L`economia e le ragioni del diritto del lavoro di Riccardo
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L`economia e le ragioni del diritto del lavoro di Riccardo
L’economia e le ragioni del diritto del lavoro di Riccardo Del Punta Sommario: 1. Tra orgoglio ed incertezza. 2. Il dialogo metodologico. 3.La teoria neoclassica. 4. Flessibilità e occupazione. 5. Le imperfezioni del mercato del lavoro. 6. Il “vecchio” istituzionalismo. 7. La Nuova Economia Istituzionale. 8. Il “teorema di Coase”. 9. Il marchio del diritto del lavoro. 1. Tra orgoglio e incertezza. Il tema qui affrontato è, nella sua essenza, un tema metodologico. Riflettere sullo stato attuale dei complessi, e spesso opaci, rapporti fra il diritto del lavoro e la Labour economics , implica tracciare, quasi ad ogni passo, distinzioni e ripartizioni di compiti, che ci riportano a questioni di identità e di funzione delle rispettive discipline. Ciò ci proietta nel cuore del problema metodologico: mettere in contatto posizioni teoriche elaborate nei rispettivi campi di ricerca, può essere proficuo a condizione che vi sia un chiarimento preliminare sui rapporti che si ritiene debbano intercorrere fra economia e diritto (del lavoro). Il tema è tanto attuale politicamente, quanto poco approfondito scientificamente, con alcune eccezioni1, nel dibattito italiano, anche come conseguenza di una certa riluttanza , nonostante la conclamata “crisi” del diritto del lavoro, a rituffarsi nelle questioni metodologiche primarie, pur così bisognose di essere costantemente ridefinite, specialmente a fronte di mutamenti economici, sociali, culturali, come quelli che stiamo vivendo, nei quali la cultura economica gioca, come è notorio, la parte del primo attore, tanto da evocare lo spettro del monopolio culturale, o “pensiero unico”. Il discorso sulla “crisi” del diritto del lavoro, più spesso evocato che costruttivamente tematizzato dalla dottrina italiana2, non può essere sviluppato in queste pagine, fermo restando che riflettere sul metodo è anche riflettere, in qualche modo, sulle ragioni della crisi. Che vi sia in molti giuslavoristi, fra i quali mi annovero, una prima reazione di difesa dell’identità minacciata, è tutto sommato comprensibile. Nel ragionamento economico, che per ora possiamo assumere – con una fictio - come un tutto unitario, si annida una sottile pretesa di egemonia intellettuale, che sfiora, talvolta, l’arroganza, e che si rivela anche in un certo disinteresse degli economisti3, posseduti come sono da una sorta di materialismo storico riveduto e corretto, a confrontarsi con i giuristi. Ma la difesa dell’identità è, nel giurista, il velo dietro il quale si nasconde un atteggiamento più complesso e sfaccettato, che tende ad oscillare fra indifferenza, orgoglio del “dover essere”, latenti complessi di inferiorità, aperture cognitive più o meno spurie, punte di iconoclastia. Si affaccia in alcuni giuristi – quelli più esposti alla forza corrosiva del dubbio una sorta di incertezza sulla loro collocazione scientifica. Essa è figlia della grande ambiguità metodologica nella quale è precipitata una scienza giuridica sempre più protesa, dopo la 1 Oltre ai lavori di Pietro Ichino, ai quali verrà dato ampio spazio nel corso della trattazione, si veda il saggio di Piera Loi, L'analisi economica del diritto e il diritto del lavoro, DLRI, 1999,547; della stessa A., v. anche il lavoro monografico La sicurezza. Diritto e fondamento dei diritti nel rapporto di lavoro, Giappichelli, Torino,2000, spec. cap.V, che però non si è potuto consultare ai fini del presente saggio). Di particolare interesse ed utilità per chi scrive è stato anche lo studio di M. Novella, La norma inderogabile nel diritto del lavoro. Il regime giuridico e la giustificazione economica, Tesi di dottorato,Univ. di Ferrara, 1999. Nella letteratura straniera, sono di grande interesse i contributi di Simon Deakin e Frank Wilkinson, dei quali sono stati tradotti in italiano i saggi Il diritto del lavoro e la teoria economica: una rivisitazione, DLRI, 1999, 587, e "Capabilities", ordine spontaneo del mercato e diritti sociali, DML, 2000, 317. 2 Per una densa e stimolante riflessione sull’argomento, v. però M.Barbera, Dopo Amsterdam. I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Promodis Italia, Brescia,2000,spec. cap.I. 3 O almeno di quelli che fanno riferimento alle scuole più importanti: tale critica non potrebbe certamente essere rivolta, ad esempio, agli esponenti della scuola americana della Institutional Economics (sui quali v. infra, § 6), a loro volta pressoché ignorati dai colleghi. 1 reazione antidogmatica, a svolgere un faticoso ruolo di recezione e di sintesi di istanze molteplici ed eterogenee. Quello del giurista è ormai un destino di relativo eclettismo metodologico, e ciò comporta un arricchimento culturale e scientifico e contiene i germi di un rinnovato orgoglio. Del resto, i giuristi tutto questo se lo sono voluto; stavano stretti e si annoiavano nei loro vecchi panni, e adesso non possono lamentarsi quasi di nulla. Tuttavia, se l’orgoglio non si accompagna ad un fecondo rinnovamento epistemologico, rischia di isterilirsi in qualche sofisticata forma di hybris, che può essere inebriante nel breve periodo ma che comporta, alla fine, lo smarrimento dell’identità e l’incapacità di resistere agli “attacchi” esterni4. L’unica via, a quel punto, è quella di tornare al metodo, ma ad un metodo al passo con l’evoluzione culturale, che sia in grado di incorporare e razionalizzare quel processo dialettico fra apertura cognitiva e ri-concettualizzazione giuridica, o se si vuole fra pensiero problematico e pensiero sistematico5, che è la croce e la delizia del giurista contemporaneo. Un giurista che pare condannato ad un perenne andare e tornare, e che deve imparare ad ascoltare gli “altri” con umiltà intellettuale, senza però dimenticare la sua identità, la sua “casa”, ed alla fine sempre tornandovi. Un giurista che deve saper difendere ad ogni costo, con la passione dei buoni argomenti, la linea che egli ha il compito di tracciare, una volta compiuti i processi dell’apertura e dell’osmosi cognitiva, a protezione della normatività6. Il suo compito, già difficile, è reso ancor più arduo, non di rado, dalla politica. Un tema come quello proposto è carico di implicazioni politiche, di breve e di lungo periodo. La politica, facendo voracemente il suo mestiere, tende a strumentalizzare e semplificare tematiche come quella della flessibilità. Ciò fa sentire quasi demodé chi tenti di andare alla ricerca di un equilibrato “regolamento di confini”, oltre la sterile contrapposizione fra diritti ed efficienza. Sullo sfondo, se non bastasse, si agitano contrapposizioni ideologico-culturali tanto radicali da non essere componibili, in nome delle quali la resistenza all’economia ed alla globalizzazione assume valenze politiche e simboliche molto forti7. Nessuno, ovviamente, può chiamarsi fuori dalla politica, e le riflessioni che proporrò non fanno eccezione, per quanto rarefatte possano, talora, sembrare. Ma, se la politica si concentra sui contenuti, tendo a ritenere più importante, in questa fase, il confronto metodico, finalizzato alla individuazione, tutt’altro che facile, di un terreno di dialogo comune, sulla base di un principio di riconoscimento reciproco e di competenza funzionale; senza dimenticare che per dialogare bisogna essere in due. 2. Il dialogo metodologico. Le diversità fra diritto ed economia sono tanto numerose, quanto sono fitte, ormai, le loro intersezioni. La diversità originaria, costitutiva, concerne l’oggetto delle due discipline, l’una puntata sull’essere dei comportamenti socioeconomici, e l’altra classicamente sul dover essere della norma giuridica8. Sarebbe frettoloso, tuttavia, inferirne, conclusioni definitive sulla natura delle due scienze, bollando l’economia come scienza esclusivamente descrittiva o positiva, ed il diritto come scienza prescrittiva o normativa. Sappiamo bene che anche il diritto può essere una scienza esclusivamente positiva, con un campo d’indagine limitato al 4 Ciò senza dimenticare, peraltro, che se di “aggressività” dell’economia si può parlare, essa è determinata da fattori storici e politici, prima che culturali. 5 V. L. Mengoni , Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, p.11 ss. 6 Sul punto si tornerà nel paragrafo conclusivo del saggio. I paragrafi dal secondo all’ottavo sono invece dedicati, il secondo, ad un approfondimento delle ragioni e delle implicazioni dell’apertura cognitiva (del diritto del lavoro nei confronti dell’economia del lavoro, non potendo, da giurista, pormi anche sulla visuale opposta), e quelli dal terzo all’ottavo, ad una prima applicazione del metodo adottato. 7 Per un classico del genere, v. V. Forrester, L’orrore economico, Tea, Firenze,1997. 8 V. P.Ichino, Il dialogo tra economia e diritto del lavoro, in G.Brunello, D. Checchi, A. Ichino, C.Lucifora, Manuale di economia del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2001 (in corso di pubblicazione). 2 sistema giuridico così come esso è, e viceversa che l’economia tende a trasformarsi, più o meno apertamente, in virtù della sua pretesa di arrivare al “nocciolo” del reale e grazie all’aggancio con la politica economica, in scienza normativa. Gli intrecci che possono venire a determinarsi, per effetto di queste dinamiche culturali interne, sono molto complessi. Ciò premesso, non c’è dubbio che il proprium della scienza economica sia l’analisi descrittiva dei comportamenti economici, e che questa sia orientata da uno scopo fondamentale: la massimizzazione dell’efficienza nell’allocazione di risorse, che sono per definizione scarse9. L’efficienza, che si rivela attraverso le lenti dell’ottimalità paretiana, è concepita fondamentalmente in chiave di massimizzazione della quantità di ricchezza prodotta 10. Le teorie economiche vengono a giustapporsi nello spazio fra il fine, che è sempre quello pur nella diversità degli indirizzi, ed i mezzi per raggiungerlo o per avvicinarsi ad esso. Se è vero, infatti, che sono numerosi (anche nell’economia del lavoro) esempi di ricerche economiche quasi prive di una bussola teorica, tanto sono animate da sperimentalismo intellettuale e da un genuino spirito empirico, è chiaro che, anche quando non punta ad un vero e proprio modello, la ricerca presuppone una teoria, esplicita o sottintesa che sia l’adesione ad essa. Ma non c’è, per venire al nostro tema, un’unica teoria del mercato del lavoro. Spesso il giurista vede la scienza economica come un tutto compatto ed omogeneo: si tratta di un’impressione fallace, che dipende forse dal fatto che gli economisti più “radicali” sono quelli che si fanno sentire di più e che influenzano la vulgata. Chi si affacci un po’ di più alla finestra, percepisce che il pluralismo delle scuole è relativamente forte, che il dialogo fra esse è piuttosto scarso, e che – pur nell’ambito della mainstream economics - non c’è concordia sulle spiegazioni causali di certi fenomeni come la disoccupazione, anche perché le “evidenze empiriche” sono, spesso, assai poco “evidenti” e univoche. Quanto al diritto, chi vada alla ricerca di una parola da contrapporre all’efficienza degli economisti, finirebbe forse col pronunciare la parola giustizia. Poiché, però, i rapporti fra diritto e giustizia rappresentano niente di meno che il tema centrale sul quale la riflessione filosofica sul diritto si affatica da secoli, non abbiamo altra scelta se non quella di restringere l’orizzonte del ragionamento, e di provare ad isolare, fra i vari possibili paradigmi fondativi del diritto del lavoro, quello che ci sembra più rispondente alla funzione storica svolta dalla disciplina ed alla percezione riflessiva della dottrina, così da assumerlo come base del confronto metodologico con l’economia. Non è indispensabile, ai nostri fini, che quel paradigma sia vero od esaustivo; l’essenziale è che un paradigma vi sia, perché senza di esso il diritto del lavoro non può frapporre alcuna resistenza duratura alle pressioni dall’esterno. La risposta alla domanda appena posta potrà sembrare ovvia, una di quelle risposte che ciascun cultore del diritto del lavoro in cuor suo già conosce. Ma non così ovvie potrebbero esserne le implicazioni. Non pare superfluo, perciò, ricordare che il diritto del lavoro si è sempre caratterizzato per una comunicazione particolarmente ravvicinata ed assidua fra i valori e le norme. Lo statuto assiologico della materia è stato ed è parte integrante della sua esperienza vivente, con l’inevitabile corollario (dovuto anche alla concomitante presenza di un “ordinamento” intersindacale) di uno scarsissimo radicamento di concezioni ispirate al positivismo giuridico. Il paradigma che emerge può essere tuttora riportato alla categoria 9 V., per tutti, P.Samuelson, Economia, IX ed., UTET, Torino,1977,p.6. Esiste purtuttavia un approccio relativamente agli albori, ma che può contare sulla grande autorità scientifica di Amartya Sen, che potrebbe contribuire, in qualche misura, ad una ridefinizione degli obiettivi della scienza economica. Esso va alla ricerca di una nozione di efficienza capace di incorporare anche standards di ordine qualitativo, che ruotano intorno al concetto di benessere del cittadino (v., ad es., A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano, 2000,p.74 ss.),ma analizzati e misurati tramite una strumentazione che rimane di tipo economico. Si tratta,è inutile dirlo, di un filone di ricerca di grande interesse e dal quale è lecito attendersi molto. La fecondità del pensiero di Sen per il nostro tema è dimostrata anche dall'utilizzazione del concetto seniano di "capability", sul quale v. infra, § 9.Per un approccio più ampio all'economia come scienza del "valore sociale", v. anche infra,§6, a proposito della Institutional Economics. 10 3 weberiana del diritto materiale, espressione della razionalità rispetto al valore 11. Parliamo quindi di valori e di normatività, più che di giustizia; altri potrebbe rivendicare, vedendo la cosa da un altro versante, il primato della politica. Ma se i valori, qui assunti nell’accezione più ampia e generale possibile, sono la base fondante del diritto del lavoro, la legge dell’apertura cognitiva della disciplina verso l’esterno – la società e le scienze che elaborano il sapere sociale – è iscritta nel suo DNA. L’idea di una produzione endogena dei valori all’interno del sistema giuridico è, d’altra parte, insostenibile ed al fondo antidemocratica. Si potrebbe obiettare che, in un ordinamento a costituzione rigida, i valori rilevanti sono quelli formalizzati negli articoli della Costituzione e nelle altre fonti di rango costituente (fra le quali si deve cominciare ad annoverare, in prospettiva, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea12). Non c’è dubbio, in effetti, che essi indichino all’ordinamento la sua principale direzione di marcia. Ma, come ha spiegato Gustavo Zagrebelsky13, quelle costituzionali sono per lo più norme di principio rivolte a garantire una comunicazione permanente fra diritto e società, e che debbono pertanto rimanere aperte all’ambiente sociale; senza contare che la Costituzione materiale tende sempre a sopravanzare quella formale, specialmente in tempi di trasformazioni rapide come quelli che stiamo vivendo. Ciò premesso, credo che un diritto che non ha mai rivendicato la propria autosufficienza positivistica, e che anzi è stato il principale artefice del superamento del diritto formale ottocentesco e monoclasse, sì da sviluppare una naturale apertura nei confronti delle scienze sociali, non possa poi decidere di chiudersi nei confronti delle elaborazioni della scienza economica. Per non tradire se stesso, e se vogliamo anche per non smentire il suo atavico pragmatismo, esso deve rimanere aperto nei confronti di qualsiasi acquisizione rilevante, e quindi anche nei confronti dell’economia. Ciò a maggior ragione nell’epoca della “crisi” della materia, giacché si può sperare di rovesciare in positivo tale crisi soltanto esponendosi a quella “disintegrazione produttiva” del discorso lavoristico, che è stata brillantemente teorizzata da Hugh Collins14. Si sa, del resto, che l’identità che si rafforza è soltanto quella che ha accettato di mettersi in pericolo. La prescrizione dell’apertura cognitiva potrebbe apparire incoerente con l’assunto di partenza, e quasi paradossale. Che cosa c’entra – si potrebbe obiettare - l’economia con i valori? Se la razionalità in gioco è "rispetto al valore", l’economia non dovrebbe rimanere fuori della porta? Non ritengo che tale conclusione sarebbe corretta, per una serie di ragioni fra esse correlate. La prima è che anche il paradigma della razionalità rispetto al valore incorpora una valutazione “di scopo”, ovvero di congruenza fra mezzi e fini. Si tratta di una valutazione tanto ex ante, quanto ex post. Nel primo senso, e ad un livello molto generale , è ormai senso comune che l’efficienza del sistema economico è una precondizione di quei diritti che comportano un effetto redistributivo di ricchezza, nel senso che tali diritti debbono essere rapportati alle possibilità reali e che debbono essere soppesate, fra i tanti elementi da prendere in considerazione per decidere se introdurre o se mantenere una certa disciplina giuridica, le sue prevedibili 11 V. M. Weber, Economia e società,III, Sociologia del diritto, Ed. di Comunità, Milano, 1981, pp.14 ss. ; sui corrispondenti paradigmi di razionalità, v. ivi, I, Teoria delle categorie sociologiche, pp.21-22. Cfr. anche G. Teubner, Juridification. Concept, Aspects , Limits, Solutions, in G. Teubner (ed.), Juridification of Social Spheres, De Gruyter, Berlin – New York, 1987, p.3 ss., qui p.11, che utilizza le categorie weberiane come fulcro della sua analisi della crisi regolatoria della legge materializzata nello Stato sociale contemporaneo. 12 In argomento, v. L’Europa sociale e i diritti fondamentali, RGL, n. 4 del 2000. 13 V. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi,Torino,1992, p.147 ss. 14 V. H.Collins, The Productive Disintegration of Labour Law, ILJ, 1997,295. 4 conseguenze economiche15. L’enfasi eccessiva che alcuni economisti della “crescita” pongono sui dati di quantità, al punto da definire le misure redistributive come garanzie “sottrattive” (di risorse alla crescita)16, non ci deve far dimenticare che, per poter redistribuire, occorre prima produrre, e che l’utopismo dei valori e dei diritti è un vicolo cieco. E’ la saggezza dei classici a ricordarcelo, dalla colta lucidità di John Maynard Keynes17, all’insegnamento antiretorico di Norberto Bobbio circa la mancanza di un fondamento assoluto dei diritti, giacché essi vivono nella storia e nelle condizioni reali che ne rendono possibile il soddisfacimento18. Sull’eco di queste voci, l’art. 136 del Trattato di Roma, che richiama la necessità di mantenere, pur nella promozione degli obiettivi sociali, "la competitività dell'economia della Comunità", sembra davvero l’espressione di un aggiornamento del vecchio paradigma. Inoltre, rimarrà sempre da verificare, sulla base dell’esperienza, se quella scelta era idonea al fine. Nell’essenza di un diritto materiale come il diritto del lavoro sta, come ha scritto Gunther Teubner19, il suo legittimarsi in base alle conseguenze sociali delle sue scelte, secondo il metodo del trial-and-error. Ne deriva che per conoscere e calcolare l’impatto reale di date scelte normative, e per scongiurare il rischio che esse tradiscano le intenzioni che le avevano animate (onde evitare che abbiano ragione quei liberisti radicali i quali sostengono che nessun tipo di intervento sulla società è opportuno per l’imprevedibilità delle sue conseguenze), è indispensabile, ancora una volta, l’apporto delle altre scienze sociali, e soprattutto dell’economia. Su questa utilizzazione della scienza economica ai fini di una pragmatica verifica consuntiva, sembra ormai registrarsi un consenso diffuso e salutare; salutare anche per la maggiore attenzione, che esso implica, nei confronti dell’osservazione empirica tout court (non erano necessarie raffinate ricerche economiche per capire che il vecchio sistema di collocamento – e forse il giudizio potrebbe estendersi al nuovo – era un controsenso). Una seconda e più specifica ragione in favore dell’apertura cognitiva è che esiste un importante punto di intersezione fra economia e diritto del lavoro. Non è vero che l’efficienza non abbia nulla a che vedere con i valori. La piena occupazione, che è l’indicatore fondamentale di efficienza del mercato del lavoro, rappresenta anche l’attuazione di uno dei più cruciali valori costituzionali. L’insidiosità di molte critiche rivolte da Pietro Ichino, nel corso dell’ultimo decennio, a questa o quella normativa lavoristica20, è dovuta alla segnalata confluenza di piani, che gli ha consentito di criticare il diritto del lavoro in nome dei suoi valori fondativi, ossia in definitiva in nome di se stesso. Se fosse vero, infatti, che alcune scelte della legislazione lavoristica sono un fattore diretto di disoccupazione, sarebbe difficile considerare irrilevante tale scoperta. Tuttavia, se il richiamo di Ichino all’importanza del valore “occupazione”, è sacrosanta, ciò che rimane da valutare è: se il suo ragionamento si fonda su premesse economiche pacifiche o comunque condivisibili 21; in secondo luogo, se la sua focalizzazione pressoché esclusiva su quell’obiettivo, pur ovviamente legittima come proposta di politica del diritto, può ritenersi metodologicamente equilibrata dal punto di vista 15 Nel medesimo ordine di idee, v. P.Loi, L'analisi economica del diritto etc., cit., p.552, ed ivi,p.584, per l'osservazione che l'esistenza della contrattazione collettiva rende difficile l'applicazione in subiecta materia del metodo dell'analisi economica del diritto. 16 V. C.Pelanda, Lo Stato della crescita, Sperling & Kupfer Editori,Milano,2000, spec.p.69 ss., peraltro con specifico riferimento all’idea di un superamento dello Stato sociale per una nuova alleanza neoliberista fra Stato e mercato. 17 V. J.M.Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, in Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano, 1968, p.273 ss. 18 V. N.Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi,Torino,1990,p.9 ss. 19 V. G.Teubner, op.cit., p.15 ss. In argomento v. anche, per alcune riflessioni problematiche intorno al pensiero di Niklas Luhmann, M. Pedrazzoli, Democrazia industriale e subordinazione, Giuffrè, Milano, 1985, p.30 ss. 20 V. in particolare P.Ichino, Il lavoro e il mercato, Mondadori, Milano, 1996, passim. 21 V. in argomento infra, §§ 3-5. 5 del giurista22. Lasciamo aperti, per adesso, questi interrogativi (che ruotano attorno alle posizioni di Ichino per la semplice ragione che egli è stato il battistrada ed è tuttora un passaggio imprescindibile dell’analisi sul tema), accontentandoci per ora di dare per acquisito che agitare la bandiera dell'"implicazione della persona nel rapporto" non è una valida ragione per snobbare l'economia, giacché rimane da dimostrare (Ichino ha ragione su questo punto) che il miglior modo di tutelare quella persona sia rappresentato dal diritto del lavoro così come lo conosciamo. Che cosa comporta, pertanto, l’apertura cognitiva, che è poi uno dei termini di un processo dialettico che non ha mai fine? Comporta, principalmente, che possiamo e dobbiamo quantomeno nei casi in cui l’opzione di valore non è reputata assorbente, come quando è in gioco la tutela di diritti fondamentali 23- , verificare la “tenuta” del diritto del lavoro alla luce dei dettami dell’efficienza economica. C’è una semplice e valida ragione per farlo, visto che, grazie a tale analisi, la nostra conoscenza degli istituti lavoristici ne uscirà molto approfondita, e così la nostra valutazione sulla congruità della disciplina. Il giurista che si avventuri su questo terreno è, nondimeno, abbastanza disarmato. Infatti, assumendo che vi siano sostanzialmente tre modi di valutare una teoria (il giudizio sulla coerenza logica del modello, la verifica empirica sulle proposizioni della teoria, e la valutazione sul realismo degli assunti sui quali la teoria è basata), il giurista non è attrezzato per esprimere valutazioni significative su nessuno dei tre piani. Egli potrà forse dire qualcosa su certi assunti di comportamento, dal suo punto di vista troppo schiacciati sul prototipo dell’individuo razionale massimizzatore di utilità, potrà solidarizzare, di conseguenza, con gli innovatori alla Herbert Simon24 , e potrà sorridere di certe semplificazioni sociologizzanti cui talora gli economisti indulgono allorché hanno qualche cerchio da chiudere, come quando vorrebbero convincerci che un rimedio preventivo adeguato contro un abuso imprenditoriale del potere di licenziamento, in un regime di libera recedibilità, sarebbe il timore di una ricaduta negativa in termini di immagine e di reputazione25. Ma a parte le critiche di dettaglio o di colore, o quelle dettate da antieconomicismo viscerale, l’atteggiamento ideale del giurista dovrebbe essere contrassegnato da una sorta di umiltà stoica, nella speranza che ad essa corrisponda l’onestà dell’economista nel non presentare i propri assunti come fondati su un paradigma di scientificità assoluta che persino le scienze tradizionali hanno messo in discussione, e che l’economia, per la verità, non ha mai avuto. La realizzazione di queste aspirazioni resta affidata, com’è ovvio, all’efficacia ed alla trasparenza dei processi comunicativi. Il campo di indagine che si apre, su queste direttrici metodologiche, è vastissimo, pur rimanendo su un piano di politica del diritto, o comunque di riflessione generale sul sistema lavoristico26. La storia recente del diritto del lavoro è, infatti, una storia di condizionamenti molteplici e insistenti27. I processi di trasformazione che hanno interessato la materia negli 22 Sul punto v.infra, § 9. Sul punto v. più ampiamente infra, § 9. 24 V. infra,nt.123. 25 V. R.A.Epstein, In Defense of the Contract at Will, Univ. of Chicago L. Rev., 1984,947, qui pp.968-969. 26 Non viene affrontata nel saggio la importante e delicatissima tematica di come i dati economici possano penetrare nei processi interpretativi del diritto positivo. Si tratterebbe qui di verificare, sul versante teorico, in quale misura le moderne teorie dell’interpretazione ammettano un’apertura cognitiva, e sul versante della ricerca applicata, in quale misura considerazioni di ordine economico siano già penetrate, magari come retropensiero non esplicitato, attraverso il tramite della riflessione sulla ratio della norma (e sulle conseguenze, in ipotesi controproducenti, di certe interpretazioni della medesima) nell’argomentazione giurisprudenziale. Un capitolo a parte di questa ricerca dovrebbe essere rappresentato dalla giurisprudenza costituzionale, ed un altro ancora da quella comunitaria: in entrambi troviamo oramai numerosi esempi di questa interazione, che attendono di essere sistematizzati. 27 In realtà, il settore nel quale il condizionamento della politica legislativa da variabili di ordine economicofinanziario si è più drammaticamente manifestato è il diritto del Welfare State, a proposito del quale ha giocato 23 6 ultimi quindici anni sono troppo noti per dover essere rammentati pur sommariamente. Non è un caso che la linea forse principale di questa trasformazione – non l’unica; c’è stata anche una crescita sul piano dei “nuovi diritti” – sia stata la grande marcia verso un diritto del lavoro più flessibile, con conseguente messa in discussione della compattezza del modello regolativo tradizionale. Poiché questo a molti critici non basta ancora, e poiché i venti della critica economica, per quanto forse un po’ affievoliti, non cessano di spirare, credo che la sfida che questa critica ci lancia - una sfida intellettuale, prima che politica – debba essere accettata senza timore. Credo necessario, a tal fine, andare a “vedere le carte” dell’economia, onde verificare se davvero, da quella prospettiva di analisi, il diritto del lavoro è così dannoso come alcuni affermano (o come alcuni affermano che tutti gli economisti affermano), o se esso, lungi dall’essere dannoso, può essere considerato anche dagli economisti, o da alcuni di essi, come noi giuristi lo abbiamo sempre considerato, ovvero come una delle istituzioni che tiene insieme, in nome di un nucleo di valori condivisi, una società a sviluppo economico avanzato. Fra le varie possibili direttrici di indagine, due saranno privilegiate nelle pagine che seguono. La prima è quella delle teorie della disoccupazione 28, la seconda quella delle teorie dell’impresa elaborate dal filone neo-istituzionalista 29, presentate come principale alternativa all’approccio neoclassico. La scelta di considerare i problemi della disoccupazione come il vero filo rosso del confronto fra le due discipline è pressoché obbligata, visto che il grande argomento della critica economica al diritto del lavoro poggia sul presunto impatto occupazionale negativo che nascerebbe dall’esistenza di una disciplina protettiva, quand’anche molto “ammorbidita”. 3. La teoria neoclassica. Confrontarsi con la teoria economica neoclassica potrebbe sembrare, per il giurista del lavoro, un passaggio ozioso, tanto scontati appaiono gli esiti di tale comparazione30. Eppure è da lì che bisogna partire, perché il dibattito sul presente e sul futuro del diritto del lavoro è fortemente condizionato dalle ricadute liberistiche di quella teoria, che è penetrata nella vulgata è che è dominante a livello di insegnamento accademico. I principali testi istituzionali di Labour economics si incentrano sugli assiomi del pensiero neoclassico (anche se essi vengono rapportati alle specificità "istituzionali" del mercato del lavoro) 31, che non a caso è detto ortodosso 32, e le scuole di Law & Economics fondano le proprie argomentazioni giuridiche su assunti che derivano, di massima, dal corpus teorico dell’economia neoclassica, a cominciare dal postulato metodologico dell’individuo isolato, massimizzatore razionale della propria utilità soggettiva33. un ruolo complesso e importante la giurisprudenza costituzionale.In argomento, v. M.D'Onghia, La giustizia costituzionale in materia di previdenza sociale: diritti sociali ed equilibrio finanziario, DLRI, 2000,81. 28 V. infra, § 3-5. 29 V. infra, § 7-8. 30 Cfr., in argomento, S. Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc., cit., p.595 ss. 31 V., ad es., R. G. Ehrenberg e R.S. Smith, Modern labor economics: theory and public policy, VI ed., AddisonWesley, Reading Mass., 1997 ; R.F.Elliott, Labor economics, The Mc Graw-Hill Companies, London,1991, ove viene dato ampio spazio (p.187 ss.) alle restrizioni istituzionali che incidono sull'offerta di lavoro. V. anche R.H.Frank, Microeconomia,II ed., Mc Graw-Hill Libri Italia, Milano, 1998,p.513 ss. Per un’esposizione delle teorie neoclassiche dei salari, v. O.W.Phelps, Introduction to Labor Economics, IV ed. Mc Graw-Hill, London, 1967,p.494 ss. 32 Per una critica feroce, quanto può essere quella di un economista “pentito”, all’ortodossia intellettuale dominante nel campo della scienza economica, v. P.Ormerod, I limiti della scienza economica, Ed. di Comunità, Torino, 1998,spec. cap.I. 33 In verità, il panorama della Law & Economics è più variegato, e non finisce con il classico Richard Posner (di cui v. Economic Analysis of Law, Aspen Law and Business, 1998, e Some Economics of Labor Law, Univ. of Chicago L. Rev., 1984,988): v. ad es., per un approccio di grande equilibrio, nobilitato (dal nostro punto di 7 Facciamo riferimento a quelle analisi teoriche che hanno assorbito le spiegazioni del funzionamento del mercato del lavoro all’interno della teoria neoclassica dell’equilibrio concorrenziale, che sostiene la tendenza dei mercati perfettamente competitivi a trovare naturalmente un livello di equilibrio fra domanda e offerta, attraverso il meccanismo dei prezzi34. E’ superfluo sottolineare la centralità che tale teoria ha avuto ed ha tuttora nell’ambito della scienza economica; come ha notato Harold Demsetz35, il compito principale che gli economisti si sono assunti, dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni, è stato quello di formalizzare, tramite modelli matematici sempre più sofisticati, l’idea smithiana della “mano invisibile”. E' altresì possibile affermare, pur ad un livello di valutazione generale36, che la teoria in questione è l’espressione economica di quell’ideologia liberista (ma un liberale ortodosso direbbe “liberale”) del mercato autoregolato, che ha avuto il suo maggiore fautore, nel XX secolo, in Friedrich von Hayek37. In questa prospettiva di partenza, il mercato del lavoro è un mercato come tutti gli altri, nel quale la funzione equilibratrice è assolta dalle oscillazioni elastiche del salario. E’ facile comprendere come, su queste basi, diritto del lavoro ed economia entrino per forza in rotta di collisione, giacché qualsiasi intervento esterno che si risolva in un turbamento competitivo, è considerato un fattore che impedisce al sistema di assestarsi sul proprio equilibrio di efficienza, ergo come una causa di disoccupazione. Nel mirino dei liberisti è così finita, in primis, la rigidità salariale, cioè tutti quei fattori che limitano la concorrenza nell’offerta di lavoro, come l’azione sindacale, e che impediscono ai salari di diminuire dovrebbero nelle fasi discendenti del ciclo, consentendo alla domanda di lavoro di riespandersi e di tornare ad eguagliare l’offerta ad un tasso di salario inferiore. Recita infatti la teoria che, se non si aggiustano i prezzi, non possono che aggiustarsi le quantità. In questa ottica un po’ elementare, la disoccupazione è stata spiegata a lungo o come un fenomeno temporaneo (disoccupazione c.d. frizionale), o come un problema risolubile riducendo l’interferenza del governo e soprattutto dei sindacati nel mercato del lavoro. E’ noto quanto queste posizioni abbiano influito, ad esempio, sulle politiche anti-union praticate negli anni ’80 dai Governi conservatori britannici38 Le idee di fondo della teoria ortodossa si sono riversate a cascata su tutta la regolamentazione del rapporto di lavoro, traducendosi in suggerimenti di policy che hanno trovato un denominatore comune, ed anche il loro feticcio simbolico e mediatico, nella richiesta di vista) dalla distinzione fra il "rational" della teoria economica ed il "reasonable" della teoria giuridica, R.Cooter, T.Ulen, Law and Economics, Scott, Foresman and Company, Glenview Ill.-London, 1988, spec. p.11 34 Il modello di concorrenza perfetta è stato formalizzato in modo rigoroso dalla scuola neoclassica ed ha raggiunto la sua formulazione più completa nel c.d. modello Arrow-Debreu: v. K.J.Arrow, G.Debreu, Existence of an Equilibrium for a Competitive Economy, Econometrica, 1954, 22, 3, p.265 ss. Cfr. anche C.Bentivogli e S.Trento, Economia e politica della concorrenza, Firenze, 1995. 35 V. H. Demsetz, The Organization of Economic Activity, vol.I, Ownership, Control and the Firm, Blackwell, Oxford, 1988,p.145. 36 Ci insegnano infatti S. Deakin e F.Williamson, nel loro importante saggio "Capabilities", ordine spontaneo del mercato e diritti sociali, cit., spec. p.320 ss., che la teoria hayekiana dell'ordine spontaneo, della quale essi accettano alcune ipotesi pur rifiutandone le implicazioni politiche minimalistiche (v. anche infra, § 9), non sostiene che il mercato è un luogo che tende naturalmente verso uno stato di efficienza ottimale, ma semplicemente che esso è l'assetto che consente il miglior uso possibile delle risorse della società. 37 Di F. Hayek v. in particolare, in traduzione italiana, La società libera, Vallecchi, Firenze, 1969; Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986. Sul pensiero di Hayek , v. anche J.Gray, Hayek on Liberty, Routledge, London-New York, 1984; R.Cubeddu, Atlante del liberalismo, Ideazione, Roma, 1997, spec. p.30 ss. La teoria dell'ordine spontaneo di Hayek è discussa anche da S.Deakin e F.Wilkinson, "Capabilities", ordine spontaneo del mercato e diritti sociali, cit., p.320 ss. 38 V. Lord Wedderburn, I diritti del lavoro, Giuffrè, Milano, 1998, spec.p.91 ss. (per un commento al quale mi permetto di rinviare alla recensione apparsa in Diritto privato 1998,IV,p.503 ss.). 