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Cristo si è fermato ad Eboli
La scheda filmica e didattica è a cura di Giancarlo Visitilli. Ogni diritto è riservato CRISTO SI e’ FERMATO A EBOLI (Italia, Francia 1979) Regia: Francesco Rosi Interpreti: Gian Maria Volonté, Lea Massari, Alain Cuny, Irene Papas, Paolo Bonacelli Durata: 150’ Genere: drammatico Sinossi Nel 1935, il medico-pittore torinese Carlo Levi, condannato al confino dalla dittatura fascista, scortato da due carabinieri, scende dal treno alla stazione di Eboli: “Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”. Il viaggio prosegue in pullman e quindi in automobile. Raggiunto Gagliano, Carlo inizia a fare piccole passeggiate giornaliere in compagnia del cane Barone e lentamente entra in contatto con la popolazione, che finisce per imporre, tanto a lui quanto al podestà fascista, di esercitare la professione di medico. La sorella Luisa lo raggiunge e Carlo si trasferisce con lei in una casa dove la domestica Giulia si dedica a loro. Carlo comincia così a dedicarsi alla pittura, scambia qualche parola con gli abitanti, con il podestà, con il misterioso Don Trajella. La conquista dell’Abissinia gli riconsegna la libertà. Tornato a Torino carico di ricordi, Carlo scriverà un libro per ricordare questa esperienza. DENTRO IL FILM Il Sud: una questione meridionale L’omonimo film di Francesco Rosi è tratto dal bellissimo romanzo di Carlo Levi. Sia il libro che il film rappresentano il racconto fantastico, il ritratto politico, economico e sociale dell’Italia meridionale, soprattutto quella contadina degli anni Trenta. Il regista pone l’accento sopratutto sulle implicazioni politiche e sociali della vicenda. Quella che appartiene, in realtà, alla vera storia del romanziere, Carlo Levi, nato e vissuto a Torino, laurea in Medicina, anche pittore Espressionista. Simpatizzante di “Giustizia e Libertà”, organizzazione antifascista ed anche partigiana, poi, venne arrestato nel 1935 ed inviato a Grassano (MT) al confino per tre anni. Da qui, in seguito, venne trasferito ad Aliano (nel film citato come Gagliano). Il confino durerà meno del previsto. Poco dopo la vittoria della Guerra d’Etiopia, regione nota come Abissinia, nel maggio 1936, ci fu un’amnistia e quasi tutti i confinati, comunisti a parte, vennero amnistiati, e Levi potè tornare a Torino. Egli scrisse il libro, coi suoi appunti di diario e le sue lettere, alcune delle quali mai spedite, perché respinte dal podestà del paese, tra il 1943 e ’44, a Firenze. “Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo”. Queste parole, testuali di Carlo Levi, segnano una precisa linea di passaggio, nel romanzo, come nel film, attraverso la sequenza*, con l’arrivo del treno a Eboli, l’ultima tappa della linea ferroviaria, assunta a simbolo del confine che separa i due mondi. Le immagini dei luoghi e l’umanità suggestive, fino alla commozione, in ogni stagione rilucono di una luce propria, e quindi naturale: le descrizioni trasportano, si avvertono le sensazioni di cado e di freddo, l’impressione di vedere il tramonto con i propri occhi, merito anche del direttore della fotografia*, Pasqualino De Santis, del grande lavoro dello scenografo*, Andrea Crisanti e del compositore della colonna sonora*, Piero Piccioni. Infatti, il dato reale, che ne viene fuori, è il risultato, non solo della realtà contadina che Levi subì, facendola in seguito propria, ma dai tre uomini di cinema, insieme al regista, ci viene trasmessa integralmente e con la stessa notevole intensità una dimensione abbastanza reale della Basilicata di allora, in realtà di sempre. Basti pensare solo alle immagini che si soffermano sulle lande desolate di quella terra, durante i discorsi del duce, che rappresentano l’evidenza dello stridente contrasto tra