «cancella il volto come natura, per rivelarlo come artificio» (P. Magli, "La maschera dell'idolo", in G. Butazzi e A. Mottola Molfino, La donna fatale, De Agostini, 1991). Il truccarsi, perciò, implica una modificazione, anche se episodica e provvisoria, per mezzo di cosmetici e altri espedienti. Infatti, se in primo luogo s’intende trucco le sostanze con cui si dipinge il viso rendendo lo stesso più armonico e aggraziato, in secondo luogo si possono intendere trucchi come quegli stratagemmi individuati dall’uomo stesso per rendere la figura più vicina ai canoni estetici del tempo (es. corsetti, lacci, tacchi alle scarpe, acconciature particolari, colore della pelle etc.). I trucchi sono da sempre stati utilizzati per raggiungere un ideale di bellezza vigente in quell’epoca storica e proprio per questo è logico pensare come possa essere stato differente il modo di servirsi di trucchi o dell’abbigliamento da un secolo all’altro o allargando l’angolo di visuale, da una nazione al’altra. Privilegiare un tipo di trucco, un abito rispetto un altro, è strettamente legato al canone estetico, per cui si ritiene fondamentale per prima cosa, indagare il canone estetico vigente nelle varie epoche storiche per poi capire quali strattagemmi sono stati utilizzati per raggiungere tale scopo. La linea guida per affrontare le due tematiche sarà quella del tempo con un vero e proprio viaggio nella storia, partendo dalla preistoria, all’Antico Egitto, alla Grecia antica poi l’Antica Roma proseguendo il viaggio con il Medioevo, il Rinascimento, l’Età Moderna e concludendo con l’Età Contemporanea fino ai giorni nostri. LA PREISTORIA INQUADRAMENTO STORICO La preistoria corrisponde a quel periodo lungo due millenni che parte dall’origine dell’uomo fino alla comparsa delle più complesse forme di organizzazione sociale. Comprende diverse epoche: Paleolitico e Mesolitico (presenza di cacciatori- raccoglitori), il Neolitico (economia produttiva), Età del Rame (introduzione della metallurgia, maggiore complessità nell’organizzazione sociale). Dopo di chè si entra nella protostoria (fase di passaggio tra la preistoria, caratterizzata dall’assenza di fonti scritte, e la storia conosciuta grazie alle fonti scritte) suddivisa a sua volta in Bronzo Antico, Medio, Recente e Finale (introduzione di questo metallo e produzioni di armi e gioielli in bronzo) ed Età del Ferro (introduzione del Ferro e realizzazione di armi in ferro). CANONE ESTETICO Enfatizzazione di alcune arti del corpo collegate alla gravidanza, esaltazione della donna come madre. La “Venere di Willendorf” (Fig.1), rinvenuta in Austria e conservata nel Museo di storia naturale di Vienna databile tra 40.000 e il 15.000 a.C. così come anche la “Statuina di Venere” (Fig.2) rinvenuta a Dolni Vestonice, sono la riproduzione di donne con braccia appena accennate, nel caso della Venere di Willendorf raccolte sopra al seno, e totale assenza del viso e dei piedi mentre particolarmente evidenziati sono il seno, i glutei e il ventre. Fig. 1 Venere di Willendorf - vista frontale; semi - laterale, posteriore- In queste “veneri” l’accentuazione degli attributi femminili più appariscenti ha un significato simbolico e magico: è esaltazione della donna come madre, come creatrice di un nuovo essere umano destinato a perpetuare la specie in un’epoca dove la civiltà viveva in condizioni molto difficili. Fig.2 Statuina di Venere, da Dolni Vestonice. PRESENZA DEL TRUCCO E DELL’ABBIGLIAMENTO Un gruppo di archeologi guidati da João Zilhão dell'Università di Bristol, hanno rinvenuto in due siti archeologici della Muncia in Spagna, frequentati dall’uomo di Neanderthal, conchiglie forate e utilizzate come monile datate 50 mila anni fa, precedenti all’arrivo dell’uomo anatomicamente moderno nel nostro continente, e colori naturali che indicano come l’uomo di Neanderthal avesse capacità cognitive avanzate che gli permetteva una consapevolezza di sé. Tra i colori naturali si attesta l’uso del giallo, rosso, viola e nero, ottenuti dai minerali in varie tonalità cromatiche, venivano impastati applicati sul corpo in occasione di cerimonie religiose o semplicemente come elemento che caratterizzava la tribù stessa. Non abbiamo informazioni archeologiche riguardo la presenza del make-up esclusivo per il viso ma tracce di minerale natrojarosite, di colore giallo, il medesimo elemento che gli egizi usavano come ombretto in epoche più recenti. L’abito nasce nelle epoche primitive con la primaria funzione di difendere l’uomo dagli agenti atmosferici ma anche da colpi e ferite. L’uomo inizia a coprire il corpo nel paleolitico, 8500 anni fa utilizzando le pellicce degli animali cacciati. In un secondo tempo accanto ad una migliore coscienza di sé e una sempre maggiore complessità sociale, compaiono tecniche di conceria, che permettevano di cucire le pelli con aghi ricavati dalle zanne dei mammut. Scavi moderni nelle necropoli datate tra l’età del Bronzo e del ferro hanno portato alla luce strumenti in ceramica quali fusaiole e rocchetti, utilizzati per la filatura e la tessitura, oltre che in metallo quali spilloni e fibule, considerabili chiari indicatori della presenza dell’abbigliamento. Fig.3 Ricostruzione dell’abito della defunta della Tomba 29, Necropoli Località Fontanelle (Salerno). L’ANTICO EGITTO INQUADRAMENTO STORICO Con Antico Egitto si intende la civiltà sviluppatasi in quella sottile striscia di terra paludosa fertile che si distende lungo le rive del Nilo a partire dalle sue cateratte al confine col Sudan fino allo sbocco nel Mediterraneo e suddiviso in quattro grandi fasi: l'epoca arcaica o protodinastica (31602705 a.C.), l'Antico Regno (2705-2035 a.C.), il Medio Regno (2035-1550 a.C.) e il Nuovo Regno (1552-1070 a.C.) più altri periodi più corti (periodo Tanita, Libico, Kushita, Saitico, Epoca Tarda, 1070- 332 a.C.) nelle quali si sono succedute XXXI Dinastie. Politicamente l’Egitto era uno stato al cui potere c’era il faraone. CANONE ESTETICO L’arte nel senso attuale del termine non esisteva nell’Antico Egitto, e se era presente una conoscenza dell’arte, questa non andava oltre i confini della sua esperienza religiosa, gli egizi usavano l’arte figurativa, al pari della scrittura, per la comunicazione e la propaganda politica. L’Egitto era profondamente influenzato dalla magia, da una fede nell’esistenza di forze trascendenti invisibili e onnipotenti che occorreva propiziarsi per assicurarsene l’aiuto e il faraone rappresentava il tramite per raggiungere queste forze. Accanto al politeismo (centralità del faraone) era viva nel popolo anche la concezione di un grande dio unico, con cui si identificava il dio sole RA. I canoni estetici relativi alla struttura fisica non sono rigidi, tuttavia le rappresentazioni giunte fino a noi mostrano figure snelle e con membra minute, ma non emaciate, in cui le tipiche curve femminili sono ben disegnate, non a caso siamo ancora in una società nella quale il ruolo prevalente della donna è quello di procreatrice. IL TRUCCO Nell’Antico Egitto i sacerdoti confezionavano unguenti a base di timo, origano, mirra, incenso, lavanda, oli di sesamo, di oliva e di mandorle. Questi prodotti, usati soprattutto per la mummificazione dei corpi dei defunti, erano impiegati anche per massaggiare il corpo dei vivi dopo il bagno, per preservarlo dagli sgradevoli effetti della sudorazione. Così, all'aspetto culturale si accompagna anche quello profano: accanto ai prodotti per il tempio, si diffonde l'uso dei cosmetici anche per la vita quotidiana sia per le classi più abbienti, ché per gli artigiani e gli operai. Il papiro Ebers (ca. 1550 a.C.) riporta, tra le altre cose, la prima ricetta di cosmetico: in essa si parla di vari profumi impastati con polvere di corno e sangue di lucertola. Per gli antichi Egizi la bellezza era importante quanto la salute pertanto, i cosmetici fungevano anche da medicinali. Il famoso trucco applicato al contorno degli occhi con galena nera (un solfuro di piombo di colore grigio scuro) o malachite verde (un minerale color verde-smeraldo) aveva il triplice scopo di abbellire, proteggere e curare: il sole e l'aria di quei luoghi causavano riverberi intensi e la finissima sabbia dava fortissime irritazioni oculari. Il trucco con galena nera o malachite verde assicurava agli antichi Egizi la cura del tracoma (un'infezione virale dell'occhio), dell'emeralopia (ovvero la riduzione della vista durante il crepuscolo) o la più comune congiuntivite. Alle finissime polveri di queste sostanze venivano aggiunti grassi animali, cera d'api o resine, che rendevano il prodotto in grado di essere spalmato e garantivano sia l'attività terapeutica ché quella cosmetica (Fig. 4). Fig. 4 Effigie in calcare dipinto della regina Nefertiti, Amarna, 1344 a.C. circa. Non a caso, nei papiri questa usanza è indicata col termine mesdemet, che significa "che fa parlare gli occhi". Almeno fino all'Antico Regno (2705-2250 a.C.) il trucco non variava secondo il sesso (più tardi inizierà la distinzione nei colori per maschi e femmine). Le statue in pietra calcarea dipinta di Rahotep e della moglie Nofret datate al 2630 ca. rinvenuta in una tomba a Meydum lo confermano: entrambe hanno gli occhi sottolineati da un tratto di malachite verde, con una spessa riga sulla palpebra inferiore (Figg.5, 6, 7). Fig.5, Statue in pietra calcarea dipinta di Rahotep e di sua moglie Nofret, Meydum, 2630 ca. Fig. 6 Particolare di Nofret Fig7 Particolare di Rahotep Da fonti scritte sappiamo come gli Egizi importassero dall'Oriente oli essenziali e minerali utili alla produzione di unguenti e profumi già nel 3500 a.C. L'uso più importante di olii aromatici e di essenze avveniva nella mummificazione: la credenza tradizionale che il corpo si fosse dovuto conservare per poter rivivere dopo la morte portò allo sviluppo di metodi di imbalsamazione tra l'inizio del periodo dinastico e l'era Cristiana. Pratica perfezionata solamente con l’11° dinastia (2000 AC). I corpi venivano rapidamente essiccati con natron anidro, un sale naturale composto da carbonato di sodio e cloruro o solfato di sodio, quindi la superficie della pelle veniva rivestita con resine aromatiche ed il corpo era avvolto in un telo di lino. Non era praticata nessuna eviscerazione, ma un'oleoresina simile alla trementina era iniettata nell'ano per sciogliere gli organi. Un grado di conservazione ancora migliore fu ottenuto nel Nuovo Regno (1570-1070 AC), quando gli organi interni venivano eviscerati e posti in natron, trattati con resina bollente, avvolti in bende e collocati in quattro distinte giare. La cavità lasciata nel corpo veniva lavata con vino di palma e spezie e riempita con un materiale provvisorio, quindi l'intero corpo posto in natron per 40 giorni, trascorsi i quali veniva lavato nelle acque del Nilo. Era solito riempire il cranio con bende di lino imbevute di resine e la cavità del corpo con sacchi di lino contenenti mirra e imbevuti di resina. Poi, la superficie esterna del corpo veniva cosparsa da una miscela di olio di cedro, cera e gomme e spezie. Infine, dopo aver riempito il naso e le orbite degli occhi con panni di lino, l'intero corpo veniva rivestito da una resina fusa per chiudere i pori. Il processo di imbalsamazione era probabilmente terminato entro il 52° giorno successivo alla morte. Nel 1973 le resine prelevate dalla mummia di Ramsete V furono analizzate e si scoprì che erano composte da olio di ginepro, olio di canfora e la gommo-resina mirra. L'imbalsamazione continuò attraverso l'epoca dei Romani fino all'era Cristiana, quando cadde in disuso, insieme alla pratica di bruciare l'incenso, in quanto considerata una pratica Pagana. L'uso di questi unguenti fu poi adottato anche da altri popoli del Mediterraneo, dapprima nell'area medio-orientale, poi in quella europea. ABBIGLIAMENTO Nell'Antico Regno gli uomini usavano un perizoma oppure un gonnellino dall'estremità sovrapposte (Fig. 8, 9) che durante le dinastie del Medio Regno si trasformò allungandosi fino alle caviglie caratterizzato da pieghe e trasparenze. Il torace era coperto con una stola di tessuto: molto usato era il colore bianco e il tessuto di lino mentre la lana non era gradita per motivi religiosi, in quanto la pecora come animale vivo era considerato impuro. I nobili usavano adornarsi con gioielli e usavano sandali in papiro o legno di palma con lacci di cuoio. Le donne usavano tuniche aderenti lunghe con una o due bretelle (Fig. 10). Successivamente divennero ornate di complessi disegni e colorate ma la maggior caratteristica fu l'impiego del sottilissimo trasparente lino, chiamato bisso, e delle cinture. Sempre durante il Medio Regno si incrementò l'uso di gonne lunghe e di stoffa a pieghe sul busto lasciando le braccia scoperte. Fig.8, Statua a copia in scisto,raffigurante Micerino e la regina Khamerernebty II, Giza; Fig.9, Statuetta in alabastro di re Pepi I inginocchiato in atto di offrire libatori, 2380 a.C. ca. 2530 a.C. ca. Fu proprio durante il Medio Regno che l'abito, divenuto più complesso acquisiva svariate fogge atte ad individuare la classe sociale di appartenenza come si evidenzia nelle immagini funebri (Fig. 10). Fig.10, Moglie e marito con un fiore, Tomba di Nacht. Entrambi usavano nelle cerimonie un cono profumato sulla testa