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2015/3-L`infinita pazienza di ricominciare

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2015/3-L`infinita pazienza di ricominciare
Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XIX n° 3 / 2015
di ricominciare
L’infinita pazienza
1
SOMMARIO
3
Primapagina
Ricomincio da qui
6
Basta un alito di vento per navigare
Ripartire da un nuovo sogno
10 Il rischio di esporsi alla vita
La nostra umanità? È solo ai primi passi
14 Ritrovare il coraggio di cambiare il mondo
Sogno una chiesa aperta al mondo
20 La mia poesia a piedi nudi
La passeggiata di Arturo
24 La fatica della luce
La nuova veglia
28 La nuova vita del nostro “giornalino”
Agenda 2016
31 Annunci vari
trimestrale
Anno XIX - Numero 3 - Dicembre 2015
REDAZIONE
località Romena, 1 - 52015 Pratovecchio Stia (AR)
tel. 0575/582060 - [email protected]
Il giornalino è anche online su
www.romena.it
DIRETTORE RESPONSABILE:
Massimo Orlandi
REDAZIONE e GRAFICA:
Raffaele Quadri, Massimo Schiavo
HANNO COLLABORATO:
Luigi Verdi, Giuseppina Brunetti, Francesca Fiorentini,
Laura Pedri, Cristina Citterio e Maria Teresa Marra
Abignente
Filiale E.P.I. 52100 Arezzo
Aut. N. 14 del 8/10/1996
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In questi giorni ho riascoltato un intervento fatto a Romena tre anni fa dall’amico scrittore
Maurizio Maggiani. Prima dell’incontro, a pranzo, Maurizio mi aveva fatto una specie di terzo
grado sulle nostre attività e sul loro significato. Pensavo di essermi difeso con onore.
Invece durante l’incontro, pubblicamente, mi aveva restituito il senso di quello che gli avevo detto
sotto forma di un’altra domanda: ma voi di Romena, volete essere una pieve o una clinica? Lì per
lì mi era sembrata solo una provocazione. Era molto di più. Evidentemente gli avevo presentato
le nostre attività, corsi, gruppi, incontri, soprattutto in funzione di un miglioramento della qualità
di vita delle persone, di un tentativo di cura di alcune ferite interiori.
“Ma questo – mi voleva far capire Maurizio – è clinica: è in una clinica che si va per curarsi e
per star meglio. Voi invece siete una pieve. Una pieve è semplicemente un luogo che deve attrarre
anche solo perché esiste, perché è lì, perché è per tutti” (non a caso pieve viene da plebs, popolo).
Siamo pieve, ne sono convinto. Ma, aveva ragione Maurizio, ci siamo spesso presentati come
clinica: perché è più facile rappresentare un luogo secondo la sua capacità di risposta a bisogni
concreti, più facile valorizzarlo illustrando la gamma delle attività messe in campo o indicandone i risultati.
È il momento di potare, direbbe il nostro don Gigi. E i 25 anni della Fraternità sono l’occasione
giusta. Stiamo lavorando a un cammino che ci accompagnerà nel 2016 proprio per guardare la
nostra anima di pieve e per capire meglio come viverla.
Abbiamo scelto gli otto punti della nostra “via della resurrezione”: umiltà, fiducia, libertà,
leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore come tappe di un cammino profondo di incontro
con le nostre radici, e di costruzione di uno stile condiviso che le sappia armonizzare.
Come è accaduto anche in altri momenti ci libereremo da qualche attività che rischia di appiattirsi nell’abitudine, per camminare più liberi nel cammino di ricongiunzione con la nostra
anima di pieve.
La strada ce l’avete indicata voi, molti di voi, indicandoci cosa, dell’esperienza della Fraternità,
vi resta di più: “Speranza” ci avete detto, “questo è un luogo da cui si riparte portando con sé
un po’ di speranza”. Questa speranza non è figlia di una persona, di un incontro o di una attività:
nasce, credo, per il semplice contatto con un’atmosfera. Questo è pieve.
Questo risponderei, oggi, a quella domanda: a Romena vogliamo essere una lanterna accesa,
accesa per tutti. Vogliamo essere uno spazio dell’anima dove ciascuno possa stare, in qualunque
passaggio della sua vita. Per sentire che si può ancora accendere un fuoco nel cuore.
Massimo Orlandi
PRIMAPAGINA
“Ma voi di Romena, cosa volete?” Pietro Ingrao si presento così. Ero andato a trovarlo in albergo
alla vigilia dell’incontro organizzato con lui e Alex Zanotelli. Che cosa volete? Avevo arrancato,
e non per l’emozione. Erano state le mie risposte, troppo articolate, a non essere convincenti.
Che cosa vogliamo? Ingrao lo capì il giorno dopo. A parlargli fu il respiro semplice della pieve
e il calore della sua gente. In quella situazione l’anziano politico si sentì come tanti viandanti
prima e dopo di lui: libero. E a casa. Così mise a nudo senza sconti la sua vita, il suo cammino,
i suoi errori.
La scia di autenticità di quella giornata me la sento ancora addosso. È un ottimo modo per
ricordare Pietro. Fa parte dell’eredità, però, anche quella domanda che, da allora, ho sempre
tenuto aperta.
Ricomincio da qui
di Luigi Verdi
“Alla soglia dei
venticinque anni
di Romena, voglio
ricominciare da qui.
Da queste mie
mani nude che
murano pietre, che
si sporcano di calce
e polvere”.
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Sì, voglio fermarmi, e provare dopo questi anni meravigliosi a potare, come ci dicono i contadini, perché, se non
poti, il nuovo non nasce.
Ci diceva l ‘Abbé Pierre: “Vogliate ogni tanto tutto spegnere
perché rivivano le stelle e vi indichino la strada”.
Aveva ragione, bisogna, a volte, ripartire da zero.
Affrontare ad “orecchio nudo” gli altri e quello che hai
vissuto fino ad ora. Reimparare ad ascoltare.
Voglio ri-ascoltare queste mura di Romena e farmi raccontare il tempo che abbiamo perso, le falsità rimaste nascoste, gli spiriti liberi lasciati andar via senza accorgercene. Voglio spostare il baricentro oltre me stesso e vedere
dove sono davvero. Ogni presa di coscienza è infatti un
punto di partenza.
Rinnovarmi e rinnovarci, allora, e chiederci se ancora le
nostre scelte sono calate nella realtà, se sono capaci di
aprire nuove strade o ci fanno stagnare.
Spesso la fretta ci porta a non affrontare i problemi che
stanno dietro la crisi, e che rimossi velocemente sono
come veleni non smaltiti.
Fermarsi, per avere un tempo che veglia su ciò che non
si vede, per andare al di là del visibile, per inventare nuove strade, per progettare nuovi percorsi, per ricreare e
ricrearsi.
Fermarsi, per liberarci dai vincoli del già
visto, del già conosciuto, e ritrovare la freschezza dell’inizio, libero da ciò che credevo
di sapere, e da quello che credevo di avere.
Vorrei riavvicinarmi alle otto parole della
“via della resurrezione” con grande silenzio e togliendomi le scarpe. Vorrei “vivere”
quella via della resurrezione e di nuovo,
partorire me stesso, passare la cruna dell’ago per entrare in una nuova tappa della mia
vita e della vita della fraternità, imparare a
morire per risorgere in una nuova vita, silenziosamente senza drammatizzare nulla.
Tornare attento a ciò che stiamo vivendo,
agli incontri che facciamo, a come preghiamo, alla musica che ascoltiamo per trasformare il nostro fare in gesti sacri.
Spesso ci sono cose essenziali tanto vicine
da diventare quasi invisibili. Non sempre ciò
che cerchiamo è lontano, spesso ci è accanto, “abita con noi”, è parte del nostro quotidiano.
Tornare ad “esserci” è più importante di
tutte le cose che possiamo fare, la presenza
è la cosa più creativa che esista.
È difficile recuperare la libertà dentro, è difficile disintossicarci dentro, è difficile espellere i faraoni che ci comandano dentro, perché la nostra è una generazione iper-psichi-
ca e iper-emotiva. Non siamo ancora riusciti
a elaborare un pensiero che metta insieme
l’ideale e l’esistenza di tutti i giorni, l’amore
e la solidarietà concreta.
Spesso i nostri sentimenti più veri, vengono usurati dall’abitudine e rinascono
quando appaiono nuove visioni, nuovi
ideali. Io credo che tutte le nostre tristezze
siano momenti di tensione, che noi sentiamo come paralisi, perché non udiamo più
vivere i nostri sentimenti repressi.
Ho voglia di ripartire dalla vita, per ritrovare il coraggio di percorrere strade che nessuno ha percorso, di pensare idee che nessuno
ha ancora pensato.