realtà contadina e il potere dello Stato. Tutto il film di Rosi alterna momenti di riflessione storica e sociale a momenti di grande e commosso lirismo. La metafora del Cristo che si è fermato a Eboli, che sta a testimoniare l’assenza di Dio in una terra che ha soltanto conosciuto vessazioni e depredazioni, dalle quali sono conseguiti il fenomeno del brigantaggio, come disperata ribellione alla storia, e il radicamento sempre più profondo della credenza nei riti magici pagani come forma di devozione al soprannaturale, danno spazio alla condizione di un’umanità martoriata dal Tempo, immortalata all’interno di un quadro ambientale presentato in tutta la sua durezza ma anche nel fascino della sua atmosfera ancestrale. Anche a tal proposito, la magistrale interpretazione di Volontè diventa molto intensa, nel momento dello schiaffo alla “serva” Giulia, perché assurge a emblema dell’istinto prevaricatore dell’uomo “moderno” sulle masse contadine. Infatti, il mondo contadino, sfruttato e soggiogato da secoli, è il quadro più credibile che anche Rosi offre, un mondo quasi alieno per chi, come Levi, proviene da una realtà completamente opposta. E allora, Eugenio Montale, per mezzo dell’immenso testo poetico, accorre in aiuto, per meglio commentare questo film, attraverso i versi: “Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”. Si tratta della stessa capacità di Francesco Rosi, quella di far trasparire il male di vivere dai volti, dai paesaggi, dai dettagli, dalla musicalità della natura, dalle parole di un grande scrittore, dai gesti. La Storia siamo noi Sono emblematiche le primissime inquadrature* con cui si apre il film: il primissimo piano* del volto di un anziano signore, barbuto, ripreso dapprima in volto e poi da dietro, contrapposto all’altro volto di una bambina che guarda… Le generazioni che si osservano, e che insieme fanno la Storia, quella fatta da tante piccole storie. Tant’è che le parole che accompagnano queste prime immagini sono abbastanza esplicative: “Sono passati molti anni pieni di guerra e di quello che si usa chiamare la storia…”. A ciò si aggiunga una descrizione, profondamente poetica, della Basilicata, che contrasta con le parole di chi afferma che “Cristo non è mai arrivato qui, né il tempo, la ragione o la storia”, che invece si concretizzano nelle immagini di colline ora verdi, poi gialle per il denso colore del grano, la presenza di pastori, crinali abitati da animali, ecc. Si tratta di una realtà che non può non tener conto delle credenze della religiosità, tipicamente popolare: dei “morti a causa delle fatture”, del becchino che crede di aver incontrato il diavolo, considerando anche la capra immagine/presenza del demonio, insieme a quella dell’angelo, “fuori e dentro casa, anche in capo al letto” che, magari, convivono con “i monachicchi”, gli spiriti dei bambini morti senza battesimo. Si tratta di un popolo, lo stesso che “non vuol pagare le tasse, però tutti hanno il maiale, le salsicce appese e la ventresca”, come denuncia l’esattore delle tasse, disposto anche a barattare, con chi non ha i soldi per le tasse e che “quando non hanno i soldi, mi prendo la bottiglia d’olio le cose che c’hanno. Mi odiano tutti”. Si tratta, davvero, di un racconto verosimile e di un’attualità estremamente vicina a noi e ai tempi che viviamo. Ma quello di Rosi è anche un vero e proprio omaggio alla terra della Lucania e a questa parte di Paese, lontana da Dio e dagli uomini. Un inno, oltre che un viaggio esplicito e interiore. La poeticità di Rosi, insieme già a quella di un testo intriso di poesia, commuove, perché ci fa incontrare l’esattore delle tasse che per “togliermi il veleno che mi dà la gente” suona il clarinetto, accennando, fra l’altro al tema musicale del film. Sono tantissime le soggettive* con sola