IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino
by user
Comments
Transcript
IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino
IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino, Carlo Buonanno, Andrea Gragnani e Claudia Perdighe Carla, una donna sposata di 48 anni, presenta da circa sette mesi forti stati d’ansia e di intensa paura precipitati, di recente, in un attacco di panico; durante la maggior parte delle ore di veglia è assorbita in immagini intrusive e continui pensieri relativi all’evento traumatico. Ha una visione molto negativa del futuro che la porta a ritenere che la vita non valga la pena di essere vissuta e lamenta difficoltà a trattenere le lacrime per la maggior parte del giorno. Anche nell’aspetto si intravedono segnali del suo stato depressivo: è molto magra, curata dal punto di vista dell’igiene, ma poco curata dal punto di vista estetico; nei discorsi è coerente, ma perde facilmente il filo del ragionamento. Racconta che questi sintomi sono comparsi in seguito ad un’aggressione fisica di cui è stata vittima. Carla, assieme al marito, frequentava da circa dieci anni un gruppo di teatro che, negli anni, è diventato il centro della sua vita sociale; 7 mesi fa, mentre si trovava alle prove, sentì il maestro parlar male di lei con il marito ed altri presenti; lei allora si avvicinò al gruppo e cercò di far allontanare il marito, ma il maestro la percosse sul cranio e, caduta a terra, continuò a darle calci nonostante i suoi pianti fino a quando lei lamentò un forte dolore ad un occhio. Ricorda che, in quel momento, la sua paura venne amplificata dalla consapevolezza di aver smarrito gli occhiali, fatto che la fece sentire ancora più incapace di difendersi ed in balia degli altri. Il marito e gli altri presenti non intervennero neanche davanti alle richieste di aiuto di lei “erano pietrificati”. Racconta che riuscì a fuggire e trovare rifugio presso un locale vicino dove venne medicata ed assistita da persone praticamente sconosciute che la accolsero per la notte e la accompagnarono a casa il giorno seguente. L’evento è vissuto da Carla come una minaccia ancora incombente: sperimenta forti stati di ansia e paura attivati in parte da stimoli esterni che le ricordano l’aggressione e, più frequentemente, da immagini intrusive e pensieri relativi al trauma. Cosa mantiene la sofferenza di Carla a distanza di mesi dall’evento? Quali fattori ostacolano la risoluzione positiva dell’esperienza traumatica? L’elaborazione dell’evento sembra essere complicata da almeno tre ordini di problemi: • depressione conseguente alla forte autocritica ed alla scarsa legittimazione delle proprie reazioni (ad esempio considera anormale piangere) ed emozioni, in particolare nei confronti della propria rabbia “non è da persone equilibrate, come speravo di essere diventata”, e degli scopi attivi, ad esempio sentendosi una persona cattiva nel constatare il proprio desiderio di vendetta; • senso di colpa e vergogna per il fatto di ritenere di avere in qualche modo favorito l’aggressione con il suo comportamento “anche gli altri lo pensano e mi dicono che in fondo me la sono cercata! ho incoraggiato il gioco di seduzione del maestro, non lo ho rifiutato quando si è fatto avanti; ha ragione mio marito ad essere arrabbiato con me!” ; • sentimenti di perdita “credevo di aver trovato una mia collocazione nel mondo e.. invece ho perso le cose che più rendevano accettabile la mia vita! Dieci anni di investimento buttati al vento! Adesso mi ritroverò sola come dieci anni fa, senza il maestro, gli amici, le attività che riempivano la mia vita! Ho solo un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti! Niente sarà più come prima e non riuscirò mai a uscirne. Mi aspettano anni tristi con mio marito, da soli; forse perderò anche lui..”. Cenni Storici L’idea che una persona, com’è accaduto a Carla, possa sviluppare problemi psicologici a seguito di un’esperienza traumatica non è nuova e ve ne è traccia anche in numerose opere letterarie; l’Enrico IV di Shakespeare, ad esempio, soddisfa la maggior parte dei criteri diagnostici previsti dal DSM IV per il Disturbo Post-Traumatico da Stress. Il termine “trauma” in greco antico ed in medicina indica una ferita o una lesione fisica; il suo primo utilizzo in psicologia è attribuito a William James che definì i traumi psichici come “spine nello spirito” (Simpson et al. 1989). La comunità scientifica ha iniziato ad occuparsene all’inizio del secolo scorso con Freud ed altri psichiatri dell’epoca. Studiando i pazienti affetti da isteria, Pierre Janet (1909) arrivò alla conclusione che alcuni dei loro comportamenti erano l’effetto delle risposte emotive e comportamentali ad eventi traumatici passati. Egli riteneva che il fallimento nella regolazione emotiva legata al trauma passato conducesse a dissociazioni e a reagire con comportamenti eccessivi ed inefficaci. A suo avviso, le emozioni intense interferiscono con un’appropriata elaborazione dell’informazione, impedendo l’integrazione dell’esperienza e provocando la dissociazione di tale ricordo dalla coscienza ordinaria. Le tracce mestiche del trauma resterebbero imprigionate in idee fisse inconsce, dissociate, che continuano ad intrudere come percezioni terrificanti e preoccupazioni ossessive. Lo stesso Freud (1896) era dell’idea che la dissociazione seguita ad eventi traumatici fosse la chiave per comprendere i fenomeni isterici. Gli studi e l’interesse della comunità scientifica sull’argomento si intensificarono a seguito degli effetti prodotti da due importanti conflitti: la guerra civile americana e la I guerra mondiale. La tendenza diffusa negli ambienti medici era però quella di riportare gli effetti osservati nei reduci di guerra a qualche danno organico causato dalle esplosioni, tanto da descrivere il disturbo con termini quali “shock da bombardamento” o “nevrosi da guerra”. Nonostante psichiatri e psicologi civili e militari da lungo tempo, dunque, riconoscessero i potenziali effetti negativi causati da traumi estremi, bisognerà attendere il 1980 per vedere la comparsa di una specifica categoria diagnostica nella III versione del DSM. Nel decennio precedente numerosi psichiatri avevano osservato che la maggior parte dei reduci del Vietnam riportavano effetti dell’esposizione al conflitto, proponendo perciò una specifica categoria diagnostica denominata “sindrome post-vietnam”. Data la riluttanza dei responsabili della riedizione del DSM a coniare una entità diagnostica in relazione ad uno specifico evento altamente politicizzato e notando, via via, la similitudine con i sintomi indotti da altri gravi traumi come rapimenti o disastri naturali, non descrivibili secondo i criteri diagnostici esistenti, si è finalmente arrivati alla classificazione della sindrome con il nome di “disturbo post-traumatico da stress”. Concettualmente il disturbo, nella prima formulazione del DSM, è rappresentato come una catena causale composta da tre parti: un evento terrificante (trauma), una ferita psicologica o ricordo traumatico e i sintomi psicologici e comportamentali prodotti da tale ferita ( Baldwin et al. 2005). Il trauma è concettualizzato come un evento catastrofico che esula dalle esperienze quotidiane, in grado di produrre una sintomatologia significativa in chiunque vi fosse esposto, come la guerra, le torture, i rapimenti, l’Olocausto, le esplosioni nucleari, i disastri naturali (terremoti, uragani, ecc.) e quelli provocati dall’uomo (es. incidenti stradali, aerei, esplosioni, ecc.). Gli eventi considerati traumatici erano dunque chiaramente distinti da quelli che costituiscono le normali vicissitudini della vita, come divorzi, fallimenti, disastri finanziari. Tale dicotomizzazione era basata sull’assunto che la maggior parte delle persone è in grado di affrontare e gestire efficacemente eventi stressanti ordinari, ma le loro capacità si dimostrano insufficienti quando si confrontano con eventi traumatici. Inoltre, data la connessione causale tra trauma e ferita psicologica, si presupponeva che l’individuo dovesse aver vissuto in prima persona l’evento traumatico. Da allora, la sindrome ha attratto l’interesse di numerosi clinici e ricercatori, aprendo un dibattito tuttora in corso che ha portato ad una revisione dei criteri diagnostici nell’ultima versione del DSM, per cui ora non è più ritenuto necessario che la persona fosse fisicamente presente sul luogo del trauma. Rispetto