8 flessibilità del mercato del lavoro39. Fra l’altro, proprio la non realizzabilità, in sistemi come quello italiano, delle condizioni di elasticità salariale postulate dai modelli neoclassici, ha favorito la traslazione dell’istanza di flessibilità sugli altri snodi cruciali della gestione del rapporto di lavoro (mansioni, orari), nonché, a monte, sulle condizioni di entrata nel e di uscita dal mercato del lavoro (liberalizzazione del collocamento, rapporti flessibili, disciplina dei licenziamenti). Una flessibilità a 360°40, un meta-principio, un valore in sé, sociologicamente post-industriale e culturalmente post-moderno41. Il discorso sulla flessibilità si è così tradotto in un attacco alla rigidità della norma lavoristica, ed ha ingrossato il fiume del “ritorno al contratto”, non sfuggendo a nessuno che la flessibilità, portata alle estreme conseguenze, comporta una catena di interventi deregolativi, in fondo alla quale c’è l’individualizzazione delle relazioni di lavoro, cioè praticamente la messa in soffitta del diritto del lavoro. Se questi sono i percorsi della vulgata, con tutto il loro portato di suggestioni sul dinamismo dei paesi anglosassoni e sulla presunta eurosclerosi (ma da quando la crescita europea ha avuto un risveglio il termine sembra passato di moda42), il discorso scientifico è assai più complesso. Emerge, anzitutto, un paradosso. Da un lato, anche il più integralista fra gli economisti neoclassici sa che la concorrenza perfetta non esiste, e che, soprattutto nel mercato del lavoro, sono troppi i fattori perturbanti, non soltanto istituzionali ma anche economici, che rendono la realtà troppo distante da quella postulata dal modello. Non a caso, come vedremo fra poco43, esistono numerose e più raffinate teorie che hanno cercato di dar conto di questa complessità. Dall’altro lato, però, a quel modello viene egualmente attribuita, da molte di queste nuove teorie, una utilità euristica, nel momento in cui si ritiene, o si sottintende, che se il mercato del lavoro fosse in ipotesi caratterizzato da concorrenza perfetta, esso troverebbe il proprio punto di equilibrio. La fictio del mercato competitivo rimane, pertanto, la bussola fondamentale della politica economica, secondo un modo di ragionare che suona più o meno così: premessa la validità scientifica di ciò che si deve dimostrare, ossia la teoria dell’equilibrio concorrenziale del mercato del lavoro, ci rendiamo conto che i mercati del lavoro concreti (e non soltanto quelli europei) sono molto lontani da tale tipo ideale, ma ciò nonostante qualsiasi azione deregolatrice che di fatto ci avvicini al modello standard non potrà non avere effetti positivi 44. L’osservatore perplesso nei confronti di quella che, da non matematico, gli appare come un’inclinazione al meccanicismo positivistico, sarà altresì indotto a vedere nella fallacia del ragionamento appena criticato il riflesso di un non sequitur a monte: quello di desumere, dal fatto che l’economia di mercato è di gran lunga il sistema economico più efficiente, la conseguenza che qualunque mercato, ivi compreso quello del lavoro, deve essere lasciato 39 Per un'analisi seria ed equilibrata del tema, nel quadro di una ricerca sul campo (sull'economia di Bristol) che conduce l'A. a suggerire un contemperamento fra flessibilità e bisogno di sicurezza,v. G.S.Callaghan, Flexibility, Mobility and the Labour Market, Ashgate Publish. Ltd., Aldershot, 1997. Sul dibattito italiano, v. simpateticamente A.Orioli, Flessibilità, Il Sole 24 ore Media e Impresa S.p.A., Milano, 1997, con interviste a I.Cipolletta e F.Bertinotti. Per una visione fortemente critica verso la flessibilità, v. invece A. Pollert, Dismantling flexibility, Capital and class, 1988, n.34, p.42 ss. 40 Anche se vista, prevalentemente, dal lato dell'impresa: v. A.Fumagalli, Flessibilità e gerarchie nel mercato del lavoro: il potere dell'economia sul diritto, Relazione presentata al convegno tenutosi a Milano il 26 febbraio 2001 su "Il diritto del lavoro e le pretese dell'economia". 41 Sulle problematiche conseguenze esistenziali della flessibilità, v. R.Sennett, L'uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 1999. 42 Sono significativi, e, come suol dirsi, "non sospetti", certi riconoscimenti dell'Economist: ne fa testo il cammino percorso da Europe isn't working (The Economist del 5 aprile 1997) a Stumbling yet again? (The Economist del 16 settembre 2000), nel quale si parla di una "surprisingly efficient Europe". 43 V. infra, § 4. 44 V. P.Ormerod, op.cit.,pp.102-103. 9 totalmente libero, od il più possibile libero, per poter funzionare in modo efficiente45. Alzando lo sguardo sulla storia, egli si rammenterà facilmente, inoltre, che non è la prima volta che l’idea del mercato autoregolato rivendica una sorta di conformità alla “natura delle cose”46. E qui si arresterà, non avendo i mezzi per andare oltre sul terreno della critica economica, accontentandosi di rievocare la sapida battuta di Coase sugli “economisti della lavagna”47. 4. Flessibilità e occupazione. Che il mercato del lavoro non sia un mercato come gli altri, è ormai un’affermazione scontata, anche nel quadro dell’economia neoclassica48. Ci piace far risalire questa consapevolezza, in un certo senso, a John Maynard Keynes, ed alla sua “scoperta” – avvenuta, non a caso, nel decennio della grande disoccupazione – che il sistema economico poteva assestarsi su un equilibrio di sotto-occupazione, come prodotto di un’insufficienza della domanda aggregata 49 . Keynes non ha fornito contributi specifici all’economia del lavoro, pur accorgendosi che i salari erano caratterizzati da una rigidità verso il basso, che è poi il punto di partenza delle più recenti teorie della disoccupazione; per lui la domanda di lavoro era essenzialmente una funzione della domanda di beni. Così, se è inutile ricordare quanto, politicamente e culturalmente, le teorie keynesiane abbiano influito nell’attivare, nel dopoguerra, il circolo virtuoso fra espansione economica e costruzione dei sistemi di Welfare, messo poi in crisi dall’inflazione e della crisi fiscale dello Stato, il legame fra quelle teorie ed il diritto del lavoro è più indiretto e sfumato. Ma Keynes ci interessa come esponente, assieme ad altri economisti, della letteratura del “fallimento del mercato”, e per il fatto di aver costretto la scienza economica a confrontarsi davvero con la realtà della disoccupazione. Le sue intuizioni macroeconomiche hanno stimolato, anche indirettamente, sviluppi teorici nuovi nella microeconomia del mercato del lavoro, dai quali sono sorte, soprattutto a partire dagli anni ’80, nuove teorie della disoccupazione, alla ricerca di una più solida fondazione microeconomica della macroeconomia50. Queste teorie sono state definite non-market-clearing , essendo accomunate dalla presa d’atto di una serie di specificità e rigidità del mercato del lavoro51. Ma non si deve pensare che le teorie in questione abbiano comportato un vero distacco dai postulati neoclassici. Esse cercano principalmente di spiegare perché si verifica una rigidità verso il basso dei livelli salariali, cioè perché i salari non scendono oltre una certa soglia nei periodi di caduta della domanda di lavoro, che rappresenta il grande ed irrisolto mistero della 45 V. P.Ormerod, ivi,p.60. E’ d’obbligo il rinvio a K.Polanyi, La grande trasformazione, 1974,Einaudi,Torino. 47 V. R.H.Coase, La struttura istituzionale della produzione, in Impresa mercato e diritto, Il Mulino, Bologna,1995,p.329 ss., qui p.332. Nel medesimo ordine di idee, potremmo citare un altro premio Nobel, Herbert Simon, di cui v. Scienza economica e comportamento umano, Ed. di Comunità, Torino, 2000, spec. p.219 ss., sul "fallimento dell'economia a tavolino". 48 Possiamo quindi collocarci al di là dell'avvertimento di R.M.Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1994, p.23: "Un non-addetto ai lavori, si meraviglierebbe della profusione di tanto tempo e tante forze per affermare l'ovvio. Ma tra economisti non è per nulla ovvio che il lavoro sia un bene sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un differente metodo di analisi". 49 Cfr. A.Lindbeck , D.J. Snower, The Insider-Outsider Theory of Employment and Unemployment, The MIT Press, Cambridge Mass.-London, 1988, pp. 19-20. Per il rilievo che Keynes, in fondo, è stato il primo a smentire la teoria neoclassica dell’equilibrio di mercato come prodotto automatico della flessibilità salariale, v. O.W.Phelps, op.cit.,p.515 ss. 50 Per un quadro generale, v. R.Lavard, S.Nickell, R.Jackman, Misurarsi con la disoccupazione, Laterza, Bari, 1999. 51 Per un panorama completo delle teorie in circolazione (comprendente anche il versante della tradizione market-clearing), v. A.Lindbeck, D.J. Snower, op.cit., p.37 ss. 46 10 Labour economics52. La premessa è sempre che proprio in quella rigidità debba essere individuato il principale fattore della disoccupazione53. La fede nella “mano invisibile” non viene intaccata, nella misura in cui si asserisce che l’autoregolazione non funziona perché vi sono fattori economici di disturbo o perché essa non viene lasciata libera di operare come potrebbe. In verità, le teorie in esame oscillano fra l’imputare la rilevata specificità del mercato del lavoro a fattori economici che prescindono dai dati istituzionali, od a fattori istituzionali in senso proprio, che chiamano direttamente in causa la politica del diritto del lavoro. Come esempi della prima prospettiva, possiamo ricordare la teoria del “salario di efficienza”, che spiega la rigidità salariale con la tendenza delle imprese a pagare salari al di sopra del livello di equilibrio, al fine di stimolare la produttività dei lavoratori54; o la tesi di Robert M. Solow, secondo il quale la ragione per la quale i disoccupati non concorrono per un salario più basso deve essere ricondotta al perseguimento, da parte loro, di una strategia razionale di gioco cooperativo, se non addirittura all’interiorizzazione di norme di comportamento morale55. Sulla base di queste tesi, si potrebbe al limite pervenire alla conclusione che l’istituzione di standards protettivi inderogabili (es. un salario minimo) è praticamente inutile. Si tratterebbe, è chiaro, di una conclusione eccessiva, anche perché le teorie in discorso si concentrano sulla dinamica dei salari; ma è significativo che in un economista della fama di Solow il preteso impatto negativo della legislazione sul lavoro non sia al centro dell’analisi, sebbene si debba ricordare che le sue riflessioni scaturiscono dall’esperienza nordamericana, poco comparabile a quella europeo continentale. Ma dove il confronto si fa più serrato e difficile è con quelle teorie che hanno cercato di incorporare il maggior numero di variabili istituzionali all’interno di un quadro analitico che rimane, al fondo, quello neoclassico. Fra esse rientrano, anzitutto, le innumerevoli teorie che hanno cercato di descrivere - per lo più in termini critici, configurandosi il sindacato come un "monopolista" dell'offerta di lavoro, ergo come un fattore disfunzionale sul fronte dell'occupazione - l’impatto dell’azione sindacale sui mercati del lavoro56. Possiamo prescindere da un approfondimento di queste teorie, nella misura in cui riteniamo che la presenza sindacale sia e debba rimanere un dato costituzionalmente acquisito e non ci sentiamo tentati dal rincorrere suggestioni di tipo hayekiano sul “privilegio” del quale godrebbero i soggetti collettivi, a motivo del fatto che è consentito loro di alterare il libero esplicarsi della concorrenza57. Continuiamo a stare, contro Hayek, dalla parte di KahnFreund ; ma non dobbiamo dimenticare che un nuovo canale di penetrazione di queste istanze 52 V.,ad es., R.Lavard, S.Nickell, R.Jackman, op.cit., p.41 ss. In verità l’evidenza empirica ha rivelato anche la presenza del fenomeno opposto, cioè la permanenza di bassi livelli salariali in fasi temporali o aree territoriali caratterizzate da scarsità dell’offerta di lavoro: v. S. Deakin e F. Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc., cit., p.596. 54 V., ad es., G.Akerlof, J.Yellen (ed.), Efficiency-Wage Models of the Labour Market, CUP, Cambridge, 1986; A.Weiss, I salari di efficienza. Una teoria della disoccupazione, Laterza, Bari, 1995. Cfr. anche A.Lindbeck, D.J. Snower, op.cit., pp.42-43. 55 V. R.M.Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, cit., spec. p.39 ss. Sulla posizione di Solow, cfr. M.Novella, op.cit., p.307 ss. 56 V., ad es., R.A.Posner, Some Economics of Labor Law, Un.Chicago L.Rev., 1984, 988, spec. p.999 ss., sulle "unions as labor cartels". Per l'opinione che una forte contrattazione sui salari abbia un impatto negativo sull''occupazione, che però si riduce quanto più la contrattazione è "coordinata" con le controparti, v. S.Nickell, Unemployment and Labor Market Rigidities: Europe versus North America, Journal of Economic Perspectives, 1997, vol. 11, n.3, 55, qui p.68.Per una descrizione sintetica delle teorie in esame nel quadro delle teorie della disoccupazione, v. A.Lindbeck, D.J.Snower, op.cit., pp.39-40. In generale sulla “bargain theory of wages”, risalita sino alle sue remote origini nel pensiero dei coniugi Webb, v. O.W.Phelps., op.cit., p.508 ss.Sul ruolo dei sindacati nel sistema economico, cfr. anche P. Samuelson, Economia, cit.,p.173 ss. 57 V. Lord Wedderburn, op.cit., p.98 ss., in netta polemica con l'analisi di Hayek, che risale concettualmente sino a quelle immunities degli anni 1871 e seguenti, che rappresentano l'atto di nascita del diritto del lavoro. 53 11 potrebbe essere rappresentato, in futuro, dal principio comunitario della libertà di concorrenza. E’ vero, come si è onestamente riconosciuto58, che “nell’ordinamento comunitario la tutela della concorrenza assume un rilievo per così dire costituzionale soltanto in riferimento ai mercati dei beni, dei servizi e dei capitali, non in riferimento al mercato del lavoro, dove è tutelata soltanto la libera circolazione dei prestatori, ma non la libera concorrenza fra essi”. Anzi, come è noto, nel diritto comunitario si è verificato quel fenomeno, inizialmente quasi preterintenzionale, in virtù del quale per parificare le condizioni di concorrenza fra i vari paesi e per eliminare o ridurre il dumping sociale, è stata prodotta una normativa uniformante che gradualmente ha acquisito la fisionomia e la dignità di “diritto sociale”. Per garantire una leale concorrenza fra gli Stati, si è messa altra legna sul fuoco delle restrizioni alla concorrenza fra lavoratori, già imposte dai diritti nazionali. Ma quello della concorrenza, di questi tempi, è uno “schiacciasassi” formidabile. Un caso come quello deciso dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee nella sentenza Albany59, per quanto abbastanza specifico, dimostra che anche il contratto collettivo, per certe previsioni e in certe circostanze, può risolversi in un fattore di limitazione della concorrenza fra imprese sul mercato dei beni e dei servizi. Ulteriori ipotesi del genere sono state individuate dai commentatori60. Tuttavia, se è vero, in termini di logica, che nella contrattazione collettiva si manifesta “anche un accordo fra imprese”61, non ritengo che questa considerazione sia sufficiente a confutare l’assunto centrale della sentenza Albany, secondo il quale un accordo collettivo stipulato fra le contrapposte organizzazioni sindacali non rientra, “in base alla sua natura ed al suo oggetto”, nell’ambito di applicazione dell’art.85, n.1,del Trattato di Roma. Infatti il problema non può essere affrontato in termini di logica, bensì di diritto positivo comunitario: così lo ha affrontato la Corte, affermando che assoggettando le parti sociali all’art.85,n.1, “gli obiettivi di politica sociale perseguiti da tali accordi sarebbero gravemente compromessi”. Il senso dell’affermazione della Corte è che il contratto collettivo non incappa nella tagliola della libertà di concorrenza perché, nel diritto comunitario, la libertà di concorrenza non è l’unico valore tutelato, ma ve ne sono anche altri, all’attuazione dei quali la contrattazione collettiva, “frutto del dialogo sociale”, è funzionale; e ciò, a maggior ragione, dopo l'art.28 della Carta dei diritti fondamentali, quale che sia il valore giuridico da riconoscere ad essa.62 Un’altra teoria che ha guadagnato, grazie a Pietro Ichino63, molta fama nel dibattito italiano, è la teoria insider-outsider di Assar Lindbeck e Dennis J.Snower64. Essa riconduce la rigidità 58 V. P.Ichino, Contrattazione collettiva e antitrust: un problema aperto, in Mercato concorrenza e regole, 2000, 655, qui p.659. 59 V. CGCE 21.9.1999, causa C-67/96, NGL, 2000,147. 60 V. P. Ichino, op.ult.cit., pp.659-660. Sul punto v. anche M.Pallini, Il rapporto problematico tra diritto della concorrenza e autonomia collettiva nell’ordinamento comunitario e nazionale, RIDL, 2000,II,225. 61 V. P.Ichino, op.ult.cit., p.660. 62 Né ritengo che, avendo la Corte descritto gli accordi in questione, in un passaggio, come accordi che contribuiscono “al miglioramento di una delle condizioni di lavoro dei lavoratori, ossia la loro retribuzione”, se ne possa desumere che il contratto collettivo sfugge alla disciplina della concorrenza “a condizione che la sua stipulazione sia finalizzata esclusivamente al miglioramento delle condizioni di lavoro”, pretendendo di conseguenza di rimettere in discussione, per questa via, la razionalità del contratto collettivo e più in generale dell’intero diritto del lavoro. Ciò è possibile, ovviamente, sul piano critico e propositivo, ma senza uso di armi improprie, come la prospettazione di un diritto comunitario nel quale la libertà di concorrenza sarebbe un principio sovraordinato a tutti gli altri; non è così, o almeno non è più così, se partiamo “da un’interpretazione utile e coerente dell’insieme delle disposizioni del Trattato” (v. CGCE 21.9.1999,cit.). In definitiva, quello cui la Corte si riferisce nella circostanza è il contratto collettivo come istituto tipicamente finalizzato al miglioramento delle condizioni di lavoro, e non ha rilievo, nel quadro del suo ragionamento, l’effettività di quel miglioramento. 