presenza della natura e di uccelli, che emozionano lo spettatore, che si ritrova a viaggiare, osservare ed essere diretto spettatore di un mondo tipicamente virgiliano. Basti fare menzione a quando Carlo è in pullman, che osserva: il volo del falco, i contadini durante la raccolta del grano, con inquadrature* invase dal colore giallo, in contrasto con il colore viola dei fiori, oppure quelle altre, inquadrature*, esattamente suddivise in gialle e con l’azzurro intenso del cielo. Sembrano veri e propri quadri dipinti, fra l’altro, spesso, accompagnati da una colonna sonora* di grande suggestione. Tutto ciò, fra le denunce esplicite: “Quando piove qui crolla tutto perché è tutta argilla. E la gente qui è peggio della terra”, come sosterrà il prete. O come quando osserviamo un servizio postale ad opera di uomini che si accompagnano da ciuchi, insieme all’acuta osservazione di Carlo, a seguito di quella del gerarca fascista (“La grandezza di Roma splende sui sette colli”): “Ma la grandezza qui splende sui colli che franano”. E’ esplicita anche la denuncia propriamente politica, soprattutto da parte di Rosi: “La borghesia si è ridotta così: siccome non hanno i mezzi sufficienti per vivere con il decoro del galantuomo, allora sfruttano i contadini. Si assicurano i migliori posti, da maresciallo, da sindaco…”. Insieme a quella che proviene dalla bella e intesa sequenza* girata in chiesa, durante la notte di Natale, nel momento in cui il prete, sebbene ubriaco, legge la lettera di chi è a Gagliano, commentando egli stesso: “Io non posso accettare che si combatta una guerra per portare la religione in Abissinia”. Proprio colui che era stato oggetto di scherno e derisione, da parte del popolo, il prete, alla fine diventa esplicitamente un domatore di anime, invitando la gente accorsa in chiesa, per l’occorrenza, a “dare il capretto al pastore, a restituire le terre a quelle a cui le hanno tolte”, insomma, è colui che cerca di ripristinare la presenza di un umanesimo prima, e di un cristianesimo, dopo, che riscattino una terra bella e dannata. Il regista Nato a Napoli il 15 novembre 1922, durante la guerra abbandona l'Università (gli mancano nove esami per la laurea in Giurisprudenza) e si afferma come illustratore di libri per l'infanzia. Contemporaneamente collabora a 'Radio Napoli' dove stringe amicizia con altri giovani di belle speranze, (Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Aldo Giuffrè) con cui si ritroverà spesso a lavorare nel corso della sua carriera. Nel 1946 si avvicina al mondo dello spettacolo come assistente di Ettore Giannini per l'allestimento de 'Il voto' (Salvatore Di Giacomo), messo in scena al Teatro Quirino di Roma. In seguito è aiuto regista di Luchino Visconti per La terra trema (1948). Fino alla metà degli anni '50 alterna l'attività di aiuto regista, soggettista e sceneggiatore anche dopo aver personalmente diretto alcune sequenze di Camicie rosse (Goffredo Alessandrini,1952). L'esordio nella regia è del 1958 con La sfida, eccellente opera prima che già anticipa quelle tematiche che diventeranno caratteristiche peculiari del suo cinema. Presentato alla Mostra di Venezia dello stesso anno, il film ottiene il Premio speciale della Giuria e registra subito una buona accoglienza da parte del pubblico. Successo ripetuto l'anno dopo con I magliari (1959). Nel 1961 inaugura il genere dei film-inchiesta italiani con Salvatore Giuliano, ripercorrendo la vita del celebre bandito siciliano attraverso una lunga serie di flashback. Pur non avvalendosi di attori famosi presso il grande pubblico (ma di grande talento, come Salvo Randone) il film si classifica al 10° posto nella graduatoria degli incassi di quell'anno, a riprova del crescente interesse verso pellicole di argomento politico. Nel 1963 vince il Leone