La libertà contiene la radice “Hfsh” che vuol
dire: cercare. Ecco, voglio continuare a cercare, a far rivivere il soffio della vita che è in
me, avanzare nello spazio ove la vita continua.
Ci vuole tempo, e non bastano venticinque
anni, affinché la nostra vita si impregni di
bellezza. Bisogna, rimanere a lungo incompiuti perché qualcosa di bello e di duraturo
cresca in noi.
Vorrei che chi viene a Romena non sentisse
la nostalgia di tornare a Romena, ma la nostalgia e la voglia di essere a casa dappertutto.
Iniziare una fraternità
è come costruire ancora granai pubblici,
ammassare riserve contro un inverno dello spirito
che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire
Marguerite Yourcenar
5
Basta un alito di vento
per navigare
di Maria Teresa Abignente
Un episodio tragico
che ci coinvolge anche
perchè riguarda una
amica di Romena.
E che ci chiama a
interrogarci su come
rigenerarci, quando
solo la disperazione
parla. E su dove trovare
quel frammento
di fiducia che può
bastare. Per ripartire.
6
Possiamo morire di disperazione e di
motivi ce ne sono tanti, dal disumano
che ogni giorno intorno a noi avanza,
fino al sentirsi deriva, naufragio di speranze e tentativi. Si può morire di disperazione. Quando tutto intorno è arso e
vuoto, quando la speranza rimbalza contro strade strette, chiuse, sbarrate. Quando Dio delude.
Si muore di disperazione. È successo a
Graziella, alla mamma che ha ripetuto il
gesto della figlia scegliendo di lasciarsi
spappolare da un treno. Si muore davvero, non come viene ripetuto nelle canzoni, in cui sembra che la morte sia un
ritornello, ma si muore proprio davvero.
Fine.
Succede anche, per la disperazione,
che il cuore d’improvviso impazzisca
e come animale stanco e ferito si riposi, per sempre. Lo chiamavano, anni fa
i nostri vecchi, crepacuore. Quando un
cuore cioè, assediato dal dolore, esplode, troppo gonfio di lacrime e di sangue
cattivo. Sangue che non ossigena ma
avvelena, che non nutre ma intossica. E
troppe, troppe lacrime. Un cielo che si fa
opaco, senza squarci, pesante, uggioso.
Un mantello ingombrante e che schiaccia, che non lascia l’aria di un respiro. Un
fiato di libertà. E morire sembra la scelta
più giusta per riappropriarsi di un poco
di bellezza, di un poco di pace. Quel tanto che ci spetta, quel poco che ci è stato
promesso venendo al mondo e che abbiamo sentito possibile da bambini.
Dio ci delude e forse Dio è deluso di noi.
Delude quando le necessità impellenti vengono ignorate, quando il nostro
grido si schianta contro un abisso di silenzio, quando nessuna mano ti afferra
per non lasciarti annegare. Forse non c’è,
forse è distratto, forse ha altro a cui pensare o forse quel che ci sta a cuore, che
crepa il nostro cuore, non gli interessa.
Lui non lo sa che il cuore può scoppiare?
Possibile che ignori questa eventualità?
Allora forse Dio non c’è e basta. Favole,
consolazioni da bambini: dal nulla al nulla, solo lo spazio di qualche giorno questa nostra vita.
Ma forse Dio è deluso da noi, incapaci di
una piccola fiducia, quel tanto che basta
per poter ancora navigare, a occhi chiusi,
sognando insieme. Lo diceva Fossati in
una sua canzone “basta un filo di vento per poter navigare”: appena un filo e
le vele si gonfiano, e ti portano al largo,
non importa dove, ma lontano. Una piccola fiducia che allenta gli ormeggi, che
disincaglia dagli scogli. E quella Dio non
ce la può dare, tocca a noi. Tocca a noi
fare il salto nel buio, non quello della
morte, ma della speranza bambina che
fa intravedere tutte le cose, ogni cosa,
possibile e meravigliosa.
Appena un sorso, una boccata, un grammo di fiducia in un Dio che finge di dormire, là, a poppa della tua barca, un Dio
capace di addomesticare venti e tempeste, e che chiede solo di non aver paura.
Fiducia, appunto. La prima delle cose per
noi meno importanti e invece, in assoluto, la più importante.
“Non ti importa che moriamo?”: glielo
chiedono i discepoli, glielo chiediamo
noi. Lui a poppa. Noi nella tempesta.
Insieme sulla barca. Lui a sussurrarci di
non tremare e a calmare i nostri brividi.
Forse. A stringerci la mano, ad asciugare
le lacrime, dicendoci piano all’orecchio:
“sono qua, non aver paura!”
Sentire quella certezza di bambino,
quando queste stesse parole ce le diceva
la mamma o il babbo, la stessa sicurezza,
la stessa fiducia. Chiudere gli occhi finalmente e respirare.
Nell’infinita pazienza di ricominciare.
7
Ripartire
da un nuovo sogno
di Ermes Ronchi
“Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare”.
È da questa espressione di Ermes Ronchi che
nasce questo numero. Non solo: le parole con
cui Ermes, durante un incontro a Romena,
ha dato corpo a questa frase, sono bussola
preziosa per questa fase di cambiamento.
Ermes ci invita ad accogliere l’invito di ogni
giorno. L’invito a non arrenderci. A ripartire.
Perché questo invito profuma di eternità.
Quando tutto sembra finito e sembra che
non ci sia più niente da sperare, lì, al cuore
del dolore, succede qualcosa. I giorni del rischio sono i giorni dell’apertura, perché il ricominciare ha in sé una sola direzione, in fondo una sola promessa: crescere a più libertà,
a più consapevolezza, a più amore.
La Parola di Dio, da un capo all’altro della Bibbia, conforta e incalza, ripetendo infinite volte: Non temere! Non avere paura! Sulla bocca
di Dio, di Gesù, di profeti, di donne, di re, di
mendicanti per centinaia di volte, per 365
volte, una per ogni giorno dell’anno, ci raggiunge, quasi fosse il buongiorno di Dio, ad
ogni nostro risveglio, ad ogni inizio di giornata, come nostro pane quotidiano, “il non
temere!” di Dio.
Perché avete paura? Sono mille i motivi, e
validi. Abbiamo la paura del bambino, del
fragile, del malato, del povero, del morente.
Mille motivi.
Ma nel libro di Geremia c’è un’immagine bellissima di Dio, quella del vasaio che sbaglia
il suo vaso e che ogni volta ricomincia daccapo, con la stessa argilla: noi siamo le anfore rotte di Dio, quelle che secondo la nostra
logica perfezionista andrebbero buttate, ma
che Dio riutilizza come preziosi canali, magari
per far nascere fiori lungo la strada.
È bello sapere che ogni giorno Dio accarezza la nostra paura, che ogni giorno ci rimette
in piedi instillandoci una goccia di coraggio:
Alzati e va’, lo ripete anche a noi timorosi e
spesso codardi, ma soprattutto sfiduciati. Ma
per ascoltare questo invito che Dio ci sussurra ogni mattino, per viverlo ogni giorno, con
l’infinita pazienza di ricominciare, dobbiamo
vedere, fermarci, toccare.
Nel vangelo di Giovanni è detto che la vita
era luce degli uomini: vita e luce coincidono e noi abbiamo occhi di lucerna, che non
solo vedono, ma illuminano. Sono gli occhi di
chi vede le ferite e si lascia ferire dalle ferite
dell’altro, come quelli del buon samaritano.
Sono gli occhi di Agar scacciata nel deserto:
sta per morire di sete con il suo bambino, si
allontana dietro un cespuglio per non assistere allo strazio dell’agonia del bimbo ed
ecco, Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua. Dio non crea qualcosa, apre gli
occhi: l’acqua era già lì, ma lei non riusciva a
vederla.
Dio apre gli occhi anche a noi e così vediamo
*L’intervento è un estratto dall’incontro “L’infinita pazienza di ricominciare” tenuto a Romena. Intervento integrale su www.romena.it
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ciò che già è qui, strade di cui non ci eravamo
accorti, bellezza che c’era sfuggita, vediamo
un fratello in chi ci pareva straniero, la poesia
nel quotidiano. Sono queste le strategie di
Dio: piccole cose e occhi profondi.
Noi domandiamo segni straordinari a un Dio
illusorio e non apriamo gli occhi sui segni poveri del Dio reale. Il Dio delle piccole cose, il
Dio degli occhi profondi. Dobbiamo imparare ad aprire gli occhi, a tenerli bene aperti.
Per fare luce.