a ciò che può esser classificato come evento traumatico, l’esperienza clinica ed il procedere delle indagini hanno, inoltre, evidenziato la presenza di differenze individuali nella risposta ad un evento. Solo una parte delle persone esposte ad un evento traumatico, infatti, sviluppa la Sindrome. Ricerche epidemiologiche hanno consentito di stimare che circa il 40% delle donne ed il 61% dei maschi della popolazione generale ha vissuto un’esperienza traumatica. Non tutti sviluppano però un Disturbo Post-Traumatico da Stress e, tra coloro che lo sviluppano, il 60% circa ritorna ai livelli di funzionamento pre-traumatico nel giro di dodici mese (Kessler et al., 1995). Tale osservazione ha portato a concludere che l’esperienza traumatica non è qualcosa di completamente oggettivabile, definibile a priori, ma filtrata dai processi cognitivi ed emotivi individuali che danno ragione delle differenti reazioni osservabili nelle diverse persone. Risoluzione positiva dei traumi e crescita personale Oggi c’è sostanziale accordo nel ritenere che i sintomi che seguono un trauma siano probabilmente adattivi e funzionali al riconoscimento ed evitamento di altre situazioni potenzialmente dannose. E’, inoltre, esperienza comune la constatazione che per molte persone il dover fronteggiare un trauma si trasforma in uno stimolo al cambiamento ed in un’occasione di crescita personale. Nietzsche (1888) è spesso ricordato per l’affermazione provocatoria “tutto ciò che non uccide fortifica”. Kierkegaard (1843) sosteneva che la disperazione è una precondizione assoluta per crescere attraverso gli stadi della maturità. Nella filosofia orientale, il carattere Cinese che indica la crisi è una combinazione di simboli che significano pericolo ed opportunità. Victor Frankl (1963), fondatore della logoterapia, sosteneva che la sofferenza obbliga le persone a trovare un significato nella vita e che questa ricerca può trasformare una tragedia in un trionfo. A tal proposito è emblematica l’affermazione del ciclista Lance Armstrong “il cancro è la miglior cosa che mi sia mai capitata” che pronunciò dopo esser scampato ad un cancro ai testicoli che lo costrinse a due operazioni rischiosissime e a durissime sessioni di chemioterapia. A tale evento seguirono numerosi successi sportivi, tra cui la memorabile vittoria per ben sei volte consecutive del Tour de France. Accanto agli studi sul Disturbo Post-Traumatico da Stress, tra gli anni ’80 e ’90 si è diffusa un’area di ricerca, conosciuta come posttraumatic growth (crescita post-traumatica) o stress-related growth (crescita conseguente a stress), avente per scopo l’indagine circa gli aspetti positivi conseguenti ad eventi traumatici, quali diagnosi di gravi malattie, lutto, infarto, incidenti di autoveicoli, abuso sessuale, disastri. Dalle prime rilevazioni (Tedeschi e Calhoun, 1995) emerge che circa il 50-60% di sopravvissuti a traumi riporta di averne conseguito qualche tipo di beneficio. Di fronte ad eventi traumatici vengono spesso infranti gli schemi di ordine superiore, gli assunti di base che riguardano il sé, gli scopi, le credenze sul mondo e su come vanno le cose (prevedibilità, stabilità, sicurezza, benevolenza). Un primo passo nella direzione di una rielaborazione positiva dell’evento e della crescita è il riconoscimento della perdita di valore e di significato di questi schemi a seguito del trauma. E’ importante riconoscere, pertanto, che non è l’evento di per sé che conduce alla crescita, ma il grande sforzo teso a contrastarlo vissuto internamente nel processo di ruminazione. La ruminazione indica un processo in cui pensieri legati al trauma ed alle sue conseguenze si ripresentano continuamente e in maniera intrusiva durante le attività quotidiane. L’aspetto costruttivo della ruminazione include la ricerca di un significato dell’evento e l’attenzione ai cambiamenti del sé: entrambi fattori legati alla crescita post-traumatica. Calhoun e collaboratori (2000) hanno sviluppato un modello descrittivo-funzionale del posttraumatic growth in cui prendono in esame i diversi fattori personali ed ambientali che influiscono nel processo: valutazione dell’evento, per cui la crescita sembra proporzionale alla sua valutazione in termini di sfida (Armeli, Gunthert, e Cohen 2001; Cordova et al. 2001; Park et al., 1996; Park e Fenster 2004); variabili di personalità quali estroversione, coscienziosità, conformismo, autostima, apertura alle esperienze (Tedeschi and Calhoun 1996), ottimismo (Davis et al. 1998; Evers et al. 2001) e autoefficacia (Abraido-Lanza et al. 1998) risultano essere associate ad un maggiore cambiamento in positivo, mentre il nevroticismo influisce negativamente (Evers et al. 2001); le strategie di coping centrate sul problema, la rielaborazione positiva dell’evento (Armeli et al. 2001; Widows et al. 2005), il coping attivo (Armeli et al. 2001; Cordova et al. 2001; Frazier, et al. 2004) e il coping religioso (Armeli et al. 2001; Frazier et al. 2001; Frazier, et al. 2004); il supporto sociale è la risorsa ambientale più citata negli studi sui cambiamenti positivi che dimostrano un’associazione positiva fra crescita e supporto sociale (O’Leary et al., 1998), in particolare sembrano determinanti la soddisfazione per il supporto (Park et al., 1996), la qualità del supporto del partner (Weiss 2004) e la percezione di aiuto nel momento dell’evento (Frazier et al. 2004); cognizioni relative al trauma riguardanti il controllo sull’evento (Frazier et al. 2004), la ruminazione sull’evento (Calhoun et al. 2000; Manne et al. 2004), l’accettazione dell’evento e l’attribuzione di senso all’evento (Evers et al. 2001) sono tutte variabili legate al cambiamento positivo; la religiosità interiore (Park et al., 1996). Inquadramento diagnostico del Disturbo Post-Traumatico da Stress Da quanto detto sinora si evince che il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) non è dunque la normale risposta al trauma, ma un vero e proprio disturbo psichiatrico che, in assenza di remissione spontanea nell’arco dei primi sei mesi, tende a cronicizzare. La persona che ne è affetta è incapace di integrare l’esperienza traumatica con la visione di sé e del mondo e rimane prigioniera del ricordo dell’orrore passato (Andrews 2003). Secondo la classificazione del DSM IV-TR (American Psychiatric Association, 2001), il Disturbo Post-Traumatico da Stress rientra tra i Disturbi d’Ansia e affinché si possa diagnosticare è necessario che la persona sia stata esposta ad un evento traumatico, ovvero aver vissuto, assistito o affrontato un evento che ha implicato una grave minaccia alla propria o altrui integrità fisica (compresa la morte di qualcuno) ed a cui la persona ha reagito con paura intensa, senso d’impotenza o di orrore. La persona può aver vissuto direttamente l’evento traumatico, essendo ad esempio vittima di stupro, aggressione fisica, tortura, un incidente automobilistico grave, assassinio di un familiare o di un amico stretto, una calamità naturale. Altresì può esser venuto a conoscenza di un evento accaduto ad un familiare o ad un caro amico, come ad esempio grave incidente o lesioni, morte improvvisa o malattia incurabile. Riguardo ai bambini, gli eventi traumatici includono le esperienze sessuali inappropriate, lesioni o gravi minacce, l’esser testimone del grave ferimento o della morte di qualcuno a causa di un attacco, incidente, guerra o disastri. Un secondo criterio diagnostico riguarda il fatto che l’evento traumatico venga rivissuto persistentemente in uno, o più, dei seguenti modi: ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni; sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento; agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback di durata variabile compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione); disagio psicologico intenso e/o reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico. Una terza caratteristica del disturbo è l’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma (ad esempio, sforzi per evitare pensieri o sensazioni associate con il trauma; sforzi per evitare luoghi o persone associate al trauma; incapacità di ricordare il trauma) e attenuazione della reattività generale (ad esempio, riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività precedentemente piacevoli; sentimenti di distacco o di estraneità). Un’ultima caratteristica tipica del disturbo è la presenza di sintomi persistenti di