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Amava i Simpson e il Manchester United Storia

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Amava i Simpson e il Manchester United Storia
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all’inizio dell’ormai famigerato video dell’esecuzione del giornalista James
Foley. Il boia incappucciato perde l’equilibrio e inciampa, a lato della
sua vittima. Un passo falso, l’unico, che maschera l’orrore di ciò che sta per avvenire. Poi
Jihadi John si riprende ed è quanto mai chiaro che non siamo chiamati a guardare una
messa in scena ma un vero atto di barbarie.
Nei primi mesi del 2014 il gruppo terrorista che oggi si fa chiamare Stato Islamico iniziò a collezionare giornalisti e cooperanti occidentali, rapiti o comprati da jihadisti e criminali in Siria. Tra questi James Foley, americano, catturato al confine tra Siria e Turchia.
È UN MOMENTO
TJEJWFOUB
+JIBEJ+PIO
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
del 12 novembre
dell’anno scorso, quando un
missile americano Hellfire incontrò in una strada di Raqqa,
Siria, Mohammed Emwazi appena uscito dalla casa della moglie e della
sua bambina trasformandolo in una nebbiolina di vapore rosso, la stessa domanda
che da quindici anni tormenta il cosiddetto
Occidente è riesplosa: che cosa può trasformare un tranquillo ragazzo arabo cresciuto nelle strade di Londra, allevato a Beatles
e Premier League, educato dalle buone
scuole anglicane del Regno Unito e laureato nelle decenti università british, in Jihadi
John, ovvero in un macellaio sadico e dal
volto mascherato?
LLE 23 E 41
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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<SEGUE DALLA COPERTINA
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MPROVVISA, LA MOSTRUOSA DECAPITAZIONE di Foley sconvol-
se l’opinione pubblica. I giorni, le settimane, i mesi seguenti, furono all’insegna della ricerca ossessiva di quel
boia incappucciato. Il 26 febbraio dell’anno scorso ricevetti una telefonata da una mia fonte. Mi comunicava che la
Bbc stava per rivelare l’identità di Jihadi John: Mohammed Emwazi, era questo il suo vero nome, ventisei anni,
musulmano, originario di West London. Era un nome che
non mi diceva nulla. Ma due giorni dopo un gruppo in difesa dei diritti umani pubblicò una serie di email, tutte indirizzate a Emwazi. Una di quelle email l’avevo scritta io. Diceva: “È stato un piacere vederti ieri, Mohammed…”. Dalla sorpresa rimasi paralizzato. Mi affannai a cercare nella memoria
l’immagine dell’uomo che avevo incontrato e intervistato ma, per
quanto mi sforzassi, non riuscivo a visualizzarla. Era come se i fotogrammi del Jihadi John incappucciato avessero cancellato le altre immagini del Mohammed Emwazi che comunque da qualche parte dovevo pur avere immagazzinato. Mi ci vollero
un po’ di giorni per riuscire a ricostruire.
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Quando io l’ho conosciuto Mohammed era
un ragazzo difficile ma non credo capace di
uccidere, non ancora. Sotto molti punti di vista non era diverso da altri giovani musulmani che si erano rivolti a me (in quanto giornalista specializzato in questioni relative alle sicurezza) per denunciare l’atteggiamento
persecutorio che polizia e M15 (i servizi segreti inglesi) avevano nei loro confronti. Emwazi era convinto di essere un cittadino innocente, vittima di ingiustificati soprusi.Mi raccontò anche i suoi problemi d’amore. Voleva assolutamente che la sua storia diventasse di dominio pubblico. Prima che i servizi segreti gli rovinassero la vita. Aveva venduto da poco il suo portatile su internet ed era certo che a comprarlo fossero stati i Servizi. Era talmente sotto pressione che spesso
— così mi disse — si sentiva «un morto che cammina». In un’occasione mi scrisse dicendo che pensava di farla finita.
Come è possibile che questo giovane musulmano, che ai miei occhi
era sembrato essere una vittima, abbia finito per compiere un atto
tanto orribile? Questa incarnazione del Male era la stessa persona
che mi aveva raccontato le sue pene d’amore?
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La famiglia di Mohammed Emwazi apparteneva alla minoranza Bedoon, una popolazione del Kuwait cui è negata la piena cittadinanza.
Negli anni Ottanta suo padre, Jassem, nonostante la condizione di
apolide, aveva trovato lavoro come poliziotto nella città di Tayma’a,
trenta chilometri a nord ovest di Kuwait City. Nel 1993, quando Mohammed aveva sei anni, la famiglia decise comunque di stabilirsi in
Inghilterra, perché dei lontani parenti che si erano trasferiti a Londra
la descrivevano come un crogiuolo di fedi e etnie che convivevano in
assoluta libertà. A Londra Jassem lavorava come tassista e faceva consegne per i negozi, mentre sua moglie, Ghaneya, curava la casa e si occupava di Mohammed, delle sue tre sorelle e del fratello minore. In famiglia si parlava arabo e tutti frequentavano la moschea locale, ma
non erano strettamente osservanti — tanto è vero che Mohammed
frequentò le elementari in una scuola anglicana, la St. Mary Magdalene. Oggi i suoi insegnanti e i suoi compagni di scuola dicono che non
era affatto diverso dagli altri bambini. A dieci anni Mohammed diceva che da grande avrebbe voluto “fare il calciatore e segnare un gol”
per la sua squadra del cuore, il Manchester United. Nel questionario
scolastico cita come videogioco preferito la saga ammazza-tutti %VLF
/VLFN5JNFUP,JMM, e come libro )PXUP,JMMB.POTUFS, un thriller
per ragazzi. Il suo colore preferito è il blu, l’animale la scimmia. Gli
piacciono le patatine e adora guardare i 4JNQTPO.
Un amico racconta che, ai tempi delle superiori, lui e Mohammed stavano sempre insieme: «Tutte le domeniche ci vedevamo per giocare a
calcio al parco di Paddington e poi andavamo al bar. Ci divertivamo.
Era un ragazzo normalissimo». Lo stesso amico, però, cita un episodio
che per la prima volta gli fece pensare che Emwazi potesse avere idee
estremiste. Fu durante una lezione in classe sulla Shoah: «Sentii Mohammed bofonchiare: “Bene. Se la sono meritata”. Credevo stesse
scherzando, ma in seguito mi disse che odiava gli ebrei e che li considerava responsabili delle sventure dei musulmani. Diceva sul serio, odiava gli ebrei! Se passavamo davanti alla casa di un ebreo gli urlava delle parolacce».
Sul tesserino universitario la foto di Mohammed Emwazi è quella
di un ragazzo con il berretto da baseball e gli abiti firmati, più simile a
un HBOHTUBSBQQFSche a un devoto musulmano. Ma a quanto pare già
prima di laurearsi all’Università di Westminster aveva fatto molti passi verso la radicalizzazione. L’amico di famiglia che ho intervistato sostiene che avesse abbracciato l’Islam più come ideologia che come religione. Era contro l’invasione dell’Iraq da parte dell’Occidente e contro l’occupazione stabile di un qualunque paese musulmano: «Incolpava l’America della morte di milioni di musulmani». Ma ancora oggi
non è chiaro se nel 2009 Emwazi fosse già pronto a dare uno sbocco
violento alla sua posizione politica.
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Quando lo conobbi io, nel dicembre 2010, Mohammed Emwazi mi
disse che pensava che la sua storia avrebbe potuto interessarmi perché avevo già scritto di casi simili al suo. Mi diede un numero di cellula-
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A QUINDICI ANNI, da quando
Mohammed Atta, un ingegnere
saudita laureato, con tragica ironia,
in urbanistica, sfregiò il profilo di
Manhattan, sono ormai dozzine gli
studi e i saggi e le ricerche semigrete che hanno
rovistato nella psichiatria, nella neurologia, nella
sociologia, nella teologia alla ricerca di una
risposta. Più modestamente, e giornalisticamente,
a darce quella risposta ora ci prova il cronista
Robert Verkaik. Lo fa seguendo il percorso di una
vita “vaporizzata” a ventisette anni, e così facendo
un terrore più antico e sottile di quello suscitato
dalla barbarie dei jihadisti si insinua in noi. È la
scoperta che una generazione di uomini e donne
allevati nelle migliori nurserie della nostra cultura
e della nostra opulenza arrivino non solo a
rifiutarla (come i figli dei fiori) o a combatterla
dall’interno (come i rivoluzionari immaginari che
sparavano) ma a abiurare quei valori nei quali
sono stati cullati e dei quali hanno goduto. È
dunque l’ipotesi del nostro fallimento.
Jihadi John ci inorridisce perchè anche lui era
“un ragazzo che come noi”, un mostro tanto banale
da aver cercato subito, quando raggiunse il regno
del Califfo, di tornare alla sera in famiglia come un
impiegato dopo avere timbrato il cartellino. Ci dice
che, come ha scritto Peter Bergen, uno dei
pochissimi che conobbe e intervistò Osama bin
Laden, un terrorista è come una bomba, composta
di vari ingredienti per diventare esplosiva.
