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appunti sulla pena capitale a varese fra cinque e seicento

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appunti sulla pena capitale a varese fra cinque e seicento
cultura
e storia
I
APPUNTI SULLA PENA
CAPITALE A VARESE
FRA CINQUE E SEICENTO
n un torno d'anni violento e inquieto per
l'ordine pubblico quale certamente fu il
passaggio fra XVI e XVII secolo, e non
solo per l'area lombarda ma piuÁ in generale
per tutta quella mediterranea, il ricorso alla
morte come pena ebbe ``larga applicazione repressiva e generalizzata''. Come eÁ stato acutamente evidenziato: ``All'ondata di dilagante criminalitaÁ che, con ferimenti, omicidi, assalti, minacce, litigi, conflittualitaÁ permanenti pressoche quotidiane mise a dura prova le autoritaÁ
± specialmente a cavallo fra '500 e '600 ± si rispose rimuovendo totalmente le cause sociali di
tale situazione, con un aggravamento generalizzato delle pene, nell'intento di incutere timore,
per prevenire i crimini''. La logica che sottendeva
a questa politica, comune nelle societaÁ europee
d'antico regime, era basata sul ``principio dell'esemplaritaÁ della pena come deterrente''. Esistono buoni studi sull'applicazione della pena di
morte a Milano in etaÁ spagnola e tra i piuÁ significativi si segnala quello di Giovanni Liva da cui
abbiamo tratto le precedenti citazioni.
Intendiamo qui abbozzare un tentativo di
confronto sul ricorso alla pena di morte fra la
realtaÁ milanese e quella varesina nel periodo
1571-1630, fra centro e periferia del dominio
spagnolo strategicamente piuÁ importante in Italia, alla ricerca di eventuali peculiaritaÁ degne di
nota nell'amministrazione della giustizia del
borgo prealpino.
E vale la pena di segnalare subito che Varese
era uno dei tanti luoghi periferici o di frontiera
dello Stato di Milano in cui l'esercizio della
giustizia, nei decenni considerati, era tutt'altro
che agevole o privo di rischi. A questo riguardo,
in una supplica del 1574 scritta dai varesini a
Milano, si puoÁ leggere: ``l'ufficio della Podesteria del borgo di Varese, et sua giurisditione, eÁ di
tanta importanza che in nessun ufficio del Stato, riservando la cittaÁ, si agitano tante cause
criminali et anco civili'' e per questo si raccomandava che l'ufficio fosse affidato a un dottore (podestaÁ) ``sufficientemente versato et pratico'' piuttosto che a un ``dottore giovine et novizio, et che mai habbi esercito officijo''. La
LOMBARDIA NORD-OVEST
Uno spaccato di storia criminale
e giudiziaria in piena dominazione
spagnola da cui affiora la disparitaÁ
che, anche nell'amministrazione
della giustizia, caratterizzava il rapporto
tra centro e periferia del Ducato,
e attraverso il quale scopriamo,
per una serie di reati ritenuti gravi,
forme di supplizio incredibilmente
crudeli, in cui l'esemplaritaÁ della pena
avrebbe dovuto agire da deterrente.
Giuseppe Vottari
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Alla pagina precedente:
Emblema della confraternita milanese di San Giovanni
Decollato alle Case Rotte, dedita all'assistenza dei condannati
a morte (ultimi sacramenti, accompagnamento al patibolo,
sepoltura e preghiere in suffragio), incisione, metaÁ del XVIII
secolo (Civica Raccolta delle stampe A. Bertarelli, Milano,
d'ora in poi: Crb).
In questa pagina:
Frontespizio della sentenza del processo contro gli `untori',
ritenuti responsabili della diffusione del contagio a Milano
nel 1630, Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora, edita
da NicoloÁ Tebaldini, 1630. Nel testo della sentenza
vengono dettagliatamente indicate le modalitaÁ dei supplizi
cui i due condannati furono sottoposti (Crb).
metafora che accompagna e illustra la richiesta
varesina merita di essere ripresa per intero: ``Li
ucelli quando cominciano a volare debbono
fare i suoi voli corti, et poi di mano in mano,
con la pratica et esercitatione dilongarsi''.
