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IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino

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IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino
IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS
Teresa Cosentino, Carlo Buonanno, Andrea Gragnani e Claudia Perdighe
Carla, una donna sposata di 48 anni, presenta da circa sette mesi forti stati d’ansia e di intensa paura
precipitati, di recente, in un attacco di panico; durante la maggior parte delle ore di veglia è
assorbita in immagini intrusive e continui pensieri relativi all’evento traumatico. Ha una visione
molto negativa del futuro che la porta a ritenere che la vita non valga la pena di essere vissuta e
lamenta difficoltà a trattenere le lacrime per la maggior parte del giorno.
Anche nell’aspetto si intravedono segnali del suo stato depressivo: è molto magra, curata dal punto
di vista dell’igiene, ma poco curata dal punto di vista estetico; nei discorsi è coerente, ma perde
facilmente il filo del ragionamento.
Racconta che questi sintomi sono comparsi in seguito ad un’aggressione fisica di cui è stata vittima.
Carla, assieme al marito, frequentava da circa dieci anni un gruppo di teatro che, negli anni, è
diventato il centro della sua vita sociale; 7 mesi fa, mentre si trovava alle prove, sentì il maestro
parlar male di lei con il marito ed altri presenti; lei allora si avvicinò al gruppo e cercò di far
allontanare il marito, ma il maestro la percosse sul cranio e, caduta a terra, continuò a darle calci
nonostante i suoi pianti fino a quando lei lamentò un forte dolore ad un occhio. Ricorda che, in quel
momento, la sua paura venne amplificata dalla consapevolezza di aver smarrito gli occhiali, fatto
che la fece sentire ancora più incapace di difendersi ed in balia degli altri. Il marito e gli altri
presenti non intervennero neanche davanti alle richieste di aiuto di lei “erano pietrificati”. Racconta
che riuscì a fuggire e trovare rifugio presso un locale vicino dove venne medicata ed assistita da
persone praticamente sconosciute che la accolsero per la notte e la accompagnarono a casa il giorno
seguente.
L’evento è vissuto da Carla come una minaccia ancora incombente: sperimenta forti stati di ansia e
paura attivati in parte da stimoli esterni che le ricordano l’aggressione e, più frequentemente, da
immagini intrusive e pensieri relativi al trauma.
Cosa mantiene la sofferenza di Carla a distanza di mesi dall’evento? Quali fattori ostacolano la
risoluzione positiva dell’esperienza traumatica?
L’elaborazione dell’evento sembra essere complicata da almeno tre ordini di problemi:
•
depressione conseguente alla forte autocritica ed alla scarsa legittimazione delle proprie
reazioni (ad esempio considera anormale piangere) ed emozioni, in particolare nei confronti
della propria rabbia “non è da persone equilibrate, come speravo di essere diventata”, e
degli scopi attivi, ad esempio sentendosi una persona cattiva nel constatare il proprio
desiderio di vendetta;
•
senso di colpa e vergogna per il fatto di ritenere di avere in qualche modo favorito
l’aggressione con il suo comportamento “anche gli altri lo pensano e mi dicono che in fondo
me la sono cercata! ho incoraggiato il gioco di seduzione del maestro, non lo ho rifiutato
quando si è fatto avanti; ha ragione mio marito ad essere arrabbiato con me!” ;
•
sentimenti di perdita “credevo di aver trovato una mia collocazione nel mondo e.. invece ho
perso le cose che più rendevano accettabile la mia vita! Dieci anni di investimento buttati al
vento! Adesso mi ritroverò sola come dieci anni fa, senza il maestro, gli amici, le attività
che riempivano la mia vita! Ho solo un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti!
Niente sarà più come prima e non riuscirò mai a uscirne. Mi aspettano anni tristi con mio
marito, da soli; forse perderò anche lui..”.
Cenni Storici
L’idea che una persona, com’è accaduto a Carla, possa sviluppare problemi psicologici a seguito di
un’esperienza traumatica non è nuova e ve ne è traccia anche in numerose opere letterarie; l’Enrico
IV di Shakespeare, ad esempio, soddisfa la maggior parte dei criteri diagnostici previsti dal DSM
IV per il Disturbo Post-Traumatico da Stress.
Il termine “trauma” in greco antico ed in medicina indica una ferita o una lesione fisica; il suo
primo utilizzo in psicologia è attribuito a William James che definì i traumi psichici come “spine
nello spirito” (Simpson et al. 1989).
La comunità scientifica ha iniziato ad occuparsene all’inizio del secolo scorso con Freud ed altri
psichiatri dell’epoca. Studiando i pazienti affetti da isteria, Pierre Janet (1909) arrivò alla
conclusione che alcuni dei loro comportamenti erano l’effetto delle risposte emotive e
comportamentali ad eventi traumatici passati. Egli riteneva che il fallimento nella regolazione
emotiva legata al trauma passato conducesse a dissociazioni e a reagire con comportamenti
eccessivi ed inefficaci. A suo avviso, le emozioni intense interferiscono con un’appropriata
elaborazione dell’informazione, impedendo l’integrazione dell’esperienza e provocando la
dissociazione di tale ricordo dalla coscienza ordinaria. Le tracce mestiche del trauma resterebbero
imprigionate in idee fisse inconsce, dissociate, che continuano ad intrudere come percezioni
terrificanti e preoccupazioni ossessive. Lo stesso Freud (1896) era dell’idea che la dissociazione
seguita ad eventi traumatici fosse la chiave per comprendere i fenomeni isterici.
Gli studi e l’interesse della comunità scientifica sull’argomento si intensificarono a seguito degli
effetti prodotti da due importanti conflitti: la guerra civile americana e la I guerra mondiale. La
tendenza diffusa negli ambienti medici era però quella di riportare gli effetti osservati nei reduci di
guerra a qualche danno organico causato dalle esplosioni, tanto da descrivere il disturbo con termini
quali “shock da bombardamento” o “nevrosi da guerra”.
Nonostante psichiatri e psicologi civili e militari da lungo tempo, dunque, riconoscessero i
potenziali effetti negativi causati da traumi estremi, bisognerà attendere il 1980 per vedere la
comparsa di una specifica categoria diagnostica nella III versione del DSM. Nel decennio
precedente numerosi psichiatri avevano osservato che la maggior parte dei reduci del Vietnam
riportavano effetti dell’esposizione al conflitto, proponendo perciò una specifica categoria
diagnostica denominata “sindrome post-vietnam”. Data la riluttanza dei responsabili della riedizione
del DSM a coniare una entità diagnostica in relazione ad uno specifico evento altamente
politicizzato e notando, via via, la similitudine con i sintomi indotti da altri gravi traumi come
rapimenti o disastri naturali, non descrivibili secondo i criteri diagnostici esistenti, si è finalmente
arrivati alla classificazione della sindrome con il nome di “disturbo post-traumatico da stress”.