Mohammed Emwazi era un “piccolo borghese”
frustrato, al quale il mito religioso fornisce ciò che
non aveva: un’identità in negativo. La sua non è
una storia licenziabile con la miseria materiale,
come non lo è la vita di Atta; o di Omar Sheikh che
rapì il giornalista americano Daniel Pearl dopo
essersi laureato alla London School of Economics; o
di Nidal Hasan, il maggiore dell’Esercito Usa che
fece strage di commilitoni a Fort Hood; o di Umar
Abdulmutallab, figlio di una delle più ricche
famiglie africane che tentò di far esplodere un
jumbo. O della famiglia bin Laden, o di quella di al
Zawahiri. Non c’è, nella vita di Emwazi, un evento
che spieghi da solo il passaggio dal tifo per il
Manchester United alla maschera nera dello
sgozzatore. Rimane allora aperta la domanda nella
domanda: quanti Emwazi esploderanno prima che
la bomba, come sempre accade, consumi se
stessa? Molti, insinua la vita di questo scellerato.
Quando il missile lo raggiunse qualcun altro prese
il suo posto. Un altro “ragazzo che come noi”.
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re da richiamare. Mi rispose con voce calma e pacata. Mi raccontò che
i servizi segreti gli avevano rovinato la vita qui in Inghilterra e ora stavano cercando di impedirgli di rifarsene una in Kuwait. Voleva incontrarmi per raccontarmi di persona cosa gli stava capitando. C’erano altri dettagli che di sicuro mi sarebbero interessati. Stabilimmo di vederci in una caffetteria vicino casa sua. Lo ricordo come un ragazzo
ben vestito, in jeans e scarpe da ginnastica, felpa e giaccone. Anche se
non mi aveva fatto una descrizione di sé non ebbi difficoltà a riconoscerlo quando entrò nel locale. Aveva la barba, e la malcelata fierezza
dell’andatura contrastava con l’aria mite. Parlava misurando le parole, e con un linguaggio piuttosto forbito. Avevamo qualcosa in comune: anch’io mi ero laureato alla Westminster University. Nel corso della nostra conversazione apparve convintissimo di essere una vittima
innocente di uno spietato stato di polizia e che quello stato di polizia
gli aveva rovinato la vita. Il racconto che mi fece dei suoi guai con
l’M15 mi ricordò tante altre vicende che avevo sentito raccontare negli ultimi due anni.
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Parlammo per più di un’ora della sua vita in Gran Bretagna e di
quello che gli era successo all’aeroporto di Heathrow, del fatto che la
polizia e i servizi segreti non si erano fatti alcuno scrupolo a fermarlo
senza nessuna giustificazione e a porgli domande sulla sua vita privata per poi accusarlo di essere un terrorista. Disse che non aveva nessuna intenzione di spiare i musulmani per conto del governo britannico
e che voleva solo vivere la sua vita. Gli chiesi allora di raccontarmi con
precisione la presunta aggressione da parte del poliziotto e l’interrogatorio subiti all’aeroporto di Heathrow. Mohammed ripercorse la vicenda passo passo, raccontandomi che in spregio all’Islam l’agente
aveva gettato a terra la sua copia del Corano, che era stato aggredito
perché alla fine dell’interrogatorio aveva risposto al telefono e che poi
lo avevano abbandonato a Heathrow all’una di notte, senza neppure
scusarsi, e senza la promessa di aiutarlo a prenotare un altro volo per
il giorno successivo. Ma a fargli male erano soprattutto le telefonate
anonime e le visite dei servizi segreti a casa dei genitori. «Se volevano
farmi delle domande dovevano parlare con me, che bisogno c’è di coinvolgere i miei o le mie fidanzate?».
Era la prima volta che faceva riferimento a delle fidanzate.
«Per colpa loro», mi disse, «le ho perse tutte e due. Mi hanno lasciato perché i servizi segreti erano andati a casa loro a parlare con i loro
familiari». Poi scese nei dettagli: «Una ce l’avevo qui a Londra, e l’altra
in Kuwait. A Londra quelli dei Servizi hanno detto alla famiglia della
mia ragazza che sono un terrorista. Da quel momento non hanno più
voluto che la sposassi». Mohammed si disse anche convinto che l’MI5
aveva deciso di creargli il massimo dei problemi e che le loro azioni
erano molto ben calcolate. Disse inoltre che ormai sapeva che gli agenti dell’intelligence avevano intercettato tutte le sue telefonate.
Gli chiesi allora della seconda fidanzata e di come i Servizi avessero
mandato a monte anche quell’altra sua relazione. «Fu mentre ero in
Kuwait. La famiglia della ragazza ricevette una telefonata in cui la informavano che ero indagato. Così né lei né i suoi familiari vollero più
vedermi. Accadde lo stesso con i miei datori di lavoro — quando seppero dell’M15 non vollero più avermi come dipendente». Omar (il fratello di Mohammed, OES) racconta che la rottura del fidanzamento turbò moltissimo la famiglia Emwazi. «Mohammed non pensava che a fidanzarsi. Era sempre alla ricerca di una moglie. Tutti i suoi amici si
erano accasati, tranne lui. Era la cosa che lo faceva più soffrire».
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Nel settembre 2015 i servizi di sicurezza misero a segno un grosso
colpo. Un agente operativo a Raqqa, capitale dell’autoproclamato Stato Islamico, aveva scoperto che Emwazi era sposato con una donna da
cui aveva avuto un bambino. Aveva raggiunto in Siria l’obiettivo perseguito inizialmente a Londra e in Kuwait: trovare una moglie e farsi
una famiglia. Ma proprio il desiderio di sposarsi, nutrito da sempre,
avrebbe segnato la sua rovina. L’agente dei servizi a Raqqa aveva fornito a Washington l’indirizzo più recente della moglie di Emwazi. Non
restava che attendere che il giovane Mohammed andasse a trovare
lei e il figlio.
Il 12 novembre 2015, alle 23.41 ora locale, Emwazi fu identificato
mentre usciva dall’appartamento della moglie. Salì su un pick-up assieme a un altro jihadista, probabilmente uno dei cosiddetti “Beatles”. Un drone americano Predator dotato di missili Hellfire in quel
momento si trovava a chilometri di distanza, invisibile nel cielo notturno, ma poco prima di mezzanotte aveva già nel mirino gli jihadisti.
Quando Emwazi stava per scendere dal veicolo il missile cadde al suolo cancellando tutto quello che c’era nel raggio di sessantacinque metri. Un funzionario americano disse che l’obiettivo era stato «centrato
in pieno» e che Emwazi era stato fatto «FWBQPSBSF» senza fare altre vittime.
La mattina dopo mi sorpresi nello scoprire che apprendere la notizia della sua morte non mi faceva quasi nessun effetto. Erano passati
circa cinque anni da quando mi aveva confidato di sentirsi «un morto
che cammina».
Mi sforzai di immaginarlo sposato, con un figlio, mentre trascorreva del tempo con la sua famiglia. Mi chiedevo come fosse arrivato al
matrimonio tanto desiderato. Pensava davvero di poter sfuggire al
suo castigo nascondendosi nello Stato Islamico? O aveva continuato a
sentirsi un morto che cammina?
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ENCICLOPEDIA
TRECCANI defi-
nisce iBig Data come “ingente insieme di dati digitali che possono essere
rapidamente
processati da
banche dati
centralizzate”. Migliaia di server che setacciano in tempo reale l’universo web trasformandolo in fredde cifre e
freddissime statistiche. C’è però chi ha sostituito
la Macchina con l’Uomo, il foglio word con il foglio
di carta e la parola #JH con%FBS. Dando vita al progetto %FBS%BUB.
Sono Giorgia Lupi e Stefanie Posavec, due JOGPS
NBUJPOEFTJHOFS. Si sono conosciute all’Eyoe Festival, uno dei maggiori festival di digital art e hanno
scoperto di condurre la stessa vita ma in luoghi diversi. Stessa età (trentasei anni), figlie uniche,
hanno attraversato l’oceano per emigrare ed entrambe hanno un approccio artigianale al lavoro
digitale. Dopo essersi incontrate di persona solo
un’altra volta, hanno deciso di “processare” rapidamente la loro vita per un anno e di elaborare i ri-
(JPSHJBF4UFGBOJF
TPOPEVFHJPWBOJ
JOGPEFTJHOFS
3BDDPMHPOPEBUJ
TVMMFMPSPHJPSOBUF
FUSBTGPSNBOEPMJ
JOHSBGJDJTFMJJOWJBOP
TVDBSUPMJOB
1FSDIÏMBOBMJTJ
EFJGBUUJQVÛWBMFSF
QJáEJNJMMFQBSPMF
sultati in infografiche. Obiettivo: conoscere tutte
le altre cose che hanno in comune. Ogni settimana
hanno indagato ciascuna la propria vita con un preciso argomento: dal tempo agli amici, da quante
volte hanno detto “grazie” alla musica ascoltata,
dalle emozioni provate all’analisi del guardaroba e
della libreria. Il procedimento prevedeva l’archiviazione dei dati raccolti su un quaderno e poi la
rielaborazione, con matite e pennarelli, su una cartolina. Ognuna inviava la sua all’altra. I dati sono
diventati così simboli, linee, colori, un mondo variopinto, fatto di forme nuove e diverse, ciascuna
con un preciso significato. Un alfabeto che resta segreto fino a quando non si volta il retro della cartolina con la legenda per interpretarlo. Un contemporaneo $PEFY4FSBQIJOJBOVT con soluzione.