Non sappiamo se la supplica del 1574 ottenne qualche risultato, quel che sappiamo per
certo eÁ che anche nei decenni successivi l'ufficio podestarile di Varese dovette far fronte a
centinaia di cause criminali, alcune delle quali
lo riguardarono molto da vicino. Nel 1628, per
esempio, il podestaÁ del borgo, l'autoritaÁ locale
che amministrava la giustizia ed era in continuo
contatto con gli uffici giudiziari e criminali di
Milano, fu bersaglio di un assalto a colpi d'archibugio nella pubblica via e uno degli ufficiali
che lo scortavano ne rimase ferito. Solo uno dei
quattro assalitori armati fu catturato, gli altri
riuscirono a scappare. Ecco spiegato perche si
richiedevano a Milano podestaÁ esperti, pratici e
di polso fermo!
In etaÁ moderna sia i reati contro le persone
che quelli contro la proprietaÁ o lo Stato (e in
quest'ultima categoria rientravano quelli contro
la religione) se giudicati `gravi' potevano portare
a una sentenza di condanna alla pena capitale.
Per i reati meno gravi invece erano previste pene
che spaziavano dalla multa pecuniaria alla punizione corporale ± che in genere era eseguita
pubblicamente e consisteva nella somministrazione di `tratti di corda' (riservati anche agli
insolventi alle multe) ± dalla `galera' sulle navi
come ciurma o rematori al bando dallo Stato,
per finire con la confisca, temporanea o definitiva, dei beni mobili e immobili del condannato.
Il carcere non era un luogo di detenzione in
cui scontare una condanna, le prigioni in genere ospitavano criminali colti sul fatto o sospetti
in attesa di sentenza, oppure soldati nemici da
riscattare o scambiare con altri prigionieri di
guerra. E non sempre erano fortilizi di massima
sicurezza: nel settembre 1575 dal carcere di Varese evasero sei detenuti in una volta mentre nel
novembre 1625 ne scapparono tre.
A fronte di un gran numero di condanne a
morte, l'istituto della grazia era applicato abbastanza largamente tramite gride di impunitaÁ,
remissione o liberazione anche per i reati piuÁ
gravi, e di esso beneficiavano in special modo
gli abbienti e i nobili. A Varese, per esempio,
lettere di grazia ratificata dal Senato milanese
`liberarono' condannati a morte per omicidio
nel 1574, 1579, 1591 e 1629. Va segnalato che
il periodo intercorso fra la condanna a morte e
la grazia che l'annullava spaziava, nei quattro
casi considerati, da un minimo di due a un
massimo di tredici anni. Ma eÁ bene non dimenticare che se i tempi per ottenere la grazia potevano rivelarsi estremamente lunghi, quelli
della giustizia ordinaria, nel caso non si avessero la possibilitaÁ o i mezzi per affidarsi a un
legale e opporsi alla sentenza capitale, rischiavano invece di essere spietatamente rapidi. CosõÁ
``Cristoforo Monticello cognominato il Maghella'', ladro e bandito, condannato a morte insieme a tre suoi complici dal podestaÁ di Varese l'8
agosto 1592, il 24 dello stesso mese fu con loro
``appiccato'' sulla pubblica piazza del borgo.
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LOMBARDIA NORD-OVEST
``Descrittione della esecutione di giustizia fatta in Milano
contr'alcuni li quali hanno composto, e sparso gl'unti pestiferi'',
incisione di Cesare Bassano da Francesco Valletto, 1630. In un
luogo che ricorda la milanese piazza Vetra (dove avvenivano
le esecuzioni capitali), sono raffigurati contemporaneamente
alcuni episodi avvenuti a Milano nel 1630. In primo piano,
sul carro, il barbiere Gio. Giacomo Mora e il cardatore
e commissario del Tribunale della sanitaÁ Guglielmo Piazza,
condannati come untori. Le lettere da A a G indicano i supplizi
cui vennero sottoposti: taglio della mano destra, rottura delle
ossa degli arti con la ruota, innalzamento su un palo, per sei ore,
della ruota in cui i corpi furono intrecciati, `scannamento',
`abbruciamento'; le ceneri furono disperse nella Vettabbia (H)
(da G. Calvi, La peste, inserto di ``Storia dossier'', n. 4, 1987).