Concettualmente il disturbo, nella prima formulazione del DSM, è rappresentato come una catena
causale composta da tre parti: un evento terrificante (trauma), una ferita psicologica o ricordo
traumatico e i sintomi psicologici e comportamentali prodotti da tale ferita ( Baldwin et al. 2005). Il
trauma è concettualizzato come un evento catastrofico che esula dalle esperienze quotidiane, in
grado di produrre una sintomatologia significativa in chiunque vi fosse esposto, come la guerra, le
torture, i rapimenti, l’Olocausto, le esplosioni nucleari, i disastri naturali (terremoti, uragani, ecc.) e
quelli provocati dall’uomo (es. incidenti stradali, aerei, esplosioni, ecc.).
Gli eventi considerati traumatici erano dunque chiaramente distinti da quelli che costituiscono le
normali vicissitudini della vita, come divorzi, fallimenti, disastri finanziari. Tale dicotomizzazione
era basata sull’assunto che la maggior parte delle persone è in grado di affrontare e gestire
efficacemente eventi stressanti ordinari, ma le loro capacità si dimostrano insufficienti quando si
confrontano con eventi traumatici. Inoltre, data la connessione causale tra trauma e ferita
psicologica, si presupponeva che l’individuo dovesse aver vissuto in prima persona l’evento
traumatico.
Da allora, la sindrome ha attratto l’interesse di numerosi clinici e ricercatori, aprendo un dibattito
tuttora in corso che ha portato ad una revisione dei criteri diagnostici nell’ultima versione del DSM,
per cui ora non è più ritenuto necessario che la persona fosse fisicamente presente sul luogo del
trauma.
Rispetto a ciò che può esser classificato come evento traumatico, l’esperienza clinica ed il
procedere delle indagini hanno, inoltre, evidenziato la presenza di differenze individuali nella
risposta ad un evento. Solo una parte delle persone esposte ad un evento traumatico, infatti,
sviluppa la Sindrome. Ricerche epidemiologiche hanno consentito di stimare che circa il 40% delle
donne ed il 61% dei maschi della popolazione generale ha vissuto un’esperienza traumatica. Non
tutti sviluppano però un Disturbo Post-Traumatico da Stress e, tra coloro che lo sviluppano, il 60%
circa ritorna ai livelli di funzionamento pre-traumatico nel giro di dodici mese (Kessler et al., 1995).
Tale osservazione ha portato a concludere che l’esperienza traumatica non è qualcosa di
completamente oggettivabile, definibile a priori, ma filtrata dai processi cognitivi ed emotivi
individuali che danno ragione delle differenti reazioni osservabili nelle diverse persone.
Risoluzione positiva dei traumi e crescita personale
Oggi c’è sostanziale accordo nel ritenere che i sintomi che seguono un trauma siano probabilmente
adattivi e funzionali al riconoscimento ed evitamento di altre situazioni potenzialmente dannose.
E’, inoltre, esperienza comune la constatazione che per molte persone il dover fronteggiare un
trauma si trasforma in uno stimolo al cambiamento ed in un’occasione di crescita personale.
Nietzsche (1888) è spesso ricordato per l’affermazione provocatoria “tutto ciò che non uccide
fortifica”. Kierkegaard (1843) sosteneva che la disperazione è una precondizione assoluta per
crescere attraverso gli stadi della maturità. Nella filosofia orientale, il carattere Cinese che indica la
crisi è una combinazione di simboli che significano pericolo ed opportunità. Victor Frankl (1963),
fondatore della logoterapia, sosteneva che la sofferenza obbliga le persone a trovare un significato
nella vita e che questa ricerca può trasformare una tragedia in un trionfo.
A tal proposito è emblematica l’affermazione del ciclista Lance Armstrong “il cancro è la miglior
cosa che mi sia mai capitata” che pronunciò dopo esser scampato ad un cancro ai testicoli che lo
costrinse a due operazioni rischiosissime e a durissime sessioni di chemioterapia. A tale evento
seguirono numerosi successi sportivi, tra cui la memorabile vittoria per ben sei volte consecutive
del Tour de France.
Accanto agli studi sul Disturbo Post-Traumatico da Stress, tra gli anni ’80 e ’90 si è diffusa un’area
di ricerca, conosciuta come posttraumatic growth (crescita post-traumatica) o stress-related growth
(crescita conseguente a stress), avente per scopo l’indagine circa gli aspetti positivi conseguenti ad
eventi traumatici, quali diagnosi di gravi malattie, lutto, infarto, incidenti di autoveicoli, abuso
sessuale, disastri. Dalle prime rilevazioni (Tedeschi e Calhoun, 1995) emerge che circa il 50-60% di
sopravvissuti a traumi riporta di averne conseguito qualche tipo di beneficio.
Di fronte ad eventi traumatici vengono spesso infranti gli schemi di ordine superiore, gli assunti di
base che riguardano il sé, gli scopi, le credenze sul mondo e su come vanno le cose (prevedibilità,
stabilità, sicurezza, benevolenza). Un primo passo nella direzione di una rielaborazione positiva
dell’evento e della crescita è il riconoscimento della perdita di valore e di significato di questi
schemi a seguito del trauma. E’ importante riconoscere, pertanto, che non è l’evento di per sé che
conduce alla crescita, ma il grande sforzo teso a contrastarlo vissuto internamente nel processo di
ruminazione. La ruminazione indica un processo in cui pensieri legati al trauma ed alle sue
conseguenze si ripresentano continuamente e in maniera intrusiva durante le attività quotidiane.
L’aspetto costruttivo della ruminazione include la ricerca di un significato dell’evento e l’attenzione
ai cambiamenti del sé: entrambi fattori legati alla crescita post-traumatica.
Calhoun e collaboratori (2000) hanno sviluppato un modello descrittivo-funzionale del
posttraumatic growth in cui prendono in esame i diversi fattori personali ed ambientali che
influiscono nel processo: valutazione dell’evento, per cui la crescita sembra proporzionale alla sua
valutazione in termini di sfida (Armeli, Gunthert, e Cohen 2001; Cordova et al. 2001; Park et al.,
1996; Park e Fenster 2004); variabili di personalità quali estroversione, coscienziosità,
conformismo, autostima, apertura alle esperienze (Tedeschi and Calhoun 1996), ottimismo (Davis
et al. 1998; Evers et al. 2001) e autoefficacia (Abraido-Lanza et al. 1998) risultano essere associate
ad un maggiore cambiamento in positivo, mentre il nevroticismo influisce negativamente (Evers et
al. 2001); le strategie di coping centrate sul problema, la rielaborazione positiva dell’evento
(Armeli et al. 2001; Widows et al. 2005), il coping attivo (Armeli et al. 2001; Cordova et al. 2001;
Frazier, et al. 2004) e il coping religioso (Armeli et al. 2001; Frazier et al. 2001; Frazier, et al.
2004); il supporto sociale è la risorsa ambientale più citata negli studi sui cambiamenti positivi che
dimostrano un’associazione positiva fra crescita e supporto sociale (O’Leary et al., 1998), in
particolare sembrano determinanti la soddisfazione per il supporto (Park et al., 1996), la qualità del
supporto del partner (Weiss 2004) e la percezione di aiuto nel momento dell’evento (Frazier et al.