e le donne si ornano con un fiore di loto. Anche il sovrano portava sia il gonnellino che la gonna lunga ma di suo uso esclusivo era il copricapo nemes (Fig. 11 - 12). Fig. 11 Statua in scisto di re Thutmosi III indossante la nemes e la gonna shendyt , Fig.12, Parte superiore di un colosso in arenaria di Amenofi IV, 1356 a.C, ca. Karnak, 1460 a.C Poteva portare pettorali in oro con pietre e smalti, la corona e lo scettro. La testa era rasata e spesso coperta con copricapo di cuoio. Il popolo si abbigliava in maniera diversa dai nobili, sia per motivi economici che pratici: semplici calzoni, gonnellini, quando addirittura non lavorassero nudi, sia uomini che donne (Fig. 13). Fig.13, Pittura parietale della tomba di Nebamun nella Tebe occidentale, con scena di musicisti che intrattengono ospiti ad un banchetto, 1356 a.C, ca. PETTINATURE E ACCONCIATURE Dall’arte egiziana si nota come gli egizi fossero attenti al modo di acconciare la capigliatura: i bambini portavano i capelli molto corti o rasati con l'eccezione di una parte che veniva raccolta in un ciuffo per poi farlo ricadere sulla spalla destra tagliato poi all'età di dieci anni, quando diventavano adulti mentre le bambine portavano semplicemente i capelli corti. Gli alti dignitari avevano piccoli ricci che coprivano le orecchie formando una curva dalle tempie alla nuca (Fig. 7). Le donne portavano inizialmente i capelli molto corti, poi le acconciature si allungarono sempre di più (Fig.6). I sacerdoti avevano l'obbligo di radersi completamente testa e corpo: un segno di purificazione necessaria per l'accesso ai sacri templi (Fig. 14). Fig. 14 Sacerdote Fig. 15 Osorkon I A partire dalla V dinastia si diffuse l'utilizzo di parrucche semplici soprattutto tra i dignitari e le loro famiglie. Erano composte da sottili treccine di capelli veri, raccolte utilizzando spilloni di vario materiale come legno, osso o avorio, oppure formate da fibre vegetali arricchendo poi ornamenti, considerati al tempo, espressione del rango sociale di appartenenza (Fig. 15). LA GRECIA ANTICA INQUADRAMENTO GENERALE La Grecia, pur essendo una nazione, non divenne mai uno stato, e si organizzò secondo una visione municipalistica (le polis), che garantiva una più diretta partecipazione alla vita politica delle classi sia aristocratiche sia borghesi. Tale libertà si rifletté significativamente nella produzione artistica infatti, se all’artista viene riconosciuta la libertà, esso può variare la propria visione dell’arte, e, di conseguenza, può raggiungere obiettivi diversi, e migliori, rispetto agli artisti delle generazioni precedenti. Al contrario, se il clima politico non è basato sul principio delle libertà individuali, appare evidente che anche l’artista non gode di quel fervore di ricerca e perfezione individuale, che, da sempre, rappresenta una motivazione fondamentale per i progressi dell’arte. La nostra conoscenza dell’arte greca è decisamente parziale, dato che molta produzione artistica è totalmente scomparsa e noi ne abbiamo una vaga conoscenza solo attraverso le fonti. Del tutto ignota è ad esempio la pittura: le fonti storiche ci parlano di famosi pittori le cui opere erano oggetto di grande ammirazione al loro tempo. È da considerare che la pittura, sia quella pratica su muro sia quella mobile su supporti lignei, è molto più fragile rispetto ad altre opere d’arte: una statua può anche sopravvivere millenni sotto terra o in fondo al mare, ma non può certo conservarsi in analoga situazione un dipinto o un affresco. Le uniche testimonianze pittoriche che ci sono giunte dall’antichità sono frutto sempre di casi eccezionali: o si tratta di dipinti realizzati in tombe o sono il frutto di eventi straordinari, quali i casi di Pompei ed Ercolano, la cui particolare sorte, legata all’eruzione del Vesuvio, ci ha consegnato affreschi e mosaici che in condizioni normali sarebbero stati anch’essi distrutti. Un discorso diverso si può fare per la produzione scultorea: anch’essa è andata in gran parte perduta ma, pur non avendo più molti originali, le opere greche ci sono note grazie alle numerosissime copie di epoca romana. Da esse, pur con le dovute considerazioni che trattasi pur sempre di copie, è stato possibile ricostruire il percorso storico e l’evoluzione stilistica dell’arte plastica greca. In sintesi, possiamo suddividere l’arte greca in tre periodi fondamentali: 1. periodo di formazione 2. periodo di maturazione 3. periodo di diffusione. 1. Il periodo di formazione va dal 1100 al 650 circa a.C. In questa fase si assiste ad una produzione artistica ancora legata a schemi rudimentali, dove predomina una stilizzazione geometrica di fondo, memore ancora della produzione che in queste zone avvenne in età neolitica e del bronzo, e che va sotto il nome di arte cicladica, una ulteriore partizione di questo periodo può essere sinteticamente fatta tra due periodi principali: il periodo geometrico (XI-VIII sec. a.C.): in cui predomina uno stile astratto e decorativo, ottenuto con motivi geometrici. Anche la figura, sia umana che animale, venne resa con una geometrizzazione costruttiva, che tendeva a rendere le varie parti di un corpo a figure elementari quali il triangolo, il trapezio, il cono, il cilindro, la sfera, eccetera. Questa stilizzazione e geometrizzazione, permane nella produzione greca di fatto fino al VII secolo circa, quando la statuaria greca comincia per la prima volta a cimentarsi nella produzione monumentale e non più nella limitata produzione di idoletti di ridotte dimensioni. È il periodo in cui la cultura greca guarda ad oriente, ispirandosi a modelli egiziani e babilonesi. Ciò le permette di superare il suo orizzonte, fino a quel momento di limite provinciale, per avviarsi a quella radicale evoluzione che la porta ad essere il nuovo baricentro della produzione artistica del Mediterraneo. il periodo orientale (prima metà del VII sec. a.C.): in questo periodo, sotto l’influenza delle grandi culture orientali, si iniziò a produrre la grande statuaria e l’architettura monumentale dei templi. Nella figura eretta prevale la posizione stante di evidente derivazione egiziana (Fig. 16). Fig.16 Kouros monumentale, intorno al 600 a.C. 2. Il periodo della maturazione, (dal 650 al 330 circa a.C.) vide l’arte greca raggiungere le alte vette di una espressione artistica piena e matura, e che resterà insuperata in tutto il mondo antico. In base all’evoluzione stilistica, questo periodo, di eccezionale fioritura, può essere suddiviso nei seguenti periodi: il periodo arcaico (650-480 a.C.): è il periodo in cui iniziò a mostrarsi l’autonomia del gusto greco, nel momento in cui le influenze orientaleggianti erano pienamente superate. Di questo periodo sono soprattutto le statue dei kouroi e delle kore, fanciulli di ambo i sessi che rappresentano probabilmente portatori di offerte alle divinità. La produzione si orienta secondo tre stili fondamentali: il dorico, lo ionico e l’attico. Il primo, che si sviluppa nell’area occidentale della Grecia, si orienta ad una forma massiccia e di grande impatto volumetrico; lo stile ionico assunse invece caratteristiche più slanciate e raffinate; lo stile attico, che si sviluppò ovviamente ad Atene, rappresenta una sintesi di volumetrie doriche e raffinatezze estetiche ioniche (Fig. 17, 18, 19). Fig.17 Kore del peplo, 540 a.C. Atene, Museo dell’acropoli. Fig.18 Kore VI sec. a.C. Fig.19 Kouros di Melos, VI sec. a.C., Atene, Museo dell’acropoli. il periodo severo (480-450 a.C.): fase di transizione dal periodo arcaico a quello classico, in cui emergono le grandi figure di scultori quali Mirone, ed inizia la grande statuaria in bronzo. Periodo definito “severo” per una caratteristica singolare: le statue smettono di sorridere. In pratica nelle statue realizzate fino al 480 a.C. nei volti delle statue gli scultori cercavano di evidenziare la forma plastica della bocca tirando in fuori le labbra e accentuando le fossette al loro punto di congiunzione. In questo modo le statue avevano inevitabilmente un aspetto sorridente. Quando infine si decise di abbandonare questa tecnica del modellare le bocche, le statue smisero di sorridere. In realtà il periodo severo fu importante nell’evoluzione della statuaria greca non per questo particolare, ma perché in questa fase inizia quella grande ricerca che portò al periodo classico. È il periodo di Mirone che introduce nuove forme e tecniche di rappresentazione, quali la ricerca del movimento. È anche il periodo in cui gli artisti greci iniziano la produzione delle sculture in bronzo secondo la tecnica della fusione a cera persa (Fig.20, 21). Fig.20 Discobolo di Mirone, 460 a.C. ca. Fig.21 Efebo, 480 a.C. il periodo classico (450-400 a.C.): coincide con l’età di Pericle, con la realizzazione sull’acropoli di Atene del Partenone e con l’attività di grandi scultori quali Fidia (Fig.23) e Policleto. È il momento di maggior equilibrio estetico dell’arte greca, ed è quello che è stato sempre considerato di maggior perfezione. Con loro si raggiunse in pratica quell’equilibrio della rappresentazione che sembra il coronamento del sogno greco: ottenere il pieno controllo della rappresentazione plastica. Policleto fu inoltre l’inventore di importanti norme che saranno di fondamento per tutta la statuaria posteriore: la posizione a chiasmo (che sostituisce finalmente la rigida simmetria della posizione stante) e la regola del canone, utile per il proporzionamento della statue che raffigurano figure umane (Fig.22). Fig.22 Ricostruzione del Doriforo di Policleto, 450 a.C. Fig. 23 Fidia, Hestia, Dione ed Afrodite, ala destra del frontone est del partenone, 445- 450 a.C, Atene il periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.): è il periodo in cui si assiste ad una svolta significativa nella statuaria greca, alla progressiva ricerca di un espressionismo maggiore meno legato alla pura forma estetica. È il periodo di grandi artisti quali Skopas, Prassitele e Lisippo (Fig.24- 25- 26). Ed è anche il periodo in cui un nuovo senso di decadenza sembra incrinare la eroica perfezione dei modelli classici. Si assiste in pratica ad una nuova ricerca in cui alla perfezione formale si coniuga la introspezione psicologica, elemento finora assente nella statuaria greca. Fig.24 Afrodite Cnidia di Prassitele. Fig. 25 Photos di Skopas. Fig. 26 Apoxyomenos di Lisippo. 3. il periodo della diffusione (323 - 31 a.C.): è la fase in cui l’arte greca non è più lo stile nazionale di alcune città greche e delle loro colonie, ma diviene uno stile internazionale, diffuso in tutta l’area del Mediterraneo ed oltre. A questo periodo si dà, di solito, il nome di arte ellenistica. Esso va convenzionalmente dalla morte di Alessandro alla battaglia di Azio, quando i romani divennero i padroni assoluti di tutte le principali aree in produzione ellenistica. La vita della polis è superata in quella più vasta degli stati e l’arte è chiamata a celebrare gli ideali religiosi, celebrativi dei vari re e principi. CANONE ESTETICO L’arte greca si lega indissolubilmente con il concetto di classico. Al termine classico, più che l’individuazione cronologica di un periodo storico preciso, va richiesto il contenuto estetico di una particolare visione dell’arte. Il classico, possiamo dire, si lega al concetto di perfezione assoluta. È classica un’arte non derivata da un gusto individuale e soggettivo, ma ispirata a valori universali ed eterni. L’arte greca arrivò ad un simile risultato durante la fase detta «periodo geometrico» nella quale si affermò una nuova visione del manufatto artistico, in cui prevaleva la volontà di affidarsi alla matematica e alla geometria. Lo spirito matematico, pur quando si esaurì tale fase, rimase una costante della visione artistica greca, anche nei periodi successivi. Vi era, in questo atteggiamento, le premesse per lo sviluppo del razionalismo greco. In questa fase, la produzione artistica, ridotta a sperimentazioni geometriche, finì per produrre oggetti e rappresentazioni del tutto antinaturalistiche, in cui prevaleva una schematizzazione geometrica di tipo quasi astratto. L’inversione di tendenza avvenne nel cosiddetto «periodo orientale», quando l’arte greca venne a spostarsi sul piano del confronto con le arti orientali, arti in cui prevaleva la rappresentazione volumetrica e la produzione della grande statuaria. L’arte greca iniziò a convertirsi al naturalismo, ma senza perdere il suo essenziale spirito matematico. Uno dei concetti guida del naturalismo greco è la proporzione. Gli artisti greci non si limitano ad osservare il corpo umano. Lo misurano, per individuare i rapporti numerici, che esistono tra una parte e l’altra, e tra le singole parti e il tutto. Arrivarono così a definire che, in un corpo perfetto ed armonico, la testa, ad esempio deve essere l’ottava parte dell’altezza. Dopo di che, la statua, indipendentemente dalla sua dimensione, risulterà proporzionata, se rispetta il medesimo rapporto. Ossia: rapporti della rappresentazione = rapporti della realtà L’arte greca classica cerca di rappresentare la realtà, depurata da qualsiasi forma di soggettivismo sia percettivo sia interpretativo. Giunge così nella statuaria, a risultati che, sul piano della fedeltà anatomica, non ha eguali. Il concetto di proporzione