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Una giornata molto particolare nel ricordo di

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Una giornata molto particolare nel ricordo di
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per la monarchia? Ero liberale
e crociano. E Croce riteneva che
soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano». Era già maggiorenne Eugenio
Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d’Italia ma anche la sua
storia personale, l’ingresso nell’età
adulta che l’avrebbe condotto nel
cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s’abbandona
a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e
viceversa.
Così il futuro fondatore di “Repubblica” scelse la monarchia.
«Croce era convinto che l’istituto
monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica
guidata dalla Democrazia cristiana.
Per molti cattolici l’Italia era “il giardino del Vaticano».
Temevate l’egemonia scudocrociata?
«Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l’ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare».
Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
«No, più semplicemente si era
esaurita l’intimità adolescenziale».
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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OSSANA ROSSANDA rispon-
de quasi stizzita. Non le
piacciono queste rievocazioni. 2 giugno 1946: la
“ragazza del secolo scorso” aveva ventidue anni. Non c’era alcuna sicurezza del risultato, racconta.
Anzi. A ogni modo, è andata bene, «magari con qualche ritocco, e siamo in repubblica». Poi aggiunge: «Non c’è un
grande spirito repubblicano in giro,
non c’è mai stato, ma meglio che niente». E qui capisco cosa sto cercando.
Questo: che cosa fa di me il cittadino di
una repubblica. C’è un tratto, c’è un segno? Sarebbe cambiato qualcosa, mi
domando, se quel giorno? Dico in me,
in noi. Per settimane mi sono messo a
caccia di testimoni. Franca Valeri, classe 1920, mi ha detto: «Io ricordo che
speravo, speravo tanto». Giuliano Montaldo, che allora aveva sedici anni, ha tirato in ballo la parola «paura». È il contrario della speranza, o forse no, è la
stessa cosa. Chi testimonia per i testimoni? La domanda è del poeta Paul Celan. Io non sono pronto a testimoniare
al posto vostro: signor Adriano, con il
fratello cadetto che rimase male quando andò via il re. Signora Annunziata,
con il fratello repubblicano, invece,
che sbraitava: il re costa caro! Signor
Vincenzo, allora bambino, con la mano
nella mano di suo nonno che piange —
restando sull’attenti — davanti alla radio che annuncia la partenza del re. Signora Ninni, a cui i genitori acquistarono una borsetta con l’edera repubblicana. Continuate, finché potete, vi prego, a raccontare.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN ARTICOLO DI UMBERTO GENTILONI
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<SEGUE DALLA COPERTINA
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RAVAMO ORMAI DUE PERSONE adulte con una diver-
sa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del
1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi».
È per questo che poi avresti trovato un’intesa
con papa Francesco?
«Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l’ho raccontato al papa, è
rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. “Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia”, mi
ha detto sorridente. “Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri”. “Beh, il minimo che potesse capitare”».
Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
«Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era
convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi».
Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente
della Repubblica.
«Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi
sentii lealmente schierato con la repubblica».
Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
«In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C’era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si
fosse svolta in modo regolare».
Hai mai creduto all’ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
«Mah, il sospetto fu smentito con prove».
Un “miracolo della ragione”, così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era
mai avvenuto che una repubblica fosse
proclamata per libera scelta di un popolo
mentre era sul trono un re.
«Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a
salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell’inverno del 1943 ero ancora fascista, come la
massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro
giornalistico su 3PNBGBTDJTUB. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo
Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il
postfascismo da fascista».
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Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo
in altro modo.
«Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai
a gravitare negli ambienti più illuminati di
Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti».
Ti ho chiesto del voto referendario. Ma
com’era l’Italia del dopoguerra?
«Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l’apertura di
case da gioco. L’organizzazione di molte sedi
dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. “Sei matto?”. Alla fine riuscii a
convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il
mio primo lavoro: direttore amministrativo
del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E
anche il EJOOFSKBDLFU che mi faceva sentire
una specie di Cary Grant».
Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant’anni?
«Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti».
Il simbolo più alto del riformismo italiano.
Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
«Non esageriamo. Però è vero che nel
1963, agli albori di quella nuova stagione,
ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi,
mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia. Lombardi era
stato incaricato da Nenni, vicepresidente del
consiglio, di preparare le grandi riforme. Così
venne a casa per sottoporre a Carli alcune di
quelle proposte — la nazionalizzazione
dell’industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli — ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime
questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare
perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu
risolvere il problema dei lacci».
Poi quella stagione riformista tramontò.
Qual è stata l’altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
«La grande riforma che aveva in mente
Moro: rifondare lo Stato con l’indispensabile
appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi
giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni
perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell’&
TQSFTTP contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne
avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte».
Con gli inquilini del Quirinale hai avuto
rapporti alterni, molto polemici — Segni e
Leone — o molto amichevoli, ad esempio
con Scalfaro, Ciampi e l’attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore
intimità?
«A Pertini mi legava un’amicizia perfino
imbarazzante, che il presidente ostentava
senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di 3FQVCCMJDB, e
la sua voce energica portava allegria. Con
Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio,
ogni mercoledì mattina, avevamo l’abitudine di fare la prima colazione insieme. E l’amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi “sassolini dalla scarpa”. Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza.
“Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta”. E
lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile».
E il rapporto con Giorgio Napolitano?
«Nel corso della sua presidenza l’ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in
silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta.
Tra noi c’è un rapporto di amicizia, che non
comporta essere d’accordo su tutto: sull’attuale riforma costituzionale abbiamo pareri
molto diversi».
Direttore, un’ultima domanda azzardata.
Ma non è che nella scelta del nome di “Repubblica” per il tuo giornale abbia inciso
anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent’anni prima?
«Ma no, me l’ero scordato del tutto. Scelsi
il nome di 3FQVCCMJDBperché volevo dare al
giornale un carattere politico e nazionale. Il
voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei
ridiventato subito dopo».
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L CERTIFICATO DI NASCITA DELLA REPUBBLICA ITALIANA porta un segno, un
tratto costitutivo: la partecipazione collettiva ai processi decisionali e il
conseguente allargamento delle basi dello Stato. È da questo tornante
che i caratteri della nostra democrazia si definiscono e si affermano nell’itinerario difficile del dopoguerra. Ci appare oggi un dato acquisito e condiviso eppure non è stato così allora. Allargare le basi significava invertire una direzione di marcia, cambiare rotta, cercare forme e strategie per
far poggiare l’architettura istituzionale su una base solida, ampia, diffusa. Sono le strategie di una nuova cittadinanza che si afferma progressivamente e che ha due cardini di riferimento: il riconoscimento del diritto
di voto per tutti e tutte e la definizione di un orizzonte possibile, quello di
una democrazia inclusiva rafforzata dal potenziale coinvolgimento di
nuovi settori della società.