Per quanto ora accennato, occupandoci della
pena capitale non faremo riferimento alle condanne inflitte dalle corti giudiziarie, condanne
che in gran parte erano in contumacia (delle 19
condanne a morte emesse dal podestaÁ di Varese
nel 1628, 18 erano tali), quanto alle sentenze
effettivamente eseguite. EÁ inoltre opportuno segnalare che non esistono serie di dati complete
e inoppugnabili in proposito e anche quelli da
noi proposti mirano solo a consentire un confronto omogeneo fra le due realtaÁ prescelte.
A questo punto qualche numero eÁ indispensabile per avviare il discorso. Per Milano, fra il
1571 e il 1630, Liva ha trovato tracce documentarie di 826 sentenze di morte effettivamente
eseguite. A Varese, nello stesso periodo, secondo la Cronaca di Varese di Adamollo e Grossi,
ne furono portate a termine 32.
Nel sessantennio preso in esame Milano contava una popolazione stimabile in 100.000 abitanti mentre quella di Varese e delle sue castellanze si attestava intorno alle 5000 unitaÁ. A
fronte di una popolazione venti volte maggiore
di quella del borgo prealpino, la capitale dello
Stato di Milano fu teatro, a cavallo fra XVI e
XVII secolo, di un numero di esecuzioni capitali
ventisei volte superiore. La media milanese si
attestava intorno alle quattordici esecuzioni
l'anno, quella varesina era prossima a una ogni
due anni. Dal punto di vista meramente quanti-
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Dalla serie Le grandi miserie della guerra, di Jacques Callot,
l'incisione raffigurante un convoglio e alcuni viaggiatori
assaliti da banditi, definiti ``infami ladri che vivono
da assassini'', 1633 (Crb).
tativo quindi, il dato varesino non pare essere
particolarmente significativo rispetto a quello
milanese. Restano peroÁ da verificare le motivazioni delle condanne capitali per operare un
confronto casistico fra i reati puniti con la morte
al centro e alla periferia dello Stato di Milano.
Accanto all'omicidio, i delitti ricorrenti nelle
motivazioni delle sentenze di morte milanesi del
periodo considerato erano: furto, falsificazione
e spendita di monete false, `sfroso' di generi
alimentari o manufatti, prevaricazione ai danni
di comunitaÁ, eresia, stregoneria, maleficio, infanticidio, bigamia, sodomia, incesto, esercizio
del sacerdozio senza esser prete, ribellione e
assassinio di strada. Le coeve sentenze varesine
ricalcano su scala minore quelle milanesi, ma
allo stesso tempo pongono in evidenza, per l'incidenza sul totale delle condanne a morte, un
particolare reato sugli altri, quello dell'assassinio di strada. Nel borgo prealpino infatti delle
32 sentenze di morte eseguite nel frangente
1571-1630, a fronte di 4 per omicidio e di 6
per furto, ben 16 riguardarono aggressori e/o
assassini di strada.