fu alla base dell’istituzione del canone di Policleto, ma fu anche alla base degli ordini architettonici. Canone ed ordini divennero, quindi, strumenti normativi che fissavano le leggi e gli ambiti in cui poteva muoversi la creatività artistica. Essi contribuirono molto a definire l’omogeneità stilistica dell’arte greca, pur restando un astratto strumento matematico. Ma il concetto di classico va oltre: l’artista greco non vuole rappresentare l’individuo ma l’uomo, ossia il limite perfetto a cui può giungere la forma umana. E a ciò, giunge per approssimazioni successive: sceglie le parti migliori, che riesce ad individuare nei singoli individui, e le assembla. Un simile atteggiamento portò alla formulazione del mito, come racconto archetipo, in cui non importa la verità ma la verosimiglianza, dove ciò che conta non è il ricordo di un fatto particolare, ma l’espressione di un significato universale. La rappresentazione dell’uomo ideale, non è altro che una ricerca del mito. Ma, oltre che forma, il corpo umano è anche movimento. Può modificare il proprio aspetto in base alla posa, all’espressione del viso, ai gesti che compie. Ed anche qui, il classico è tale perché ricerca il momento di maggior armonia formale. Quell’istante, che prende il nome di momento pregnante, di grande concentrazione interiore, o di assenza di emozioni, che rendono eterno un singolo istante. Proporzione ed armonia: queste sono le due ricette principali dell’arte classica. E da allora, nel successivo sviluppo dell’arte occidentale, sono divenute le caratteristiche di qualsiasi «classico». IL TRUCCO Il cosmetico più diffuso nell'antica Grecia era indubbiamente la biacca (pigmento inorganico costituito da carbonato basico di piombo) che dava alla pelle un colore bianco, copriva i leggeri inestetismi e uniformava la colorazione della pelle. Per dare colore si usava invece il rosso del minio (ossido di piombo di colore arancione), oppure quello che si otteneva da una pianta, l'anchusa tinctoria, o dal phukos (un'alga marina) applicato sulle labbra e sulle guance con un pennello, mentre su ciglia e sopracciglia si passava un leggero strato di polvere nera di antimonio (Fig. 27, 28). L'uso di questi belletti era tuttavia vietato durante il lutto e le cerimonie legate ai misteri di Demetra. Nell'antica Grecia la cura del corpo era soprattutto l'arte dell'unzione e dei massaggi, che diventavano talmente raffinati da individuare, per ogni parte del corpo, unguenti diversi: lavanda per il corpo e rosa per il viso. Fig. 27, Pittura pompeiana dalla Casa dei Dioscuri, rielaborazione da un originale di Nikias, seconda metà del IV sec. a.C., Napoli. Fig. 28, Pittura pompeiana dalla Casa dei Casti Amanti, seconda metà del IV sec. a.C., Napoli. I Greci adoravano i profumi. Teofrasto fu probabilmente il primo scrittore greco a trattare della profumeria: il suo lavoro principale era sulla Botanica, mentre le sue opere minori riguardavano la profumeria dove per esempio, definisce il profumo composto (distinto cioè dal profumo di fiore) come un profumo artificialmente e deliberatamente prodotto. Egli descrisse anche le materie prime impiegate nella preparazione dei profumi. ABBIGLIAMENTO L'abbigliamento dell'antica Grecia era generalmente di carattere molto semplice, spesso costituito da un unico rettangolo di stoffa, non cucito, ma drappeggiato intorno al corpo, con stili pressoché identici sia nell'abbigliamento maschile che in quello femminile (chitone). L'unico capo a fare parte unicamente del guardaroba femminile era il peplo. Tale moda rimase praticamente invariata nel corso degli anni, in cui cambiarono soltanto i tessuti ed i materiali utilizzati ed il modo in cui essi venivano indossati, a seconda del quale era possibile distinguere il diverso ceto sociale dell'indossatore. ABBIGLIAMENTO MASCHILE L'abito nazionale degli uomini greci era il chitone, lunga tunica, cucita su un lato e fermata sulle spalle da bottoni, o da una cucitura, e molto simile al suo corrispettivo femminile (Fig.29). Nel corso degli anni il chitone fu relegato ad abito per le circostanze formali e le cerimonie solenni, e sostituito a partire dal V secolo dal più pratico chitoniskos, lungo sino alle ginocchia e fermata in vita da una cintura. Gli schiavi invece ne indossavano una versione meno pregiata, e fissata su una sola spalla, in modo permettere loro maggiore comodità nel lavoro. La versione destinata ai bambini invece era lasciata libera senza cintura, così come quella indossata dai soldati al di sotto delle corazze. Materiale maggiormente diffuso era la lana, e soltanto in rare occasioni il lino. Il chitone corto (fino alle ginocchia), a differenza del chitone podères, è il vestito di tutti i giorni indossato da quanti (cacciatori, soldati, eroi impegnati nelle loro quotidiane fatiche, servi, artigiani), costretti a far movimento, abbisognano di una veste che non ostacoli la loro attività (Fig. 30) Fig. 29, Auriga di Delfi, chitone ionico. Fig.30, Ceramica attica, raffigurazione di soldati, chitone. L'himation era il mantello utilizzato tanto dagli uomini quanto dalle donne, indossato al di sopra della tunica, semplicemente appoggiato sulla spalla e fatto ricadere sul fianco. Poteva eventualmente anche essere ripiegato a quadrata ed appoggiato sulla spalla, oppure portato appoggiato da una spalla all'altra, privo di cuciture o spille. In ogni caso, i modi in cui l'himation poteva essere drappeggiato erano innumerevoli, e spesso indicativi della posizione sociale e della professione di chi lo indossava (Fig.31, 32, 33). Fig. 31 Himation portato da solo. Fig. 32 Demostene con l’himation Fig. 33 Himation Il tribonio di provenienza spartana era un mantello più ruvido e più grezzo, che lasciava scoperte le gambe, e fu adottato come divisa distintiva dei filosofi. La clamide (o anche claina) era un corto mantello di tessuto leggero, di utilizzo prettamente militare, che veniva fissato sulle spalle o intorno alla gola da un fermaglio. L'utilizzo della clamide si diffuse anche fra i Romani e i goti e rimase in uso sino al 300 d.C. La chlamys era un mantello da equitazione (e da viaggio) e come tale era comunemente indossato dai ragazzi nell’età dell’efebìa (un periodo di formazione militare della durata di tre anni, collocabile dai diciotto ai vent’anni). La chlamys compare spesso in combinazione col pètasos, un cappello a larghe tese frequentemente calzato dai viaggiatori, attributo, tra l’altro, del messaggero degli dèi Hermés (Fig. 32). Fig. 32 Apollo del Belvedere, seconda metà II sec. a.C. con clamide. ABBIGLIAMENTO FEMMINILE Abito nazionale delle donne greche era invece il peplo, rettangolo di stoffa (generalmente lana) che veniva drappeggiato intorno al corpo sino a formare una sorta di tunica, che lasciava le braccia scoperte, e veniva fermato in vita da una sorta di cintura. Comunemente il peplo veniva rimboccato al di sopra della cintura, creando un effetto simile a quello di una moderna blusa. L'utilizzo del peplo come vestito unico è attestato sino alla seconda metà del VI secolo, quando fu sostituito dal chitone, ed il peplo divenne una specie di mantello o come camicia da notte o abito casalingo. Il peplo tuttavia fu continuato ad essere usato come abito unico dalle donne spartane. I colori più diffusi di tale abito erano quelli naturali come il bianco o lo zafferano (Fig. 33, 34, 35). Fig. 33, Peplo. Fig. 34, Realizzazione di un peplo. Fig. 35, Nike di Samotracia, peplo. Fig. 36, Zeus ed Era alle nozze, lato B del cratere Francois, peplo. Il chitone, di origini ioniche, era costituito da due teli rettangolari sovrapposti e cuciti insieme sui lati. L'abito veniva fermato in vita da un cordone o una cintura, e fissato sulle spalle, inizialmente da spille fibule, ed in seguito da vere e proprie cuciture. Dal chitone ionico era possibile, tramite spille appuntate nella parte superiore dell'abito, ricavare anche delle maniche, ed era generalmente lungo sino ai piedi, a differenza del chitone dorico, che invece poteva essere anche più corto, ed era cucito soltanto su un lato. Il chitone era sempre vestito insieme ad un mantello, che poteva essere o il peplo o l'himation (Fig. 37, 38). Fig. 37 Chitone. Fig. 38 Realizzazione di un chitone. L'himation era un mantello comune ad entrambi i sessi, al punto che lo stesso mantello poteva essere indossato indifferentemente dalla moglie o dal marito. Col tempo l'himation femminile assunse qualche differenza, ottenuta da qualche maggiore decorazione, o con bordi frangiati. Poteva essere indossato intorno alla testa, oppure fatto passare da sotto l'ascella alla spalla opposta. Pochissime notizie sono giunte relative all'utilizzo di biancheria intima nella Grecia antica. Si sa per certo che le donne utilizzassero una fascia di tessuto a mo' di reggiseno, chiamata stròphion. Alcune fonti riportano che spesso esso è indicato anche con i nomi di tainìa o di mìtra, molto probabilmente a seconda della forma e della grandezza dell'indumento (Fig. 39). Fig. 39, Himatio. CALZATURE In linea generale si possono distinguere due tipi di calzature: “stivaletti” in pelle di diversa altezza che, comunque, fasciano e chiudono interamente il piede (embàdes, endromìdes, kòthornoi) e sandali (krepìdai e blàutai) (Fig. 40, Per quanto riguarda gli embàdes, termine generico che “descrive” una calzatura nella quale il piede letteralmente “entra” (embàino significa entrare), si tratta di stivaletti in pelle, talvolta raffigurati senza lacci, caratterizzati, in alto, da un risvolto (ptèryx): quest’ultimo manca nell’endromìs la quale, per il resto simile a un embàs, poteva fasciare il polpaccio (endromìs bassa) o sfiorare il ginocchio (endromìs alta). I kòthornoi sono invece calzari di origine orientale larghi e comodi (fasciano interamente il piede e risalgono talvolta la gamba fino al polpaccio). Calzari femminili per eccellenza, adatti a camminare in ambienti chiusi, domestici, anche gli uomini, per ciò stesso tacciati di effemminatezza, non mancano di calzare kòthornoi. La krepìs è invece un sandalo che lascia trasparire il piede dietro un reticolo spesso molto semplice di legacci che non supera mai le caviglie. Fig. 40, Embades. Le dita del piede sono generalmente mantenute ferme da una correggia che passa fra il pollice e l’indice. Il tallone è protetto da una serie di legacci in pelle che si staccano dalla suola. Talvolta, invece, le krepìdai sono chiuse da un reticolo di legacci (polyschidés) che avvolge tutto quanto il piede. Le blàutai sono invece sandali maschili di lusso, come i sandàlia delle donne, caratterizzati, come i krepìdes, da un sistema di cinghie. Sul tondo interno della kylix a figure rosse, del Pittore di Brygos, databile al 490-480 a.C. circa è raffigurato un giovane, disteso su di una klìne, in atto di cantare. Il giovane, prima di sdraiarsi a banchetto, si è tolto le scarpe: il ceramografo le raffigura effettivamente sotto la klìne. Non si tratta di sandali bensì di calzari privi di allacciatura e di risvolto, simili a endromìdes. Si noti, inoltre, il bastone da passeggio, nodoso e con l’estremità superiore ricurva, che il banchettante ha appoggiato dietro la klìne. Sui vasi compaiono bastoni di ogni tipo, muniti di impugnature ricurve o a testa di stampella: di lunghezze variabili, sono spesso alti fino alle spalle e oltre (in questo caso i personaggi vi si appoggiano con le ascelle e il bastone viene raffigurato obliquo). Il bastone da passeggio era considerato un segno di benessere sociale. Si trattava di un accessorio quasi indispensabile nella tenuta di un Ateniese alla moda. I principali centri di produzione di calzature si trovavano in Sicilia, nel Mar Nero, la Cirenaica e l'Asia minore, in cui i calzolai si occupavano tanto della conciatura delle pelli quanto della fabbricazione delle scarpe. La colorazione, avveniva con le stesse tecniche utilizzate per i tessuti, attraverso l'applicazione di cortecce vegetali, pigmenti di origini minerale o metallica e terra rossa. in oltre i greci usavano come vestito la tela. COPRICAPI I copricapi nell'antica Grecia avevano una funzione meramente pratica, ed erano principalmente utilizzati per proteggere l'indossatore dai raggi del sole, durante il lavoro nelle campagne, o per proteggere dal freddo. Le fattezze di tale copricapo potevano variare a seconda del luogo e della regione. La kausίa era un lungo cappello di feltro piatto, di origine macedone, mentre il berretto frigio era un copricapo conico con la punta ripiegata in avanti, di origine anatolica (Fig. 41). L'unico cappello destinato alle donne era invece il krήdemnon, di forma simile al petaso maschile. Infine il polos era un copricapo di forma cilindrica o quadrangolare, tipico nelle rappresentazioni delle divinità femminili, ed effettivamente impegnato in cerimonie. Tra gli accessori del vestiario femminile non mancano infine cuffie (sàkkos) per raccogliere i capelli. Fig. 41, Berretto frigio. MATERIALI Il materiale più utilizzato nella tessitura dei capi di abbigliamento era la lana. Più esotico e costoso era ritenuto invece il cotone, importato dall'Oriente. Anche il lino era utilizzato, principalmente nella realizzazione delle divise militari che necessitavano di essere più leggere e più pratiche. Per i vestiti