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La sorpresa di papa Francesco
Il libro La sera del 13 marzo 2013 su una Chiesa in grave crisi, su un mondo cattolico ancora scosso dalle dimissioni di Benedetto XVI, si leva improvvisa «una ventata di freschezza umana ed evangelica». Dalla loggia centrale di San Pietro si affaccia un papa inatteso: il cardinale Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Il suo pontificato si annuncia fortemente innovatore fin dal nome di Francesco, che nessun predecessore, in duemila anni, aveva mai scelto. Le sue parole e i suoi gesti semplici conquistano subito credenti e non credenti. Non si presenta come il capo di un’istituzione gerarchica, ma come un vescovo che vuole camminare con il suo popolo. Da allora continuano a crescere, giorno dopo giorno, l’entusiasmo e la speranza intorno alla sua persona. Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, riflette sui primi mesi di pontificato e sulle sue prospettive. Francesco, attraverso il riferimento al Concilio, raccoglie il testimone da Benedetto XVI e porta in dote la sua intensa esperienza di vescovo della «terza Chiesa», di uomo del Sud del mondo, immerso nella complessa realtà di una metropoli latinoamericana, a contatto quotidiano con i più bisognosi. «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!»: una frase che esprime meglio di qualsiasi documento il programma del nuovo papa. Bergoglio incarna, fin dai tempi del suo ministero in Argentina, una Chiesa assetata di giustizia, coinvolta nelle «periferie dell’esistenza», vicina agli ultimi, agli emarginati, come gli anziani abbandonati al loro destino, come i profughi ricordati nella commovente visita a Lampedusa. Una Chiesa permeata dalla «cultura dell’incontro», che sappia creare condivisione negli sterminati spazi urbani dove rischia di dissolversi ogni senso di umanità. Una Chiesa capace di costruire un autentico dialogo in un mondo globalizzato dove persone di diverse religioni e storie convivono sempre più spesso negli stessi luoghi. Soprattutto, una Chiesa che parli della misericordia di Dio. Bergoglio, spiega Riccardi, «non ha attaccato il mondo per la sua immoralità o le sue contraddizioni. Non ha condannato nessuno». Anche la simpatia che il papa argentino ispira è ben più che un tratto caratteriale; è una disposizione d’animo evangelica, nel senso etimologico di provare «pathos» per qualcuno, di «sentire» la sofferenza degli altri, rivelando così il «pathos» di Dio per ogni persona. È questa la vera scommessa di papa Francesco: non una miracolistica soluzione dei problemi della Chiesa da un giorno all’altro, non l’annuncio di grandi piani o clamorose riforme, ma la forza mite del credente, che vuole suscitare quella «rivolta dello Spirito», capace di cambiare il cuore degli uomini e realizzare, a poco a poco, un mondo migliore. L’autore Andrea Riccardi (Roma 1950) è uno dei massimi studiosi della Chiesa e del papato in età contemporanea e del mondo delle religioni. è noto internazionalmente per essere stato il fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant’Egidio. Ha fatto parte del governo Monti, in cui ha ricoperto la carica di ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione. è professore emerito di Storia Contemporanea nell’Università di Roma Tre. Andrea Riccardi LA SORPRESA DI PAPA FRANCESCO Crisi e futuro della Chiesa Prefazione La crisi della Chiesa cattolica è irreversibile? È la domanda di molti cattolici. Ma anche di tanti altri preoccupati per l’appannarsi di una presenza storica di rilievo. Molte cose sono state dette in proposito. Diverse risposte sono state avanzate. Si è soprattutto diffusa la convinzione che l’antica Chiesa cattolica quasi non avrebbe più le risorse per affrontare la crisi. In questo clima di incertezza è arrivata, inaspettata, la rinuncia di papa Benedetto, che ha dato adito inizialmente alle più varie interpretazioni, apparendo come la conferma della gravità della crisi. Molti hanno spiegato la rinuncia del papa come un arretramento personale di fronte a problemi insolubili. Insomma una dimostrazione della serietà della situazione, che motivava autorevolmente il pessimismo sul futuro della Chiesa cattolica. Una crisi che non veniva dall’esterno (persecuzione, misure discriminatorie...), come tante volte in passato, ma aveva radici nella vita interna della Chiesa stessa. Alle dimissioni è seguita l’elezione del primo papa latinoamericano nella storia, il cardinale Jorge Bergoglio, che ha preso il nome di Francesco. Una vera sorpresa: non solo per la scelta dell’uomo, ma per l’impatto felice e immediato della sua personalità tra i cattolici e i non cattolici. Si è percepito subito un cambiamento di rilievo. Sono fatti noti. Ma molte domande restano aperte. Sono finiti i motivi della crisi? Che cosa è successo in un periodo così cruciale per il cattolicesimo? Sono interrogativi che meritano un’indagine e una riflessione, se non ancora una ricerca storica. È un periodo delicatissimo, questo 2012-2013, tempo della crisi, delle inedite dimissioni del papa e infine di quella che sembra una nuova «primavera» del cattolicesimo. Non è troppo presto per provare a capire che cosa sia successo nelle profondità della vicenda della Chiesa. Ne abbiamo gli strumenti. È una vicenda fatta di elementi di cui spesso non si tiene conto, al di là delle percezioni, delle impressioni e delle voci. Quali sono le dimensioni della crisi e come papa Francesco sta rispondendo a essa? Il passaggio dal tempo della crisi a quello della sorpresa è rivelatore della particolarità della vita del cattolicesimo (che non sempre viene misurata attentamente), delle sue risorse, dei diversi mondi che lo compongono, del suo peculiare approccio con il futuro. A me pare particolarmente importante provare a comprendere la «proposta» di papa Bergoglio, anche seguendo il suo pensiero e la sua storia prima della sua elezione. È quello che vorrei fare in queste pagine. La «proposta» del nuovo papa non si trova ancora in un documento programmatico. Anzi Francesco ha addirittura recepito, con qualche modifica, l’enciclica sulla fede già preparata da Benedetto XVI. La sua proposta è rappresentata dalla qualità della comunicazione stabilita con la Chiesa e in genere con la gente. Misurandosi con il pensiero e la personalità di Francesco, si sfatano i miti semplificatori di un papa populista o sentimentale. La «proposta» di Francesco viene da lontano. Lo si coglie quando si studia la sua storia e il suo pensiero. Jorge Bergoglio, lungo gli anni, ha maturato una riflessione articolata sui temi cruciali della vita della Chiesa e sulla sua collocazione nella società contemporanea. Ha seguito con particolare attenzione il cambiamento degli ultimi due decenni con l’affermazione indiscussa della globalizzazione e delle sue conseguenze sulla vita economica e sociale. Si è chiesto quale fosse oggi lo spazio e la missione della Chiesa in un mondo trasformato, plurale, abitato da grandi città. Lo ha fatto avendo come riferimento il Concilio Vaticano II e gli anni postconciliari, quelli di Paolo VI e di papa Wojtyła. Il «laboratorio» di questa riflessione di papa Francesco è stata l’Argentina, con le sue difficoltà e contraddizioni, connessa com’è – non fosse che dal punto di vista religioso – all’intera America Latina. Il nuovo papa non è un accademico; è uomo appassionato e dalla forte comunicativa. Ma ha una visione articolata e meditata del mondo globale, delle sue vicende umane e, soprattutto, dei problemi e delle sfide della Chiesa cattolica oggi. Ne erano consapevoli i cardinali che lo hanno eletto papa di Roma nel marzo 2013? Forse non tutti e non in modo puntuale. Forse anche loro, come tanti, sono rimasti sorpresi da quel loro collega, divenuto papa Francesco. È certo che molti, anche prima della sua elezione, hanno percepito la carica interiore di Bergoglio: un credente autentico, che non cede al pessimismo e che nutre una forte aspettativa verso il futuro. Infatti, nel quadro di diffuso pessimismo, la sua elezione e la sua personalità hanno quasi rappresentato l’irruzione del futuro. Eletto papa a 76 anni, quest’uomo ha subito manifestato una forte speranza, anzi – si potrebbe dire – un «sogno» sulla sua Chiesa. È un sogno maturato in una vita caratterizzata dal gusto dell’incontro con gli altri e del dialogo con loro, ma anche da una dimensione riflessiva e interiore, contrassegnata in particolare dalla preghiera e dal confronto con la Bibbia. La sua diversificata esperienza di umanità