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Il coraggio: un antidoto alla paura

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Il coraggio: un antidoto alla paura
Il coraggio: un antidoto alla paura?
Giovanni Cucci
in La Civiltà Cattolica 2012 II 545-557 - Quaderno 3888 (16 giugno 2012)
Paura e coraggio
La tematica della paura sembra occupare ogni ambito della vita, e si presenta come qualcosa di
invincibile . Come avevano già riconosciuto gli antichi, la semplice sicurezza esterna non è assolutamente in grado di rassicurare, perché la sensazione del pericolo risiede anzitutto nell’ immaginazione, potenzialmente inesauribile: la paura è una manifestazione della dimensione spirituale
dell’ uomo, ed è in tale sede che va affrontata. Essa rivela all’uomo che il suo vero nemico non si
trova fuori, ma dentro di sé: il vero nemico è la paura della fragilità, che non si vuole accettare; la
paura dell’intimità, che non si vuole condividere; la paura di dare fiducia senza sapere se ne varrà la
pena.
1
Da qui l’importanza di quella passione nota agli antichi come il coraggio, che nella vita morale e
spirituale viene indicata con il termine fortezza. Indubbiamente, senza coraggio è difficile
portare avanti qualcosa di duraturo e di stabile nella vita, dallo studio al lavoro, alla capacità di
mantenere la parola data, alla stabilità nelle relazioni, alla fedeltà, tutte cose che richiedono pazienza, capacità di attendere, rimanendo in una situazione data nel corso del tempo.
Per Aristotele il coraggio è il frutto di una valutazione cognitiva circa i rischi da correre, sapendosi decidere per ciò che si ritiene più importante; proprio dell’uomo saggio è saper stare nel giusto
mezzo tra codardia e presunzione 2. L’uomo coraggioso sa mettere in conto i possibili rischi, senza chiudere
gli occhi di fronte ad essi.
Queste considerazioni vengono riprese dalla tradizione cristiana. Per san Tommaso, il coraggio
è una maniera di fare verità di fronte al pericolo senza nascondersi le difficoltà, ma neppure le possibilità in gioco; egli infatti lo definisce come fortitudo mentis, la capacità - come nell’episodio biblico del serpente di bronzo (cfr Nm 21,4-9) - di guardare in faccia il pericolo nella sua verità per
poterlo adeguatamente affrontare.
Se il coraggio ha una connotazione valutativa, il suo contrario, la paura, è anzitutto una perversione della valutazione, che conduce a non vedere la realtà, perché entrambi vertono sul medesimo
oggetto, la propria fragilità; per questo il coraggio è proprio soltanto dell’essere umano: «La fortezza presuppone la vulnerabilità; senza la vulnerabilità non c’è possibilità di fortezza. Un
angelo non può essere coraggioso, perché non è vulnerabile. Essere coraggiosi significa in effetti essere capaci di subire ferite» 3.
Queste analisi smentiscono il luogo comune secondo cui l’uomo coraggioso non conoscerebbe là
paura; questo è piuttosto tipico della presunzione che, sia per Aristotele sia per san Tommaso, costituisce un difetto uguale e opposto alla paura. Se coraggio e paura non si escludono, l’ accettazione della loro compresenza aiuta a valutare l’entità della posta in gioco e a intravedere le possibilità
Cfr G. CUCCI, «La paura. Un sentimento potente e sempre attuale», in Civ. Catt. 2012 II 438-450.
«Colui che tutto fugge e teme e nulla sopporta diventa vile, mentre colui che non ha paura proprio di nulla, ma va
incontro ad ogni pericolo, diventa temerario; similmente anche chi si gode ogni piacere e non se ne astiene da alcuno,
diventa intemperante; chi, invece, fugge ogni piacere, come i rustici, diventa un insensibile. Dunque, la temperanza e il
coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma preservati dalla medietà [...]: è con l’abitudine a sprezzare i perico li e ad affrontarli che diventiamo coraggiosi, ed è quando siamo divenuti coraggiosi che siamo massimamente in grado
di affrontare i pericoli» (ARISTOTELE, Etica nicomachea, Milano, Rizzoli, 1996,1. II 1.104a-1.104b).