Si chiude così la lunga parabola di un percorso che aveva le sue premesse nei caratteri prevalenti del processo di nazionalizzazione e
nei passaggi chiave della riunificazione geografica
e politica della penisola: élite più o meno illuminate
che guidano i processi storici espressione di una
classe dirigente con un perimetro di appartenenze
e compatibilità ben delineato. Si è discusso molto
se il 2 giugno rappresentasse il punto di arrivo della
crisi che porta il paese fuori dal fascismo e dalla
guerra o il primo passo di un nuovo possibile cammino. Questa seconda chiave di lettura appare oggi
più forte e vicina. I cittadini elettori sono i nuovi italiani, o comunque aspirano a poter entrare nell’agone di una democrazia partecipata, fondata su soggetti radicati e di massa (i partiti), segnata da un
progressivo cammino di avvicinamento e coinvolgimento di chi è fuori dal recinto, escluso, ai margini
di quel nuovo itinerario.
Una scelta coraggiosa, un segno indelebile nato
nel cuore del secondo conflitto mondiale per proiettare una ritrovata comunità nazionale nelle sfide
del nuovo mondo. Un paese intero chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica eleggendo contestualmente un’assemblea costituente con l’obiettivo ambizioso di una nuova carta costituzionale. Il
mondo osserva, col fiato sospeso; i principali alleati
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che avevano condotto la guerra sul suolo
della penisola socializzano ansie e segnali di allerta. Come sarà la prova degli italiani e delle italiane in fila ai seggi? Quali
i rischi per l’ordine pubblico? Un vero inizio poteva avvenire solo se lo scettro della decisione si fosse davvero abbassato
verso il popolo incontrando aspiranti cittadini pronti a lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le terribili contraddizioni del ventennio. Non un passaggio
scontato o neutrale, i fili di continuità
nelle carriere e negli antichi vizi avranno in molti casi la meglio sulle spinte al
cambiamento. Ma la svolta avviene in
modo inequivocabile con l’esordio della
democrazia di massa. La repubblica si afferma con oltre il 54 per cento dei voti
(dodici milioni e settecentomila votanti), mentre la monarchia raccoglie il
45,72 per cento dei consensi (dieci milioni e settecentomila schede). Il paese è
ancora diviso, al sud la continuità dinastica prevale. Ma si può voltare pagina.
Ne scrive a caldo un lucido protagonista
come Piero Calamandrei commentando
quel giorno di settant’anni fa: «La Repubblica italiana: non più un sogno romantico di cospiratori, un’immagine epica di poeti; non più una bandiera di ribellione e d’insurrezione. La Repubblica italiana: una realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza
sommossa e senza guerra civile nella
pratica ordinaria della costituzione».
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l 2056 ci sembra un numero da libri di fantascienza, un anno talmente lontano che non vale la pena neppure occuparsene, ma il tempo
che ci distanzia da quel punto è lo stesso che ci
separa dalla prima copia di 3FQVCCMJDB. E allora
vale la pena guardare in quella direzione, per i nostri figli e i nostri nipoti e per non perdersi nelle nebbie del
presente.
Torna la Repubblica delle Idee, con un formato maxi
che occuperà ben dieci serate, il doppio che in passato,
e proprio nella città in cui il giornale è stato fondato
quarant’anni fa. Ma questa volta non sarà una celebrazione di memorie ma l’occasione per cercare di immaginare il futuro e aggiornare le chiavi per interpretarlo.
Si chiamerà “Rep 2056, idee per i prossimi 40 anni”
e ci saranno le migliori firme di questo giornale,
collaboratori e amici, ma non solo: cercheremo di lasciarci contaminare,
aprendo il dibattito e esplorando i confini
del pianeta, le nuove frontiere della società, del lavoro, dei diritti, della legalità, delle malattie, delle
paure, del cibo, della letteratura e dell’avventura, della musica e del giornalismo.
Si parlerà del futuro della carta e del mondo dei video e delle immagini; delle esplorazioni estreme; della
mutazione dei virus come del nostro modo di vivere e
di consumare; di come cambiano la Chiesa, l’Europa o
le sfide del terrorismo; di cosa pensano le ragazze e di
cosa ascoltano i ragazzi. Sarà un festival per tutte le
età, pensato per farvi riflettere, per divertirvi ma anche per farvi tirar tardi.
Organizzarlo è stato come cercare la bussola e le
mappe giuste prima di partire per un lungo viaggio,
perché — come raccomanda Paolo Rumiz — fare lo zaino è la cosa più importante per chi affronta una sfida e
vuole capire dove appoggiare i piedi e dove volgere lo
sguardo. E il mondo che ci aspetta sarà un viaggio avventuroso.
Nel preparare questo zaino di conoscenze ci siamo
anche divertiti e speriamo di trasmettervi tutta la nostra passione.
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PARIGI
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gerezza e poesia. E popolato d’immagini sorprendenti nate dalle avventure del sogno e della fantasia. È
questo l’universo bellissimo e affascinante di Rébecca Dautremer,
grandissima illustratrice a cui -B
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lettura d’Ivrea, sta per dedicare
una mostra che ne ripercorre la carriera ventennale al servizio del colore e dell’immaginazione. «In un libro, l’immagine deve produrre una reazione, un’emozione, altrimenti non serve a nulla», ci spiega la quarantacinquenne artista
francese accogliendoci nel suo piccolo atelier parigino, direttamente comunicante con l’appartamento dove vive con i tre figli e
il marito, lo scrittore per ragazzi Taï-Marc Le Thanh. «Un’immagine riuscita è un piccolo mistero che rifiuta di svelarsi immediatamente, conquistando così l’attenzione del lettore. Per questo, nelle mie tavole, spesso dominate da una vena di malinconia, introduco volentieri una dimensione un po’ spiazzante, muovendomi
ai confini di un universo dominato dal fantastico e dal bizzarro».