e le sue idee maturate sulla Chiesa non lo portano però a un atteggiamento negativo verso il mondo contemporaneo: pur non ignorandone i limiti e le contraddizioni (anzi rilevandoli), il suo rapporto con la realtà di oggi è marcato da una profonda simpatia, che si rifrange in un’attenzione personale alle storie delle donne e degli uomini, soprattutto ai più poveri. È la simpatia che caratterizza in profondità il modo con cui il papa va affrontando i diversi ambienti e problemi, che si aprono innanzi a lui. A ripercorrere la vicenda e la riflessione di Francesco, come si prova a fare in queste pagine, si vede come la sorpresa non è stata solo la sua elezione, quella di un papa che viene dalla fine del mondo, come ha detto. Francesco continuerà ancora a sorprendere, misurandosi con i nuovi scenari su cui lo porta la sua responsabilità. Pur non coltivando piani dettagliati o una cultura del progetto, il nuovo papa ha mostrato appunto di avere un sogno sulla Chiesa e di volerla condurre sulle vie del futuro. Una Chiesa all’altezza della sua missione è, per lui, il vero contributo per cambiare il mondo contemporaneo e renderlo più umano. La Chiesa di papa Francesco non è solo quella delle strutture (pur riconoscendo chiaramente il valore delle istituzioni): è un «popolo» diffuso in tanti paesi del mondo. È un popolo che il papa intende guidare, ma anche accompagnare e persino seguire. Il nuovo papa ha il senso del «popolo», convinto com’è che abbia risorse umane e spirituali da esprimere, percorsi da indicare, energie da offrire. Non si sente un riformatore isolato o un leader schiacciato dai problemi. Non è un uomo solo al comando, ma un vescovo in mezzo a un popolo complesso. L’opinione pubblica lo sta scoprendo come un interlocutore di rilievo per il futuro e come un leader in questo complicato inizio del XXI secolo. In questo senso la «sorpresa» di papa Francesco non è l’emozione di un momento. Andrea Riccardi La sorpresa di papa Francesco I Le dimissioni di Benedetto XVI La notizia shock La mattina dell’11 febbraio 2013 l’agenzia di stampa italiana ANSA trasmette una notizia quasi incredibile, che immediatamente è rilanciata in tutto il mondo. In un concistoro, in tutta apparenza di routine, per ratificare tre canonizzazioni, Benedetto XVI comunica in latino un’inedita decisione: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». 1 L’annuncio non è compreso subito da tutti, anche perché comunicato in latino. In quella mattinata, molti lo considerano un equivoco giornalistico. Qualcuno spera che sia proprio così. Anche se c’era stato in precedenza qualche cenno in questo senso da parte di papa Ratzinger, nessuno si aspettava una decisione simile. Quando la notizia è confermata, la sorpresa si intreccia con un diffuso sconcerto. Il fatto è clamoroso. Molti si chiedono: che sta succedendo nella Chiesa, tanto da spingere il papa a dimettersi? Da sempre si è abituati a ricevere la notizia che il papa è morto, non che ha rinunciato. I più anziani hanno assistito all’agonia dolorosa di Pio XII, il papa della guerra; alla morte corale di papa Giovanni, accompagnata dalla preghiera in piazza San Pietro; a quella silenziosa di Paolo VI, in disparte a Castelgandolfo; alla repentina scomparsa di papa Luciani in carica da soli trentatré giorni. Ma su tutti questi ricordi domina l’immagine recente e drammatica dell’agonia e della morte di Giovanni Paolo II. Questi ha incarnato il papa per più di una generazione.2 Papa Wojtyła aveva considerato il suo spegnersi sulla cattedra di Pietro come la croce della sua vita, convinto che dalla croce un papa non può scendere. Con questo spirito, Giovanni Paolo II aveva voluto restare fino alla fine al suo posto per testimoniare quello che chiamava il Vangelo della sofferenza. Uno tra i motivi che l’avevano convinto a non ritirarsi era stata anche la volontà di non dar luogo a un pericoloso precedente: «… teme» confida il segretario di Wojtyła a un cardinale che aveva studiato il dossier delle possibili dimissioni «di creare un pericoloso precedente per i suoi successori, perché qualcuno potrebbe rimanere esposto a manovre e sottili pressioni da parte di chi desiderasse deporlo». 3 Ma il motivo più profondo della scelta di Giovanni Paolo II è rivelato da lui stesso a un altro cardinale: «Gesù non è sceso dalla croce». 