più costosi e raffinati era impiegato il bisso, una specie di seta naturale marina, ricavata da un filamento che secernono alcuni molluschi. I colori maggiormente presenti nell'abbigliamento erano, ovviamente, il bianco naturale dei tessuti, ma anche alcune colorazioni naturali come il giallo o il turchese. Meno comune era il rosso, in quanto la tecnica di colorazione impiegata, prevedeva l'utilizzo della porpora, e rendeva notevolmente più alti i costi di produzione. Tuttavia il rosso era il colore che veniva indossato dalle etere e dai ballerini, quindi, in ogni caso era ben poco diffuso. PETTINATURE E ACCONCIATURE Le donne dell'età classica avevano tendenzialmente i capelli molto lunghi che amavano portare con una scriminatura nel centro: le morbide ciocche erano poi raccolte sulla nuca e legate con nastrini, diademi, spilloni o cerchi metallici oppure trattenute all'interno di retine a loro volte adornate da pietre preziose. Il tipo di reticella più usato era la Calantica che svolgeva la doppia funzione di fascia e velo. Molto popolare era inoltre incorniciarsi il volto da trecce che potevano anche essere lasciate libere sulle spalle. Le trecce, così come i capelli lunghi, rappresentavano un must delle acconciature femminili nell'antica Grecia e le donne aristocratiche avevano membri della servitù assunti per pettinarle e intrecciare le loro chiome. Le più eccentriche decidevano infine di tingersi i capelli di nero intenso tendente al blu in modo da ottenere riflessi metallici. La maggioranza degli uomini greci invece optava per i capelli "a giardino", ovvero ricci corti che circondavano la testa mentre coloro che decidevano di portarli più lunghi li legavano in un nodo sulla fronte chiamato Crobilos. Anche i capelli avevano la loro importanza: ne sono testimonianza le numerose rappresentazioni della classica acconciatura "a pieghe"; inoltre, era assai frequente la colorazione dei capelli, specialmente in biondo, o la loro profumazione con il nard (lavanda) (Fig. 42, 43). Fig. 42, Acconciature. Fig. 43, Acconciature. ANTICA ROMA INQUADRAMENTO GENERALE La storia romana, o storia di Roma antica, espone le vicende storiche che videro protagonista la città di Roma, dalle origini dell'Urbe (nel 753 a.C.) fino alla costruzione ed alla caduta dell'Impero romano d'Occidente (nel 476, anno in cui si colloca convenzionalmente l'inizio dell'epoca medievale). Parlando di arte romana ci si riferisce quindi alle opere realizzate nel periodo incluso tra la fondazione di Roma e la caduta dell'Impero d'Occidente, avvenuta nel 476. Un patrimonio artistico e culturale eccezionalmente abbondante in ogni campo del sapere e dell'arte. La vittoria romana in Asia Minore sui Seleucidi a Magnesia nel 189 a.C. e la conquista della Grecia nel 146 a.C., con la presa di Corinto e di Cartagine, costituiscono due date fondamentali per l'evoluzione artistica dei Romani. Fino a quest'epoca il contatto con l'arte greca aveva avuto un carattere episodico, o più spesso mediato dall'arte etrusca e italica. Ora Roma possedeva direttamente i luoghi in cui l'arte ellenistica aveva avuto origine e sviluppo e le opere d'arte greche vennero portate come bottino a Roma. La superiorità militare dei romani cozzava con la superiorità culturale dei greci e questo contrasto venne espresso efficacemente da Orazio, quando scrisse: “la Grecia sconfitta aveva sottomesso il fiero vincitore” (Graecia capta ferum victorem cepit). Per qualche tempo la cultura ufficiale romana disprezzò pubblicamente l'arte dei greci vinti, ma progressivamente il fascino di questa arte raffinata conquistò, almeno nell'ambito privato, le classi dirigenti romane favorendo una forma di fruizione artistica basata sul collezionismo e sull'eclettismo. In un certo senso i Romani si definirono in seguito i continuatori dell'arte greca in un arco che da Alessandro Magno giungeva fino agli imperatori. Ma, come riconosciuto da numerosi studiosi, vi sono alcune differenze sostanziali tra arte greca e romana, a partire in primo luogo dal tema principale della rappresentazione artistica stessa: i Greci rappresentavano un logos immanente, i Romani la res. In parole più semplici, i Greci trasfiguravano in mitologia anche la storia contemporanea (le vittorie sui Persiani o sui Galati diventavano quindi centauromachie o lotte fra Dei e Giganti o ancora amazzonomachie), mentre i Romani rappresentavano l'attualità e gli avvenimenti storici nella loro realtà. Le forti differenze tra greci e romani si desumono anche da quanto scrive lo scrittore latino Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia”: (LA) (IT) « Graeca res nihil velare, at contra « È uso greco non coprire il corpo [delle statue], Romani ac militaris thoracis addere. » mentre i Romani, in quanto soldati, aggiungono la corazza. » (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 18) La forza morale e il senso di eticità delle rappresentazioni dei miti greci si era già comunque logorata nei tre secoli dell'ellenismo, quando da espressione comunitaria l'arte si era "soggettivata", diventando cioè espressione di volta in volta della potenza economica e politica di un sovrano, della raffinatezza di un collezionista o dell'ingegnosità di artefice. In questo solco i Romani procedettero poi ancora più a fondo, arrivando a rappresentare l'attualità concreta di un avvenimento storico: prima di loro solo alcuni popoli del Vicino Oriente avevano praticato tale strada, rifiutata dai Greci. L'uso "personale" dell'arte nell'arte romana permise alla fioritura dell'arte del ritratto, che si sostituì all'astrazione formale delle teste nelle statue greche. USO DELL’ARTE ROMANA La produzione artistica romana non fu mai "gratuita", cioè non era mai rivolta a un astratto godimento estetico, tipico dell'arte greca. Dietro le opere d'arte si celava sempre un fine politico, sociale, pratico. Anche nei casi del migliore artigianato di lusso (vasi di metalli preziosi e caramici, cammei, gemme, statuette, vetri, fregi vegetali architettonici, ecc.) la bellezza era connessa al concetto di sfarzo, inteso come autocelebrazione del committente della propria potenza economica e sociale. Le sculture ufficiali, per quanto valide esteticamente, avevano sempre intenti celebrativi, se non addirittura propagandistici, che in un certo senso pesavano più dell'astratto interesse formale. Ciò non toglie che l'arte romana fosse comunque un'arte "bella" e attenta alla qualità: la celebrazione imponeva scelte estetiche curate, che si incanalavano nel solco dell'ellenismo di matrice greca. Appare chiaro che nell'arte romana la creazione ex novo, a parte alcune rare eccezioni (come la Colonna Traiana), non esiste, o per lo meno si limita al livello più superficiale del mestierante. Manca quasi sempre una cosciente ricerca dell'ideale estetico, tipica della cultura greca. Anche il momento creativo che vide la nascita di una vera e propria arte "romana", tra la metà del II secolo a.C. e il secondo triumvirato, fu dovuto in massima parte alle ultime maestranze greche e italiote, nutrite di ellenismo. In questo i Romani seguirono il solco degli italici, presso i quali la produzione artistica era sempre rimasta qualcosa di artigianale, istintivo, condizionato da fattori pratici esterni. Ma la freschezza dell'arte romana è data comunque dalla straordinaria aderenza alle tematiche e dalla mirabile capacità tecnica, anche in schemi ripetuti infinite volte. Un fenomeno tipicamente romano fu la produzione in quantità di massa di copie dell'arte greca, soprattutto del periodo classico databile tra il V e il IV secolo a.C. Questo fenomeno prese avvio nel II secolo a.C. quando crebbe a Roma una schiera di collezionisti appassionati di arte greca, per i quali ormai non bastavano più i bottini di guerra e gli originali provenienti dalla Grecia e dall'Asia Minore. Il fenomeno delle copie ci è giunto in massima parte per la scultura, ma dovette sicuramente riguardare anche la pittura, gli elementi architettonici e le cosiddette arti applicate. Le copie di statue greche di epoca romana hanno permesso la ricostruzione delle principali personalità e correnti artistiche greche. L’ECCLETTISMO Con l'afflusso a Roma di opere greche provenienti da molte epoche e aree geografiche è naturale che si formasse un gusto eclettico, cioè amante dell'accostamento di più stili diversi, con una certa propensione al raro e al curioso, senza una vera comprensione delle forme artistiche e dei loro significati. Ma l'eclettismo dei romani riguardava anche la presenza della tradizione italica, che si era inserita a uno strato molto profondo della società. Per i romani non solo era naturale accostare opere d'arte in stili diversi, ma l'eclettismo si riscontrava spesso anche nella medesima opera, assorbendo da più fonti diverse iconografie, diversi linguaggi formali e diversi temi. L'importanza dell'eclettismo nella storia artistica romana è anche data dal fatto che, a differenza di altre culture, non comparve, come di tendenza, al termine e al decadere culturale, ma all'inizio della stagione artistica romana. Il passo decisivo che segnò uno stacco tra arte greca e romana fu senz'altro la comparsa del rilievo storico, inteso come narrazione di un evento di interesse pubblico, a carattere civile o militare. Il rilievo storico romano non è mai un'istantanea di un avvenimento o di una cerimonia, ma presenta sempre una selezione didascalica degli eventi e dei personaggi, composti in maniera da ricreare simbolica una ma leggibile (Fig. 44) narrazione facilmente Fig. 44,Rilievo storico, Ara di Domizio Enobarbo. Gradualmente il soggetto storico si cristallizzerà in alcuni temi legatI ai luoghi, ai tempi ed ai personaggi ritratti tramite i quali la rappresentazione diventava immediatamente esplicita e facilmente comprensibile a chiunque. CANONE ESTETICO (Roma imperiale dal 29 a.C) Lo stereotipo della bellezza femminile nell’antica Roma è la matrona dal corpo giunonico, cioè abbondante (da Giunone, la principale dea romana). La matrona dell’impero non solo è opulenta nelle forme, ma è anche carica di trucco e di gioielli, e vestita in modo ricco e sfarzoso, come opulenta, ricca e sfarzosa è la Roma dell’età imperiale. La donna romana cura molto la propria persona: utilizza creme e cosmetici e, per migliorare il proprio aspetto, ricorre perfino all’infoltimento della capigliatura con l’applicazione di capelli indiani (scuri) o germanici (biondi o rossi) e anche di colore diverso da quello naturale: primi esempi di toupet e meches. Per i nobili romani, la moglie, dal corpo prosperoso, vistosamente truccata, ingioiellata e lussuosamente vestita, deve rappresentare la ricchezza e la generosità del marito (Fig. 45). Fig. 45, Ritratto di donna romana, non identificata, 69- 96 a.C. IL TRUCCO I Romani impararono a curare il loro aspetto fisico dopo la conquista della Grecia (146 a.C.), assumendo dai Greci le relative usanze. Profumi, cosmetici e belletti si diffusero così nel mondo romano, trovando nell'età imperiale la massima diffusione, nonostante l'opposizione dei moralisti legati a modelli comportamentali tradizionalisti e anti-ellenici. Si pubblicarono addirittura dei manuali di bellezza come il De medicamine faciei feminae di Ovidio, trattato poetico di toletta femminile. Attraverso le informazioni forniteci da scrittori latini quali Plauto, Catone, Varrone, Cicerone, Properzio, Catullo, Marziale, Giovenale e altri, si è in grado di ricostruire l'importanza dell'uso dei cosmetici nella vita individuale e sociale della civiltà romana. A Roma non si conosceva l'uso del sapone: racconta Plinio il Vecchio che tutti usavano come detergenti la soda o la creta finissima o, ancora, la farina di fave e, dopo il bagno massaggiavano il corpo con olio di oliva per proteggersi dalle infreddature. Il sapone che conoscevano i Romani era utilizzato come tintura per capelli, scrive Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (Libro 28, capitolo 47): «prodest et sapo, galliarum hoc inventum rutilandis capillis. fit ex sebo et cinere, optimus fagino et caprino, duobus modis, spissus ac liquidus, uterque apud germanos maiore in usu viris quam feminis» ("Il sapone, anche, è molto utile a questo fine, un'invenzione dei Galli per dare una tinta rossastra ai capelli. Questa sostanza è preparata da sego e dalle ceneri, le migliori per lo scopo sono le ceneri di faggio e il grasso di capra: ce ne sono due generi, il sapone duro e quello liquido, entrambi molto usati dalla gente della Germania, gli uomini, in particolare, più delle donne"). Le donne romane, per ottenere una carnagione perfettamente candida usavano applicare come fondotinta una creta speciale o, in alternativa, la nivea cerussa (pomata pericolosa perché a base di carbonato di piombo) ( Fig. 46, 47). Le labbra o le guance rosse erano ottenute utilizzando, come facevano le antiche greche, la polvere di minio, l'estratto di anchusa tinctoria o ancora il distillato di phukos, oppure il succo delle more del gelso o la pericolosa sandracca (solfuro di arsenico). Tutto il necessario cosmetico era preparato fresco da schiave specializzate, le cosiddette cosmetae. Fig. 46, Ritratto di donna romana. Fig.47, Ritratto di donna romana. In quest'epoca è attestato anche l'uso