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Li avrebbe compiuti il 23 maggio ma Andrea

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Li avrebbe compiuti il 23 maggio ma Andrea
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OZZANO DELL’EMILIA (BOLOGNA)
UE ESAMI MANCAVANO, PIÙ LA TESI. Quanti laureandi sono franati
sul traguardo. Anche Andrea Pazienza, genio del fumetto, anzi no, genio del disegno italiano. «La laurea, il Dams me la darà
ad honoremquando avrò sessant’anni», disse, guascone come
sempre, in un’intervista televisiva del 1987. Precisò: «Se ci sarà ancora il Dams, quando avrò sessant’anni». Pausa, sorriso:
«Se ci sarò ancora JP, quando avrò sessant’anni…». Il Dams c’è
ancora, se può consolare. Purtroppo Paz no. Il giorno delle sue
sessanta candeline sta per arrivare, è il 23 maggio prossimo,
ma da ventott’anni il mondo deve andare avanti senza le sue
«vignette» come le sminuiva lui, guascone anche al contrario.
Nessuno sa come sarebbe stato Pazienza a sessant’anni. Immaginarlo pare impossibile come pensare Peter Pan in coda agli sportelli Inps, o il Piccolo Principe che fa le analisi per la prostata. Allora cerco di indovinarlo nella bella faccia di Michele,
suo fratello, che di anni oggi ne ha cinquantotto, quando mi apre la porta del suo appartamento di Ozzano dell’Emilia tappezzato di disegni di Andrea. Ma lui capisce al volo e dice «aspetta», e torna con un disegno. Il profilo di un uomo seduto, stempiato, nasone, cicca in bocca, matita in mano; e il segno è quello unico, inconfondibile, di Pazienza. E c’è una scritta, sotto:
“APaz a cinquantasei anni”. «È venuto fuori tre anni fa dai cassetti di un amico». Paz ha disseminato il mondo di disegni; per fortuna, da qualche anno, i suoi fratelli Michele e Mariella da
una parte e sua moglie Marina Comandini dall’altra stanno facendo salti mortali per recuperarli e ricomporre l’archivio di quello che solo uno sbadato o un ignorante potrebbe rifiutarsi
di considerare un grande maestro dell’immagine del Novecento.
Insomma si immaginò uomo maturo, per non dire vecchio, lui che lo chiamavano «il vecchio
Paz» già a vent’anni. Espressione burbera, ma fisico asciutto, schiena dritta e soprattutto: matita in mano. «Di questo possiamo stare certi: non avrebbe mai smesso di disegnare», commenta Michele. «Ma quando è saltato fuori questo disegno, ci siamo tutti rimasti un po’ così. Per Andrea non esisteva il futuro. Ma il suo presente che valeva il triplo del nostro. Andrea ha vissuto
anni che valgono decenni. Andrea è morto di vecchiaia». Del resto, la sua data di morte l’aveva
scritta lui stesso in una autobiografia: «Morirò il 6 gennaio 1984». Sbagliò per difetto, di quattro anni. Morì a trentadue, una notte di giugno, nel suo cascinale di Montepulciano, dov’era
fuggito da qualcosa che se lo riprese: quell’ultimo fatale “schizzo”, che non era un disegno, di cui nessuno parla, ma tutti sanno.
«Quando guardo le foto di noi insieme», sono tutte lì sotto il vetro della scrivania, «come
credi che mi senta? Ma Andrea non avrebbe
saputo invecchiare. Come le rockstar. La fisicità, i nervi erano la sua vita. Dove voleva arrivare, non credo se lo sia mai chiesto. Cosa voleva fare, lo sapeva. Voleva DBWBSTJMBWPHMJB.
Di cosa? Di tutto quel che gli faceva voglia. Sì,
ma poi?, gli rimproveravo quando studiavamo insieme a Bologna, lui Dams io Agraria.
Poi niente, mi guardava senza capire l’obiezione. La bulimia gli ha riempito la vita di piaceri e di guai, e alla fine gliel’ha portata via.
Ma lui lo sapeva, ha concentrato la vita per fare tutto prima che fosse troppo tardi». Diceva
«la pazienza ha un limite ma Pazienza no», in- dai nervi, disegnava furiosamente, velocissimo, rincorreva tutte le emozioni, poteva comvece c’era anche per lui.
Ma se immaginarsi nel futuro il Dorian muoversi fino alle lacrime o farsi prendere
Gray dei pennarelli l’ha fatto anche lui, alme- dall’adrenalina». Era le sue storie, entrava di
no una volta, proviamo a farlo anche noi. Do- persona nelle sue storie. Nostalgiche, come le
ve lo troveremmo oggi? In una galleria d’ar- estati a San Menaio. O stralunate come le avte? «Le mostre di cose appese al muro lo anno- venture di 1B[F1FSU, lui e Pertini, un libro diiavano, però ha esposto… Era una contraddi- segnato in tre giorni. Cose d’APaz.
E poi, in fondo, tutto cominciò da attore.
zione vivente Andrea. Per un gallerista che
gli fosse simpatico e che lo pagasse bene, lo «In camera nostra, a San Severo, da bambini,
avrebbe fatto». L’antitecnologico Paz se ne fra i due letti lui recitava tutti i personaggi
andò sulla soglia dell’era digitale. Oggi sareb- delle storie che già disegnava sui quaderni di
be davanti a un computer? «Ma vuoi scherza- scuola, serate intere di storie improvvisate, fire? Ad Andrea non chiedevo neanche di attaccare la spina del televisore. Disegnare al mouse? Da escludere». Ma qui interviene Nicola,
che dello zio ha un po’ l’espressione, e come
lui fa il liceo artistico: «Papà, esistono le tavolette elettroniche, tu disegni come con la matita e compare sullo schermo». Del resto, il polimorfo Andrenza fece in tempo a usare la novità tecnologica del fax. Lo disegnò colQPTDB
nero, il suo fax, entusiasta come un bambino
di non dover più andare in posta per spedire
le vignette a -JOVT o al $BOOJCBMF: «Anche
Spaz ha il telefacs! Il telespaz!». Mai sottovalutare le capacità di adattamento del genio.
E se fosse diventato un attore? Con i poster
per Fellini, un piede a Cinecittà ce l’aveva…
«Perché no? Era bello, un adone, era seduttivo, e lo sapeva. Ma avrebbe potuto recitare solo nei panni di se stesso». Anche le sue TUVSJFM
MÒU forse erano proiezioni di sé. «Ma certo. Lui
era tutti i suoi personaggi». Chi in particolare? «Forse Colasanti il bello, di certo Pompeo,
che è la sua cosa più grande». Perfino Zanardi? Il tremendo Zanardi, spietato, cinico, violento? «Quando Andrea disegnava, era in un
altro mondo. Cuore, cervello, mano legate
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no a quando mamma ci chiamava per cena.
Neanche una di quelle storie è mai arrivata a
una conclusione…». Eccoli, quei quadernini.