Ogni lunedì Giorgia e Stefanie si sono inviate le
cartoline per posta ordinaria. Giorgia utilizzando
la buca della posta che c’è all’ingresso del suo palazzo a Williamsburg, Brooklyn. Stefanie imbucandola da Londra. I Dear Data hanno quindi preso la
strada di tutte le altre lettere. Trasportati in furgone dalla cassetta a un ufficio postale, dall’ufficio postale alla stiva di un volo transoceanico, acquisendo così sbavature, strappi, macchie, dati aggiuntivi apposti dal caso e dal resto del mondo fisico. Alcune cartoline non sono mai arrivate, altre sono
tornate indietro, alcuni risultati sono stati modificati e falsati dalla pioggia. In tutto, cinquantadue
cartoline che oggi possono arrivare anche a tutti
noi, consultandole sul sito creato dalle due autrici
(dear-data.com). Scopriamo così che la settimana
numero 6, "XFFLPGQIZTJDBMDPOUBDU, è ritratta da
Stefanie come una sorta di ruota panoramica del
luna-park e circondata da girandole-atomi. I cerchietti rossi sono gli affetti, e sono tanti. I cerchietti rosa si riferiscono all’attrazione sessuale per il
marito: «Quando gli ho mostrato il disegno completo lui mi ha chiesto una copia della cartolina per
conservarla. I dati sono diventati la testimonianza
di qualcosa di emotivo, li ho investiti di un significato molto intimo. Dando a mio marito una copia
della cartolina, ho reso tangibile qualcosa di invisibile della nostra relazione».
La settimana numero 36 è "XFFLPGJOEFDJ
TJPO. Giorgia la visualizza come una spirale perché, spiega, «prima o poi finisce, se la decisione è
presa». Lo stelo alla base di ogni spirale simbolizza
il livello di ansia scatenato dal dubbio: se acquistare o meno una soda Seltz in un supermercato, se
chiedere a qualcuno di abbassare l’aria condizionata, se acquistare un volo per tornare in Italia:
«Quella settimana è morto mio nonno. Ero indecisa se prendere un volo all’ultimo minuto ma non
l’ho fatto. Ora vedo la cartolina come una sorta di
omaggio alla sua memoria e al mio rapporto conflittuale con la distanza e con il non esserci potuti
dire addio». Nella settimana numero 24 ("XFFL
PGEPPSTTQBDFT) c’è la catalogazione di tutte le tipologie di porte che le due amiche hanno aperto,
la Repubblica
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un serpente che indica i luoghi in cui sono entrate.
La settimana numero 44 è invece dedicata alle distrazioni. Stefanie disegna delle onde verdi (“shopping online”), azzurre (“farsi un caffè”), gialle
(“mangiare caramelle”), rosse (“sognare”), un fiume che sembra confluire fuori dagli argini della
cartolina proprio come qualcuno che mentre disegna si distrae ed esce dal bordo della pagina. Giorgia visualizza la distrazione come una goccia divisa in due, da una parte c’è l’attività che svolgeva e
dall’altra quella che l’ha distratta: «La goccia evoca qualcosa che si stacca da qualcos’altro, così come accade con una distrazione, ci si stacca da ciò
che si stava facendo». La lunghezza di ogni goccia
indica per quanti minuti esatti si è distratta. Per la
settimana numero 7 le due ragazze hanno realizzato una sinfonia del lamento e delle cose che non
vanno. Giorgia ha immaginato chiavi di violino
mai aperte e note mai suonate prima. Un’opera lirica il cui testo recita, “Sono stanca, sono annoiata”,
“il lavoro non sta andando bene”, “stai russando!”.
L’ultima cartolina è datata 31 agosto 2015. Chiedo
a Giorgia se ci sia qualche argomento rimasto fuori dalla raccolta dati personali: «Una settimana di
cose da dimenticare, di sbagli, di sogni» mi risponde. A proposito di sogni, Giorgia e Stefanie hanno
da poco firmato con la Penguin Books per far diventare le loro settimane un libro. Anche i %FBS %BUB
diventano #JH.
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RA QUELLO CHE voglio sono i
Fatti. A questi ragazzi e
ragazze insegnate soltanto
Fatti. Solo i Fatti servono
nella vita. Non piantate
altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si
plasma la mente di un animale dotato di ragione;
nient’altro gli tornerà mai utile”, scrive Dickens in
“Tempi difficili”. Non è il solo. Il filosofo americano
Willard Van Orman Quine (1908 -2000) aveva
elencato nella sua homepage tutti i posti in cui era
stato in vita sua, e il tempo che ci aveva trascorso —
mesi, settimane, ma anche giorni e ore. Se non
ricordo male, sosteneva di aver trascorso dieci
minuti in Madagascar, avendolo sorvolato durante
un viaggio in aereo. Del tutto coerentemente, Quine
intitolò la sua autobiografia “Il tempo della mia vita”
(dieci minuti in Madagascar, qualche decennio in
Massachussets ecc.).
Il bello dei fatti è che si possono accumulare e
quantificare (volendo, si possono anche
quantificare le interpretazioni, ma sinceramente è
una attività un po’ futile). Certo, si può ironizzare
sulla ossessione positivistica del quantitativo,
contrapponendogli l’autenticità del qualitativo, ma
mi sembra retorica. È vero che dieci tetrapak di
Tavernello non si convertono in una bottiglia di
Barbaresco, ossia che il quantitativo non porta
automaticamente al qualitativo, ma è anche vero
che, nella vita, la qualità, la singolarità, e persino il
sentimento e lo spirito, vengono colti attraverso la
quantità. Come nei due protagonisti della canzone
di Paolo Conte “scaraventati dall’amore in una
stanza”, la cui storia si riassume in una scarna
enumerazione di unità: “abbiamo usato un taxi più
un telefono più una piazza”...
Personalmente avaro del mio tempo, non sarei
tuttavia mai così ipocrita da sostenere, come spesso
si fa, che nel tempo che si dedica alle persone non
conta la quantità ma la qualità, giacché, nel tempo
come in tantissime altre cose, quasi tutte (la
cultura, i sentimenti, persino la creatività) il
qualitativo è il risultato del quantitativo. La
condizione necessaria, anche se non sufficiente,
della cultura, è il sapere tante cose; la condizione
necessaria, anche se non sufficiente, dell’odio o
dell’amore, è che superi una certa soglia,
manifestandosi in una certa quantità di odio o di
amore; e se Picasso avesse dipinto un solo quadro,
dubito che sarebbe stato Picasso.
Pretendere che la qualità e l’autenticità scendano
dal cielo (perché è quello che si presuppone, piaccia
o no, quando si contrappone il quantitativo al
qualitativo e si deridono i collezionisti di fatti)è
invocare una magia e coltivare una religione
superstiziosa. La qualità emerge dalla quantità,
questo il web lo sa meglio di altri, meglio di noi
stessi, per esempio, visto che disegna quella
singolarità assoluta che è la nostra vita tenendo
traccia delle nostre attività quotidiane nella rete.
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MILANO
LA SERA DEL 12 FEBBRAIO 1966 SUI NAVIGLI A MILANO, il pavé di via Gorizia lambisce la
Darsena, ancora un porto commerciale di chiatte e gru. Al civico 22 un uomo è
morto e un amico non vuole dimenticarlo. Lo vuole ricordare così bene che non
una ma due volte lo ritrae di profilo composto immobile nel letto. Alle 21,45, quando è appena spirato, e poi alle 23. A penna, in entrambi gli schizzi, in poche linee
traccia le lenzuola rincalzate, i baffi e i capelli che sarebbero bianchi ma che l’inchiostro ritinge di nero. Il viso che spunta dal cuscino è magro e severo, il sopracciglio piccato. “Elio Vittorini è morto a Milano in viale Gorizia alle 21 e 45 del 12 febbraio 1966” scrive Albe Steiner sotto il primo disegno. Con lo sguardo essenziale
del grafico, cinquant’anni fa fermava in queste due istantanee inedite l’ultima
espressione di un grande del Novecento italiano. Si erano conosciuti da partigiani
nel ‘43 e non si erano più lasciati.
«Avevo diciott’anni e mezzo quel 12 febbraio ed Elio, che per tutta la vita avevo avuto vicino, fu la prima persona che vidi mancare» ricorda oggi Anna Steiner, nata nel ‘47, figlia di Albe (1913-1974) e Lica (1914-2008).