3
J. PlEPER, The Four Cardinal Virtues: prudence, justice, fortitude, temperance, Notre Dame, University of Notre
Dame Press, 1966, 117; cfr Summa Theol., II-II, q. 123, a. 1.
1
2
1
di portare a termine un’impresa.
La testimonianza di chi è stato fedele fino a dare la vita per ciò in cui credeva mostra come coraggio e paura non siano affatto incompatibili: «Una volta Oscar Romero era seduto su una panchina con un amico, e ha chiesto a questo amico se avesse paura di morire. L’amico ha risposto di
no, e Romero ha detto: “Io invece sì. Io ho paura di morire”, e tuttavia ha dato la sua vita» 4.
La compresenza di paura e coraggio rimanda a sua volta ad altre virtù ugualmente importanti,
come la pazienza e la temperanza, che a loro volta trovano la loro sorgente nella speranza, la capacità di affrontare con fiducia le difficoltà. La pazienza sa comandare alla paura, alla fretta, alla superficialità, conferendo la capacità di essere signori di se stessi, e dunque di saper attendere: «L’
uomo possiede la propria anima con la pazienza, in quanto con essa svela dalle radici le passioni
causate dalle avversità che turbano l’anima» 5.
Il proliferare della paura nelle nostre società è dovuto anche al fatto che si è smarrito il
senso dell’attesa, e dunque della pazienza e della speranza; tutto ciò toglie forza e stabilità,
aumentando possibili ansie, timori e paure. È forse anche per questo motivo che la paura
sembra essere maggiormente di casa nei Paesi ricchi; i poveri, abituati da sempre ad attendere, a pazientare, a sopportare, hanno meno paure di fronte agli imprevisti della vita perché
sono parte ordinaria della loro giornata.
L’insegnamento biblico
Nella Bibbia la paura fa il suo ingresso fin dall’inizio della storia umana: è il primo sentimento
che Adamo avverte all’avvicinarsi di Dio dopo che ha mangiato del frutto proibito, una paura legata
alla conoscenza del proprio limite creaturale, diventato non più elemento di comunione, ma di divisione (cfr Genesi 3,10). La paura è il sentimento proprio di chi non riesce a entrare in comunione con Dio: Pilato, quando viene a sapere che Gesù si è presentato come Figlio di Dio, ha
paura; questa notizia lo scuote, ma non lo porta a una differente relazione con Lui, piuttosto ne paralizza l’azione, fino a decidere suo malgrado di abbandonarLo al suo destino (cfr Gv 19,8). Allo
stesso modo, il servo fannullone che ha sprecato il talento ricevuto sotterrandolo, rivela al padrone
di aver agito così per paura di lui, paura di sbagliare, ma soprattutto paura del giudizio del padrone,
senza rendersi conto che è stata proprio questa ricerca di una sicurezza assoluta a perderlo: «“Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso.
Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove
non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato
il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il
servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”» (Mt 25,24-30).
Come nel racconto di Gn 3, qui emerge una menzogna profondamente radicata nella mente del
servo, una menzogna che il padrone, al momento del giudizio finale, ha cura di smentire: «Il Signore riprende le stesse parole usate dal servo nei suoi confronti, una sola cosa omette: che egli sia
un uomo “duro”. Questa è una parabola del giudizio, non una parabola della misericordia, ma neppure in sede giudiziale è lecito dire che il Signore sia “duro”» 6.
La soluzione rinunciataria sembrerebbe mettere il servo al riparo dal rischio, ma è proprio essa a
perderlo. Il rischio è infatti essenziale, nella vita come nell’esperienza di fede: non giocarsi è
essere già morti. E questa è la peggiore sventura che il servo attira su di sé, con le sue proprie
mani: quella di aver sciupato il dono, la propria esistenza. «Il giudizio non è tanto che egli sia gettato “nelle tenebre di fuori”, ma che egli si sia mostrato un servo “inutile”» 7.