2004); cognizioni relative al trauma riguardanti il controllo sull’evento (Frazier et al. 2004), la
ruminazione sull’evento (Calhoun et al. 2000; Manne et al. 2004), l’accettazione dell’evento e
l’attribuzione di senso all’evento (Evers et al. 2001) sono tutte variabili legate al cambiamento
positivo; la religiosità interiore (Park et al., 1996).
Inquadramento diagnostico del Disturbo Post-Traumatico da Stress
Da quanto detto sinora si evince che il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) non è dunque la
normale risposta al trauma, ma un vero e proprio disturbo psichiatrico che, in assenza di remissione
spontanea nell’arco dei primi sei mesi, tende a cronicizzare.
La persona che ne è affetta è incapace di integrare l’esperienza traumatica con la visione di sé e del
mondo e rimane prigioniera del ricordo dell’orrore passato (Andrews 2003).
Secondo la classificazione del DSM IV-TR (American Psychiatric Association, 2001), il Disturbo
Post-Traumatico da Stress
rientra tra i Disturbi d’Ansia e affinché si possa diagnosticare è
necessario che la persona sia stata esposta ad un evento traumatico, ovvero aver vissuto, assistito o
affrontato un evento che ha implicato una grave minaccia alla propria o altrui integrità fisica
(compresa la morte di qualcuno) ed a cui la persona ha reagito con paura intensa, senso d’impotenza
o di orrore. La persona può aver vissuto direttamente l’evento traumatico, essendo ad esempio
vittima di stupro, aggressione fisica, tortura, un incidente automobilistico grave, assassinio di un
familiare o di un amico stretto, una calamità naturale. Altresì può esser venuto a conoscenza di un
evento accaduto ad un familiare o ad un caro amico, come ad esempio grave incidente o lesioni,
morte improvvisa o malattia incurabile. Riguardo ai bambini, gli eventi traumatici includono le
esperienze sessuali inappropriate, lesioni o gravi minacce, l’esser testimone del grave ferimento o
della morte di qualcuno a causa di un attacco, incidente, guerra o disastri.
Un secondo criterio diagnostico riguarda il fatto che l’evento traumatico venga rivissuto
persistentemente in uno, o più, dei seguenti modi: ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi
dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni; sogni spiacevoli ricorrenti
dell’evento; agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include
sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback di
durata variabile compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione); disagio
psicologico intenso e/o reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che
simbolizzano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico.
Una terza caratteristica del disturbo è l’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma (ad
esempio, sforzi per evitare pensieri o sensazioni associate con il trauma; sforzi per evitare luoghi o
persone associate al trauma; incapacità di ricordare il trauma) e attenuazione della reattività
generale (ad esempio, riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività
precedentemente piacevoli; sentimenti di distacco o di estraneità).
Un’ultima caratteristica tipica del disturbo è la presenza di sintomi persistenti di ansia o di
aumentata attivazione fisiologica, che si manifestano ad esempio con difficoltà ad addormentarsi o
a mantenere il sonno (ad esempio a causa di incubi attinenti il trauma); irritabilità; difficoltà a
concentrarsi; ipervigilanza.
Affinché si possa diagnosticare il DPTS i sintomi descritti devono durare da almeno1 mese e
causare alla persona un disagio significativo o una menomazione nel funzionamento sociale,
lavorativo o di altre aree importanti.
Nel caso in cui la sintomatologia sia presente da meno di tre mesi il disturbo viene classificato come
Acuto, per una durata superiore ai tre mesi, come Cronico; se dovesse, invece, presentarsi una volta
trascorsi almeno sei mesi dal trauma si classifica come ad Esordio Tardivo.
Riguardo alla prevalenza del disturbo nel corso della vita tra la popolazione generale, studi
epidemiologici hanno stimato che si aggira tra l’1% ed il 10% per le donne e il 5% degli uomini
(Helzer et al., 1987; Kessler et al., 1995), variabilità ascrivibile ai metodi di accertamento e
campionamento della popolazione impiegati.
Le persone con DPTS molto spesso soddisfano i criteri per almeno un’altra diagnosi in comorbilità.
La più diffusa sembra essere la Depressione Maggiore, con tassi di frequenza intorno al 46% circa
(Kessler et al., 1995), seguita da altri disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo di Panico e la Fobia
Sociale, che colpiscono tra il 20-30% dei soggetti. Molto frequente è, inoltre, la diagnosi di Abuso o
Dipendenza da Sostanze per il 52% degli uomini ed il 28% delle donne con DPTS cronico. Possono
esser presenti anche sintomi somatici tali da soddisfare i criteri per la diagnosi di Disturbo di
Somatizzazione. Altra condizione molto diffusa, pur non trattandosi di una vera e propria diagnosi,
è il frequente senso di colpa provato dai soggetti con DPTS in relazione ai comportamenti messi in
atto per garantirsi la sopravvivenza, al fatto di esser sopravissuto, mentre altri sono morti, e le
reazioni avute successivamente all’evento traumatico. Il DPTS è un disturbo piuttosto pervasivo e
la persona che ne soffre è totalmente assorbita nei ricordi dolorosi dell’evento traumatico o negli
sforzi che compie per evitare di riviverlo. Ha difficoltà nell’esprimere e sperimentare emozioni,
calo del desiderio sessuale, una perdita d’interesse per attività prima piacevoli, tanto da dare
l’impressione di pensare solo a se stesso. Si sente spesso stanco, continuamente minacciato, ha
scoppi d’ira improvvisi ed è costantemente nervoso. Ha sentimenti di vergogna, disperazione e
colpa.
Tutto ciò spesso si ripercuote sulle relazioni interpersonali e lavorative, ostacolando o rendendo
impossibile lo svolgimento di una vita normale. Si potranno osservare ritiro sociale e frequenti
conflitti coniugali fino alla rottura delle relazioni ed al divorzio, dato che le persone significative ed
il partner in tale condizione potrebbero sentirsi trascurate, respinte o poco amate.
Allo stesso modo nell’ambito lavorativo, per effetto del quadro sintomatologico complessivo, si
potranno registrare frequenti discussioni con i colleghi e i superiori e calo nel rendimento tali da
condurre al licenziamento.
Fattori di vulnerabilità
Come mai solo una parte dei soggetti esposti a traumi sviluppa il disturbo? Come spiegare
l’osservazione che in alcuni il disturbo regredisca spontaneamente, mentre in altri si cronicizza?
Sembra ormai esserci una certa concordanza nel ritenere che la presenza di alcuni fattori individuali
renda più vulnerabili ed esponga con maggiori probabilità al rischio di sviluppare un DPTS a
seguito di un evento traumatico. Yehuda (1999), attraverso una revisione della letteratura esistente,
è giunto a suddividerli in tre grandi categorie a seconda delle fasi in cui si manifestano: pre-trauma,
peri-trauma e post-trauma.
