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Da settant anni Ò l immagine dell Italia democratica Ora sappiamo

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Da settant anni Ò l immagine dell Italia democratica Ora sappiamo
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MILANO
NCORA POCHE SETTIMANE FA, l’8 marzo, per celebrare i qua-
rant’anni dall’ingresso della prima donna nel corpo della polizia locale e i settanta dal voto alle donne, il Comune di Milano ha installato davanti al municipio una celebre fotografia: la ragazza sorridente che sbuca dalla pagina del $PSSJFSFEFMMB4FSB il giorno della proclamazione della Repubblica, nel giugno 1946. È stato così per decenni. La foto di Federico Patellani è stata utilizzata per articoli e libri, mostre e manifestazioni politiche, una foto-icona, una splendida e anonima donna chiamata a impersonare la gioventù e la speranza di un Paese dopo il fascismo e la
guerra.
Oggi, a settant’anni di distanza, lo splendore di quel sorriso resta, il
significato di quello scatto anche, ma l’anonimato non c’è più: quel
simbolo ha un nome, un cognome e una sua storia. Che proponiamo alla vigilia delle celebrazioni del 25 aprile, e che scopriremo intrecciata
in molti modi con quella del giornalismo italiano.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN COMMENTO DI MICHELE SMARGIASSI
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A FOTO FU PUBBLICATA PER LA PRIMA VOLTA il 15 giugno del 1946 sulla copertina del set-
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timanale 5FNQP, fondato nel 1939 da Alberto Mondadori sull’esempio dell’americano -JGF e riportato in edicola da Arturo Tofanelli all’inizio del ‘46. Federico Patellani,
uno dei più celebri fotogiornalisti italiani (anzi quello che il fotogiornalismo in Italia
praticamente lo inventò), lavorava a tempo pieno nella redazione. Nei mesi precedenti, il settimanale aveva parlato pochissimo del referendum monarchia-repubblica del 2 giugno. Solo all’immediata vigilia del voto comparve in copertina una “Ragazza repubblicana” con un’edera appuntata sul golfino e un editoriale di Tofanelli si
schierò nettamente per la repubblica. Dopo un’altra una settimana di incertezza, finalmente arrivò in edicola la famosa copertina con l’esplicito titolo “Rinasce l’Italia”.
Per ottenere l’immagine Federico Patellani aveva fatto scattare quarantuno volte
la sua Leica, come si vede dai provini a contatto conservati presso il Museo della Fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo. Alcune immagini ritraggono la donna davanti a un muro coperto
di manifesti; in altre legge il giornale; in altre ancora una mano impugna il quotidiano mentre l’altra è sollevata in segno di gioia. Infine la serie con l’JEFB: il giornale bucato dal quale “rinasce l’Italia”.
Fino a oggi, tuttavia, non si sapeva dove fossero state scattate le foto. Soprattutto, non si sapeva chi fosse la
donna col vestito di cotonina stampato e un piccolissimo orologio al polso. Ma all’inizio del 2016, dopo aver letto un nostro articolo online di qualche mese prima che invitava a collaborare per risolvere il mistero, un lettore
ci ha scritto: “… BGGJODIÏTJBEBUPHJVTUPPOPSFBMMBGJHVSBTPSSJEFOUFDIFDPOJMTVPWPMUPHJPWBOFTCVDBEBMMB
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di Anna Iberti, futura moglie di Franco Nasi, uno dei primi giornalisti de *M(JPSOP. La nostra fonte chiedeva l’anonimato e non aveva notizie recenti, è stato perciò necessario scavare un po’ per arrivare alla famiglia, trovare conferma alla nostra ricerca e infine venire a sapere che Anna è mancata nel 1997.
Gabriella Nasi vive ancora nell’appartamento dei genitori in un quartiere semicentrale di Milano, dove custodisce poche stampe del famoso servizio fotografico, qualche giornale con la riproduzione dell’immagine
più nota e vari album di ricordi famigliari. «Quasi quasi mi spiace che diventi pubblica questa cosa che per tanti anni è rimasta in famiglia», ci dice sorridendo. «La mamma era un tipo molto riservato», conferma la sorella
Manuela: «Parlava poco di questa cosa». Nel giugno 1946 Anna Iberti aveva ventiquattro anni e non era ancora sposata. Dopo le scuole magistrali aveva brevemente insegnato e in quel momento lavorava nell’amministrazione del quotidiano socialista "WBOUJ. Il padre Alberto, caporeparto in una delle fabbriche automobilistiche milanesi (l’Alfa Romeo o la Isotta Fraschini) era un vecchio socialista. In diversi ambienti, negli anni passati, si era diffusa la voce che la ragazza della foto fosse stata una giovane partigiana, ma le figlie lo escludono:
«No, non era il tipo», dicono, anche se per tutta la vita la signora Anna mantenne un forte interesse sociale, impegnandosi per esempio come volontaria per i progetti del Cam, il Centro ausiliario per i problemi minorili.
Franco Nasi aveva la stessa età di Anna e anche lui probabilmente lavorava al quotidiano socialista al momento del referendum. Ma di lì a sei mesi, gennaio 1947, la corrente socialdemocratica si staccò dalla maggioranza Psi, allora alleata con i comunisti, la redazione dell’"WBOUJ si divise dando vita alla 6NBOJUË, organo del
nuovo partito. Anche Anna Iberti passò a lavorare all’6NBOJUË, dove Nasi diventerà capocronista. Si sarebbero sposati nel giugno 1949, accompagnati da trafiletti augurali di tutta la stampa milanese, senza distinzioni
politiche. Testimoni di nozze alcuni dei più noti giornalisti del dopoguerra, come Paolo Murialdi e Mino Monicelli, anche loro all’epoca all’6NBOJUË. Negli anni successivi Franco Nasi avrebbe lavorato, fra le altre testate,
per il $PSSJFSFEFMMB4FSB, poi a lungo e in due riprese per il (JPSOP, come inviato de -B 4UBNQBe vicedirettore
della %PNFOJDBEFM$PSSJFSF. Anna, invece, lascerà presto il lavoro, per vivere una vita di madre di famiglia e di
forte impegno sociale.
Pur non raccontando molto della sua esperienza di
“modella”, Anna Nasi «era orgogliosa di quella storia
lì», ricordano gli amici che la frequentarono molti anni dopo. Un giorno, negli ultimi tempi, passando davanti a un’edicola che riproponeva per l’ennesima volta la sua vecchia foto su qualche copertina, fece notare alla figlia che la repubblica italiana appariva messa
male rispetto alle speranze di tanti anni prima. «Come me, del resto», aggiunse con un sorriso.
Non si sa come Patellani sia arrivato a chiedere a
Anna Iberti di posare per la foto del referendum. Il figlio Aldo, che all’epoca aveva otto anni e che collaborerà strettamente con il padre negli anni Cinquanta e
Sessanta, non ricorda alcuna particolare frequentazione tra le due famiglie ed è sorpreso della circostanza, tanto più che aveva frequentato professionalmente Franco Nasi all’epoca della %PNFOJDBEFM$PSSJFSF.
Un unico dettaglio relativo alla fotografia emerge
dagli scarni racconti che Anna fece alle figlie, e cioè
che il servizio fu effettuato «sulla terrazza dell’"WBO
UJ». Molte immagini del servizio mostrano in realtà
manifesti e giornali murali e sono state dunque realizzate per le strade di Milano. In una di quelle riprese
dall’alto in basso, tuttavia, si scorge sulla destra il tetto di un edificio: sì, le foto più note della serie sono state fatte su una terrazza. All’epoca l’indirizzo ufficiale
della redazione milanese dell’"WBOUJ era via Senato
38, l’entrata laterale del celebre Palazzo dei giornali
di piazza Cavour. Inaugurato da Mussolini nel 1942
come sede del 1PQPMPE*UBMJB, nel Dopoguerra ospiterà a lungo gli uffici di tutte le più importanti testate
nazionali e internazionali. Fu quindi sul tetto di questo edificio simbolo del giornalismo che venne scattata la foto simbolo della nuova Italia repubblicana.