4
T. RADCLIFFE, Il punto focale del cristianesimo. Che cosa significa essere cristiani?, Cinisello Balsamo (Mi),
San Paolo, 2008, 114.
5
Summa Theol., II-II, q. 136, a. 4, ad 2; sul legame coraggio-rabbia, cfr II-II, q. 123, a. 10, ad 2.
6
A. MELLO, Evangelo secondo Matteo, Magnano (Bi), Qiqajon, 1995, 435.
7
Ivi.
2
Nella Bibbia un uomo che non rischia è un uomo già morto, del tutto spento dal punto di vista
interiore e spirituale. Interessante risulta a questo proposito la descrizione della figura di Golia:
«Era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a
piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un
giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un cilindro di tessitori e la
punta dell’asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero. Egli si fermò
e gridò alle schiere d’Israele: “[...] Sceglietevi un uomo che scenda contro di me. Se sarà capace di
combattere con me e mi abbatterà, noi saremo vostri servi. Se invece prevarrò io su di lui e lo abbatterò, sarete voi nostri servi e ci servirete” [...]. Saul e tutto Israele udirono le parole del Filisteo; rimasero sconvolti ed ebbero grande paura» (1 Sam 17,4-11).
Si tratta di un racconto molto profondo e istruttivo dal punto di vista psicologico. I due protagonisti di questo brano potrebbero simboleggiare lo scontro tra la sicurezza e la paura.
Anzitutto il mito della sicurezza assoluta. Come l’uomo moderno, Golia si crede del tutto protetto da ogni eventuale rischio, e agisce come se tutto fosse in suo potere: si è procurato la corazza più
resistente, l’elmo più efficiente, la lancia più robusta, si è accuratamente addestrato, e ora è sicuro
di vincere. Questo personaggio sembra il manifesto vivente delle odierne società per assicu- razioni, che promettono una soluzione garantita per ogni situazione della vita. Eppure la troppa sicurezza, conseguenza della presunzione di ritenersi padroni della vita, fa dimenticare Dio e smarrire la
propria verità di creatura (non a caso Golia bestemmierà prima di iniziare lo scontro). E questo diventa per lui un motivo di perdizione: improvvisamente le sorti della battaglia si rovesciano, rivelandogli sorprese inattese e letali.
Dall’altra parte del campo, invece, la protagonista è la paura. Essa, come la presunzione, porta ai
medesimi esiti fallimentari, come aveva ben visto Aristotele. La paura, quando diventa l’unica
emozione considerata, finisce per distorcere la realtà, la stessa entità del pericolo in gioco, impedendo soprattutto di notare le effettive possibilità a propria disposizione.
In questo brano tale deformazione è mostrata con chiarezza e con finezza anche psicologica.
L’autore indugia sulla descrizione di Golia, mostrandone le risonanze emotive sul popolo di Israele,
sottolineandone l’esagerazione: nel corso del brano egli sembra crescere a dismisura fino a non essere più considerato un comune mortale, potenzialmente battibile, ma come più grande, forte e prestante di un intero esercito, al punto che «tutto Israele» ne resta terrorizzato, incapace di mettere in
atto qualunque reazione.
Certo, Golia è indubbiamente possente, abile, esperto, bene armato, ma ovviamente non potrebbe mai sconfiggere da solo tutto l’esercito di Israele, a meno che esso rinunci a combattere, cedendogli le armi.
Come osserva il card. Martini 8, in questo brano la Bibbia presenta un profondo insegnamento
sulla paura, giocando con i simboli. Considerata a distanza, senza la paralisi emotiva propria della
paura, la situazione appare assurda, illogica, persino grottesca, eppure è la realtà propria di chi è
terrorizzato. Il brano sottolinea nello stesso tempo anche la caratteristica irreale propria della paura,
che difatti svanisce all’improvviso: un uomo solo mette paura a un intero esercito, però un piccolo sasso lo uccide. L’incantesimo è finito, come una bolla di sapone che si dissolve, e tutto cambia: Israele, una volta superata la paura, distrugge l’intero esercito dei Filistei. Ma avrebbe avuto
anche prima la medesima possibilità di vincere, se non si fosse lasciato paralizzare da questo sentimento.