E poi ‘fermarci’: viviamo a velocità folle, siamo connessi con il mondo, ma disconnessi
con noi stessi. Il corpo corre e l’anima rimane
indietro, boccheggiante. Fermarci ci aiuta a
rimetterci in sesto con la vita, ci aiuta a vederla questa vita. Noi che cerchiamo disperatamente il senso della nostra vita ci accorgeremo così che la vita trabocca di sensi, perché
è essa stessa il senso. Fermarci ci dà il tempo
per guardare, per sentire, per accorgerci degli innumerevoli gioielli di cui è costellato il
nostro cammino e che noi correndo calpestiamo.
La velocità, di cui siamo impregnati, produce
cecità e la cecità a sua volta porta alla durezza del cuore, porta allo scoraggiamento, allo
sfinimento. Ma ancora, per ritrovare l’anima
che non percepiamo più, dobbiamo toccare: ogni volta che Gesù si commuove tocca,
come a Nain tocca la bara del figlio della vedova, come tocca la bocca del muto. Toccare
significa rimettersi in contatto con la vita, con
la sua bellezza, con l’infinito che è dentro.
Ogni giorno possiamo abbracciare l’infinito.
Se ognuno di noi può pensarsi come una
piccola isola, deve però aver ben presente
che là dove finisce la terra comincia l’oceano;
ognuno di noi confina con Dio, ogni giorno
l’infinito ci abbraccia.
Secondo alcuni studi scientifici le molecole
di cui siamo fatti vengono addirittura dalle
stelle: siamo un impasto di polvere cosmica
e fiato divino. Noi lo dimentichiamo, ma Dio
lo sa, per questo prende le nostre speranze e
le nostre attese e le porta avanti.
Ecco ciò che Dio fa: non ci lascia gettare la
spugna, non accetta che ci arrendiamo, con
Dio c’è sempre un poi. Alla peccatrice Gesù
dice “d’ora in poi”: noi siamo quel “d’ora in
poi”, creature non ancora finite, non ancora
cresciute e proprio per questo possiamo dirci
e ripeterci che l’uomo non è un essere mortale, ma un essere natale. Ogni giorno nasciamo un poco di più.
“Basta che un uomo sogni
perché un’intera razza
profumi di farfalle.
Basta che solo uno sussurri
di aver visto l’arcobaleno di notte
perché perfino il fango
abbia gli occhi rilucenti”.
(Manuel Scorza)
9
Il rischio
di esporsi alla vita
di Gianni Marmorini
Dove sei? È la prima domanda che Dio pone
all’uomo nella Bibbia. Ma cosa contiene
davvero quella domanda? Secondo il
nostro don Gianni è la richiesta, da parte
di Dio, di una assunzione di responsabilità
di ogni uomo per le sue scelte. Ma anche
un invito a non temere i propri limiti. Anzi
a partire proprio da questi.
Uomo dove sei? Per entrare in questa domanda, fondamentale è cercare di capire
cosa davvero voleva comunicare Dio.
La storia la conosciamo bene: Dio crea
Adamo, lo mette nel giardino e subito gli
dice: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del
giardino, ma dell’albero della conoscenza del
bene e del male tu non devi mangiare perché
nel giorno in cui tu ne mangerai tu dovrai morire”.
Bisogna capire bene questa premessa: nel
giardino hanno tutto, ma non possono
mangiare di un solo albero, hanno cioè un
limite.
La Genesi ci racconta dell’arrivo del serpente e della sua capacità, con un abile gioco
di parole, di ingannare Adamo ed Eva spingendoli a mangiare il frutto proibito.
Dopo questo gesto, Adamo ed Eva non
muoiono, ma si nascondono quando sentono arrivare Dio.
Ed ecco che arriva Dio con la sua prima domanda rivolta all’uomo: “Dove sei?” cui Adamo risponde così: “Ho udito la tua voce nel
giardino, ho avuto paura perché sono nudo e
mi sono nascosto”.
Adamo ed Eva si nascondono non perché
pensano di aver fatto arrabbiare Dio con la
loro disobbedienza, ma perché hanno vergogna della loro nudità.
La percezione che noi abbiamo di questo
episodio è spesso inappropriata, perché nel
racconto non viene mai detto che l’uomo
è pentito di aver mangiato il frutto proibito, né viene detto mai che Dio è arrabbiato
per la mancanza di obbedienza. E allora che
senso ha fare questa domanda?
Con questa domanda Dio vuole coinvolgerci, vuole che prendiamo coscienza. Chiedendo “Dove sei?” è come se Dio chiedesse:
“Ti stai rendendo conto di dove ti fa vivere
quello che hai fatto? Hai capito cosa determinano nella tua vita le tue scelte, le tue
azioni, il tuo modo di fare?” È una domanda importante questa, è diversa, perché se
fosse stata una domanda tipo “che cosa hai
fatto”, allora avrebbe messo l’uomo di fronte al suo senso di colpa, al suo errore.
La domanda di Dio vuol invece portare l’uomo non tanto a pensare al suo sbaglio, ma
a rendersi conto di cosa diventa la sua vita
quando pretende di viverla senza accettare
i suoi limiti.
Cos’è che allora che aveva attratto Adamo
ed Eva delle parole del serpente? Il fatto di
toglier loro ogni limite, di renderli uguali a
Dio. Il serpente li invita a dire “no, non accettate questo limite: siate totali, siate perfetti”. Eva non mangia per disobbedire, ma
per essere perfetta come Dio.
*L’intervento è un estratto dall’incontro che don Gianni ha tenuto a Romena alla vigilia della tre giorni di incontri Uomo dove sei?.
10
Ma cosa succede dopo? Succede che quando si accorgono di poter fare tutto, di poter usare e mangiare tutto quello che è a
disposizione non diventano come Dio, anzi
vedono messa ancor più in evidenza la loro
fragilità.
Ma poi cosa vuol dire questa vergogna della
propria nudità?
A questo punto mi viene sempre in mente
il famoso episodio biblico di Davide e Golia. Saul sta combattendo contro i Filistei,
ma c’è il campione dei Filistei, Golia, che è
un gigante che non teme rivali, e quando si
decide di far combattere i campioni dei due
eserciti, non c’è nessun soldato dell’esercito
di Saul che voglia accettare questa sfida.
Allora si presenta questo ragazzino, David,
e dice: ” Lo affronto io”.
Saul per proteggerlo gli fa indossare la sua
armatura, ed è una scena quasi comica,
perché David la mette, ma gli sta grande, è
troppo pesante per lui. Certamente lo renderebbe sicuro dai colpi che potrebbe ricevere, ma David chiede invece che gli venga
tolta e, indifeso, prende la sua fionda e quei
cinque sassolini e si avvia. E nonostante la
sua apparente inferiorità, riesce a sconfiggere Golia.
Ecco, quando penso alla nudità penso sempre a questo episodio, perché nudo, nella
sua accezione più biblica, significa “senza
protezione”.
In fondo, Adamo e Eva cosa proteggevano?
La loro nudità era la loro fragilità, quella del
non essere riusciti ad accettare questo limite su cui Dio li aveva messi in guardia. Noi
uomini, in un primo momento, giochiamo
sempre a fare i migliori di quel che in realtà
siamo e poi, quando ormai non possiamo
più nasconderle, quando ormai sono evidenti, giochiamo a proteggere le nostre
nudità.
Pensateci: soprattutto quando si va in un
posto nuovo noi ci proteggiamo con una
bella corazza difensiva. È un’armatura elegante, razionale, ma a volte è un armatura
fatta di prepotenza, di arroganza, o all’apposto di timidezza. Stare con le nostre nudità è sempre difficile, perché vuol dire esporsi al rischio di essere colpiti.
Quando Dio ci chiede “dove sei?” è come
se riportasse la nostra condizione a quello
stato. Accetta di essere nudo, ci dice.
Nella vita i problemi veri derivano solo da
questo, dal fatto che non ci piace essere imperfetti, la consideriamo una condizione di
svantaggio e non, come forse viene presentata nella bibbia, una condizione di inizio.
Così, quando Dio chiede ad Adamo ed Eva
“dove sei?” è come se li volesse rimettere di
nuovo davanti all’albero dicendo loro: accetta di essere limitato, non averne paura.
Questo è il problema che la Bibbia ci presenta di continuo: il rapporto con la nostra
fragilità e la nostra imperfezione. Ci vogliamo mettere corazze come quella di Saul,
ma queste corazze quando anche riuscissimo a metterle addosso non ci fanno stare
neanche in piedi. Solo liberi da queste corazze si può affrontare il nemico, accettare
il rischio. Esporsi alla vita.
La nostra umanità?
È solo ai primi passi
di Antonietta Potente*
Ciascuno di noi ha un grande compito:
contribuire a far nascere l’umanità.