La mano è già quella, l’intreccio fra parole e
segni è già quello. Bisogna credere nel Dna, il
genio innato esiste. E sul frontespizio di uno
di quei quadernini, cosa c’è scritto mai? Una
data, 1968: Andrea aveva dieci anni. E sotto,
una scritta: «può durare fino al 2001». Ci pensava già, al futuro remoto. Ma l’opera del genio dura anche di più. È l’uomo, purtroppo,
che ha una scadenza.
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UEST’UOMO È UN GENIO,
pensò il teenager di
allora, e l’adulto di oggi
non ha cambiato idea.
Quando lessi
“Pentothal” la prima volta, non solo
non conoscevo “Alter alter” (la rivista
che per prima pubblicò la storia) e il
significato dell’acronimo Dams
(Umberto Eco coiffeur pour Dams
recitava un graffito bolognese di cui
avrei imparato a ridacchiare anni
dopo), ma ignoravo anche cosa fosse il
Settantasette, e i quattro quinti dei
riferimenti e delle citazioni con cui
Pazienza riempiva la sua opera
d’esordio erano per me l’equivalente
di un frammento eracliteo. Eppure,
credo, colsi l’essenziale. Per esempio il
fatto che Pazienza/Pentothal giocava
magnificamente a fare l’ospite
ingrato. Sì, d’accordo, faceva parte di
questo famoso Movimento, ma se ne
teneva al tempo stesso ai margini. Ok
ok, le assemblee e i collettivi erano
importanti, ma lo erano di più le
ragazze, specie quelle che ci avevano
tradito, e più delle ragazze era
importante un languore, uno strano
stato d’animo sospeso tra allegria e
sconforto, l’atroce sentimento di chi
ha perduto qualcosa ancor prima che
fosse recuperabile e ora fa il giocoliere
per rimandare l’appuntamento con
un qualche tipo di morte.
Tra una vita da integrato e una
morte da terrorista, l’arte può essere
la risposta. Anche questo fu molto
chiaro al sedicenne ignorante di tutto
che leggeva per la prima volta Andrea
Pazienza.
La sua arte avrebbe salvato molti di
noi ma non se stesso. Così a distanza di
tempo ci ritroviamo sempre qui,
bloccati tra rimpianto e gratitudine.
Avevo ormai compiuto quarant’anni
quando ricevetti la telefonata di una
libraia dall’inconfondibile accento
meridionale. Mi invitava a fare un
reading lì da loro. “Dov’è la vostra
libreria?”, domandai. “San Severo”,
disse la signora. E io, convinto che la
libraia avrebbe capito al volo (così
successe), che quell’accenno a
“Sturiellet” sarebbe stato per
noi un collante, un motivo di
vanto reciproco e un segno di
riconoscimento tra orfani, presi
coraggio e declamai a occhi chiusi:
“oh San Severo / la città del mio
pensiero / dove prospera la vite / e
l’inverno è alquanto mite”.
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LONDRA
N TEMPO, ALL’EPOCA DELLE GRANDI migrazioni verso gli Stati
Uniti, si affermava che in America le strade fossero lastricate d’oro: era un modo di dire, naturalmente. Una particolare zona di Londra, viceversa, è davvero lastricata con il
prezioso metallo: solo che in questo caso l’oro è sotto il
manto stradale, non sopra. Da qualche parte nel sottosuolo di Threadneedle street, la via simbolo della City, si dipana un labirinto di otto immensi caveau della Banca d’Inghilterra in cui sono custoditi lingotti per un valore di duecento miliardi di dollari. Altri sotterranei corazzati, dislocati in siti della cittadella finanziaria e altrove, mantenuti
rigorosamente segreti, salvaguardano un quinto delle riserve aurifere mondiali. Almeno trenta nazioni e venticinque grandi banche internazionali preferiscono parcheggiare il proprio oro nella capitale britannica: perché è la piazza
più importante in cui viene acquistato e perché è considerata più sicura di altri posti. Le
frotte di pendolari e turisti che affollano il quartiere lo ignorano, ma svariati metri sotto il
marciapiede sul quale camminano è nascosto uno dei tesori più ricchi della Terra.
Per darci un’occhiata bisogna sottoporsi a un trattamento da film di 007: viaggiare su
auto dai finestrini oscurati per non capire dove si va, consegnare il telefonino e ogni altra
apparecchiatura digitale, passare attraverso un metal detector. Pesanti chiavi aprono serrature di cancelli d’acciaio: un sistema antiquato, ma preferito a codici elettronici più facilmente scassinabili dagli hacker. C’è ancora una barriera da superare: il funzionario incaricato della visita dice una frase in un microfono, un computer riconosce la voce, l’ultima
porta si apre. Manca solo che ti mettano un cappuccio in testa. Quando per così dire te lo
levano, la visuale ricompensa di ogni restrizione e controllo: uno stanzone pieno di file di
lingotti d’oro a perdita d’occhio, perfettamente allineati su scaffali numerati di colore blu,
ciascuno leggermente diverso dall’altro, ma tutti con lo stesso peso (circa dodici chilogrammi) e lo stesso valore (mezzo milione di dollari). Il caveau è immenso, con una ragio-
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ne: Londra, diversamente da altre città,
giace su una superfice d’argilla. Se i lingotti fossero disposti da terra fino al soffitto, il
terreno gradualmente cederebbe sotto il loro peso. Perciò ce ne sono al massimo sei
uno sull’altro, dall’alto in basso, e serve spazio in orizzontale per ospitarne abbastanza. Da fuori non arriva alcun rumore: le pareti sono di cemento armato, a prova di
bomba. L’aria sembra immobile. E non c’è
alcun odore: QFDVOJBOPOPMFU, come dicevano i latini, ma in senso letterale. Pare di essere nel forziere di Paperon de’ Paperoni.
Eretti negli anni Trenta, originariamente i sotterranei di Threadneedle street erano la mensa degli impiegati della Banca
d’Inghilterra. Durante la Seconda guerra
mondiale, quando Churchill ordinò di trasferire le riserve d’oro in Canada nell’eventualità che Hitler conquistasse anche la
Gran Bretagna, furono adibiti a rifugi anti
aerei. Da allora queste cripte misteriose (si
sussurra che ce ne siano anche al di fuori
della City: tre sarebbero sotto la M25, la
sterminata autostrada che corre tutto attorno a Londra) rappresentano una sorta
di assicurazione contro le incertezze dell’economia globale. L’oro è l’unità di misura
della maggior parte delle transazioni mondiali. Il suo prezzo è il barometro della fiducia dei consumatori. E come fonte d’investi-
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mento rimane in assoluto — è il caso di dire
— la più solida: quando sui mercati cresce
l’instabilità, le barre gialle diventano l’estremo riparo. L’equivalente di infilare i soldi sotto il materasso, ma su scala parecchio
più grande: soltanto nei caveau della banca
centrale inglese ci sono 5.134 tonnellate
d’oro. E soltanto in un giorno, la compravendita dell’oro è un mercato da centoventi miliardi di dollari.