ansia o di aumentata attivazione fisiologica, che si manifestano ad esempio con difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno (ad esempio a causa di incubi attinenti il trauma); irritabilità; difficoltà a concentrarsi; ipervigilanza. Affinché si possa diagnosticare il DPTS i sintomi descritti devono durare da almeno1 mese e causare alla persona un disagio significativo o una menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Nel caso in cui la sintomatologia sia presente da meno di tre mesi il disturbo viene classificato come Acuto, per una durata superiore ai tre mesi, come Cronico; se dovesse, invece, presentarsi una volta trascorsi almeno sei mesi dal trauma si classifica come ad Esordio Tardivo. Riguardo alla prevalenza del disturbo nel corso della vita tra la popolazione generale, studi epidemiologici hanno stimato che si aggira tra l’1% ed il 10% per le donne e il 5% degli uomini (Helzer et al., 1987; Kessler et al., 1995), variabilità ascrivibile ai metodi di accertamento e campionamento della popolazione impiegati. Le persone con DPTS molto spesso soddisfano i criteri per almeno un’altra diagnosi in comorbilità. La più diffusa sembra essere la Depressione Maggiore, con tassi di frequenza intorno al 46% circa (Kessler et al., 1995), seguita da altri disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo di Panico e la Fobia Sociale, che colpiscono tra il 20-30% dei soggetti. Molto frequente è, inoltre, la diagnosi di Abuso o Dipendenza da Sostanze per il 52% degli uomini ed il 28% delle donne con DPTS cronico. Possono esser presenti anche sintomi somatici tali da soddisfare i criteri per la diagnosi di Disturbo di Somatizzazione. Altra condizione molto diffusa, pur non trattandosi di una vera e propria diagnosi, è il frequente senso di colpa provato dai soggetti con DPTS in relazione ai comportamenti messi in atto per garantirsi la sopravvivenza, al fatto di esser sopravissuto, mentre altri sono morti, e le reazioni avute successivamente all’evento traumatico. Il DPTS è un disturbo piuttosto pervasivo e la persona che ne soffre è totalmente assorbita nei ricordi dolorosi dell’evento traumatico o negli sforzi che compie per evitare di riviverlo. Ha difficoltà nell’esprimere e sperimentare emozioni, calo del desiderio sessuale, una perdita d’interesse per attività prima piacevoli, tanto da dare l’impressione di pensare solo a se stesso. Si sente spesso stanco, continuamente minacciato, ha scoppi d’ira improvvisi ed è costantemente nervoso. Ha sentimenti di vergogna, disperazione e colpa. Tutto ciò spesso si ripercuote sulle relazioni interpersonali e lavorative, ostacolando o rendendo impossibile lo svolgimento di una vita normale. Si potranno osservare ritiro sociale e frequenti conflitti coniugali fino alla rottura delle relazioni ed al divorzio, dato che le persone significative ed il partner in tale condizione potrebbero sentirsi trascurate, respinte o poco amate. Allo stesso modo nell’ambito lavorativo, per effetto del quadro sintomatologico complessivo, si potranno registrare frequenti discussioni con i colleghi e i superiori e calo nel rendimento tali da condurre al licenziamento. Fattori di vulnerabilità Come mai solo una parte dei soggetti esposti a traumi sviluppa il disturbo? Come spiegare l’osservazione che in alcuni il disturbo regredisca spontaneamente, mentre in altri si cronicizza? Sembra ormai esserci una certa concordanza nel ritenere che la presenza di alcuni fattori individuali renda più vulnerabili ed esponga con maggiori probabilità al rischio di sviluppare un DPTS a seguito di un evento traumatico. Yehuda (1999), attraverso una revisione della letteratura esistente, è giunto a suddividerli in tre grandi categorie a seconda delle fasi in cui si manifestano: pre-trauma, peri-trauma e post-trauma. Rispetto ai fattori pre-trauma alcuni dati sembrano indicare che il rischio di DPTS sia maggiore tra coloro che hanno un basso livello socioeconomico e di istruzione, figure di accudimento affette da disturbi mentali, una storia familiare di maltrattamenti psicologici o fisici, la precoce separazione dai genitori (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005); sembra aumentato, inoltre, tra i maschi sposati, piuttosto che celibi, e tra le femmine più che tra i maschi (Kessler et al., 95; Breslau et al., 97). Andrews (2003) suggerisce di riferire quest’ultimo dato alla maggiore riluttanza da parte maschile a riportare i sintomi o richiedere aiuto nonché alla natura del trauma, con le donne più spesso vittime di violenze perpetrate da conoscenti, esperienze maggiormente in grado di sovvertire le credenze sul mondo e su sé. Altri importanti fattori di vulnerabilità sembrano essere la presenza di disturbi mentali precedenti il trauma, la tendenza alla ansia o alla depressione e una storia di esposizioni ad esperienze traumatiche (Ronald e Kessler, 2000). Rispetto a quest’ultimo punto, gli studi disponibili in letteratura sembrano indicare due possibili direzioni negli effetti: traumi pregressi aiutano il soggetto a sviluppare schemi mentali più flessibili relativi al sé ed al mondo che consentono maggiore adattamento e la rielaborazione dei traumi futuri in tempi più brevi (Ruch e Leon 1983); altri studi indicano che i traumi del passato (in particolare abusi fisici e sessuali nell’infanzia) riducono la capacità di fronteggiarne in futuro, per una sorta di “esaurimento” delle risorse emotive e cognitive cui attingere e per effetto dell’accresciuta percezione di mancanza di controllo sugli eventi (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005). Riguardo ai fattori peri-traumatici (vicini al momento del trauma), tre sono al momento le dimensioni individuate come determinanti dalle ricerche disponibili (Carlson et al. 2005): evento percepito come estremamente negativo, per la sua gravità (intensità, natura e durata), per il grado elevato di minaccia di morte, l’intenso dolore psicologico sperimentato ed esposizione alla sofferenza altrui; la prevedibilità e la controllabilità dell’evento che rendono più tollerabili gli elevati livelli di stress emotivo, motivo per cui il personale che opera nei servizi di emergenza affronta in modo routinario eventi traumatizzanti per il resto della popolazione (Andrews et al. 2003; American Psychiatric Association 2001); l’imminenza del pericolo. Infine, alcuni studi hanno rilevato che la presenza di dissociazione peri-traumatica è un potente predittore per lo sviluppo di DPTS (Brunet et al. 2001). Infine, anche fattori post-trauma appaiono influenzare il processo di risoluzione del trauma, in particolare: l’ambiente ed il sostegno sociale in esso disponibile (Ballenger et al. 2004), sia familiare (parenti, amici, insegnanti, professionisti) che comunitario (servizi sociali, atteggiamento dei media e della comunità), in quanto contribuiscono a restituire un senso di maggior controllo sull’evento e riducono la percezione negativa di esso; le abilità di gestione (coping) dello stress. Riguardo al peso dei fattori post-trauma, alcuni studi hanno evidenziato che i processi che si verificano durante i primi due mesi seguenti il trauma, piuttosto che le reazioni immediate, sembrano essere determinanti nel processo di risoluzione della sofferenza post-traumatica (Mellman et al. 2002). Teorie di spiegazione del DPTS Come mai alcune persone continuano a sperimentare un’intensa sintomatologia anche a distanza di mesi o anni dall’evento traumatico? Cosa ostacola o impedisce il normale processo di risoluzione dell’esperienza dolorosa? In ambito cognitivo-comportamentale le principali teorie che tentano di dare risposta a questa domanda sono la teoria dell’apprendimento, quella dell’information-processing e quella più strettamente legata alla terapia cognitiva standard. Sulla scia della teoria bifattoriale di Mowrer (1947), numerosi autori hanno tentato di spiegare il DPTS riferendosi al condizionamento classico, inteso come processo di apprendimento che si verifica attraverso associazioni automatiche che la mente stabilisce tra eventi che accadono contemporaneamente, ed al condizionamento operante, apprendimento basato sugli effetti di rinforzi e punizioni (Becker et al., 1984; Kilpatrick et al., 1985). La spiegazione fondata sul condizionamento classico assume che stimoli precedentemente neutri presenti nell’ambiente al momento del trauma (stimolo incondizionato) vengono associati ad esso (stimoli