Abbiamo costruito un modello di uomo
talmente convinto della sua centralità
da essersi separato da tutto: dagli altri
uomini e dalla natura. È tempo di riportare
l’uomo al suo compito: che non è quello di
conquistare spazio, ma di farlo, non quello
di dominare gli altri, ma di affidarsi a loro.
Nella storia abbiamo fatto questo grande
errore di pensare che l’uomo fosse nato
già adulto e definito: così prima uomo è
diventato un genere, poi uomo è diventato una razza particolare, quindi è diventato
un modello per tutti e ci siamo dimenticati
le sfumature, per esempio l’essere donna o
l’essere bambino.
Alla fine l’uomo ha cominciato a dire “io
sono un uomo perché penso” e si è separato da tutti: animali, piante, terra, universo.
Così abbiamo perso dei pezzi lungo la storia, abbiamo creduto di essere già compiuti,
invece noi come esseri umani stiamo ancora
nascendo e allora tutte le opportunità d’incontro sono opportunità di crescere, di diventare diversi. Lo è anche il faccia a faccia
con la terra, nella sua fatica, la terra risorsa
che vorrebbe essere lavorata, collaborare
con la nostra storia, per dare da bere e da
mangiare a tutta l’umanità.
Allora la domanda “Uomo dove sei?” la ritraduco come “Dove sei essere in crescita,
dove sei essere umano-essere terra-essere
acqua-essere pianta? Dove sei tu che devi
ancora imparare a vivere? E chi sei tu mentre impari a vivere?” Oggi mi sembra che
qualcuno abbia la pretesa di dare delle risposte da solo, di poter dire “io so cosa fare
di fronte a queste cose” e invece oggi da soli
si diventa solo uomo in senso sbagliato, si
diventa chi continua a fare del male a qualcuno, chi continua a prendere troppo posto
nella storia, cultura che continua a dire alle
altre culture: devi essere in questo modo.
Pensate ad esempio ai danni che stiamo
facendo nel mondo islamico pretendendo
che impari dalle nostre democrazie. E invece noi oggi siamo ancora alle porte di qualcosa che dobbiamo inventare: io mi sveglio
al mattino e devo andare, incontrare delle
persone diverse, perché questa storia va
fatta e rifatta e così ci sospingiamo fino alle
ali dell’aurora. Dobbiamo ascoltare perché
ci sono tanti altri animali, piante che devono
nascere, continuare a nascere intorno a noi
e a crescere.
Perché io non sono uomo, sono un po’
uomo, un po’ donna, un po’ bambino, un
po’ giovane e anche un po’ albero, un po’
acqua, un po’ terra e lo devo essere, lo dobbiamo essere: persone così capaci di stare
gli uni con gli altri e così miti da non prendere troppo posto. Io devo prendere il mio
posto, il posto della mia identità del mio
nome e nulla di più.
Dobbiamo recuperare i pezzi che abbiamo perso per strada, pezzi di noi stessi, di
*L’intervento è un estratto dall’incontro tenuto a Romena nell’ambito dell’incontro “Uomo dove sei?”. Intervento integrale su www.romena.it
12
queste nostre radici primordiali, ma anche
pezzi del mistero,del divino, di quello che
noi eravamo prima, che non sappiamo, che
dovremmo diventare. Questi pezzi vanno
raccolti ora: bisogna farlo e non aspettate
che lo faccia qualcuno: fatelo voi, non abbiate paura!
Non perdete l’identità se dite che non siete
uomini, ma che siete per ora un po’ bambini e un po’ ragazzi e sperate di diventare
donna, uomo, cipresso, faggio, terra rossa,
bianca, minerale, profumo. Profumo, diventeremo profumo alla fine, perché il profumo
raccoglie l’aroma di tutto e non è pesante,
non occupa spazio.
Ma ora come cercare i pezzi? Con le cose
quotidiane che noi dobbiamo inventare,
che dobbiamo esigere dai nostri governi:
ci diano degli spazi per cercare i pezzi per
creare del lavoro, per creare una cultura
dove tutti impariamo ad essere donna,
uomo, bambino.
L’umanità si sta rimescolando in questo
momento e allora non è solo il tempo di far
del bene, è il tempo di diventare buoni, di
diventare un po’ tutto e un po’ tutti, di metterci nei panni degli altri. Ci sono tanti posti
vuoti, inventiamoci dei lavori e incominciamo subito a condividere dei lavori nei luoghi, e non accumuliamo tristezza: trattiamo
quelli che arrivano da uomo, donna, bambino quali sono, non da masse in emergenza
perché qui non è successo un terremoto, qui
è in atto un fenomeno che esplode dall’umano stanco, vecchio, da questo uomo che
ha saputo solo creare guerre, divisioni, poteri e una società gerarchica, a cominciare
dalle religioni.
Non abbiate paura, ci stiamo facendo. E Dio
non è così piccolo, stretto, così meschino nei
confronti della vita: c’è spazio. State tranquilli, non credete a chi dice che non c’è spazio:
c’è spazio, ma è mal abitato, noi abbiamo
abitato male lo spazio. Non abbiate paura,
respirate nel profondo alla mattina e se incontrate qualcuno provate a mettervi d’accordo su qualcosa: fate gruppi, fate gruppi
nei vostri condomini, nei vostri paesi, nelle
vostre città, pensate, pensate, fate gruppi di
contemplazione per diventare altri.
Fate gruppi per vivere, per vivere davvero
e vivere significa anche contraddizioni: io
ho vissuto in una terra e in una cultura differente, a volte ci capivamo altre volte non
ci capivamo ma non ero costretta sempre a
sorridere o a dire “Voglio bene a tutti”. No,
devo crescere negli incontri e anche nelle
contraddizioni, perché io da sola non le ho
delle risposte, ho bisogno degli altri, ho bisogno di voi, di tanta gente che cerca.
13
Ritrovare il corag gio
di cambiare il mondo
di Luigi Ciotti*
Sconfiggere egoismo e
indifferenza e ripartire dagli
altri, dal valore delle relazioni,
della prossimità. È l’appello
che ci ha lanciato don Ciotti al
nostro incontro di settembre.
Un invito a ricordare che la
nostra identità non si costruisce
sull’io, ma partendo da chi è
ferito, umiliato, abbandonato.
“Uomo, dove sei?” è la domanda che Dio, nella Genesi, rivolge ad Adamo e Eva, dopo che
hanno mangiato dall’albero della conoscenza.
“Dove sei?” Dobbiamo però per me rendere
ancora più graffiante questa domanda, che
Dio rivolge ancora anche a noi. Non solo dove
sei, ma chi sei? La domanda cruciale oggi è
quella sulla nostra identità.
La verità dura da accettare è che per molti
oggi non sappiamo più chi siamo. Non sappiamo più chi siamo, perché siamo usciti dallo
spazio della relazione, dal reciproco riconoscimento che fonda la nostra identità.
Riconoscere gli altri vuol dire riconoscere se
stessi, accogliere gli altri vuol dire accogliere
se stessi, mancare l’appuntamento con l’altro
vuol dire mancare l’appuntamento con la vita.
L’unità di misura dei rapporti umani è la relazione e la prima dimensione della giustizia,
guarda caso, è la prossimità.
Chi siamo, ce lo dicono gli altri. È nel rapporto
con gli altri che emerge la nostra natura. La
risposta alla domanda sulla nostra identità, al
nostro spesso vagare oggi disorientati, anche
alla perdita di senso, che avvertiamo a volte in
fondo ai nostri cuori, ce la dà la prossimità, ce
la dà il rapporto umano, ce la dà in particolare
il rapporto con le persone più fragili, i poveri, i
respinti, gli emarginati, nessuno escluso.
Allora i migranti, i profughi interpellano
le nostre coscienze. Io mi sono vergognato
e mi ribello: che l’Europa risponda, il mondo
risponda, solo per il piccolo Aylan di 3 anni, il
bimbo siriano trovato morto su quella spiaggia in Turchia. Ma perché dico questo? Perché
quella fotografia ha permesso a qualche politico di alcuni Paesi di dire “be, allora apriamo
un pochettino i confini”. E le altre fotografie,
gli altri migliaia di morti non li hanno visti?