Non a caso, in tempi difficili il prezzo
dell’oro sale. Le ansie subentrate all’attacco terroristico all’America dell’11 settembre 2001 lo fecero triplicare da 250 a 750
dollari l’oncia entro il 2006. L’anno seguente raggiunse per la prima volta i mille dollari, continuando a crescere con il collasso finanziario del 2008. È vero che dopo avere
sfiorato i duemila dollari l’oncia (nel
2011), ha perso terreno e in certi momenti
ha addirittura dato l’impressione di precipitare, ma fra le cause ci sono speculazioni e
manovre occulte: come quella della Cina,
che secondo gli specialisti non dice il vero
sulle proprie riserve per far scendere il valore dell’oro e quindi acquistarlo al ribasso.
Alcuni esperti, riporta il 'JOBODJBM5JNFT,
sono convinti che Pechino sia più vicina
all’ammontare di riserve della Germania
(3.400 tonnellate) che alle sue dichiarate
1.658. Come che sia, dall’agosto scorso,
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quando si trovava nuovamente a mille dollari, l’oro ha ripreso un’ascesa costante, toccando 1.250 dollari in marzo e 1.272 dollari
nei giorni scorsi.
«L’oro tornerà a brillare», assicura Peter
Schiff, capo di un fondo di investimenti. «È
matematicamente garantito che crescerà», concorda il broker Bill Holter. «Con l’oro», spiega, «non devi avere fretta o giudicarlo a breve termine. Non hai altro da fare
che chiudere gli occhi e sapere che il tempo
è dalla tua parte». Non tutto l’oro del mondo, beninteso, viene coniato in lingotti come quelli che finiscono nei forzieri sotto la
City. Soltanto il 32 per cento dell’oro mondiale è conservato sotto chiave per conto di
governi, banche e investitori istituzionali:
un altro 12 per cento viene usato per scopi
industriali, per esempio nei circuiti elettronici, e più di metà è utilizzato per confezionare gioielli. Cina e India sono il più grande
mercato per questi ultimi, rappresentando
insieme oltre il cinquanta per cento della
domanda mondiale: una tendenza recente, frutto della prodigiosa crescita economica delle due potenze emergenti, considerato che nel 2000 occupavano appena il dieci
per cento del mercato nel settore. Ma non
c’è gioiello che possa dare il senso di sicurezza di un lingotto: basti pensare che una
sola di queste barre vale come il prezzo me-
dio di una casa a Londra.
E a testimoniare il boom dell’oro contribuisce la recente apertura della prima
“boutique” londinese di lingotti, dove
chiunque può portarsene uno a casa — a
condizione di avere una cassaforte altrettanto sicura dei caveau della Bank of England e una buona carta di credito (possibilmente “gold”). Il negozio si chiama Sharp
Pixley ed è appropriatamente situato a St.
James, il quartiere più aristocratico della
metropoli, fra due celebri club privati per
gentiluomini, White’s e Boodle’s, in un edificio di proprietà di lord Sugar, star della
trasmissione televisiva 5IF BQQSFOUJDF (-BQQSFOEJTUB), versione inglese di quella
americana condotta anni fa da Donald
Trump. All’interno, l’atmosfera è appunto
quella di un gentlemen’s club: mogano, ottone, enormi candelabri. I lingotti in vendita sono più piccoli di quelli custoditi nel sottosuolo della City, ma non tanto piccoli: ce
n’è uno da un chilogrammo che costa 28mila sterline (37mila euro). E se più che un investimento vi basta portare a casa un souvenir, Sharp vende anche lingotti da un
grammo: alla più modica cifra di 33 sterline (44 euro). Esibendolo al ritorno in patria, potrete comunque sostenere che a
Londra le strade sono lastricate d’oro.
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ETAFORA, SINEDDOCHE, zeugma, ipallage, il
rarissimo cleuasmo... Figure e tropi retorici, certo. Nomi per lo più astrusi, resi a volte ancor più opachi da dubbi tenaci sugli
accenti tonici: metonìmia o metonimìa?
Ossìmoro o ossimòro? Definizioni risalenti
a trattati antichissimi, con differenze tassonomiche sottili o meno sottili fra autore
e autore da far disperare gli studenti universitari che devono passare il relativo esame con un professore di pignolo sadismo.
Non che la materia sia priva di fascino,
anzi. È facile a ridursi a un mucchio di segatura erudita, ma nella sostanza è il risultato del primo sguardo che l’umanità ha gettato su uno dei fenomeni più irriducibili, e costitutivi, del suo linguaggio: l’ambiguità. Ah, se ogni parola avesse significato univoco, e fissato una volta per tutte! È il sogno inseguito dagli ingegneri dei
software e degli algoritmi, alla ricerca del Sacro Graal del web semantico, della
traduzione automatica, insomma della macchina che parla e intende. Ma invece
esistono le metafore e le metonimie ed esiste tutto il resto. Uno studioso i cui libri
non rientrano nelle bibliografie degli informatici, Gérard Genette, ha detto che
fra il senso letterale (la fiamma del fuoco) e il senso esteso (la fiamma dell’amore)
di una espressione linguistica si apre uno spazio. La «figura» (in questo caso, la metafora) è la forma di quello spazio. La vera
macchina è la lingua, e ha trazione umana: sospinta dalla nostra immaginazione apre a
ogni momento nuovi spazi. È perfettamente
illusorio pensare a un linguaggio fatto solo di
sensi propri e letterali. Senza le figure retoriche non sarebbe impossibile la poesia: sarebbe impossibile direttamente la lingua.
Verso la metà del secolo scorso, la retorica
ha conosciuto una nuova fioritura, grazie a
studiosi come lo stesso Genette, Roland Barthes e la coppia Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, il cui 5SBUUBUPEFMMBSHPNFO
UB[JPOF uscì in traduzione italiana (Einaudi,
1976) con una prefazione di Norberto Bobbio. Si scopriva allora quanto la retorica, tenuta fino a quel momento come disciplina polverosa e vana, spiegasse del discorso politico, di
quello giuridico, di quello dei mass-media, di
quello pubblicitario — oltre che di quello letterario e artistico. Da Aristotele, Cicerone e
Quintiliano nozioni come “metafora” e “meto*--*#30
i$)&'*(63"w nimia” si spostavano ai saggi linguistici di Ro%*$&$*-*"$".1*30/* man Jakobson e a quelli semiotici di Umberto
260%-*#&5 Eco, per arrivare sino all’ermeneutica di Paul
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Ricoeur e alla psicoanalisi di Jacques Lacan.
µ45"503&"-*;;"50 Ma certe tendenze del pensiero a volte dege*/$0--"#03";*0/& nerano in moda.
Poteva, la neoretorica, produrre una neo$0/-"-*#3&3*"
055*.0."44*.0%*30." scolastica? Beh, non si può dire che non ci ab%07&4"3®13&4&/5"50 bia provato. I nuovi manuali di letteratura
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per l’”analisi del testo”. Studenti attoniti si ritrovarono costretti a individuare, sottolineare e magari commentare zeugmi carducciani, sinestesie dannunziane, ipallagi foscoliane. Ne ricavarono l’incancellabile impressione che lo studio della letteratura consista nel tramutare testi potenzialmente piacevoli, anche se scritti magari in un italiano non proprio contemporaneo, in labirinti popolati da mostri forniti di nomi da creature mitologiche.