63 V. P.Ichino, Il lavoro e il mercato, cit., spec. p.105 ss. 12 salariale al fatto che i lavoratori occupati riescono a spuntare ed a mantenere salari più alti di quelli per i quali i lavoratori disoccupati sarebbero disposti a offrirsi (e che sarebbero i salari di equilibrio del mercato del lavoro), giocando sui costi, di natura tecnico-produttiva (perdita di professionalità, costi di selezione del nuovo personale) e normativo-istituzionale (costi di licenziamento del personale), che l’imprenditore dovrebbe sopportare per rimpiazzare i primi con i secondi. Ciò impedisce il riaggiustamento spontaneo del mercato del lavoro. Si insiste, di conseguenza, sull’opportunità di rafforzare il potere contrattuale degli outsiders, anche favorendo forme di rappresentanza collettiva, e sull’adozione di politiche attive del lavoro; si tende inoltre a valutare negativamente, in questa prospettiva, l’istituzione di tutele troppo solide ed estese, in quanto esse rafforzano la posizione degli insiders e rendono più difficile il ricambio fra essi e gli outsiders. Fra queste tutele, per inciso, l’esistenza di una disciplina limitativa dei licenziamenti non sembra avere, nel quadro della teoria insider-outsider, quel ruolo disfunzionale che è stato enfatizzato nel dibattito avviato, in Italia, dalle sollecitazioni di Ichino. E’ senz’altro vero che tale disciplina produce un incremento del costo di sostituzione del lavoratore, e che questo, stando alla teoria, ha un impatto di inefficienza. Tuttavia, il cuore del modello è pur sempre la rigidità salariale, per cui che se essa già si produce in virtù di altri meccanismi normativoistituzionali, non sembra che eliminare la protezione contro i licenziamenti arbitrari possa condurre, pur dal punto di vista della teoria, a significativi miglioramenti sul piano dell’occupazione. In altre parole, in presenza di fattori che irrigidiscono, comunque, i livelli salariali, il passaggio ad un regime di libera recedibilità non sembra verosimilmente essere un rimedio efficace contro la disoccupazione, in quanto la maggiore facilità di rimpiazzo dei dipendenti, che ne deriverebbe, non condurrebbe di per sé ad un riequilibrio del mercato del lavoro. Per essere una teoria della disoccupazione, e non soltanto una generica teoria della domanda di lavoro compressa negli angusti confini dell’argomento per il quale i vincoli al licenziamento avrebbero un effetto disincentivante sulle assunzioni65 (come se la domanda di lavoro non dipendesse anzitutto dai fabbisogni produttivi), la teoria insider-outsider deve presupporre, infatti, che l’ingresso dell’outsider avvenga ad un livello salariale più basso, quello di equilibrio, che consenta poi, a colui che era insider e che è stato espulso dal mercato del lavoro, di reinserirsi una volta accettato quel salario più basso. Ma se il primo passaggio della sequenza logica non si verifica, per la presenza di fattori esterni, il rimpiazzo rimane quello che è, vale a dire una semplice sostituzione di forza lavoro che lascia invariato il tasso di occupazione. A quel punto i costi, economici e soprattutto non economici, dell’abolizione di una disciplina limitativa del licenziamento, a cominciare dallo squilibrio che si creerebbe nella relazione di potere immanente al contratto di lavoro, non sarebbero neppure compensati da significativi benefici sul piano dell’interesse collettivo dei lavoratori. L’obiezione di Pietro Ichino a questo ragionamento, più volte espressa66, è la seguente: ammesso che non si verifichino incrementi assoluti dell’occupazione, vi sarebbe pur sempre un aumento del turn-over, e ciò sarebbe socialmente positivo, oltre che conforme all’art.4 64 V. A.Lindbeck, D.J.Snower, The Insider-Outsider Theory of Employment and Unemlpoyment, cit., pp. 1 ss. e 45-47 . Sulla teoria in questione, v. anche S. Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc., cit., p.608 ss. 65 L’argomento insiste altresì molto – forse per pararsi dall’obiezione che i costi del licenziamento non sono per nulla immancabili, giacché il licenziamento potrebbe essere ritenuto legittimo (a meno di non accogliere la tesi, falsa, che i licenziamenti in Italia sono impossibili) – sul bisogno imprenditoriale di certezza e di calcolabilità dei costi. Ciò non è una novità, per chi rammenti le riflessioni di Max Weber sulla razionalità formale dell'agire economico (v. ad es. Economia e società, I, Teoria delle categorie sociologiche, cit.,p.80 ss.). Né ci interessa, in questa sede, discuterne il fondamento e le implicazioni, ad es., la sua forte avversione nei confronti del momento giurisdizionale. Ci preme solamente osservare che, in questa veste, l’argomento non può chiamare a conforto, se non in un senso non specifico, la teoria insider-outsider. 66 V. P.Ichino, Il lavoro e il mercato, cit.,pp.112-113, e più ampiamente A.Ichino e P.Ichino, A chi serve il diritto del lavoro, RIDL, 1994,I,459, su cui v.infra, nel testo, §5. 13 Cost. E’ già un altro modo di vedere la cosa, che fa giustizia di certe semplificazioni del dibattito pubblico, nel quale la flessibilità è spesso presentata come la panacea per la disoccupazione. Così ridefinita, la questione merita di essere discussa in modo aperto, onde stabilire se il beneficio sociale di una liberalizzazione dei licenziamenti (un beneficio minore rispetto a quello che si avrebbe supponendo un guadagno occupazionale netto) sopravanzerebbe il suo costo sociale, efficacemente scolpito da Umberto Romagnoli come ”eguaglianza nell’insicurezza”67. Poiché, peraltro, tale questione può considerarsi in certo senso un aspetto specifico della questione della giustificazione economica dell’inderogabilità, il punto sarà ripreso al momento di affrontare quest’ultima68. Tornando alla teoria insider-outsider per quel che realmente è, cioè una teoria della disoccupazione (o che comunque, più esattamente, si presta ad essere innestata in una teoria neoclassica della disoccupazione), essa ha due possibili implicazioni: per un verso, può condurre – come altre teorie - a reputare inutile l’imposizione diretta, da parte dell’ordinamento, di standards protettivi inderogabili, assumendosi che certe dinamiche collusive fra imprenditori e insiders tendono a verificarsi comunque; ma per un altro e dominante aspetto, l’inderogabilità ex lege non può che sortirne con una valutazione negativa, in quanto consolida quella rigidità del mercato del lavoro, che è posta all’origine della disoccupazione. Ad essere messa in questione è pertanto, in ultima analisi, l’inderogabilità, cioè il cuore della disciplina. Tuttavia, a questo punto il discorso può considerarsi tutt’altro che chiuso, e l’ascesa delle teorie della flessibilità non così irresistibile. Ciò per due ragioni, una di ordine empirico, ed un’altra legata ad ulteriori varianti teoriche69. La cosiddetta evidenza empirica, in effetti, non offre riscontri univoci. In linea generale, non sono state rinvenute prove sicure di un impatto negativo sull'occupazione per effetto dell'esistenza di una disciplina legale di salari minimi70, o di una disciplina limitativa dei licenziamenti71. Dal rapporto OCSE del giugno 1999 sull’occupazione, ad esempio, non esce accreditata l’evidenza di un rapporto univoco di causa-effetto fra politiche di deregolazione del mercato del lavoro e crescita dell’occupazione; al massimo risultano incidenze sulla composizione demografica della forza lavoro, ma anche quelle non univoche, e sul tasso di turn-over72 Così, se non c’è dubbio che un diritto del lavoro che “tiri troppo la corda” rischia di creare una “cittadella” di occupati superprotetti, con effetti di sclerosi sul mercato del lavoro, l’idea di un nesso certo e immancabile, ai livelli di protezione attuali, non ha i riscontri che taluni pretendono. Si deve altresì tener conto del grado di flessibilità in entrata, che non a caso è fortemente cresciuto, nel nostro paese, nell’ultimo quindicennio, per venire incontro alla legittima 67 V. U.Romagnoli, Il diritto del lavoro nel prisma del principio d'uguaglianza, RTDPC, 1997, 533, qui p.544. Sul tema del licenziamento, v. anche L.Zoppoli, Il licenziamento tra costituzionalismo e analisi economica del diritti, DML, 2000,415. 68 V. infra, § 5, a proposito della tesi di Andrea e Pietro Ichino sull’inderogabilità. 69 V. infra, § 5. 70 V. l’ampia ricerca comparata di J. Dolado, F. Kramarz,S.Machin,A.Manning,D.Margolis,C.Teulings, The Economic Impact of Minimum Wages in Europe, Economic Policy, 1996,317. In argomento,v. anche Debating the minimum wage, The Economist del 3 febbraio 2001. 71 V. ad es. S.Nickell, Unemployment and Labor Market Rigidities: Europe versus North America, cit., il quale sostiene la necessità di un approccio differenziato, giacché vi sono rigidità che causano disoccupazione ed altre che non vi influiscono; fra le prime l'A. comprende l'esistenza di generosi benefici di disoccupazione, un forte potere collettivo di determinazione dei salari, alte tasse sul lavoro, bassi standards educativi; fra le seconde sono annoverate le protezioni normative del lavoro, fra cui quella contro i licenziamenti, ed i minimi salariali. Maggiori riserve sulla job protection legislation sono espresse, invece, da H.Siebert, Market Rigidities: At the Root of Unemployment in Europe, Journal of Economic Perspectives, 1997, vo. 11,n.3,37. 72 V. OECD, Employment Outlook, OECD ,1999, Paris. La medesima tesi è sostenuta, con persuasività, da G. Esping-Anderesen, Serve la deregolazione del mercato del lavoro? Occupazione e disoccupazione in America e in Europa,, Stato e mercato, 1999,185. 14 esigenza delle imprese di commisurare una parte del loro organico ai fabbisogni stagionali o ciclici. Si può allora affermare che in Italia c’è abbastanza flessibilità, o viceversa che ce n’è ancora troppo poca? Le opinioni divergono. Secondo Bruno Contini ,che ha effettuato ricerche a lungo raggio sui movimenti delle posizioni INPS dei lavoratori, l’indice di turnover italiano sarebbe addirittura vicino a quello statunitense73. Altri economisti continuano, invece, a ricondurre i problemi della disoccupazione italiana (ed europea) all'insufficiente tasso di flessibilità74. Non potendo risolvere la diatriba, ci accontentiamo di notare sommessamente che l’osservazione di realtà come quella dell’economia settentrionale, da tempo caratterizzata da cronici fenomeni di labour shortages, e non soltanto nelle fasce della manodopera operaia non specializzata, farebbe pensare che il problema dei mercati del lavoro nostrani sia più che altro un problema di incontro fra le professionalità verso le quali si indirizza una manodopera giovane sempre più scolarizzata ed i fabbisogni reali del mondo produttivo. Così come verrebbe da pensare che i problemi della disoccupazione meridionale non possano essere compresi semplicemente applicando la teoria insider-outsider. Sembra molto più attuale, semmai, il problema dell’impatto negativo, tanto sulla propensione ad assumere quanto sui redditi reali dei lavoratori (con un conseguente, doppio incentivo a fuggire nel sommerso), del peso eccessivo (anche su scala europea) degli oneri contributivi e fiscali sul lavoro subordinato, sul quale pare esservi concordia fra gli economisti75. Tito Boeri ha, ad es., recentemente proposto una politica di decontribuzione generalizzata dei salari più bassi (supponendo che essa vada ad interessare soprattutto le aree meridionali), che dovrebbe essere accompagnata, onde evitare che ne derivi un aumento dei profitti e non quell’aumento dei salari netti che è indispensabile per incoraggiare la “riemersione” dei lavoratori, dall’introduzione per legge di un salario minimo76. Le vie della regolazione, come si vede, sono infinite. 5. Le imperfezioni del mercato del lavoro. Quello che le teorie neoclassiche tendono a sottrarre al diritto del lavoro nelle loro proiezioni macroeconomiche sul tema della disoccupazione, in qualche misura glielo restituiscono sul versante dell’approfondimento dei meccanismi microeconomici di funzionamento del mercato del lavoro. Ci si è resi conto da tempo che una delle condizioni indispensabili di un mercato concorrenziale – un’informazione completa, ed uniformemente distribuita fra gli agenti – non ricorre mai nel mercato del lavoro, che è caratterizzato, al contrario, da numerose “asimmetrie informative” a sfavore di entrambe le parti77. I modelli teorici, sempre di marca neoclassica, hanno allora cercato di incorporare questa condizione strutturale degli agenti economici. L’aspetto che interessa al giurista del lavoro è che, in più di una occasione, il tipo di intervento suggerito per compensare l’asimmetria informativa è stato indicato nell’imposizione per legge (o, potremmo aggiungere, per contratto collettivo) di uno standard protettivo inderogabile. Ponendoci dal lato del datore di lavoro, è ricorrente il rilievo che egli non è in grado di valutare in modo soddisfacente la produttività del lavoratore che decide di assumere, e dunque di decidere quanto è disposto a pagare per ottenerne i servigi. Data questa condizione, è stato ritenuto applicabile al mercato del lavoro un modello, quello di Philippe Aghion e 73 Consulta, al riguardo, il sito http://www.de.unito.it/CONTINI/cv.htm V., ad es., G.Bertola, Europe's unemployment problems, nel sito http://www.iue.it (Department of Economics). 75 V. ad es., H.Siebert, op.cit., p.48; S.Nickell, op.cit., p.68. Per un altro riferimento, v. M.Ferrera, Dagli oneri sociali un freno all’occupazione, ne Il Sole-24 ore del 2 febbraio 2001. 76 V. T.Boeri, E nell’incertezza il sommerso prospera ancora, ne Il Sole-24 ore del 1° febbraio 2001. 77 Cfr. S. Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc.,cit., p.599 ss. 74 15 Benjamin Hermalin78, originariamente elaborato con riferimento ad un mercato finanziario popolato da investitori e imprenditori, al fine di dimostrare che nei casi in cui una parte del contratto ha più informazioni dell’altra, una regolazione legale mirata può correggere i risultati di inefficienza che tenderebbero altrimenti a verificarsi. Esso è stato riferito, in particolare, al problema dei benefici di maternità. Si assume che una lavoratrice possa tentare di ingannare il datore di lavoro, nel momento dell'assunzione, nascondendo o sottostimando la propria propensione alla maternità (ossia spacciandosi per un good type, e non per quel bad type che in effetti è), e di conseguenza contrattando un salario più alto di quello che avrebbe potuto contrattare inserendo nel “pacchetto” contrattuale il diritto ad un congedo per maternità. Ciò avrebbe un esito inefficiente, dal momento che il datore, temendo di essere ingannato dal bad type, finirebbe col non accettare neppure il contratto proposto dal good type, che invece avrebbe potuto apportargli un vantaggio79. Ne consegue che la previsione per legge di un congedo di maternità obbligatorio, “liberando” la negoziazione dal peso di questa incertezza, incrementerebbe l’efficienza dello scambio. L’obiezione del giuslavorista a questo modo di ragionare è pressoché scontata. Ciò che deve essere impedito è che una lavoratrice possa negoziare, al momento dell’assunzione, la propria scelta, o non scelta, di maternità. La puntualizzazione, ca va sans dire, è sacrosanta. Ma è comunque interessante ed utile che la teoria economica si sia data a simili scoperte, e non è neppure il caso di ironizzare sul good type. In fin dei conti, si tratta di ipotesi teoriche; l’importante è non dimenticarsene. Asimmetrie informative esistono, naturalmente, anche e soprattutto a danno del lavoratore, per una serie di fattori che vanno dalla limitata conoscenza delle possibili occasioni lavorative, al fatto che egli non conosce l’andamento della congiuntura e dunque il reale fabbisogno dell’imprenditore, che questi ha interesse a nascondere o sottostimare80. A causa di tali asimmetrie, il mercato del lavoro presenta ancora elementi di monopsonio, pur dinamico e non più strutturale, come accadeva nelle prime fasi dello sviluppo industriale81. Data questa situazione di mercato imperfetto, la stessa teoria neoclassica ha riconosciuto che la previsione di un trattamento economico inderogabile ha un effetto positivo sul livello del salario, senza comportare, nel contempo, un impatto negativo sull'occupazione82. Questa conclusione è stata fatta propria da Andrea e Pietro Ichino 83, i quali hanno sostenuto, di conseguenza, che una limitazione della concorrenza attraverso un regime di inderogabilità può essere economicamente giustificata, anche nell’interesse degli outsiders84. Ciò, però, alla condizione imprescindibile che vi sia – di fatto - un frequente ricambio fra insiders e outsiders, e con esso una ripartizione equa fra tutti del rischio della disoccupazione, perché altrimenti quel regime giuridico emarginerebbe irreparabilmente i disoccupati ed entrerebbe in contrasto con gli artt.3 e 4 Cost.85 78 V. P.Aghion – B. Hermalin, Legal Restrictions on Private Contracts Can Enhance Efficiency, Journal of Law, Economics and Organization, 1990,381. 79 V. P.Aghion – B.Hermalin, op.cit., p.402: “Consequently, in equilibrium, the weeks of maternity leave provided by the employer could be inefficiently low; for ex., the good-type employee seeks to signal that she is unlikely to become pregnant by asking for no maternity leave privilegse, and the bad-type employee does better to mimic than to reveale herself. Thus, laws mandating maternity leave colud increase efficiency”. Sull'applicazione del modello al caso della disciplina legale in favore delle lavoratrici madri, v. l'approfondita dimostrazione di M.Novella, op.cit., p.329 ss. 80 V. A.Ichino e P.Ichino, A chi serve il diritto del lavoro, cit., qui p.472 ss. 81 V. A.Ichino e P.Ichino, ivi, p.469 ss. 82 Cfr. M.Novella, op.cit., p. 277 ss. 83 V. A.Ichino e P.Ichino, op.cit., spec. p.478 ss. 84 Si tratta di una conclusione importante e da sottolineare, per una valutazione completa e obiettiva delle posizioni degli autori in esame. 