La redazione di 5FNQP era altrove, ma Patellani
aveva amici e colleghi in altre testate e qualcuno di
questi potrebbe avergli fatto conoscere Anna. Ci piace immaginare che possa essere stato Paolo Murialdi,
testimone delle nozze Iberti-Nasi, che proprio nel
1946 cominciò a lavorare all’"WBOUJ e a collaborare
con il settimanale. Murialdi, che negli anni Cinquanta parteciperà con Nasi all’avventura de *M(JPSOP, sarà poi celebre sindacalista e studioso del giornalismo.
Del resto questa è una storia tutta dentro al mondo
del giornalismo, quasi un gioco di specchi: per la copertina di un settimanale un giornalista fotografa
l’impiegata di un giornale, a sua volta prossima moglie di un giornalista, sul tetto di una redazione, mostrando la prima pagina di un quotidiano, foto che vie-
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ne riproposta sullo stesso quotidiano e altri innumerevoli giornali per settant’anni.
Il gioco di specchi si complica di ulteriori rifrazioni
— come peraltro i giochi di specchi tendono a fare —
se osserviamo lo scatto numero19 del rullino numero
1124: i giornali murali con i risultati del referendum
coprono solo in parte il manifesto “Votate per la monarchia”, con la foto di Umberto di Savoia, Maria José
e i principini sorridenti nei giardini del Quirinale.
Quella immagine, che avrebbe dovuto essere il simbolo dell’Italia monarchica, era anch’essa di Federico Patellani, parte di un servizio realizzato a Roma poche
settimane prima del voto. D’altra parte, ricorda Aldo
sorridendo, suo padre, l’autore dell’icona della repubblica, «era monarchico».
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UELLA RAGAZZA CHE SCAVALCA le barricate
impugnando il tricolore non si lamentò mai
con Eugène Delacroix per averla dipinta coi
seni al vento, perché lei esiste solo lì, sulla
tela, non è una persona, è un ideale, è “La
libertà che guida il popolo” e nient’altro. Ma se ci provi con
le fotografie, a trasformare un volto reale in un concetto
astratto, a volte succedono cose strane. Come accadde a
Dorothea Lange con una delle foto più famose del
Novecento, la “Madre migrante”, una donna incontrata nel
marzo 1936, accampata sulle strade del grande esodo
steinbeckiano, la Madonna della Grande Depressione,
assurta a icona della Dignità nella Miseria: che però
esisteva davvero nella realtà (non sarebbe stata una
fotografia, altrimenti), e aveva un nome, Florence Owens
Thompson; la sua condizione non era così disperata, e per
tutta la sua lunga vita rimase assai contrariata per essere
diventata un simbolo di povertà e disperazione.
L’universale e l’individuale, la Storia e le storie. Non c’è
fotoreporter che non ci provi, a far uscire le proprie
immagini dal contingente per lanciarle nel cielo delle icone
(e magari nel medagliere di qualche premio
fotogiornalistico). Ma nel tragitto si perde sempre
qualcosa. Il fotografo algerino della France Presse Hocine
Zaourar colse l’icona del Dolore Assoluto il 23 settembre del
1997 nell’ospedale di Zmirli, dove una donna piangeva il
massacro della sua famiglia per mano degli islamisti:
immagine finita dritta sul podio del World Press Photo
come la “Madonna di Bentalha”, per ritrovarsi portata in
tribunale dalla donna in carne e ossa che se ne ritenne
diffamata.
Il pathos ideale delle foto-icone è ingombrante, è
pesante, sovrasta e a volte schiaccia l’ethos della vita vera
di chi ne fu il modello. Nulla sappiamo di chi fosse l’italiana
con i tre figli e le povere cose che Jacob Riis incontrò a Ellis
Island nel 1905 e rifuse nell’immagine dell’Eterno
Emigrante; ma il “Bimbo di Varsavia”, il piccolo ebreo con le
mani in alto fotografato dagli sgherri del generate Stroop
durante la distruzione del ghetto, emblema dell’Innocenza
Calpestata dal Male Assoluto, fu identificato molti anni
dopo in Tsvi Nussbaum, otorinolaringoiatra di New York:
che si sentì allora rimproverare di essere sopravvissuto e di
aver raffreddato le calde lacrime che il martirio di quel
bambino iconico aveva fatto spargere a milioni di persone.
E Kim Phúc, la bambina vietnamita con la schiena arsa dal
Napalm? Da grande fuggì in Canada dal suo paese dove il
regime l’aveva ridotta alla copia vivente di una
foto-bandiera. Invece i genitori di Tomoko, bimba
giapponese nata focomelica per colpa di un disastro
ecologico, protagonista di una commovente immagine di
W. Eugene Smith, ottennero dagli eredi del fotografo di
vietarne ogni ulteriore pubblicazione. A Steve McCurry
andò meglio con la sua “Afghan Girl” dagli occhi verdi
spiritati e folgoranti: la ritrovò dopo diciassette anni e lei
accettò di farsi replicare in icona, in cambio di una
macchina per cucire, del denaro per le cure mediche e un
pellegrinaggio alla Mecca.
Per evitare certi burrascosi ritorni dell’icona nella realtà,
con la irritata riapparizione del Referente in carne e ossa,
alcuni fotografi hanno scelto di produrre icone
premeditate, ricorrendo a modelli più o meno
professionali, che possono e devono scomparire per
sempre dalla realtà, come un attore abbandona il
personaggio quando esce dal palcoscenico. Ed ecco la
nostra Repubblica incarnata, giovane e sorridente,
inventata con garbo e geniale mestiere da Federico
Patellani, rimasta diligentemente senza nome fino a oggi.
Ma la storia non sa tenere i suoi segreti. Erano attori,
pagati, quei due ragazzi che si baciavano
appassionatamente in rue de Rivoli, Doisneau non li aveva
affatto sorpresi al volo (come invece garantì “Life” ai suoi
lettori pubblicando il servizio nel 1950); ma fu costretto a
mostrare la ricevuta solo molti anni dopo, quando un’altra
coppia che pretendeva di essersi riconosciuta gli fece causa
per risarcimento. Non c’è niente da fare, prima o poi quel
granello di reale che c’è in ogni foto, anche la più ideale,
vola e ti finisce nell’occhio.
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PECHINO
A CATENA americana Kentucky Fried Chicken ha aperto a marzo il pri-
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mo fast food a Lhasa. Il mondo ha appreso la notizia che anche i buddisti tibetani si sarebbero convertiti al pollo fritto a causa di uno scontro accademico con il governo di Pechino. Esuli e sostenitori dell’indipendenza del Tibet avevano chiesto al colosso della ristorazione Usa
che nel locale si parlasse anche il tibetano e non solo il mandarino, come nel resto della Cina, e che il personale venisse assunto scegliendolo tra la minoranza locale. I vertici di KFC non hanno risposto, ma le
autorità cinesi hanno definito «ridicola» la proposta. Pochi giorni dopo è emerso che tra i quaranta dipendenti del fast food, trentadue sono di etnia IBO, maggioritaria in Cina. Otto i tibetani. Quanto ai menù, sono stati stampati solo in mandarino.