condizionati), acquisendo così il potere di provocare un’estrema paura ed un intenso stato di attivazione fisiologica (risposta condizionata), ossia le stesse risposte del trauma originario (risposte incondizionate). In altre parole, quando la vittima di un trauma è in uno stato di attivazione fisiologica elevato, stimoli precedentemente neutri diventano stimoli condizionati ed acquisiscono la capacità di evocare paura e ansia. Ad esempio, se un individuo viene aggredito in un parco mentre fa jogging, derubato e picchiato da un uomo con guanti neri e con passamontagna, stimoli precedentemente neutri quali gli uomini con i guanti o con i passamontagna, i parchi, o il fare jogging diventeranno condizionati, ossia capaci di scatenare la paura sperimentata nell’aggressione. Inoltre, ogni volta che la risposta condizionata si verifica in presenza di nuovo stimolo neutro si può verificare un condizionamento di secondo livello, in cui uno stimolo condizionato funziona da stimolo incondizionato in una nuova catena associativa (Keane et al. 1985). Con tali modalità, le risposte di paura e di ansia possono generalizzarsi a stimoli simili a quelli condizionati. Tuttavia, il paradigma del condizionamento classico prevede l’estinzione della paura condizionata se nel corso del tempo l’individuo si espone allo stimolo condizionato in assenza di pericoli, consentendo il costituirsi di una nuova associazione in cui lo stimolo condizionato non segnala una situazione di pericolo. Cosa ostacola o impedisce il normale processo di estinzione nei soggetti con DPTS? I meccanismi del condizionamento operante ed in particolare le condotte di evitamento impediscono all’individuo che li adotta di esporsi allo stimolo condizionato, in assenza di pericoli, per un tempo sufficientemente lungo da consentire l’apprendimento di nuove associazioni e l’estinzione della paura (Mineka 1979). Meccanismi di rinforzo negativo, ossia l’evitamento dell’ansia e della paura, giustificano il mantenimento nel tempo delle condotte di evitamento e ne compensano gli effetti (Connor e Butterfield 2003). In definitiva, la teoria dell’apprendimento basata sui principi del condizionamento consente di comprendere l’intenso disagio psicologico e la reattività fisiologica che seguono l’esposizione ad eventi che simboleggiano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico, così come rende ragione delle condotte di evitamento. Tale paradigma teorico appare tuttavia incapace di spiegare l’insorgenza spontanea di ricordi, flashback ed incubi attinenti l’evento traumatico, così come i sintomi di ottundimento. Inoltre, in esso non sembrano avere alcun peso i fattori pretraumatici, peri-traumatici e post-traumatici che si è scoperto essere rilevanti nello sviluppo dei sintomi. Le teorie cognitive conosciute sotto il nome di teorie dell’elaborazione delle informazioni (information processing, si sono concentrate sull’evento traumatico in sé piuttosto che sul contesto sociale o personale. L’idea centrale è che la psicopatologia deriva dalla mancata integrazione delle informazioni sull’evento nel sistema di memoria dell’individuo. Lang (1979) ha proposto che gli eventi spaventosi sono rappresentati in memoria all’interno di una rete associativa, denominata “rete della paura”, che consiste in interconnessioni tra differenti nodi che rappresentano tre tipi di informazioni proposizionali relative all’evento: sensoriali (suoni, luce, ecc.); emozioni e risposte; sul significato (es. grado di pericolosità); tali informazioni sono integrate in un programma di risposta finalizzato alla fuga o all’evitamento del pericolo. Chemtob e collaboratori (1988), partendo dalla loro esperienza con i veterani del Vietnam, hanno sviluppato un modello di spiegazione del DPTS denominato “dell’azione cognitiva”. Gli autori ritengono che le persone con DPTS hanno sviluppato strutture fobigene complesse, costituite da immagini e ricordi dell’evento traumatico, informazioni riguardanti le emozioni e piani d’azione; queste strutture fobigene includono schemi di minaccia perennemente attivi nelle persone con DPTS e danno ragione della loro tendenza ad interpretare molti eventi come potenzialmente pericolosi e del rivivere ricordi, emozioni e reazioni fisiologiche associate con l’evento traumatico. Le teorie sull’Information Processing pur chiarendo l’architettura cognitiva attraverso cui l’evento traumatico può esser rappresentato e gli effetti sull’attenzione, risultano carenti riguardo al ruolo svolto da emozioni diverse dalla paura e dalle variabili individuali e sociali. Una teoria cognitivista del DPTS Le teorie cognitive più recenti sono incentrate sul ruolo che le valutazioni relative al trauma, e a ciò che ne è conseguito, hanno nello sviluppo e mantenimento del DPTS (Ehlers e Clark 2000; Foa e Rothbaum 1998; Resick e Schnicke, 93). Sebbene questi modelli differiscano per alcuni aspetti, tutti enfatizzano il ruolo che specifici tipi di valutazioni hanno nello sviluppo e mantenimento del disturbo. Da tali tipi di valutazioni deriverebbe la percezione di minaccia nel futuro imminente che caratterizza il paziente con DPTS, accompagnata da intensa attivazione fisiologica, intrusioni, ansia ed altre risposte emotive. Vogliamo qui provare a sintetizzare gli elementi dei modelli che condividiamo, integrandoli con aspetti a nostro avviso determinanti per lo sviluppo ed il mantenimento del disturbo. Tra i fattori che possono ostacolare o impedire il normale processo di risoluzione ed accettazione dell’esperienza traumatica, portando allo sviluppo e mantenimento del DPTS, sottolineiamo: • come la persona valuta l’evento traumatico e le sue cause, le sensazioni, le emozioni ed i comportamenti avuti durante l’evento; • come la persona giudica ciò che ha fatto seguito al trauma, come emozioni, comportamenti e scopi attivi, e gli effetti attesi sulla propria vita futura; • il grado di legittimazione esterna, delle reazioni di altre persone significative (all’evento in sé ed alle sue reazioni ed emozioni). Rispetto al primo punto, la persona svilupperà il DPTS con più probabilità se giudica l’evento come prova del fatto che il mondo è un luogo pericoloso ed imprevedibile e/o ritiene che dimostri la propria incapacità, incompetenza, mancanza di potere e di essere bisognoso di aiuto (Ehlers e Clark 2000). Al primo tipo di valutazione consegue un costante senso di minaccia esterna “dato che il mondo è pericoloso ed imprevedibile, mi capiteranno altre cose terribili sulle quali non ho nessun controllo!” oppure “Non posso fidarmi di nessuno....gridavo e nemmeno mio marito, che è per ruolo preposto, mi ha aiutata!”; alla seconda tipologia di valutazione seguirà un senso di minaccia interna “attraggo le disgrazie, altre cose terribili mi capiteranno!” oppure “è una giusta punizione, me lo sono meritato per la mia cattiveria” o ancora “mi sono comportato come un pazzo…non sono in grado di fronteggiare efficacemente gli eventi!”. Le autovalutazioni negative sembrano avere maggior peso nello sviluppo del DPTS (O’Donnell et al. 2007) poiché aumentano la percezione di esser esposto a minacce future e dunque l’ansia. Foa e Rothbaum (’98) suggeriscono l’esistenza di interazioni tra le valutazioni su di sé e sul mondo: una persona che giudica sé come incompetente ed incapace, data la propria presunta mancanza di poteri, sarà portato a rappresentarsi il mondo come più pericoloso. La percezione di un pericolo incombente, poi, porta la persona ad assumere un orientamento cognitivo nella verifica delle ipotesi di pericolo finalizzato alla prevenzione della minaccia, diventando più prudente sia sul piano comportamentale che cognitivo, favorendo le ipotesi di pericolo nelle rappresentazioni della realtà, piuttosto che quelle di sicurezza, e focalizzando le informazioni congrue con esse che, immancabilmente, lo porteranno alla loro conferma (Mancini, Gangemi e Johnson-Laird, 2007). A ciò contribuisce il Mood Congruity Effect (Bower, 1981) che rende disponibile nella mente della persona pensieri e credenze coerenti con l’emozione che avvalorano ancor di più la minaccia, rendendo più frequente i falsi allarmi ed intense le reazioni ansiose. L’orientamento cognitivo di tipo prudenziale sul piano comportamentale, infine, si traduce nell’adozione di comportamenti protettivi e di evitamento che impediscono alla persona di fare esperienze in grado di disconfermare le credenze catastrofiche e