Il racconto biblico sembra dunque confermare quella verità fondamentale precedentemente rilevata in sede filosofica e psicologica. Il coraggio può essere considerato come l’atteggiamento che
segue la valutazione cognitiva. Per questo, sapersi ritirare di fronte a una situazione obiettivamente
8
Cfr C. M. MARTINI, Davide. Peccatore e credente, Casale Monferrato (Al), Piemme, 2000, 110-114.
3
pericolosa dal punto di vista morale non è segno di codardia, ma piuttosto di coraggio e di virtù,
mentre sarebbe presunzione o follia non tenerne conto.
Come ricordavano gli autori spirituali, di fronte al vizio la migliore vittoria è la fuga: «Il coraggio è la virtù più difficile da giudicare negli altri, poiché non possiamo facilmente condividere la
loro percezione del rischio. Il soldato coraggioso deve giudicare quando è giusto combattere e
quando ritirarsi, mentre un altro potrebbe giudicare coraggiosa la decisione di essere un codardo
[...]. La temperanza è una virtù che spesso si considera poco attraente, una paura timida di celebrare
la vita [...]. Diventare del tutto brilli non è un esempio di temperanza, mentre dire basta potrebbe
essere un esempio di coraggio. E, quindi, non è sempre facile riconoscere il vero coraggio, ma
quando lo si fa, la sua bellezza è innegabile» 9.
Affrontare la paura
Se la paura cresce e si alimenta grazie all’immaginazione, è anzitutto necessario riconoscere e
combattere le paure immaginarie che paralizzano, impedendo di compiere ciò che sta a cuore. Si
può affrontare la paura in modo adeguato solo facendo un’esperienza di realtà.
Sant’Ignazio mostra come il nemico della natura umana cerchi di bloccare la libertà e i desideri
autentici con la paura, ingigantendo rischi e difficoltà perché non si scelga il bene 10. Per questo insiste a che la persona, se vuole liberarsi da questa forma di schiavitù, decida con fermezza e risolutezza in direzione opposta ai suggerimenti del nemico, che fa il forte con i deboli e il debole con i
forti: «È proprio del demonio indebolirsi e perdersi d’animo, e quindi allontanare le tentazioni,
quando chi si esercita nella vita spirituale si oppone ad esse con fermezza, agendo in modo diametralmente opposto; se invece chi si esercita comincia a temere e a perdersi d’animo nel sostenere le
tentazioni, non c’è al mondo una bestia così feroce come il nemico della natura umana nel perseguire con tanta malizia il suo dannato disegno» 11.
Queste regole trovano una conferma anche dal punto di vista psicologico: l’elemento maggiormente in grado di contrastare la paura è non chiudersi nelle proprie ansie, impegnandosi a vivere esperienze di realtà, decidendosi per dei valori riconosciuti come importanti per la vita. Si tratta di un criterio prezioso anche a livello educativo: «È soltanto l’esperienza pratica che fornisce i
requisiti psicofisici per gestire la paura, così come le altre emozioni» 12.
Un esperimento compiuto tra i paracadutisti dell’esercito ha mostrato un’interessante verità: la
paura, in chi si lancia per la prima volta, raggiunge il suo culmine in una situazione di relativa sicurezza, quando cioè compare nella carlinga dell’aereo la scritta «Pronti!», prospettando al paracadutista il futuro pericolo che lo attende. La paura continua in tal modo a crescere fino a quando egli
non decide di lanciarsi, fino a quando cioè raggiunge ciò che viene chiamato «il punto di non ritorno», in cui non può più tornare indietro, ma solo precipitare nel vuoto.
Stranamente, è proprio a partire da quel momento, di reale pericolo, che la paura inizia a diminuire, fino a scomparire. I ricercatori concludono che, quando ci si confronta per la prima volta con
un’impresa difficile, è naturale provare paura: dopo aver ponderato le possibilità e i rischi del caso,
alla fine è però necessario «buttarsi», decidendosi per ciò che si era ritenuto la cosa migliore da
compiersi.