Rispetto ai fattori pre-trauma alcuni dati sembrano indicare che il rischio di DPTS sia maggiore
tra coloro che hanno un basso livello socioeconomico e di istruzione, figure di accudimento affette
da disturbi mentali, una storia familiare di maltrattamenti psicologici o fisici, la precoce separazione
dai genitori (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005); sembra aumentato, inoltre, tra i maschi
sposati, piuttosto che celibi, e tra le femmine più che tra i maschi (Kessler et al., 95; Breslau et al.,
97). Andrews (2003) suggerisce di riferire quest’ultimo dato alla maggiore riluttanza da parte
maschile a riportare i sintomi o richiedere aiuto nonché alla natura del trauma, con le donne più
spesso vittime di violenze perpetrate da conoscenti, esperienze maggiormente in grado di sovvertire
le credenze sul mondo e su sé.
Altri importanti fattori di vulnerabilità sembrano essere la presenza di disturbi mentali precedenti il
trauma, la tendenza alla ansia o alla depressione e una storia di esposizioni ad esperienze
traumatiche (Ronald e Kessler, 2000). Rispetto a quest’ultimo punto, gli studi disponibili in
letteratura sembrano indicare due possibili direzioni negli effetti: traumi pregressi aiutano il
soggetto a sviluppare schemi mentali più flessibili relativi al sé ed al mondo che consentono
maggiore adattamento e la rielaborazione dei traumi futuri in tempi più brevi (Ruch e Leon 1983);
altri studi indicano che i traumi del passato (in particolare abusi fisici e sessuali nell’infanzia)
riducono la capacità di fronteggiarne in futuro, per una sorta di “esaurimento” delle risorse emotive
e cognitive cui attingere e per effetto dell’accresciuta percezione di mancanza di controllo sugli
eventi (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005).
Riguardo ai fattori peri-traumatici (vicini al momento del trauma), tre sono al momento le
dimensioni individuate come determinanti dalle ricerche disponibili (Carlson et al. 2005): evento
percepito come estremamente negativo, per la sua gravità (intensità, natura e durata), per il grado
elevato di minaccia di morte, l’intenso dolore psicologico sperimentato ed esposizione alla
sofferenza altrui; la prevedibilità e la controllabilità dell’evento che rendono più tollerabili gli
elevati livelli di stress emotivo, motivo per cui il personale che opera nei servizi di emergenza
affronta in modo routinario eventi traumatizzanti per il resto della popolazione (Andrews et al.
2003; American Psychiatric Association 2001); l’imminenza del pericolo. Infine, alcuni studi hanno
rilevato che la presenza di dissociazione peri-traumatica è un potente predittore per lo sviluppo di
DPTS (Brunet et al. 2001).
Infine, anche fattori post-trauma appaiono influenzare il processo di risoluzione del trauma, in
particolare: l’ambiente ed il sostegno sociale in esso disponibile (Ballenger et al. 2004), sia
familiare (parenti, amici, insegnanti, professionisti) che comunitario (servizi sociali, atteggiamento
dei media e della comunità), in quanto contribuiscono a restituire un senso di maggior controllo
sull’evento e riducono la percezione negativa di esso; le abilità di gestione (coping) dello stress.
Riguardo al peso dei fattori post-trauma, alcuni studi hanno evidenziato che i processi che si
verificano durante i primi due mesi seguenti il trauma, piuttosto che le reazioni immediate,
sembrano essere determinanti nel processo di risoluzione della sofferenza post-traumatica (Mellman
et al. 2002).
Teorie di spiegazione del DPTS
Come mai alcune persone continuano a sperimentare un’intensa sintomatologia anche a distanza di
mesi o anni dall’evento traumatico? Cosa ostacola o impedisce il normale processo di risoluzione
dell’esperienza dolorosa?
In ambito cognitivo-comportamentale le principali teorie che tentano di dare risposta a questa
domanda sono la teoria dell’apprendimento, quella dell’information-processing e quella più
strettamente legata alla terapia cognitiva standard.
Sulla scia della teoria bifattoriale di Mowrer (1947), numerosi autori hanno tentato di spiegare il
DPTS riferendosi al condizionamento classico, inteso come processo di apprendimento che si
verifica attraverso associazioni automatiche che la mente stabilisce tra eventi che accadono
contemporaneamente, ed al condizionamento operante, apprendimento basato sugli effetti di
rinforzi e punizioni (Becker et al., 1984; Kilpatrick et al., 1985). La spiegazione fondata sul
condizionamento classico assume che stimoli precedentemente neutri presenti nell’ambiente al
momento del trauma (stimolo incondizionato) vengono associati ad esso (stimoli condizionati),
acquisendo così il potere di provocare un’estrema paura ed un intenso stato di attivazione
fisiologica (risposta condizionata), ossia le stesse risposte del trauma originario (risposte
incondizionate). In altre parole, quando la vittima di un trauma è in uno stato di attivazione
fisiologica elevato, stimoli precedentemente neutri diventano stimoli condizionati ed acquisiscono
la capacità di evocare paura e ansia. Ad esempio, se un individuo viene aggredito in un parco
mentre fa jogging, derubato e picchiato da un uomo con guanti neri e con passamontagna, stimoli
precedentemente neutri quali gli uomini con i guanti o con i passamontagna, i parchi, o il fare
jogging diventeranno condizionati, ossia capaci di scatenare la paura sperimentata nell’aggressione.
Inoltre, ogni volta che la risposta condizionata si verifica in presenza di nuovo stimolo neutro si può
verificare un condizionamento di secondo livello, in cui uno stimolo condizionato funziona da
stimolo incondizionato in una nuova catena associativa (Keane et al. 1985). Con tali modalità, le
risposte di paura e di ansia possono generalizzarsi a stimoli simili a quelli condizionati.
Tuttavia, il paradigma del condizionamento classico prevede l’estinzione della paura condizionata
se nel corso del tempo l’individuo si espone allo stimolo condizionato in assenza di pericoli,
consentendo il costituirsi di una nuova associazione in cui lo stimolo condizionato non segnala una
situazione di pericolo.
Cosa ostacola o impedisce il normale processo di estinzione nei soggetti con DPTS?
I meccanismi del condizionamento operante ed in particolare le condotte di evitamento
impediscono all’individuo che li adotta di esporsi allo stimolo condizionato, in assenza di pericoli,
per un tempo sufficientemente lungo da consentire l’apprendimento di nuove associazioni e
l’estinzione della paura (Mineka 1979). Meccanismi di rinforzo negativo, ossia l’evitamento
dell’ansia e della paura, giustificano il mantenimento nel tempo delle condotte di evitamento e ne
compensano gli effetti (Connor e Butterfield 2003).
In definitiva, la teoria dell’apprendimento basata sui principi del condizionamento consente di
comprendere l’intenso disagio psicologico e la reattività fisiologica che seguono l’esposizione ad
eventi che simboleggiano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico, così come
rende ragione delle condotte di evitamento. Tale paradigma teorico appare tuttavia incapace di
spiegare l’insorgenza spontanea di ricordi, flashback ed incubi attinenti l’evento traumatico, così
come i sintomi di ottundimento. Inoltre, in esso non sembrano avere alcun peso i fattori pretraumatici, peri-traumatici e post-traumatici che si è scoperto essere rilevanti nello sviluppo dei
sintomi.