Per chi segue da decenni la colonizzazione cinese del Tibet, la notizia non è affatto frivola e
la scelta dei tempi per nulla casuale. Negli stessi giorni di marzo, anno 1951, l’armata rivoluzionaria di Mao Zedong invadeva Lhasa e nello stesso mese del 1959 il quattordicesimo Dalai
Lama venne costretto a fuggire in India. Mentre esattamente dieci anni fa il leader spirituale
dei buddisti pregava personalmente KFC di annullare l’apertura di una sede tibetana. La ragione aveva fatto sorridere: le stragi dei polli violano i valori tibetani. Allora il progetto venne
accantonato, oggi no e il segnale globale è chiaro: la “questione tibetana” scompare dall’agenda politica del mondo. Per i media il Tibet non è più una notizia e il “semplice monaco” che in
giugno compirà ottantuno anni potrebbe essere archiviato dalla Storia come “l’ultimo Dalai
Lama”. La Cina comunista, grazie all’America capitalista, quest’anno può così celebrare a modo suo gli anniversari più sacri al popolo tibetano: al posto delle mistiche preghiere dei pellegrini nei monasteri militarizzati, la tv di Stato
trasmette le immagini degli allegri clienti
che addentano panini imbottiti di ali di pollo
nel nuovo fast food ai piedi del Potala. Per il Tibet e per il vecchio Tenzin Gyatso, nel suo esilio indiano di Dharamsala, è un’umiliazione
che sancisce l’accelerazione di un declino sorprendente. Del resto, la crisi finanziaria che
dal 2009 scuote l’Occidente e l’irresistibile
ascesa economica della Cina, seconda potenza del pianeta, disintegrano il comune sostegno politico e culturale a una lotta per la liber-"'050
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tà che ha segnato la fine del Novecento.
Il Tibet viene dimenticato senza imbarazzi e resta improvvisamente solo. Alla metà di
marzo Pechino aveva invitato ufficialmente i
diplomatici stranieri accreditati alle Nazioni
Unite a boicottare un incontro sui diritti umani nella sede di Ginevra, per evitare incroci
con «il Dalai Lama e con la sua cricca separatista». «Invitarlo all’evento — è scritto in una
lettera — viola la sovranità e l’integrità territoriale della Cina, in contrasto con princìpi e
valori dell’Onu». Gli organizzatori hanno risposto che la libertà accademica e d’espressione era prioritaria, ma nessuna delegazione ha ritenuto di doversi esporre per difendere la partecipazione del Nobel per la pace a
un incontro a margine della sessione annuale
del Consiglio. Il gelo internazionale non è però più un caso isolato. Dal 14 al 16 aprile il Dalai Lama avrebbe dovuto effettuare una visita ufficiale in Gran Bretagna, ricevuto dalla
novantenne regina Elisabetta e dalle più alte
cariche di Stato. Il viaggio, all’ultimo momento, è stato annullato per imprecisate «ragioni
di salute» della guida spirituale dell’ordine
gelugpa. Nell’ottobre dello scorso anno, con
le medesime motivazioni, venne cancellata
in extremis anche la sua visita negli Stati Uniti, proprio mentre il presidente cinese Xi Jinping veniva ricevuto per la prima volta alla
Casa Bianca. Tra il 2010 e il 2014 il Dalai Lama ha tenuto in media cento conferenze
all’anno in dieci paesi di ogni continente: l’agenda del 2016 prevede al momento solo do-
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dici “lezioni di religione”, tutte da confermare. Lo schiaffo più clamoroso al Tibet è datato
dicembre 2014. Le minacce di «conseguenze
commerciali» da Pechino indussero il presidente sudafricano Jacob Zuma a negare a
Tenzin Gyatso il visto d’ingresso nel paese,
dove era fissato il vertice annuale dei Nobel
per la pace. I suoi colleghi insorsero, l’incontro fu ospitato infine a Roma, ma nemmeno
le autorità italiane ricevettero l’uomo che nel
1954 aveva tenuto testa a Mao Zedong, che a
nove anni ha ricevuto un orologio in regalo
da Roosevelt e che nella sua vita ha incontrato tutti i leader liberi della Terra. Lo stesso papa Francesco, preoccupato da possibili ritorsioni contro i cattolici cinesi e per la prevedibile interruzione del dialogo cruciale tra Pechino e il Vaticano, declinò l’invito a un abbraccio che Giovanni Paolo II aveva concesso. Alla
presa di distanza degli amici storici di Usa,
Europa e Vaticano, corrisponde quello ancora più allarmante dell’India, dove da quasi
sessant’anni hanno trovato rifugio gli esuli tibetani. Con l’ascesa al potere dell’ultranazionalista indù Narendra Modi, deciso a riscuotere i dividendi dell’equilibrio tra Washington e Pechino, New Delhi può ordinare ogni
giorno al governo in esilio e a 150mila rifugiati tibetani di lasciare il paese.
Cancellerie e leader religiosi di tutto il
mondo assistono in silenzio all’isolamento
del Dalai Lama e alla scomparsa del Tibet dalla geografia politica contemporanea, favoriti
dalla divisione degli stessi tibetani e dalle cre-
scenti tensioni tra la Cina le sue altre regioni
ribelli, Taiwan e Hong Kong. Il problema non
è più come mobilitarsi per il Tibet, per la sua
cultura e per la sua autonomia, ma come relazionarsi con Pechino in un mondo senza Tibet e senza Dalai Lama. A porre il tema dell’isolamento, decisivo non solo per i quattrocento milioni di buddisti cinesi, è proprio Tenzin
Gyatso. Nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a
Lobsang Sangay. Sempre più spesso, dopo il
rapimento del bambino indicato come suo
successore e la nomina cinese di un Panchem
Lama iscritto al Partito comunista, il Dalai Lama confida che «Buddha potrebbe non reincarnarsi più», o che potrebbe farlo «in una
donna». Sono messaggi chiari alla comunità
internazionale e alla Cina, la prospettiva di
una imminente destabilizzazione politico-religiosa dell’Himalaya, accelerata dalle oltre
centoquaranta auto-immolazioni di monaci
buddisti negli ultimi cinque anni.
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Da dossier pacifista alla moda il Tibet scopre così di essere una patata bollente che nessuno vuole più tenere in mano. A Pechino la
propaganda del partito-Stato scrive che «per
risolvere il problema tibetano non resta che
lasciar morire dimenticato e in esilio il quattordicesimo Dalai Lama». Il governo nei giorni scorsi si è spinto fino a pubblicare una banca dati online con i nomi degli «autentici Buddha viventi». Il titolo, da secoli, è riservato ai
bambini in cui, dopo il decesso, si siano reincarnati altri Buddha viventi. È tra questi che
viene scoperto il nuovo Dalai Lama e controllare la lista dei candidati significa assegnarsi
il diritto politico di scelta. Il presidente cinese
Xi Jinping, nell’indifferenza planetaria, ha ordinato di definire «falsi» i Buddha viventi riconosciuti da Tenzin Gyatso, accusandoli di essere i responsabili morali delle rivolte indipendentiste del 1989 e del 2008, oltre che dei
sacrifici dei monaci che si sono dati alle fiamme. Fino a ieri l’ultima repressione cinese del
Tibet e l’ultima delegittimazione del Dalai Lama da parte di Pechino avrebbero spinto in
piazza milioni di persone in tutto il mondo e i
governi democratici dei paesi liberi avrebbero almeno finto indignazione. Oggi invece nessuno osa nemmeno parlarne. Al Dalai Lama è stato
chiesto come può cambiare una società globalizzata per la prima volta nelle
mani del ricatto economico di una superpotenza autoritaria. Prima ha sorriso, poi
si è fatto serio e ha risposto:
«Non lo so».
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²
VARISTE GALOIS, MATEMATICO, muore
a vent’anni per le ferite riportate in
un duello, il 31 maggio 1832. Aveva
fatto la corte alla donna di un altro.