La decisione consente in tal modo di tagliare il nodo della paura, entrando nella realtà: si può
comprendere qualcosa solo decidendosi per essa, coinvolgendosi. Illudersi di avere sempre davanti
a sé, intatte, tutte le possibilità o cercare una sicurezza assoluta rende la vita impossibile, e lascia
nell’animo, oltre alla paura, la sensazione di aver fallito.
9
T. Radcliffe, Il punto focale del cristianesimo..., cit., 115. Cfr Summa Theol., II-II, q. 123, a. 1, ad 2
Cfr Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, n. 315.
10
11
Ivi, n. 325.
12
M. Barberi, «Paure (in)controllate», in Mente e cervello VI (2008) n. 45, 33.
4
La paura della morte
Il «pungiglione della morte», di cui parla san Paolo (cfr 1 Cor 15,55 s) è forse il veleno più terribile della paura, che porta a non coinvolgersi in nulla nella vita per timore di perderla, diventando
in tal modo già morti, paralizzati, incapaci di scegliere; ma in tal modo la morte, da cui si voleva disperatamente fuggire, viene vissuta in modo ancora più devastante, con la sensazione di avere sprecato la propria vita. Shakespeare raffigura con efficacia la pena di cui soffre l’uomo prigioniero
della paura, incapace di decidere, e dunque di vivere: «I codardi muoiono molte volte prima della loro morte» 13.
Un aiuto importante che giunge dalla tradizione spirituale è di imparare a guardare in faccia la morte, considerando la brevità della propria vita, del tempo che ci è dato e che non ritornerà.
A questo proposito sant’Ignazio suggerisce una considerazione interessante per aiutare a compiere decisioni importanti: immaginarsi di essere giunti al termine della propria vita e di domandare
conto a se stessi - più che dei peccati commessi, delle sofferenze di cui lamentarsi, o dei titoli e riconoscimenti non ottenuti - delle possibilità di bene finora rimaste disattese.
Da questa considerazione nasce la domanda decisiva da porsi di fronte alla paura che la morte
suscita: «Che cosa avresti voluto fare che non hai mai fatto? Una riconciliazione con una persona
cara, un gesto di affetto, un’opera di carità, un aiuto materiale verso qualche bisognoso?». Ignazio
invita la persona a mettersi di fronte al Crocifisso, per chiedere una conferma sulla decisione intrapresa e di iniziare ad attuarla 14; in questo modo la persona non dovrà rimproverarselo al momento della propria morte.
Questa è stata d’altronde l’esperienza stessa di Ignazio: trovandosi in pericolo di morte, egli avverte la necessità di non soffermarsi unicamente sulle colpe commesse, per riconoscere piuttosto le
possibilità di bene finora disattese, le capacità e le risorse non utilizzate. Tale riflessione non sorgeva dalla paura, ma da uno stato d’animo di profonda gratitudine, di riconoscimento concreto di
quanto il Signore fosse stato sempre generoso con lui, ricolmandolo di benefici, mentre egli non
aveva mai fatto nulla per il Signore, semplicemente per amore suo: «Una volta, durante la traversata da Valencia verso l’Italia, sul mare agitato da violenta tempesta, il timone della nave si schiantò
e la situazione divenne così grave che, a giudizio suo e di molti passeggeri, con i soli mezzi umani
non si sarebbe scampati alla morte. In questo frangente, pur esaminandosi con diligenza per disporsi a morire, non riusciva a sentire timore dei suoi peccati o di una eventuale condanna, ma provava
grande confusione e dolore ritenendo di non avere impiegato bene i doni e le grazie che Dio nostro
Signore gli aveva concesso» 15.