Penso a quei sommozzatori della guardia costiera, che hanno recuperato 300 corpi all’isola
dei Conigli. Con le lacrime agli occhi mi dicevano “Sai Luigi qual’è la ferita che ci porteremo
sempre dentro al nostro cuore: per 20 giorni
siamo scesi per pochi minuti per poi risalire, a
50 metri di profondità. La più grande ferita è
stato dover separare le mamme dai loro bambini che, mentre quel barcone affondava, se li
sono stretti forti forti forti e facevamo fatica a
dividerli…”
Allora c’è una domanda che io faccio alla mia
coscienza e che condivido con voi. Ma io, in
*L’intervento è un estratto dall’incontro tenuto a Romena nell’ambito dell’incontro “Uomo dove sei?”. Intervento integrale su www.romena.it
14
quelle condizioni, come vorrei essere trattato? Nessuno può essere condannato a vita
dal suo luogo di nascita. Quelle morti non si
aspettano le nostre lacrime, non si aspettano la nostra indignazione, quelle morti
aspettano da noi il coraggio di costruire un
mondo davvero umano dove riconoscerci
diversi come persone e uguali come cittadini.
Tonino Bello diceva: “Delle parole dette mi
chiederà conto la storia, ma del silenzio con
cui ho mancato nel difendere i deboli dovrò
render conto a Dio”. C’è troppa indifferenza,
c’è troppa superficialità, e allora noi siamo
chiamati a metterci in gioco per accorciare
queste distanze, per essere anche noi dei moltiplicatori di conoscenze e sensibilità, per travolgere positivamente tanta gente, affinché si
possa mettere in gioco.
A Torino è stata aperta la sindone quest’anno. È un simbolo, un segno e questi segni vivono di vita propria. Sono schegge di infinito,
capaci di farci intravedere l’infinito. Allora ben
vengano gli studi e gli accertamenti scientifici, ma sapere chi è davvero l’uomo del lino
non è decisivo. Quello che importa è guardare
attraverso quel lenzuolo. Chiunque sia, è uno
che ha pagato con la vita, che è stato umiliato,
crocifisso. Lasciatemi dire che anche in molte
della vostre realtà avete la sindone. Perché nella comunità dove quelle lenzuola avvolgono
persone ferite, umiliate, abbandonate, quel
lenzuolo è la sindone. È veramente la sindone.
Concludo con le parole di papa Francesco,
quando dice: “Non si può più affermare che la
religione deve limitarsi all’ambito privato e che
esiste solo per preparare le anime per il cielo.
Una fede autentica implica un profondo desiderio di cambiare il mondo.”
E allora voi capite che noi dobbiamo impegnarci per una chiesa capace di guardare verso il cielo senza distrarsi dalle responsabilità
verso la terra.
Una fede autentica implica
un profondo desiderio
di cambiare il mondo.
papa Francesco
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16
Perchè il mistero è troppo accanto
e non lo vedo,
per questo e altro ancora
io ti prego tremiamo insieme.
Chandra Candiani
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Sogno una chiesa
aperta al mondo
di Giuseppina Brunetti
È uno dei collaboratori più
stretti di Papa Francesco. E
ormai è anche un amico della
nostra fraternità. Il cardinale
Kasper è tornato a trovarci, per
il nostro incontro di settembre,
regalandoci i suoi pensieri larghi.
E l’immagine di una chiesa
misericordiosa, con le braccia
aperte sull’umanità.
Non ha ori addosso il cardinale ottantenne,
solo occhi curiosi e limpidi di ragazzo e il
suo sorriso largo, allegro, aperto.
Sul palco sta ancora parlando qualcuno
mentre si siede senza disturbare. E ascolta la
potenza di voce di quel prete che ha per parrocchia la strada: don Luigi Ciotti ha un fuoco nelle mani, nel volto che trasmette a tutti.
Alla fine si abbracciano forte sul palco, prima
che Kasper si sieda per concludere il convegno “Uomo dove sei?”. «Occorre avere occhi e
cuore aperti, guardare il presente, scorgerne
le luci e le ombre, guardare il mondo dal sud
del mondo. Si vive in un chiaroscuro, ma questo non è per forza un male, non c’è solo lo
scuro, c’è anche tanta luce».
Il cardinale accompagnerà tutte le sue frasi con racconti, esperienze private raccolte
come fiori dalla sua ricca vita. “Quando ero
giovane, in Germania, ero alpinista. Conosco i
sentieri d’altura. Difficili, ardui. Vedi la montagna, grande, immensa. A tratti ti sembra insuperabile. Ma sul ciglio, in basso scorgi dei piccoli
fiori, piccoli e limpidi. Le stelle alpine, ma anche
altri, più piccoli. Anche qui fra voi ci sono delle
stelle alpine, dei fiori d’altura. Non c’è mai solo la
difficoltà, il muro aspro di una montagna insuperabile: ci sono piccoli fiori, sui sentieri d’altura’.
18
Mentre lo ascolto mi torna in mente che anche quando si è in alto mare si dice che si fa
navigazione d’altura. Come se l’alto e il profondo ammettessero la stessa misura, come
se la ricerca e il pericolo della navigazione a
mare aperto indirizzasse poi lo sguardo alle
stesse sponde, alla bellezza di fiori piccoli sul
ciglio della strada che spingono oltre, incoraggiano, sostengono a vedere il germoglio
piuttosto che la pietra, le braccia di un porto
all’orizzonte piuttosto che solo pareti d’acqua
invalicabili.
Guarda dritto il cardinale, ma con un incanto che salva la bellezza del mondo. Si passa
al valore dell’enciclica Laudato si’, della chiesa
che sogna il papa. «Siamo fatti col fango della
terra, tutti; questo è il segno della familiarità
fra noi e con l’universo. Siamo fili d’erba e stelle, siamo fratelli del sole. Occorre riscoprire la
meraviglia di questo, la bellezza del dono,
della custodia del creato e di noi stessi. Come
in una ruota dovremmo provare ciascuno ad
essere raggio. E dovremmo anche riscoprire il
valore della gioia, ricominciare a far festa, baciare la vita. Gesù ha cominciato la sua intera
vita pubblica con una festa, col vino allegro
di Cana. L’enciclica Laudato si’ comincia con la
lode del mondo e si chiude con l’esortazione
a camminare cantando. C’è stato un tempo
della mistica dagli occhi chiusi, che poneva
una distanza fra noi e il mondo; forse è arrivato il tempo di una spiritualità dagli occhi
aperti».
Gli applausi non si contano, sono liberatori,
tutti desiderano sottolineare un consenso,
il desiderio della gioia. Da qui il passo alla
misericordia è breve, all’anno giubilare che
comincia l’8 dicembre. Il cardinale Kasper ha
dedicato a questo un libro intero: “La sfida
della misericordia”. Sì, la misericordia è una
sfida dice, non viene naturale, è una qualità
che appartiene a Dio. «Nella sua misericordia
Dio apre il suo cuore e ci lascia guardare nel suo
cuore.». L’affermazione: «Dio è misericordia» significa che Dio ha un cuore per i miseri. Egli
non è un Dio, per così dire, sopra le nuvole,
disinteressato al destino degli uomini, ma
piuttosto si lascia commuovere e toccare dalla
miseria dell’uomo. Egli è un Dio compassionevole, un Dio ‘simpatico’ (nel senso originale di
questa parola sym-pathein, ‘sentire insieme’).
Il cardinale prosegue: «Io non esiste senza
un tu, senza un noi. Dovremmo ricordarcelo.
La chiesa
dev’essere
una famiglia.
C’è tanto freddo nelle
nostre chiese a volte…
Quanta solitudine di vecchi, quanta solitudine
di bambini lasciati soli per ore c’è nel nostro
mondo. In questo tempo di egocentrismo, di
narcisismo dovremmo ricordare che non esiste il proprio bene senza il bene comune. La
chiesa dev’essere una famiglia. C’è tanto freddo nelle nostre chiese a volte. Non sarà semplice, cambierà la forma della nostra vita, ma
c’è anche una ricchezza in tutto ciò che migra,
in tutto ciò che è differente. La misericordia
vede come il nostro Dio, che ha un cuore che
vede, che sente. E noi tutti, non solo il papa,
dobbiamo essere dei “pontifices”, dobbiamo
costruire ponti».
È così, nel segno della gioia, del cammino
d’altura e della misericordia che si chiude
questo ultimo incontro a Romena, col cardinale dagli occhi limpidi che viene dalla nuova
Roma di papa Francesco. Forse non è un caso
se anche qui si chiama un Dio che cammina
per le strade del mondo, che vede e sente
l’infelicità, il grido degli uomini. Che camminando va come noi per mare alto e montagne
scoscese e ci insegna ad amare, ma ci semina
intanto la strada di fiori e di stelle.
Walter Kasper
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La mia poesia a piedi nudi
di Maria Teresa Abignente
In un mattino di
luglio ci siamo tutti
innamorati di lei.
Lei con quella vocina delicata in quel
corpo minuto. Lei non solo poetessa,
ma lei stessa poesia.