Le teorie cognitive conosciute sotto il nome di teorie dell’elaborazione delle informazioni
(information processing, si sono concentrate sull’evento traumatico in sé piuttosto che sul contesto
sociale o personale. L’idea centrale è che la psicopatologia deriva dalla mancata integrazione delle
informazioni sull’evento nel sistema di memoria dell’individuo.
Lang (1979) ha proposto che gli eventi spaventosi sono rappresentati in memoria all’interno di una
rete associativa, denominata “rete della paura”, che consiste in interconnessioni tra differenti nodi
che rappresentano tre tipi di informazioni proposizionali relative all’evento: sensoriali (suoni, luce,
ecc.); emozioni e risposte; sul significato (es. grado di pericolosità); tali informazioni sono integrate
in un programma di risposta finalizzato alla fuga o all’evitamento del pericolo.
Chemtob e collaboratori (1988), partendo dalla loro esperienza con i veterani del Vietnam, hanno
sviluppato un modello di spiegazione del DPTS denominato “dell’azione cognitiva”. Gli autori
ritengono che le persone con DPTS hanno sviluppato strutture fobigene complesse, costituite da
immagini e ricordi dell’evento traumatico, informazioni riguardanti le emozioni e piani d’azione;
queste strutture fobigene includono schemi di minaccia perennemente attivi nelle persone con
DPTS e danno ragione della loro tendenza ad interpretare molti eventi come potenzialmente
pericolosi e del rivivere ricordi, emozioni e reazioni fisiologiche associate con l’evento traumatico.
Le teorie sull’Information Processing pur chiarendo l’architettura cognitiva attraverso cui l’evento
traumatico può esser rappresentato e gli effetti sull’attenzione, risultano carenti riguardo al ruolo
svolto da emozioni diverse dalla paura e dalle variabili individuali e sociali.
Una teoria cognitivista del DPTS
Le teorie cognitive più recenti sono incentrate sul ruolo che le valutazioni relative al trauma, e a ciò
che ne è conseguito, hanno nello sviluppo e mantenimento del DPTS (Ehlers e Clark 2000; Foa e
Rothbaum 1998; Resick e Schnicke, 93). Sebbene questi modelli differiscano per alcuni aspetti,
tutti enfatizzano il ruolo che specifici tipi di valutazioni hanno nello sviluppo e mantenimento del
disturbo. Da tali tipi di valutazioni deriverebbe la percezione di minaccia nel futuro imminente che
caratterizza il paziente con DPTS, accompagnata da intensa attivazione fisiologica, intrusioni, ansia
ed altre risposte emotive.
Vogliamo qui provare a sintetizzare gli elementi dei modelli che condividiamo, integrandoli con
aspetti a nostro avviso determinanti per lo sviluppo ed il mantenimento del disturbo.
Tra i fattori che possono ostacolare o impedire il normale processo di risoluzione ed accettazione
dell’esperienza traumatica, portando allo sviluppo e mantenimento del DPTS, sottolineiamo:
•
come la persona valuta l’evento traumatico e le sue cause, le sensazioni, le emozioni ed i
comportamenti avuti durante l’evento;
•
come la persona giudica ciò che ha fatto seguito al trauma, come emozioni, comportamenti e
scopi attivi, e gli effetti attesi sulla propria vita futura;
•
il grado di legittimazione esterna, delle reazioni di altre persone significative (all’evento in
sé ed alle sue reazioni ed emozioni).
Rispetto al primo punto, la persona svilupperà il DPTS con più probabilità se giudica l’evento come
prova del fatto che il mondo è un luogo pericoloso ed imprevedibile e/o ritiene che dimostri la
propria incapacità, incompetenza, mancanza di potere e di essere bisognoso di aiuto (Ehlers e Clark
2000). Al primo tipo di valutazione consegue un costante senso di minaccia esterna “dato che il
mondo è pericoloso ed imprevedibile, mi capiteranno altre cose terribili sulle quali non ho nessun
controllo!” oppure “Non posso fidarmi di nessuno....gridavo e nemmeno mio marito, che è per
ruolo preposto, mi ha aiutata!”; alla seconda tipologia di valutazione seguirà un senso di minaccia
interna “attraggo le disgrazie, altre cose terribili mi capiteranno!” oppure “è una giusta punizione,
me lo sono meritato per la mia cattiveria” o ancora “mi sono comportato come un pazzo…non sono
in grado di fronteggiare efficacemente gli eventi!”. Le autovalutazioni negative sembrano avere
maggior peso nello sviluppo del DPTS (O’Donnell et al. 2007) poiché aumentano la percezione di
esser esposto a minacce future e dunque l’ansia. Foa e Rothbaum (’98) suggeriscono l’esistenza di
interazioni tra le valutazioni su di sé e sul mondo: una persona che giudica sé come incompetente ed
incapace, data la propria presunta mancanza di poteri, sarà portato a rappresentarsi il mondo come
più pericoloso.
La percezione di un pericolo incombente, poi, porta la persona ad assumere un orientamento
cognitivo nella verifica delle ipotesi di pericolo finalizzato alla prevenzione della minaccia,
diventando più prudente sia sul piano comportamentale che cognitivo, favorendo le ipotesi di
pericolo nelle rappresentazioni della realtà, piuttosto che quelle di sicurezza, e focalizzando le
informazioni congrue con esse che, immancabilmente, lo porteranno alla loro conferma (Mancini,
Gangemi e Johnson-Laird, 2007). A ciò contribuisce il Mood Congruity Effect (Bower, 1981) che
rende disponibile nella mente della persona pensieri e credenze coerenti con l’emozione che
avvalorano ancor di più la minaccia, rendendo più frequente i falsi allarmi ed intense le reazioni
ansiose.
L’orientamento cognitivo di tipo prudenziale sul piano comportamentale, infine,
si traduce
nell’adozione di comportamenti protettivi e di evitamento che impediscono alla persona di fare
esperienze in grado di disconfermare le credenze catastrofiche e contribuiscono al loro
rafforzamento, inducendolo a ritenere erroneamente di aver scampato la minaccia per effetto dei
provvedimenti presi.
Riguardo al secondo fattore determinante nello sviluppo e mantenimento del DPTS, ossia la
valutazione delle reazioni avute e delle emozioni (sintomi iniziali) sperimentate dopo il trauma, ad
esempio “piango continuamente, sono triste, irritabile…forse sto impazzendo.. non sarò mai più
come prima!”, riteniamo dirimente il fatto che la persona non le interpreti come parte del normale
processo di recupero, ma come indicatore di un cambiamento definitivo che contrasta con il proprio
sistema di scopi di vita. la forte critica per le proprie reazioni/emozioni, inoltre, ostacola il processo
di analisi, comprensione ed accettazione dell’accaduto. Infatti, se la persona ripensando all’evento,
nel tentativo di rielaborarlo, sperimenta tristezza, paura o senso di colpa e si spaventa o critica per
ciò che sta sentendo tenterà di bloccare tali emozioni, ad esempio distraendosi, impedendo di fatto il
processo di rielaborazione.