Da questo nuovo atteggiamento, anche la relazione con il Signore e con la morte hanno portato a
un salto di qualità, passando sempre più dalla paura all’amore: «Anche nel 1550 stette molto male a
causa di una grave malattia che, a giudizio suo e di altri, pareva l’ultima. In questa occasione il pensiero della morte gli procurava tanta gioia ed era tanto consolato spiritualmente per dover morire
che si scioglieva tutto in lacrime. Questa commozione gli divenne così abituale che spesso doveva
smettere di pensare alla morte per non provare così intensa consolazione» 16. È la consolazione propria di chi si sente voluto bene da Dio, l’Amato che da sempre lo ha voluto e di cui il santo non ha
paura, ma che anzi desidera incontrare.
13
W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto II, scena II, in Id., Tutte le opere, Milano, Sansoni, 1993, 598.
«Considererò, come se mi trovassi in punto di morte, il comportamento che allora vorrei aver tenuto nella presente
scelta e, regolandomi secondo quello, prenderò fermamente la mia decisione» (IGNAZIO DI LOYOLA, S., Esercizi
spirituali, n. 186).
15
Id., Autobiografia, n. 33.
16
Ivi
14
5
Conclusioni simili possono essere rilevate in sede psicologica. Lo psichiatra I. Yalom notava
come la disponibilità a impegnarsi per qualcosa che si è ritenuto importante rafforzi il potenziale di
vita presente nella persona, mutando di conseguenza anche l’atteggiamento verso la morte: «La mia
esperienza, sia professionale sia personale, mi ha portato a ritenere che la paura della morte è
sempre più forte in coloro che hanno la sensazione di non aver vissuto pienamente. Un buon
parametro interpretativo potrebbe essere il seguente: più la vita è stata povera, o il suo potenziale
sprecato, più forte sarà l’angoscia di morte» 17.
L’antidoto più forte alla paura, radice del coraggio e della capacità di decidere, rimane dunque il
desiderio: quando l’animo è infiammato per un ideale, per un valore, per un progetto di vita, come
nell’innamoramento, nella conversione, nella decisione vocazionale, pur riconoscendo in sé timori,
paure e difficoltà, non per questo si lascia fermare, ma trova in sé una forza capace di affrontarle e
superarle, con una pace e una sicurezza mai avvertite prima 18.
Si pensi ancora all’esperienza della conversione, intesa come riconoscimento di una presenza
Altra e benevola nella propria vita, come viene splendidamente mostrato dalle pagine di una celebre convertita, Edith Stein: «Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale sospensione di ogni attività
della mente, nel quale non si possono più tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui, consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al proprio destino. Questo stato un poco io l’ho provato, in seguito a un’esperienza che, oltrepassando le mie
forze, consumò totalmente le mie energie spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato
all’arresto di attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è qualcosa di completamente
nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della morte, poi subentra un senso di intima sicurezza, di
liberazione da tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo all’agire» 19.
Il desiderio espresso diventa in tal modo risposta a una Presenza affettuosa e rassicurante, anche
se non materialmente percepibile; quando essa viene riconosciuta e accolta, consente di affrontare
situazioni di obiettivo pericolo e di tensione con la fiducia di chi si sente in buone mani.
Il timore di Dio fondamento della fiducia
Se la paura è una sorta di grido di dolore del narcisismo sconfitto che deve fare i conti con i propri limiti, con la fragilità e con la morte. Ma soprattutto con l’ammissione di non poter essere la misura di tutte le cose, il rimedio che la tradizione spirituale propone è di dare spazio a un sentimento
ben preciso: il timore di Dio.
La tradizione biblica insiste su questo punto basilare come chiave di accesso all’universo sapienziale (cfr Sal 111,10; Pr 1,7; Sir 1; Gb 28), cioè al mondo stesso di Dio, che dà sapore e gusto alla
vita, ed è in grado di conferirle un senso. Il timore di Dio (letteralmente «il rispetto di Dio») è il
giusto senso della distanza, che consente di vedere noi stessi e il mondo in cui viviamo. Un tale timore non è spontaneo, ma va appreso (cfr Sal 34,11); la scuola del timore consente così di entrare
nella vita, nella beatitudine di Dio (cfr Sal 1). Quando manca questa sapienza, rimane un vuoto che
porta a ogni genere di vizio. Abramo osserva con sgomento e paura la terra del Negheb in cui sta
per entrare: «Sicuramente, non c’è nessun timore di Dio in questo luogo, e mi si ucciderà a causa di
mia moglie» (Gn 20,11).