85 V. A.Ichino e P.Ichino, ivi, p.490 ss. 16 Della dimostrazione economica che in un mercato monopsonistico o alterato da asimmetrie informative, la previsione di una soglia minima di trattamento può consentire di realizzare un equilibrio più efficiente, il giuslavorista prende atto di buon grado. Ma quanto all’ulteriore corollario dell’argomentazione – quello dell’illegittimità costituzionale della regola dell’inderogabilità, in mancanza di un adeguato tasso di turn-over della forza lavoro -, anche ammettendo che gli autori non credano alla incidenza salvifica, sul livello complessivo di occupazione, di una deregulation finalizzata a restituire concorrenzialità al mercato del lavoro86 (perché, in tal caso, la discussione dovrebbe tornare a focalizzarsi sul fondamento economico del modello neoclassico), e puntino sul più limitato obiettivo di garantire un più frequente ricambio fra occupati e disoccupati, il giurista non può che domandarsi (senza dimenticare che anche quello degli autori è, sul punto, un ragionamento da giuristi) se il sostegno ai disoccupati di lunga durata meriti di essere realizzato nel quadro degli strumenti del Welfare (un Welfare propulsivo e “blairiano” quanto si voglia), oppure attraverso una destrutturazione delle regole del rapporto di lavoro che avrebbe come primo effetto un evidente terremoto di potere a favore delle imprese. In termini ancora più chiari, giacchè sappiamo, senza essere marxisti ma avendo qualche rudimento di sociologia delle organizzazioni (qualora non bastasse la normale esperienza di vita), che le imprese sono organizzazioni complesse e finalizzate che tendono a selezionare il personale più produttivo e sintonico con l’obiettivo dell’organizzazione, la questione cruciale è quella di decidere (de iure condendo, giacché de iure condito il giurista dovrebbe comunque muoversi all'interno dei principi della Costituzione formale e materiale) se vogliamo che questa selezione avvenga senza regole o sia sottoposta al vaglio di principi di correttezza e buon uso dei poteri gestionali. Più in generale, le analisi sull’asimmetria informativa o sul monopsonio rappresentano una sorta di traduzione, sul terreno economico, degli assunti lavoristici sulla disparità di potere fra datore di lavoro e lavoratore subordinato. Ma fra i due concetti c’è una confluenza soltanto parziale e tendenziale87. Se è vero che la carenza informativa (quella che si verifica a danno del lavoratore) è un ulteriore fattore di debolezza del lavoratore sul mercato del lavoro, non è vero – dal punto di vista del giuslavorista – l’opposto, ossia che un lavoratore perfettamente informato è per ciò solo in una posizione di parità negoziale con la controparte. Ciò che residua è quel deficit di potere che discende dalla diversa valenza dei beni in gioco (debolezza economico-sociale) e che viene consolidato giuridicamente dal contratto di lavoro (soggezione giuridica). Ma esso non sembra interessare alla teoria economica prevalente, che lo giudica un concetto troppo impreciso. La vera ragione è un'altra, e cioè che un concetto del genere contraddice in modo irreparabile il suo postulato metodologico di base (quello della capacità individuale di scelta economica) , che è non è confutato, invece, sinché si resta sul piano della cattiva informazione. Il deficit informativo può sempre essere colmato, ma il potere, sia pure senza vederlo con connotazioni di classe o di condizione sociale, è una “bestia” assai più impegnativa. Quanto alla frequente accusa per cui il concetto di “disparità di potere” sarebbe impreciso e approssimativo88, non è dato di comprendere perché esso sarebbe meno preciso, rectius più impreciso, del concetto di “asimmetria informativa”. Anche al giurista può stare a cuore, con Italo Calvino, l’”esattezza”; ma non per questo egli può pensare di non vedere ciò che non può misurare, come ad esempio il fatto che il lavoratore ha di norma più bisogno di lavorare, di quanto il datore abbia bisogno di assumere proprio e soltanto lui, e non già e non solo perché l’offerta tende a superare la domanda, quanto perché 86 Ma v. ad es. ivi, a p.474, per un esempio di come l’idea neoclassica della tendenza del mercato alla piena occupazione in presenza di un’elasticità salariale verso il basso mantenga una sua immanenza nella costruzione analitica degli AA. 87 Nel medesimo ordine di idee, v. S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc.,cit., p.606. 88 V. P. Ichino, Contrattazione collettiva e antitrust etc.,cit.,pp.662-663. 17 i beni che ciascuno dei due agenti mette in gioco nello scambio hanno una diversa valenza relativa89. E’ vero, beninteso, che il miglioramento della posizione del lavoratore sul mercato del lavoro (in termini di informazione, formazione, mobilità, tutela previdenziale per i periodi di non lavoro, etc.) è un obiettivo centrale di una moderna politica del lavoro. Esiste altresì un’evidente correlazione fra l’efficacia di queste politiche ed il rafforzamento della posizione contrattuale del lavoratore; esse possono rappresentare un presupposto sistemico di operazioni di allentamento “mirato” delle maglie dell’inderogabilità. Fra l’altro, a mio modo di vedere, è questo l’aspetto più fecondo ed interessante della riflessione di Ichino90, che merita di essere valorizzato anche a prescindere dalla sua sottovalutazione – dal nostro punto di vista, si intende – del tema del potere. Tutto sommato, un vero dialogo su questo punto cruciale sembra quasi impossibile, per la contrapposizione dei rispettivi assunti di comportamento (pur ridotta dall’ammissione di asimmetrie informative). Eppure, un maggiore sforzo per capire la parte di verità insita nel punto di vista altrui, sarebbe auspicabile. Ciò significa comprendere, da parte del giuslavorista, che il lavoratore è anche un individuo che possiede una sua capacità di scelta razionale, e, da parte dell’economista, che tale capacità di scelta è soltanto virtuale, nella misura in cui si esercita (e non è detto, certo, che si eserciti sempre) all’interno di una situazione di soggezione e dominio91. 6. Il “vecchio” istituzionalismo. Come abbiamo visto, ad es. riflettendo sul modello insider-outsider, anche gli economisti di approccio tradizionale hanno dovuto fare i conti con l’esistenza dei fattori istituzionali, per quanto concepiti, prevalentemente, come costrizioni e limitazioni al libero gioco dei comportamenti di mercato, e quindi in chiave di alterazione dell'assetto supposto come ottimale. Ma non stiamo parlando, ancora, di modelli nei quali la considerazione dei fattori istituzionali rappresenti un elemento caratterizzante dell’impianto analitico adottato. Tuttavia, l’indagine sull’approccio istituzionalistico in economia – un’indagine che rappresenta una tappa obbligata, ed anzi per intuibili ragioni la più attesa, del nostro discorso – è ben lungi dall’esaurirsi nella rilevazione di tali deboli connessioni. A proposito di economia istituzionale si impone, peraltro, una distinzione preliminare, fra “vecchio” e “nuovo” istituzionalismo 92. La prima di tali scuole si propone come la vera custode dell’eredità dei classici dell’istituzionalismo dei primi decenni del secolo scorso, soprattutto Thorstein Veblen e John R.Commons, che spesso in aperta polemica con il meccanicismo della scuola neoclassica, svilupparono approcci radicalmente diversi da quello dominante, non unificabili in una teoria organica, ma caratterizzati nell’insieme da realismo pragmatico, analisi dinamica, rifiuto dei modelli matematici, uso della teoria come strumento di politica economica 93. La scuola neo-istituzionalistica, formatasi negli anni ’60 e ’70 e 89 Ciò è riconosciuto, in verità, da parte di alcuni filoni minoritari della scienza economica, ove si sottolinea che lo squilibrio di potere discende dal "vincolo di reddito" che affligge il lavoratore, il quale non può scegliere di non lavorare, mentre l'imprenditore può scegliere di non produrre: v. A.Fumagalli, op.cit. 90 V. P.Ichino, Il lavoro e il mercato, cit., p.33 ss. 91 Altra questione è quella di come definire la condizione di soggezione giuridicamente rilevante, se in riferimento alla subordinazione tradizionale o (come si tende a ritenere infra, nel testo, § 9) o ad un nuovo concetto di "dipendenza economica". 92 V. G.M. Hodgson, Institutionalism, “Old” and “New”, in G. M. Hodgson, W. J. Samuels, M. Tool, The Elgar Companion to Institutional and Evolutionary Economics, Edward Elgar Publish. Ltd., Aldershot, England, 1994, vol.I, p.397 ss. 93 V. P.A. Klein, The Institutionalist Challenge: Beyond Dissent, in M.R. Tool (ed.), Institutional Economics: Theory, Method , Policy, Kluwer, Boston- Dodrecht-London, 1993,p.13 ss., qui p.17. Cfr. anche W.J. Samuels, The present state of institutional economics, in Cambridge Journal of Economics, 1995,19,p.569 ss. 18 culminata nell’opera di Oliver E. Williamson 94, si presenta anch’essa con aspetti di forte innovatività sul piano metodologico, che sono principalmente il frutto della rielaborazione e dello sviluppo delle teorie dell’impresa di Ronald H. Coase 95, a sua volta eccentrico rispetto agli indirizzi ortodossi 96, ma non contraddice, tutto sommato, alcuni assunti fondamentali della scienza economica tradizionale, tanto da venir riduttivamente considerata, dal punto di vista un po’ accigliato degli istituzionalisti “puri”, come una mera prosecuzione delle teorie ortodosse con altri mezzi97. Fra le due scuole, il neo-istituzionalismo ha un peso ed un rilievo teorico incomparabilmente maggiori, ma non sarà inutile, proprio ai fini del nostro tentativo di regolazione di confini, dedicare una qualche attenzione anche alle tematiche dell’istituzionalismo classico, se non altro per chiedersi perché il giuslavorista possa sentirsi epidermicamente a suo agio con esse. La ragione sarà presto evidente. Gli autori che si richiamano a tale indirizzo sostengono fondamentalmente che i comportamenti economici e l’allocazione delle risorse non sono determinati dall’individuo e dal mercato inteso come spazio di azione interindividuale, punteggiato dall’indicatore dei prezzi, bensì dalle istituzioni98. L'istituzione è a sua volta definita, con Commons, come “azione collettiva” a fini di controllo, liberazione ed espansione dell’azione individuale99, là dove per “azione collettiva” dobbiamo ampiamente intendere quell’insieme variegato ed eterogeneo di regole, scritte e non scritte, da qualunque fonte promananti, che orientano le condotte in modo diretto, cioè vincolante, o indiretto, attraverso meccanismi di interiorizzazione100. La riflessione degli economisti, a partire da queste premesse metodologiche, deve essere rivolta non a ricercare surrettizi stati di equilibrio101, bensì a fornire modelli esplicativi sempre più approssimati dei diversi ambienti istituzionali, dell’azione dei gruppi di interesse all’interno di essi e dello strutturarsi dei dispositivi di potere, e conseguentemente a proporre quegli aggiustamenti istituzionali che appaiono opportuni per accrescere il “valore sociale”102. Un valore tutt'altro che circoscritto all'efficienza103: l’economia è concepita, in questa prospettiva, come scienza normativa104, i cui valori di riferimento non debbono essere soltanto quelli dell’allocazione efficiente, bensì anche quelli della libertà, dell’equità, della compassione, della autodeterminazione dei cittadini, e più in generale quelli nei quali si esprime “the continuity of human life and [the] non invidious re-creation of community through the instrumental use of knowledge”105. Il 94 V. O.E. Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, F.Angeli, Milano, 1987, e precedentemente Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications, Free Press, New York, 1975. 95 V. soprattutto La natura dell’impresa e Il problema del costo sociale, in Impresa mercato e diritto, cit., p.72 ss. e 199 ss. 96 Per la ricostruzione, da parte dello stesso Coase, del proprio percorso intellettuale nell’ambito della scienza economica, v. il saggio Impresa mercato diritto, in R.H.Coase, op. cit., p.41 ss. 97 V. G.M. Hodgson, op.cit. 98 Per una chiara esposizione del paradigma istituzionalistico, v. Y.Ramstad, Institutional Economics and the Dual Labor Market Theory, in M. R.Tool (ed),Institutional Economics, cit.,p.173 ss., qui p.178 ss. Sulle ascendenze culturali dell'economia istituzionalistica nel pragmatismo di John Dewey, v. P.D. Bush, The Methodology of Instituzional Economics: a Pragmatic Instrumentalist Perspective, ivi, p. 59 ss. 99 Cfr. W.J. Samuels, Institutional Economics, vol. I-III, Edward Elgar Publish. Ltd., Aldershot, England, 1988. 100 V. ancora Y. Ramstad, op.cit.,p.180, che intende per istituzione "the set of explicit and implicit rules (customs) spelling out what individuals may, can, and must do or not do, subject to sanctions, in each of their roles within the concern". 101 Cfr. Y.Ramstad, op.cit.,p.193: "Institutional Economics is economics without equilibrium". 102 V. Y. Ramstad, op.cit., p.182. 103 V. infatti, in polemica con Posner, W.J. Samuels,Law and Economics, in G.M. Hodgson, W. J. Samuels, M.R.Tool, The Elgar Companion etc., cit., vol.II, p.7 ss.: gli istituzionalisti "believe that rights determine efficiency rather than efficiency determining rights". 104 V. P.A.Klein, op.cit.,p.19. 105 V. P.A.Klein,op.cit.,p.30. 19 compito dell'economia, in altre parole, è quello di interagire con la società per aiutarla a realizzare al meglio le sue decisioni allocative democraticamente assunte106. Non sarà difficile scorgere, in queste elaborazioni di taglio socio-politico, nonché quasi filosofico nelle assunzioni di base, l’eco di metodologie e concetti familiari al giuslavorista. Il fondamento di queste affinità pare soprattutto da ricercare nel rifiuto istituzionalistico dell’individualismo metodologico adottato dai neoclassici (ed anche da altri filoni della scienza economica, compresi i neo-istituzionalisti)107, e nel conseguente, seppur non integrale, determinismo108. La funzione della regola giuridica, di fonte sia legale che collettiva, non ha bisogno di essere dimostrata all’interno di questo paradigma teorico, giacché esso si caratterizza proprio per assumere la regola come unità analitica di base, pur diluendola nel più ampio concetto di istituzione. La regola è il recettore dell'insieme degli impulsi sociali, e ciò ne contraddistingue l'autonomia. Trova un habitat naturale in queste concezioni anche l'idea che la funzione normativa possa essere rivolta al riequilibrio degli assetti di potere109; la critica che abbiamo rivolto agli economisti per il fatto di ignorare o sottovalutare la dimensione del potere110 non può essere estesa agli istituzionalisti. Tuttavia, pur esulando dai nostri limiti l’esame degli apporti di questa scuola nei vari campi dell’indagine economica, si deve riconoscere che quella sensazione di “aria di casa”, che si prova scorrendo le loro trattazioni, è in qualche misura lo specchio di una certa descrittività, talora quasi tautologica, delle teorie istituzionalistiche. Si ha come l’impressione che le loro assunzioni metodologiche siano corrette, ossia che la realtà sia effettivamente complessa come essi la assumono e descrivono, e che questo rappresenti comunque un dato di progresso cognitivo rispetto all'eccesso di astrattezza rilevabile in altri approcci. Nello stesso tempo, però, la teoria non sembra ancora capace di sollevarsi con decisione dal piano, che in qualche caso assomiglia ad un limbo, della sollecitazione metodologica e culturale, od al massimo di una riflessione sostanzialmente sociologica, ed oltretutto appoggiata su valori il cui statuto fondativo è tutt’altro che chiaro. Un esempio significativo è rappresentato proprio dai problemi del mercato del lavoro. Nella letteratura ascrivibile a questo filone, mancano in generale contributi specifici in tema di economia del lavoro. L’unica eccezione è rappresentata da un saggio di Yngve Ramstad111, che non contiene una teoria istituzionalista del mercato del lavoro, ma nel quale si sostiene con grande passione l’argomento che una teoria siffatta esiste, per quanto essa non sia stata presentata esplicitamente come istituzionalista, ed è la teoria del dual labor market proposta nel 1971 da Peter Doeringer e Michael Priore112. Il ragionamento di Ramstad è persuasivo, e certamente la teoria in 106 V. P.A.Klein, op.cit., p.37: "Freeing the economy through an open interactive process with society to permit the emergence and transmission of societal values in a dynamic context is the objective of the economy as seen by institutionalists". 107 Cfr. infra, § 7. 108 V. Y. Ramstad, op.cit., p.187. 109 V. P.A.Klein, op.cit.,p.27 ss. Cfr. anche M.R.Tool and W.J. Samuels, ed., The Economy as a System of Power, II ed., Transaction Publishers, New Brunswick, USA, 1989. 110 V. retro,§5. 111 V. Y.Ramstad, op.cit., spec. p.196 ss. Cfr. anche, dello stesso A., Labour Markets, in G.M. Hodgson, W.J.Samuels e M.R.Tool, The Elgar Companion etc., cit., vol.II, p.1 ss., per interessanti rilievi sulla teoria di Solow, la quale dà atto dell'importanza dei fattori istituzionali, ma sempre all'interno di un modello di equilibrio generale e su premesse di individualismo metodologico; essa viene classificata, pertanto, come "supplemented neoclassical analysis". 