Era avventato, impaziente, sbruffone
e quella sera anche ubriaco. Credeva
nella Repubblica Francese (ed era
pronto a difenderla con le armi), e nella propria immaginazione (ed era
pronto a seguirla con ore di studio
matto e disperato). Galois pensava
che il problema fondamentale dell’algebra, e forse della vita, fosse provare che esiste sempre una
soluzione. Una soluzione deve esistere, almeno in matematica. Aveva cominciato a pensarlo quando a scuola, deluso, anzi
offeso, dalle lezioni dei suoi insegnanti, aveva preso in biblioteca il libro del grande Lagrange, 3ÏTPMVUJPOEFTFRVBUJPOTOV
NFSJRVÏT. Galois, a sedici anni, era certo che Lagrange fosse in
grado di trovare una soluzione. Pensava avesse un metodo per
trovare le soluzioni di tutte le equazioni, e invece, leggendo, si
era accorto che, anche lui, si fermava alla risoluzione per radicali (dati i coefficienti si arriva alle soluzioni) delle equazioni
di quarto grado. Galois non si arrende e non lo accetta. Deve
esistere una soluzione, almeno in matematica.
A tre ore dal duello, il momento dal quale Paolo Giordano fa
cominciarela sua pièce teatrale-VMUJNBOPUUFEJ²WBSJTUF(B
MPJT, il giovane scienziato sta scrivendo una lettera all’amico
Auguste Chevalier, e gli sta affidando i suoi teoremi che stabiliscono quando e perché una soluzione esiste.
È possibile oggi identificarsi in Galois?
«Non nell’aspetto rivoluzionario. La rivoluzione oggi non è
possibile. Galois incarna lo spirito del suo tempo, l’essenza del
romanticismo così come lo immaginiamo, la passione, l’irruenza e una morte eroica e precoce. Oggi sembrerebbe finto,
allora era vero. Quindi è possibile identificarsi, ma nel fallimento. Nella frustrazione di una persona molto giovane che si
sente sottovalutato per quello che è ed è sottovalutato per l’età che ha. Mi ricordo le superiori… sentivo che i professori avevano contratto un debito di credibilità nei miei confronti, è in
questo senso di frustrazione che ci si può ritrovare».
Perché Galois e non Niels Henrik Abel, per esempio, il matematico norvegese morto giovanissimo due giorni prima di
ricevere la lettera di incarico che lo avrebbe sollevato
dall’indigenza, o l’ungherese János Bolyai che risolve il problema delle parallele ma che non verrà mai celebrato in vita?
«In Galois c’è una sintesi dell’adolescenza che è pura vita e
che mi muove più di ogni altra cosa. La vita di Galois è piena di
lacune, le lettere s’interrompono, le amicizie si perdono, i giudizi dei professori si contraddicono, potevo disegnare traiettorie diverse. Mi piace per la giovinezza. Come Abel e Bolyai, Galois è giovane, ma più di Abel e di Bolyai è tormentato, ha ancora meno tempo, ed è ancora più inquieto e impaziente, perché
è più solo».
Galois è impaziente. Di essere riconosciuto come grande
matematico, di baciare Stéphanie, di veder trionfare la Repubblica, ed è impaziente pure di morire. Logica e impazienza sembrano termini che non possono descrivere lo
stesso uomo e forse nemmeno stare nella stessa frase. Chi
sarebbe stato Galois da adulto?
«Purtroppo per lui, la sua grandezza di genio è commisurata alla sua fine. Tutti i racconti su Galois ruotano intorno alla
sua morte più che alle sue scoperte matematiche. Fosse sopravvissuto, oggi sarebbe solo un nome su tanti teoremi. Ce
ne sono. Io non so associare alcuna storia personale a matematici che hanno dimostrato teoremi fondamentali. Anche John
Nash: non è famoso per la teoria dei giochi o per il Nobel, ma
per la schizofrenia».
Non credi sia una prepotenza trovare una soluzione o voler
dimostrare un teorema?
«È l’estrema arroganza o forse quell’atto di sfida che è l’adrenalina della scienza. E la provano tutti quelli che a scuola
hanno risolto anche solo un’equazione. Tutti, in quel momento, pensiamo di avere in mano un piccolo strumento di controllo. Io l’ho fatto come epigono, ho dimostrato teoremi e risolto
equazioni già risolti e dimostrati da altri, Galois da inventore».
C’è una particolarità nell’immaginazione matematica?
«La presenza costante dell’infinito rende la matematica
molto speciale. Ti permette di credere che ogni cosa sia generalizzabile, ti abitua a generalizzare ogni cosa e portarla fuori
dal particolare della realtà. Lo farai anche tu, guardare i tavoli
e pensare in quanti modi diversi le persone possono sedersi.
Più vado avanti e più vedo la matematica e la scienza come
una grande via di fuga. E questa però è una somiglianza e non
una differenza con altre immaginazioni».
Galois immagina che il numero tre sia colore del sangue,
ma non teme tutto quel rosso che cola…
«È una cosa che facevo io, sarà capitato anche a te… capita
con gli oggetti che ci sono familiari, li personifichiamo. Io non
davo ai miei oggetti di studio una faccia o un nome, ma li immaginavo grassi o magri, rotondi o quadrati…».
Diamo a tutto una forma umana?
«Giochiamo come i bambini, attribuiamo vita a oggetti inanimati. Galois lo fa con i numeri, il suo tre è rosso sangue. Forse ci sentiamo soli. Mi vengono in mente due modi in cui ci si
sente meno soli: andare più a fondo nelle cose, e forse è quello
che fa uno scienziato, o popolare la propria solitudine, e forse è
quello che fa uno scrittore».
L’”Aleph” di Borges, “T con zero” di Calvino, “Appuntamento con Einstein” di Buzzati, “Tanglewreck” di Jeanette Winterson ambientato in gran parte sull’orizzonte degli
eventi descritto come una specie di Far West. Scienziati, come Galois, la cui vita è un romanzo, e romanzieri che si ispirano, per forma o contenuto, a forme matematiche…
«La prima volta che ho letto il racconto di Buzzati non avevo
capito come sarebbe finito, e nemmeno ho dato ascolto a quel
rumore di fondo che mischiava scienza e tecnologia e che fa apparire la scienza come la fucina della macchine che potrebbero distruggere il mondo degli uomini. Riguardo a Borges, io sono un lettore più emotivo, e non è da molto che mi sono riconciliato con Calvino, una parte di me lo considerava troppo freddo, uno scrittore che parlava solo con la testa. Ultimamente invece sono riuscito a decrittare la parte sentimentale delle sue
immaginazioni fantastiche. So però che il primo scrittore in
cui ho intravisto la possibilità di usare la matematica per parlare in maniera diversa, e spesso più approfondita, degli esseri
umani è Foster Wallace. La scienza è intrecciata alla natura ultima delle cose e in personalità geniali come Galois questo è
evidente».
Questo monologo, in effetti, è un dialogo?
«Un dialogo con un fantasma. E Fabrizio Falco, che lo interpreta e lo dirige, ha messo in scena un secondo attore, Auguste. È un dialogo e più vado avanti e più penso che da lettore i
dialoghi sono la cosa che mi piace di più. Ho scritto solo dopo
aver letto le lettere di Galois, nel testo ci sono delle citazioni.
Anche una lettera è un dialogo con un fantasma. Peraltro è un
testo che ho scritto tanti anni fa, quando stavo lasciando la fisica, l’idea di me che avevo coltivato per anni. Quindi credo che
questo “tu” fosse il me che stavo lasciando. È un congedo allo
scienziato geniale che non avrei potuto essere».
Secondo te abbiamo un problema con la normalità?
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SSENDO PIÙ FACILI DA SCRIVERE e più leggeri da
leggere dei libri di storia, i romanzi spesso
ne invadono il campo: anche quando si
tratta di raccontare la vita di matematici veramente
esistiti. Due esempi sono “Ipazia e la notte” di
Caterina Contini e “Il matematico francese” di Tom
Petsinis, che prendono a spunto Ipazia e Galois per
le loro libere invenzioni: ovviamente, con molta
attenzione per la loro vita e poca per il loro pensiero.