Ritratto di cuore di Chandra Livia
Candiani, e di come lei e Romena si
sono incontrati. Con la convinzione
che fosse solo la prima alba di un
lungo cammino.
20
Forse immaginiamo i poeti come dei giganti
che con la loro voce possente scavano la vita
dentro le parole e che con le loro lunghe
braccia afferrano il cielo e ce lo portano un
po’ più vicino.
Forse ce li figuriamo imponenti e muscolosi,
perché ne devono avere di forza per sollevare
i macigni del cuore e farli giungere a diventar
fiato. Magari con gambe lunghissime,
per sconfinare i recinti della razionalità e
passeggiare decisi o tremanti sui prati e sui
mari della vita.
Chandra Candiani è piccola invece e ha voce
di bambina: a piedi nudi ci parla di poesia,
scandisce le sue poesie con quell’espressione
dei bambini sorpresi a giocare o a raccontarsi
i loro segreti.
Chandra è una bambina pugile, così ama
definirsi e così ha chiamato la sua ultima
raccolta di versi: e ci sembra davvero
di vederla lottare nella notte arruffata, lei zie al silenzio giunge a visitarci, come un’eco
“filo d’erba impassibile” contro il “gigante del nostro sentire che finalmente risuona. Ma
trasparente” della notte. La vediamo a pugni c’è bisogno di silenzio per lasciare che queste
alzati, a scansare i colpi, a difendersi dalla parole si impiglino dentro, c’è bisogno del siferocia della vita.
lenzio come una tregua dall’affanno della vita,
Piccola e leggera come una scintilla. Che brucia. come una sospensione dal rumore frettoloso
Per questo può intendersi alla perfezione coi e fuorviante:
bambini e può far uscire da loro scintille “…Che tu possa sentire il bene grande / quell’adi poesie, anche da quelli che l’italiano lo ria che ci sta sempre intorno / che sempre bada
conoscono poco perché a casa parlano un’altra a noi e sa / che mentre ci scuotiamo forte / menlingua, anche da quelli che se ne stanno tre scartiamo / e sgroppiamo via i pesi /già stiaall’ultimo banco, svogliati. Arriva lei, maestra mo facendo dell’infinito / casa”.
di poesia, e insieme si mettono a cercare le Fare dell’infinito una casa è forse il nostro deparole. Per riuscire a dire quel che si ha nel siderio più acuto e segreto e il poeta lo sa. E ci
cuore, per dare parole alle domande mute, al commuove e trafigge il cuore vedere questa
cuore che impazza, al silenzio che scava.
minuscola donna abitare l’infinito, aggirarsi
“…io vi conservo le parole / come pane inzuppa- negli spazi illimitati e sconosciuti in nome di
to / nel latte della memoria / come lacrime incol- tutti noi. Una bambina pugile coraggiosa, che
te / che precipitano / a due a due / nell’inchiostro “semina il grazie più piccolo che c’é”.
Così vicina a noi la poe/ io sono capitano serio /
quando navighiamo / le
sia non è mai stata: la
Riparti a mani vuote
parole il loro / buio fitto
guardiamo stupiti, con
l’alto mare / e allagano
occhi di bambini anche
e senza impermeabile
la classe / e noi le rastrelnoi, con brivido di graa pelle d’oca
liamo / con le biro nere e
titudine. Chandra ci inblu a dire / le formule che
segna la vita e anche la
e
cuore
affamato
ormeggiano e il mondo /
morte; suo è il verso più
che bussa forte…”
bello che abbia mai troriparti neonato.
Come se la poesia esivato sul lutto:
“…Pensa, la relazione di
stesse da sé, già dentro
di noi: in un luogo segreto e nascosto esisto- ora / questa nuova faccia / dell’amore, / la chiano parole che aspettano di essere navigate, mano lutto.”
per esprimere ciò che le lacrime raccontano,
Nelle sue poesie Chandra ci offre tutta se stesper dire quel che il batticuore ci regala. Parole
sa, si regala a noi senza risparmio di timidezche pulsano, che sono fatte di sangue e saliva,
ze, e da lei ci sentiamo abbracciati e stretti,
parole vive.
raggiunti negli angoli più bui del nostro senUn verso di un poeta nicaraguense dice “Un tire, che sono anche quelli più veri. Colpisce
poeta sente”: la poesia riesce a trasformare le il sentirci stanati nei nostri nascondigli, là
orme che i sensi lasciano in noi parole che dove ci rifugiamo quando tutto intorno grida
sono contemporaneamente leggere e pe- e diventa fastidioso; là dove ricerchiamo un
santi, oscure e luminose. Parole vive, appunto. pezzetto di infinito.
“È la voglia di comunicare che fa trovare le pa- Sarà perché riconosciamo in lei il nostro camrole. Ma anche lo scarto, sentire che la poesia è mino faticoso e duro, un “cammino di minaanche musica e magia, che si possono fare dei tore che spacca le unghie”, sarà perché lei persalti con le parole e farli fare agli altri. Si può far cepisce “d’essere una e sola e comunissima
sorridere o tremare. E soprattutto si può non briciolitudine”, ma ora abbiamo ben chiaro
sapere”. E si può anche non sapere da dove dentro di noi che “la misura esatta è l’infinito”.
arrivi questa poesia, come una voce che gra- Grazie, piccola scintilla, di ricordarci il fuoco.
21
La passeggiata di Arturo
di Massimo Orlandi
Lo scorso 30
novembre
avrebbe
compiuto
103 anni.
Ma Arturo non puntava
ad allungare i suoi giorni.
La sua vita di uomo di
Dio, di missionario, di
profeta degli ultimi, era
stata lunga e intensa,
la sua fede lo aveva
preparato all’incontro
con l’Amore senza fine.
E in un giorno di luglio
Arturo ha iniziato il suo
nuovo cammino...
22
Eravamo a tavola, uno davanti all’altro, in uno dei primi
nostri incontri. A fine pasto non persi l’occasione di fargli
la domanda delle domande: Arturo, come ti immagini che
sarà, dopo la morte?
“Vedi – rispose allargando ancor più la fronte spaziosa
– oggi pomeriggio un caro amico mi accompagnerà a
fare una passeggiata. Io non sto mica a chiedergli dove
andremo, non sto mica a farmi spiegare cosa troverò. Così
penso all’incontro con Dio. È un amico. E io mi fido di lui”.
Arturo, caro amico Arturo. Arturo che non aveva paura
della morte, ma la attendeva, Arturo che non aveva
passato la vita a riempirsi di Dio, ma a svuotarsi di ‘io’ per
poterlo accogliere. Arturo, la cui fede era promettente
come la luce dell’alba.
“È tutto finito” gli disse un suo antico allievo in punto di
morte. E Arturo, di risposta, lo sbatacchiò: “Non è questo
che ti ho insegnato! Non è vero che è tutto finito. Ma che
tutto inizia”.
Arturo non aveva paura di morire perché sentiva che su
tutto, tutto ciò che ci circonda soffia il vento dello Spirito e
che questo vento non si muove a caso: lo spinge l’Amore,
con la A maiuscola.
“L’unica missione umana – diceva – sta tutta in
una espressione di Teillhard de Chardin: “amouriseur le monde”, portare l’amore nel mondo. Gesù
non ci ha chiesto di fare proseliti, ci ha chiesto di
portare l’amore nel mondo”. E in questo consisteva, per lui, la sua missione di uomo di Dio,
di uomo consacrato a Dio: “La cosa più grande
che può dare un prete? È far sentire la persona
amata. Perché se Dio è Amore, Dio non si scopre
attraverso un ragionamento teologico, lo si scopre solo se ci si sente amati”.
Era nato il 30 novembre 1912, a Lucca. Ma il
primo episodio che ricordava sempre dei suoi
albori di vita era arrivato otto anni più tardi
quando, bambino, aveva assistito impotente,
a un conflitto a sangue tra fascisti e antifascisti
davanti alla chiesa di San Michele. “Ma allora gli uomini non si vogliono bene?” “E cosa
si può fare per poterli aiutare a riconciliarsi?”
L’interrogativo bambino sarebbe diventato
una missione di vita. Sacerdote nel 1940, Arturo aveva avuto quale prima parrocchia un ex
seminario nel quale avrebbe nascosto e salvato da morte certa tantissimi ebrei.
La sua azione di riconciliazione era poi continuata nel dopoguerra quando, dai vertici
dell’Azione cattolica, Arturo si era impegnato a ricostruire i valori del Paese a partire dai
giovani. Ma le sue idee avanzate si erano
scontrate duramente con i vertici ecclesiastici e l’esito era stato fortemente penalizzante per Arturo, inviato come cappellano
sulle navi della rotta Genova-Buenos Aires.