Nell’esiguo locale ingombro di disegni, foto, libri, colori e pennelli, accanto ai due grandi schermi del computer, c’è un tavolo
da disegno dove Rébecca realizza artigianalmente tutte le sue illustrazioni usando la tecnica del HPVBDIF. Qui, dopo una lunga fase
d’elaborazione, sono nate le sue immagini originalissime e ricche
di dettagli che, accompagnate dai testi di Philippe Lechermeier o
di suo marito, hanno dato luogo a opere tradotte in tutto il mondo.
Da #BCBZBHB (Donzelli, 2008) a &MWJT (Donzelli, 2009), dal %JBSJP
TFHSFUPEJ1PMMJDJOP (Rizzoli, 2010) a 1SJODJQFTTF%JNFOUJDBUFP
TDPOPTDJVUF (Rizzoli, 2015), senza dimenticare le splendide illustrazioni per "MJDFOFMQBFTFEFMMFNFSBWJHMJF (Rizzoli, 2013) o
quelle altrettanto belle per 4FUB di Alessandro Baricco, la cui versione italiana sarà pubblica da Feltrinelli in autunno. Nello stesso
periodo arriverà nelle nostre librerie anche %BVUSFNFSFWJDFWFS
TB, un curioso portfolio in cui l’artista mostra con intelligenza e ironia le molte declinazioni del suo lavoro, comprese quelle che non
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rientrano nelle pagine dei libri: dalle immagini per il cinema d’animazione alla collaborazione con Kenzo per il profumo Flower, dai
manifesti alle istallazioni teatrali, dalle copertine dei dischi ai taccuini di viaggio.
«I miei sono libri illustrati per ragazzi che però vengono acquistati soprattutto dagli adulti. Per molto tempo opere di questo tipo sono state considerate minori e guardate con sufficienza. Oggi
per fortuna qualcosa sta cambiando. C’è maggiore interesse per i
libri illustrati, come dimostra il successo di un’autrice come Posy
Simmonds, e più in generale il grande successo del graphic novel.
Tuttavia molti editori sono ancora reticenti ad arricchire un testo
con delle immagini», chiosa l’illustratrice, ricordando che la versione illustrata di 4FUB è nata solo grazie alla testardaggine di due
giovanissimi editori che hanno creato una casa editrice apposta
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RÉBECCA DAUTREMER, io, all’inizio, pensavo che
neppure esistesse. A parte il nome, che mi
sembrava troppo bello per essere vero, era quel
modo di disegnare che mi rendeva difficile
immaginarla in carne ossa, che lavava i piatti, che
correva nei parchi, non so, che prendeva un taxi:
erano disegni che sembrava venissero direttamente
dall’immaginazione, senza passare da una mano, se riesco a
spiegarmi.
Invece un giorno arriva un editore francese e mi dice che
vorrebbero fare un’edizione di “Seta” illustrata dalla Dautremer.
Esiste?, chiedo. Sì, certo, dicono loro. Ah. Dopodiché ho iniziato a
cercare scuse. Il fatto è che, per come la penso io, nessun scrittore
sano di mente vorrebbe che un suo libro fosse stampato con delle
figure. È come se buttassero in acqua la Pellegrini coi braccioli, se
riesco a spiegarmi (e due). Comunque: ci tenevano tanto e per
convincermi mi hanno chiesto di incontrarla, l’illustratrice che
neanche credevo esistesse. Sono curioso, sono andato. In effetti
era vera, in carne e ossa, mangiava perfino. Abbiamo parlato un
po’ del libro: era rigorosissima, qualsiasi mio suggerimento lo
faceva cadere nel vuoto e, mi sembra di ricordare, non ha riso
neanche una volta: però aveva la faccia e la voce di una che se non
faceva quel libro dava di matto. Quella determinazione, o
passione, lì.
Poi è scomparsa per un tre, quattro anni. E alla fine se n’è uscita
con ‘sto libro che io adesso tengo sul comodino, perché è di una
bellezza accecante. Arrivo a dire che il testo, quello mio, è forse la
cosa meno geniale del volume.
Ci siamo poi incontrati di nuovo, a libro fatto. Quella volta
rideva, in effetti, questo ci tengo a dirlo.
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per quel progetto. «Naturalmente, la lettura non ha bisogno
dell’aiuto dell’immagine, dato che un testo funziona sempre da
solo. Le illustrazioni però possono indicare nuovi percorsi, imporre pause diverse e un nuovo ritmo alla narrazione».
Mentre ci mostra le immagini di 6OB#JCCJB — «un libro pieno
di storie favolose che ho cercato d’illustrare come un libro di fiabe, al di là di ogni credenza religiosa e lontano dall’iconografia tradizionale» — Rébecca Dautremer racconta di essere diventata illustratrice un po’ per caso. Dopo aver studiato le arti decorative,
infatti, avrebbe voluto imboccare la strada della fotografia. E invece a ventidue anni ha iniziato a collaborare con una casa editrice
di album da colorare. Iniziò così a disegnare e da allora non ha più
smesso, anche se la fotografia e la pittura restano un’importante
fonte d’ispirazione. «Non a caso, nelle mie immagini figurano diversi elementi derivati direttamente dalla fotografia, come gli effetti di messa a fuoco e di profondità di campo oppure le deformazioni della prospettiva dovute all’uso del grandangolo», riconosce
la disegnatrice che nutre una grande passione per la pittura fiamminga e nei dipinti di Bruegel ritrova «una dimensione ludica e
narrativa» simile a quella presente nel mondo dell’illustrazione. E
dato che «la qualità degli illustratori» è in continua crescita, sente
sempre di più il bisogno di rimettersi in discussione, rinnovarsi e
tentare nuove strade: «Non sono mai pienamente soddisfatta dei
miei risultati. Quindi cerco sempre di migliorarmi. In testa ho moltissime idee che però, spesso, poi non riesco a realizzare compiutamente».
Oggi i progetti non le mancano: «Sto evolvendo verso nuovi
orizzonti. Non voglio più limitarmi alle sole immagini, vorrei assumermi maggiori responsabilità, inventando da sola storie e personaggi. E infatti sto preparando una storia a fumetti dove per la prima volta, oltre alle immagini, scriverò anche i testi». Intanto, insieme al marito, sta lavorando a un nuovo film d’animazione e ha
appena finito di occuparsi dei costumi e delle scenografie di un
'MBVUPNBHJDP che andrà presto in scena: «Danza, teatro e circo sono attività che mi attirano sempre di più, per la loro dimensione vitale e per la relazione diretta con gli spettatori. Motivo per cui in
futuro cercherò di portare sempre più spesso le mie immagini
all’interno di questi universi affascinanti».