di creme depilatore, tra cui il psilothrum, una pasta depilatoria a base di olio, pece, resina e sostanze caustiche che serviva a liberarsi dai peli superflui e a rendere liscia la pelle. Per esaltare la propria avvenenza le donne dell'antica Roma usavano anche dipingersi dei nei giudiziosamente distribuiti sul viso e sul corpo. Si tingevano le sopracciglia, sottolineando la forma degli occhi con cenere, se si voleva un colore scuro, o con croco di Cidno, quando se ne desiderava uno marrone dorato. Racconta Plinio il Vecchio che Poppea, l'amante-moglie dell'imperatore Nerone, aveva l’abitudine di fare il bagno nel latte di asina ed era consuetudine far mungere trecento asine ogni giorno per riempire la sua vasca da bagno. Oltre a questo, la bellissima matrona usava il prezioso latte, impastato con mollica di pane, per preparare maschere che ogni sera applicava sul viso. L'intuizione di Poppea non era in fondo sbagliata: più ricco di lattosio rispetto al latte vaccino, il latte d'asina ammorbidisce la pelle e contiene molti ceramidi (acidi grassi) oggi impiegati nelle creme antirughe. Tra paste e infusi vari ottenuti, come ricorda Plinio, da testicoli di toro o feci di coccodrillo, api affogate nel miele, uova di formiche pestate, grasso di cigno e di pecora, midollo di cervo e di capriolo, burro, lupini, fave, ceci e così via, un ruolo importante svolsero anche le taerme, tra cui quelle di Caracalla, costruite fra il 212 e il 217 sul colle Aventino e splendidamente conservate, vero e proprio apogeo della cosmesi dell'antica Roma. Le terme sono luoghi centrali nell'Antica Roma dal punto di vista sociale ed igienico, strutture incredibilmente complesse e moderne, suddivise in diverse sale al loro interno (Fig. 48, 49, 50). Fig.48, Ricostruzione di terme romane. Fig. 49, Rovine delle terme di Allianoi, Turchia II sec. a.C. Fig.50, Plastico di terme. Il processo si svolgeva probabilmente così: dopo lo sport e l’attività fisica, il bagnante nudo veniva unto con oli aromatici da uno schiavo, entrava in una camera di vapore dove il corpo veniva raschiato con un utensile metallico per rimuovere l'eccesso di olio e sudore, il bagnante entrava quindi un una camera tiepida (entro una vasca con acqua calda) ed infine in una piscina di acqua fredda. La combinazione degli oli e dei bagni forniva un'eccellente dermo-purificazione. ABBIGLIAMENTO L'abbigliamento romano ha avuto in mille anni mutamenti dovuti a situazioni economiche politiche culturali e ad influssi provenienti da altre popolazioni. Le regole molto rigide a partire dalla tarda età repubblicana, con l'emanazione di particolari leggi per frenare l'uso di articoli di lusso e alla loro importazione, specie dall'oriente, non fermavano i romani, ad acquisti sempre più ricercati e lussuosi. Durante il periodo repubblicano, i conservatori riportavano compiaciuti l'austerità e la sobrietà del l'abbigliamento confezionato dalle matrone e loro collaboratrici, solo ed esclusivamente in seno al nucleo familiare. Plinio il Vecchio diceva: -... oggi si vanno a comprare i vestiti di seta in Cina, si vanno a pescare le perle in fondo al Mar Rosso, a trovare nelle viscere della Terra gli smeraldi, oggi addirittura si è inventati di bucarsi il lobo delle orecchie: non bastava portare i gioielli nelle mani, sul collo o fra i capelli, dovevano essere conficcati anche nel corpo". I romani attribuivano un fortissimo valore simbolico all'abito che dimostrava età, rango e status di chi li indossava. Augusto, massimo restauratore di antichi valori si occupò anche di abbigliamento e desiderò che la toga diventasse una specie di divisa di stato. Gli abbigliamenti si confezionavano con fibre vegetali (cotone, lino, canapa), con fibre animali (lana, seta), per ultimo con pelli e cuoio, in qualche occasione facevano uso di pelliccie animali. ABBIGLIAMENTO MASCHILE. A contatto del corpo nudo gli uomini usavano il subligar o cintus o campestre un semplice indumento che copriva il basso ventre (Fig. 51, 52). Fig.51,Realizzazione di un subligar. Fig.52, Subligar e tunica interior. Questo capo di vestiario in uso per diverso tempo fu sostituito dalla tunica interior o subacula o strictoria, una semplice camiciola a contatto con la pelle. Sopra a questo primo indumento si posizionava la tunica che era realizzata con due pezzi di stoffa di cotone o lana cuciti insieme, in modo che quello della parte davanti arrivasse alle ginocchia e quello di dietro ai polpacci, una cinta tratteneva ai fianchi questi due lembi. Svetonio racconta che Augusto, particolarmente freddoloso e cagionevole di salute, arrivasse ad indossare in inverno, sotto una toga, quattro tuniche (subuculae), una sopra l'altra, una camicia, una maglia di lana e delle fasce attorno a cosce e gambe. Era necessario che la tunica non fosse troppo lunga e sempre tenuta stretta da una cintura. Nel terzo secolo dopo Cristo, venne di moda l'uso di larghe maniche sino ai polsi, ma qualcuno parlò di moda effeminata. Il tipo più elaborato di queste tuniche era la Dalmatica, che diversi portavano al posto della toga, realizzata in lino, lana o seta (Fig. 53) Questo indumento veniva usato anche dai sacerdoti del rito Cristiano o Mitraico, qualche volta veniva usato anche senza maniche, e in questo caso prendeva il nome di Colubium. La tunica palmata era una tunica speciale, ornata di ricami a forma di foglia di palma, che veniva indossata dai trionfatori (Fig. 54) Fig.53, Tunica Dalmatica Fig. 54, Probabile copia di denario in argento di augusto, raffigurante Tunica palmata e quadriga. Il clavus, era un ornamento della tunica o della toga consistente in una lunga striscia normalmente colorata di porpora, con disegni diversi a seconda del rango di appartenenza, latus clavus (senatori), angustus clavus (cavalieri), ecc.... Ma l'abbigliamento più importante, più classico, utilizzato in tutti i riti, cerimonie e ricorrenze importanti era la toga. Solo chi godeva della cittadinanza romana aveva il diritto di indossare la toga e l'autorità doveva vigilare che gli stranieri non la indossassero (Fig.55, 56). Fig. 55, Toga. Fig.56, Realizzazione di una toga. La toga, era normalmente realizzata in lana, quindi abbastanza pesante, costituita in un unico pezzo a forma di mezzo cerchio schiacciato con il diametro che poteva raggiungere anche i 5 metri di lunghezza. Chiaramente questo indumento era meno usato in provincia e non si usava affatto in campagna o nelle mura della propria casa. La toga era in sostanza l'abbigliamento ufficiale per tutti coloro che svolgevano attività importanti di qualsiasi tipo e genere, a partire dal magistrato, dal politico, dall'uomo ricco e influente (Fig.57). Indossare la toga era un'operazione abbastanza lunga e complessa e difficilmente risolvibile da soli. Era uno schiavo (vestiplicus), sin dalla sera precedente, ne disponeva le pieghe per rendere più semplice il lavoro nel giorno successivo. Fig. 57, Marco Aurelio con toga. Il togato che si presentava ad un comizio politico, doveva indossare una toga bianchissima (resa così bianca da un bagno in calce liquida), che doveva rendere l'immagine di una persona pulita, candida (donde il nome di candidato). I ragazzi, portavano la toga pretesta bordata di porpora sino all'età di 17 anni, subito dopo potevano finalmente indossare la toga virilis e fare il primo ingresso nel foro con un rito importante che testimoniava il passaggio dalla adolescenza alla maturità. I trionfatori sfoggiavano un abito particolare di origine Etrusca, la toga purpurea indossata sopra la toga palmata, dal terzo secolo a. C. la toga purpurea, fu sostituita dalla toga picta con ricche decorazioni ricamate. Nell'esercito si portava il paludamentum, un mantello simile alla clamide greca riservato ai gradi più alti, altri mantelli come il sagum e la poenula per quelli più bassi. I militari contribuirono a diffondere un mantello di origine Gallica, talvolta usato anche con i pantaloni delle popolazioni celtiche e germaniche, chiamata palla gallica o caracalla, prediletto dall'imperatore Marco Aurelio Antonino Bassiano, passato alla storia con il soprannome di Caracalla (Fig. 58). Fig.58, Augusto di Prima Porta, Paludamentum, attorno i fianchi, I sec. d.C. L'abbigliamento era completato dalle scarpe: le soleae (una specie di sandali da frate, una semplice suola legata con lacci al piede) o le crepidae (sandali di cuoio intrecciato) o i calcei (stivaletti chiusi o aperti sul davanti, utilizzati in città) o le caligae (scarpe con corregge intrecciate, usate prevalentemente in campagna e dai soldati). Questa la descrizione che Svetonio fa dell'abituale e semplice abbigliamento dell'imperatore romano, Ottaviano Augusto: (LA) (IT) « Veste non temere alia quam domestica usus « Non portò altra veste che una per uso est, ab sorore et uxore et filia neptibusque domestico, confezionata da sua sorella, sua confecta; togis neque restrictis neque fusis, moglie, sua figlia o dalle sue nipoti; le sue toghe clavo nec lato nec angusto, calciamentis non erano né strette né larghe, la sua striscia di altiusculis, ut procerior quam erat videretur. Et porpora né grande né piccola, le scarpe erano forensia autem et calceos numquam non intra piuttosto alte, per apparire più alto di statura. cubiculum habuit ad subitos repentinosque Aveva sempre nella sua camera vestiti di casus parata. » campagna e calzature, pronto per i casi improvvisi e repentini. » (Svetonio, Augustus, 73.) ABBIGLIAMENTO FEMMINILE. Le donne usavano come biancheria intima delle mutandine (subligar), ed una specie di fascia per reggere il seno (fascia subligaris o mammillare), sopra indossavano la tunica interior lunga sino ai piedi. Sopra la tunica si posizionava la stola che è l'abito nazionale come la toga per i maschi adulti (Fig. 59, 60). Fig.59 Giovani donne raffigurate in un mosaico della Villa Romana del Casale, Piazza Armerina Fig.60 Amanti raffigurati in un mosaico della Villa Romana del Casale, Piazza Armerina La stola era stretta alla vita da una cintura che poteva ripetersi anche sotto il seno. Nella Roma primitiva uomini e donne vestivano allo stesso modo, ma ben presto l'abito femminile si differenziò da quello maschile. La differenza era anche nei colori vivaci e talvolta nei ricami. Le donne romane delle classi alte, dovevano risultare piuttosto vistose se si considerano oltre agli abiti i molti gioielli, il trucco e le sontuose e costruite acconciature che prediligevano (era molto di moda la parrucca bionda realizzata con capelli di donna nordica). Sopra la stola a seconda della stagione si usavano le sopravvesti, tra queste ricordiamo in età repubblicana il ricinum, un semplice mantello quadrato che copriva le spalle ed il capo, e la palla, un comune mantello che poteva anche avere un cappuccio per il capo (Fig. 61). Fig. 61, Statua di Livia Drusilla trovata a Paestum, con stola e palla. Con il terzo secolo anche per le donne come per gli uomini vennero di moda tuniche fino ai piedi con lunghe maniche, di tessuti ricercati da portare anche senza cintura (tunica talaris o dalmatica). Le donne si adornavano con pettini, spille (fibulae) e, se potevano permetterseli, con numerosi gioielli: orecchini, collane, catenelle (catellae) intorno al collo, anelli alle dita, al braccio e alle caviglie. PETTINATURE E ACCONCIATURE Anche le acconciature erano considerate un abbellimento: erano molto elaborate, costituite da riccioli sovrapposti in altezza che potevano raggiungere anche i quaranta centimetri, e preferibilmente di colore biondo oppure rosso acceso. Per coprire la canizie si usava il mallo delle noci. Mentre gli uomini non portavano copricapi riparandosi dal sole o dalla pioggia con un lembo del mantello o sollevando il cappuccio (cucullus) della loro paenula, la donna romana metteva tra i capelli un nastro di color rosso porpora o un tutulus, una larga benda collocata a forma di cono sulla fronte. Osservando le sculture delle donne dell’antica Roma, si resta colpiti dalla creatività della acconciature, molto elaborate soprattutto se si tratta di donne sposate delle classi elevate. Se la moda romana rimase nei secoli relativamente semplice e immutabile, l’evidenza dello status sociale venne affidata perlopiù ai tipi di tessuto, ai gioielli, agli accessori e, appunto, alle acconciature. Se le fanciulle potevano anche solo raccogliere i capelli con una crocchia sul retro o con un nodo a spirale nella parte superiore della testa, le donne dedicavano alle acconciature molto tempo e sforzo. Erano assistite da esperti parrucchieri che aumentavano il volume della chioma o la allungavano tramite ciuffi posticci e parrucche. I capelli venivano tinti e decolorati, stirati e arricciati tramite ferri roventi, scolpiti con un esercito di forcine, retine e ausili meccanici di vario tipo. Grande importanza avevano poi gli accessori che venivano apposti sulle chiome: nastri, fermagli, forcine preziose erano accessori indispensabili affinché il risultato fosse sofisticato quanto si conveniva. Le tinture arrivavano dalle più svariate parti dell’impero: l’henné, ad esempio, molto usato durante l’epoca imperiale, veniva dall’Egitto. Le tonalità erano estremamente varie e pare arrivassero fino all’azzurro. I primi stili sono abbastanza semplici, e vanno