All’indomani della ricorrenza, la memoria degli ultimi anni di Vittorini è affidata soprattutto a lei. Mentre infatti Bompiani ripubblica un’edizione arricchita di %JBSJPJOQVCCMJDPè nell’archivio di documenti, lettere, disegni e fotografie conservato da Anna che rivive il Dopoguerra milanese dello scrittore nato a Siracusa nel
1908. Buona parte di una storia che si può sfogliare in -JDB$PWJ4UFJOFS (Corraini), che Anna ha dedicato alla
madre, oppure visitando fino al 13 marzo al Museo del Novecento di Milano la mostra -JDBMCF4UFJOFS(SBGJDJ
QBSUJHJBOJ. Grafica a sua volta insieme al marito Franco Origoni nello studio che fu dei genitori, Anna ripercorre gli anni dell’incontro tra i suoi e Vittorini: «Per la verità nel ‘43 fu Lica, rimasta a fare la staffetta in città, a
frequentare per prima Elio». Vittorini era già il famoso scrittore di $POWFSTB[JPOFJO4JDJMJB. Fascista pentito inviso al regime entra nell’orbita del Pci (mentre gli Steiner al partito erano iscritti già dal ‘40). Fu un’entrata a
gamba tesa. Una lettera di due pagine datata 14 dicembre 1946, inviata da Vittorini al “carissimo Albe” che si
trova in Messico, racconta ancora una volta la polemica nata sulle pagine de *M1PMJUFDOJDP. Vittorini è il direttore della rivista uscita il 29 settembre del ‘45, Albe Steiner è l’architetto di un’impostazione all’avanguardia in
Italia, dove le immagini hanno un ruolo di primo piano. Collaborano tutti i migliori scrittori italiani, si traducono Brecht e Majakovskij. Scrive all’amico il gongolante Vittorini che del 1PMJUFDOJDP “...se ne discute in tutta la
stampa in ogni numero che esce e in questo momento
ho una polemica sul problema dei rapporti tra politi- le delle vacanze trascorse insieme a Bocca di Magra,
ca e cultura in cui è intervenuto Togliatti con una lun- sulla terrazza della Pensione Sans Façon: «Ci si trovaga lettera”. La contesa, nata attorno al primato della va d’estate con gli Einaudi, Vittorio Sereni, Marguericultura sulla politica sostenuto da Vittorini, finirà ma- te Duras — forse l’unica ad alzare il gomito insieme al
le. La rivista, in difficoltà economiche, chiuderà nel suo giovane amante Robert Antelme» ricorda Anna.
‘47, e Vittorini risponderà a Togliatti di non voler suo- Poi gli anni passano, «Ginetta ed Elio si trasferiscono
nare il piffero della rivoluzione. La seconda parte del- nella casa di lei in via Gorizia» e nella comitiva compala lettera è invece solo per l’amico Albe: “Non ti ho det- re anche il timidissimo e balbuziente Calvino «che soto, invece, che molto spesso, la sera, ci mancate tu e la lo Albe riusciva a scuotere dalla discrezione». Nel ‘63,
Lika, e che il tuo ottimismo era per me come un buon a Quercianella, Livorno, due disegni blu. Vittorini ha
cuscino...”. La vicinanza tra gli Steiner e Vittorini, che appena scoperto di avere un tumore allo stomaco,
al suo fianco dopo l’annullamento delle prime nozze Steiner lo ritrae sdraiato su un divano. Vittorini si opecon Rosa Quasimodo, sorella del poeta, ha Ginetta Va- ra, altri tre anni, poi la fine: «Io c’ero quella mattina
risco, diventa totale nel ‘49, da vicini di casa. «Due del ‘66 in via Gorizia, e smisi di piangere quando vidi
portoni quasi contigui vicino al Parco Sempione, noi Marta, la storica domestica di Vittorini, una donna
in corso Sempione e Ginetta ed Elio in via Canova: ave- piccola e fulva, che con un martello levava le croci e i
vamo le chiavi di casa gli uni degli altri». Gli Steiner, paramenti dalla bara perché Elio voleva un funerale
sempre e ancora comunisti. Vittorini, sempre e anco- civile». Calvino, in un ricordo firmato nel ‘74 su M6OJ
ra polemico. Al Pci lo scrittore riserva l’ennesimo sgar- UB, scriverà che Vittorini e gli Steiner erano capaci di
bo. È il giugno 1950, con una lettera indirizzata ai cin- trasmettere la passione, di immaginare il futuro, l’uque giurati del Premio Internazionale della Pace, fa topia. Il 14 febbraio 1966, a Milano, sulla rivista stusapere di non voler accettare il riconoscimento per il dentesca del Liceo Parini, -B;BO[BSB, esce un’inchiesuo 6PNJOJFOP, che considera il suo romanzo “meno sta sulla posizione della donna nella società italiana
valido” perché “più funzionale”. Il documento è noto, che anticipa il movimento del ‘68. «È difficile a volte
non è noto che Vittorini lo inviò in segreto anche a credere al caso» dice Anna.
Steiner. «Condividevano davvero tutto. E sì, c’erano liª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
ti aspre, soprattutto con mia madre. Ma in qualche
modo, la coerenza oltranzista di Elio, che poi era un
tratto comune di quella generazione, veniva riconosciuta come una voce critica vera, non era quella di un
anticomunismo opportunista». Tra i ricordi conservati da Anna Steiner anche tante foto, per esempio quel-
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MILANO, 14 DICEMBRE 1946
$
ARISSIMO ALBE,
Vedo così che al Messico ci sono interessi
culturali piuttosto vivi. Ma quello che aspettavo
veramente con ansia e che aspetto come una
necessità da soddisfare è la serie fotografica di
una città messicana o più serie di città e una serie del Messico
come paese e vita nel paese. È importantissimo per il numero
prossimo. Potrei davvero contarci? (...). Intorno al “Politecnico”
ora c’è un interesse culturale più vivo che intorno al settimanale.
Se ne discute in tutta la stampa ogni numero che esce, e in
questo momento ho una polemica sul problema dei rapporti tra
politica e cultura, in cui è intervenuto Togliatti con una lunga
lettera (...). Ormai tutti ammettono che il “Politecnico” è l’unica
manifestazione viva della cultura italiana attuale, e tra le più vive
dell’europea (...). Ma articoli speciali non posso farne per i
giornali messicani
Ora un mucchio di cose te le ho dette. Non ti ho detto, invece,
che molto spesso, la sera, ci mancate tu e la Lika, e che il tuo
ottimismo era per me come un buon cuscino (non tu stesso, dico
il tuo ottimismo, non ti offendere). Sei l’amico che più di tutti mi
ha fatto sentire l’amicizia come un riposo rinfrancatore. Sono
presuntuoso? Ma è soprattutto in questo senso che io ora sento la
tua mancanza.
Ti abbraccio insieme alla Lika e a tutti i tuoi. Ginetta si ricorda
ogni tanto che le avevi promesso dello zucchero e perciò, per
oggi, dice che non vuole salutarti. Ma abbraccia la Lika intanto.
Ciao,
Elio (Vittorini)
MILANO, 9 GIUGNO 1950
VIA CANOVA 42
$
ARI AMICI,
apprendo dall’”Unità” del 6 corrente che la
Commissione italiana composta da voi cinque ha
proposto il mio libro “Uomini e no” per il Premio
Internazionale della Pace, sezione letteratura. Io
vi ringrazio per il significato di stima che contiene la vostra
segnalazione. Siete i primi a ricordarvi di me come di uno che si
possa anche premiare. Ma debbo avvertirvi che mi trovo in una
situazione per cui non potrei assolutamente accettare un premio
così solenne e impegnativo. Io sono stato, per tutto il periodo
della guerra di liberazione e per circa due anni dopo, così vicino
ai comunisti da essere considerato tale e considerarmi io stesso
per tale. Una serie di polemiche intorno ai rapporti tra arte e
politica, alcune delle quali svoltesi sulla stampa e altre solo a
voce, mi ha successivamente portato a un silenzioso isolamento.
In questo oggi vivo, libero di restarvi o di uscirne. Ma un premio
in denaro come quello a cui voi mi designate mi toglierebbe
questa mia libertà morale di oggi e mi condannerebbe
praticamente a restare isolato per sempre. Perché io mai vorrei
lasciar dire alla gente (entro e fuori Partito) di essermi
riavvicinato ai comunisti in virtù di denaro. D’altra parte la mia
concezione dell’arte come “valore” e non come “funzione” mi
rende sgradito che si scelga da premiare, tra tutti i miei libri,
proprio il “meno” valido e più “funzionale”. Un premio che
cadesse su “Uomini e no” getterebbe una falsa luce sul resto del
mio lavoro. Perciò vi prego: fate in modo che la vostra
designazione non abbia seguito. Io, con questo, non prendo una
posizione pubblica né vi chiedo di correggere pubblicamente la
vostra decisione. Ma voi rassicuratemi che terrete indietro
“Uomini e no” durante i lavori della giuria internazionale, e che
troverete come escluderlo dalla rosa finale dei candidati.