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a casa
con un enorme animale di peluche sotto il braccio o un asinello
di gesso dipinto che mi aveva promesso mi avrebbe portato da
un tour in Irlanda. Ho invece una foto, ma nessun ricordo, di
mia madre con me neonato sulla sabbia di Douglas, nell’isola
di Man, dove mio padre era andato a suonare negli anni Cinquanta. Nella foto mia mamma porta una collana di perle ed è
truccata, ma di fatto non era una vita così brillante. I membri
della band dovevano cambiarsi di continuo i vestiti sudati in
camerini gelidi o troppo caldi o stavano schiacciati come sardine nei trasferimenti notturni su pullman pieni di spifferi lungo nebbiose strade statali e interstatali. Mi ricordo di una sera
in cui mia madre mi aveva permesso di restare sveglio fino a tardi per guardare papà a $PNF
%BODJOH. All’epoca era un programma in diretta che non c’entrava niente con i finti provini
alle celebrità. Era solo una gara tra squadre di ballo amatoriali, per cui sapevo che papà avrebbe avuto pochi momenti in cui cantare, ma era comunque una novità vederlo in televisione.
Quando la telecamera fece una panoramica verso il suo lato dell’orchestra, compresi dalla
reazione di mia madre che qualcosa non andava. Il programma aveva aperto con i balli sudamericani, e mio padre era in piedi dietro le conga a suonare con molta più forza e animosità di
quante ne richiedesse il pezzo. Mamma uscì dalla stanza per mettere il bollitore sul fuoco e in
silenzio presi atto del suo sgomento per l’evidente ubriachezza di mio padre.
Non ricordo con esattezza quando fu che i miei si separarono. Non ci fu alcun nefasto annuncio della separazione e, se sì, l’ho completamente rimosso.
/POFSBBGGBUUPVOBWJUBGBDJMF
LCUNI DEI MIEI PRIMI RICORDI SONO MIO PADRE che arriva
È il 1971. Radio Luxembourg sta trasmettendo un intero lato di "GUFSUIF(PME3VTI. Il
segnale va e viene sulla strofa iniziale di 5FMM
.F8IZ; scompare e ritorna durante 0OMZ-P
WF$BO#SFBL:PVS)FBSU. L’assolo di chitarra
di 4PVUIFSO.BO vacilla e crepita, come anche la fine di 5JMMUIF.PSOJOH$PNFT. Non c’è
da stupirsi che io non abbia mai imparato
nessuna di queste canzoni come si deve. Sento infilare una chiave nella porta e mettere il
bollitore sul fuoco. Adesso che siamo gli unici
svegli in tutto il vicinato, ce ne restiamo seduti accanto alle braci di un fuoco morente.
Racconto a mio padre della canzone impegnata che ho cercato di cantare qualche ora
prima in un club folk, ma è come se venissimo da due pianeti diversi. Quando parla, lui
ricorre a gag e a un gergo tutti suoi; descrive
le modeste pensioni per teatranti dove passa
quasi tutte le sue notti come i suoi «alloggi».
La «doppietta» sta per due spettacoli in locali diversi nell’arco della stessa sera. La «tripletta» è ancora più tosta, ma grazie al cielo
più rara. Racconta il destino di tutti quei numeri mancati o «voltafaccia», quelli che ti costringono a ingoiare l’affronto del venire «liquidato», ovvero dell’essere mandato via
senza aver portato a termine l’ingaggio invece che lasciato alla mercé di una folla contrariata o ostile. Non è una vita facile. Racconta
le storie di personaggi assurdi e disperati
che si aggrappano alle briciole di una qualche forma di notorietà: giovani cantanti impazienti, ventriloqui eccentrici e comici imbronciati, alcuni dei quali incarnano il cliché
del clown triste, mentre altri diventano
ubriaconi a caccia di rissa. Lui non fa che vedersela con agenti e promoter che esercitano la loro futile autorità con malizia e una
punta di invidia. Lo accompagno in un paio
di occasioni per potervi assistere con i miei
occhi. Niente di affascinante, ve lo garantisco. L’impianto audio di parecchi locali è rudimentale e gracchiante. Fanno poca differenza tra i cantanti raffinati e le grasse risa dei
comici. È una sera d’estate a Blackpool, lassù
nella vivace costa del Lancashire. In fondo al
molo c’è un telescopio dal quale si riesce persino a scorgere… il mare. Il bingo è l’unico gioco d’azzardo permesso da queste parti, e i
pullman carichi di turisti ci si avventurano
ancora per contemplare le luminarie, come
ai tempi in cui l’energia elettrica era davvero
una novità. La maggior parte dei bambini è
già a letto, imbottita di acqua salata, bibite
alla vaniglia, zucchero filato e patatine, ma
stanotte io non mi limito a portare a spasso
la custodia della tromba di mio padre. No,
stavolta mi accomodo in mezzo all’orchestra. Forse non saprò leggere la musica, ma
almeno riesco a codificare i simboli degli accordi; e così, mio padre mi allunga una pila di
spartiti che io sistemo diligentemente sul
leggìo come ho visto fare a un sacco di musici-
sti sin da quando ero piccolo. Me ne sto seduto insieme a un’orchestra scettica dietro a
un sipario abbassato, che armeggio per accordare la mia chitarra. Nonostante il vociare venga attutito dal tendone, i clienti sembrano assetati e irritabili, forse avranno avuto una giornata dura, forse l’avranno spesa a
trascinare i loro bambini riottosi e scottati
dal sole via dalla sabbia e fuori dalle sale giochi. Mi becco un rimprovero dall’organista,
che ha la faccia del colore della colla per la
carta da parati. Il presentatore finisce di declamare i numeri del bingo, poi passa all’elenco delle esibizioni in arrivo e comincia a
presentarci. Mio padre mi lancia un’ultima
occhiata di incoraggiamento e controlla che
io abbia sullo spartito la canzone giusta. So
che è felice di avermi lì con lui, ma l’insistenza del suo sguardo dice anche: Questo non è
un gioco, è il mio lavoro. Proprio mentre i riflettori ci abbagliano, sento lo stridio da mal
di mare di una pianola che scivola su un semitono, facendomi arenare come uno straniero
sulla spiaggia. Fisso una pagina piena di giri
di accordi e cerco di aggiustarli mentalmente mentre lascio correre le dita a un paio di
millimetri sopra la tastiera. Abbasso il mio
volume al minimo e mimo l’intero spettacolo
con un bel sorriso stampato in faccia. È l’introduzione perfetta alla mia vita nello show
business. Da allora, quasi tutto non è stato altro che un’illusione.