Invenzione per invenzione, tanto vale raccontare
la storia di qualche matematico immaginario. Il
capolavoro del genere è “L’uomo senza qualità” di
Robert Musil, che ha appunto per protagonista il
matematico Ulrich ed è scritto da un autore che
aveva una sensibilità scientifica, sia per formazione
che per elezione.
Ma nel genere esemplificato da questi titoli la
matematica ricopre solo un ruolo di tappezzeria,
come la musica dei bar. Molto più interessante e
profonda è la sua funzione nella struttura del
“Paradiso” di Dante, nella visione della storia di
“Guerra e pace” di Tolstoj, nel penultimo capitolo
dell’”Ulisse” di Joyce, nella configurazione del
condominio di “La vita, istruzione per l’uso” di
Perec, all’insegna del motto: “Più ce n’è e più conta,
e meno si vede”.
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
«Anche con il genio, lo associamo spesso a una mancanza, a
un difetto, fisico o morale…».
Dici che per accettare un genio dobbiamo sincerarci della
sua infelicità?
«Per accettarlo non so, per amarlo sì. Forse è una forma di
comprensione per noi che geni non siamo. Il dono arriva ma in
cambio di un sacrificio».
Ed è vero?
«Alla fine, sì».
I matematici riescono a vivere nel presente, nel “qui e
ora”? E il tuo Galois?
«No, è un altro degli elementi che mi hanno attratto. Galois
non crede onestamente all’invidia e all’ammirazione che gli altri provano per lui, perché non ha un avversario e non ha un
grande amore. Nella messa in scena Fabrizio Falco ha reso evidente, per esempio, la facilità di Galois nel maneggiare una
materia ostica e impossibile come una matematica che ancora non esiste (e che infatti oggi porta il suo nome) e la completa inettitudine quando prende una cotta per Stéphanie».
Guarda Stéphanie quasi fosse un’equazione, vuole capirla
e ricondurla, se non a un caso precedente, a un primo incontro, a uno zero, capisce che non funziona, si strugge… vorrebbe disperatamente essere normale.
«Galois non è stato un bambino prodigio, ha incontrato la
matematica intorno ai quindici anni. Non era abituato alle sue
eccezionali capacità, le viveva probabilmente come una diversità, come un handicap. Galois è una sorta di supereroe attratto dalla vita di prima. Penso che se una persona si ritrova con
un dono così enorme, il desiderio inconfessabile è essere normale».
Pensi ci sia una discontinuità tra letteratura e scienza?
«La matematica è incorruttibile ma soggetta a qualsiasi superamento, è eterna ed è sempre un prologo, resta lì. Invece
parliamo continuamente della fine della letteratura. Nello
scrivere sei sempre sulla soglia della fine, mentre nella matematica, come Galois, sei sulla soglia dell’inizio. Sono come due
punti di vista diversi, uno sul passato e uno sul futuro».
E ti danno il presente?
«Definisci presente».
Tu sei impaziente?
«Ci sto pensando».
Qual è un gesto impaziente?
«Avere il sonno tormentato è un gesto impaziente?».
Non lo so, però è romantico e adolescente, come il tuo Galois. Ma secondo te la letteratura finisce?
«Dici a un certo punto? Spero non finisca mentre sono in vita (mi sorride e io pure gli sorrido, ma siamo incerti, OES). Io
comunque non la do per eterna, tu?».
Se come ha osservato Simone Weil, «l’eternità è nel passato», allora siamo tutti destinati all’eternità, pure la letteratura. Guardo Paolo Giordano e capisco che la letteratura se finisce, finisce con gli esseri umani. Penso che secerniamo letteratura. Dal pettegolezzo ai Karamazov, noi, naturalmente, raccontiamo. Penso che la letteratura sia come l’acqua, si adatti
ai contenitori (adesso le serie televisive, altri ne verranno). La
letteratura è eterna perché si ripete e perché cambia forma.
Una cosa del genere. Certe volte cambia anche stato, si ghiaccia o evapora. Una cosa così. La ragione e il sentimento, la logica e l’impazienza sono questioni di ordine di grandezza, cose
che si manifestano a una certa età, a una certa coscienza di sé,
a una certa coscienza del mondo e degli altri. In fondo non lo
sappiamo. La matematica, nonostante si occupi di massimi sistemi, sia eterna, come ha detto Paolo Giordano, dà risposte
provvisorie… e questo consente di proseguire il racconto. Dalla vita di Évariste Galois fino a qui.
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i Beatles hanno pubblicato tra il
di di registrazione di ogni città per poter raggiungere i più vicini in caso di biso1963 e il 1970 tredici album completi con la firma del
gno. Spesso Prince non si accontentava delle quasi tre ore di concerto che propogruppo (dei quali uno doppio), uno a firma McCartneva, e quindi poteva capitare che alla fine di un set, in piena notte, la musica
ney, tre a firma Lennon (e Yoko), tre George Harrison
continuasse a scorrere in uno studio aperto solo per lui, o in qualche club affolla(di cui uno triplo), due a firma Ringo Starr. Un totale
to di amici e fan.
(doppi e tripli compresi) di venticinque album in otto
Prince seguiva la regola aurea di Ray Bradbury, secondo cui un autore deve
anni. Questo perché i Beatles non credevano ci fosse
scrivere 365 giorni all’anno, anche se non è detto che tutto quello che scriva debun modo migliore per vivere che non fosse comporre,
ba poi essere pubblicato. Con l’industria discografica il suo rapporto era decisaregistrare, suonare. Ecco, Prince ha portato la “sindromente conflittuale. In particolare quello con la Warner è stato assai burrascoso.
me dei Beatles” alle estreme conseguenze. Perché
Litigi, divorzi, riappacificazioni si sono susseguiti continuamente, così come i
mentre i “Fab Four” negli anni della massima produziocambi di identità artistica: la scomparsa di Prince, l’arrivo di Victor, la nascita di
ne discografica non si esibivano in concerto, Prince
Symbol, di Jamie Starr, di Alexander Nevermind, di Joe Coco, di Christopher o
non ha mai rinunciato a suonare davanti a un pubblico.
de “L’Artista Formalmente Conosciuto come Prince”, a volte necessità creative,
Prince suonava sempre, scriveva musica sempre, registrava musica sempre
altre forme di protesta contro i legami contrattuali con la casa discografica. L’ae quella che noi conosciamo, quella che è arrivata a noi tramite i quarantadue alneddoto, mai confermato, che lega perfettamente il mito della supercreatività
bum (compresi tre MJWF) pubblicati nei trentotto anni di produzione discografidell’artista e quello della sua ansia di libertà dalle costrizioni contrattuali delle
ca (ma sono decisamente di più contando i doppi e i tripli, persino i quintupli), è
case discografiche è quello che narra di quando, per liberarsi dagli impegni con
solo una piccola parte della musica che ha creato. Il resto, quello che noi non cola Warner, si presentò nei loro uffici con otto album finiti tutti insieme. Poco imnosciamo, è conservato in una camera di sicurezza sistemata all’interno del
porta se l’aneddoto sia vero o no, perché di certo Prince aveva, nella sua cassaforcompound di Paisley Park, sua casa e studio di registrazione nella Minneapolis
te, brani in gran quantità per poter realizzare, contemporaneamente, molto
in cui era nato cinquantasette anni fa. Uno scrigno che, narra la leggenda, conpiù di otto album. Lì dentro ci dovrebbero essere canzoni, un’infinità di brani
tiene talmente tanta musica da poter pubstrumentali, collaborazioni con tutti i più
blicare dischi e canzoni inedite per i prossigrandi nomi della musica, da Miles Davis a
mi cent’anni. Diecimila? Ventimila canzoStevie Wonder, frutti delle infinite session
ni?