112 V. P.Doeringer e M.Piore, Internal Labor Markets: a Manpower Analysis, Heath and Company, Lexington,Mass.,1971. V. anche M.Piore, Labor Market Segmentation: To What Paradigm Does It Belong?, The American Economic Review, Paper and Proceedings 73,May 1983, ove leggiamo, a p.252, un'affermazione additata da Ramstad (Institutional Economics etc., cit., p.215) come esempio di approccio istituzionalista: "…(a) the core of labor market segmentation are social groups and institutions. The processes governing allocation and pricing within internal labor markets are social, opposed either to competitive processes or to instrumental calculation. The marginal labor force commitment of the groups which creates the potential for a viable 20 questione, incentrata sulla distinzione fra un settore primario (a sua volta articolato in due fasce, ma comunque caratterizzato da alti salari, buone condizioni di lavoro, posto stabile, codici di condotta interiorizzati) ed un settore secondario (bassi salari, cattive condizioni di lavoro, posto incerto, relazioni personalizzate) del mercato del lavoro, ci dice cose interessanti sulle costanti di comportamento che si determinano in ciascuno dei due settori. Si pensi alle riflessioni sulle “catene di mobilità”, che traghettano nell’uno o nell’altro settore la manodopera appartenente ai vari strati sociali, con una sottile ma lenta interazione fra fattori di classe e fattori evolutivi dei diversi ambienti113; od a quelle sulla stabilità dei differenziali salariali che si strutturano nelle varie fasce professionali, in rapporto ai job skills che possono essere acquisiti, a loro volta, soltanto attraverso i processi di socializzazione, ad es. di addestramento professionale, che si verificano nei luoghi di lavoro114. Spunti, o vere e proprie teorie, di un qualche interesse, soprattutto nel mostrare – è il caso dell’ultima citata, la quale assume che il meccanismo dei prezzi, id est dei salari, non è determinante nell’allocare i lavori disponibili fra i prestatori in competizione e nel fissare i relativi compensi – le inadeguatezze di certi postulati neoclassici, ma che non possono essere ancora considerate come espressione di un modello teorico compiuto115; anche se un istituzionalista potrebbe ribattere che è l’idea stessa di “modello”, inteso come schema esplicativo unitario, ad essere scientificamente sbagliata. 7. La Nuova Economia Istituzionale. Con la scuola neo-istituzionalistica, che non deve essere intesa, se non in un senso molto generale, come continuatrice dell’istituzionalismo “ortodosso”, torniamo a parlare di economia. Ma è, ad un tempo, un’economia profondamente diversa da quella astratta e matematica delle teorie ortodosse; un’economia che ha ormai scoperto, e sta qui il suo debito intellettuale verso le riflessioni pionieristiche di Ronald H. Coase116, l’esistenza dell’impresa e la rilevanza delle forme organizzative. L’impresa gerarchica esiste, secondo Coase, perché le transazioni di mercato hanno un costo; se tutte le transazioni potessero aver luogo senza costo, ogni relazione sociale avrebbe la natura di una relazione di mercato, e non si avrebbe né organizzazione né autorità117. Di conseguenza, l'impresa non è più concepita, alla maniera neoclassica, come mera funzione della produzione, bensì come “struttura di governo” dei fattori della produzione. La migliore esposizione di questa prospettiva teorica è contenuta ne Le istituzioni economiche del capitalismo di Oliver E. Williamson118, che si propone esplicitamente come continuatore delle teorie di Coase119, tanto da definire il proprio approccio come “economia dei costi di transazione”120. Confrontarsi con quest’opera intrigante e astrusa è, per il giurista, un’esperienza abbastanza straniante, più di quanto non sia la lettura degli “ortodossi” , secondary sector of a dual labor market is social. The structures which distinguish professional and managerial workers from other members of the labor force and provide their distinctive education and training are also social.To understand these phenomena, one therefore needs a paradigm which recognizes and encompasses social, as opposed to individual phenomena". 113 Cfr. Y.Ramstad, op.ult.cit,p.203 ss. 114 Cfr. Y.Ramstad, op.ult.cit.,p.206 ss. 115 Manca pure, e non c'è da stupirsene, una teoria della disoccupazione, al di là di un generico rigetto della tesi dell'autoregolazione del mercato: cfr. J.F. Brothwell, Unemployment, in G. M. Hodgson, W.J.Samuels e M.R.Tool, The Elgar Companion etc., cit.,vol.II, p.337 ss. 116 V. specificamente il saggio La natura dell'impresa, cit. 117 V. R.H. Coase, La natura dell'impresa, ad es. a p.75, dove (citando D.H.Robertson) si definisce l'impresa un'"isola di potere cosciente in un oceano di cooperazione incosciente". Sull'impatto della teoria coasiana nella scienza economica, v. M.Grillo, Introduzione a Impresa mercato e diritto, cit., p.7 ss. 118 V. O.E.Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, cit. 119 Il quale, a sua volta, glielo riconosce: v. R.H.Coase, La struttura istituzionale della produzione, cit.,pp.329 e 335. 120 V. O.E.Williamson, op.ult.cit.,p.87 ss. 21 giacché rispetto a questi ultimi egli può opporre (e ciò, in fondo, è tranquillizzante) la radicale alterità del proprio punto di vista, mentre egli avverte che la realtà di cui ci parla uno Williamson è quella stessa che costituisce il sostrato, o l’oggetto medesimo, delle proprie riflessioni, cioè l’impresa e gli strumenti di governo dell’impresa, anche se essa viene osservata attraverso categorie analitiche differenti da quelle del giurista, quantomeno di quello di formazione continentale. Il punto di partenza, come si accennava, è costituito dalla riflessione di Coase sui costi di transazione, e sull’impresa come strumento di risparmio di tali costi. Già porre questa domanda aveva rappresentato, per Coase, un distacco profondo dal paradigma neoclassico, giacché essa non solo metteva in questione la naturale efficienza dei meccanismi di mercato, ma si spingeva esplicitamente a postulare l’inefficienza di quei meccanismi e la vacuità delle teorie dell’equilibrio economico. Concepire l’impresa, che è uno degli attori fondamentali del mercato, come l’espressione di un pur parziale fallimento del mercato, era, in effetti, un’affermazione quasi eretica per un economista che purtuttavia continuava a farsi guidare dalla bussola dell’efficienza economica, ed il cui discorso rimaneva rigorosamente all'interno della scienza economica. La domanda di Coase risuona continuamente nel lavoro di Williamson, che afferma più volte che lo scopo principale delle istituzioni capitalistiche è la riduzione dei costi di transazione, paragonati ad attriti in un sistema meccanico121. Ma l’interrogativo fondamentale “esplode”, altresì, in ulteriori e più approfondite domande, ed in particolare in quella sulla natura e sull’efficienza delle diverse forme organizzative interne dell’impresa, e segnatamente, per quanto di interesse, delle diverse forme di organizzazione del fattore lavoro122. Williamson si pone di fronte a tali domande con un approccio che, a differenza di quello dell’istituzionalismo classico, non mette in questione il tradizionale individualismo metodologico dell’economista, con quel che ne segue in termini di analisi delle scelte economiche e di ricerca di assetti di efficienza. Ma il panorama nel quale vengono inserite le scelte individuali è profondamente diverso da quello neoclassico, nel momento in cui l’individuo razionale e massimizzatore di utilità è soppiantato, in virtù di diverse assunzioni di comportamento che debbono molto, fra gli altri, al pensiero di Herbert Simon 123, da un individuo dotato di una “razionalità limitata”124, e tendenzialmente dedito all’”opportunismo”, vale a dire al perseguimento astuto e sleale di finalità egoistiche125. L’adozione di questi assunti di comportamento induce l'A. a concepire la libera contrattazione di mercato come un dispositivo che non tende a produrre efficienza, bensì costi di transazione, e dunque a conferire grande importanza ai meccanismi istituzionali che possono permettere di minimizzare quei costi. Ma c’è di più. C’è un concetto che ha un notevole rilievo nel pensiero di Williamson, quello di “specificità” delle risorse126. In un contesto caratterizzato da razionalità limitata e da opportunismo, sono in particolare le transazioni che hanno ad oggetto risorse “specifiche”, che cioè o rivestono in partenza o acquisiscono in seguito, per effetto del loro impiego, un’utilità particolare e non rimpiazzabile per l’impresa (tali transazioni vengono dette "idiosincratiche"), a non poter essere lasciate alla disordinata azione dei meccanismi di mercato e della libertà contrattuale, se non a costo di esiti 121 V. O.E.Williamson, op.ult.cit.,p.91. V. O.E.Williamson, op.ult.cit.,pp.331 ss. e 373 ss. 123 V. in particolare H.Simon, Scienza economica e comportamento umano, cit., forse il principale fautore di un rinnovamento metodologico della scienza economica, e specialmente dei suoi fondamenti comportamentistici, per ridurre lo scarto fra modelli e realtà. Per una suggestiva sintesi del pensiero simoniano, pervaso da una costante sollecitazione realistica (e caratterizzato da un approccio culturalmente originalissimo, che ha messo insieme economia, teoria dell'organizzazione, psicologia cognitiva, e studi di intelligenza artificiale), v. l'articolo di Simon pubblicato, in memoriam, da Il Sole 24ore dell'11 febbraio 2001. 124 V. O.E.Williamson, op.ult.cit., p.126 ss. 125 V. O.E.Williamson, ivi, p.129 ss. 126 V. O.E.Williamson, ivi, p.136 ss. 122 22 inefficienti, ed a richiedere, viceversa, strutture di governo progettate con cura127. Ciò riguarda, ovviamente, anche le transazioni aventi ad oggetto le “risorse” lavorative, che saranno tanto più specifiche quanto più implicanti professionalità elevate ed infungibili; ma il concetto di specificità è impiegato da Williamson in un senso molto ampio, tale da attribuire una qualche “dote” di specificità anche a risorse umane di per sé non particolarmente specializzate, in virtù del mero fatto del loro inserimento, magari duraturo e capillare, in una certa organizzazione d’impresa. Come vedremo, in particolare, quanto più la transazione è specifica, tanto più l’investimento operato su di essa ha bisogno di tempi certi di ammortamento, e dunque necessita di un’aspettativa di “continuità” della relazione contrattuale128, e non del rischio del “mordi e fuggi” inerente alla libera contrattazione. Ma su questo ed altri punti connessi torneremo fra poco. Qual’è la “risposta” delle istituzioni capitalistiche a questa situazione di tendenziale inefficienza? La prima risposta è l’impresa stessa (un’impresa che tende ad ingrandirsi per effetto dei fenomeni di integrazione verticale fra imprese), nella misura in cui essa sostituisce il rapporto gerarchico di autorità ad un processo perenne di contrattazione. Secondo gli indicatori di efficienza utilizzati da Williamson, il rapporto gerarchico consente le massime prestazioni di efficienza nella gestione delle risorse, in particolare di quelle specifiche. L’analisi dell’A. si dipana molto in dettaglio su questi aspetti, ma l’intuizione fondamentale, sul filo dell’alternativa mercato/gerarchia, è sempre quella di Coase129. Viene esplicitamente asserita, anche in polemica con certe posizioni degli economisti radicali e marxisti, che c’è una correlazione positiva fra potere ed efficienza130; il potere viene così spogliato dei suoi attributi di “dominio”, e ridotto a strumento, quasi meramente tecnico, di gestione efficiente delle risorse. Sino qui la posizione di Williamson sembra essere quella di un mero teorizzatore della subordinazione classica – una subordinazione nel “rapporto”, più che nel “contratto”, del quale l’A. rimarca l’inevitabile, ed anzi utile, “incompletezza” iniziale131 -, anche se inserita in un quadro di oggettivazione efficientistica, che ad alcuni potrebbe apparire, e non del tutto a torto, almeno parzialmente mistificante. Ma la sua analisi si rivela capace di spingersi oltre, trascinata com’è dalla percezione della ineludibile complessità delle dinamiche istituzionali interne all’impresa, ed è qui che le sue riflessioni si fanno più interessanti. Il “reagente” principale è sempre quello della “specificità”. Le transazioni specifiche debbono essere protette, perché ciò è fonte di un tangibile valore economico132. Proteggerle significa progettare razionalmente le “strutture di governo” dell’impresa, nel quale queste transazioni vengono a svolgersi. I corollari principali di questo assunto sembrano almeno due, per il nostro campo di interesse. Il primo, già rilevato133, è che occorre tutelare, dal punto di vista di entrambi i contraenti (anche se l’enfasi cade soprattutto sull’interesse dell’impresa), la “continuità” nel tempo della relazione contrattuale. Se ne può trarre un'opzione a favore del principio della giustificazione del licenziamento, il quale, creando un'area di protezione che non può essere rinegoziata durante la vita del contratto, "può aiutare il datore di lavoro a fare promesse "credibili" di trattamento leale nel corso del rapporto di lavoro"134. 127 V. O.E.Williamson, ivi, p.377. V. O.E.Williamson, ivi, ad es. p.140,362 e 375. 129 Ed ha ragione P.Loi, L'analisi economica del diritto, cit., p.559, nell'osservare che la teoria dell'impresa di Coase non ci dice nulla sulla giustificazione economica del diritto del lavoro. Sull'altro "corno" del pensiero di Coase, v. infra, § 8. 130 V. O.E.Williamson, ivi, p.361. 131 V. O.E.Williamson, ivi, pp.349 e 402-3. Cfr. anche S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc.,cit., pp.602-3. 132 V. O.E.Williamson, ivi, pp.106 e 376. 133 V. retro,nt.128. 134 V. S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc.,cit., p.606. 128 23 Il secondo è che è preferibile, sempre ai fini di un impiego efficiente delle risorse, che la relazione contrattuale si svolga in un contesto ambientale caratterizzato da una fiducia reciproca fra le parti, cioè da una ragionevole aspettativa in comportamenti non opportunistici dell’altro contraente135. Ciò comporta ad es., nota Williamson, l’introduzione di regole di correttezza rivolte a prevenire gli abusi imprenditoriali136 ed a salvaguardare la dignità del lavoratore137; la presa d’atto dell’utilità di un’organizzazione collettivo-sindacale come canale di collegamento e di comunicazione fra l’imprenditore ed i lavoratori138; l’opportunità, a certe condizioni, di meccanismi di partecipazione gestionale e finanziaria dei dipendenti139; l’utilità di meccanismi arbitrali interni di risoluzione ed assorbimento delle controversie140. Sono spunti, non sempre adeguatamente sviluppati e spesso troppo circoscritti alla realtà nordamericana, nei quali la teoria neo-istituzionale manifesta una chiara confluenza, esplicitata da Williamson141, con una certa teoria contemporanea del contratto, ancora una volta di matrice anglosassone (i più citati sono a questo proposito gli studi di Ian R. Mcneil142), la quale si occupa, in buona sostanza, di far emergere, da un punto di vista dinamico e non statico, la “relazione contrattuale”, onde studiare i modi nei quali tale relazione può consentire di realizzare, con sempre maggiore approssimazione, gli effettivi interessi delle parti contraenti. Nell’ottica di Macneil, il contratto, ed in particolare quello che i giuristi chiamano "di durata" (che "proietta lo scambio nel futuro"143) è un perenne work in progress che deve essere governato da una rete di regole di condotta private che eccedono di molto l'inevitabile incompletezza del patto iniziale, sì da dar luogo ad una sorta di miniordinamento144. C’è quanto basta per scacciare l’idea che la “gerarchia” di Williamson debba essere necessariamente rapportata ad un certo modello, di stampo fordista, di organizzazione del lavoro; di modo che, quanto più l’organizzazione si trasforma in senso post-fordista, puntando sulla collaborazione e non sull’autorità, tanto più l’impresa verrebbe ad essere nuovamente pervasa da logiche di tipo contrattuale, con conseguenti cadute di efficienza. Non che quest’ultima affermazione sia necessariamente falsa, giacché esiste con ogni probabilità un limite, oltre il quale un’organizzazione sempre meno gerarchica finisce col dissolversi. Ma l’analisi di Willamson sfugge a contrapposizioni così schematiche, ed il suo concetto di gerarchia si dimostra compatibile con una qualche valorizzazione del ruolo dei prestatori di lavoro all’interno delle organizzazioni. Così delineate le principali tematiche della riflessione neo-istituzionale sull’impresa, concepita come meccanismo efficiente (in senso generalmente second-best) che garantisce ad un soggetto di appropriarsi dei proventi dei suoi investimenti “specifici”, sembra possibile affermare che esse offrono alcune “sponde” all’assunto di una giustificazione economica delle norme lavoristiche. Non è un caso che giuristi di scuola anglosassone, impegnati nello sforzo di gettare ponti fra diritto del lavoro ed economia, abbiano individuato proprio in questo 135 V. O.E.Williamson, op.ult.cit., p.587. Cfr. anche S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc., cit.,p.612 ss. 136 V. O.E.Williamson, ivi, pp.394 e 476 ss.,ove l'A. si schiera chiaramente contro gli apologeti del capitalismo del laissez-faire. 137 V. O.E.Williamson, ivi,pp.413-414. 138 V. O.E.Williamson, ivi, pp.391 ss. e 403. 139 V. O.E.Williamson, ivi, p.450 ss. 140 V. O.E.Williamson, ivi, p.387. 