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La decisione di scegliere il nome “Elvis” fu
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uno scherzo ideato dai miei manager per ottenere l’attenzione della gente abbastanza a
lungo per far sedimentare le mie canzoni,
dal momento che il mio magnetismo animale e il mio look non avrebbero certamente assolto al compito.
Di sicuro in giro c’era gente con nomi più
ossimorici del mio.
Ma malgrado la risaputa spavalderia che
regnava nel quartier generale della Stiff Records, c’è stato un breve momento in cui ci
siamo interrogati se il mio impavido alias potesse sopravvivere mentre la gente si raccoglieva per la veglia funebre di Presley.
Che alternativa avevo? Scegliere un’altra
identità misteriosa che suonasse simile se
detta velocemente e non confondesse troppo i tipografi? Otis? Gesù?
Be’, quest’ultima ipotesi forse sarebbe stata esagerata.
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Pete Townshend aveva l’aria alquanto belligerante. A quanto pare era l’unico membro
del cast che si era categoricamente rifiutato
di vestirsi da cretino, e dopo uno schietto
scambio di opinioni, Paul e Linda (McCartney, OES) salirono sul palco senza di lui. Townshend si guardò intorno in cerca del suo
road manager, che gli passò quella che sembrava una bottiglia di Rémy Martin. Io ero in
piedi accanto a lui mentre strappava la capsula, toglieva il tappo e tracannò il sorso più
lungo che mai vidi fare a un essere umano.
Con lo sguardo da pazzo e vestito sempre
con il suo abito grigio sformato, raggiunse il
resto della band sul palco. Jimmy Honeyman-Scott, che è un caro ragazzo con il cuore da fan, scelse incautamente di fare cenni
con la chitarra in direzione di Townshend,
in segno di incitamento. Pensai: Oh no, non
farlo, lo farai incazzare e basta. Townshend
reagì con una schitarrata di una ferocia tale
che mi sorpresi gli fosse rimasta anche solo
una corda.
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Oserei dire che fu Bruce (Springsteen,
OES) a partecipare alla sua puntata di 4QFDUB
DMF (il tv show condotto da Costello su $IBO
OFM tra il 2008 e il 2010, OES) con più entusiasmo di qualunque altro ospite, tanto che
dopo due ore di riprese stavamo ancora parlando degli inizi della sua carriera nei locali
del Jersey. Fu così che finimmo per girare
ben quattro ore di filmato, materiale sufficiente per due puntate. Gli rinfrescai la memoria sul grande impatto che sortì il suo concerto per %BSLOFTTPOUIF&EHFPG5PXO che
vidi a Nashville nel ’78. Mi rispose che si era
avvicinato al suono dei Buzzcocks e di altre
band inglesi perché qualcuno gli aveva fatto
notare che faceva troppo il romantico riguardo tutta quella faccenda «della strada». «Chi
te l’ha detto?» gli domandai. «Tu», replicò lui
ridacchiando.
Quando invece Tom Waits si presentò a
un mio concerto a Santa Rosa, sapevo in cuor
mio che sarebbe stato riluttante ad accettare, eppure non potei fare a meno di chiederglielo, offrendogli di girare la puntata in qualsiasi teatro di suo gradimento. Nell’attimo
stesso in cui pronunciai la parola «televisione», Tom indietreggiò di un passo e fece una
faccia allarmata. Era come se avessi pescato
un Taser dalla tasca e tenessi uno sprone per
il bestiame nascosto nel cappotto. Aveva
un’aria così scossa che mi pentii subito di
avergli fatto una richiesta del genere.
Comunque alla fine facemmo venti puntate. La gente ne sembrava genuinamente entusiasta, potevo trovarmi in coda al supermercato a Vancouver West e le persone
dall’aria più improbabile venivano a dirmi
quanto si erano godute la mia chiacchierata
con Lou Reed. Io ne ero francamente stupefatto. Ma a quell’epoca non guardavo molto i
tv show.
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CRIVIMI O DIVO: RACCONTAMI DI TE. Essì:
verrebbe davvero voglia di cominciare
dal principio, cioè da Omero che fu il
primo cantore — anzi, per l’epoca, una
specie di rockstar, visto il successo di
“Iliade” e “Odissea”, cover comprese. Se in ogni libro
c’è la storia del suo autore, allora ogni libro è
autobiografia. Insomma avranno anche un bel da
fare, oggi, i trend-setter della letteratura, a chiedersi
perché mai così tante rockstar si danno alla scrittura.
La verità è che la moda è più che antica: atavica.
Certo: ci sono stagioni più ricche. In questi giorni
tocca a Neil Young, George Clinton, Kim Gordon. Ma
già qualche anno fa il “New York Times” ci aveva fatto
un’inchiesta sopra: perché tanti artisti si danno al
genere? Era il periodo in cui sugli scaffali arrivavano
le memorie di Keith Richards, Steven Tyler, Patti
Smith. «Sembra che l’intera Hall of Fame del rock sia
seduta di fronte al computer» scherzava David
Hirshey, l’editor di HarperCollins, che ci mise subito
del suo pubblicando Pete Townshend.
L’Elvis (Costello) fresco di stampa è solo l’ultimo di
una lunga serie di big. “Rolling Stone” s’è divertito a
fare una hit parade dell’auto-bio, piazzando per
ultimo il povero Tyler degli Aerosmith con un titolo
che è tutto un programma: “Ti dà per caso fastidio il
rumore che sento nella mia testa?”. “Se riuscirete a
trovare una singola frase coerente in tutto il libro —
chiosa la Bibbia del rock — scrivete all’editore:
almeno per le prossime edizioni riusciranno a
correggere l’errore”. La classifica risale attraverso
Nikki Sixx dei Mötley Crüe, Rick Springfield, Boy
George (titolo: “Sii un uomo”, ma nello slang
vorrebbe anche dire, ehm, qualcos’altro), e poi
Gregg Allman, Alex James dei Blur, Anthony Kiedis
dei Red Hot Chili Peppers, Ronnie Spector, John
Lydon alias Johnny Rotten dei Sex Pistols (titolo:
“Vietato l’ingresso agli irlandesi, ai neri e ai cani”) per
arrivare a Chuck Berry, Jay-Z e Nile Rodgers degli
Chic — “Le Freak” il titolo, si va senza dire. Sul podio,
l’unica triade riuscita a mettere d’accordo fan e critici
letterari, anche temutissimi come quella Michiko
Kakutani che elesse libro dell’anno sempre sul
“Times”, “Life” di Keith Richards — qui al terzo posto.