Appare quindi ardito, se non proprio bizzarro, il libretto con cui le colte edizioni
Quodlibet hanno deciso di inaugurare assieme alla libreria Ottimomassimo una
collana di libri per ragazzi («Ragazzini»). Il libro si intitola$IFGJHVSB. L’autrice
Cecilia Campironi ha compilato, e illustrato (con figure «vere e proprie»: disegni)
un piccolo catalogo di figure retoriche, dalla litote alla parafrasi. I mostri mitologici della retorica scolastica si travestono da personaggetti eccentrici. C’è il signor
Litote che ha sempre il torcicollo per quanto scuote la testa a furia di negare il contrario di quel che vuol dire: «non mi fa impazzire» quando qualcosa non gli va, e così via. Lo zio Cacofemismo usa volgarità quando vuole essere gentile, e di suo figlio
dice: «Quel delinquente è sempre il primo della classe». Ai figli, invece, il mago Ossimoro dice «Correte piano!» mentre Johnny Zeugma dichiara «Mi mangio un panino e un bel succo».
Non si può essere davvero certi che l’esperimento riesca a ritrasformare la
zucca della retorica scolastica in una comoda e favolosa carrozza su cui compiere
viaggi incantati nei territori letterari. Ma certo $IFGJHVSBha almeno il merito di
aver rivelato l’anima vera di questi attrezzi da anatomista filologico — che in mano a ragazzini non possono che restare inerti. È l’anima giocosa della lingua che
sposta sillabe e concetti, mette qualcosa dove non dovrebbe stare, trova una fiamma nell’amore, dona dita rosate all’aurora, ci fa vedere il mondo come non è, e come, eppure, è.
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ba. Con la stessa precisa, impietosa indolenza con cui abbiamo
operato su Leopardi, Ungaretti
e Pascoli, stamattina in classe
ci accaniamo sul lavoro di Saba, su quell’Amai che pare scritto in una lingua che questi tredicenni svogliati non conoscono.
Amai trite parole che non uno / osava.
All’ultimo banco Gianluca Polito, occhi
aperti e sguardo fisso nel vuoto, dorme.
— Polito — lo sveglio: si è perso l’enjambement. Pur di mettermi a tacere, afferra
la matita e finge di setacciare la pagina per
un po’ prima di alzare le spalle, sconfitto.
Ormai gli è scappato. Pazienza.
M’incantò la rima fiore / amore, la più
antica difficile del mondo.
— C’è un motivo se questa emme ritorna, non trovate?
Non trovano. Fissano la poesia un po’
stupiti per l’originalità di questa tortura:
lo spargimento di parole casuali su carta
da rimettere in ordine (soggetto, verbo e
complemento); la ripetizione di lettere, rime, parole da evidenziare; e poi ossimori,
antitesi, climax, malattie che vanno prese
e non evitate. Bel modo di passare la mattina e la vita.
Sentono qualcosa di insidioso nello sforzo fatto per capire cosa voglia dire il poeta.
Una fatica così immane, pensano, non può
essere mai piacevole, sensata, bella. Io so
che può esserlo invece, ma non ho ancora
le prove. Le cerco di verso in verso.
Amai la verità che giace al fondo.
Li invito a cerchiare il verbo perché ripete amore e perché è passato remoto, il tempo delle cose sempre esistite. Loro eseguono, pazienti. Qualcuno ricorda come il participio passato di Ungaretti raccontava
quelle perdute e morte, il gerundio di Leopardi quelle presenti e vive. Polito si stende sul banco, tormenta un compagno, chiede che ora è. Lo ignoro.
— Ma qual è la verità che giace al fondo?
Loro mi guardano incerti. Non sanno di
saperlo: cercano la risposta nelle note come gli abbiamo insegnato. Allora mi viene
in mente Polito due anni fa: prima lezione
di poesia e il suo sguardo annoiato, perso.
— A che serve? — aveva chiesto.
A niente, volevo rispondere, per questo
la facciamo. Invece l’ho fatto stare zitto e
abbiamo cominciato gli esercizi di scrittura creativa sulle figure retoriche, la scuola
mascherata da gioco. Hanno scritto Rosso
come per dieci volte sul quaderno inventando similitudini a partire da un’anafora.
Quando Polito ha letto il suo Rosso come il
sangue di dieci animali diversi spappolati
sull’asfalto dalla Seicento del cugino, abbiamo riso e ci siamo sentiti un po’ felici.
Amo te che mi ascolti e la mia buona /
carta lasciata alla fine del mio gioco.
Adesso finiamo di leggere e non siamo
più felici o più tristi. E quindi a che serve?
Mi chiedo, tanto non mi sente nessuno,
mentre segnalo un altro enjambement,
(non è lancinante la separazione tra aggettivo e nome?) e l’allitterazione di una vocale.
A che serve? Mi sussurra ancora Polito
all’orecchio e allora la smetto e chiedo a
tutti un verso, uno solo, quello che li ha toccati. Ci mettono qualche minuto a scegliere quello giusto: scardinano le strofe, lo
strappano al resto, poi, uno per volta, lo
leggono e così la poesia, rimescolata, risuona nella classe come una cosa nuova, un arrangiamento, un’improvvisazione, una
presa di possesso. Così, prima ancora di capire perché, scoprono che un verso appartiene a tutti.
O quasi.
— E tu hai scelto, Polito?
Lui guarda me, la poesia. Stringe gli occhi.
— Amo te che mi ascolti — dice.
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monumentali e un singolo prepotentemente entrato nell’albo d’oro del pop (#F
DBVTFUIF/JHIU), Patti Smith scompare per dieci anni dalle scene. La poetessa punk — cult singer in America, eroina in Europa, musa di artisti come Bono e Michael Stipe — si dilegua nel Michigan a far la casalinga: moglie di un
vate protopunk (Fred “Sonic” Smith
degli MC5), madre di due figli. Quando riappare, precocemente vedova, è
un’artista libera, poetessa, scrittrice e rockeuse senza confini. .
5SBJO, ora in uscita anche in Italia, è il libro di memorie che fa seguito
all’acclamato +VTULJET(2010), in cui raccontava l’iniziazione artistica nella New York dei primi anni Settanta e la straordinaria complicità sentimentale e artistica con il fotografo Robert Mapplethorpe.
Compirà settant’anni a dicembre, un’età ingombrante per il
rock’n’roll. Non per lei.
«Non ho mai ragionato in termini di carriera. Ho pensato alla vita
e al lavoro. Meglio, ho cercato di conciliare vita e lavoro. Ora sono serena, i miei figli sono cresciuti e ho ancora parecchi progetti in cantiere, un libro appena uscito e uno che sto scrivendo. A questa età sei costretta a fare delle scelte. E ci mancherebbe altro che la carriera sia
una priorità».
Scrittrice e poetessa: ha cominciato a farlo fin dagli esordi. Considera il successo di “Just Kids” e di “M Train” il coronamento di un
sogno che la musica non è riuscita a realizzare?