Coi più cari saluti,
affezionatissimo vostro
Elio Vittorini
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RIMA C’È STATA LA PROVA DI 'SP[FO, ora (dal 18 febbraio nelle sale
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italiane) arriva anche quella di ;PPUSPQPMJT. Entrambi film d’animazione di alto livello, non c’è che dire, eppure riesce ancora oggi
difficile pensare a una Disney davvero senza Glen Keane, ovvero
senza più quei disegni così tipici frutto del più grande animatore
di sempre e del suo team, che poi, fotografati, riuscivano a creare
in maniera incredibilmente fluida la magia del movimento: dalla
4JSFOFUUB a "MBEEJO, da 1PDBIPOUBT a3BQVO[FM fino a -BCFMMBFMB
CFTUJB, Keane ha disegnato tutti i protagonisti dei magici film Disney degli anni Novanta — compreso quel5BS[BO che si sposta
tra gli alberi della giungla come un surfista: TPMP un disegno, certo, ma in quelle scene il Re delle scimmie mostra un corpo, un peso, un equilibrio e un’abilità da togliere il fiato. Poi, tre anni fa, dopo aver traghettato i film Disney dall’animazione tradizionale a quella realizzata con il computer e dopo ben trentotto anni, Keane decise di lasciare la casa di 5PQPMJOP per dedicarsi a progetti più sperimentali, tra disegno su carta e alta tecnologia. Come per esempio il cortometraggio %VFU, realizzato per Google (se lo si vede con la app “Google Spotlight Stories” muovendo il dispositivo si cambia anche
il punto di vista). L’ultima sua realizzazione si intitola invece /FQIUBMJ, un cortometraggio girato a Parigi metà in animazione, metà dal vero, in cui si descrive il viaggio di una ballerina attratta da una misteriosa forza superiore.
Oggi Keane ha sessantadue anni e continua a credere in Dio («è da sempre la mia ispirazione, in tutto quello che faccio») e nel disegno («quando si disegna non si muove la mano: tutto
parte dalla tua anima»). Che poi il disegno sia fatto a matita o con il computer...
....A proposito, visto che lei ha vissuto tutte e due le ére, ci spiega una volta per tutte qual è
la differenza tra la matita e il digitale?
«Mi faccia prima dire una cosa, a costo di apparire presuntuoso. Io mi sono sempre sentito
prima di tutto un artista e solo secondariamente un animatore. E come artista ho sempre desiderato crescere. In questo senso trovo che ogni volta che la tecnologia attraversa il mio percorso mi forza a essere un artista migliore. E quindi a cambiare, a evolvere».
Eppure molti considerano il computer
spersonalizzante perché toglierebbe al lavoro la “poetica” della fatica.
*-'*-.
«La faccenda è molto più complessa e intei;0053010-*4w*-/6070
ressante. Nel 1982 John Lasseter (fondatore
%*4/&:64$*3®/&--&4"-&
e ispiratore della Pixar, OES) e io abbiamo
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combinato insieme per la prima volta diseμ%*3&550%"#:30/)08"3%
gno fatto a mano e computer animation per
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un corto sperimentale basato sul celebre li$0/,&"/&*/i3"16/;&-w
bro di Maurice Sendak 8IFSF 5IF 8JME 5IJOHT"SF (in italiano /FMQBFTFEFJNPTUSJ
TFMWBHHJ). Prima abbiamo animato gli sfondi
con l’aiuto del computer e poi io ho animato
su carta i personaggi facendoli interagire con
quel mondo davvero tridimensionale. Quando ho animato la loro discesa da una scala,
per la prima volta ho fatto attraversare ai disegni uno spazio che esisteva davvero, non
era sulla carta. Ho amato molto quel tipo di
realismo che ne era scaturito e il senso del volume che ero stato forzato a disegnare».
Per caso è accaduto lo stesso con Tarzan?
«Esattamente lo stesso. L’ho animato facendolo muovere attraverso la
giungla con la tecnologia EFFQDBO
WBT (che permette, attraverso il
computer, di entrare attraverso gli spazi)%VFU invece
mi ha offerto la possibilità
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di vedere sullo schermo i miei disegni originali fatti con la matita, senza modifiche o colorazioni. È stata la prima volta in trentotto anni
di animazione».
Un tempo usciva un film animato all’anno, ed era un evento. Forse oggi, che se ne
vedono continuamente in programmazione, il pubblico può pensare che quello
dell’animatore non sia più un lavoro così
complicato come un tempo.
«Lo sa quanto tempo sono stato impegnato a lavorare su 3BQVO[FM? Dieci anni. E quando lavori per un grande studio ci sono grandi
interessi che influenzano le decisioni creative. Si tratta di una maratona in cui temi di
non arrivare mai. Se invece realizzi un cortometraggio è uno sprint. E non solo: quando
ho realizzato %VFUmi è stata data la massima
libertà creativa. Regina Dugan, che è a capo
dell’Atap di Google (i progetti di tecnologia
avanzata, OES) mi ha detto: “Voglio solo che
tu faccia qualcosa di bello ed emozionante”. E
alla mia domanda su cosa volesse vendere, la
sua risposta fu: “Non dobbiamo vendere nulla. Questo che andiamo a realizzare è un dono. Voglio solo che tu dia il massimo dal punto di vista creativo e tecnologico”».
Mi sembra di capire che per lei questa sia
stata una meravigliosa sorpresa.
«Sì, credo che sia molto importante l’approccio che si ha con un nuovo lavoro. Sento
di dover imparare alla stessa maniera di
quando ho cominciato. Rispetto allo studente che ero vedo in me davvero poche differenze… a parte i capelli che nel frattempo ho perduto naturalmente».
Che consigli si sente di dare ai giovani animatori?
«Di osservare la vita intorno. Di avere sempre un blocco tra le mani. Se disegni ogni giorno la vita imparerai davvero a WFEFSF. Perché
è proprio così: quando si disegna non si muove la mano, tutto parte dalla tua anima».
Quando ha scoperto sulla sua pelle questa
verità?
«Quando ho capito il senso della frase “animare con sincerità”. Avevo vent’anni e ho cominciato lavorando con Eric Larson, uno dei nove grandi vecchi di Walt Disney, i suoi artisti di fiducia. Eric mi diceva
continuamente che il segreto per l’animazione disneyana era la “sincerità”. Io non
sapevo che cosa intendesse dire.
Con impegno
cercavo di arrivare alla
qualità Di-
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sney ma
senza successo. E
premevo la
punta della
mia matita
nella speranza
che il puro desiderio superasse la mia mancanza di abilità. Ma come risultato ottenevo solo un sacco di punte di matita spezzate».
All’epoca stava lavorando al primo “Bianca e Bernie”.
«Esatto. Stavo disegnando la scena in cui il
topolino spazza il pavimento nel palazzo
dell’Onu. Chiesi aiuto a Eric e lui mi cominciò
a parlare di Bernie come fosse una persona
reale. Capii allora che il vero segreto dell’animazione è credere nel personaggio che stai
facendo vivere. Anche se è un topo».
Per farlo immagino ci voglia concentrazione e tranquillità. Lei come la crea intorno
a sé?
«Le racconto una mia giornata tipo durante la realizzazione di %VFU, partendo dalla
considerazione che si tratta di un cortometraggio. Dunque: mi svegliavo prestissimo la
mattina, me ne andavo per un’ora a passeggiare sentendo brani della Bibbia col mio
iPod, e poi mi mettevo a disegnare nel mio
studio fino a quando sorgeva il sole. Mi perdevo disegnando, e questo è un sentimento meraviglioso. Poi andavo a lavorareda Google
con il resto della squadra, con cui affrontavo i
diversi problemi tecnici e creativi. Lavoravamo fino a sera, cenavamo insieme e me ne tornavo a casa intorno alle dieci. Era un programma di lavoro estenuante e non pensavo di riuscire a reggerlo a quasi sessant’anni. Si vede
che gli animatori sono artisti a lunga conservazione».
Quanto è ancora forte secondo lei il mito di
Walt Disney?
«Quando sono arrivato alla Disney nel
1974 Walt era già morto da otto anni ma la
sua presenza si sentiva ancora. La sua influenza sul team di animatori con cui aveva lavorato scoprendo insieme un nuovo modo di realizzare i film animati era ancora molto forte.
Quando poi ho deciso di lasciarla inizialmente ho sofferto molto, ma ho capito che se anche io me ne andavo Disney non avrebbe lasciato me. Soprattutto mi confortava l’idea
che avrei potuto lasciare il suo segreto universale a qualsiasi persona con cui avessi
lavorato. E in ogni parte del mondo.
Qual è questo segreto?
«Gliel’ho detto. Bisogna riuscire a vivere dentro l’anima dei personaggi».