che si svolgevano negli studi di Paisley Park;
Di sicuro nella cassaforte musicale che
un paio di musical come il fantomatico 5IF
Prince ha lasciato a Minneapolis c’è un vero
%BXO, annunciato e mai arrivato, e qualche
e proprio tesoro, una straordinaria quantità
decina di album mai finiti o mai pubblicati.
di musica realizzata dal 1983 a oggi, da
Gioielli di grande bellezza, come hanno testiquando la sua collaboratrice Susan Rogers,
moniato tecnici e musicisti che hanno parteall’epoca ingegnere del suono, cominciò a
cipato ad alcune delle session. Oppure semconservare le molte registrazioni del Principlici improvvisazioni, bozzetti, spunti, matepe pensando che c’era bisogno di mettere orriali di base serviti in seguito per altre canzodine. Nel 1984 arrivò il clamoroso successo
ni o che sono stati abbandonati.
di 1VSQMF3BJO, Prince guadagnò abbastanGià, ma ascolteremo mai quello che la cas( * / 0$ " 4 5 " - % 0
za per costruire il complesso di Paisley Park
saforte contiene? Visto che Prince non ha
e da allora il “Vault”, la sua cassaforte, ebbe
eredi diretti (l’unico figlio, nato dal matriL TESORO NASCOSTO di Prince
latitano, che la creatività sembra
anche un suo nome e un suo spazio, scaffali
monio con Mayte Garcia, morì pochi giorni
potrebbe
essere
una
Wikileaks
in
diventata un lavoretto da impiegati. Amy
che negli anni si sono riempiti di nastri,
dopo il parto) a chi andrà questo incredibile
funzione antidiscografica,
Winehouse, nella sua immensa
hard disk, memorie digitali. Zeppi di musipatrimonio artistico e, ovviamente, econoun’immissione massiccia di
ca.
mico? Ancora non si sa se il Principe abbia ladissipatezza, di dischi veri e propri ne
Prince suonava sempre e registrava tutsciato un testamento o che tipo di copertura
moneta sporca in un mercato già
aveva realizzati solo due, e con quello che
to. Ad ogni ora del giorno e della notte i suoi sottoposto a prove durissime. Potrebbe
legale abbiano le registrazioni conservate
era rimasto per l’aria ne hanno realizzato
collaboratori dovevano essere pronti per
nel “Vault”. Di certo lì dentro ci sono molti alessere tutto, o essere niente. Ma
un terzo, più che dignitoso, quasi bello. Di
raggiungerlo in studio e terminare quello
tri Prince oltre a quelli che abbiamo conoKurt Cobain hanno pubblicato da poco
che lui aveva iniziato suonando da solo tutti comunque vada a finire, quella dei tesori
sciuto. Ci sarà quella parte di musica che per
gli strumenti necessari. Un suo vecchio tour nascosti dei grandi artisti della musica
lui non era show. Ci piace pensare che lì denun’enorme mole di pezzi privati,
manager, ha ricordato in questi giorni che rimane una questione aperta, spinosa,
tro sia conservata la sua vera vita, fatta di noincredibilmente privati, a tratti quasi
organizzando le tappe dei concerti doveva discutibile e allo stesso tempo
te e null’altro.
imbarazzanti, roba da porre serie
sempre avere l’elenco e gli indirizzi degli stu- morbosamente attraente.
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
ACCIAMO DUE CONTI:
"MMBSJDFSDB
EFM4BOUP(SBBM
*
Iniziò tanti tanti anni fa, fin da quando
si saccheggiavano provini, demo, tracce
alternative di Dylan e dei Beatles. Tanto
che a un certo punto sia Dylan che i
Beatles decisero di pubbicare
direttamente una loro scelta ragionata.
Così almeno potevano decidere cosa
pubblicare o meno, e in parte arginare il
commercio illegale e parallelo della loro
musica. Ma chi resisterebbe alla
tentazione di ascoltare la visione privata,
benché rubata, dei Beatles che provano
per la prima volta un capolavoro come
“Let It Be”?
Per non parlare degli inediti. Le tracce
lasciate da Hendrix sono state una
cornucopia, più o meno saggiamente
gestita dagli eredi, fino ai nostri giorni.
Molte porcherie, alcuni gioielli, qualche
pezzo da pelle d’oca. Una storia infinita, e
sempre più rigogliosa, proprio oggi che di
sensazioni forti ne abbiamo
disperatamente bisogno, che i geni
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riflessioni sulla opportunità stessa di dare
in pasto ai fan materiali che forse il
protagonista non avrebbe mai voluto che
fossero ascoltati. Tra sciacallaggio e
generosità archivistica il confine può
essere molto labile, così come tra
morbosità e rispetto. In assenza degli
autori, chi può veramente sapere cosa è
giusto fare, cosa è lecito dare in pasto agli
appassionati? Ma la ricerca del Santo
Graal della musica, della canzone perfetta
rimasta spersa in cassaforti, archivi
segreti, studi di registrazione, non ha
pause, non si ferma, sembra anzi crescere
con gli anni. C’è un’intera fetta del
mercato discografico che ormai è
dedicata alla ricostruzione storica,
cofanetti spesso splendidi e
irresistibilmente originali, pieni di
promesse e inediti. Ma il Santo Graal, la
perfetta canzone nascosta non è stata
ancora trovata. Che stia nella cassaforte di
Minneapolis?
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RISTOTELE HA VERIFICATO LE DIMENSIONI di
un calamaro di cinque cubiti, ossia di tre
metri e dieci centimetri. I nostri pescatori ne vedono spesso di più lunghi di un
metro e ottanta. I musei di Trieste e
Montpellier conservano resti di calamari che misurano due metri. D’altronde, secondo i calcoli dei naturalisti uno di questi
animali lungo solo sei piedi avrebbe tentacoli lunghi ventisette piedi. Cosa che sarebbe
sufficiente per farne un mostro formidabile”. Il
professor Aronnax, protagonista di 7FOUJNJMBMFHIF
TPUUPJNBSJ, preconizza così ai suoi compagni d’avventura l’incontro con il terribile mollusco gigante che
attenterà alle loro vite. Un secolo e mezzo più tardi, lo scorso dicembre in Giappone è stato filmato un calamaro lungo più di quattro metri, per fortuna di carattere mite, ricondotto a fatica in mare aperto dopo
aver soggiornato quasi una settimana nel porto di Toyama. Difficile calcolare in quante porzioni di fritto
avrebbe potuto tradursi (e comunque la varietà gigante non è oggetto di pesca ordinaria). Grande o piccolo che sia, il calamaro rappresenta un ottimo esempio di cefalopode mangiatutto: è sufficiente asportare
visceri, bocca a forma di becco rigido, occhi e la sottile QFOOB trasparente centrale, che ben lo differen- da (almeno) una ricetta con i calamari protagonizia dalla seppia con il suo osso bianco, mentre le pin- sti. È come se la conformazione di questi molluschi
ne allungate lo rendono distinguibile dal totano. di profondità mettesse meno a disagio rispetto alle
Un plus di attenzione per il sacchetto del nero — da complicazioni legate a lische e squame: asportata
riservare in caso di sughi o risotti — e per la sabbia la testa, si lavora come un cilindro a fondo chiuso, fache si raggruma sotto i tentacoli. Poi, via libera alle cile da tagliare ad anelli o da riempire. Così, dal Vecento declinazioni mediterranee, recentemente lo- neto alla Sicilia, i calamari attraversano i menù senza limiti di ricette, povere o preziose, originarie e
date dal /FX:PSL5JNFT.