E quello che accade a Carla quando si critica aspramente per le proprie emozioni o scopi attivi “Non
dovrei piangere così… la rabbia che provo non è da persone equilibrate, così come il desiderio di
vendetta! Questo dimostra che sono una persona cattiva e che niente sarà più come prima. Ho solo
un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti!”.
Infine, altro fattore determinante, la valutazione critica delle proprie reazioni ed emozioni è in
alcuni casi sostenuta e rinforzata dalla scarsa legittimazione delle proprie reazioni ed emozioni
proveniente da altri significativi o dall’ambiente sociale più in generale. Carla, ad esempio riferisce
“mio marito mi accusa, mi critica e si arrabbia ogni volta che mi vede soffrire, sostenendo che se
ancora ci soffro o mi arrabbio è perché provo qualcosa per il maestro… altrimenti avrei già
superato tutto!”.
Se ciò accade e la persona critica le proprie emozioni, reazioni e scopi attivi (problema secondario),
anziché riconoscerli ed accettarli come parte del normale processo di risoluzione del trauma,
seguiranno strategie comportamentali e specifici processi cognitivi messi in atto per arginarli che
avranno, di fatto, l’effetto paradossale di esacerbare i sintomi (Mancini 2005), mantenendo ed
aggravando il disturbo. Tra le strategie comportamentali, rientrano i tentativi di sopprimere i
pensieri, o di distrazione, l’evitamento di stimoli e situazioni che ricordano il trauma, l’abuso di
alcol e sostanze, l’abbandono delle normali attività, l’adozione di comportamenti protettivi. Tra i
processi cognitivi la focalizzazione dell’attenzione sui segnali di pericolo, la dissociazione e
l’intensa ruminazione.
La Terapia del DPTS
Sulla base dei processi psicologici descritti ed in considerazionee degli stati mentali che
caratterizzano i soggetti con DPTS, riteniamo che lo scopo del trattamento sia eliminare i fattori di
mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza
traumatica.
In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi:
1.Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati
conseguenti al trauma
2. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte
protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo
3. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario
4. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto di
generalizzazione del pericolo
5. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze
interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità.
6. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress
Inoculation Training, ACT
Lo sviluppo del protocollo appena descritto e l’indicazione per l’utilizzo combinato di diverse
procedure trova riscontro nella letteratura sull’efficacia della Terapia cognitivo-comportamentale
del DPTS.
Gli interventi cognitivo-comportamentali che sono stati valutati con trial clinici che ne hanno
dimostrato l’efficacia spesso prevedono una combinazione di interventi (Salcioglu et al., 2007),
come l’esposizione immaginativa ed in vivo, la ristrutturazione cognitiva e le tecniche per la
gestione dell’ansia come il rilassamento, il coping skill training, lo stop del pensiero (Foa et al.,
2005; Taylor et al., 2003; Ehlers et al., 2003; Lee et al., 2002).
Un considerevole numero di ricerche, tuttavia, ha dimostrato la particolare efficacia delle
procedure di esposizione e di ristrutturazione cognitiva (Salcioglu et al., 2007; Bradeley et al.,
2005; Marks e Dar, 2000), dimostrando come esse rappresentino le componenti principali della
terapia. Le procedure che prevedono interventi di esposizione aiutano il paziente a ridurre la
frequenza delle condotte di evitamento degli stimoli correlati al trauma, incoraggiando il soggetto
ad affrontare pensieri, memorie ed emozioni di paura, laddove le tecniche di ristrutturazione
cognitiva sono finalizzate, invece, allo sviluppo di competenze per la gestione degli stati d’ansia e
per la modifica delle distorsioni cognitive.
Oltre alle tecniche citate, negli ultimi anni sono stati sviluppati trattamenti fondati sull’accettazione
che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nella riduzione delle condotte di
evitamento, sintomo centrale del DPTDS. Per questa ragione, nei prossimi paragrafi, descriveremo
le Tecniche di Esposizione e lo Stress Inoculation Training ed, infine, proveremo ad evidenziare i
particolari benefici che i pazienti possono avere se sottoposti alla Acceptance Commitment Therapy
(Orsillo e Batten, 2005; Hayes et al., 1999).
Procedure di esposizione
L’Esposizione è un trattamento basato sulla teoria dell’apprendimento e sulla teoria
dell’elaborazione delle informazioni; nel caso del DPTS sono usate le varianti l’esposizione
prolungata e l’esposizione multipla.
Nel caso specifico del DPTS, al paziente viene chiesto di immaginare o confrontarsi direttamente
con gli stimoli o con il ricordo del trauma, omettendo di produrre condotte di evitamento ed
aspettando la risposta di abituazione ed il calo di ansia e di paura.
L’esposizione prolungata è stata originariamente utilizzata con i veterani di guerra e
successivamente somministrata alle vittime di stupro e alle vittime di crimini violenti (Foa et al.,
1991).
La versione messa a punto da Foa e collaboratori (1991) si articola in 9-12 sessioni, durante le quali
sono previste sia l’esposizione immaginativa, sia un’esposizione progressiva agli stimoli temuti. I
momenti principali della procedura di Foa sono la psicoeducazione relativa al DPTS e la
spiegazione del razionale dell’intervento (sessione 1); la normalizzazione delle reazioni al trauma e
lo sviluppo di una gerarchia di stimoli temuti da utilizzare nelle fasi di esposizione in vivo (sessione
2); la ripetuta esposizione agli stimoli fobigeni durante le sessioni di terapia (sessioni 3-9). Ad
esempio, con una paziente che ha subito uno stupro (Astin e Resick, 1998), la procedura potrebbe
essere implementata chiedendole di chiudere gli occhi e di immaginare e rivivere gli eventi come se
stessero accadendo nel presente. Successivamente, alla paziente viene chiesto di immaginare i
dettagli della circostanza, come odori, sapori, suoni, ecc. ed anche le emozioni o le sensazioni
fisiche sperimentate. La registrazione delle sedute sarà utilizzata dalla paziente nel corso delle
esposizioni condotte sotto forma di homework. Inoltre, tra una seduta e l’altra la paziente avrà il
compito di affrontare in vivo situazioni che non sono pericolose, ma che comunque teme perché in
qualche modo correlate allo stupro.
Ma come funziona l’esposizione e quali sono i processi che si attivano nella mente del paziente che
rendono efficace tale procedura?
Sono numerose le evidenze cliniche che testimoniano come la differenza tra una esposizione
efficace ed una inefficace sia ascrivibile a differenti stati mentali ed in particolar modo ai livelli di
minaccia che il paziente è disposto ad accettare. Una considerazione a sostegno di questa tesi è
riconducibile alla scarsa efficacia che soluzioni e rituali emessi producono nei termini di riduzione
della minaccia percepita (Mancini e Gragnani, 2005).