«Sì, perché è quel che volevo essere da bambina. Per questo, a costo di sacrificare la musica, per tutta la vita ho continuato a scrivere,
a studiare, a leggere. Le mie canzoni nascono dalle parole, dalle prime poesie. La scrittura è stata una disciplina quotidiana».
La prima volta che c’incontrammo, nel 1977, raccontò delle visioni che aveva da adolescente, quando era affetta da quelle terribili
febbri reumatiche e l’immagine di Rimbaud le galleggiava davanti agli occhi insieme al fiume di parole in parte finite nell’album
“Horses”, uno dei più influenti della storia del rock. Fu quello il
suo esordio letterario?
«All’epoca non ero un granché come poetessa. Non sono stata né
la prima né l’ultima a scrivere poesiole a quell’età. La verità è che non
saprei indicare una data d’inizio, scrivevo e scrivevo, come oggi scrivo e scrivo: i miei sogni, il quotidiano, anche quando non è straordinario, anche quando ha il tono di un tedioso diario».
Era consapevole, quando arrivò a New York, che stava per iniziare un percorso che l’avrebbe catapultata nel mondo dell’arte?
«Sì, anche se arrivai in città per motivi molto più pratici: sbarcare
il lunario. Sapevo però che volevo dedicarmi a quel che stavo studiando, per questo scelsi Manhattan e un’area precisa, il Village, dov’era
in atto una rivoluzione culturale. Volevo entrare in contatto con quel
mondo, non importa se per riuscirci dovevo fare la cameriera o la
commessa in un negozio di libri, dove di nascosto dormivo perché
non potevo permettermi una camera in affitto. Neanche mi sfiorava
l’idea del successo, volevo consegnarmi al mondo dell’arte. Non era
difficile nella New York dell’epoca, una città povera, sull’orlo della
bancarotta, tutt’altro che costosa, smisuratamente stimolante e
creativa».
L’euforia di quegli anni, magistralmente raccontata in “Just
kids”, ha trasformato, fatto insolito, un’autobiografia in un caso
letterario. Più romanzo che memoir.
«Questo è il mio obiettivo, raccontarmi come in una fiction, non
riuscirei a descrivere scientificamente le mie esperienze. È il più
grande complimento che abbia ricevuto: un’autobiografia all’altezza di un libro di fiabe o di un romanzo russo — il mio modo di trascinare il lettore dentro la storia, evitando la fredda cronologia degli eventi. Alla fine è una storia d’amore e d’amicizia strettamente connessa
col mondo dell’arte. Ci sono sentimenti senza tempo in +VTULJET».
Che emozioni voleva suscitare scrivendo “M Train”, che nelle prime pagine definisce “uno scritto sul nulla”?
«+VTULJET, una promessa fatta a Robert (Mapplethorpe) prima
della morte, è stato un libro che ha richiesto uno sforzo enorme, emotivo e di memoria. Questa volta volevo scrivere una storia meno impegnativa, qualcosa che nasce una mattina per caso senza pensare a
uno sviluppo, tantomeno a un finale. Per questo l’ho chiamato .
5SBJO, che sta per Mind’s Train, un treno della mente che corre sulle
rotaie della memoria senza una direzione precisa».
Come cambiò la sua vita quando incontrò e sposò Fred “Sonic”
Smith?
«Avevo trent’anni vissuti intensamente. Gli anni del rock&roll erano stati meravigliosi ma anche logoranti e oltretutto non mi sentivo
pienamente realizzata come artista. Non c’era più tempo per la solitudine, per la scrittura, per la poesia. Tantomeno per l’amore. Quando incontrai Fred l’intesa fu così forte e perfetta che eclissò d’un colpo tutto il resto. Volevo progredire, fare di più, fare cose diverse.
Quando ami qualcuno smetti di sentirti al centro dell’universo, poi diventano i figli la tua priorità. Anche un artista deve diventare più disciplinato e responsabile. In pochi anni mi sono innamorata, sono diEL 1979, DOPO QUATTRO ALBUM
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ventata madre, infine vedova. Come non cambiare e crescere dopo
tre eventi del genere?».
“M Train” è un libro distensivo, ma anche carico di lutto e solitudine. Sembra quasi un miracolo che sia riuscita a scriverne una buona parte in isolamento nel bar sotto casa e in altri caffè in giro per
il mondo, considerando la sua popolarità.
«Non ho mai vissuto come una celebrity, non ho mai avuto il tenore di vita di una rockstar, vivo in semplicità e ho un’età che incute rispetto. Mi piace parlare con la gente, ma se devo lavorare divento scostante».
Quanto hanno contribuito quegli anni lontana dal palcoscenico a
formare l’abile scrittrice che è diventata?
«Decisi di ritirarmi dopo i due megaconcerti di Firenze e Bologna.
La vita con Fred fu il paradiso che sognavo. Nonostante gli impegni
domestici riuscivo a ricavarmi del tempo per scrivere, senza pensare
alla pubblicazione o a eventuali editori. Non ci sarebbe stato +VTU
LJETse non avessi migliorato le mie qualità narrative in quegli anni a
Detroit».
Ha perso suo marito e suo fratello in rapida successione, come ha
elaborato il lutto?
«Non puoi permetterti di arrenderti al dolore quando hai due bambini in casa, una di sei uno di dodici anni, e un conto in banca che langue. Ero devastata, ma ho dovuto mettermi l’elmetto e tornare in
guerra. Quel che ho fatto è lavorare per garantire loro una vita stabile e a me la libertà di agire da adulta in estrema libertà».
Rimpianti?
«Uno solo. Non essere mai stata in Europa con Fred».
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UATTRO VENTILATORI da soffitto ruotano sulla mia testa. Il
Café ’Ino è vuoto, a parte il cuoco messicano e un ragazzo
che si chiama Zak, che porta la mia solita ordinazione: toast integrale, un piattino di olio d’oliva e caffè nero. Mi rannicchio nel mio angolo, con ancora addosso cappotto e berretto di lana. Le nove del mattino. Sono la prima cliente. Bedford Street
mentre la città si sveglia. Il mio tavolo, con la macchina del caffè da un
lato e la vetrina dall’altro, mi dà un senso di riservatezza, dentro al quale mi ritiro in un’atmosfera tutta mia. La fine di novembre. Il piccolo caffè è gelido. Ma allora perché i ventilatori sono in funzione? Forse se li
guardo abbastanza a lungo anche la mia mente si metterà a girare.
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Nel 1973 mi trasferii in un’ariosa stanza intonacata con cucinino in
quella stessa via, a due isolati dal Caffè Dante. La sera potevo sgattaiolare dalla finestra davanti, sedermi sulla scala antincendio e osservare
quello che succedeva al Kettle of Fish, uno dei bar frequentati da Kerouac. All’angolo con Bleecker Street c’era il chioschetto di un giovane
marocchino che vendeva involtini fatti sul momento, acciughe sotto sale e mazzetti di menta fresca. La mattina mi svegliavo presto e facevo
provviste. Mettevo a bollire l’acqua, la versavo nella teiera piena di menta e passavo i pomeriggi a bere tè, fumare pezzetti di hashish e leggere
le storie di Mohammed Mrabet e Isabelle Eberhardt.