dalla ciambella e chignon all’usanza di legare strettamente i capelli alla sommità della testa con dei nastri, all’usanza etrusca. Ben presto però queste semplici pettinature vennero sostituite con grandiose creazioni che per altezza e complicazione non hanno avuto rivali fino alla corte francese di Luigi XVI. La pettinatura era così importante che venivano commissionate acconciature rimovibili per i busti, in modo che l’immagine della persona ritratta venisse ricordata al culmine della moda dell’epoca. I capelli venivano anche profumati attraverso prodotti appositi; per l’acconciatura venivano usati diversi tipi di pettine e spazzole, nastri, retine in fili d’oro finemente intessute, nastri, ghirlande di fiori e gioielli preziosi: l’oro e le perle erano molto usati negli ornamenti per i capelli. Anche gli uomini, dal canto loro, col passare dei secoli presero a farsi arricciare e tingere i capelli – tra i primi che sfoggiarono boccoli artificiali ricordiamo l’imperatore Adriano e suo figlio Lucio Cesare; chi soffriva di calvizie iniziò a farsi applicare capelli posticci, la qual cosa era presa molto di mira dai poeti satirici romani (fig. 62, 63) Fig. 62, Acconciature. Fig. 63, Testa di donna romana con acconciatura. IL MEDIOEVO INQUADRAMENTO GENERALE Con Medioevo s’intende l’età intermedia tra l’antica e la moderna. Secondo l’accezione più diffusa è il periodo compreso fra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492). CANONE ESTETICO In quest'epoca la bellezza fisica è considerata dominio del Maligno, pertanto rappresentata solo come attributo della Madonna e dei santi. In particolare la bellezza maschile non è attributo valorizzato come nel periodo classico: il corpo risulta di conseguenza nascosto da strati di abiti, ampiamente panneggiati quasi a celarne la vera forma. Sono rappresentati nudi solo i progenitori o il Cristo in croce i cui corpi esprimono la sofferenza legata al peccato (Fig. 64). Fig.64, Masaccio, La cacciata dei progenitori dall’Eden, Cappella Brancacci, Firenze, 1424-1425. Il corpo della donna, su cui grava il peccato di Eva, è considerato fonte di perdizione e perciò l’avvenenza fisica ritenuta appannaggio del Male. L’austera morale medioevale impone nuovi canoni estetici: il corpo della donna deve essere esile e acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice di un futuro fecondo come madre. L’incarnato riluce del candore di un giglio o della neve, proprio a sottolineare la natura virginale della donna. Nell’iconografia medioevale prevale la rappresentazione mistica e ieratica della figura femminile: la donna viene svuotata di ogni connotazione sensuale e ritratta esclusivamente nella sua sacralità, tanto che ad essere rappresentate sono soprattutto Madonne e sante, sempre legate al ruolo salvifico che esse svolgono (Fig.65). Fig.65,Simone Martini, Annunciazione, 1333 (particolare) Nel periodo XI - XII secolo d.C. era considerata di moda la bocca piccola, le donne ambivano ad avere occhi grandi e tondeggianti con sopracciglia ad arco e pelle bianchissima. Per riuscire ad avere uno sguardo, il più seducente possibile, le donna più ardite si pitturavano di blu o di verde le palpebre, e usavano dei prodotti argillosi stemperati in acqua. Ovviamente la Chiesa condannava queste pratiche e già durante i primi secoli del cristianesimo: San Cipriano consigliava alle giovani donne, per evitare la dannazione eterna, di non adornarsi con gioielli e di non cambiare il colore dei capelli né di acconciarli tanto che anche le parrucche erano malviste perchè si temeva che potessero impedire alla benedizione di giungere sulla testa. Fig. 66, Raffigurazione di musicanti medioevali. Anche gli uomini però non erano esenti di ingiurie se si scoprivano a curarsi capelli, la barba, o se si facevano il bagno; ma, ironia della sorte, in seguito, con le crociate e l'intensificarsi delle rotte mercantili in Oriente, furono reintrodotti prepotentemente trucchi, unguenti, pomate e profumi. Nell'epoca feudale poi, il modello culturale cortese si diffuse ampiamente come pure l'ideale di bellezza nordica con le narrazioni dei trovatori che pubblicizzavano la fama di bellissime castellane. Fu così che si diffuse il modello di bellezza femminile normanna: carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondi. IL TRUCCO Ma anche se la Chiesa si opponeva il Medioevo ebbe le sue mode che cambiavano nel corso dei secoli; per sottolineare la spiritualità si allungarono le linee degli abiti femminili: il polsino svasato delle maniche diventò uno strascico, e la vita si alzò sin sotto il seno. La moda di allora imponeva un seno piccolo, un corpo flessuoso e adolescenziale, mani allungate e volto ovale (Fig.66). Le sopracciglia venivano rasate del tutto, come anche la fronte che in questo modo risultava più ampia; il volto, le mani e i denti dovevano essere bianchissimi (Fig.67). Con l’utilizzo di questi artefici, i volti risultavano privi di intensità ed espressività, che oggi noi ricerchiamo con il trucco e con l'uso sapiente delle matite, per cui le donne ricorrevano ad un velo di rosso sulle gote,mentre le sopracciglia depilate venivano ripassate con il nero. In occasioni speciali uomini e donne ingaggiavano addirittura pittori professionisti che dipingevano i loro volti con i colori ad olio o a tempera. Fig.65, Particolare di un volto di donna del medioevo. Fig.66, Ritratto di giovane donna, Antonio Del Pollaiolo Riguardo trucco e abbigliamento le prostitute dovevano farsi riconoscere: a Padova nella seconda metà del Trecento dovevano indossare un berretto rosso mentre a Bologna e a Firenze dovevano portare un sonaglio attaccato al copricapo, a Milano potevano sfoggiare gioielli e tessuti pregiati mentre a Brescia lo sfarzo era permesso principalmente per rendere più attraenti le prostitute e scoraggiare gli uomini a praticare la sodomia, una pratica molto diffusa allora. Le prostitute si truccavano quotidianamente gli occhi di marrone, verde, turchese o grigio e delineavano le palpebre con una riga nera. In tale contesto si inserì con prepotente autorevolezza il primo trattato di cosmetica della storia datato al XIII sec e fu ritrovato a Madrid: il "De Ornatu Mulierum" (Sui cosmetici delle donne) comunemente noto come “Trotula Minor” della medichessa della Scuola Medica Salernitana Trotula De Ruggiero. Il “Trotula Minor”, più antico manuale estetico prodotto da una donna medico per altre donne e aspiranti medici è un trattato che insegna alle donne come preservare e migliorare la propria bellezza e come curare le malattie della pelle mediante una serie di precetti, consigli e rimedi naturali. Nell’esposizione l’autore nomina spesso le mulieres salernitanae ad autorevole esempio, dà lezioni di make-up, suggerisce come nascondere le rughe, rimuovere gonfiori da viso e occhi, depilare il corpo, schiarire la pelle, nascondere le macchie e le lentiggini, lavare i denti ed eliminare l’alitosi, tingere i capelli, fare la ceretta, curare labbra screpolate e gengiviti. Fornisce inoltre indicazioni per preparare ed utilizzare unguenti ed erbe curative per il viso e i capelli e dispensa consigli per migliorare il benessere mediante bagni di vapore e massaggi. Nell’opera, la cosmesi non risulta un aspetto frivolo: al contrario, secondo il concetto di bellezza di Trotula la donna deve raggiungerla per entrare in accordo con la filosofia della natura, per cui la sua arte medica era ispirata alla bellezza come estrinsecazione di un corpo in salute e in armonia con l’universo. Il lavoro riporta 96 piante e derivati, 20 preparati di origine animale e derivati, 17 minerali, e 6 preparati misti, quali ingredienti per 63 ricette totali, in grado di ottenere altrettanti rimedi a scopo cosmetico e/o medicinale. Le numerosissime ricette riportate nell’opera di Trotula attestano l’esistenza di un’importante cosmesi medievale. In particolare, la seconda parte del trattato include capitoli che contengono ricette e specifica ingredienti e dosaggi, procedure per la preparazione, modo di applicazione, e risultati attesi. Per esempio, di seguito è riportata una delle ricette di Trotula che spiega come accentuare il colore delle gote: “si prendano radici di brionia rossa e bianca, le si lavino, e tritino finemente e le si mettano ad essiccare. Di poi le si riducano in polvere e si mescolino ad acqua di rose, e con un panno di cotone o di lino molto sottile, si unga il viso che acquisirà un certo rossore. Per la donna che mostra un colorito bianco naturale, le si dona un colorito rosaceo se le occorre rossore, così che con un tipo di pallore finto o mascherato il colorito rosso appaia come se fosse naturale”. Per fare biondi i capelli, Trotula propone una tintura ottenuta con la corteccia di sambuco, fiori di ginestra, zafferano e tuorlo d’uovo; oppure un altro unguento con api incenerite in un barattolo e mescolate ad olio e latte di capra. Mentre per allungare i capelli e tingerli di nero, raccomanda un unguento ottenuto facendo bollire in olio la testa e la coda di una lucertola verde. Per quanto riguarda il make-up del viso e delle labbra, suggerisce una miscela di miele, cetriolo ed acqua di rose, bollite fino a divenire la metà del volume iniziale. Secondo i consigli di Trotula il trucco sulle labbra va applicato strofinando la corteccia delle radici dell’albero della noce e cospargendoci sopra un colore artificiale, ottenuto con albume e prezzemolo, e alla fine cenere di allume. Per schiarire il viso Trotula consigliava, invece, un unguento di cera ed olio. La gran parte delle piante menzionate nel trattato ed anche le altre utilizzate dalla Scuola Salernitana per le preparazioni sperimentali erano inizialmente spontanee nell’area poi, soprattutto a partire dal XIV sec., furono coltivate assieme ad altre piante introdotte, nei Giardini della Minerva di Salerno. Da un confronto con gli attuali cosmetici, si evince chiaramente che quelli medievali erano molto più grassi (erano soprattutto unguenti), poiché venivano di solito preparati con grassi animali e ciò permetteva ai principi attivi in essi contenuti di esplicare la loro azione a livello topico sulla pelle per un lungo periodo di tempo. I cosmetici moderni invece sono preparati in emulsioni (creme, latte, sieri) offrendo all’utilizzatore una migliore gradevolezza del prodotto. Tuttavia, la gran parte dei derivati vegetali riportati nel trattato sono ancora oggi utilizzati nei cosmetici moderni. È difficile identificare anche tutte le malattie cutanee riportate nel trattato, a causa della nomenclatura dell’epoca e l’uso del latino. Ad esempio nel Medioevo “scabbia” era il nome associato a numerose malattie cutanee, incluso eczema, psoriasi, acne e vaiolo. I buoni risultati ottenuti trattando il cuoio capelluto con aceto per l’eczema seborroico o per la psoriasi lasciano pensare però che, quando Trotula menziona detti trattamenti per la “scabbia grave”, quasi certamente si faccia invece riferimento proprio ad eczema seborroico e psoriasi. È quindi poi di conseguenza difficile valutare approfonditamente l’efficacia dei rimedi trattati. Comunque, al tempo, tutte le patologie pruriginose del viso (acne, eczema, psoriasi, tinea, impetigine) erano attribuite alla presenza sottocutanea di vermi e questi erano genericamente denominati scabbia. Trotula descrive nel suo trattato un primordiale “scrub” facciale: consiglia di utilizzare un detergente esfoliante preparato con briciole di pane per levigare la pelle del viso. Quando nomina i vermi sottocutanei “che talvolta provocano la caduta dei capelli”, probabilmente allude alla seborrea che si manifesta con acne sul viso ed alopecia androginica sul cuoio capelluto. Qualche rimedio è chiaro, come l’uso di metodi fisici per la depilazione (gomma arabica, mastice del lentisco), del mercurio per le infestazioni, e il miele come idratante. È interessante notare che oggigiorno nel XXI secolo ancora utilizziamo cosmetici basati su moltissimi principi attivi già menzionati nel trattato medievale, mentre i derivati di origine animale non lo sono più. Trotula volse il suo interesse non solo sui problemi della cute, ma anche sulle affezioni oculari ed orali. Lo sbiancante dei denti può, secondo lei, essere ottenuto con metodi meccanici come lo strofinio del marmo. Viene descritto anche una specie di peeling primitivo (probabilmente per l’acne post-parto) sfruttando l’effetto irritante della cipolla, infati, l’effetto anti-acne è dovuto all’alto contenuto in essa di allina e miscele simili allo zolfo43. Attualmente è noto che la cipolla possiede anche un effetto antiaging poiché contiene acqua (90%), proteine (1,5%), e vitamine, quali B1, B2, e C insieme a potassio, polisaccaridi, come anche peptidi, flavonoidi, ed oli essenziali e vi sono state inoltre ritrovate anche prostaglandine a rivelare anche il loro effetto antiinfiammatorio. L’aiuto di Trotula alle donne si esplica anche in un altro campo: l’uso di agenti astringenti e tinture rosse, consigliato dalla medichessa per far sembrare vergine una donna che non lo è più. Da un punto di vista storico, l’opera di Trotula è molto importante anche per lo studio delle tendenze estetiche del Medioevo, come pure delle condizioni sociali delle donne. È davvero impressionante