Secondo Liva l'assassinio di strada era ``il
reato di coloro che ± prevalentemente in bande
armate ± praticavano assalti e rapine ai danni di
mercanti o viaggiatori, che percorrevano le
principali vie di comunicazione. Fenomeno criminale di origine prettamente rurale, questo
delitto era allora ritenuto fra i piuÁ gravi, ed
era punito con notevole severitaÁ, ma non
come reato associativo ± banda armata ±, configurazione quest'ultima che nelle societaÁ di antico regime non venne mai prefigurata''. Per
intendere in cosa consistesse la `severitaÁ' cui
accenna Liva, conviene rifarsi alle parole di
un altro storico, Mario Bendiscioli, circa modalitaÁ e finalitaÁ della morte come pena, evento che
come noto, durante tutta l'etaÁ moderna, fu uno
degli `spettacoli' pubblici a piuÁ alto richiamo di
folla. Scrive Bendiscioli: ``Anche le esecuzioni
capitali erano accompagnate da crudezze, per
cosõÁ dire accessorie: la forma piuÁ mite, riservata
ai nobili, era la decapitazione sul pubblico palco; quella piuÁ spietata era l'abbruciamento dal
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vivo del condannato, pena solita di eretici, sodomiti, falsari, previe mutilazioni, e lo squartamento mediante cavalli, coll'issamento macabro
dei `quarti' di membra nei luoghi dove i malandrini di strada, ai quali questa pena era riservata, avevano compiuto le loro gesta. Evidente,
nella qualitaÁ e misura di queste pene noncheÂ
nella raffinata crudeltaÁ della esecuzione, l'intento dell'esemplaritaÁ, di incutere terrore, il terrore delle conseguenze della violazione delle norme'', intento, conclude lo studioso, non raggiunto proprio per l'enormitaÁ della pena,
come gli stessi governanti avrebbero constatato
piuÁ avanti.
L'assassinio di strada apparteneva quindi al
ristretto novero dei reati considerati `atroci'
dall'autoritaÁ giudiziaria, reati da punire con la
massima severitaÁ, togliendo la vita al reo in
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dannati a morte. Delle 32 esecuzioni capitali
prese in esame solo quattro furono eseguite
tramite decapitazione. Di queste, due coinvolsero donne: nel 1579 Marta di Albiolo, in quanto ritenuta strega, e nel 1621 Margherita Boraffio di Vedano, rea di omicidio. Raramente a
Varese i condannati a morte venivano `tirati a
coda di cavallo', ossia `trascinati' sulla strada nel
percorso dal carcere al patibolo. Subirono questo trattamento nel 1579 il vercellese Gerolamo
Gozio e nel 1615 il `benestante' varesino Camillo Martignoni che aveva ucciso, con la complicitaÁ del fratello, la sua giovane serva e amante
dopo aver scoperto che era incinta del fidanzato. La Cronaca di Varese registra peroÁ anche
alcuni casi di crudezze post-mortem: alla fine
del gennaio del 1583 ``fu appiccato e poi decapitato GioÁ Pietro Marocco omicida'' e nell'apri-
modo spietato e spettacolarmente macabro al
contempo. A conferma delle crudezze riservate
agli assassini di strada si possono leggere i dati
su Milano del periodo 1591-1610 proposti da
Liva. In questo ventennio furono eseguite 316
condanne a morte di cui 107, pari al 34%, con
esacerbazioni. Furto, omicidio e assassinio di
strada risultano i reati per cui piuÁ spesso furono
applicate le esacerbazioni o crudezze. Delle 24
condanne a morte per assassinio di strada eseguite a Milano fra il 1591 e il 1610 ben 17, ossia
il 71%, comportarono esacerbazioni, la piuÁ comune delle quali, come visto, era lo `squartamento mediante cavalli'.
A Varese le esacerbazioni non erano nella
norma e in genere gli aggressori o assassini di
strada venivano semplicemente impiccati o `appiccati' sulla pubblica piazza come gli altri conLOMBARDIA NORD-OVEST
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Un'altra incisione di Jacques Callot, dalla serie Le grandi
miserie della guerra, raffigurante l'impiccagione
di ``questi ladri infami e perduti [che] pendono dall'albero
come frutti disgraziati...'', 1633 (Crb).
le 1591 ``GioÁ Batta Gatto di Venegono, aggressore di strada, omicidiario, ecc. fu appiccato in
Varese avanti il palazzo di giustizia poi squartato, ed i suoi quarti esposti per piuÁ ore alla pubblica vista''. Nel luglio 1597 invece ``Franco
Barbato di Venegono Inferiore, aggressore ed
omicida fu appiccato indi decapitato, e la spesa
fu ripartita come al solito''.