contribuiscono al loro rafforzamento, inducendolo a ritenere erroneamente di aver scampato la minaccia per effetto dei provvedimenti presi. Riguardo al secondo fattore determinante nello sviluppo e mantenimento del DPTS, ossia la valutazione delle reazioni avute e delle emozioni (sintomi iniziali) sperimentate dopo il trauma, ad esempio “piango continuamente, sono triste, irritabile…forse sto impazzendo.. non sarò mai più come prima!”, riteniamo dirimente il fatto che la persona non le interpreti come parte del normale processo di recupero, ma come indicatore di un cambiamento definitivo che contrasta con il proprio sistema di scopi di vita. la forte critica per le proprie reazioni/emozioni, inoltre, ostacola il processo di analisi, comprensione ed accettazione dell’accaduto. Infatti, se la persona ripensando all’evento, nel tentativo di rielaborarlo, sperimenta tristezza, paura o senso di colpa e si spaventa o critica per ciò che sta sentendo tenterà di bloccare tali emozioni, ad esempio distraendosi, impedendo di fatto il processo di rielaborazione. E quello che accade a Carla quando si critica aspramente per le proprie emozioni o scopi attivi “Non dovrei piangere così… la rabbia che provo non è da persone equilibrate, così come il desiderio di vendetta! Questo dimostra che sono una persona cattiva e che niente sarà più come prima. Ho solo un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti!”. Infine, altro fattore determinante, la valutazione critica delle proprie reazioni ed emozioni è in alcuni casi sostenuta e rinforzata dalla scarsa legittimazione delle proprie reazioni ed emozioni proveniente da altri significativi o dall’ambiente sociale più in generale. Carla, ad esempio riferisce “mio marito mi accusa, mi critica e si arrabbia ogni volta che mi vede soffrire, sostenendo che se ancora ci soffro o mi arrabbio è perché provo qualcosa per il maestro… altrimenti avrei già superato tutto!”. Se ciò accade e la persona critica le proprie emozioni, reazioni e scopi attivi (problema secondario), anziché riconoscerli ed accettarli come parte del normale processo di risoluzione del trauma, seguiranno strategie comportamentali e specifici processi cognitivi messi in atto per arginarli che avranno, di fatto, l’effetto paradossale di esacerbare i sintomi (Mancini 2005), mantenendo ed aggravando il disturbo. Tra le strategie comportamentali, rientrano i tentativi di sopprimere i pensieri, o di distrazione, l’evitamento di stimoli e situazioni che ricordano il trauma, l’abuso di alcol e sostanze, l’abbandono delle normali attività, l’adozione di comportamenti protettivi. Tra i processi cognitivi la focalizzazione dell’attenzione sui segnali di pericolo, la dissociazione e l’intensa ruminazione. La Terapia del DPTS Sulla base dei processi psicologici descritti ed in considerazionee degli stati mentali che caratterizzano i soggetti con DPTS, riteniamo che lo scopo del trattamento sia eliminare i fattori di mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza traumatica. In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi: 1.Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati conseguenti al trauma 2. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo 3. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario 4. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto di generalizzazione del pericolo 5. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità. 6. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress Inoculation Training, ACT Lo sviluppo del protocollo appena descritto e l’indicazione per l’utilizzo combinato di diverse procedure trova riscontro nella letteratura sull’efficacia della Terapia cognitivo-comportamentale del DPTS. Gli interventi cognitivo-comportamentali che sono stati valutati con trial clinici che ne hanno dimostrato l’efficacia spesso prevedono una combinazione di interventi (Salcioglu et al., 2007), come l’esposizione immaginativa ed in vivo, la ristrutturazione cognitiva e le tecniche per la gestione dell’ansia come il rilassamento, il coping skill training, lo stop del pensiero (Foa et al., 2005; Taylor et al., 2003; Ehlers et al., 2003; Lee et al., 2002). Un considerevole numero di ricerche, tuttavia, ha dimostrato la particolare efficacia delle procedure di esposizione e di ristrutturazione cognitiva (Salcioglu et al., 2007; Bradeley et al., 2005; Marks e Dar, 2000), dimostrando come esse rappresentino le componenti principali della terapia. Le procedure che prevedono interventi di esposizione aiutano il paziente a ridurre la frequenza delle condotte di evitamento degli stimoli correlati al trauma, incoraggiando il soggetto ad affrontare pensieri, memorie ed emozioni di paura, laddove le tecniche di ristrutturazione cognitiva sono finalizzate, invece, allo sviluppo di competenze per la gestione degli stati d’ansia e per la modifica delle distorsioni cognitive. Oltre alle tecniche citate, negli ultimi anni sono stati sviluppati trattamenti fondati sull’accettazione che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nella riduzione delle condotte di evitamento, sintomo centrale del DPTDS. Per questa ragione, nei prossimi paragrafi, descriveremo le Tecniche di Esposizione e lo Stress Inoculation Training ed, infine, proveremo ad evidenziare i particolari benefici che i pazienti possono avere se sottoposti alla Acceptance Commitment Therapy (Orsillo e Batten, 2005; Hayes et al., 1999). Procedure di esposizione L’Esposizione è un trattamento basato sulla teoria dell’apprendimento e sulla teoria dell’elaborazione delle informazioni; nel caso del DPTS sono usate le varianti l’esposizione prolungata e l’esposizione multipla. Nel caso specifico del DPTS, al paziente viene chiesto di immaginare o confrontarsi direttamente con gli stimoli o con il ricordo del trauma, omettendo di produrre condotte di evitamento ed aspettando la risposta di abituazione ed il calo di ansia e di paura. L’esposizione prolungata è stata originariamente utilizzata con i veterani di guerra e successivamente somministrata alle vittime di stupro e alle vittime di crimini violenti (Foa et al., 1991). La versione messa a punto da Foa e collaboratori (1991) si articola in 9-12 sessioni, durante le quali sono previste sia l’esposizione immaginativa, sia un’esposizione progressiva agli stimoli temuti. I momenti principali della procedura di Foa sono la psicoeducazione relativa al DPTS e la spiegazione del razionale dell’intervento (sessione 1); la normalizzazione delle reazioni al trauma e lo sviluppo di una gerarchia di stimoli temuti da utilizzare nelle fasi di esposizione in vivo (sessione 2); la ripetuta esposizione agli stimoli fobigeni durante le sessioni di terapia (sessioni 3-9). Ad esempio, con una paziente che ha subito uno stupro (Astin e Resick, 1998), la procedura potrebbe essere implementata chiedendole di chiudere gli occhi e di immaginare e rivivere gli eventi come se stessero accadendo nel presente. Successivamente, alla paziente viene chiesto di immaginare i dettagli della circostanza, come odori, sapori, suoni, ecc. ed anche le emozioni o le sensazioni fisiche sperimentate. La registrazione delle sedute sarà utilizzata dalla paziente nel corso delle esposizioni condotte sotto forma di homework. Inoltre, tra una seduta e l’altra la paziente avrà il compito di affrontare in vivo situazioni che non sono pericolose, ma che comunque teme perché in qualche modo correlate allo stupro. Ma come funziona l’esposizione e quali sono i processi che si attivano nella mente del paziente che rendono efficace tale procedura? Sono numerose le evidenze cliniche che testimoniano come la differenza tra una esposizione efficace ed una inefficace sia ascrivibile a differenti stati mentali ed in particolar modo ai livelli di minaccia che il paziente è disposto ad accettare. Una considerazione a sostegno di questa tesi è riconducibile alla scarsa efficacia che soluzioni e rituali emessi producono nei termini di riduzione della minaccia percepita (Mancini e Gragnani, 2005). Mancini e Gragnani (2005) rilevano come “larga parte della psicopatologia consiste nella percezione di minacce, nelle conseguenze emotive di tali percezioni e nei tentativi di evitare, prevenire o sottrarsi alla minaccia”. L’impianto della Terapia Cognitiva e le tecniche utilizzate nel corso della sua somministrazione sono orientate a realizzare una differente percezione della minaccia, stimolando