Due anni prima, a Detroit, avevo conosciuto il musicista Fred Sonic
Smith. Era stato un incontro inaspettato che aveva cambiato lentamente il corso della mia vita. Il desiderio che provavo per lui aveva permeato
tutto: le mie poesie, le mie canzoni, il mio
cuore. A fatica avevamo continuato a condurre esistenze parallele tra New York e Detroit: brevi incontri che finivano sempre con
separazioni strazianti. Proprio mentre stavo decidendo dove installare un lavello e la
macchina del caffè, Fred mi implorò di andare a vivere con lui a Detroit. Niente sembrava più vitale che raggiungere il mio amore e
sposarlo, dando l’addio a New York e ai miei
progetti laggiù. Raccolsi le mie cose più preziose e mi lasciai tutto il resto alle spalle. Ma
non m’importava.
Mancava qualche mese al primo anniversario di matrimonio quando Fred mi disse
che se gli promettevo di dargli un figlio mi
avrebbe portato ovunque volessi. Senza esitare scelsi Saint-Laurent-du-Maroni, una città di frontiera nel Nordovest della Guyana
francese, sulla costa atlantica settentrionale del Sud America.
Nel %JBSJPEFMMBESP Jean Genet ha scritto
con devota empatia dei detenuti là incarcerati e di Saint-Laurent come
terreno consacrato. Poiché era improbabile che Genet — ormai settantenne e, a quanto si diceva, cagionevole di salute — potesse recarsi a
Saint-Laurent con le proprie forze, pensai di portargli io terra e sassi.
Fred, spesso divertito dalle mie idee donchisciottesche, non prese alla
leggera la missione. Accettò senza discutere. Scrissi a William Burroughs. Amico di Genet e dotato della sua stessa sensibilità romantica, promise che a tempo debito mi avrebbe aiutata a fargli avere i sassi. Per prepararci al viaggio, io e Fred passavamo le giornate alla Detroit Public Library a studiare la storia del Suriname e della Guyana Francese. Non vedevamo l’ora di esplorare un posto dove nessuno dei due era mai stato.
Fred acquistò mappe, vestiti color kaki, traveller’s cheque e una bussola; si tagliò i lunghi capelli sottili; e comprò un dizionario francese. Se abbracciava un progetto, allora si preparava per bene. Tuttavia non lesse
Genet. Lo lasciò a me.
L’Hotel Galibi era spartano ma confortevole. Sulla toeletta c’erano
una bottiglia di cognac annacquato e due tazze di plastica. Stremati ci
addormentammo, malgrado il nuovo picchiettare della pioggia sul tetto di lamiera ondulata. Al risveglio ci attendevano scodelle di caffè. Il sole della mattina era forte. Misi ad asciugare i nostri vestiti nel patio. C’era un piccolo camaleonte mimetizzato nella camicia kaki di Fred. Appoggiai su un tavolinetto tutto quello che avevamo in tasca. Una mappa afflosciata, scontrini bagnati, frutta smembrata, gli onnipresenti plettri
di Fred. Verso mezzogiorno un muratore ci accompagnò in macchina
ma le tartarughe stavano deponendo le uova. Qualche pollo ruspante
razzolava nella polvere e c’era una bicicletta capovolta ma non sembrava ci fosse nessuno in giro. Il nostro autista entrò con noi da un basso arco in pietra e poi se la squagliò. Il recinto carcerario aveva l’aspetto di
una città prima fiorente e poi tragicamente defunta: una città che aveva corrotto le anime e traghettato i loro involucri sull’Isola del Diavolo.
Io e Fred ci muovevamo in silenzio alchemico, attenti a non disturbare
gli spiriti regnanti.
Scavai pochi centimetri per cercare i sassi che potevano essere stati
calpestati dai piedi callosi dei detenuti o dalle suole dei pesanti scarponi
calzati dalle guardie. Ne scelsi con cura tre e li misi in una grande scatola
di fiammiferi Gitanes, lasciando intatti i pezzetti di terra che penzolavano. Fred mi diede il suo fazzoletto per pulirmi dalla terra e poi lo scrollò
ricavandone un sacchetto per la scatola. Me lo porse: il primo passo in direzione delle mani di Genet.
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NA BATTERIA PER AMICA. NON È ROBA PER MUSICISTI, la sequenza di botticelle curate come bambini cagionevoli. Piuttosto, la dimora protetta
di un liquido che entra nel primo vasello come semplice mosto, per
uscire dall’ultimo — dopo un riposo lungo, lunghissimo — prezioso come l’oro. Il tempo delle fragole è il suo tempo: basta una ciotola di frutti coltivati senza chimica, al meglio della maturazione, e un filo impercettibile di questo straordinario sciroppo d’uva invecchiato, per offrire un dessert di rara eleganza e golosità.
La storia dell’aceto tradizionale balsamico è un affresco di facce,
luoghi e tavole opulente, legati nei secoli da un gioiello gastronomico
celato ai più. Non per snobismo, né per voglia di anonimato. A fare la
differenza rispetto alle superstar dell’alta cucina — caviale e tartufo
bianco su tutti — una certa natura scontrosa, che rende il suo racconto difficile. Come spiegare
che un aceto può costare quanto il Barolo più pregiato?
Le parole per dirlo sono facili, all’inizio. Si parte da uve doc delle province di Modena e Reggio
Emilia, rivali millenarie perfino nel disciplinare. Se ne fa mosto, cuocendolo con la pazienza delle
donne di lì. Lo si lascia decantare e raffreddare, perché riprenda equilibrio e vigore.
Solo a quel punto, come in uno spartito scritto da mani antiche, arriva il momento della batteria. Che per tradizione è composta da una serie di botti — da cinque a sette — dalla più grande alla
più piccina e di dimensioni più o meno ovoidali, forgiate da artigiani sapienti e pignoli utilizzando
legni diversi, pregiati. Diversi perché ogni legno regala al mosto dormiente il meglio di sé: il
Una preparazione che non ha mai dismesso i
castagno i suoi tannini, che colorano e preserva- suoi rituali, misto stupefacente di tecnica e anno, il ciliegio la morbida dolcezza, il rovere il de- tropologia. Così, a dispetto delle produzioni a
licato profumo della vaniglia (come ben sanno i tempi iper compressi del Terzo millennio e delproduttori di vini da invecchiamento), il gelso le brame dell’agroindustria, che cerca di carpiquel respiro d’ossigeno che aiuta l’evoluzione, re quote di mercato con imitazioni sbiadite, a
il ginepro l’incanto delle essenze resinose.