Mancini e Gragnani (2005) rilevano come “larga parte della psicopatologia consiste nella
percezione di minacce, nelle conseguenze emotive di tali percezioni e nei tentativi di evitare,
prevenire o sottrarsi alla minaccia”. L’impianto della Terapia Cognitiva e le tecniche utilizzate nel
corso della sua somministrazione sono orientate a realizzare una differente percezione della
minaccia, stimolando il paziente a rintracciare esempi di ipotesi di sicurezza e controesempi di
ipotesi di pericolo e a produrre, in definitiva, ipotesi alternative alle abituali e frequenti valutazioni
catastrofiche. Tuttavia, il percorso di realizzazione degli obiettivi fissati sulle basi appena descritte è
con sensibile frequenza ostacolato dalle resistenze del paziente, resistenze che possono comportare
il fallimento della terapia.
Un percorso alternativo, che tenga conto delle obiezioni e delle difficoltà riscontrate ma che
condivida l’obiettivo di riduzione della percezione della minaccia, dovrebbe essere strategicamente
orientato ad aggirare le resistenze del paziente e, in definitiva, a produrre l’accettazione della
minaccia (Mancini e Barcaccia, 2004). L’accettazione della minaccia si traduce in una riduzione
dell’impegno preventivo e in un incremento della disponibilità ad esporsi a condizioni maggiori di
rischio.
L’accettazione, dunque, si riflette sulla valutazione dei pericoli. L’impegno nella prevenzione di un
pericolo ed il livello di accettazione di una minaccia influenzano sia l’attività pratica, sia il modo in
cui si valuta una minaccia. In particolare, tale influenza investe l’orientamento cognitivo con cui si
controllano le ipotesi di sicurezza e quelle di pericolo. In quest’ottica, sono numerosi gli
esperimenti di psicologia cognitiva (Mancini e Gangemi 2002) che dimostrano come i processi
cognitivi siano influenzati dagli investimenti della persona e che tale influenza tende ad avere tra i
suoi effetti l’aumento della resistenza al cambiamento delle assunzioni che sostengono
l’investimento stesso. In altre parole, se ci si sente minacciati e si investe nella prevenzione della
minaccia, allora si diventa più prudenti, con il risultato che le assunzioni di minaccia ne risultano
confermate. Quel che accade è che l’investimento prudenziale influenza l’attenzione selettiva,
orientandola verso i segnali e le informazioni di pericolo e rendendo tali informazioni più
disponibili. In quest’ultimo caso, sappiamo che in virtù dell’euristica della disponibilità (Mancini,
2002), le informazioni disponibili saranno ritenute anche le più probabili. In più, procedere con un
atteggiamento prudenziale implica una rappresentazione della realtà in cui vengono selettivamente
privilegiate le possibilità di pericolo a discapito di quelle di sicurezza, un’attitudine questa che si
riflette anche sui processi ingenui di controllo delle ipotesi, con conseguente focalizzazione sulle
ipotesi di pericolo e defocalizzazione dalle ipotesi di sicurezza.
In definitiva ed in estrema sintesi, nel DPTS, l’accettazione del trauma implicherebbe un aumento
della consapevolezza dei danni oltre che dei cambiamenti conseguenti al trauma, con una
considerazione del danno non come incombente e probabile. La conseguenza di un simile processo
sarà la rinuncia agli investimenti in direzione della prevenzione del danno, con l’aumento della
disponibilità a sviluppare una visione di sé e del mondo che non dipenda esclusivamente
dall’esperienza traumatica e con una modifica degli investimenti in direzione dei propri scopi.
La terapia di esposizione multipla, a differenza di quella prolungata, consente l’esposizione ai
sintomi d’attivazione fisiologica prima che a quelli cognitivi e comportamentali; questo consente di
prevenire e ridurre la minacciosità delle possibili reazioni fisiologiche del paziente quando, in una
fase successiva, verrà esposto ai ricordi e agli altri stimoli traumatici (citare QN….). La procedura
prevede l’esposizione del paziente alle tre categorie di stimoli implicate nelle reazioni di paura:
− Esposizione agli stimoli fisiologici: esposizione enterocettiva a stimoli fisiologici, in modo da
indurre sensazioni tipo-panico (es. iperventilando, facendo le scale di corsa);
− Esposizione agli stimoli cognitivi: si chiede al paziente, come compito da svolgere a casa, di
mettere per iscritto l’evento traumatico.
− Esposizione agli stimoli comportamentali: esposizione in vivo agli stimoli condizionati legati
all’evento traumatico.
Stress inoculation training
Lo Stress Inoculation Training (SIT) è una tecnica cognitivo-comportamentale nata sulla base della
teoria dell’apprendimento e sviluppata da Meichenbaum nel 1974. Inizialmente utilizzata per la
gestione dell’ansia, lo SIT fu somministrato successivamente e con successo anche alle vittime di
stupro.
Il protocollo è finalizzato all’acquisizione di capacità di gestione dell’ansia e dello stress e
comprende tre fasi: la concettualizzazione, l’acquisizione di abilità di fronteggiamento,
l’applicazione e il richiamo delle abilità.
Tab.1: Fasi dello Stress Inoculation Training
Concettualizzazione
Informazioni sullo stress
Ristrutturazione
delle
Acquisizione di abilità di
Applicazione e richiamo delle
fronteggiamento
abilità
Problem solving
Prova immaginativa
idee Tecniche di rilassamento
errate sullo stress
Prova comportamentale, roleplaying, modeling
Strategie
cognitive Esposizione graduale in vivo
(ristrutturazione)
Autoaffermazioni positive
Prevenzione delle ricadute
Le prime sessioni sono dedicate alle fasi di natura psicoeducativa, con informazioni relative al
trattamento e allo sviluppo delle risposte di paura, con riferimenti alla teoria dell’apprendimento, e
all’attivazione del sistema nervoso simpatico (Resick e Mechanic, 1995). Il terapeuta, inoltre,
aiuterà il paziente nell’identificazione degli stimoli che elicitano le risposte di paura e, procedendo
nel corso delle sessioni, proverà a facilitare il ricordo di informazioni dettagliate, che tengano conto
di aspetti corporei (sensazioni fisiche), mentali ( risposte cognitive) e delle azioni compiute
(risposte comportamentali). Inoltre, al paziente saranno spiegate tecniche di rilassamento
progressivo dei muscoli da utilizzare tra una sessione e l’altra come homework, unitamente alla
identificazione degli stimoli fobigeni.
Nel corso della seconda fase del trattamento, i pazienti apprendono tecniche finalizzate alla gestione
delle risposte di paura, come la respirazione diaframmatica, lo stop del pensiero, il dialogo interno
guidato, il role-playing ed il modeling.