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5"3;"/
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IL CINEMA “fatto a mano”
che mi ha portato a
amare il cinema e a
spingermi poi verso la
regia. Sono stati i
trucchi elementari — ma
impressionanti — del primo “King
Kong”, pupazzetto peloso in caduta
libera da un Empire giocattolo, e le
battaglie di scheletri in “Giasone e gli
Argonauti”. E secondo me il grande
Ray Harryhausen, che le ha
realizzate, è il vero padre di ogni
genere di animatori, non solo quelli
di “stop-motion”o “frame by frame”
(tecnica che in italiano si traduce “a
passo uno”, ndr)famiglia minuscola
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ma resistente cui anch’io
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appartengo. I miei film strettamente
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d’animazione — “Vincent”, “The
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Nightmare before Christmas”, “La
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sposa cadavere”, “Frankenweenie”
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— sono la mia alternativa alla
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corporeità del digitale. Il modo
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artigianale con cui si fa questo tipo di
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animazione risponde perfettamente
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alla mia idea di cinema, che è prima
di tutto emozione. Il dilagante uso di
immagini realizzate al computer
risveglia invece meraviglia, è lo
stupore la sua prima e spesso unica
emozione, la stupefazione davanti a
quello che nella realtà sarebbe
impossibile — dinosauri, pesci
parlanti — e che il cinema digitale
rende “reali”. Ovvero più veri del
vero. Ma io sono sempre stato più
attratto dal sogno che dalla
quotidianità, è il sogno che mi aiuta a
attraversare la realtà, che vi si
mescola e che la rende più abitabile. I
sogni sono desideri realizzati che
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non pretendono d’essere altro che
sogni. Le illusioni, di cui il cinema
digitale è maestro e stregone, sono
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effimere bolle di sapone.
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le persone
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e potrebbero decuplicare
entro il 2020 con
una crescita del 20%
le persone
che hanno usato
sistemi biometrici
in dispositivi
mobili nel 2015
(secondo Biometric
Research Group)
45 miliardi
la cifra del mercato
che si prevede sarà
generata
dall’introduzione
dei sistemi biometrici
sui dispositivi mobili
tra il 2018 e il 2020
6milioni
5 miliardi
le applicazioni
scaricate
per l’autenticazione
biometrica
nel 2015. Si prevede
che saranno più
di 770 milioni nel 2019
i dispositivi mobili
dotati di sistemi
biometrici (cellulari,
tablet, wereables)
nel 2020 secondo
un rapporto di Acuity
Market Intelligence
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1892
1903
1968
1974
1991
2006
Un poliziotto argentino,
Juan Vucetich, cataloga
impronte digitali
e le usa per condannare
Francisca Rojas,
imputata per omicidio
Le prigioni dello stato
di New York usano
per la prima volta
le impronte digitali
per identificare
e schedare i carcerati
Il computer batte l’uomo
nell’identificare i volti
di 2000 persone raccolti
in un database.
Inizia il riconoscimento
facciale
Un dispositivo riconosce
il palmo della mano,
permettendo al soggetto
di accedere ad aree
riservate e controllare
l’orario di lavoro
Matthew Turk
e Alex Pentland
scoprono come
riconoscere un volto
in un’immagine
o un video
L’Unione europea
adotta il passaporto
biometrico. In un chip
vengono raccolte
le immagini del volto
e le impronte digitali
Le tappe
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1
LONDRA
ER AUTENTICARE LA CARTA DI CREDITO basterà un selfie. Il battito
del polso potrebbe aprire la portiera dell’auto. E l’accesso al
computer? Tramite frequenza cardiaca o movimento degli occhi. Care, odiate, vecchie password, la vostra fine è vicina. O almeno così sembra. E a soppiantare il metodo che ormai usiamo
da decenni per proteggere file, dispositivi, transazioni e conti
online, sarà la biometria. Niente più esercizi di memoria per far
riaffiorare decine di parole segrete. Perché la biometria non si
basa su ciò che ricordiamo, ma su chi siamo. Tramite la lettura
di caratteristiche anatomiche che sono uniche per ognuno di
noi. Dalle impronte digitali all’iride, dalle vene alle onde cerebrali.
Nel 2015, secondo il Biometric Research Group, almeno già 650 milioni di persone nel
mondo hanno usato un sistema biometrico su dispositivi mobili e da qui al 2020 questo numero potrebbe crescere del 20 per cento. Un segnale inequivocabile che occhi, volto, cuore
e dita stiano lentamente ma inesorabilmente diventando un metodo alternativo alle parole chiave ormai non più sicure.
La lettura delle impronte digitali è il sistema più collaudato. È stata la Apple a trascinarlo sul mercato di massa, nel 2013, con l’iPhone 5s in grado di riconoscere l’impronta del pollice per sbloccare lo smartphone. Recentemente anche Microsoft, con il nuovo Windows
10, ha offerto la possibilità di fare il MPHJO tramite impronta, riconoscimento dell’iride o del
volto (posto che il computer sia equipaggiato per questo). La Fujitsu ha invece lanciato sul
mercato giapponese un paio di cellulari in grado di scansionare l’iride e da questo mese si
può persino acquistare una pistola smart,
Identilock, dotata di un riconoscimento su«La sfida ora si gioca tutta sui dispositivi
per veloce delle impronte digitali, che fun- mobili. Che siano XFBSBCMF, cellulari o taziona solo quando la impugna il legittimo blet, già quest’anno vedremo i sistemi bioproprietario.
metrici diffondersi sempre di più e molto
Sul fronte bancario, Mastercard sta te- presto saranno in grado di estinguere le passtando un sistema di lettura facciale per au- sword». Ne è convinta Isabelle Moeller, amtenticare la carta di credito: al posto della ministratore delegato del Biometric Institupassword basterà farsi una foto con il cellu- te, organizzazione indipendente che aiuta
lare. Insomma, a ben guardare, la biome- le aziende a implementare in modo sicuro i
tria si sta già infilando nella corsia main- sistemi biometrici. «Però bisogna fare atstream. Non serve aspettare il 2020.
tenzione. La biometria non è perfetta e va
usata in maniera appropriata. Un esempio?
È inutile applicare un lettore d’impronte digitali a una porta vecchia e malconcia».
C’è poi il capitolo sicurezza. È proprio vero che le nostre caratteristiche genetiche
siano più difficili da copiare e rubare di una
password? «Non esiste una biometria non
falsificabile», mette in guardia Kasper Rasmussen, esperto di cyber security e professore del dipartimento di Scienze informatiche dell’università di Oxford. «Sicuramente verrà usata molto di più in futuro ma soprattutto dalle forze dell’ordine e nella sorveglianza di massa. Non credo soppianterà
le password nell’uso quotidiano. Se ci rubano una parola chiave possiamo sostituirla,
ma se ci rubano l’impronta digitale?».
È successo lo scorso settembre, quando
le impronte di 5,6 milioni di impiegati statali americani sono state violate da un gruppo
di hacker (cinesi, accusano gli Usa). I grandi database, nei quali si raccolgono i dati biometrici, sono ancora vulnerabili agli attacchi informatici. Alcune aziende, come Apple e Microsoft, salvano i dati non in un server centrale ma direttamente nel dispositivo. L’impronta del pollice, per esempio, viene salvata nell’iPhone. È un metodo più sicuro? «Dipende. È facile beccarsi un virus
mentre si scarica un’applicazione. Ma in
questo caso il ladro ruba solo un’impronta e
non migliaia», argomenta Rasmussen.
C’è poi il pericolo dello TQPPGJOH, il classico scenario da .JTTJPO*NQPTTJCMF o da film
di James Bond, quando il cattivo trancia il
pollice o cava gli occhi al malcapitato di turno per aprire il caveau di una banca o una valigetta preziosa. Nella realtà può succede-
re, ma in modo meno cruento. In Germania
un gruppo di hacker ha violato un iPhone fotografando un’impronta digitale su un bicchiere e usandola per creare un finto pollice
di lattice. Stessa cosa è accaduta in Spagna,
quando un gruppo di ingegneri ha ricreato
l’immagine di un’iride così perfetta da ingannare i sistemi di lettura che, per esempio, vengono impiegati negli aeroporti al
controllo del passaporto. «Per questo si è alla ricerca di nuovi parametri biometrici, più
difficili da riprodurre», prosegue Rasmussen. «Si stanno facendo esperimenti con le
onde cerebrali, il reticolo di vene del palmo
della mano e i battiti del polso. Io per esempio sto lavorando a un sistema che è in grado di riconoscere i movimenti degli occhi,
controllati dai muscoli. Questi movimenti
sono misurabili e unici per ciascuno di noi.
In futuro si potrebbe sbloccare lo schermo
del computer o avviare il motore dell’auto
solo con lo sguardo».
Altre tecnologie, secondo il professore,
sono più immature. Come quella che identifica il battito cardiaco, spesso usata nei XFB
SBCMF, come il bracciale Nymi, che misura il
segnale elettrico generato dal cuore e, via
wireless, avvia il portatile o qualsiasi altro
dispositivo al quale venga associato.
Proprio il battito cardiaco ha messo nei
guai il braccialetto per il fitness Fitbit, che
negli Stati Uniti è stato colpito da una class
action di consumatori che contestavano la
lettura troppo imprecisa del cuore sotto
sforzo.
Un monito per chi già sta preparando il
funerale delle password.
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
la Repubblica
%0.&/*$" '&##3"*0 I sistemi biometrici
Parlare
1 Cosa sono
Volto
Si tratta di sistemi
informatici che permettono
l'identificazione
di una persona sulla base
di una o più caratteristiche
biologiche e/o
comportamentali
mettendole a confronto
con dati, precedentemente
acquisiti e memorizzati
nel database del sistema,
tramite algoritmi e sensori
Retina
Impronta
Iride
Scrivere
INFOGRAFICA: STUDIO MISTAKER
Vene
Digitare
2013
2016
2017
2020
Lo scanner
per le impronte digitali
entra nel mercato
con l’iPhone 5s.