La punizione era pesante, ma grazie all’incontro, proprio sulla nave, con un piccolo fratello
di Charles De Foucauld, Arturo aveva intuito
quella che sarebbe stata la tappa decisiva del
suo cammino di fede: stare in mezzo ai poveri.
Arturo sarebbe così vissuto per oltre cinquant’anni tra gli ultimi del Sudamerica, compagno di viaggio speciale per tanti uomini e
donne marchiati a vista dal flagello della povertà. Solo alla soglia dei novant’anni sarebbe
rientrato in Italia, aprendo una nuova comunità (a San Martino in Vignale, Lucca) e mettendosi a disposizione di quel popolo crescente di
viandanti del nostro tempo, in cerca di se stessi
e di un senso per vivere.
Un proverbio africano dice che un vecchio che
muore equivale a una biblioteca che brucia. Ci
ho pensato spesso davanti a anziani che avrebbero avuto un mondo di cose da rivelarci, se
fossimo stati umili e attenti da ascoltarli prima
della loro morte. Arturo, grazie al suo tempo
di vita in esubero, ha permesso a tanti di noi
di avvicinarlo e di scorrere senza fretta i titoli
della sua biblioteca, la biblioteca della vita.
Io, in particolare, ricordo una indimenticabile
settimana a Spello: Arturo mi concesse due ore
tutte le mattine per raccontarmi tanta parte
della sua vita e permettermi di ritrasmetterla.
Ne nacque un piccolo libro, “La forza della leggerezza” i cui contenuti, oltreché su carta, me
li sono stampati dentro.
“Mi piace stare al mondo, anche ora che sono
vecchio” esordiva Arturo con la sua disarmante
semplicità. “Quello che rende bella la vita è il non
portare fardelli. Non ti posso dire che la mia vita
sia stata tutta buona, no, però ti posso dire che la
mia vita è stata bella: anche gli aspetti negativi,
anche le avversità sono state importanti, perché
mi hanno aiutato ad avanzare, a vedere di più, a
liberarmi da tante pesantezze”.
La leggerezza di Arturo non era dovuta all’assenza di fatica e di sofferenza, ma alla capacità
di elaborarla. Era il frutto maturo di una capacità totale di darsi agli altri al punto da dimenticarsi di sé: l’angoscia esistenziale di noi occidentali, spiegava, scompare davanti al povero
che è privo di tutto, che è umiliato, che chiede
solo un po’ di dignità.
L’ultima volta che l’ho visto è stato un mese
prima di morire. Le sue parole si erano fatte
rade. Parlava per lui il suo sorriso lieve, e quello
sguardo proteso sull’orizzonte, a saggiare l’infinito. Dissi qualcosa io, allora, ma poco, e tutte
le parole volevano essere solo una: grazie.
Era un consapevole commiato. Era un affettuoso arrivederci.
Sapevo che sarebbe arrivata, prima o poi, la
notizia della sua partenza.
La fine di una vita. L’inizio di una passeggiata.
23
La fatica della luce
di Angelo Casati*
Non è la luce
il segno del
Natale.
Ma il buio. È nel buio
che nasce Gesù, è
nel buio delle nostre
vite che può alzarsi,
davvero, un grido
alla luce. È solo nel
buio che si può capire
davvero il miracolo
di quella notte.
24
Dov’è mai, nel racconto della sua
nascita, la luce, se non per dire che
quella madre «lo mise alla luce»? Ma
è modo di dire, perché quella era
notte. Lo mise alla notte.
Non si parla nei vangeli di una lampada di miracolo calata, in segno
di misericordia, dall’alto, a far luce
alla donna che vedeva sgusciare dal
grembo il frutto dei nove mesi.
Né di lampada calata dall’alto, in volto di misericordia, sulla mangiatoia
in cui, avvolto di fasce, deporre uno
scricciolo di figlio. Ma adagio, lentamente, per non fargli male. Ed era
notte, buio pesto.
* Il testo è un estratto da “I giorni dello stupore” di Angelo Casati - Edizioni Romena, 2014
A veglia – questa sì, la possiamo immaginare – a veglia l’umile lampada accesa
da Giuseppe. A fiato lento e oscillante,
come le lampade d’allora.
Le nostre splendono sicure e senza emozioni. Quella di Giuseppe era viva, pulsava fiato. Come quel bimbo, suo e non
suo. Ma non sarà, me lo chiedo, che questo impazzire di luci nasconda il sussulto
del buio? Qualcuno di noi ancora ricorda
il brivido che ci correva nelle vene quando da piccoli si faceva buio nella stanza e
tutti ad occhi sgranati a fissare il presepe
che pulsava nell’ombra.
È il buio, non le luci sfacciate, è il buio
che ancora può tremare d’emozione per
la lampada fioca e a corto fiato di Giuseppe. Oggi mi verrebbe da augurarmi
che tutto a un tratto si spegnesse, tutte
le luminarie della mia città, quelle della
via che mi sta accanto e mi toccasse per
grazia la lampada di Giuseppe.
Sono ad augurarmi che si faccia buio.
Se così non fosse, forse che qualcuno si
accorgerebbe di un’umile lampada che
veglia il Natale dentro l’ostentato impazzire di luci?
Solo il buio può gridare il miracolo della
tenerezza del lume. Che per grazia si è
acceso nella notte.
Non il soffitto di luci della mia strada.
Perché miracolo dei miracoli e grazia
delle grazie non è un Dio che scende su
un tappeto di luci, ma un Dio che scende nella notte, nella ruvida paglia di una
mangiatoia. E se rubi la notte, la notte
della storia, se rubi la ruvida paglia a
questa nascita, le strappi la grazia delle
grazie, che è questo sposalizio di luce e
di tenebra, questa immersione di un frugolo di lievito sincero nella pasta oscura
che resiste a fermentare, questa speranza che la luce possa alleviare il peso delle
nostre notti. Che non vanno ignorate. O
cancellate da luminarie che tentano di
far dimenticare la fatica della luce.
“La fatica della luce”, direbbe una cara
amica, Gabriella Caramore. Così ha intitolato il suo libro. A volte mi verrebbe
la voglia – e mi prenderebbero per un
pazzo – di andare per le strade e gridare:
«Togliete le luminarie, danno immagine
falsa del mondo. Mascherano il buio che
ci portiamo dentro, il buio che segna i
nostri giorni. Mi sembrano cancellare il
grido del buio alla luce vera. Mi sembrano irridere la lampada fioca, fiato a rilento, di Giuseppe, lampada che fa segno a
un altro. Un altro che venga a illuminare
per grazia angoli oscuri della vita e del
mondo.
E metti in attesa il buio. In attesa il buio
della terra, perché riceva luce. Dalla nascita. È dal buio che sale il grido alla luce.
E se puoi, per quello che puoi, porta la
tua lampada. Non importa se fioca e
corta di respiro, purché vi arda un poco
dell’olio del Vangelo.