141 V. O.e.Williamson, ivi, p.155 ss. 142 V. I. R. Macneil, The Many Futures of Contracts, S. Cal. L. Rev., 1974,47, p.691 ss., e Contracts: Adjustments of Long-term Economic Relations under Classical, Neoclassicale and Relational Contract law, N.Un.L.Rev., 1978,72,p.854 ss. 143 V. I.R.Macneil, The Many Futures etc., cit.,p.712 ss. 144 Sul pensiero di Macneil, v. le puntuali osservazioni di P.Loi, L'analisi economica del diritto etc., cit., p.564 ss. 24 indirizzo il punto di collegamento più fecondo. Simon Deakin e Frank Wilkinson hanno concluso, in particolare, che se non è detto che gli argomenti neo-istituzionali siano in grado di fornire una valida giustificazione economica all'istituzione di quegli standards protettivi che rappresentano il “valore aggiunto” del diritto del lavoro, essi ci consentono comunque di lasciare alle spalle l’assunto neoclassico dell’antitesi inevitabile fra diritti ed efficienza, e di avviare un dialogo libero da apriorismi145. Nulla di meno, ma anche nulla di più. E’ Williamson stesso ad affermare che il suo approccio si pone a cavallo fra economia, diritto e scienza dell’organizzazione, e ciò apre uno spazio visibile al discorso del giurista. Nondimeno, rimarrebbe deluso chi cercasse nell’”americano” Williamson un interesse più che occasionale nella regola giuridica, ed in specie nella funzione protettiva della norma lavoristica. Non ci sono i “diritti” in Williamson, e la sua insistenza sul governo e della protezione delle transazioni lascia in ombra le forme giuridiche attraverso le quali quel governo dovrebbe realizzarsi. Si potrebbe semmai notare, a rovescio, come l’attribuzione ai lavoratori di diritti si traduce in costi (li potremmo chiamare “costi di subordinazione”) che potrebbero essere superiori ai costi delle transazioni che dovrebbero aver luogo laddove certe risorse lavorative fossero acquisite tramite relazioni di mercato. Ciò potrebbe essere all’origine delle recente e ormai risaputa tendenza delle imprese a scomporre il proprio ciclo produttivo, in una corsa verso l’outsourcing che si contrappone all’integrazione verticale postulata da Williamson146. Questa acquisizione esterna (e sempre più spesso transnazionale) delle risorse può avvenire nel quadro di relazioni di esternalizzazione fra imprese, oppure, più semplicemente, tramite contratti di collaborazione continuativa di tipo autonomo. Non a torto è stato rilevato, da Hugh Collins, che i neoistituzionalisti non sono stati sin qui in grado di spiegare, dal loro punto di vista, perché esistono contratti di lavoro subordinato, in luogo di contratti di servizio continuativi (che consentono di tenere bassi i costi di transazione, evitando nel contempo i “costi di subordinazione”)147. Una ragione potrebbe essere che essi consentono una minore spendita di autorità, e dunque un’integrazione organizzativa più “debole”; ma è vero, per altro verso, che questo vantaggio comparativo tende a perdere importanza, nella misura in cui i modelli di organizzazione del lavoro si trasformano in senso post-fordista. Inoltre, l'insistenza sulla specificità delle transazioni potrebbe avere, a prima vista, implicazioni singolarmente disarmoniche con la logica lavoristica. In Williamson, tanto più le transazioni richiedono protezione, quanto più sono specifiche; ma il lavoratore di più elevata professionalità ed infungibilità per l’impresa è anche il lavoratore che ha più potere negoziale, e dunque, dal punto di vista del giuslavorista, è piuttosto quello che meno avrebbe bisogno di quella protezione, a paragone del lavoratore meno specializzato e qualificato. I due ragionamenti sembrerebbero procedere, per questo aspetto, su opposte direttrici di marcia. Ma la sciarada è ancora lungi dall'essere districata. Altri studi economici ci fanno dubitare della fondatezza di tale ultima asserzione, e ci mostrano come certe sinergie fra la riflessione neo-istituzionalistica ed il diritto del lavoro siano ancora tutte da scoprire e da valorizzare. E' il caso di un contributo molto stimolante di Ugo Pagano148, che pur non collocandosi interamente su una posizione neo-istituzionalistica ma condividendone certi postulati fondamentali e facendo largo uso del concetto williamsoniano di "specificità", sostiene la tesi che nell'attuale contesto di rapidi cambiamenti strutturali ed in specie tecnologici, non si dà 145 V. S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica: una rivisitazione etc., cit., p.606. Sia consentito rinviare, sul punto, a R.Del Punta, Mercato o gerarchia? I disagi del diritto del lavoro nell’era delle esternalizzazioni, DML,2000,49, tradotto in inglese in DML-online,n.4/1999 ( www.lex.unict.it/dml-online ). 147 V. H.Collins, Why are There Contracts of Employment?, Journal of Institutional and Theoretical Economics, 1993, vol. 149, no.4, 762. 148 V. U.Pagano, Property rigths, asset specificity, and the division of labour under alternative capitalist relations, in Cambridge Journal of Economics, 1991, 315. 146 25 un'equazione fra il bisogno di flessibilità dei mercati del lavoro e la limitazione dei diritti dei lavoratori; un'operazione del genere, al contrario, sarebbe viziata dall'inattualità della propria premessa (quella di un mercato del lavoro incentrato su una manodopera relativamente "unskilled", come avveniva nel capitalismo classico), e finirebbe pertanto col favorire un'allocazione sbagliata e inefficiente delle risorse, ad es. ostacolando quella valorizzazione professionale dei lavoratori, della quale il sistema ha necessità. Ciò dimostra una volta di più che se si condivide l'assunto che il mercato, "far from being the "neutral" environment where efficient institutions are selected, is also itself an insitution, the survival and existence of which depends on these institutions"149, quella dell'antitesi necessaria fra diritti ed efficienza, finisce con l'apparire, con una chiarezza crescente, come un'idea tanto leggera quanto dogmaticamente elementare. 8. Il “teorema di Coase”. Le implicazioni del pensiero neo-istituzionalista sono, peraltro, di ordine più ampio di quello delineato dalle teorie dell’impresa, ed investono il problema generale dell’influenza del diritto sul funzionamento del sistema economico. Il punto di partenza è sempre Coase, la cui fama è dovuta anche al saggio del 1960, intitolato Il problema del costo sociale 150 (non è un caso che i due scritti del 1937 e del 1960 siano stati quelli richiamati nella motivazione del Premio Nobel per l'economia, assegnato a Coase nel 1991151). In quel saggio si trova la formulazione di quello che è stato poi chiamato152 il "teorema di Coase", che ha avuto una grande influenza sui giuristi, forse più che sugli economisti, in quanto prende di petto, in un’ottica che tendenzialmente è di “sistema”, il nodo del rapporto fra diritti ed efficienza. Occorre ricordare che l'argomento del saggio è quello delle conseguenze dannose sulle imprese od in generale sui soggetti economici delle azioni di altre imprese o soggetti. Coase dichiara il proprio netto dissenso da A.C. Pigou, il quale - in una prospettiva di parziale fallimento del mercato - aveva sostenuto l'utilità di interventi regolatori pubblici (non importa se di fonte giurisprudenziale, nei sistemi di common law, o legislativa) per prevenire o reprimere tali azioni dannose153. Secondo Coase, in un sistema con costi di transazione nulli, che è quello presupposto dalla teoria economica corrente, una siffatta regolazione (che comporta un'imputazione, per sua natura selettiva, di "diritti") conduce a risultati meno efficienti, dal punto di vista della massimizzazione della produzione, di quelli che possono essere realizzati mediante accordi fra le parti, comportanti una ridefinizione dei diritti inizialmente assegnati154. In altre parole, “se i soggetti sociali avessero capacità illimitata di coordinare senza costo le proprie azioni, allora qualsiasi effetto esterno associato all’azione di qualche soggetto verrebbe completamente internalizzato da un’opportuna relazione contrattuale tra tutti coloro il cui benessere è influenzato da quella azione (e questo indipendentemente da quale soggetto abbia diritto a compiere quell’azione)”155. Coase sa bene – è stato lui ad insegnarcelo - che nel mondo reale i costi di transazione sono positivi, ma immagina la funzione del sistema giuridico come rivolta a ridurre il più possibile questi costi, facilitando la redistribuzione dei diritti. Il messaggio di Coase a questo riguardo è, pertanto, fondamentalmente liberista ed antipigouviano, a favore della massima estensione 149 V. U.Pagano, ivi, p.337. V. Il problema del costo sociale, in Impresa mercato e diritto, cit., p.199 ss. 151 V., in Impresa mercato e diritto, la Nobel lecture del 1991, dal titolo La struttura istituzionale della produzione, p.329 ss. 152 Da parte di G.J.Stigler: v. lo stesso Coase nel saggio Impresa mercato e diritto,cit.,p.54. 153 V. R.H.Coase, Il problema del costo sociale, cit.,spec. p.236 ss. 154 V. R.H.Coase, Il problema del costo sociale, cit., passim. 155 Così M. Grillo,Introduzione, cit., p.20. 150 26 e valorizzazione possibili delle relazioni di mercato156. E’ vero che il mercato non è concepito, alla maniera neoclassica, come uno spazio di efficienza “naturale”, quasi metafisica, bensì come il luogo nel quale possono essere internalizzate, nel modo più efficiente possibile, le esternalità negative che le relazioni di mercato tendono a produrre. Il risultato, in termini di politica economica (e del diritto), non cambia157. Ma la palla ritorna, in qualche misura, in gioco, allorché si consideri che nel mondo che lo stesso Coase ci dice essere quello reale, non si può escludere che, per la presenza di costi di transazione associati a responsabilità limitata, a difetti nei meccanismi sanzionatori, ed alle difficoltà intrinseche del processo di contrattazione, sia collettivamente conveniente che una relazione di autorità – qui intesa, al di là dei confini dell’impresa, come comprensiva di una regolazione legislativa diretta, ed in ipotesi non derogabile dalle parti, sull’uso di un certo fattore della produzione - si sostituisca ad una relazione di mercato nel coordinare l’agire congiunto di due soggetti sociali. Coase ha aperto la strada a questi necessari approfondimenti analitici, pur senza condurli in prima persona. Egli è arrivato ad ammettere, al massimo, "che non c'è ragione perché, in certe occasioni, la regolazione governativa non debba portare ad incrementi di efficienza del sistema economico"158. Questa affermazione lo riporta su un terreno di (parziale) neutralità sul piano della politica economica. Si è aperto, così, tutto un filone di ricerca sui costi di transazione “in concreto”, che, se non si erra, è almeno in parte confluito nelle moderne elaborazioni di teoria dei giochi. Una vasta e crescente letteratura attribuisce oggi alle istituzioni economiche ed agli interventi governativi di politica economica il compito essenziale di permettere ai soggetti economici di coordinarsi su un equilibrio efficiente in contesti che la teoria descrive come giochi caratterizzati da esternalità rilevanti, molteplicità di equilibri e inefficienza in senso paretiano di molti di essi159. La ricerca inesausta dell’efficienza continua, ed essa può condurre a qualche confluenza di percorso. Tutto dipende, in questa chiave, dall’analisi empirica dei costi di transazione. Infatti, quando il minimo costo di transazione è comunque troppo elevato da non rendere alcuna transazione conveniente, il sistema dei diritti può consentire che la soluzione efficiente (in senso second-best), e quindi l’esito socialmente desiderabile, venga conseguita in assenza di una transazione; a quel punto, lo scambio di diritti non ha luogo, ed “i diritti di cui gli individui sono titolari…saranno…quelli stabiliti dalla legge”160. Ma l’utilizzazione di quelle ricerche per fondare economicamente il diritto del lavoro permane controversa. Così, quando autori sensibili come Deakin e Wilkinson chiamano in causa il teorema di Coase per sostenere che la regolazione legale non conduce necessariamente a risultati di inefficienza, purché l'uso delle risorse, sul quale i diritti inizialmente incidono, possa essere rinegoziato, e dunque per aprire la strada alla tesi della giustificabilità economica di alcune tutele lavoristiche161, essi si trovano a fronteggiare più di una difficoltà. Supponiamo pure che l’apparato concettuale di Coase, ed in specie il concetto di “esternalità”, possa essere applicato senza problemi alle relazioni di lavoro, anche se ciò, forse, dovrebbe essere preliminarmente dimostrato per esteso. Ciò premesso, Deakin e Wilkinson criticano chi legge Coase in senso liberista, e ricordano che lo stesso Coase ha ripetutamente riconosciuto che non c’è nulla nel suo approccio che escluda a priori un 156 Si veda, ad es., questo passo (p.246): "E'necessario pesare il danno con il beneficio che ne risulta.Niente potrebbe essere più "antisociale" di contrastare ogni azione che causa un qualche danno a chicchessia". E quest'altro a p.234: "Il problema risiede nel confronto dei vantaggi che deriverebbero dall'eliminazione di questi effetti dannosi con i vantaggi che derivano dal lasciare che essi continuino". 157 V. però le valutazioni più articolate (ed in parte non concordanti con quanto affermato nel testo, peraltro da un punto di vista riduttivamente giuslavoristico) di M.Grillo, Introduzione, cit., p.35 ss. 158 V. R.H.Coase, Il problema del costo sociale, cit.,p.221. 159 Cfr. M.Grillo, Introduzione, cit., pp.26-27. 160 V. R.H.Coase,La struttura istituzionale della produzione, cit., p.339. 161 V. S.Deakin e F.Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica etc.,cit.,p.592 ss. 27 intervento regolatorio pubblico162. Ma la strada resta irta di ostacoli,se non di vere aporie. Nella prospettiva di Coase, ulteriormente chiarita da Steven Cheung163, la ragione dell’esistenza dei diritti è rappresentata dai costi di transazione. La funzione del diritto è principalmente quella di assecondare l’abbattimento di questi costi e di facilitare gli scambi di mercato. Ma le relazioni di lavoro impostate secondo la forma giuridica del lavoro dipendente dovrebbero andare esenti, in linea di principio, da costi di transazione, per cui non è ben chiaro perché il diritto dovrebbe intervenire ad alterarle, se non sulla base di considerazioni ulteriori sulle inefficienze strutturali del mercato del lavoro, talune delle quali già incontrate nel corso della trattazione, che però si lasciano alle spalle il teorema di Coase, il quale al massimo potrà essere ritenuto neutro nei confronti delle medesime. E’ dubbio, inoltre, che un ragionamento come quello di Deakin e Wilkinson possa valere per un diritto del lavoro incentrato, come quello italiano164, sul principio dell’inderogabilità unilaterale delle tutele, che copre con le sue fitte maglie tutto il sistema. In un contesto del genere, la "rinegoziazione" postulata da Coase non può verificarsi, quantomeno in modo aperto. Prendiamo ad es. il caso delle tutele legali a favore delle lavoratrici madri; prescindendo dalle già esaminate tesi di Aghion-Hermalin165, esse sembrano avere un impatto immediato di inefficienza, in quanto distraggono risorse dalla produzione. Deakin e Wilkinson osservano che il risultato non è, tuttavia, inefficiente, nella misura in cui si consenta all’imprenditore di “acquistare” dalla lavoratrice la rinuncia alla tutela in questione166. Ma questo, nell’ordinamento italiano, è impossibile. Ne segue che il teorema di Coase potrebbe essere invocato, se mai, per asserire l’”inefficienza” di un diritto del lavoro così strutturato. Il quadro d'insieme è di difficile lettura. Quello che le teorie neo-istituzionalistiche in qualche misura concedono al diritto del lavoro sul terreno dei dispositivi di funzionamento dell'impresa, tendono a toglierglielo quando passano a valutare l'impatto di un sistema di diritti teso ad alterare l'utilizzo dei vari fattori di produzione, fra cui il lavoro. L'idea del fallimento del mercato rimane circondata, in qualche modo, da un'ambivalenza di fondo, giacché il mercato viene per un verso smitizzato, e per un altro esaltato, attraverso l'idea della rinegoziazione a tutto campo dei diritti come soluzione di efficienza, che sembra avere poco in comune con la funzione tradizionale del diritto del lavoro. Sul piano metodologico, invece, non c’è dubbio che il pensiero di Coase e dei suoi continuatori esalti l'importanza della dimensione giuridica. Oggetto dello scambio, per Coase, sono diritti, e non beni, per cui "il sistema giuridico ha un profondo effetto sul funzionamento del sistema economico, e, per certi versi, si può dire che lo controlli"167. Questa valorizzazione analitica della dimensione istituzionale è la precondizione di un dialogo, che rimane, però, tutto da sviluppare sul terreno dei contenuti. 9. Il marchio del diritto del lavoro. La pur sommaria ricognizione critica delle più significative teorie economiche del mercato del lavoro ha mostrato che, se è difficile trovare nell’economia una giustificazione in senso proprio del diritto del lavoro così come lo intendiamo, quelle teorie non sono capaci di dimostrarne in maniera conclusiva l’irrazionalità dal punto di vista economico. Anzi, nelle loro varianti più avvertite, che rivelano un’acuta consapevolezza delle imperfezioni (tanto "naturali" quanto "istituzionali") del mercato del lavoro, esse pervengono a (o comunque 162 V. S.Deakin e F.Wilkinson, op.ult.cit.,p.595. V. M.Grillo, Introduzione,cit.,pp.28-29, con riferimento al saggio di S.Cheung, Will China Go Capitalist?, in Hobert Paper 94,Institute of Economic Affairs, London, 1986. 164 V. invece S. Deakin e F.Wilkinson, op.ult.cit.,p. 591. 165 V. retro,§ 5. 166 V. S.Deakin e F.Wilkinson, op.ult.cit.,pp.593-4. 167 V. R.H.Coase, La struttura istituzionale della produzione, cit.,p.339. 