Riconosce le impronte
e sblocca lo schermo
Identilock è un grilletto
che si applica
alle armi da fuoco,
l’arma funziona
solo se la impugna
il proprietario
Il braccialetto Nymi
sfrutta una tecnologia
che identifica il ritmo
cardiaco del proprietario.
Si può appaiare a vari
dispositivi o oggetti
Ai dispositivi mobili
sarà applicato
uno scanner per la lettura
dei movimenti degli occhi,
che sono unici
per ciascuno di noi
2 Come funzionano
Registrazione
Viene creato un modello
attraverso l’acquisizione
di immagini o suoni
dell’utente
Digitalizzazione
Il sistema legge
uno dei tratti biometrici dell’utente
trasformandolo in formato digitale
interpretabile da un computer
Memorizzazione
I dati biometrici trasformati
in codice binario vengono
poi archiviati nella memoria
del device
Confronto
Il sistema operativo
legge i tratti biometrici
e li confronta
con quelli memorizzati
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010010011011
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101000101001
01110
10100
10101
01001
01110
10100
3 I componenti
Sensore
Rileva le caratteristiche
fisiche o comportamentali
con le quali avviene
l’identificazione
Software
Analizza le caratteristiche,
le traduce in un codice
e li paragona quando
l’utente chiede l’accesso
Dispositivo
Legge e immagazzina
le informazioni che
vengono rilevate dai sensori
Accesso
Le funzioni vengono sbloccate
quando il sistema operativo
del device riconosce
i dati biometrici del proprietario
la Repubblica
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ICORDATI CHE
NON SI INGRASSA tra
Natale e Capodanno,
ma fra Capodanno e Natale” recita
un
antico
proverbio cinese. Parole
da incidere
nel bronzo, se è vero che nel paese più popoloso del pianeta —
quasi un miliardo e mezzo di persone — i festeggiamenti culinari del Capodanno Agricolo (o Festa di Primavera) sono improntati più alla purificazione che all’accumulo calorico. Una
scelta gastro-salutare che i cinesi condividono con Corea, Mongolia, Nepal, Bhutan, Vietnam e Giappone.
La vistosa sfasatura rispetto alla datazione occidentale è figlia del calendario luni-solare, dove i mesi cominciano in coincidenza con la Luna nuova. Così, Capodanno viene a cadere il secondo novilunio dopo il solstizio d’inverno (tra il 21 gennaio e
il 19 febbraio del calendario gregoriano) con una coda di festeggiamenti che dura quindici giorni, fino all’emozionante
chiusura rappresentata dalla festa delle lanterne.
La ricerca non solo simbolica dell’identità uomo-natura può
far sorridere pensando all’inquinamento pesantissimo che tormenta gli abitanti di Pechino o
alla produzione alimentare
massificata, spesso dissonante
dagli standard di sicurezza alimentare praticati in Occidente. Eppure, in patria come all’estero i cinesi conservano una
grande fedeltà ai comandamenti alimentari locali ancorati ai precetti della medicina tradizionale, per i quali corpo e
anima sono indissolubilmente
uniti: curando col cibo l’uno si
finisce per guarire anche l’altra. Una convinzione che la lingua cinese supporta intrecciando assonanze tra i suoi fonemi.
La frutta, per esempio. Gli
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agrumi sono protagonisti del
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menù di fine anno, perché le
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parole oro e arance si assomi-"4'*-"5"%&-%3"(0/&
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mero che rappresenta la mor"440$*"50"--"$26"
te (così come il colore bianco).
In compenso, il suo multiplo otto simboleggia la fortuna e quindi in molte ricette rituali si assommano otto varietà di un singolo ingrediente (legumi, semi, fiori...).
A metà tra scaramanzia e rispetto, negli anni i menù festivi
sono stati plasmati secondo le esigenze di chi emigrava, una
diaspora che ha portato i cinesi a fondare comunità importanti da una parte all’altra del mondo. Sparsi nei cinque continenti a cercare un sorridente futuro gastronomico, le nuove generazioni di aspiranti cuochi sono diventate le fonti più ambite
dai ristoratori, a cui attingere per trovare stagisti capaci di assimilare tecniche e ricette, mandarle a memoria e ripeterle
all’infinito con precisione maniacale.
I più bravi e ispirati hanno cominciato a deviare impercettibilmente dal percorso segnato. Perché non sempre la soia fermentata è quella giusta, o la farina di grano tenero o il riso glutinoso. Unendo tecnica orientale e materie prime locali è diventato quasi facile inventare una via “mediterranea” alla cucina cinese, che fa arricciare il naso ai puristi ma attira irresistibilmente neofiti e appassionati.
Se la cucina cinese e il suo Capodanno rituale vi solleticano,
regalatevi una gita a Prato, sede della seconda chinatown d’Italia dopo Milano, dove in occasione della Festa di Primavera
chef Kumalé condurrà un gastro-racconto itinerante a tutto
tondo, dalle degustazioni alla spesa guidata al mercato di strada. Ogni domanda sarà lecita: nell’anno della Scimmia, la curiosità più che un optional è d’obbligo.
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-
E TRADIZIONI del capodanno
cinese si sono conservate
prevalentemente nelle aree
agricole della Cina e nei
possedimenti inglesi, specie a
Hong Kong. Per respirare l’atmosfera di
quella che è la ricorrenza più sentita dai
cinesi si può cominciare con una visita ai
templi, come quelli di Man Mo o Wong Tai
Sin T. dove nelle due settimane di
festeggiamenti si riversano orde di fedeli
con le loro offerte votive. Gli altari e i
cortili dei templi sono avvolti in nuvole
d’incensi, arance (“temple fruit”) e mele
tatuate con ideogrammi augurali, ma
anche galline, pesci, frutti del dragone e
ortaggi di stagione, portati in dono in
segno di buon auspicio. In occasione della
cena della vigilia, poi, in ogni famiglia si
cucinano grandi quantità di cibi
tradizionali con due o tre giorni
d’anticipo, in modo che questi siano
sufficienti anche per i giorni a venire;
questo perché nessun coltello o altro
oggetto affilato può essere usato all’alba
del nuovo anno per timore che la buona
fortuna venga troncata… guai a tagliare i
“baffi del dragone” i lunghi spaghetti
“tirati” a mano in modo acrobatico,
simbolo di longevità secondo la tradizione
di Shanghai. I ravioli (“jiaozi”)
rappresentano un must nella Cina
settentrionale, mentre nel Cantonese i
“Dim Sum” sono una delle principali
golosità per le loro svariate farciture. Un
tempo se la famiglia aveva i mezzi,
aggiungeva al ripieno di alcuni ravioli
canditi, monete di rame, arachidi, datteri
o castagne. Le famiglie ricche anche oro,
argento e pietre preziose. Trovare nella
propria ciotola uno di questi ravioli è
considerato di buon auspicio. Le arachidi
simboleggiano lunga vita, i datteri e le
castagne presagiscono l’arrivo
imminente di un figlio (nella lingua
cinese le parole “dattero”, “presto” e
“castagna” e “arrivo di un bambino” sono
omofone).
Nelle regioni costiere sulla tavola viene
posto un grosso pesce cucinato intero, per
simbolizzare l’unità della famiglia, in
osservanza al detto popolare “Nian nian
you yu”, ovvero “ogni anno c’è
abbondanza” (“yu” significa sia pesce che
abbondanza). I mercati si colorano di
lanterne rosse, le bancarelle si riempiono
dei prodotti tipici del capodanno (“nian
huo”): salsicce di maiale alle cinque spezie
(“lap xuong”), anatre laccate e pressate,
prosciutti dell’Hunan, infinite varietà di
uova: d’oca, quaglia, di gallina nera o
azzurra, fresche o “di cent’anni” (“pi
dan”), simbolo di buon augurio e
fecondità, specie se colorate di rosso
(“hong ji dan”). E nella Cina del nuovo
millennio tradizione e business vanno a
braccetto: l’augurio tradizionale nell’anno
della scimmia, “Kung hei fat choi”, si
carica di connotati materiali: “Ti auguro
tanta abbondanza” diventa “ti auguro
tanti soldi”.