Malgrado lo stivale allungato nel tiepido bacino creative, declinati in beata purezza — alla brace, al
del Mediterraneo, non siamo un paese di pescatori, vapore — e contaminati al massimo (nella preparaattitudine limitata a una risicata spanna geografi- zione mare&monti, con porcini e pancetta), comca lungo le coste. Allo stesso modo, la nostra tradi- plici la consistenza croccante e il sapore intenso, cazione gastronomica pencola molto più dalla parte pace di reggere sughi intensi, pomodoro in primis.
di carne e verdure (soprattutto in tema di piatti poLa mancanza di una taglia minima permette la
veri). Fatichiamo a comprare il pesce, anche se gli pesca di esemplari grandi quanto la falange di un
ultimi dati Istat annotano un minimo di fermento, mignolo. Così piccoli che a stento si toglie la piccolisperché abbiamo poca confidenza, temiamo di rovi- sima penna centrale, conservando i visceri. Li chianarlo. Tendenzialmente, non sappiamo che pesce mano scarpette di Venere e si gustano dopo averli
pigliare. Preferiamo mangiarlo fuori casa, oppure spadellati una manciata di secondi insieme a un bicci orientiamo verso le versioni facilitate: tranci, chiere di buon Verdicchio per vagheggiare l’estate
spiedini, le orribili orate monoporzione. Eppure, che sarà.
non esiste libro di cucina regionale che prescinda
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INGREDIENTI:
200 G. DI CALAMARI
160 G. DI SEMOLA
20 G. FARINA DI CANAPA
20 G. FARINA DI MAIS
120 G. ACQUA DENATURALIZZATA DI MARE
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iscelare farine e sale, poi incorporare lentamente l’acqua, lavorando l’impasto con le mani fino a quando è
diventato completamente omogeneo. Far riposare
due ore nel frigo avvolto con la pellicola. Stendere la pasta
sottile, dare la forma con un coppa pasta e abbrustolire
in padella antiaderente, friggere a 170° e con l’aiuto di
un cilindro dare la forma semicircolare. Pulire il calamaro e recuperare la sacca contenente il nero. Asciugare con carta assorbente, adagiare su placca d’acciaio coperta di pellicola e congelare in freezer. Al momento dell’utilizzo, tagliare il mollusco molto finemente e ripassare in padella con olio, aglio, sale e pepe, infine il nero. Farcire col composto l’interno dei tacos e
completare il tutto con insalatine miste (indivia riccia,
senape, mizuna rossa, melissa), pepe rosa e zenzero
rosa.
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ON SONO una grande
cuoca ma vengo da una
famiglia di grandi
mangiatori. Una
famiglia, la mia, fatta di
nonne e zie perloppiù sovrappeso che
organizzavano cene e pranzi
luculliani per Pasqua e per Natale.
Prima di arrivare alla realizzazione,
però, naturalmente c’era una
settimana di preproduzione. Per
proseguire nella metafora musicale,
posso dire che c’era il produttore
artistico (la nonna, creatrice dei piatti
più raffinati) e c’erano i produttori
esecutivi, il cui compito era quello di
procurarsi la materia prima che
doveva essere freschissima.
Ecco, io ho imparato a cucinare
guardando le nonne, mia madre e
mia zia. E da sbucciatrice di cipolle
piano piano sono passata a fare le
“basi”. Per il pasticcio di lasagna
preparavo la besciamella con burro,
farina, latte; poi si mescola fino a
sciogliere i grumi, si riaccende il
fuoco e poi si aggiunge. Adesso
abbiamo pure imparato a fare le
lasagne di soia perché mia madre, a
settant’anni, è diventata vegana. Del
resto, che cosa volete dirle. La cucina
mediterranea, così ricca e così
bilanciata, è sempre stata una
precorritrice di questa moda
vegetariana. Da noi, in Sicilia, i pasti
si inziavano sempre con le insalate —
“ca’ uno si lava ‘a bucca” — cosa oggi
assai consigliata.
Sul fronte animale è il pesce il
grande protagonista della nostra
tavola, e tra i pesci i calamari sono
esempio eccezionale — anche se è
così difficile trovarne di freschi. Io li
faccio in tre modi. Fritti nella farina:
una ricetta semplice ma “ca’ piace a
tutti”; oppure ripieni con pan
grattato, uvetta e pinoli come “li sardi
a beccafico”; e infine alla
palermitana, passati in olio,
pangrattato condito e poi in forno (i
palermitani fanno così anche le
cotolette senza passarle nell’uovo).
Poi, dopo ‘sta cucinata, coi capelli
che sembravi un supplì, potevi
rovinare tutto con l’agrodolce. Ed era
lì che arrivava mia mamma. “Qual è il
metodo giusto?” chiedevo. E lei,
crudele per non rivelare il segreto: “A
occhio”.
Alla fine non mi restava che “la
lavata di piatti”. Con pochissimo
detersivo, naturalmente, anzi meglio
ancora con bicarbonato e limone: “Mi
raccumannu, ca’ è velenu”.
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Vero nome: Niccolò Contessa. Così schivo da pubblicare i primi brani nascondendosi dietro uno pseudonimo volutamente banale che
gli è rimasto appiccicato. “L’anonimato era una scelta che mi divertiva e mi schermava”. In rete però il mistero sull’autore contribuisce a farne un caso. “All’inizio mi esibivo con un sacchetto in testa,
ma dopo la prima canzone già me lo toglievo”. I suoi testi, che raccontano senza retorica i trentenni di oggi, danno voce a una generazione, la sua: “Ma io non voglio come “Il Negroni che guardavi dall’alto e mescolavi, a fine giugno maturità e apea Monti/ A casa poi scrivevi i tuoi racconti, sacrificavi i tuoi diciannove anni
curva su di un MacBook Pro/ La pelle. La finta pelle/ Andrò a New York a lavorare
rappresentare nessuno. Descri- ritivo
da American Apparel/ Io ti assicuro che lo faccio/ o se non altro vado al parco e leggo David Foster Wallace”. È, di fatto, il primo ritratto in musica della generazione
«Dietro c’è un’ideologia che è semplicemente l’individualismo. Nel monvo soltanto un mondo di cui non hipster.
do della tecnologia equivarrebbe al la start up che ti dice di essere in grado di salvare il mondo con un’applicazione. Sono le velleità. Come quelle di fare un mestiere
Ma anche l’angoscia. Quando ho fatto quel disco ero conscio di un solo fatsi parla. E cerco di scrivere canzo- creativo.
to: che c’era un mondo che aveva bisogno di categorie nuove per essere raccontato perché la cultura giovanile italiana per i media era sempre e solo quella degli ano al massimo Novanta e non rappresentava né me né quello
ni d’amore senza più avere la nicheSettanta-Ottanta
mi stava intorno. Volevo descrivere una realtà fatta di ragazzi con altri sogni,
nel bene e nel male, ma senza retorica e senza commenti. Oggi non c’è più quell’idea della cosiddetta Generazione X di viversi addosso, ma gente molto determinapaura di sembrare scontato”
ta, con tantissima voglia di affermarsi e il forte desiderio che le venga riconosciuto
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ROMA
MOLTO MAGRO, ABBASTANZA ALTO, porta gli occhiali, i capelli rasati, un
cappellino, baffi e un accenno di barba l’autore del disco più bello
dell’anno. Si intitola "VSPSB, parla di amore ed economia, Goldman
Sachs e baby-soldato, bodhisattva e complesse teorie della fisica con
un linguaggio nuovo e diverso da tutto. Niccolò Contessa ha trent’anni, compiuti pochi giorni fa, è molto timido. Sta raccontando in musica la sua generazione ma lui non vorrebbe che si dicesse così. Non per vezzo ma per quella che
sembra una reale ritrosia a voler essere portavoce di chicchessia. In comune col
quasi coetaneo Zerocalcare ha il terrore dei “pipponi” e la volontà ferma di starsene lontano dai riti obbligati dei “vincenti”, come partecipare alle feste, agli eventi,
ai salotti. Contrariamente a Calcare non frequenta neppure i centri sociali. Ma come lui non ama starsene troppo in giro e anche quando è in tournée appena può
torna a Roma, in una casa nel cuore di Testaccio.