25
A
V
O
NU
A
LI
G
E
V
Dio cammina
a piedi
BRESCIA
18 gennaio 2016
BERGAMO
19 gennaio 2016
MILANO
20 gennaio 2016
CASALMAGGIORE (CR)
21 gennaio 2016
PIACENZA
22 gennaio 2016
SIENA
26 gennaio 2016
AREZZO
27 gennaio 2016
CATANIA
1 febbraio 2016
SCICLI (RG)
2 febbraio 2016
RAGUSA
3 febbraio 2016
PALERMO
4 febbraio 2016
MESSINA
5 febbraio 2016
Centro Mater Divinae Gratiae - via Sant’Emiliano, 30
Chiesa dei Frati Cappuccini - via dei Cappuccini
Parr. Beata Vergine Immacolata - Lavanderie di Segrate
Parr. S. Maria Nascente-Via N. Tommasco 73, Casalbellotto
Parrocchia Santa Franca - P.zza Paolo VI, 1
Parrocchia San Francesco all’Alberino
Parrocchia San Marco Alla Sella
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
Parrocchia SS. Pietro e Paolo - via Siena
ore 20.30
Parrocchia SS. Salvatore - Via Giovanni XXIII, 13
ore 20.00
Parrocchia S. Pietro Apostolo, V. Lazio 89, Beddio
ore 19.00
Suore Basiliane di Santa Macrina - V.le dei Picciotti, Brancaccio
Parr. S. Giacomo Maggiore Ap. - v. Buganza, Isolato 54
ore 20.00
ore 20.00
LE PIAGGE (FI)
10 febbraio 2016
LOCRI-ARDORE MARINA
22 febbraio 2016
CROTONE
23 febbraio 2016
LAMEZIA TERME
24 febbraio 2016
Comunità delle Piagge
Parr. Santa Maria del Pozzo
Parr. Sacro Cuore - Borgata S. Francesco
Chiesa del Carmine - Sambiase
26
ore 21.00
ore 19.30
ore 20.00
ore 19.30
COSENZA
25 febbraio 2016
SCALEA (CS)
26 febbraio 2016
Parr. di San Nicola - Piazza Cenisio
Da definire
ore 20.30
ROVERETO
7 marzo 2016
VERONA
8 marzo 2016
MODENA
9 marzo 2016
Parrocchia di Santa Caterina - Frati Cappuccini
Parr. San Nicolò all’Arena - P.zza San Nicolò 13
Chiesa San Barnaba, Via Carteria 108
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
BOLOGNA
10 marzo 2016
MILANO - SAN CARLO AL CORSO
15 marzo 2016
IMOLA
16 marzo 2016
Parrocchia Madonna del Lavoro - Via Ghirardini 15
Corsia dei Servi, Corso Matteotti 14
Chiesa Santa Maria dei Servi - Piazza Mirri 2
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
NOCERA INFERIORE
11 aprile 2016
SALERNO
12 aprile 2016
NAPOLI
13 aprile 2016
CAMPOBASSO
14 aprile 2016
FONDI (LT)
15 aprile 2016
Parr. S. Maria del Presepe - P.zza Amendola
Parrocchia Gesù Redentore - Via P. De Ciccio 1
Parr. S. Gennaro al Vomero - Via Bernini 55
Centro Famiglie Incontro - via Reine, Colle D’Anchise (CB)
Monastero San Magno - Fondi
ore 20.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ROMA
2 maggio 2016
GROSSETO
3 maggio 2016
LIVORNO
4 maggio 2016
AULLA (MS)
5 maggio 2016
Parrocchia San Frumenzio - via Cavriglia 8
Parr. Del Cottolengo - Via Scanzanese 67
Parrocchia Sant’Agostino - via Aldo Moro 2
Parr. San Caprasio - Piazza Abbazia
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
ore 21.00
PERUGIA
10 maggio 2016
OSTUNI
16 maggio 2016
GALATONE (LE)
17 maggio 2016
LOCOROTONDO (BA)
18 maggio 2016
BARI
19 maggio 2016
ALTAMURA
20 maggio 2016
BISCEGLIE (BT)
21 maggio 2016
Chiesa di Santo Spirito - via Parione 17
Parrocchia San Luigi - via G. Di Vittorio 18
Chiesa di San Francesco d’Assisi - via Metello
Chiea di S. Giorgio Martire - P.zza A. Rodio
Chiesa di San Marcello - L.go D. F. Ricci 1
Foyer De Charitè - Contrada Fornello
ore 21.00
ore 20.30
ore 21.00
ore 21.00
ore 20.30
Parr. Santa Maria Madre di Misericordia - P.zza C. A. Dalla Chiesa 11
ore 20.30
ore 21.00
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La nuova vita
del nostro “giornalino”
Nei prossimi
mesi la nostra
rivista cambierà
di pelle.
Nuova grafica, nuovi
contenuti, e due possibilità
di leggerla:
• gratuita (da scaricare on line)
• cartacea (con abbonamento)
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Da vent’anni questa nostra rivista accompagna il cammino della Fraternità di
Romena. Questa longevità non sarebbe
stata possibile senza il vostro amore e il
vostro sostegno di calore e di amicizia.
Ogni volta, mentre la concepiamo la nostra rivista lievita di responsabilità e di
gioia al solo pensiero di raggiungervi:
sappiamo quanto la desiderate!
Questo consenso e questa vicinanza sono
un patrimonio prezioso, che non vogliamo disperdere. Allo stesso tempo, però,
sentiamo ormai da qualche tempo, sempre più necessario un percorso di cambiamento sia dello stile e del formato della
rivista, sia dei modi per farla arrivare nelle
vostre case.
Nauralmente non si tratta di mettere in discussione l’anima della rivista, o il suo stile
più profondo, ma di renderla meglio in grado (nel formato per esempio, e nella lunghezza) di raccontare i temi, le persone, gli
incontri e la vita della Fraternità.
Abbiamo imparato, dalla storia di Romena,
che la fedeltà è preziosa, ma non va scambiata con l’abitudine: vogliamo restare fedeli al progetto originario, ma proprio per
questo essere pronti a un cambiamento che
ci permetta di onorarlo meglio.
Cosa faremo? In questi mesi ci impegneremo in un progetto grafico e di contenuti
che vi sottoporremo sin dal prossimo numero e che miglioreremo in seguito, grazie
anche ai vostri suggerimenti.
C’è poi un secondo aspetto, altrettanto
importante e riguarda la diffusione. Negli
anni, questa rivista ha seguito passo passo
la crescita di contatti e di presenze della Fraternità. Attualmente spediamo a casa gratuitamente circa 15.000 numeri ogni volta. Ma
dopo venti anni l’indirizzario costruito nel
tempo non è più adeguato: ci sono sempre
più situazioni di indirizzi sbagliati (le persone costruiscono le loro vite, si sposano,
cambiano casa…), c’è quindi la necessità di
rimettere un po’ di ordine.
Inoltre le spese postali sono lievitate e su
un quantitativo di spedizioni come le nostre
sono diventate davvero esose. La rivista,
solo tra stampa e spedizione ha un costo
annuo di circa 20.000 euro e la generosità
di chi risponde con un contributo utilizzando il bollettino al centro (un’opzione assolutamente libera) non è ormai da tempo
sufficiente. Ma come mantenere insieme
la possibilità di farvi avere gratis la rivista
e allo stesso tempo non pesare sui bilanci
della Fraternità?
L’idea che proponiamo è questa. La rivista
potrà essere letta, vista, e anche scaricata
su Internet . Quindi manterrà una dimensione gratuita, per tutti. A chi invece vorrà
continuare a riceverla a casa, nella sua dimensione cartacea, chiederemo un piccolo
abbonamento annuale.
Questa novità non ha effetto immediato. Il
prossimo numero della rivista, che vedrete
già nella nuova veste, lo riceverete a casa
come questo. E lì’ vi spiegheremo meglio
le modalità dell’abbonamento. Così avrete
tutto il tempo, se vorrete, per adeguarvi.
Altrimenti potrete continuare a leggere la
rivista on line .
Se poi volete contribuire a questa nostra
proposta con inviti, consigli, suggerimenti,
proposte, fatelo scrivendoci a [email protected]. Sarà un aiuto prezioso in questa
fase di cambiamento.
A questo punto il dado è tratto. Questa lunga storia di amicizia e di affetto con la nostra rivista vive un momento rischioso, ma
necessario. Ogni cambiamento è preceduto
da un tuffo alla gola, da una paura di non
riuscire. Ma sentiamo che questo è il momento. Che aspettare sarebbe ancora più
rischioso. E allora.. che la creatività ci assista.
Ce la metteremo tutta per mantenere quel
filo delicato ma forte di amicizia e di sintonia che da tanti anni ci lega a ognuno di voi.
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Agenda
Ogni Giorno
2016
Dio è un Bacio
novità
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Ogni Giorno 2016 - Pagine 284 - Prezzo € 14,00 - ISBN 978-88-89669-63-1
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Edizioni Romena, foto, audio degli
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CORSO CON
Antonietta Potente
DIALOGHI TRA I CORPI E L’ANIMA
26-27-28 febbraio 2016
Guidati da Antonietta, dalle sue intuizioni, dal suo
sguardo aperto e profetico sulla vita e sulla fede,
affrontando un cammino di riflessioni, intuizioni,
esperienze per mettere in contatto anima e corpo.
Iscrizioni dal 01/01/2016 - tel 0575.582060
UN CONTRIBUTO: il giornalino
è una pubblicazione gratuita e viene
inviato a tutte le persone che hanno
partecipato ai corsi di Romena o ne
abbiano fatto richiesta. Aiutateci a
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e spedizione inviando il vostro
contributo col bollettino allegato,
oppure effettuate un’offerta ai
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bancario IBAN:
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Per richiedere o modificare l’indirizzo
di spedizione del Giornalino:
www.romena.it/contatti/richiestagiornalino.html oppure scrivi a
[email protected]. È disponibile online l’archivio ti tutti i giornalini
collegandosi a www.romena.it/
pubblicazioni/giornalino/archiviogiornalino.html
SEGRETERIA: per iscriversi ai
corsi è necessario telefonare al
nostro numero 0575.582060.
Le iscrizioni ai corsi si aprono il
primo giorno del mese precedente
il corso stesso.
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N
ella dimora d’acqua e d’argilla
senza di te distrutto è il cuore:
entra, o amato, in casa
o lascerò, io, la casa.
Rumi
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