il paziente a rintracciare esempi di ipotesi di sicurezza e controesempi di ipotesi di pericolo e a produrre, in definitiva, ipotesi alternative alle abituali e frequenti valutazioni catastrofiche. Tuttavia, il percorso di realizzazione degli obiettivi fissati sulle basi appena descritte è con sensibile frequenza ostacolato dalle resistenze del paziente, resistenze che possono comportare il fallimento della terapia. Un percorso alternativo, che tenga conto delle obiezioni e delle difficoltà riscontrate ma che condivida l’obiettivo di riduzione della percezione della minaccia, dovrebbe essere strategicamente orientato ad aggirare le resistenze del paziente e, in definitiva, a produrre l’accettazione della minaccia (Mancini e Barcaccia, 2004). L’accettazione della minaccia si traduce in una riduzione dell’impegno preventivo e in un incremento della disponibilità ad esporsi a condizioni maggiori di rischio. L’accettazione, dunque, si riflette sulla valutazione dei pericoli. L’impegno nella prevenzione di un pericolo ed il livello di accettazione di una minaccia influenzano sia l’attività pratica, sia il modo in cui si valuta una minaccia. In particolare, tale influenza investe l’orientamento cognitivo con cui si controllano le ipotesi di sicurezza e quelle di pericolo. In quest’ottica, sono numerosi gli esperimenti di psicologia cognitiva (Mancini e Gangemi 2002) che dimostrano come i processi cognitivi siano influenzati dagli investimenti della persona e che tale influenza tende ad avere tra i suoi effetti l’aumento della resistenza al cambiamento delle assunzioni che sostengono l’investimento stesso. In altre parole, se ci si sente minacciati e si investe nella prevenzione della minaccia, allora si diventa più prudenti, con il risultato che le assunzioni di minaccia ne risultano confermate. Quel che accade è che l’investimento prudenziale influenza l’attenzione selettiva, orientandola verso i segnali e le informazioni di pericolo e rendendo tali informazioni più disponibili. In quest’ultimo caso, sappiamo che in virtù dell’euristica della disponibilità (Mancini, 2002), le informazioni disponibili saranno ritenute anche le più probabili. In più, procedere con un atteggiamento prudenziale implica una rappresentazione della realtà in cui vengono selettivamente privilegiate le possibilità di pericolo a discapito di quelle di sicurezza, un’attitudine questa che si riflette anche sui processi ingenui di controllo delle ipotesi, con conseguente focalizzazione sulle ipotesi di pericolo e defocalizzazione dalle ipotesi di sicurezza. In definitiva ed in estrema sintesi, nel DPTS, l’accettazione del trauma implicherebbe un aumento della consapevolezza dei danni oltre che dei cambiamenti conseguenti al trauma, con una considerazione del danno non come incombente e probabile. La conseguenza di un simile processo sarà la rinuncia agli investimenti in direzione della prevenzione del danno, con l’aumento della disponibilità a sviluppare una visione di sé e del mondo che non dipenda esclusivamente dall’esperienza traumatica e con una modifica degli investimenti in direzione dei propri scopi. La terapia di esposizione multipla, a differenza di quella prolungata, consente l’esposizione ai sintomi d’attivazione fisiologica prima che a quelli cognitivi e comportamentali; questo consente di prevenire e ridurre la minacciosità delle possibili reazioni fisiologiche del paziente quando, in una fase successiva, verrà esposto ai ricordi e agli altri stimoli traumatici (citare QN….). La procedura prevede l’esposizione del paziente alle tre categorie di stimoli implicate nelle reazioni di paura: − Esposizione agli stimoli fisiologici: esposizione enterocettiva a stimoli fisiologici, in modo da indurre sensazioni tipo-panico (es. iperventilando, facendo le scale di corsa); − Esposizione agli stimoli cognitivi: si chiede al paziente, come compito da svolgere a casa, di mettere per iscritto l’evento traumatico. − Esposizione agli stimoli comportamentali: esposizione in vivo agli stimoli condizionati legati all’evento traumatico. Stress inoculation training Lo Stress Inoculation Training (SIT) è una tecnica cognitivo-comportamentale nata sulla base della teoria dell’apprendimento e sviluppata da Meichenbaum nel 1974. Inizialmente utilizzata per la gestione dell’ansia, lo SIT fu somministrato successivamente e con successo anche alle vittime di stupro. Il protocollo è finalizzato all’acquisizione di capacità di gestione dell’ansia e dello stress e comprende tre fasi: la concettualizzazione, l’acquisizione di abilità di fronteggiamento, l’applicazione e il richiamo delle abilità. Tab.1: Fasi dello Stress Inoculation Training Concettualizzazione Informazioni sullo stress Ristrutturazione delle Acquisizione di abilità di Applicazione e richiamo delle fronteggiamento abilità Problem solving Prova immaginativa idee Tecniche di rilassamento errate sullo stress Prova comportamentale, roleplaying, modeling Strategie cognitive Esposizione graduale in vivo (ristrutturazione) Autoaffermazioni positive Prevenzione delle ricadute Le prime sessioni sono dedicate alle fasi di natura psicoeducativa, con informazioni relative al trattamento e allo sviluppo delle risposte di paura, con riferimenti alla teoria dell’apprendimento, e all’attivazione del sistema nervoso simpatico (Resick e Mechanic, 1995). Il terapeuta, inoltre, aiuterà il paziente nell’identificazione degli stimoli che elicitano le risposte di paura e, procedendo nel corso delle sessioni, proverà a facilitare il ricordo di informazioni dettagliate, che tengano conto di aspetti corporei (sensazioni fisiche), mentali ( risposte cognitive) e delle azioni compiute (risposte comportamentali). Inoltre, al paziente saranno spiegate tecniche di rilassamento progressivo dei muscoli da utilizzare tra una sessione e l’altra come homework, unitamente alla identificazione degli stimoli fobigeni. Nel corso della seconda fase del trattamento, i pazienti apprendono tecniche finalizzate alla gestione delle risposte di paura, come la respirazione diaframmatica, lo stop del pensiero, il dialogo interno guidato, il role-playing ed il modeling. Nella terza fase, il paziente impara ad utilizzare le strategie di coping durante quelle situazioni quotidiane che sono accompagnate da stati d’ansia. Lo stress inoculation si articola in 5 passaggi (Astin e Resick, 1998): 1. Stima della probabilità che si verifichino eventi spaventosi 2. Gestione delle condotte di evitamento attraverso procedure di stop del pensiero 3. Controllare l’autocritica attraverso il dialogo interno guidato e la ristrutturazione cognitiva 4. Emissione delle condotte temute utilizzando le competenze di problem solving e le abilità acquisite grazie alle procedure di modeling e role-playing 5. Somministrazione di auto-rinforzi per aver utilizzato le competenze acquisite nelle situazioni temute Infine, paziente e terapeuta procedono alla costruzione di una gerarchia di eventi da utilizzare nelle fasi di esposizione programmata all’esterno del setting. Acceptance Commitment Therapy La descrizione che Batten, Orsillo e Walser (2005) fanno del DPTS poggia sul ruolo giocato dalle condotte di evitamento, il principale sintomo del disturbo. In particolare, i tentativi di evitare pensieri ed emozioni legati al trauma sono assimilabili al fenomeno dell’evitamento esperienziale (experiential avoidance), un processo che si caratterizza per l’investimento in strategie tese a modificare la frequenza di pensieri, emozioni, sensazioni fisiche, memorie e che si realizza per minimizzare le esperienze di dolore ad esse legate. La riduzione immediata e repentina dello stress determina il rinforzo negativo dell’evitamento e produce come conseguenza un aumento dei sintomi (Orsillo e Batten, 2005). Su questa base, gli autori sostengono che la terapia del DPTS debba avere come scopo da un lato la riduzione delle condotte di evitamento e la riduzione dell’evitamento esperenziale, dall’altro un aumento della disponibilità a tollerare e ad accettare gli stati interni tipici degli individui con un simile disturbo. La soluzione che propongono è una combinazione tra procedure di esposizione, mindfulness, terapia comportamentale dialettica e la Acceptance Commitment Therapy ACT (Segal,Williams, & Teasdale, 2002; Linehan 1993; Hayes et al.,1999). Gli autori hanno osservato come nel corso della ACT la fase di disperazione creativa (creative hopelessness) sia