4 Per Wojtyła il papato è un martirio nel senso profondo della parola: una testimonianza evangelica che non si ferma nemmeno di fronte al dolore e alla morte. La vicenda dell’attentato nel 1981, che avrebbe potuto portarlo facilmente alla morte, non gli aveva fatto cambiare abitudini nel suo offrirsi aperto e amico alla gente, senza reale protezione. Del resto Giovanni Paolo II era il papa che aveva fatto riscoprire ai cattolici del mondo intero la memoria dei nuovi martiri, quelli del Novecento, numerosi come quelli dei primi secoli. Papa Wojtyła, durante l’occupazione tedesca della Polonia, aveva visto da vicino la morte e si era chiesto perché lui fosse scampato a quella sorte a differenza di tanti altri suoi coetanei. Joseph Ratzinger aveva vissuto da vicino gli ultimi tempi dolorosi di papa Wojtyła; aveva ammirato il suo coraggio; forse non aveva condiviso in tutto la gestione e l’esposizione della sua malattia, anche per il suo carattere pudico e riservato. Ha però sempre parlato del suo predecessore con immenso rispetto, come di una figura superiore a lui: è un’umiltà che va notata. 5 Da papa si interrogava spesso su come si era comportato nelle varie circostanze Giovanni Paolo II, misurandosi con il suo esempio. Così Benedetto XVI non intendeva prendere le distanze dal suo «amato» predecessore, anche se il suo gesto appariva una rottura con la tradizione, incarnata da Giovanni Paolo II con grande sacrificio negli ultimi anni della sua vita. Per lui la lunga malattia di Wojtyła era stata una «catechesi del dolore», significativa in un mondo dove «si nasconde la sofferenza», mentre questa è «parte dell’essere umano» e soprattutto del cristianesimo, che è «la religione del crocifisso». 6 Questa riflessione sull’aspetto testimoniale degli ultimi tempi di papa Wojtyła non eliminava però la domanda se si potesse governare la Chiesa in quelle condizioni. Una questione che Ratzinger evidentemente si era posto e che aveva anche affrontato in una conversazione concessami. Tuttavia mi disse che bisognava considerare la scelta del suo predecessore «in una visione retrospettiva». Anch’io sono convinto che molte scelte della Chiesa e dei cristiani, proprio perché non mirate solo all’efficacia immediata, abbiano necessità di una considerazione più distaccata. In questa prospettiva si è mosso papa Ratzinger, il quale mi disse a proposito del predecessore: «si può governare anche con la sofferenza». 7 Ma introdusse alcuni distinguo che, dopo la sua rinuncia, mi hanno fatto ulteriormente riflettere. Il papa disse che si può governare con la sofferenza, tuttavia «non sempre, ma in un lungo pontificato»: «dopo tanta vita attiva, era giusta una pausa di sofferenza». 8 Quella sofferenza si veniva a configurare allora come «un tipo di governo». Sono espressioni che, ripensate nella prospettiva delle scelte di Ratzinger, acquistano grande chiarezza. Egli già introduceva – siamo nel 2011 – alcune importanti distinzioni tra il lungo e attivissimo pontificato di Giovanni Paolo II e altri pontificati, come il suo. Per Wojtyła restare da malato aveva un senso, proprio per quanto era avvenuto negli anni precedenti. Invece, nell’intervista a Peter Seewald, con molta franchezza Benedetto XVI aveva parlato di diritto e, persino, di dovere di dimettersi da parte del papa, quando egli «giunge alla consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli». 9 Pur essendoci queste premesse, nessuno si aspettava la rinuncia di Benedetto XVI, giunta come una vera bomba mediatica. Il papa ha spiegato ai cardinali la sua decisione, non come sottovalutazione della testimonianza della vita di un papa anziano, né come enfatizzazione dell’efficienza del governo: Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità ad amministrare il ministero a me affidato. 10 Si deve notare che il termine «incapacità» usato da papa Ratzinger ricorre pure nella rinuncia di Celestino V, letta ai cardinali nel 1294. Ma, dal lontano Duecento, tanta storia è passata. Nei secoli successivi, l’abdicazione papale è stata piuttosto connessa alla ricomposizione degli scismi nella Chiesa di Occidente che portarono all’elezione di più papi allo stesso tempo. Le dimissioni non sono una scelta praticata nella storia dei papi moderni. Il confessore di Paolo VI, padre Dezza, ha ricordato: «Paolo VI avrebbe rinunciato, ma mi diceva: “Sarebbe un trauma per la Chiesa”, e quindi non ebbe il coraggio di farlo». La parola è giusta: anche le dimissioni di papa Ratzinger sono state un «trauma». 