A proposito delle spese per le esecuzioni capitali, piuÁ volte la Cronaca specifica che venivano ``ripartite sulle terre della pieve in proporzione del sale che a quelle dallo Stato si somministrava cadaun anno''. Le cifre `ripartite' sono
specificate solo in alcuni casi. Nel 1588, per
esempio, l'impiccagione di Lucia di Azzate
per opera del boia di Lugano, alla cui opera
spesso si ricorreva a Varese, costoÁ 35 ducati;
nel 1591 per l'impiccagione e lo squartamento
dell'assassino di strada, cui prima abbiamo accennato, si spesero invece ben 310 ducati. E nel
1619 per la fustigazione pubblica di un truffatore di Bosto, quindi per una semplice punizione corporale, non si spesero meno di lire 70,
somma con cui a Varese a inizio Seicento era
possibile affittare per un anno una casa con
cucina e bottega a pianterreno affacciate sulla
corte, alcune camere da letto al primo piano e
sopra questo il solaio e il sottotetto. Nel 1621
infine, l'impiccagione simultanea di un uomo e
di una donna ``rei d'omicidio proditorio'' comportoÁ un esborso di lire 525. Con tale importo,
al mercato settimanale di Varese del lunedõÁ in
quegli anni un compratore scaltro poteva acquistare `a credito', con pagamento dilazionato e
ratealizzato, un cavallo, una vacca, una coppia
di buoi e almeno dieci brente di vino (circa 750
litri). Ovvero quanto bastava a far felice un
contadino e la sua famiglia per un'annata e piuÁ!
Pare comunque di capire che, una volta ripartite fra le ventisei comunitaÁ pievane, le spese
sostenute a Varese fra Cinque e Seicento per le
esecuzioni capitali non fossero tali da incidere
troppo negativamente sui bilanci delle stesse.
L'assistenza spirituale e materiale ai condannati a morte era invece appannaggio della confraternita di Santa Marta, attiva nel borgo sin
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dall'inizio del XV secolo. L'istituzione ``contava
fra i suoi ascritti persone cospicue, possedeva
entrate proprie, nonche la cappella di S. Marta
entro la basilica di S. Vittore, alla cui fabbrica
essa presiedeva''. Per volere di Carlo Borromeo
nel 1574 la confraternita varesina fu `aggregata'
a quella di San Giovanni Decollato in Roma,
mentre nel 1694 strinse sodalizio con quella di
San Giovanni Decollato alle Case Rotte, detta
dei Bianchi, di Milano. Fino alla soppressione
giuseppina del 1786 la confraternita ``nominava
ogni anno i propri officiali, faceva vendite e investiture, accettava legati, sopraintendeva alla
gran processione del venerdõÁ santo, denominata
dell'Entierro, e assisteva i condannati a morte in
quel territorio, accompagnandoli al patibolo''.
Ma torniamo ora all'assassinio di strada. Si eÁ
in precedenza accennato al fatto che questo
reato era fenomeno tipicamente rurale e veniva
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sieme a diversi complici, autore di ruberie e
delitti lungo le strade del Varesotto. Una volta
catturato con l'intera sua banda, nel 1563, il
Perlascono fu oggetto di una contesa giurisdizionale fra Varese e Como. Il podestaÁ di Varese
voleva giustiziare la banda Perlascono al completo nella sua giurisdizione ``a fine ancora di
spaventare simili scelerati, che nel avvenire non
habbino ardire'' di tormentare il Varesotto e i
suoi abitanti. Il podestaÁ di Como invece voleva
il trasferimento del Perlascono nella cittaÁ natale
per giudicarlo dei reati lõÁ compiuti, anteriori a
quelli varesini. Il governatore dello Stato, chiamato a decidere sulla controversia, appoggioÁ la
posizione comasca. CosõÁ l'ex pubblico ufficiale
Perlascono non fu giudicato per i reati commessi nel Varesotto. Questi ultimi includevano:
l'aver rubato del formaggio a delle povere donne; il furto di 3 ducati a dei poveri ``strepazo-
spesso commesso da bande armate. A Milano,
nel 1585, ci fu l'esecuzione collettiva di un
gruppo di sei assassini di strada; a Varese nel
1592 cinque assassini di strada vennero giustiziati insieme e nel 1629 la stessa sorte toccoÁ ad
Angelo Bianchi e ai quattro `compagni' della
sua banda. Un quinto componente, catturato
in seguito, fu impiccato un mese dopo.