Modena e Reggio Emilia a gareggiare per il titoQui le parole si fanno più complesse. Occorre lo di aceto migliore — dal Palio Del Balsamico
entrare nel merito di rincalzi e travasi, ovvero Tradizionale di Modena di Spilamberto al Palio
dell’intervento dei maestri del balsamico, che Matildico — sono le famiglie, gelosi custodi di
rimediano al calo naturale del mosto, figlio mosti e batterie, con migliaia di assaggi e mardell’evaporazione, ripareggiando il livello del chio a fuoco sulla batteria del vincitore.
vasello più piccino con l’aceto di quello preceSe il tradizionale balsamico Dop vi affascina,
dente e così via, risalendo fino all’ultimo, rab- non separate mai i due aggettivi (il balsamico
boccato con il mosto di base. Il tutto, cadenzato Igp è tutt’altra cosa), e utilizzatelo come Marisecondo il ritmo naturale delle stagioni e degli lyn Monroe con lo Chanel n.5: poche gocce per
umori del clima, visto che le batterie sono rigo- conquistare l’amato bene. A tavola, naturalrosamente custodite nei sottotetti di case se- mente.
gnate dal tempo.
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INGREDIENTI:
1 KG. DI PATATE PER GNOCCHI; 300 G. DI FARINA PER PASTA
1/2 LT DI BRODO VEGETALE ALLE CROSTE DI PARMIGIANO REGGIANO
200 G. DI PARMIGIANO GRATTUGIATO; 40 G.DI SALE FINO
45 G. DI AMIDO DI MAIS; 1 MULINATA DI PEPE BIANCO
1 GRATTATA DI NOCE MOSCATA; 18 PUNTE DI ASPARAGI
BALSAMICO TRADIZIONALE 12 ANNI; FOGLIOLINE DI BARBABIETOLA ROSSA
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uocere per 40’ le patate, a fine cottura pelarle, schiacciarle e impastarle con la farina. Tagliare pezzi di impasto e formare piccole sfere schiacciate: ogni gnocco deve pesare 40/50 grammi.
Cuocere in acqua leggermente salata fino a che non vengono a galla,
asciugarli, passarli in padella con burro chiarificato o extravergine, rosolando. Portare il brodo vegetale e le croste di Parmigiano a 70°, aggiungere il Parmigiano grattugiato e lasciare in infusione un’ora, poi filtrare,
mettere a bollire aggiungendo l’amido di mais
sciolto in acqua e passare al colino. Cuocere qualche minuto le punte d’asparago e raffreddare. Nel piatto al centro due cucchiai di salsa di Parmigiano, gli gnocchi e le punte di
asparago passate in padella. Irrorare con
il Balsamico Tradizionale 12 anni e guarnire con foglioline di barbabietola rossa.
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CATTIVO COME l’aceto, si
diceva di chi era
scorbutico e violento. Nelle
terre modenesi e reggiane
che scendevano verso il Po
l’aceto non sempre era amato. A volte
diventava un incubo. Stappavi le
bottiglie del nuovo lambrusco e
scoprivi che invece di schiuma e
profumo usciva un odore acre. Certo,
non si buttava via nulla. Il vino acido si
aggiungeva nelle damigiane con la
“madre” e l’aceto finale serviva a
condire i radicchi o a mettere in
carpione pesce gatto e gobbi pescati in
risaia. Anche nella Bassa si sapeva che,
dall’altra parte della via Emilia, nelle
terre ormai vicine alle colline, l’aceto
era un’altra cosa. Se ne sussurrava il
nome, Aceto Balsamico. Era una
leggenda. I pochi fortunati che
l’avevano assaggiato raccontavano che
con tre gocce si condiva un’insalata per
l’intera famiglia, che un profumo così
non si era mai sentito. Roba da ricchi,
però. Bisognava aspettare almeno
dodici anni, prima di assaggiare questa
squisitezza, che passava da una botte
all’altra — sempre più piccola — per
essere poi raccolta in un’ampolla non
più grande di quelle usate per il vino
della messa. Vivevano, le botti, nei solai
delle ville dei signori, con il caldo
dell’estate e il gelo dell’inverno. Roba
da re. Già nel 1046 Enrico III, duca di
Franconia, in viaggio verso Roma per
essere incoronato imperatore, chiese a
Bonifacio III di Canossa di «quell’aceto
tanto lodato (che) aveva udito colà
farsi perfettissimo».
Poi, una ventina di anni fa, il grande
salto. Dalla leggenda al supermercato il
passo è stato fin troppo veloce. L’Aceto
Balsamico è così apparso sugli scaffali
di tutta Italia e di mezza Europa. Dai
solai delle ville di campagna ai
capannoni industriali. “Aceto
Balsamico” e basta per la produzione
destinata alle tavole (e ai portafogli) di
quasi tutti. Aceto Balsamico
Tradizionale (per l’esattezza: Aceto
balsamico tradizionale di Modena Dop
e Aceto balsamico tradizionale di
Reggio Emilia Dop) per chi non ha
paura di spendere: dagli 80 ai 130 euro
per un bottiglietta da un decimo di
litro. E c’è un mercato per amatori che
ricorda l’antica leggenda: nel 2007
un’ampolla da 100 cl è stata venduta a
1.800 euro.
Per il Balsamico, ormai, c’è un solo
pericolo: diventare come la rucola negli
anni Ottanta. Entrare in ogni piatto e in
ogni terrina. “Ravioli, asparagi,
balsamico”, “balsamico e formaggio di
fossa”. C’è anche chi sostiene che il
balsamico fa bene alla pelle. Così si
uccide un mito. Come è successo al
culatello, che trent’anni fa costava uno
stipendio e adesso fa compagnia al
balsamico in tutti i supermercati.
Ambedue aspettano, invano, il
passaggio di un duca in viaggio verso la
corona di imperatore.
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L’infanzia difficile (“se da bambino vedi i tuoi genitori infelici, sospetti che ciò abbia a che fare con te”), che però riesce a sfruttare
per i suoi romanzi. Nell’adolescenza è il meno spigliato del gruppo
e la sua omosessualità lo fa sentire escluso, finché si mette con la reginetta della scuola: “Non fingevo con lei, la nostra sessualità ha
tante gradazioni”. A venticinque anni finalmente il coming out in
famiglia (“non la presero bene”). Poi il successo, fino al Pulitzer con
“Le ore”. E adesso che è in Italia più intelligente di così. Ma non riusciva a tradurre in realtà questo desideCosì divenne ossessiva. Intensa. Era, soprattutto, in trappola». E il piccolo Michael lo percepiva. «Se da bambino vedi i tuoi genitori infelici, soper presentare il suo ultimo libro rio.
spetti che ciò abbia a che fare con te. Però vediamola così: se riesci ad accumulare abbastanza senso di colpa da piccolo, avrai di che scrivere per tutresto della vita! Quindi: “Grazie mamma per avermi fatto sentire così
confessa: “Se in un viaggio a ri- toin ilcolpa
e avermi incasinato così tanto come persona da farmi diventare
uno scrittore”».