Nella terza fase, il paziente impara ad utilizzare le strategie di coping durante quelle situazioni
quotidiane che sono accompagnate da stati d’ansia. Lo stress inoculation si articola in 5 passaggi
(Astin e Resick, 1998):
1. Stima della probabilità che si verifichino eventi spaventosi
2. Gestione delle condotte di evitamento attraverso procedure di stop del pensiero
3. Controllare l’autocritica attraverso il dialogo interno guidato e la ristrutturazione cognitiva
4. Emissione delle condotte temute utilizzando le competenze di problem solving e le abilità
acquisite grazie alle procedure di modeling e role-playing
5. Somministrazione di auto-rinforzi per aver utilizzato le competenze acquisite nelle situazioni
temute
Infine, paziente e terapeuta procedono alla costruzione di una gerarchia di eventi da utilizzare nelle
fasi di esposizione programmata all’esterno del setting.
Acceptance Commitment Therapy
La descrizione che Batten, Orsillo e Walser (2005) fanno del DPTS poggia sul ruolo giocato dalle
condotte di evitamento, il principale sintomo del disturbo. In particolare, i tentativi di evitare
pensieri ed emozioni legati al trauma sono assimilabili al fenomeno dell’evitamento esperienziale
(experiential avoidance), un processo che si caratterizza per l’investimento in strategie tese a
modificare la frequenza di pensieri, emozioni, sensazioni fisiche, memorie e che si realizza per
minimizzare le esperienze di dolore ad esse legate. La riduzione immediata e repentina dello stress
determina il rinforzo negativo dell’evitamento e produce come conseguenza un aumento dei sintomi
(Orsillo e Batten, 2005).
Su questa base, gli autori sostengono che la terapia del DPTS debba avere come scopo da un lato la
riduzione delle condotte di evitamento e la riduzione dell’evitamento esperenziale, dall’altro un
aumento della disponibilità a tollerare e ad accettare gli stati interni tipici degli individui con un
simile disturbo. La soluzione che propongono è una combinazione tra procedure di esposizione,
mindfulness, terapia comportamentale dialettica e la Acceptance Commitment Therapy ACT
(Segal,Williams, & Teasdale, 2002; Linehan 1993; Hayes et al.,1999).
Gli autori hanno osservato come nel corso della ACT la fase di disperazione creativa (creative
hopelessness) sia particolarmente importante nei pazienti che hanno subito traumi. Tale fase vede il
paziente impegnato a realizzare una lista di pensieri ed emozioni, seguita da una lista che descriva
tutti i tentativi di controllo effettuati per modificarli. Il risultato è, generalmente, un ampio range di
emozioni che va dalla rabbia alla profonda tristezza e che, inizialmente, si traduce nell’esperienza
che il problema sia insormontabile. In questa fase, il paziente tenderà a porre domande e ad
effettuare richieste tese all’individuazione di una soluzione rapida e magica del problema, che può
indurre il terapeuta nell’errore di provare a fornire una risposta che lo rassicuri. La soluzione di un
passaggio così delicato è assegnata ad interventi con cui il terapeuta segnala e riconosce l’urgenza
che accompagna le richieste del paziente, ma che al tempo stesso preveda l’introduzione di elementi
di discussione relativi all’inutilità e alla frustrazione conseguente ai tentativi passati di controllare
emozioni e pensieri negativi. Il focus è sull’opportunità di accettare l’inutilità degli sforzi passati,
acquisendo consapevolezza che un cambiamento reale sia abitualmente un lento e progressivo
processo.
Nel corso della terapia, inoltre, sarà probabile scontrarsi con il ricordo o l’esperienza della bontà,
oltre che della parziale efficacia di alcuni tentativi di controllo, con il rischio di rottura della
relazione a causa di un terapeuta troppo solerte nell’evidenziare i costi pagati conseguenti agli
estenuanti tentativi di controllare. In questo caso, gli interventi dovranno avere come obiettivo un
aumento della consapevolezza del ruolo e dei costi legati al controllo, mostrando come un
miglioramento graduale non sia così pericoloso e che le alternative siano invece auspicabili.
La difficoltà dell’intervento è legata al fatto che nei soggetti con DPTS il controllo delle esperienze
è fenomeno centrale, soprattutto se consideriamo che spesso il trauma si realizza in condizioni di
scarso controllo personale. Una delle conseguenze, in questi casi, potrebbe essere il ricorso a
strategie compensatorie di iper-controllo, strategie di cui è possibile riconoscere l’azione anche
durante i primi incontri. Da questo punto di vista, non stupisce che il paziente possa arrivare in
terapia con l’intenzione di ottimizzare la propria capacità di controllo e chieda esplicitamente al
terapeuta di aiutarlo nell’impresa, insegnandogli come procedere e come migliorare i suoi tentativi.
Le risposte a simili sollecitazioni si articolano in un primo intervento di non delegittimazione del
controllo, avendo come obiettivo l’aumento della disponibilità ad accettare emozioni e pensieri
negativi. In questa fase, è importante che il paziente comprenda la differenza tra provare emozioni
negative che rientrano nelle normali esperienze di vita e l’intenso stress conseguente alla non
accettazione, alla valutazione negativa e ai tentativi falliti di controllare le risposte emotive.
Inoltre, gli autori fanno notare come, soprattutto con pazienti che hanno avuto esperienze di abuso
sessuale, una delle maggiori difficoltà della terapia sia legata agli stati di rabbia intensa. Il richiamo
alla necessità di accettare pensieri ed emozioni negative, con la contemporanea rinuncia ai tentativi
di controllo, potrebbe essere vissuta dal paziente come un’indicazione che comporta il rischio di
ritrovarsi nella stessa posizione del trauma. In altre parole, l’abbandono dei tentativi di controllo
potrebbe comportare la preoccupazione di ritornare ad essere debole e sottomesso, una condizione
tipica di chi ha subito un trauma di questa natura. La soluzione dell’eventuale empasse è legata ad
un intervento di validazione del desiderio di controllo, con il contemporaneo richiamo ai costi
pagati nei termini di interruzione delle relazioni o di isolamento.
Infine, il ricorso all’utilizzo delle tecniche di esposizione, immaginativa o in vivo, è elemento
fondamentale anche della ACT, anche se i riferimenti concettuali ed il razionale a sostegno della
tecnica differiscono dal tradizionale modo di spiegarne l’efficacia. In questo caso, l’esposizione
ripetuta ai pensieri e alle emozioni legate al trauma non si tradurrebbe in un effetto di abituazione
(Harris, 1943). Secondo gli autori, l’esposizione alle memorie traumatiche e alle emozioni ad esse
associate modificano il contesto in cui tali eventi si realizzano, oltre che la natura della relazione
che il paziente intrattiene con simili esperienze, con un conseguente aumento della flessibilità delle
condotte e dell’abilità a muoversi in direzione dei valori che il paziente associa allo sviluppo e al
mantenimento di una relazione.
Conclusioni
In definitiva, riteniamo che lo scopo del trattamento del DPTS sia eliminare i fattori di
mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza
traumatica.
In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi: FORSE SAREBBE MEGLIO METTERE
QUESTA PARTE ALL’INIZIO COME SINTESI DELLE STRATEGIE USATE
7. Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati
conseguenti al trauma
8. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte
protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo
9. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario
10. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto
di generalizzazione del pericolo
11. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze
interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità.
12. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress
Inoculation Training, ACT
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