Gli aggressori e/o assassini di strada attivi nel
Varesotto agivano peroÁ anche in coppia (come i
due svizzeri giustiziati nel 1628) o da soli. EÁ
comunque seguendo le gesta compiute tra il
1562 e il 1563 da una banda di criminali di strada che possiamo provare a rispondere a due
quesiti rimasti fino ad ora accantonati: chi erano
gli aggressori di strada? Chi le loro vittime?
Il capobanda era un comasco, GioÁ Pietro
Perlascono, giaÁ luogotenente del commissario
di Como, poi disertore e fuggiasco quindi, inLOMBARDIA NORD-OVEST
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travolgere tutto, comprese donne, poveracci e
servi. Difficile immaginare sostanziali differenze in queste gesta criminali se a capobanda, al
posto di un ex funzionario pubblico come il
Perlascono, c'era un soldato disertore o un contadino esasperato e incanaglito dalla vita. Tra le
vittime ricorrenti degli aggressori e/o assassini
di strada spiccavano i mercanti.
Nel passaggio fra Cinque e Seicento, malgrado il netto declino della fiera dei cavalli di Varese e del traffico mercantile internazionale ad
essa legato, il mercato settimanale del lunedõÁ
continuava a esser meta di mercanti di grano,
vino e bovini che concludevano transazioni con
Svizzeri e abitanti delle pievi limitrofe al borgo.
Attivo era anche il comparto tessile: pellicciai,
vellutai, mercanti di capi serici e soprattutto di
`drappi lana' varesini erano impegnati a vendere i loro prodotti in tutto il circondario. Le
strade del Varesotto, in definitiva, erano trafficate anche in quei decenni: prodotti della terra,
capi di bestiame, manufatti tessili e denari vi
transitavano con regolaritaÁ, esposti agli assalti
degli assassini di strada. Come potevano difendersi i mercanti?
Nel 1582 Giorgio Porcara, mercante varesino
che conduceva `traffici' non meglio specificati in
Germania, in Piemonte, a Bergamo e intratteneva rapporti commerciali con l'Ospedale Maggiore di Milano, chiese tramite il podestaÁ di Varese di potersi muovere con una scorta armata a
protezione di merci e denari. Il podestaÁ appoggioÁ per iscritto la richiesta e la inoltroÁ a Milano,
testimonioÁ la correttezza e l'onestaÁ del Porcara,
il suo essere dedito solo agli affari, nonche le
minacce subite dal mercante sia da concorrenti
invidiosi del suo successo che da banditi. La
richiesta di autorizzazione non ottenne risposta.
Qualche tempo dopo peroÁ il Porcara spedõÁ una
nuova invocazione a Milano per ottenere licenza
di poter armare a sue spese una scorta. Non
ebbe soddisfazione neppure questa volta e ottenne invece solo una laconica risposta indiretta, affidata al retro della sua missiva: ``Non conviene per ora''. I mercanti, in genere, non potevano quindi fronteggiare i loro assalitori armi
chi''; quello di tre ``sciopi da Ruota'' provenienti
dalla Germania a un servitore di don Fabio
Visconti, cui erano destinati, con ferimento
alla testa del servitore; la rapina di 13 reali a
un mercante varesino; l'aver finto di avere una
patente sopra lo `sfroso' del sale effettuando
controlli e sequestri arbitrari.