particolarmente importante nei pazienti che hanno subito traumi. Tale fase vede il paziente impegnato a realizzare una lista di pensieri ed emozioni, seguita da una lista che descriva tutti i tentativi di controllo effettuati per modificarli. Il risultato è, generalmente, un ampio range di emozioni che va dalla rabbia alla profonda tristezza e che, inizialmente, si traduce nell’esperienza che il problema sia insormontabile. In questa fase, il paziente tenderà a porre domande e ad effettuare richieste tese all’individuazione di una soluzione rapida e magica del problema, che può indurre il terapeuta nell’errore di provare a fornire una risposta che lo rassicuri. La soluzione di un passaggio così delicato è assegnata ad interventi con cui il terapeuta segnala e riconosce l’urgenza che accompagna le richieste del paziente, ma che al tempo stesso preveda l’introduzione di elementi di discussione relativi all’inutilità e alla frustrazione conseguente ai tentativi passati di controllare emozioni e pensieri negativi. Il focus è sull’opportunità di accettare l’inutilità degli sforzi passati, acquisendo consapevolezza che un cambiamento reale sia abitualmente un lento e progressivo processo. Nel corso della terapia, inoltre, sarà probabile scontrarsi con il ricordo o l’esperienza della bontà, oltre che della parziale efficacia di alcuni tentativi di controllo, con il rischio di rottura della relazione a causa di un terapeuta troppo solerte nell’evidenziare i costi pagati conseguenti agli estenuanti tentativi di controllare. In questo caso, gli interventi dovranno avere come obiettivo un aumento della consapevolezza del ruolo e dei costi legati al controllo, mostrando come un miglioramento graduale non sia così pericoloso e che le alternative siano invece auspicabili. La difficoltà dell’intervento è legata al fatto che nei soggetti con DPTS il controllo delle esperienze è fenomeno centrale, soprattutto se consideriamo che spesso il trauma si realizza in condizioni di scarso controllo personale. Una delle conseguenze, in questi casi, potrebbe essere il ricorso a strategie compensatorie di iper-controllo, strategie di cui è possibile riconoscere l’azione anche durante i primi incontri. Da questo punto di vista, non stupisce che il paziente possa arrivare in terapia con l’intenzione di ottimizzare la propria capacità di controllo e chieda esplicitamente al terapeuta di aiutarlo nell’impresa, insegnandogli come procedere e come migliorare i suoi tentativi. Le risposte a simili sollecitazioni si articolano in un primo intervento di non delegittimazione del controllo, avendo come obiettivo l’aumento della disponibilità ad accettare emozioni e pensieri negativi. In questa fase, è importante che il paziente comprenda la differenza tra provare emozioni negative che rientrano nelle normali esperienze di vita e l’intenso stress conseguente alla non accettazione, alla valutazione negativa e ai tentativi falliti di controllare le risposte emotive. Inoltre, gli autori fanno notare come, soprattutto con pazienti che hanno avuto esperienze di abuso sessuale, una delle maggiori difficoltà della terapia sia legata agli stati di rabbia intensa. Il richiamo alla necessità di accettare pensieri ed emozioni negative, con la contemporanea rinuncia ai tentativi di controllo, potrebbe essere vissuta dal paziente come un’indicazione che comporta il rischio di ritrovarsi nella stessa posizione del trauma. In altre parole, l’abbandono dei tentativi di controllo potrebbe comportare la preoccupazione di ritornare ad essere debole e sottomesso, una condizione tipica di chi ha subito un trauma di questa natura. La soluzione dell’eventuale empasse è legata ad un intervento di validazione del desiderio di controllo, con il contemporaneo richiamo ai costi pagati nei termini di interruzione delle relazioni o di isolamento. Infine, il ricorso all’utilizzo delle tecniche di esposizione, immaginativa o in vivo, è elemento fondamentale anche della ACT, anche se i riferimenti concettuali ed il razionale a sostegno della tecnica differiscono dal tradizionale modo di spiegarne l’efficacia. In questo caso, l’esposizione ripetuta ai pensieri e alle emozioni legate al trauma non si tradurrebbe in un effetto di abituazione (Harris, 1943). Secondo gli autori, l’esposizione alle memorie traumatiche e alle emozioni ad esse associate modificano il contesto in cui tali eventi si realizzano, oltre che la natura della relazione che il paziente intrattiene con simili esperienze, con un conseguente aumento della flessibilità delle condotte e dell’abilità a muoversi in direzione dei valori che il paziente associa allo sviluppo e al mantenimento di una relazione. Conclusioni In definitiva, riteniamo che lo scopo del trattamento del DPTS sia eliminare i fattori di mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza traumatica. In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi: FORSE SAREBBE MEGLIO METTERE QUESTA PARTE ALL’INIZIO COME SINTESI DELLE STRATEGIE USATE 7. Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati conseguenti al trauma 8. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo 9. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario 10. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto di generalizzazione del pericolo 11. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità. 12. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress Inoculation Training, ACT Riferimenti Bibliografici Abraido-Lanza A. F., Guier C. e Colon R. M. (1998). Psychological thriving among Latinas with chronic illness. Journal of Social Issues, 54, 405-424. American Psychiatric Association (2001). Diagnostic and statistical manual of mental disorders, Fourth Edition, Text Revision. Washington, D.C. Trad. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4 ed. rivista (DSM-IV-TR). Milano: Masson, 2002. Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L. e Page A. (2003). The Treatment of Anxiety Disorders. Clinician Guides and Patient Manuals – Second Edition. Cambridge: Cambridge University Press. Trad. it. Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e Manuali per chi soffre del disturbo (pp. 447-487). Torino: Centro Scientifico Editore. Armeli S., Gunthert K. C., e Cohen L. H. (2001). Stressor appraisals, coping, and post-event outcomes: The dimensionality and antecedents of stress-related growth. Journal of Social and Clinical Psychology, 20, 366-395. Astin M. C., Resick P.A. Cognitive-Behavioural Treatment of Posttraumatic Stress Disorder. In: Caballo V.E. (a cura di) International Handbook of Cognitive and Behavioural Treatments for Psychological Disorders. Oxford: Pergamon, 1998, 161-196 Baldwin S.A., Williams D.C., Houts A.C. (2005). Storia Critica del DPTS. Cognitivismo Clinico, 2(2), 118-141. Ballenger J.C., Davidson J.R.T., Lecrubier Y., Nutt D.J., Marshall R.D., Nemeroff C.B., Shalev A.Y. and Yehuda R. (2004). Consensus Statement Update on Posttraumatic Stress Disorder From the International Consensus Group on Depression and Anxiety. The Journal of Clinical Psychiatry, 65, 1, 55–62. Batten V.B, Orsillo M.O., Walser R.D. Acceptance and mindfulness-based approaches to the treatment of Posttraumatic Stress Disorder In: Orsillo M.O e Roemer L. (a cura di) Acceptance and mindfulness-based approaches to anxiety. New York: Springer, 2005, 241269. Bower G.H. (1981). Mood and memory. American Psychologist, 36, 129-148. Becker, J. V., Skinner, L. J., Abel, G. G., Axelrod, R., & Cichon, J. (1984). Sexual problems of sexual assault survivors. Women and Health, 9, 5-20. Bradley R., Green J., Russ E., Dutra L., & Westen D. (2005). A multidimensional meta-analysis of psychotherapy for PTDS. American Journal of Psychiatry, 162, 214-227. Breslau N., Davis G.C., Andreski P., Peterson E.L., Schultz L.R. (1997). Sex differences in Posttraumatic Stress Disorder. Archives in General Psychiatry, 54, 1044-8. Brunet A., Weiss D.S., Metzler T.J., Best S.R., Neylan T.C., Rogers C., Fagan J. e Marmar C.R. (2001). The Peritraumatic Distress Inventory: A Proposed Measure of PTSD Criterion A2. American Journal Psychiatry, 158, 1480-1485. Calhoun L. G., Cann A., Tedeschi R. G., e McMillan J. (2000). A correlational test of the relationship between posttraumatic growth, religion, and cognitive processing. Journal of Traumatic Stress, 13, 521-527. Carlson E.B. e Dalenberg C.J. (2005). Un modello concettuale per gli effetti delle esperienze traumatiche. Cognitivismo Clinico, 2(2), 142-170. Chemtob C., Roitblat H.L., Hamada R.S., Carlson J.G. e Twentyman C.T. (1988). A cognitiveaction theory of post-traumatic stress disorder. Journal of Anxiety Disorders, 2, 253–275. Connor K.M. e Butterfield M.I. (2003). Posttraumatic Stress Disorder. Focus, 1, 247-262. Cordova M., Cunningham L., Carlson C., e Andrykowski M. (2001). Posttraumatic growth following breast cancer: A controlled comparison study. Health Psychology, 20, 176-185. Davis C., Nolen-Hoeksema S. e Larson J. (1998). Making sense of loss and benefiting from the experience: Two construals of meaning. Journal of Personality and Social Psychology, 75, 561-574. Ehlers A. & Clark D.M. (2000). A cognitive model of posttraumatic stress disorder. Behaviour Research and Therapy, 38, 319–345. Evers A. W. M., Kraaimaat F. W., van Lankveld W., Jongen P. J. H., Jacobs J. W. G. e Bijlsma J. W. J. (2001). Beyond unfavourable thinking: The Illness Cognition Questionnaire for chronic diseases. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 69, 1026-1036. Foa E.B. e Rothbaum B.O. (1998). Treating the trauma of rape: Cognitive-behavioral therapy for PTSD. NewYork: Guilford Press. Foa E.B., Hembree E.A., Cahill S.P., Rauch S.A.M., Riggs D.S. e Feeny N.C. (2005). Randomized trial of prolonged exposure for posttraumatic stress disorder with and without cognitive restructuring: Outcome at academic and community clinics. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 73, 953-964. Foa E. B., Rothbaum B. O., Riggs D. S. & Murdock T. B. (1991). Treatment of posttraumatic stress disorder in rape victims: A comparison between cognitive-behavioral procedures and counseling. Journal of Counseling and Clinical Psychology, 59, 715-723. Frankl V. E. (1963). Man's Search for Meaning. New York: Pocket Books. Frazier P., Conlon A. e Glaser T. (2001). Positive and negative life changes following sexual assault. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 69, 1048-1055. Frazier P., Tashiro T., Berman M., Steger M., Long J. (2004). Correlates of Levels and Patterns of Positive Life Changes Following Sexual Assault. Journal of Consulting and Clinical Psychology, Volume 72(1), Feb., 19-30. Freud S. The etiology of hysteria, in The standard edition of the complete psychological works of Sigmund Freud (Vol. 3, pp. 189-221). Edited by Strachy J. London, Hogarth Press, 1896. Hayes S. C., Strosahl K. D. e Wilson, K. G. (1999). Acceptance and commitment therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford. Harris J.D. (1943). Habituatory response decrement in the intact organism. Psychological Bullettin; 40: 385-422. Helzer J.E., Robins L.N. e McEvoy L. (1987). Posttraumatic stress disorder in the general population: findings from the Epidemiological Catchment Area Survey. New England Journal of Medicine, 317, 1630-4. Janet P. (1909). Nèvroses et idèes fixes (2 volumes). Paris: Alcan. Keane T.M., Zimering R.T. e Caddell R.T.(1985). A behavioral formulation of PTSD in Vietnam veterans. Behavior Therapist, 8, 9–12. Kessler R.C., Sonnega A., Bromet E., Hughes M. e Nelson C.B. (1995). Posttraumatic Stress Disorder in the National Comorbidity Survey. Archives of General Psychiatry, 52, 1048-60. Kessler R.C. (2000). Posttraumatic Stress Disorder: The Burden to the Individual and to Society. The Journal of Clinical Psychiatry, 61, 5, 4-12. Kierkegaard S. (1843). Timore e tremore: lirica dialettica di Johannes de Silentio. Milano: Edizioni di comunita, 1948. Kilpatrick D. G., Veronen L. J. e Best C. L. (1985). Factors predicting psychological distress among rape victims. In C. R. Figley (Ed.). Trauma and its wake: Vol.1. The study and treatment of posttraumatic stress disorder. New York: BrunnerIMazel Lang P.J. (1979). A bio-informational theory of emotional imagery. Journal of Psychophysiology, 16, 495–512. Linehan M. M. (1993a). Cognitive behavioral treatment for borderline personality disorder. New York: Guilford Mancini F., Gangemi A. e Johnson-Laird P.N. (2007). Il Ruolo del Ragionamento nella Psicopatologia secondo la Hyper Emotion Theory. Giornale Italiano Di Psicologia / a. XXXIV, 4, 763-793 Mancini F. (2005). Il disturbo ossessivo-compulsivo. In Bara (a cura di) Il manuale di terapia cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino. Mancini F. e Gragnani A. (2005). Il ruolo dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta nel processo di accettazione. Cognitivismo Clinico; 1: 38-58 Mancini F. e Barcaccia B. (2004). The Importance of Acceptance in Obsessive-Compulsive Disorder. Presentazione all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco di Baviera, 24 giugno. Mancini F. e Gangemi A. (2002). Ragionamento e irrazionalità. In: Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (a cura di) Fondamenti di cognitivismo clinico. Torino: Bollati Boringhieri. Manne S., Ostroff J., Winkel G., Goldstein L., K. F. e Grana G. (2004). Posttraumatic Growth After Breast Cancer: Patient, Partner, and Couple Perspectives. Psychosomatic Medicine, 66, 442-454. Marks I. e Darr R. (2000). Fear reduction by psychotherapies: Recent findings, future directions. British Journal of Psychiatry, 176, 507-511. Mayou R., Bryant B. e Ehlers A. (2001). Prediction of psychological outcomes one year after a motor vehicle accident. American Journal of Psychiatry, 158, 1231–1238. Meichenbaum D. (1974). Cognitive behavior modification. Morristown, NJ: General Learning Press. Mellman T.A., Bustamante V., Fins A.I., Pigeon W.R. e Nolan B. (2002). REM Sleep and the Early Development of Posttraumatic Stress Disorder. American Journal Psychiatry, 159, 1696-1701. Mineka S. (1979). The role of fear in theories of avoidance learning, flooding, and extinction. Psychological Bullettin 86, 985-1010. Mowrer 0. H. (1947). On the dual nature of learning: A reinterpretation of "conditioning" and "problem solving." Harvard Educational Review, 17, 102-148. Murray J., Ehlers A. e Mayou R. (2002). Dissociation and posttraumatic stress disorder: two prospective studies of motor vehicle accident survivors. British Journal of Psychiatry, 180, 363–368. Nietzsche F. W. (1888). Ecce homo – come si diventa ciò che si è. Milano: Adelphi, 1996 O’Donnell M.L., Elliott P., Wolfgang B.J. e Creamer M. (2007). Posttraumatic Appraisals in the Development and Persistence of Posttraumatic Stress Symptoms. Journal of Traumatic Stress, 20, 2, 173–182. Orsillo S. M. e Batten, S. V. (2005). Acceptance and commitment therapy in the treatment of posttraumatic stress disorder. Behavior Modification, 29, 95–129 Park C.L., Cohen L.H. e Murch R.L. (1996). Assessment and prediction of stress-related growth. Journal of Personality, 64, 71-105. Park C.L. e Fenster J. R. (2004). Stress-related growth: predictors of occurrence and correlates with psychological adjustment. Journal of Social and Clinical Psychology, Vol. 23, N° 2, pp 195-215. Resick P.A. e Schnicke M.K. (1993). Cognitive processing therapy for sexual assault victims: A treatment manual. Newbury Park, CA: Sage. Resick P.A. e Mechanic M. (1995). Brief therapy for rape victims. In Roberts A (a cura di) Crisis intervention and time-limited cognitive treatment. Sage Publications, Thousand Oaks. Şalcioğlu E., Başoğlu M. e Livanou M. (2007). Effects of live exposure on symptoms of posttraumatic stress disorder: The role of reduced behavioral avoidance in improvement. Behavior Research and Therapy; 45, 2268-2279. Segal Z. V., Williams J. M. e Teasdale J. D. (2002). Mindfulness-based cognitive therapy for depression: A new approach to preventing relapse. New York: Guilford Simpson J., Weiner E. e Press O. (1989). The Oxford English Dictionary (2nd ed.). Oxford University Press, Oxford. Tedeschi R. e Calhoun L. (1995). Trauma and transformation: Growing in the aftermath of suffering. Thousand Oaks, CA: Sage. Tedeschi R. e Calhoun L. (1996). Posttraumatic growth: Positive changes in the aftermath of crisis. Mahwah, NJ: Erlbaum. Weiss T. (2004). Correlates Of Posttraumatic Growth In Married Breast Cancer Survivors. Journal of Social and Clinical Psychology; Oct 2004; 23, 5. Widows M. R., Jacobsen P. B., Booth-Jones M. e Fields K. K. (2005). Predictors of Posttraumatic Growth Following Bone Marrow Transplantation for Cancer. Health Psychology, 24, 3, 266–273. Yehuda R. (1999). Risk Factors for Posttraumatic Stress Disorder. Washington, DC: American Psychiatric Press.