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la Repubblica
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Regista, sceneggiatore di fumetti, scrittore, guru, gran maestro
di tarocchi. In continua mutazione (e provocazione) ha lavorato
con Moebius e Marcel Marceau, con Breton e Chevalier: “In realtà
tutto inizia già prima che nascessi ben ottantasette anni fa: sono
figlio di ebrei dell’impero russo che si rifugiarono in Cile per scampare ai pogrom. Sulla mia infanzia pesa la crisi del ’29. E poiché il
passato non passa posso dire che è da allora che sono in crisi economica”. In Cile ha appena fini- mento dei tarocchi (“lezioni” nei suoi $BCBSFUTNZTUJRVFT) e sceneggiatura di
(«un album ogni tre mesi»), talora per matite superstar come Manara
e un tempo Moebius. Insomma, un variegato frutto cosmico, minicosmo a sua
to di girare il suo ultimo film, e fumetti
volta di mille, eclettiche esperienze: «La prima? A Santiago, quando lasciai l’università per creare un teatro di marionette e fare il clown in un circo». Oggi
gioventù vivida e ribelle riappare nelle sulfuree pagine autobiografiche
forse ora scriverà della sua vita quella
del 5IÏÉUSFEFMBHVÏSJTPO (e prima ancora in -BEBOTFEFMBSFBMJUÏ, libro e poi
film) e adesso in Poesia sin fin, appena girato in Cile, protagonista il più giovafigli, che Jodorowsky sta montando in vista d’una probabile “pri“Ogni autobiografia è sempre nema”deia cinque
Cannes. Difficile contenere tanta vita in soli due libri e due film , vero?
«Se mi estraggono in tempo la zampa dalla fossa ne prevedo altri tre. Ogni auo autoritratto è una bara: ma dentro c’è uno scheletro che danza.
una bara. Ma dentro c’è uno tobiografia
“Il sole non è più grande del mio piede”, diceva Eraclito. E cioè: in un fiume non
mi è concessa due volte la stessa immersione: non perché l’acqua scorre, ma
perché io non sono più lo stesso». Una mutazione, la sua, che attraversa decenscheletro che danza”
ni di tormentate trasformazioni: «Badi bene, iniziate ben prima della mia na-
"MFKBOESP
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. " 3 * 04 & 3 & / & - - * / *
(
GÉRARDMER (FRANCIA)
ESÙ CAMMINA SULLE ACQUE. Finché non scivola su una buccia di ba-
nana e sprofonda. È una vignetta di Roland Topor che l’amico delle origini, Alejandro Jodorowsky, si diverte a evocare nell’incontro-show in riva al lago di Gérardmer, pigro ron-ron nell’inverno
troppo mite dei Vosgi che ha sottratto la neve agli sciatori rimpinzando però le sale del XXIII Festival du Film Fantastique di giovani in fuga
dall’horror della pioggia. Jodorowsky ama le battute, a suo dire «concentrati
di saggezza» e, viceversa, gioca a racchiudere le saggezze in una battuta:
«Quel che dai, lo dai a te. Quel che non dai, lo togli a te». Sono simmetrie già
condivise con altri due parigini adottivi, il polacco Topor, appunto e lo spagnolo Fernando Arrabal. Suoi complici, nel lontano 1962, nell’avvio del movimento Panico: «Fu una reazione al movimento surrealista», ridacchia Jodorowsky
saldandosi dentro il piumino blu che copre il viola sacerdotale di pantaloni e casacca, lasciando brillare a fil di lago il candore di barba e capelli.
«Avevo telefonato a Breton alle tre di notte: “Sono venuto a salvare il surrealismo”. “Grazie”, mi rispose, “ma non a quest’ora:
richiami a mezzogiorno”. “No, il surrealismo devo salvarlo subito, domani è troppo tardi”, e riattaccai. Ci siamo conosciuti sette anni dopo. Intanto, però, avevamo fondato il movimento Panico». Jodorowsky ama mettersi in scena: piccolino, il naso d’aquila che affila il sorriso, ha l’arte di far sembrare straordinario
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tutto ciò che dice. Sapienza di pause, economia di gesti, apprese ai suoi esordi di mimo (a fianco del grande Marcel Marceau) e con la pratica d’attore, nei propri film e in teatro: «In scena diventi un altro: ma diventare un altro significa diventare se stessi, riscoprirsi nel profondo». Alla recitazione aggiunge ogni
volta la magia lineare e iterativa della poesia: «Non si
può guarire il mondo, ma si può guarire se stessi. Non
si può guarire il mondo, ma si può cominciare ad arricchirlo, portando alla luce quanto dorme nel pozzo del
nostro inconscio».
Jodorowsky si divide fra tre patrie. Il Cile, dov’è nato
il 7 febbraio di ottantasette anni fa. Il Messico, dove ha
girato i primi film. E la Francia, dove alterna insegna-
scita. Sono figlio di una famiglia di ebrei originari delle città ucraine dell’Impero russo rifugiatisi in Cile per scampare ai pogrom. I miei, come tutti, erano diretti in Nordamerica ma vennero derubati. A Parigi un’organizzazione ebrea
li mise sul primo bastimento in partenza: destinazione, l’altro capo del mondo, il Cile appunto. Sul mio passato, fin dai primi anni pesa la crisi economica
del ’29 che dagli Stati Uniti si allarga a tutto il Sudamerica. A Tocopilla, mio
paesino natale nel nord del Cile, la gente lavorava nelle miniere: esplosioni di
dinamite e tanti mutilati. Che non a caso ricorrono nei miei film. La mia infanzia non è un "NBSDPSE. Io, che di Fellini ho adorato -BTUSBEB, quel film invece
l’ho detestato, perché lì Fellini ha cercato di piacere, di fare il simpatico di catturare superficiali consensi mettendo il passato dentro una vetrinetta. Ma il
passato, è sempre drammatico, e spesso tragico per un bambino. Potrei dire
che in me, la crisi economica dura da ottantasette anni». Dunque paesino cileno come primo luogo di formazione. L’avrà subìto con un senso di clausura:
«C’era fortunatamente una piccola biblioteca municipale, con titoli persino
esoterici, tenuta dagli inglesi. A nove anni mi ero letto tutti i racconti d’avventure. A diciannove, ho scoperto Kafka e Dostoevskij. Mio padre, che aveva due
baffoni alla Stalin (riequilibrati da mio nonno, pelato come Gandhi), vedeva
in me un futuro medico. Ma io mi sono staccato dalla famiglia, per diventare
me stesso. Nel ’53 ho lasciato il Cile per Parigi dove ho lavorato con Maurice
Chevalier e con Marceau, per il quale ho scritto -FGBCSJDBOUEFNBTRVFT». Nel
‘65, poi, il gran salto in Messico, sua culla di regista: «Il cinema è stato sempre
per me una fiaba. Anche il Messico: una fiaba. Niente di più naturale, dunque,
che il mio cinema sia nato in Messico». Ma all’inizio non ha avuto vita facile:
«Al festival di Acapulco 'BOEPF-ZT, dalla pièce di Arrabal, nel ‘68 ha provocato una sollevazione popolare: stavano per linciarmi. Nel ’70, &M5PQP, che avevo girato a credito, con la sua aura mistica ha sedato gli animi e, persino, lanciato la moda del “film di mezzanotte”. Così John Lennon e Yoko Ono convinsero Allen Klein, il manager dei Beatles, a produrmi -B.POUBHOBTBDSB. Dove sono tornate le minacce, già sul set. Una volta, per scoraggiare uno che brandiva
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una pistola, mi sono finto giapponese, alzando la voce e mitragliandolo di monosillabi incomprensibili. Guardi, così…», e Jodorowsky ripete ridendo l’impressionante frittata sonora. Enorme buco nero, invece, nella storia del cinema e, ancor più, della cinefilia, la realizzazione interrotta di %VOF, dal romanzo di Frank Herbert, che per l’ampiezza stellare del progetto avrebbe assicurato al regista l’etichetta che s’era preventivamente assegnata di “Cecil B.
DeMille dell’underground”: «Che dire. Film faraonico. Qualcosa avevamo
già girato. I film incompiuti dovrebbero almeno aver diritto d’esistenza, come succede nella musica —pensi all’*ODPNQJVUB di Schubert o nella letteratura *MDBTUFMMP di Kafka. Per quello che s’annunciava il più
grande film di fantascienza della storia, nel ’75 avevo già nel cast
Orson Welles, Mick Jagger e Salvador Dalì che sarebbe stato
l’Imperatore folle. Per le scene, H.R.Giger (futuro ideatore di
"MJFO) e Moebius, che sarebbe diventato il mio alter ego a fumetti nella serie -*ODBM. Musiche: Pink Floyd, Tangerine
Dream, Magma. Grande, no? Ma i produttori, spaventati,
hanno fatto in fretta e furia le valigie». David Lynch nove anni dopo adattò %VOF a suo modo, disgustando Moebius.
«Lynch mi piace, mi piace molto il suo cinema. Siamo anche stati a un Festival insieme, a New York: entrai in un caffè e lui, con i capelli tutti all’insù (Jodorowsky li “mima”,
OES), mi vide e mi abbracciò. Stessa scena a Roma, nell’89,
ma stavolta con Fellini: lui stava montando -BWPDFEFMMBMV
OB, io stavo mettendo in piedi con il produttore Claudio Argento, il fratello di Dario, 4BOUB4BOHSF, il mio horror messicano. Sa? Adoro l’horror, perché è fondato sulla nostra paura più elementare: quella di essere mangiati. Un tempo, dagli
zombie. Oggi, dalla banca. Ebbene, Fellini mi vide: “(JPEPSP
TLJ!” E io: “Papà!”. Con Fellini ho scambiato una parola, con Lynch neppure quella».
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