Seconda ecco allora Patti Smith (“Just Kids”, la prima
parte della biografia di cui è arrivato ora il seguito,
“MTrain”) e al numero uno, ci mancherebbe, davvero
il Numero Uno, l’unico cantore periodicamente
candidato al Nobel, oltre che primo e ultimo rocker a
finire nell’American Academy of Arts and Letters: e
cioè l’immenso Bob Dylan di “Chronicles”, Volume 1.
Come in tutte le classifiche che si rispettino,
naturalmente anche qui affiorano le mancanze.
Come dimenticare “The Real Frank Zappa Book” che
“Vanity Fair” definì “un fuoco d’artificio”? O ancora
“Cash” di Johnny Cash, “Miles” del grande Davis
saccheggiato ora al cinema dal biopic “Miles Ahead”,
il jazz di New Orleans ricostruito in “Satchmo” da
Louis Armstrong, le confessioni quasi mezzo secolo
fa di Charlie Mingus (“Peggio di un bastardo”) e,
oggi, di Ahmir ‘QuestLove’ Thompson dei Roots
(“Mo’ Meta Better Blues”). Come dimenticare,
soprattutto, “Bound of Glory”, il pastiche anni
Quaranta in prosa e disegni di Woody Guthrie che
avrebbe poi ispirato “In His Own Writing” di John
Lennon — che non è una vera autobiografia ma
quanto gli somiglia.
Scrivimi, dunque, divo: scrivimi ancora.
Possibilmente senza dimenticare la lezione di Erik
Satie, il papà della musica contemporanea che già un
secolo fa, cimentandosi con la sua surrealissima
autobiografia, colse il peccato originale di troppe
automistificazioni che verranno. Mitico Satie: avete
mai letto le sue “Mémoires d’un amnésique”?
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A MIA INSTALLAZIONE permetterà
di camminere
sulle acque del lago giorno e notte, gratuitamente: una passeggiata di tre chilometri, sentendo
le onde sotto i piedi...». Visionario e geniale, l’artista newyorchese Vladimirov Yavachev Christo racconta così la sua ultima, fantasmagorica
installazione. Dopo aver impacchettato il Reichstag di Berlino e contrappuntato Central Park
con oltre settemila archi, questa volta tocca al lago d’Iseo, famoso per i suoi paesaggi incantati e
le magnifiche sardine essiccate. Pochi giorni dopo aver compiuto ottantuno anni, infatti, il 18
giugno Christo inaugurerà ”The Floating Piers”, una passerella temporanea (fino al 3 luglio) larga sedici metri, fatta con duecentomila cubi di polietilene e ricoperta da un tappeto
giallo aranciato, tesa tra il borgo di Suzano e Montisola. Inserita tra i dieci appuntamenti
mondiali imperdibili del 2016, sarà percorsa da più di cinquantamila visitatori, che scopriranno, insieme alla bellezza del luogo, la golosa cucina dell’enclave bresciana.
Non è modaiola, la cucina di lago. Non lo sono i suoi pesci, che essendo d’acqua dolce, o al
massimo salmastra, si sospettano insipidi e mollicci. Frutta e verdura sono iscritte nelle produzioni di nicchia, l’olio è buono ma senza piccantezze, perfino il vino sconta il peccato di
un’enogastronomia quasi mai in passerella. E invece, i laghi, e la terra loro intorno, sono pic-
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coli paradisi agroalimentari, rimasti pressoché intonsi proprio per il mix di agricoltura mignon e timidezza nel racconto che li caratterizza. Intanto, ogni lago fa storia a sé. A rendere
unico il terroir, in alcuni casi è l’origine vulcanica, in altri la vicinanza al mare oppure l’afflusso d’acqua di incontaminate sorgenti alpine. La fertilità si modella così secondo formule biologiche diverse, caratterizzando il plancton dei fondali e l’humus della campagna intorno:
imprinting che nei secoli ha forgiato le comunità lacustri, tra pescatori e mandriani, casari e
apicoltori, coltivatori di legumi e norcini. Un ventaglio di mestieri tramandati in famiglia,
che la nuova generazione ha fatto propri, conservando il meglio della tradizione e innestando guizzi di modernità.
Così, intorno al lago di Como negli ultimi anni si sono moltiplicate le aperture di birrifici
artigianali, con ricette birrarie legate a miele, castagne ed erbe aromatiche della zona, mentre al sud giovani cuochi hanno trasformato i prodotti ittici delle lagune del Gargano in punti di forza della cucina d’autore pugliese. Un fiorire di microeconomie locali ispirate a un approccio etico e rispettoso dell’ambiente. Del resto, le vacche maremmane sono refrattarie
all’allevamento intensivo, la fagiolina del Trasimeno abbisogna di cure certosine e le grandi
tome ossolane non potrebbero mai vedere la luce in un caseificio industriale.
Se la cucina di lago vi incuriosisce, organizzate una gita in Valsugana, dove l’11 giugno si
terrà la prima Notte Blu per celebrare i laghi di Levico e Caldonazzo, appena insigniti della
bandiera blu dalla Foundation of Environmental Education, l’organizzazione internazionale no-profit che certifica la qualità ecosostenibile delle località balneari in settantatré paesi
del mondo. Dopo un bagno nelle acque cristalline, niente di meglio che una fetta di crostata
ai frutti rossi e un bicchiere di Moscato Giallo.
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E DICO LAGO, chiunque,
per associazione, risponde pesce. Sapore.
Profumo a volte, anche. In certi
giorni, massimamente sul crepuscolo, quando una coalizione silenziosa di aria, afa e pioggia appena caduta,
e breve, ne confeziona una porzione per olfatti fini. E colore, se si ha la pazienza di attendere che Venere sola cominci a illuminare la notte vera e propria, e i bastoncelli del nostro apparato oculistico si adattino al buio compatto. Allora, indagando la superficie dell’acqua,
si scopre il colore che chiude la triade: sapore,
profumo e, appunto, colore.