Senza timore di Dio, l’uomo diventa presuntuoso e sprezzante, oppure si ritrova preda delle
paure più varie (del futuro, del giudizio degli altri, dell’instabilità dei beni, della malattia, della
morte) e, perdendo qualunque freno interiore, si mostra capace di compiere ogni tipo di dissolutezza: l’assenza del timore di Dio è il primo passo per l’ingresso del vizio nella vita dell’uomo. Come
17
I. YALOM, Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta, Milano, Rizzoli, 1990, 132.
Cfr G. CUCCI, La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, Adp, 20112, 33-73.
19
E. STEIN, «La causalità psichica», in Id., Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, Roma, Città Nuova, 1996, 115 s. Questo testo è stato originariamente pubblicato nel 1922, un anno dopo il battesimo della Stein.
18
6
osserva Standaert: «Questi testi costituiscono seri avvertimenti: condividere una cultura in cui
ogni timore di Dio risulta essere assente significa esporsi alle violenze più orribili. “Ricordati... !
Non dimenticare!”: così nel Deuteronomio viene inquadrato il paragrafo su Amalek» 20.
Il timore di Dio nasce dal fatto che le sorti della storia, della vita e della morte, nonostante le
brevi illusioni offerte dal malvagio e dal prepotente di turno, sono nelle mani di Dio, e dunque è
Lui l’unico da temere veramente.
Senza quel timore, la vita diventa preda di paure di ben altro genere, di fronte alle quali ci si sente soli, abbandonati, senza speranza. Il timore di Dio nel suo senso biblico è una radicale contestazione della concezione narcisistica di sé e della vita: «Il timore in quanto tale mantiene un
aspetto pungente, penetrante, inquietante. La nostra cultura - riconosciuta da molti come altamente
narcisistica - tende a smussare le punte, con la conseguenza che l’io perde la propria vulnerabilità
rispetto all’Altro. Ora, è proprio questo che bisogna evitare a ogni costo. Il timore apre il soggetto,
lo rende vulnerabile e gli permette un vero incontro con Colui che è altro» 21.
È un timore che, a sua volta, consente di vincere altri timori; presentando a Dio la propria fragilità con fiducia, l’uomo impara a non essere sopraffatto dalla paura, ma a lasciarsi amare
da Lui: «L’amore e la fede in Dio sono di per sé sintomi di assenza di paura psicologica, mentre,
paradossalmente, il perfezionista teme proprio l’amore» 22.
È il primo insegnamento che Dio dà all’uomo riguardo a ciò che non può conoscere o controllare
(cfr Gn 2,16-17): esso rientra in quella dimensione di fiducia in Dio, di rispetto di Lui come centro
del tutto, che rende possibile vivere in pienezza. Quando l’uomo dimentica questo e vuole sostituirsi a Dio, al posto della fiducia subentra la paura e la vergogna (cfr Gn 3,7.10), due modi di rifiutare
il proprio limite creaturale. Il brano suggerisce anche che la paura è in realtà un sentimento secondo, conseguente alla trasgressione; il sentimento primario è costituito piuttosto dalla fiducia e dall’
affetto, che aprono alla relazione e alla stabilità.
L’importanza delle relazioni
Questa linea di lettura sembra essere confermata anche a livello di ricerca psicologica, secondo
la quale la paura, come pure l’odio, non sono sentimenti originari, ma derivati. Originaria nell’essere umano fin dalla nascita è la fiducia, nel senso, nell’ordine: una fiducia che diventa affetto e
pone le basi per un legame di amore. È quanto il bambino dovrebbe trovare nella relazione genitoriale 23. In questo senso la mancanza di ambienti affettivi stabili,
come la famiglia, rende
la persona schiava della paura, del rancore, rischiando di autodistruggersi.