scomparsa nel 2001, ha fatto in tempo a vedere il Pulitzer del fitroso incontrassi me stesso ra- glio.Dorothy,
Ma il suo orgoglio per Michael è sempre stato velato da ombre. «I miei
genitori erano scioccati di vedere quanto a fondo io mostrassi di conoscere
umana. Pensavano di aver commesso qualche errore nel crescergazzo, gli direi una sola cosa: Go- l’infelicità
mi, perché altrimenti come avrei potuto scrivere di quelle cose terribili che
accadono alle persone?» spiega Cunningham. «Chi scrive si mette in piazza. Se un figlio diventa avvocato, magari prova altrettanto dolore, ma almediti l’oggi, tutto andrà bene”
no i genitori non lo scoprono». Chi scrive si espone anche alle critiche. «Ef-
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TORINO
ON C’È NESSUNO, MA NON È PROPRIO VUOTA la poltrona dell’hotel
NH Lingotto accanto alle due che occupiamo io e Michael Cunningham. Sessantatré anni portati non come uno scrittore,
ma come una rockstar ingaggiata da Hollywood per recitare il
ruolo di uno scrittore. Nerovestito con tocco di esistenzialismo
francese, orecchino minimalista, sigaretta Natural American Spirit in tabacco organico, barba di un paio di giorni e ciuffo glamour sopra due occhi
penetranti nonostante sia in viaggio da una ventina d’ore e abbia ancora il
fuso orario di New York addosso. Sì, ma la poltrona vuota e al tempo stesso
occupata? A risolvere il mistero di questa presenza invisibile sarà proprio
lo scrittore americano, Premio Pulitzer nel 1999 con -F0SF (da cui è stato
tratto il film con Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore), e autore
di culto, venuto al Salone del Libro di Torino per presentare 6O
DJHOPTFMWBUJDP (appena pubblicato dalla nuova casa editrice,
La Nave di Teseo), originalissima reinterpretazione in chiave
dark e trasgressiva delle favole più famose. Dove può capitare, per esempio, che Biancaneve nel suo menage di coppia si
offra di reinscenare ogni volta, trattenendo il respiro, la sua
resurrezione per venire incontro a un certo feticismo necrofilo del principe.
Insomma un autore che non ama gli stereotipi, com-
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preso il classico cliché dello scrittore introverso.
«Non sono mai stato timido. Ogni tanto qualcuno
mi dice: “Ti immaginavo più ‘professoriale’, più
serio di così”. Questo, col tempo, mi ha convinto
di una cosa: chi manifesta delle aspettative verso di me può prenderle e ficcarsele dove non batte il sole!».
Forse questo spirito ribelle di Cunningham
ha una radice freudiana. «Mia madre si chiamava Dorothy, faceva l’agente immobiliare e ha
vissuto una vita che era troppo piccola per lei. La
casalinga frustrata di -F0SF è lei. Come molte
donne, non era portata per essere soltanto una
moglie e una madre. Era più creativa di così. Era
fetti collaterali del successo: ogni tanto qualcuno si sente in diritto di essere molto crudele con te. Magari uno ti ferma per strada e ti dice che un tuo
libro non gli è piaciuto. Così, a freddo. “Beh, fottiti”, penso. “Non avrai i tuoi
soldi indietro, amico”». Ecco, su questo Cunningham è un po’ suscettibile.
«Cerco di stare lontano dalle persone negative. Non leggo mai nemmeno le
recensioni dei miei libri, figurati». Il che è strano, considerando che è acclamato dai critici, anche dai più esigenti come Michiko Kakutani del /FX
:PSL5JNFT. «L’ultimo è l’unico che lei abbia davvero apprezzato: in realtà
in passato è stata molto cattiva con me».
Certo che — gli faccio notare — sembra piuttosto informato per essere
uno che dice di non leggere mai le recensioni… «Ho degli amici che le leggono per me e mi fanno rapporto» ride Cunningham, cambiando posizione
sulla poltrona. «Così non cado delle nuvole quando qualche giornalista tocca questo tema». Alcuni di questi amici sono ancora quelli, eterni, della high school di Pasadena. «Ero il meno attraente e spigliato del gruppo: tutti
belli e intelligenti. Sì, ero attratto da loro, anche se non glielo confessai mai.
Credo comunque che in qualche modo loro avessero capito. Ma, al tempo,
rivelarmi gay a scuola non mi sembrava un’opzione percorribile». Poi l’imprevisto. «Mi misi insieme a una ragazza. Non so come, ma ciò mi fece diventare più alto di una decina di centimetri: il mio corpo e la mia pelle cambiarono in meglio. Fu un’evoluzione forzata, perché questa ragazza — Vicky — era molto al di sopra del mio “pianeta”: era la reginetta della scuola».
Quella di Michael fu una felice e spensierata confusione creativa. Fu libertà. «La mia omosessualità è sempre stata parte di me. E allo stesso tempo mi piacevano le ragazze. Quando facevo l’amore con Vicky, non facevo
per finta. La nostra sessualità ha molte gradazioni, come i colori dello spettro visibile. Io mi sono considerato bisessuale per molto tempo, ma poi ho
semplicemente constatato che mi capitava di uscire sempre più spesso
con uomini che con donne. Mi attraeva di più il mistero maschile. E ormai
sono venticinque anni che sto con lo stesso uomo, Ken». Venticinque è un
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numero magico per Michael, che proprio a venticinque anni si decise a fare
il “coming out” in famiglia. «Per loro fu una sorpresa. Non la presero bene. I
rapporti con mio padre per un paio d’anni si fecero più tesi. Credo fossero
soprattutto preoccupati che la mia condizione potesse rendermi la vita più
difficile, magari per la cattiveria o la stupidità altrui. L’atteggiamento di
mio padre era: “Cosa abbiamo sbagliato con te?”. “Al contrario, siete stati
un successo”, gli risposi un giorno. “Perché mi avete messo in grado di fare
mia questa cosa e di viverla bene, apertamente, liberamente. Io non mi
odio, anche se qualcuno pensa che dovrei. Sto benissimo con me stesso e
questo significa che avete fatto un buon lavoro, e che dovreste esserne fieri”». Ma non è il padre di Cunningham l’invisibile presenza
sulla poltrona. Forse è Virginia Woolf lo spirito guida di -F0SF e della sua carriera artistica? Se la incontrasse in un viaggio nel tempo,
cosa le direbbe? «Non ucciderti. Non è necessario. È solo un brutto
giorno».
E se incontrasse Walt Whitman, il nume poetico di (JPSOJNF
NPSBCJMJ? «Gli direi: “Walt, ora ti scoperò perché qualcuno prima
o poi deve farlo!”. A quanto si sa, pare che Whitman non fece mai
sesso con nessuno. Spero non sia andata così. Credo che avesse la
— curiosa — idea che fare sesso potesse compromettere l’idea
che lui aveva di se stesso come artista». E se in un viaggio nel tempo incontrasse il Michael Cunningham quattordicenne? «Gli direi: “Preoccupati di meno, godi l’oggi. Tutto andrà bene”. Questo
però implica una cosa. Che seduto accanto a me, proprio in questo momento, invisibile, ci sia il me stesso ottantenne. Che mi dice la stessa cosa: “Goditi questo momento. Non preoccuparti della vecchiaia”. Insomma al me stesso quattordicenne direi la stessa cosa che il me stesso ottantenne mi sta dicendo proprio adesso». «Ciao vecchietto» dice Cunningham rivolgendosi alla poltrona vuota. «Messaggio ricevuto».
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