scoprire, grazie a tale testo, come molti problemi estetici avvertiti dalle donne dell’epoca siano gli stessi tutt’oggi quali la crescita dei peli, la calvizie, le tinture per capelli, il melasma, le rughe. Ma altre condizioni, quali ad esempio la cellulite non sono proprio considerate perché il modello di bellezza femminile era differente da quello attuale. A tal proposito è interessante notare che, nonostante sia risaputo che l’ideale medievale di bellezza femminile fosse incarnato nella donna normanna dai capelli biondi, la pelle chiara e gli occhi azzurri, invece, nell’opera di Trotula, sono riportati metodi per scurire i capelli e qualche metodo estetico arabo, confermando ulteriormente il ruolo chiave della Scuola Medica Salernitana di cerniera e sintesi tra le tradizioni mediche dell’area mediterranea. Nel Medioevo, per quanto l’uso del trucco diminuisca notevolmente, inizia a svilupparsi la convinzione che un viso bianco sia simbolo di nobiltà, mentre un viso scuro sia la prova di un lavoro all’aria aperta, quindi di appartenenza a una classe sociale più bassa. Le donne utilizzavano quindi varie paste per schiarirsi il viso: ossidi di argento o mercurio misti a grasso, oppure biacca, allume (alluminio e potassio), borace (sodio e boro), limone, aceto e bianco d’uovo. Con l’avvento del feudalesimo si mantiene la preferenza per incarnati chiari, ottenuti anche con argilla polverizzata o canfora, ma si introducono altri due importanti “must”: la fronte alta, che veniva depilata, e guance più scure, ottenute con polvere di zafferano. ABBIGLIAMENTO ABITI FEMMINILI Dagli atti e dalle cronache di epoca federiciana sappiamo che l'abito femminile era composto da tre capi: la camicia (testimoniata a Bari a partire dal 1021 con il nome di càmiso), la tunica (o gonnella) e la guarnacca(sopraveste). La camicia, detta anche interula o sotano era una specie di sottoveste lunga fino ai piedi, confezionata solitamente, per i vestiti più semplici, in lino e cotone leggero. Il tessuto variava a seconda delle possibilità economiche della cliente, le donne di alto rango sociale tendevano a impreziosire gli abiti con guarnizioni ricamate o liste di tessuto frappato (in frange) lungo i bordi e la scollatura, solitamente quadrata. La camicia era priva di bottoni, ed erano sconosciute le tasche. La moda dei bottoni in oro, argento e pietre preziose nasce in Francia nel XIII secolo per poi diffondersi lentamente in tutta Europa. Fig. ,67, Ritrovamento della reliquia di San Marco, part., mosaico, 1270 ca. Venezia, Basilica di San Marco - Camicia, tunica e guarnacca- Sulla camicia le donne infilavano la tunica, un abito lungo, di tradizione bizantina dalle maniche molto larghe, che spesso aveva dei profondi spacchi sui fianchi per lasciare intravedere la camicia sottostante di diverso colore. Le tuniche delle donne nobili erano confezionate in zendàli (seta simile al taffetà), broccati (velluti impreziositi da fili d'argento e d'oro), e applicazioni di perle e pietre preziose. Tessuti che di certo le donne del popolo e delle campagne non potevano assolutamente permettersi. Queste ultime adoperavano tessuti semplici come lino e cotone, d'inverno si coprivano con abiti in lana, il cui modello di base rimane lo stesso (Fig.67, 68, 69). Fig. 68, Tunica composta. Fig. 69, Tunica. La guarnacca era una sopraveste, aperta sul davanti, con maniche ampie pendenti fino all'orlo foderate di pelliccia, il pelo infatti era rivolto verso il corpo, mentre il lato esterno veniva ricoperto di tessuto. Gli abiti femminili erano fermati in vita da cordoncini annodati o cinture di stoffe ricamate e ornate di laminette d'oro o dipinte con smalti. Accessori fondamentali erano i copricapi, il modello più diffuso era la corona turrita, una fascia circolare su cui si appoggiavano merli con applicazioni di pietre e perle. A Venezia nel XIII secolo nasce un copricapo che avrà molta fortuna in tutto il Medioevo l'hennin, a forma di cono rigido, in velluto o in seta, al cui vertice veniva applicato un velo o un pizzo. Le fate delle fiabe di origine medievale, infatti, vengono tutt' oggi rappresentate con questo copricapo. La vera novità della prima metà del Duecento è la tunica che si allunga sul dietro a formare lo strascico: (…) di canno ti vististi lo 'ntaiuto (strascico)/ Bella di quel jorno son feruto (…) così cantava Cielo d'Alcamo nel noto Contrasto, sottolineando la particolarità dell'abito della donna amata. ABITI MASCHILI Gli abiti maschili nei primi secoli del basso medioevo non si differenziano molto da quelli femminili: La tunica, a tinta unita, poteva essere di varie lunghezze, per i poveri non doveva superare il ginocchio. Priva di bottoni, la tunica prevedeva una scollatura a punta sul davanti. Sulla tunica gli uomini infilavano la guarnacca, sopraveste senza maniche con cinture di vario tipo in metallo o corda, un capo della cintura pendeva fino all'orlo. In inverno si adoperavano lunghi mantelli trattenuti sul petto da lacci, novità di origine franca. Tuttavia rimase l'uso di indossare sopra la tunica, in inverno, un giubbotto di pelle con il pelo verso l'esterno. Accanto a tessuti pregiati come il velluto e la seta, il basso medioevo eredita la passione per le pelli e le pellicce, largamente usate in epoca altomedievale. Il commercio e la produzione del cuoio rimasero, dunque, uno dei settori principali anche dell'economia tardo medievale. Scena cortese con Federico II che porge una rosa ad una dama, affresco, Bassano del Grappa, Palazzo Finc La grande necessità di materia prima, cioè di pelli di animali di diverso tipo, veniva soddisfatta dall'utilizzo delle pelli degli animali macellati per uso alimentare, in prevalenza agnelli e capre. Ma la richiesta sempre maggiore di capi d'alta sartoria e di qualità superiore, fecero crescere l'industria dei pellami pregiati: di bufalo, cavallo, camoscio, cammello, coniglio, cervo, lupo. Il commercio del pellame pregiato avveniva prevalentemente per via mare, o attraverso i fiumi nell'Europa centro- settentrionale. I principali mercati e punti di rifornimento erano la Spagna, il Nord d'Africa, l'Oriente e le Fiandre, in Italia avveniva prevalentemente la conciatura e la lavorazione del pellame grezzo o semi lavorato. Federico II attorniato dai sudditi, exultet, salerno Biblioteca Capitolare Gli abiti adoperati per l'inverno come cappe e mantelli erano, nella maggior parte dei casi, imbottiti o predisposti ad esserlo. Le cappe femminili, ampie ed avvolgenti avevano la superficie fra le spalle e la cintura rivestita con pance di vaio, noto anche come scoiattolo siberiano, animaletto dalla pelliccia pregiata. L'uso delle pellicce di vaio e di candido ermellino distingueva l'élite delle corti, mentre le pelli di agnello e montone erano diffuse tra nobiltà minore e cavalieri. I capelli venivano portati dall'uomo di media lunghezza, con la frangia a metà della fronte e,fermati da cerchi, venivano raccolti in piccole cuffie (Infulae). Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole. Fig.72, Ricostruzione di stivaletti e scarpe medioevali. Fig.73, Giovanni di Balduccio, San Pietro martire e tre devoti, 1340-1350. Fig.74, Giovanni da Milano, Martirio di San Bartolomeo, Polittico di Prato, 1355- 1360 Le calzature erano confezionate in cuoio e in genere con pelle d'agnello. I poveri adoperavano zoccoli in legno o generalmente pianelle; le raffinate scarpe a punta in tessuto colorato e suolate all'interno erano esclusiva delle classi sociali elevate. Accessori importanti nella moda maschile erano le borse realizzate in cuoio, in forma rettangolare (scarselle), trapezoidale (elemosiniera), a forma di bisaccia, tipologia particolarmente usata dai pellegrini in viaggio, o sotto forma di eleganti valigie per la clientela raffinata. Le scarselle venivano legate alle cinture, confezionate in cuoio con applicazioni metalliche. Nel XIV e XV secolo la moda francese ha larga diffusione in Italia, anche se il popolo rimane comunque estraneo alle trasformazioni del gusto. I più recettivi, in questo senso, sono sicuramente la borghesia e l'aristocrazia, che alla moda raffinata unirono la ricercatezza negli arredi delle case. A. Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in città, sec. XIV, Sala della Pace, Palazzo Pubblico di Siena Le trasformazioni più importanti sono legate ai tessuti adoperati, molto più ricercati, molto più preziosi: gli abiti diventano fastosi. Velluti, broccati, damaschi e seta, questi sono i materiali più utilizzati. Per le donne resistono le guarnacche, ora senza maniche, aperte sui fianchi, mostrano il colore dell'abito sottostante. Il capo viene imprigionato da pettinature sempre più complicate, a volte bizzarre: semplici corone stilizzate legate al viso da un velo o da una retina che contiene i capelli, cerchi metallici con velo, o turbanti di velluto imbottiti posizionati di traverso sulla fronte. A partire dal XV secolo si diffuse la moda della cuffia con i prolungamenti, tipo corna, ai due lati del volto, che nei casi eccessivi, potevanoraggiungere i trenta cm di lunghezza. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon governo in città, XIV sec., Sala della Pace, Palazzo Pubblico di S A partire dal Quattrocento gli abiti maschili si accorciano, le calze si allungano fino ai fianchi e diventano bicolore, viene indossato al posto della tunica il giustacuorelungo o meno lungo, scollato fino alla vita ma con un largo risvolto in tessuto diverso trattenuto da un cordoncino che passava negli occhielli. Si diffonde la moda per le maniche tagliate verticalmente che permettono alla camicia sottostante di uscire. Gli abiti erano spesso imbottiti con fieno che allargavano spalle e torace, la vita stretta da cinture con borchie metalliche. Gli abiti più ricchi presentavano i risvolti in pelliccia. Per gli uomini si diffonde la moda dei cappelli la cui varietà è per l'epoca impressionante: turbanti, coni, a cilindro con la tesa larga, a cuffia, cappucci, berretti di pelle e di tessuto (il velluto è il materiale più adoperato). Il copricapo più diffuso era sicuramente il mazzocchio, cappello con un lembo appuntito che scendeva sulle spalle. Per le donne si diffonde l'uso del cerchio di borra (lana grezza) coperto da un panno colorato che gira a fascia intorno alla testa. Andrea Mantegna, Camera degli sposi, part. della corte, affresco, 1465-74, Mantova, Castel San Giorgio Gli abiti femminili subiscono nel XV secolo un radicale cambiamento: nasce il bustino attillato e alto, irrigidito da stecche di legno o avorio; la scollatura diventa profonda. Dal bustino si staccava la gonna drappeggiata e arricciata, spesso rialzata con ganci d'oro o d'argento. Le maniche lunghe erano attaccate alle spalle con cordoni che spesso terminavano con fermagli, infilati in occhielli aperti nell'abito. Come nell'abito maschile, si diffonde l'uso dei tagli sulle maniche verticali e orizzontali da cui usciva a sbuffi la camicia. Lo strascico degli abiti importanti si appesantisce e si allunga. Jan Van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434, olio su tavola, National Gallery Londra La differenza tra un abito raffinato e un abito mediocre non era dato dal modello quanto dal colore. Nel XIV e XV secolo alcuni colori come il verde erano adoperati esclusivamente dagli esponenti dei ceti alti, cortigiani e signori. Alle popolane era vietato l'uso di colori sgargianti, anzi nella maggior parte dei casi gli abiti poveri si distinguevano dal colore grezzo, tessuti cioè che non avevano subito la tintura, uno dei momenti più delicati della manifattura delle stoffe. Chi poteva, invece, indossava abiti dai colori decisi: il più prezioso era lo scarlatto, il morello era un colore paonazzo scuro, il lionato (giallo fulvo) era molto ricercato e l'alessandrino (azzurro screziato) andava per la maggiore. Anche i tessuti indossati in realtà rivelavano l'origine sociale di chi li indossava: il panno balveto era adoperato dagli operai, il bianchetto dai frati, il perso (di color nero tendente al rosso) dai cavalieri e il vergato (tessuto rigato) era destinato ai servi, ai messaggeri e ai garzoni. Nel Quattrocento prevale il tessuto lavorato (velluto e seta in prevalenza) con decorazioni floreali, che all'astrattezza delle figurazioni orientali univano la tendenza naturalistica dell'arte occidentale. Il motivo più ricorrente era quello del frutto del melograno, unito al cardo e al fiore di loto. Le scarpe per gli uomini potevano essere a punta o a forma quadrata nell'estremità, diffusi erano gli stivaletti in pelle alti al polpaccio. Le donne preferivano scarpe basse chiuse alla caviglia o allacciate con un passante; dalla Francia si diffonde l'uso della pantofola. L'abito non era indispensabile solo per evidenziare la categoria sociale di appartenenza, a volte diventava necessario per emarginare o etichettare determinate categorie "umane" considerate pericolose: le meretrici, i lebbrosi e gli appartenenti a minoranze etnico-religiose come gli ebrei e i saraceni erano obbligati ad indossare i segni distintivi dell'infamia. Per quanto riguarda le meretrici, disprezzate a causa del lavoro condotto, per ovvi motivi, ma ben tollerate all'interno della società,l'Imperatore Federico II imponeva, nel