Quest’ultimo è l’argenteo alone che si attribuisce alle apparizioni fatate. Nel caso in oggetto è la veloce giravolta dell’agone, il pesce
simbolo, che, proprio in questa stagione abbandona chissà quali incognite profondità
per raggiungere le rive e depositarvi le uova
che daranno continuità alla sua specie.
Fregandosi così, se si può dire, con le sue
stesse pinne.
Sì, perché, se se ne stesse acquattato nelle
recondite oscurità del lago e lì consumasse i
suoi riti nuziali, non diventerebbe oggetto di
pesca, non sempre lecita, per entrare poi di diritto nella catena alimentare di chi, volendo
consumare un sapore acconcio al luogo visitato, viene su queste rive.
Non solo colore, per quel ventre che balugina all’istante appena sotto il pelo dell’acqua
eccitando il pescatore (sia, quest’ultimo, dotato di legale permesso oppure appartenga
alla categoria dello “sfroso”, cioè di coloro
che, a ragione o a torto, ritengono che per pescare non serva tanto una licenza quanto una
rete, e affermano in aggiunta che l’agone così catturato sia più saporito di quell’altro che
si arrende solo nel periodo consentito dalla
legge).
Non solo colore.
Profumo, lento a morire.
Si provi a staccarlo dall’amo o a raccoglierlo dalla rete e si consideri poi, orologio alla mano, quanto persista sulla pelle ma più ancora
nelle corteccia dell’olfatto la traccia del mondo a cui è stato sottratto. È un profumo che sa
la bella stagione, senza di quella non si rivelerebbe. Anticipa l’estate, chiude i portoni delle scuole e apre le finestre delle case all’aria
corrente, alle voci dei cantanti nelle radio, alle mosche noiose.
Numero tre, la Moira che ne conclude il ciclo, fa del sapore un proteiforme impiego.
Vanto di antiche abilità è il missoltino. Sarà poi vero che una certa Miss ne inventò il
modo di asciugarlo al sole e poi tenerlo sotto
pressa con l’alloro dei poeti per farne un saporitissimo quanto salato compagno della polenta? Finché comparirà sui piatti, importa
poco l’attribuzione della scoperta. Anche perché il multiforme ingegno della cosiddetta cucina povera ha modo di dare altre dignità di
consumo all’agone che fino a poche ore prima sgallettava felice sotto il pelo dell’acqua.
Macerato nel carpione per esempio, disciplina che ha qualcosa di iniziatico, quasi un
mistero eleusino, per quanta segretezza metta chi sa come si prepara “il carpione, quello
vero”. Oppure, pur se taluni ne contestano
una contaminazione troppo recente, accompagnato da quella salsa verde che ha il colore
di certe acque di lago dopo che il phon ha dato loro una bella ripassata. Mi fermo e non mi
sembra poco fare di un solo boccone un colore, un profumo e un sapore. Bell’antipasto,
non c’è che dire. E me lo godo, sotto lo sguardo del cameriere che non dimostra fretta alcuna.
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MVMUJNPMJCSP Le mele di Kafka
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la Repubblica
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“In Francia sono considerato un autore, in Italia un maestro
dell’horror e in America un povero fallito”. Dopo aver girato una
ventina di pellicole di culto, da“1997 Fuga da New York” a “La cosa”,
ma anche qualche memorabile flop, a quasi settant’anni ha deciso
di vendicarsi del cinema (e degli Studios) con la musica firmando
un cd elettronico che ora porterà anche in tour: “Nessuna novità, ho
quasi sempre composto io le mie colonne sonore. E sa perché? Perché sono un tipo veloce, molto ultimi titoli a rivelare le “ricette”, terrorizzandone al tempo stesso gli apprendisti». 4DSFBN è tutto un rimando al suo cinema: «Sì, le “istruzioni per sopravvivere in un horror” sono ricavate da )BMMPXFFO, che la prima vittima indica coeconomico e soprattutto vado me
film preferito. E per i cultori del genere è inevitabile la risata quando una
ragazza confida che la storia che stanno vivendo le ricorda un film di “Wes Car». Un QBTUJDIF nome-cognome reso più comico, in Europa, dalla assid’accordo col regista!”. L’etichet- penter”…
milazione popolare del suo cinema al clan delle “tre C” del terrore: Craven, Carpenter, Cronenberg. Mentre negli Stati Uniti lei è stato periodicamente espuntrinità”: «Questione di soldi. Hollywood mi ha messo da parte
ta è la stessa di Jim Jarmusch e toognidallavolta“horror
che mi ha giudicato incapace di girare film per il grande pubblico,
cioè dagli incassi paperonici». Una soddisfazione postuma, ma da vivo, se l’è
con il proliferare planetario di fans’club e la continua rigenerazione del
David Lynch: “Che dice, sono in tolta
suo cinema nei remake, dal nuovo 'PH di Wainwright, prodotto nel 2005 dallo
stesso Carpenter, ai due ritorni di )BMMPXFFO, firmati Rob Zombie, nel 2007 e
2009, fino a un immaginoso prequel, nel 2011, di -BDPTB. Senza contare le pabuona compagnia. O no?”
rodie, altra prova di popolarità: $ISJTUJOF in 4DBSZ4DSFBN.PWJF,*MWJMMBHHJP
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PARIGI
N FRANCIA SONO UN AUTORE. In Gran Bretagna, un cineasta. In Ita-
lia, un maestro dell’horror. Negli Stati Uniti, un fallito». E forse
adesso, persino un musicista. «Un azzardo a cui mi ha convinto il
successo inatteso l’anno scorso dell’album -PTU5IFNFT». Tanto
da fare un nuovo album, -PTU5IFNFT**, per l’etichetta di culto Sacred Bones che pubblica le opere di altre registi amanti della musica come David Lynch e Jim Jarmusch e un vero e proprio tour che arriverà anche in Italia
(a Torino il 26 agosto e a Roma il 28). «Non è così sorprendente» spiega l’autore «con un paio d’eccezioni ho sempre composto le colonne sonore dei miei
film da 'PH a 'VHBEB/FX:PSL, dal 4FNFEFMMBGPMMJBa 7BNQJSJ. Perché l’ho fatto? Semplice: sono più veloce di un compositore, più economico
e... vado d’accordo con il regista». Sempre sintetico, John Carpenter taglia
corto anche sulla sua carriera cinematografica. In poco più di quarant’anni, una ventina di film, quasi tutti, alla prima uscita in sala, snobbati dalla critica o dal pubblico, poi regolarmente rivalutati e mitizzati nel
tam tam degli internauti, nelle ridiffusioni tv in Usa (dove nel ’79
Carpenter ha battuto 7JBDPMWFOUP) e nelle riedizioni in dvd, tipo il
reverente cofanetto Blu-ray con )BMMPXFFO e gli infiniti sequel che
l’autore s’era solo degnato di co-sceneggiare: «È stato un modo
per vivere di rendita con i diritti: a ogni sequel, un bel gruzzolo»,
sorride il regista, sessantotto anni, felpa grigia tirata al gomito,
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il pagliaio di capelli ormai candidi raccolti a codino sotto l’immancabile berretto a visiera dei cineasti Usa in trasferta, i lunghi baffi a ‘U’ che spiovono sul volto affilato. «Per me è stata la seccatura, ogni volta, di un paio di notti di lavoro. Mi davo la spinta con boccali
di birra: molto creativa la Budweiser, se ben ricordo. Fa spumeggiare
le idee, evitandoti la sbornia».