Per questo la nostra società è particolarmente esposta alla paura, perché, in mancanza di un progetto in cui sia presente una più grande Presenza rassicurante, perché signora della storia, si trova
sola in balia di quell’angoscia esistenziale ben descritta da Freud.
La necessità di ritornare a un progetto comune, fondato su valori forti, è un insegnamento che
giunge dall’ascolto della paura, che trova il suo maggior alleato e terreno fertile nel relativismo,
nell’indifferenza, nell’incapacità di costruire relazioni. La paura come grido di vita mette in guardia
20
B. STANDAERT, Il timore di Dio è il suo tesoro, Milano, Vita e Pensiero, 2006, 58.
Ivi, 69.
22
P. IONATA, «I guai del perfezionismo religioso», in Città Nuova 2 (1990) 44.
23
«Di fatto, gli psicologi dell’infanzia ci dicono che non può esservi maturazione psicologica se, all’inizio del pro cesso di socializzazione, non c’è la fede nell’ordine. L’inclinazione che l’uomo ha per l’ordine si fonda su una sorta di
fede o di fiducia che, in fondo, la realtà sia “in ordine”, che “tutto vada bene”, che sia “come dovrebbe essere” [...]. Diventare genitore significa assumersi il ruolo di costruttore e protettore del mondo [...]. Il ruolo che un genitore si assume non è solo quello di rappresentare l’ordine di questa o quella società, bensì l’ordine in sé, l’ordine che regge l’ universo e che ci persuade alla fiducia nella realtà» (P. BERGER, Il brusio degli angeli, Bologna, il Mulino, 1969, 92. 94;
cfr G. Cucci, Esperienza religiosa e psicologia, Roma-Leumann (To), Elledici - La Civiltà Cattolica, 2009, 18-25).
21
7
dalle culture che la minacciano: «Se vogliamo salvare la nostra civiltà, la nostra cultura liberal-democratica dalla dissoluzione, dobbiamo anzitutto sottrarla alla sua alleanza con il relativismo;
la ragione umana non può rinunciare alla verità» 24.
La dimensione comunitaria, caratteristica fondamentale dell’esperienza di fede cristiana, risulta
importante anche sotto questo punto di vista. Se è vero quanto dice don Abbondio nei
messi sposi, che «uno il coraggio non se lo può dare»
Pro-
25
, è però altrettanto vero che può ri-
ceverlo da altri: «fatevi coraggio a vicenda», esorta san Paolo (2 Cor 13,11). In tal modo il timore
di Dio conduce a una vita di piena comunione con Lui, all’insegna del dono, accolto per essere a
sua volta offerto.
Avendo ricevuto dal Padre ogni potere, in cielo e in terra (cfr Mt 28,18), Gesù è l’unico che può
liberare l’uomo dalla paura, rispondendo alla sua attesa di salvezza: «Il Signore del mondo e della
storia, che spaventa per la sua incomprensibile trascendenza e la sua incontrollabile potenza, è
l’unico che possa davvero liberare da ogni paura, perché è l’unico che possa affrontare la morte
[...]. Il dono di sé, consumato fino alla fine in obbedienza al Padre, è la difficile ma liberante risposta della fede alla paura» 26.
24
S.
BELARDINELLI,
Contro la paura. L’Occidente, le radici cristiane e la sfida del re-
lativismo, Liberal, Roma 2005, 56. Cfr anche p. 84: «Se abbiamo a cuore la nostra au tonomia e la nostra libertà, è
necessario alimentare un contesto che poco o nulla ha che vedere con la frammentazione, l’edonismo, la debolezza morale tipiche delle nostre società, diventate per questo sempre più incapaci di educare e di socializzare, e molto in vece a
che vedere con la responsabilità, il rigore, la disciplina, il senso di fiducia, il gusto di fare qualcosa per sé e per gli
altri».
A. MANZONI, I
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26
Promessi sposi, cap. XXVI, Milano, Rizzoli, 1988, vol. II, 156.
B. COSTACURTA, La vita minacciata. Il tema della paura nella Bibbia Ebraica, Roma, Pib, 1997, 285.
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