Scale ripide o un ascensore stretto per arrivarci. Un divano con un po’ di vestiti
buttati sopra, una chitarra acustica, un grande televisore e consolle per videogame, stampe di foglie alle pareti, una rilassante vista su un grande albero dalla finestra. Nessuna concessione all’iconografia del rock’n’roll. Proprio come nelle
sue canzoni. «So che può sembrare paradossale ma io questa zona non la conoscevo per niente: sono cresciuto in corso Trieste, Roma nord». Un mondo
che Niccolò ha raccontato molto bene in brani come *QBSJPMJOJEJ EJ
DJPUUBOOJ che “a diciott’anni comprano e vendono cocaina, fanno le aperte
coi motorini, odiano tutte le guardie infami. Animati da un generico quanto
autentico fascismo, testimoniato ad esempio dagli adesivi sui caschi”.
Poche righe da entomologo che diventano subito un caso provocando
critiche feroci da destra e da sinistra. «È stato il primo brano che ho
messo su internet. Non volevo usare il mio nome e così ho fatto un
finto account su Facebook e li ho caricati su Soundcloud con lo pseu-
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donimo“ICani – LaBand” che mi trovo sul groppone anche oggi. Per
fortuna che ci hanno definiti “geni del marketing online”: è un nome
incercabile sui motori di ricerca». Però il fenomeno diventa virale e la
scelta dell’anonimato alimenta il mistero: Niccolò al posto della sua foto
mette su internet immagini di varie razze di cani. Tutti si chiedono chi
siano gli autori di quelle canzoni che, da subito, mostrano una capacità di
scrittura lineare, fredda ed emozionale al tempo stesso. «L’anonimato era
una scelta che mi divertiva e mi schermava, anche nei concerti all’inizio
mi esibivo con un sacchetto in testa ma così, in maniera simbolica: dopo il
primo brano me lo toglievo. Comunque a me non piace stare sotto i riflettori: ho i miei narcisismi sicuramente, ma voglio poter stare defilato». Il disco
vero e proprio, intitolato *MTPSQSFOEFOUFBMCVNEFTPSEJPEF*$BOJ esce
poco dopo, sempre nel 2011, e si apre con un brano intolato )JQTUFSJB e
con un video fatto di foto )JQTUBNBUJD scattate col cellulare. Dice cose
qualcosa. Contestualmente questa generazione vive con ansia costante la sua condizione, con una rabbia che trova sfogo nei social e non nelle piazze».
La sua è una famiglia normale come anche i sogni di Niccolò. Diventa programmatore, «milleduecento euro al mese, un buono stipendio». Non a caso in un altro
pezzo del primo disco dice “le velleità ti aiutano a dormire quando i soldi sono troppi o troppo pochi e non sei davvero ricco, né povero davvero, nel posto letto che
non paghi per intero”. Insomma quella condizione di incertezza comune a molti
giovani di cui si accennava prima. «Mia madre è stata insegnante e poi bibliotecaria, mio padre lavorava alla Banca d’Italia e poi ho un fratello di dieci anni più grande di me che vive in Canada con moglie e figli e insegna filosofia. Se n’è andato
quando io ero adolescente, in Italia la carriera univesitaria non era possibile. Mi
ha lasciato un sacco di dischi». In famiglia nessuno ha mai avuto a che fare con la
musica. «Mio padre però ha sempre avuto passione per la scrittura e il teatro, forse per questo non mi ha ossessionato con l’idea del posto in banca e adesso è contento di quello che faccio. Molti ascolti li devo a mio fratello che amava il rock indipendente e mi ha lasciato una collezione di Sonic Youth, Nirvana, Pavement, Cure». La prima, vera passione di Niccolò è un’altra. «I computer. Se mi avessero chiesto cosa avrei voluto fare in futuro quando avevo sette anni avrei risposto “il programmatore di videogiochi”. Non avevo inclinazioni musicali ma mi piacevano le
strutture rigide: la matematica, i computer, le scienze. Però mi piaceva anche molto stare da solo e leggere. Fino a nove anni avevo proprio problemi a interagire con
le persone, poi a poco a poco è iniziato il disgelo. Leggevo molta fantascienza e un
film come #MBEF3VOOFS ha lasciato un segno in me anche per la sua colonna sonora». Un’altra influenza che apparentemente nulla c’entra con l’indie e gli hipster
sono gli 883. «Li ascoltavo da piccolo. Max Pezzali era come un fratello maggiore
molto buono, con un talento melodico pazzesco. Sono pezzi molto radiofonici ma
capisci sempre di cosa stanno parlando e a differenza di alcuni cantautori del periodo precedente non ti attaccano un pippone su due accordi che può durare anche otto minuti». Anche il primo disco comprato è piuttosto sorprendente. «Fu
quello in cui c’era -BUFSSBEFJDBDIJ di Elio e le Storie Tese quando avevo undici an-
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ni e da lì in poi li comprai tutti. Li ascoltavo di nascosto perché erano pieni di porcate. Poi Nirvana, Smashing Pumpkins, un po’ di rap, Daft Punk , Justice l’elettronica». Primo strumento? «Basso e poi chitarra, tastiere, adesso piano». Per il nuovo
disco Niccolò ha cambiato tutto: l’etichetta “indie” rimane forse a definire un’etica ma le canzoni potrebbero andare a Sanremo e magari vincerlo se Sanremo oggi rappresentasse davvero il paese come faceva agli esordi e non i talent
show. «Ho ascoltato molto Elton John, la prima canzone che ho imparato al
piano è stata :PVS4POH, e poi un suo giovane allievo, Tobias Jesso Jr., con
una storia di fallimenti pesanti alle spalle. Oggi molti di quelli che si ammantano di etica JOEJF ma sono cresciuti in un contesto totalmente post
ideologico vogliono arrivare al successo, hanno ambizioni totalmente mainstream. È una contraddizione che ho vissuto anch’io: vengo da quel mondo,
l’ho raccontato ma sono felice se gente che non si riconosce nell’JOEJF o
non ne ha mai sentito parlare vuole ascoltare quello che faccio». Del resto
nessuno fino a oggi era riuscito a scrivere una bellissima canzone d’amore, di quelle che ti restano in mente al primo ascolto citando il Wto, la Goldman Sachs e i diritti Siae. Il pezzo 2VFTUPOPTUSPHSBOEFBNPSF inizia così:
“Dovremmo monetizzare/ questo nostro grande amore/ con dei video virali/ o dei post svergognati/ da settemila mi piace/ io e te sponsorizzati/
venduti a decine di migliaia di euro ai brand”. «Nasce da una frase della mia
fidanzata: avevamo visto i poster di Fedez e la sua compagna mezzi nudi. Lei
ha detto: “dobbiamo farlo anche noi”. E non scherzava». Non è mai irrisione,
né critica, né agiografia, c’è sempre qualcosa di più complesso nei testi de I Cani. «Voglio solo raccontare qualcosa di vivo. Forse perché io ero disilluso già in
giovane età, fermo, seduto, apatico». Uno così apatico che in tre album ha ridefinito l’estetica dell’JOEJF e del pop connotandola di riferimenti alti senza essere paludati e riuscendo a parlare di emozioni in maniera delicata e al tempo
stesso moderna. «Oggi ho meno paura delle emozioni. In realtà non è delle emozioni che avevo paura ma della banalità. Di dire banalità. È facilissimo scrivere
una canzone d’amore, è difficilissimo scrivere una bella canzone d’amore».
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