suo Regno, la netta separazione fra le donne oneste e quelle pubbliche obbligando queste ultime ad indossare una veste corta sfrangiata nel basso affinché fossero immediatamente riconoscibili e non fossero confuse con le altre donne. In Francia invece le prostitute erano costrette ad indossare, sull'abito o fra i capelli, un nastrino rosso (anguilette), questo segno distintivo aveva una duplice funzione: distinguere la donna dalle altre "oneste" e garantire ai clienti una fornicazione qualificata. Alla pari di tutti gli altri marginali anche il lebbroso era costretto ad indossare i segni della diversità: il suo passaggio era annunciato da lontano dal suono di sonagli o dal rumore provocato dalle maniglie mobili di ferro della battola; era inoltre obbligato ad indossare un cappuccio e un colletto di stoffa bianca, affinché la sua diversità fosse immediatamente visibile. Nel 1221 l'Imperatore emanò le Assise di Messina in cui presentava l’editto generale riservato ai giudei affinché portassero abiti particolari per distinguerli dai cristiani, i tratti distintivi erano il colore celeste per gli abiti e l'obbligo di portare la barba solo per gli ebrei adulti. Questa legge non era certo una novità, infatti già nel 1215 il IV Concilio Lateranense aveva emanato delle norme per isolare le comunità ebraiche da quelle cristiane, obbligando Ebrei e Saraceni ad indossare abiti particolari:" …costoro di ambedue i sessi, in ogni provincia cristiana e in ogni momento siano segnalati agli occhi del pubblico come ebrei e saraceni per mezzo del tipo del loro abito". Part. affresco castello della Manta, metà XV secolo Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole. GLI ECCLESIASTICI Nel Medioevo, ma anche oggi, non tutti gli ecclesiastici svolgevano le stesse funzioni, avevano lo stesso rango o la medesima importanza e siccome nel Medioevo l'abito aveva un alto valore simbolico, i diversi gruppi si differenziavano anche per la veste che indossavano. Così, ad esempio, i Frati Minori o francescani, indossavano una tunica color grigio, cinta in vita da una corda e sandali senza calze (Fig.79). Anche per i monaci ed i frati di altri ordini l'abito da indossare era stabilito dalla regola che seguivano che ne fissava forma, tipo di stoffa e colori. In ogni caso si trattava di abiti semplici ma funzionali, adatti al lavoro anche manuale che essi dovevano affrontare. Fig.79, Un monaco medievale. Se volgiamo lo sguardo alle più alte cariche della Chiesa la situazione appare molto diversa. Vescovi e cardinali provenivano spesso da famiglie ricche e potenti con potere sia spirituale che materiale: si circondavano di un seguito di cavalieri riccamente vestiti con stoffe preziose che spesso riproducevano i colori dello stemma famigliare del loro signore. Nella vita pubblica indossavano l'abito ecclesiastico, che nel caso dei cardinali era rosso, ma spesso anche abiti preziosi e gioielli di gran valore. ACCONCIATURE In Europa è soprattutto a partire dal Medioevo che sono comparsi in capo alle donne accessori e gioielli fastosi, spesso volti a ostentare lusso e opulenza e contemporaneamente dal XV secolo inoltre sono apparse in Italia molte fogge di pettinature rendendo la testa uno dei veicoli privilegiati delle mode del periodo. Dietro a questi ornamenti era presente una moltitudine di significati, infatti essa era riconosciuta come la parte del corpo maggiormente degna di riguardo, in quanto sede delle facoltà intellettuali. Nella cultura occidentale una particolare considerazione verso il capo è da sempre presente, tant’è vero che proprio sulla testa sono posti i simboli distintivi del potere spirituale e temporale quali la mitria vescovile e la corona regale. Inoltre, secondo la gerarchia del pensiero medievale e rinascimentale era considerato maggiormente lecito decorare ciò che la natura stessa ha posto più in alto: i piedi e le gambe erano, infatti, considerati inferiori gerarchicamente. Tramite accessori e gioielli, il capo diveniva così emblema del proprio rango, del gusto e della sensibilità alle mode e questo specialmente per quanto riguarda le donne, esposte quasi come dei manichini viventi per esibire lo status della famiglia di appartenenza. Fig.80, Proposte di acconciature medioevali. Le dame del XV secolo erano ben consce di questo ruolo sociale, e facevano della loro testa un vero e proprio campo di rappresentazione: grazie a un sistema di ornamenti, i cui materiali, colori e forme erano codificati nella normativa suntuaria, il capo femminile era in grado di comunicare una miriade di significati, legati soprattutto alla condizione sociale e personale, a manifestazione del privilegio e agio economico, ma anche sudditanza, lutto o marginalità. La pettinatura variava anche secondo l'età: le fanciulle e le donne più giovani portavano i capelli divisi da una riga al centro e due trecce che scendevano sul petto, talvolta lunghe fino alle ginocchia, o ulteriormente allungate da pendenti appesi a ciascuna estremità mentre le donne adulte portavano i capelli raccolti e spesso coperti da fasce di stoffa o foulard. Dopo il 1200 la moda delle lunghissime trecce tende a scomparire per lasciare il posto a capelli più corti tenuti fermi da un cerchietto e lasciati liberi sulle spalle. Le vedove e le suore portavano il soggolo, un ampio copricapo di tessuto leggero che nascondeva completamente i capelli, le tempie, il collo e la parte superiore del petto (Fig.80). I CAPELLI DEI RE MEROVINGI Fig. Clodione II Fig. , Teodorico II Fig. Chidelberto III, All'inizio del regno di Carlo Magno nel secolo 8º (700- 800 d.C.), si stabilì una forte alleanza con il Papa di Roma, fondando il Sacro Romano Impero Germanico. Carlo Magno portò nel suo regno i vecchi costumi romani, e gli uomini cominciarono a usare i loro capelli più corti e più meticolosamente curati. Il taglio di capelli corti e ben pettinati era più o meno "romano", in opposizione al paganesimo barbaro dei periodi precedenti e più in sintonia con il cristianesimo. I CAPELLI DEI RE CAROLINGI: Carlo Magno (740-814) Luigi V (967-987) Nei pressi del 10° secolo (901-1000 d.C.), la Chiesa Cattolica iniziò ad emettere editti contro la lunghezza dei capelli degli uomini, e la necessità di coprire con veli le teste delle donne. Nel 1073, il Papa Gregorio VII vietò l'uso di barba e baffi tra il clero, i sacerdoti poi, cominciarono a dare istruzioni alla popolazione raccomandando di radersi la barba per essere un buon cristiano. Nel 1096 l'arcivescovo di Rouen annuncia che “gli uomini che portavano la barba sarebbe stato scomunicato dalla Chiesa” e il re inglese Enrico accetó nel 1130 di tagliare i capelli e la barba, sotto la pressione della Chiesa. Da allora, e fino al 15 ° secolo, era raro vedere barbe negli uomini. Immagini di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e poi dei re d'Inghilterra, sono rappresentate solo con i baffi, anche se tra i Normanni l'uso di barbe erano molto importante per individuare i maschi maturi dai giovani. Dal 11 ° secolo in poi, era molto popolare l’ "acconciatura alla paggio", un taglio di capelli con frangia e capelli corti sopra le orecchie fino al collo. Nel famoso arazzo di Bayeux, una tela di 224 piedi di lunghezza, realizzata in Normandia, in Francia, nel 11 ° secolo, che racconta la storia della conquista delle isole britanniche 'dai francesi normanni, sono raffigurate immagini che mostrano come gli uomini utilizzati i capelli alla quel tempo. . Il De Ornatu Mulierum di Trotula si mostra essere un testo molto importante anche per la cura e l’ornamento dei capelli perché riporta ricette, applicazioni anche per la cura di patologie del cuoio capelluto e per abellire la chioma secondo i gusti del tempo. In questo antico trattato è creduto che la seborrea e la forfora siano state prodotte da vermi che crescono sotto il cuoio capelluto, e al fine di eliminarli era consigliato lavare i capelli con aceto, acqua di rosmarino, ortica, menta, timo e altre erbe. E tutto questo, in ogni caso, ha contribuito alla igiene capillare e alla salute del cuoio capelluto. PER I CAPELLI BIONDI: “Per colorare i capelli in modo che sia d'oro: prendi la corteccia esterna del noce e la corteccia interna del medesimo albero, cuoccile in acqua, e con quella stessa acqua stempera allume e galle, e con queste sostanze stemperate ungi la testa, dopo averla lavata, e sovrapponendo delle foglie, e legando con una fascia per due giorni, potrai così effetuare la colorazione. Inoltre, pettina la testa perché ciò che è attacatto ai capelli vada via come superfluo. Poi applica la tintura che si fa con croco orientali, sangue di drago, ed alcanna, della quale la maggior parte serà stemperata con un decoto di bresiglio; e consentono alla donna di rimanere così per tre giorni, ed il quarto giorno lasciarla sia lavata con acqua calda, e non potrà mai essere rimossa con facilità”. “Prendere la scorza mediana del sambuco, fiori di ginestra, croco, e tuorli di uova; queste sostanze cuocciano in acqua e si raccolga la materia che vi rallegerà, sopra e quindi siano spalmati i capelli”. “Chiudi in una pentola nuova il maggior numero possibili di api, ed in tal modo bruciale, tritale con olio, e quindi ungi la testa; por lo stesso scopo è efficace la agrimonia, tritata con latte di capra”. PER I CAPELLI ROSSI: "Se una donna vuole avere i capelli rossi e folti, se li lavi spesso con questa lavanda: aggiungi della celidonia a trucioli e foglie di bosso; aggiungi ancora agrimonia cotta a lungo; dopo di che bisogna prendere una pentola dal fondo minutamente bucherellato, con sopra, ben aderente, un panno bianco su cui si dispone uno strato di cimino, un altro di paglia tritata con prevalenza d'orzo, un terzo di trucioli o foglie di bosso; la quarta zona la fornisca l'ipia, la quinta la celidonia; quindi si disponga un filtro duplice, triplice o quadruplice, costituito da sabbia fine, polvere di liquirizia, cenere di frassino o di vite. L'acqua va colata attraverso la pentola suddetta e i capelli, lavati spesso con questa lavanda, vanno avvolti finché siano asciutti. Così, in breve tempo, diventeranno meravigliosamente belli. Quando è il momento di pettinarli, vanno sparsi sopra questi ingredienti, ridotti in polvere fine: chiodi di garofano, noce moscata, rosa essiccata, galanga, e ancora costo, pepe, cardamomo, cannella. Dopo aver lavato i capelli con questi ingredienti aggiungendo acqua di rose, si pettini avendo cura di inumidire anche il pettine. Se si aggiunge muschio, se ne acquisterà in pregio". PER I CAPELLI NERI: "E siste un ritrovato saraceno per rendere i capelli neri: prendi la buccia di una melagrana molto dolce, trítala e falla bollire in aceto o in acqua, poi cólala. Al liquido così ottenuto aggiungi polvere di galla e di allume in grande quantità, in modo da renderlo una poltiglia assai densa e la donna impregni i suoi capelli con questa sorta di pasta. Poi si stemperi della crusca con olio e si ponga al fuoco in un recipiente fino a che la crusca sarà completamente abbrustolita: la donna sparga questa sostanza sul capo fino alla radice dei capelli, poi lo bagni e di nuovo impregni i capelli con la pasta suddetta e la lasci in la testa per tutta la notte perché i capelli si ungano meglio, poi li lavi e saranno tutti neri". “Prendere una lucertola e stacatte la testa e la coda; lo cuoccia bene in olio comune e con tale olio unga la testa”. PER LA CRESCITA E FOLTEZZA DEI CAPELLI: "Prendi pane d'orzo con la crosta, macinare con sale e grasso d'orso. Ma prima, bruciare il pane d'orzo. Con questa miscela ungere la testa, e il pelo crescerà. Al fine di rendere i capelli folti, prendi agrimonia e corteccia di olmo, radice di verbena, radice di salice, abrotano, i semi di lino bruciati e polverizzati, e radice di canna. Cuocciano tutte queste cose in latte di capra o in acqua e lavare la testa (che prima sarà rasata)". DEPILAZIONE: "Per diventare tutta morbida e liscia, senza peli dalla testa ai piedi, una donna per prima cosa deve recarsi ai bagni pubblici; se non e'e abituata, faccia un bagno di vapore in questo modo: prendi tegole e pietre al calor bianco, mettile dentro una stufa e la donna ci si sieda sopra. Oppure, in altro modo: prendi tegole calde o pietre nere calde e mettile in una stufa o in una buca scavata per terra: poi versaci sopra acqua calda in modo che si sviluppi vapore e la donna ci si sieda sopra tutta avvolta in panni per sudare. Quando abbia ben sudato, entri in acqua calda e si lavi con la massima cura; poi esca dal bagno e si asciughi bene con un telo di lino. Poi si unga tutta con la seguente crema depi- latoria: prendi della calce viva passata per bene al crivello e mettine quattro once in un vaso di terracotta e falla cuocere finche diventi poltiglia; poi prendi un'oncia di ossido di arsenico e fa' cuocere ancora e senti con una penna se e cotta a sufficienza: attenta che non cuocia troppo e che non resti troppo a lungo sul- la pelle, perche ustionerebbe terribilmente. Ma se capitasse che la pelle fosse ustionata a causa della crema depilatoria, prendi del populeone, stemperalo con olio di rosa, o di viola, o con succo di sempreviva e applicalo finche il bruciore non si plachi e poi ungi con balsamo bianco, finche I'irritazione sia scomparsa".