163 28 consentono di) considerare efficienti, date certe circostanze, alcune forme di limitazioni eteronome della libertà contrattuale. Si tratta di una conclusione non trascurabile, che potrebbe quantomeno indurci a guardare all’economia con uno spirito meno timoroso e difensivo. Quanto all’indirizzo neoistituzionalista, è emerso come, almeno nel pensiero di Williamson, esso prefiguri – pur senza giungere ad asserirlo in positivo – l’utilità di alcuni dispositivi di garanzia dei lavoratori ai fini del governo efficiente dell'impresa; abbiamo anche riscoperto, tuttavia, ciò che non avevamo dimenticato, ossia che pur partendo da una prospettiva di questo tipo, e fatta eccezione per il "vecchio" istituzionalismo dalla incerta collocazione, il verbo dei diritti non è declinato né declinabile come tale dall'economia, anche per la persistente rimozione, a monte, del tema del potere sociale168. Beninteso, non possiamo chiedere all’economia quello che essa non può darci. L’economia deve tentare di spiegarci come i sistemi economici possono funzionare in modo efficiente, ed il massimo che dobbiamo pretendere – e non è poco - è che essa guardi a quei sistemi così come sono, senza il filtro di una modellistica troppo astratta, e che si confronti di più con l’idea che il mercato inteso come luogo di incontro “naturale” di liberi comportamenti economici, pur potendo avere un’utilità euristica, di fatto non esiste, giacché, come è stato mostrato dalla sociologia istituzionale169 e dalla teoria giuridica170, nonché accettato, come abbiamo visto, da cospicui filoni della scienza economica171, il mercato è il prodotto delle istituzioni che lo regolano, e che non possono non regolarlo. Non sarebbe un grande risultato intellettuale cominciare il XXI secolo riattualizzando i miti del XIX°. E’ già molto, quindi, che l’idea del fallimento o se non altro delle inefficienze strutturali dei mercati del lavoro si sia fatta strada, anche all’interno dell’approccio neoclassico, e che abbia condotto alcuni economisti a ritenere efficiente, quantomeno in certe circostanze, la regolazione diretta di dati aspetti delle relazioni di lavoro. Il problema rimane quello di acquisire una conoscenza maggiore dell’incidenza dei fattori istituzionali sui comportamenti economici, il che è possibile soltanto a patto di sviluppare modelli teorici sempre più approfonditi, come in parte si è cominciato a fare, e di continuare sulla strada delle verifiche empiriche. Un esempio importante di quel sincretismo teorico che si affaccia nell'approccio di alcuni autori è rappresentato da un contributo di Deakin e Williamson172, nel quale, grazie ad una combinazione virtuosa di parziale apertura nei confronti dei teorici dell'ordine spontaneo del mercato e di sensibilità "istituzionalistica", è sostenuta la tesi che il mercato tende a produrre, per forza endogena, diseguaglianze profonde e persistenti, che sono all'origine di inefficienze di vario tipo (e che si ritorcono, pertanto, contro il mercato), nella misura in cui tagliano fuori dal sistema dello scambio vaste fasce di individui (il che rappresenta comunque una perdita di ricchezza), e favoriscono altresì una "cattiva" competizione fra le imprese (le quali saranno portate a farsi concorrenza sui costi salariali, piuttosto che sulla formazione, sul miglioramento delle tecniche gestionali, etc.). In questo contesto, la previsione di alcuni diritti sociali può consentire al maggior numero di individui di acquisire quella che gli autori definiscono, con Amartya Sen, "capability"173, ossia la libertà sostanziale di mobilitare e valorizzare la dotazione di risorse a loro disposizione così da diventare agenti economici 168 Per un fugace accenno di Williamson ad un insufficiente sviluppo, nel quadro della sua teoria,al tema del potere, v. O.E.Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, cit., p.416. 169 Il riferimento è anzitutto alla complessa riflessione di K.Polany sull’economia come processo fondamentalmente istituzionale, culminata ne La grande trasformazione, cit. V., al riguardo, A.Martinelli, Economia e società, Ed. di Comunità, Milano, 1999, p.109 ss. 170 V., per tutti, N.Irti, L'ordine giuridico del mercato, Laterza,Bari,1998. 171 V. ad es., in termini, U. Pagano, Property rights etc., cit., pp.337-8. 172 V. S.Deakin e F.Wilkinson, "Capabilities", ordine spontaneo del mercato e diritti sociali, cit. 173 V. S.Deakin e F.Wilkinson, ivi, p.331. 29 autosufficienti, con un beneficio complessivo in termini di ricchezza (oltre che di equità) sociale174. Ma, in verità, con queste osservazioni ci stiamo riavvicinando alla dimensione propriamente giuridica ed alle ragioni autonome ed irriducibili del diritto del lavoro. Possiamo sperare che l’economia ci consegni qualche nuovo argomento a sostegno dell’utilità sociale di alcune regole lavoristiche. Ma non per questo dobbiamo cadere nell’ingenuità di immaginare scenari di convivenza idilliaca: la tensione fondamentale fra un diritto del lavoro, che è nato per correggere il mercato a tutela della persona175, ed un’economia che, pur di volta in volta correggendola, non intende minimamente staccarsi dall’ipotesi fondamentale della scelta razionale individuale. Si potrebbe obiettare che stiamo sottovalutando, con questo, una certa trasformazione genetica della materia, da un invasivo diritto del lavoro ad un più dinamico e flessibile diritto del mercato del lavoro. Ma quello delle trasformazioni genetiche della disciplina non è tema che possa essere trattato qui, ove si è scelto di procedere sulla base di un’ipotesi tutto sommato tradizionale, salvo vedere se essa riguarderà, nel prossimo futuro, tutta la materia o soltanto il suo “zoccolo duro”: che non possa darsi diritto del lavoro se non quando alcuni “beni della vita”, di cui è titolare il lavoratore (e farà sempre meno differenza se subordinato od autonomo), vengano sottratti alla negoziazione individuale, ed affidati all’autotutela collettiva (meglio se incardinata in forme di democrazia industriale) od alla protezione della norma statuale. Questa è la “norma proibitiva” che rappresenta il marchio d’origine della materia176, e che pur con tutte le ri-contestualizzazioni possibili (e doverose) mantiene un’attualità di fondo. Quando Pietro Ichino avanza l’ipotesi che sia “meglio” per il lavoratore disabile o extracomunitario essere retribuito al di sotto delle tariffe minime valide per la generalità dei lavoratori, perché ciò favorisce le sue possibilità di trovare un’occupazione177, egli non considera che l’ordinamento ha scelto di non tutelare il valore “occupazione” a qualsiasi costo, e cioè a scapito di altri valori non sacrificabili; esso non lo tutela, ad es., al punto di tollerare che si ricreino quelle condizioni di concorrenza al ribasso fra lavoratori, virtualmente senza freni, che il diritto del lavoro ha puntato da sempre ad impedire. La razionalità della materia deve essere valutata, pertanto, in rapporto non ad un unico valore, bensì all’insieme dei valori espressi dal sistema giuridico e dall’ambiente sociale, e compito del giurista è esserne il “guardiano” ed il garante. Così, quando si segnalano i rischi di un'egemonizzazione del ragionamento giuridico da parte di quello economico178, non si fa necessariamente retorica, bensì si evoca un pericolo reale: quello di pensare che una regola giuridica possa trovare un valido fondamento solamente in considerazioni di efficienza. Non è così. L’essenza della razionalità (o ragione) giuridica, e segnatamente giuslavoristica, è di essere una razionalità di sintesi, che assorbe la razionalità economica all’interno di un quadro di riferimenti più ampio179. Una volta compiuto il processo dell’apertura cognitiva, l’esito finale della riflessione del giurista deve rimanere impregiudicato, nel senso che egli deve rimanere libero di ritenere preferibile, con onere di adeguata argomentazione e con piena coscienza degli eventuali effetti collaterali, una soluzione basata sulla tutela di valori non economici, come l’equità, l’eguaglianza, la solidarietà, la salute e la sicurezza, la dignità, o – perché no – la libertà nelle sue varie 174 V. S.Deakinb e F.Wilkinson, ivi, p.336 ss. Sul più ampio dibattito in materia, v. Persona e mercato, a cura di G.Vettori, Cedam, Padova, 1996. 176 Sono "proibitive", secondo la nota classificazione di N.Irti, op.cit.,p. 67, le norme che "stabiliscono divieti e così provvedono ad individuare tutto ciò, soggetti, beni, negozi, che deve rimanere fuori dal mercato". 177 V. P. Ichino , Il dialogo tra economia e diritto del lavoro, cit. 178 V. ad es. P.Loi, L'analisi economica del diritto etc.,cit.,p.585. 179 Sullo sfondo teorico del problema, v. G.Zaccaria, Complessità della ragione giuridica, in Questioni di interpretazione, Ceda, Padova, 1996, p.3 ss. 175 30 manifestazioni, così come di optare, non ravvisandosi opzioni di valore in senso ostativo, per l’adozione della soluzione più efficiente, secondo una sorta di artigianale criterio di “sussidiarietà” della scelta efficiente180, che enuncio come mero spunto. Questo è il cuore della libertà, e della responsabilità, del giurista, e questo è ciò che l’analisi economica del diritto mette irreparabilmente in crisi, nel momento in cui va al di là dell’apertura cognitiva, asserendo che il criterio determinante ed esclusivo della decisione giuridica dovrebbe essere quello dell’efficienza economica181. Questo è anche il paradigma fondativo del diritto del lavoro, che ovviamente può essere modificato, ma a patto di “rivelare” che quello è l’obiettivo e di confrontarsi col problema nel suo insieme, che eccede a sua volta la dimensione strettamente giuridica, nel momento in cui mette in questione, per dirla à la Habermas (e questo è in effetti un tipico tema habermasiano), le forme e la qualità della razionalizzazione sociale. .Così, nulla in contrario a discutere, nel contesto del dibattito italiano sulla riforma della disciplina dei licenziamenti, delle tesi sostenute da Richard Epstein in un classico contributo a difesa del contratto at will182, ma senza pensare di cancellare d’un sol colpo una elaborazione giuridica formatasi in decenni sol perché un autore vagamente integralista d’oltre Oceano viene a spiegarci che la libertà di recesso, in realtà, giova anche al lavoratore, e non al disoccupato, ma persino a quello che è già parte di un contratto di lavoro. Così, nulla in contrario a vedere il contratto di lavoro attraverso le lenti del “rischio assicurativo”183, che ci schiudono una prospettiva indubbiamente interessante, a patto di non dimenticare che la malattia o la maternità (tipici rischi oggetto di “assicurazione” nel rapporto di lavoro subordinato) rimandano a diritti di rango costituzionale, e comportano pertanto un regime di “assicurazione obbligatoria”. Così, nulla in contrario persino a studiare l’impatto economico della normativa antidiscriminatoria184, ma con la precisazione che se anche quell’impatto risultasse negativo, a dispetto degli sforzi di molti economisti di dimostrare il contrario, l’art.3 primo comma della Costituzione non è norma che qualche economista possa indurci a mettere da parte. Rimane vero, beninteso, che al di sotto dell’anello superiore dei diritti fondamentali, la politica ha amplissimi margini di manovra, e che tanto i giuristi quanto gli economisti sono cittadini proiettati nel dibattito pubblico. Certamente quelle scelte di sintesi che competono al diritto come braccio secolare della politica, potranno essere riferite a modelli diversi di convivenza sociale, e sappiamo quali sono le alternative in gioco e quanto faticosa sia, a cavallo fra America ed Europa, la ricerca di compromessi equilibrati fra libertà ed eguaglianza, rischio e solidarietà, efficienza e socialità. Ma si tratta, per l’appunto, di scelte squisitamente politiche, che debbono presentarsi come tali, senza ricercare surrettizie legittimazioni scientifiche; le definisco surrettizie non, si badi, per un giudizio sul merito delle teorie economiche di riferimento, ma perché il sapere economico che viene in gioco in queste prospettazioni rimanda ad un impiego dell’economia in chiave di scienza normativa sostanzialmente monistica, e ciò è a sua volta espressione di una scelta politico-culturale “forte”, che deve affidarsi all’argomentazione e non può aspirare alla dimostrazione. Consentendomi infine, al di là di ogni preoccupazione metodologica, una chiosa di politica del diritto, credo che debba essere riconosciuto che l’avanzata dell’economia fa parte di un più ampio processo di trasformazione sociale e culturale con il quale dobbiamo fare i conti, e che è gravido di pericoli ma anche di grandi opportunità. La “società del rischio” di cui ha 180 Sulla base del quale, per fare un esempio, non sembra avere alcun senso proibire alle società fornitrici di lavoro temporaneo, di svolgere attività di mediazione. 181 Per il carattere in qualche misura semplificatorio del giudizio espresso nel testo, v. però retro,nt.33. 182 V. R.A.Epstein, In Defense of the Contract at Will, cit. 183 V. P.Ichino, Il lavoro e il mercato, cit., p.23 ss. 184 V., fra gli altri. J.J.Donohue III, Foundations of Employment Discrimination Law, Oxford University Press, New York, 1997. 31 parlato Ulrich Beck è già fra noi185, anche come conseguenza dei successi storici del diritto del lavoro. Ritengo quindi che dovrà essere maggiormente assecondata, nel disegnare e modulare la nuova fisionomia della materia, quella tendenza alla riscoperta della dimensione individuale, che sembra la cifra dominante del secolo che è appena cominciato. L’epoca delle protezioni troppo comode e dell’omogeneità collettiva, pare ormai al tramonto, e con essa qualsiasi concezione olistica del diritto del lavoro. Ciò comporterà probabilmente la ridefinizione delle priorità fra i diversi beni in gioco, e la restituzione di alcuni di quei beni alla sfera di scelta e di responsabilità del soggetto. L’idea secondo la quale tutti i beni di cui il lavoratore subordinato è titolare debbano essere sottratti alla contrattazione, semplicemente in forza di una condizione sociale ritenuta onnipervasiva, è poco convincente al pari di quella secondo cui l’inderogabilità sarebbe un ferrovecchio da buttare. L’ordinamento potrebbe smettere di trattare il lavoratore come un minorenne, restituendogli il rango – e, perché no, l’aurea mediocrità - di homo oeconomicus, e ciò nonostante continuare a vietargli di trattare su certi beni reputati indisponibili. In questa logica, occorrerà anche tornare a riflettere sulla ratio dell’inderogabilità: essa risiede, come la dottrina ci ha insegnato186, tanto nella natura sovraindividuale dei beni di cui è titolare il prestatore di lavoro, quanto nella condizione di disparità di potere in cui versa il lavoratore subordinato. Potrà forse accadere che i due argomenti conoscano destini separati nel prossimo futuro. Da un lato, quel quid di indisponibilità che discende dalla doppia debolezza del lavoratore dovrà essere meglio calibrato e distribuito attraverso le varie categorie e gruppi (al di qua e al di là della subordinazione, e probabilmente sulla base di un nuovo concetto di "dipendenza economica"187, peraltro idoneo a comprendere anche la subordinazione o una parte di essa), alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento e dei nuovi modelli di organizzazione dell’impresa e di comportamento sociale, anche se pur sempre sulla base di valutazioni tipiche ex ante in ordine all’incompatibilità fra una certa condizione giuridicamente qualificata e la negoziabilità di certi beni (per questo aspetto l’inderogabilità continuerebbe ad essere “una versione raffinata della proibizione della schiavitù” nata dalla disperazione188). Ma, a fianco di questa indisponibilità giuridicamente situata, dovrà essere riconfermata la presenza di un nucleo intoccabile di beni fondamentali a rilevanza sovraindividuale, scisso dalla condizione giuridico-sociale di lavoratore subordinato, ed a monte da quella di lavoratore tout court. Non servirà ricordare che la schiavitù è proibita non soltanto quando nasce dalla disperazione (in tal caso sarebbe possibile affermare che, se a vendersi schiavo è un lavoratore in concreto non disperato, o non debole , ciò dovrebbe essergli consentito), bensì è proibita e basta. Ma ciò che non dovrà essere dimenticato, nell’operare le appropriate selezioni di tutela, è che colui che partecipa al processo produttivo soltanto attraverso il proprio lavoro – ed in particolare attraverso un lavoro eterodiretto, coordinato, o comunque economicamente dipendente - è pur sempre una minuscola cellula di un mondo della produzione e del mercato che è molto più grande di lui, e nei cui ingranaggi egli rischia costantemente di essere stritolato. I diritti a quel lavoratore serviranno ancora, a cominciare da quei diritti fondamentali che la recente Carta europea ha scolpito a suggello di un secolo difficile; e tanto più gli serviranno, quanto più andrà avanti la flessibilizzazione e l'individualizzazione dei rapporti di lavoro. Se questo è vero, se alcuni essenziali diritti sociali debbono essere concepiti come una delle architravi istituzionali del nuovo patto sociale imposto dai grandi 185 V. U.Beck, La società del rischio, Carocci, Roma,2000. V. R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1976, p.47. 187 Per un'opinione nettamente contraria, nel quadro di una riaffermazione della visione "classica", v. R.Scognamiglio, Lavoro subordinato e diritto del lavoro alle soglie del 2000, ADL, 1999,273, qui p.297 ss. 188 V. A.Ichino e P.Ichino, op.cit.,pp.463-464, in relazione ad una bella citazione di Arthur Okun, Uguaglianza ed Efficienza.Il Grande Trade Off,Liguori,Napoli,1994,qui pp.20-21. 186 32 cambiamenti in atto nel mondo del lavoro189, è lecito concludere, evocando un motivo ricorrente delle ultime riflessioni di Massimo D’Antona190 , che il diritto del lavoro ha ancora una missione importante da svolgere: quella di aiutare il lavoratore – ciascun singolo lavoratore -, con misura, ad essere soggetto della propria vita. 189 Questa è, come è noto, anche la prospettiva indicata dal Rapporto Supiot: v. A.Supiot (a cura di), Au delà de l'emploi. Transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe, Flammarion, 1999, ad es. a p.271, ove si rappresenta la necessità di un nuovo "accordo sulla fiducia" come fondamento per la gestione ed il controllo dei rapporti di lavoro. Cfr. anche S.Deakin e F.Wilkinson, op.ult.cit.,p.341. 190 V. M.D'Antona, La grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele sulle esigenze del lavoratore come soggetto, in F.Amato (a cura di), I "destini" del lavoro. Autonomie e subordinazione nella società post-fordista, F. Angeli, Milano, 1998, p.138 ss., ed ora in M.D'Antona, Opere, vol.I, Giuffrè,Milano, 2000,p.249 ss. 33