Generi alimentari, armi e denaro costituivano il bottino della banda Perlascono i cui assalti, piuÁ che organizzati o mirati, sembrano guidati da una cieca e disperata violenza pronta a
TIPOLOGIA DEI REATI NELLE SENTENZE CAPITALI
Á DI VARESE (1628-1629)*
INFLITTE DAL PODESTA
Omicidio
8
Tentato omicidio
4
Furto e omicidio
3
Furto `con rottura'
1
Aggressione e/o assassinio di strada
7
Favoreggiamento `banditi'
2
`Sfroso' grano
10
Infanticidio
1
Diserzione
1
Totale
37
* Quasi tutte le condanne cui fa riferimento questa tabella furono
emesse in contumacia e tali rimasero. Tra i vari reati spicca quello
dello `sfroso', o contrabbando di grano, che si attesta al 27% sul
totale delle condanne a morte del biennio esaminato.
Fonte: ASMI, Archivio Panigarola, c. 165.
TIPOLOGIA DEI REATI DELLE SENTENZE CAPITALI
ESEGUITE IN VARESE (1571-1630)
Aggressione e/o assassinio di strada
16
Omicidio
4
Furto
6
Diserzione
1
Stregoneria
1
Non specificati
4
Totale
32
Fonte: Cronaca di Varese.
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Un rogo di streghe in un'illustrazione dell'opera Germania.
Duemila anni di vita tedesca storicamente descritti da Giovanni
Scherr, Alfredo Brignola e C. Editori, Milano, s.d.
[dopo il 1871] (Crb).
alla mano. La fuga e l'affidarsi alla sorte erano
possibilmente la loro difesa piuÁ efficace.
Come giaÁ segnalato attraverso le citazioni di
Liva e Bendiscioli, l'autoritaÁ giudiziaria del tempo non era interessata a indagare le cause sociali della criminalitaÁ, ne tantomeno a prevenirla o scoraggiarla con mezzi diversi dalla politica
dell'esemplaritaÁ della pena come deterrente e
monito al delinquere. Questa condotta informava anche i rapporti centro-periferia. Come
dimostra il caso Porcara, se la periferia appoggiava o proponeva soluzioni diverse dalla linea
ufficiale (contraria alla concessione dell'uso
delle armi ai privati) le sue istanze non venivano
recepite. L'amministrazione periferica della giustizia non aveva alcuna reale autonomia decisionale e la sua sostanziale inefficienza, determinata dalla cronica mancanza di uomini e di mezzi,
eÁ testimoniata dall'enorme numero di condanne
a morte in contumacia nei confronti di latitanti,
che tali restavano, in cui esauriva gran parte del
suo operato.
Per concludere, possiamo osservare che, fra
XVI e XVII secolo, la giustizia alla periferia
dello Stato di Milano quando funzionava, e Varese pare esserne un esempio significativo, riusciva a punire almeno parte di quei `reati atroci'
che piuÁ perturbavano l'ordine pubblico, tra cui
appunto spiccava l'assassinio di strada. Lo faceva con quell'esemplaritaÁ cieca e senza ritorno
di cui la pena di morte era paradigma.
NOTA SULLE FONTI
Fonti edite utilizzate
Fonti documentarie
Adamollo G.A. - Grossi L., Cronaca di Varese, a cura di A.
Mantegazza, Varese, 1931.
Tutti i fondi e i documenti citati sono conservati all'Archivio
di Stato di Milano:
Bendiscioli M., Vita sociale e culturale, in Storia di Milano,
Fondazione Treccani degli Alfieri, vol. X, Milano, 1957.
Comuni, c. 85.
Biffi S., Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato milanese e sui sodalizi che vi assistevano i prigionieri e i condannati a morte, Milano, 1884.
Amministrazione di religione, cc. 1688-9.
Culto p.a., cc. 1506 e 1538.
Religione, c. 582.
Notarile, ff. 17283, 17290, 17297, 17303, 17889, 1828890, 21749-51 e 24101.
Canosa R., La vita quotidiana a Milano in etaÁ spagnola,
Milano, 1996.
Panigarola Condanne, cc. 157, 159 e 165.
Liva G., Aspetti dell'applicazione della pena di morte a
Milano in epoca spagnola, in ``Archivio storico lombardo'', 1989.
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