d'Oro con Le mani sulla città (1963), in cui denuncia con coraggio le collisioni esistenti tra i diversi poteri dello Stato. Dopo tante opere di impegno civile, strettamente collegate ai fatti della cronaca, nel 1967 si concede un volo verso orizzonti da favola. Per l'occasione dirige due grandi star come Sophia Loren e Omar Sharif, appena reduce dai trionfi de Il dottor Zivago (David Lean, 1965). Dopo questo 'intermezzo', negli anni '70 torna al cinema di sempre e con Gian Maria Volontè indugia sui retroscena di morti illustri e misteriose (Il caso Mattei, 1972), usa ancora la tecnica del documentario (Lucky Luciano, 1973) e realizza la versione cinematografica del romanzo autobiografico di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1978). Già all'epoca de Le mani sulla città ha in mente di portare sullo schermo un altro romanzo, La tregua. Dopo più di vent'anni, nel 1987, è pronto a realizzare questo progetto, che è ancora costretto a rimandare dopo il tragico suicidio di Primo Levi. Nello stesso anno adatta per il cinema Cronaca di una morte annunciata (di Gabriel Garcia Marquez) dove, in mezzo ad una schiera di illustri attori, dirige anche sua figlia Carolina. Dieci anni più tardi, grazie a Martin Scorsese che lo aiuta a trovare i finanziamenti, riesce finalmente a realizzare quel sogno (La tregua, 1996) che ha diviso però la critica e non ha ottenuto il successo di pubblico sperato dato anche l'alto costo dell'operazione. Forse per dimenticare quell'insuccesso Rosi nel 2003 è tornato alla regia teatrale con 'Napoli milionaria' di Eduardo De Filippo. Nel 2007 poi, in coincidenza con il suo ottantacinquesimo compleanno l'annuncio: "Per ora basta col cinema e mi dedico al teatro". Tra il 2008 e il 2009 Francesco Rosi ottiene tanti riconoscimenti nel mondo e molti festival italiani e stranieri gli dedicano delle retrospettive. Tra i premi più importanti l'Orso d'oro alla carriera al festival di Berlino nel 2008, la Legione d'onore nel 2009 e il Leone alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia nel 2012. Curiosità 2 David di Donatello 1979: Miglior film e Miglior regista; Gran Premio al Festival di Mosca (1979); BAFTA 1983: Miglior film straniero; Esterni girati a: Matera, Craco, Aliano e Roma; La durata del film originale è di 224’; Carlo Levi, morto nel 1975, volle essere sepolto ad Aliano Vediamo un po’…: 1) Nel film, c’è un contadino che accenna a “Le leggi che vanno bene per voi del Nord Italia e non per noi”. Rispetto a quanto conosci della storia di quegli anni, a cosa si fa riferimento? 2) Carlo dice al cane: “Caro Barone io ci son venuto perché mi ci hanno mandato, ma tu sei voluto venire”. A cosa vuol far riferimento il medico-pittore? 3) “Se resti qui, cambi anche tu” afferma Carlo a sua sorella. Qual è il senso di questa frase, secondo te? 4) Carlo “non guardo neanche più l’orologio”. Perché? 5) Quali sono state, per te, le scene maggiormente suggestive? Perché 6) Consiglieresti di vedere questo film? A chi e perché? Se ti è piaciuto questo film…: GUARDA L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi; La terra trema di Luchino Visconti; L’uomo che verrà di Giorgio Diritti; La strada verso casa di Zang Ymou; L’età dell’innocenza di Martin Scorsese LEGGI “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi “Una pietra sopra” di Italo Calvino “Verso la foce” di Gianni Celati “Il segreto di Luca” di Ignazio Silone “La luna e i falò” di Cesare Pavese ASCOLTA “Rotolando verso Sud” di Negrita “Cristo nel cemento”di Santo Niente “Sotto casa” di Max Gazzé “Casa 69” di Negramaro “Tutte le strade portano a te” Ligabue Cooperativa Sociale I bambini di Truffaut www.ibambiniditruffaut.it – Gruppo Fb: I bambini di Truffaut Twitter: IBambiniDiTruff – Mail: [email protected] Info.: 342.6624110