Negli Usa sarà pure un fallito, mister Carpenter, ma da bravo autore-cineasta-maestro detiene, proprio a Hollywood, un record storico, il
più grande successo al botteghino d’un film indipendente: «È vero,
)BMMPXFFO era costato, nel ’78, trecento dollari, incassandone quarantasette milioni in Usa e settanta nel resto del mondo». È anche diventato il giro di boa di innumerevoli ”copie”, come 7FOFSEÖ, e omaggi,
dal 'SFEEZ,SVFHFS al primo 4DSFBNdi Wes Craven: «Wes, un grande,
era spiritoso, abilissimo stratega dell’horror di cui si è divertito negli
EFJEBOOBUJnell’episodio 4CBSUBDVT dei 4JNQTPOundicesima stagione e l’eterno )BMMPXFFO strapazzato in almeno quattrocento ammicchi tra cinema e tv:
«È quella che con qualche autoderisione ho battezzato “John’s Revenge”
(“Carpenter: la vendetta”): all’epoca non vi andavo giù, adesso non potete più
fare a meno di me. Di questa sfasatura tra ieri e oggi non ho mai capito il perché: se non in un caso». Quale? «-BDPTB. Per la prima volta disponevo di un
budget vicino agli standard hollywoodiani: quindici milioni di dollari. Mi ero
permesso il lusso, da appassionato di western e dunque di Sergio Leone, di
chiedere le musiche a Ennio Morricone — molto prima di Tarantino !... — anziché ricorrere al mio consueto bricolage al sintetizzatore. Ma il film, uscito
nell’82, fu accolto malissimo: troppo terrificante, troppo pessimista. Tutta colpa di Spielberg». In che senso? «Negli stessi giorni era uscito &5, altro film su
vite extraterrestri, ma accattivante, positivo. Confronto micidiale, rispecchiato dal box-office: Spielberg al primo posto, io al quarantaduesimo con incassi
appena di rattoppo. Per me fu uno scacco davvero bruciante, ero convinto d’avere sfornato il mio film migliore» (oggi, puntualmente, venerato come suo capolavoro). Ma Carpenter reagì subito mettendo a segno il sognante 4UBSNBO,
con Jeff Bridges messia dello Spazio: «È il mio titolo più hollywoodiano, una
specie di &5 adulto. L’avevo girato per porgere le scuse agli Studios. 4UBSNBO
è stato un mea culpa, come per dire: vedete, sono capace anch’io di confezionare un film gentile e romantico».
Non è stata l’unica deviazione dalla horror-ortodossia, dove brilla una perla
musicale, &MWJT, sul re del rock’n’roll. Perché un film su Presley e solo su Presley? «Perché era “the King” e ha continuato a esserlo dopo la morte. Aveva un
carisma speciale, una voce unica. Ha saputo rimettere insieme rhythm’n’blues, blues, gospel e country. Dopo quel telefilm del ‘79 mi hanno chiesto un’altra biografia musicale, questa volta sui Beatles, ma ho rifiutato. Non
perché non li ami, ma la loro storia — almeno quella collettiva — non è così appassionante come l’avventura umana di Elvis». La musica quindi è un punto di
forza del cinema di Carpenter, cruciale puntello del terrore: «È l’espressione
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artistica più diretta. Quando le singole parti di un film sono montate,
la musica è l’intonaco di emozione pura che le salda insieme. È stato
mio padre a iniziarmi: era un violinista classico, ma partecipava anche a sessioni rock e country a Nashville. Sono cresciuto avvolto da
ogni genere di musica. E fin da piccolo ho cominciato a suonare:
violino, pianoforte, ma soprattutto basso. Pensi che il successo di
)BMMPXFFO pare sia dovuto al tema musicale: un hit, poi imitatissimo, che più semplice non si può, basato su una ritmica 5/4 (cinque tempi in una misura) che mio padre mi aveva insegnato al
pianoforte da bambino. L’ho eseguito di nuovo, combinando
svariati effetti sonori. Perché ancora oggi non so scrivere una
sola nota. In una canzone dei titoli di coda in (SPTTPHVBJPB
$IJOBUPXO, oso anche cantare. Trent’anni fa, un po’ per scherzo, ho inciso il mio primo album, 8BJUJOH0VU5IF&JHIUJFT.
Più seriamente ho invece composto la musica di un videogame del ’98, 4FOUJOFM3FUVSOT. Adoro i videogame: ci gioco di
tanto in tanto con mio figlio, John Cody. Ne ho anche sceneggiato uno, 'FBS. E ho anche lavorato, con altri, all’album &MFD
USPOJDBdi Jean Michel Jarre uscito qualche mese fa: lavorato
alla mia maniera, un Logic Pro che ho tormentato per un weekend». Ora viaggia sulle note la “John’s Revenge”? «Perché no? Se per
gli Usa sono diventato uno zombie del cinema, chissà che alla musica
non debba la mia resurrezione».
Ma il cinema allora? Una pietra sopra ? Nell’88 aveva fatto &TTJWJWP
OP, una sorta di metafora in chiave horror dell’era Reagan. Oggi Donald Trump non è abbastanza horror da meritare un suo film ? «È più
che horror: è un grave, reale pericolo. L’horror vero però è la folla che
gli fa ala e lo acclama. Com’è successo, con altri, anche da voi in Italia,
in Europa. &TTJWJWPOP per me era un documentario: la realtà a volte
sa essere più spaventosa degli horror».
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