11 Benedetto XVI ha ben presente l’esempio di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori; non intende rinnegarlo. Ma la sua scelta è differente, senza che questo implichi tuttavia una critica o una smentita nei confronti di chi l’ha preceduto. Papa Ratzinger sa bene che il ministero del papa è governo pastorale ma anche testimonianza personale. Sente però che gli viene a mancare il vigore per governare la Chiesa e per annunciare il Vangelo, soprattutto per compiere i viaggi per il mondo che ormai sembrano parte integrante della missione del papa (alle porte ci sono le Giornate mondiali dei giovani in Brasile). Era tornato stanchissimo dal viaggio in Messico e Cuba. Lo stesso era avvenuto anche dopo il suo coraggioso viaggio in Libano, che aveva dato speranza a cristiani e musulmani. Anzi, va ricordato che i maggiori servizi segreti del mondo avevano sconsigliato la trasferta libanese, considerandola densa di incognite se non di pericoli. Ma Benedetto XVI aveva riaffermato la sua decisione di andare. Rispetto ai viaggi, papa Benedetto sente di dover seguire, almeno in buona parte, l’esempio del suo predecessore, che aveva reso ormai le visite ai fedeli di tutto il mondo uno dei tratti caratteristici del papato contemporaneo. Tante erano le difficoltà per arrivare alla decisione. Ma chi conosce Benedetto XVI da vicino sa come questo papa abbia voluto l’abdicazione con tutte le forze. L’annuncio è arrivato all’improvviso, come un’esplosione, in un momento ordinario, mentre si celebrava l’anno della fede indetto proprio dallo stesso Benedetto XVI. Il papa è un «mite», ma la fermezza dei miti si manifesta pienamente in lui proprio nell’intransigenza con cui ha perseguito la sua decisione. L’opinione pubblica ha imparato a conoscere e stimare la sua mitezza. Anzi l’accusa che negli ambienti ecclesiastici gli è stata rivolta è proprio quella di essere stato troppo remissivo nei confronti dei collaboratori curiali. È un paradosso perché Ratzinger per anni era stato considerato dalla stampa come il panzerkardinal, l’anima inquisitoriale del pontificato di Giovanni Paolo II. La sua elezione era stata vista come quella di un «duro», anche da chi lo aveva sostenuto nel conclave del 2005. Un esempio è quello del cardinale López Trujillo, che aveva combattuto contro la teologia della liberazione negli anni di Wojtyła ed era stato grande elettore di Ratzinger nel 2005. Il cardinale colombiano, dopo qualche anno di pontificato, non nascondeva la sua delusione per un papa troppo mite. La mitezza di Ratzinger, da papa, è stata un paradosso a cui l’opinione pubblica si è dovuta abituare. È stata anche la rivelazione del carattere caricaturale di tante rappresentazioni mediatiche, su cui conviene riflettere. Benedetto XVI è stato tutt’altro che l’«inquisitore» rappresentato da alcuni. 12 Eppure, nel 2005, fu considerato – con soddisfazione o contrarietà – proprio come un papa che avrebbe rimesso a posto la vita della Chiesa con fermezza, dopo gli «eccessi» di Wojtyła. Questo papa mite ha preso con fermezza la decisione di lasciare il papato, parecchi mesi prima di manifestarla. Pochi intimi l’hanno saputo, da quel che si capisce. Forse il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, quello particolare Georg Gänswein, il fratello Georg. I tentativi di dissuaderlo sono stati inutili. E così si è arrivati alla notizia-bomba, annunziata in latino in una riunione di routine del collegio cardinalizio. Il papa si dichiarava «incapace» di «amministrare il ministero a me affidato»: gli mancavano «il vigore sia del corpo, sia dell’animo», diminuiti in modo tale da obbligarlo a questo gesto. Il papa aveva deciso in «coscienza», obbedendo alla verità della sua situazione. Dopo questo secco annunzio, si apriva una stagione di interrogativi e domande sui motivi di una simile decisione. Perché questa decisione? Benedetto XVI ha approfondito i fili della tradizione con l’opera del suo magistero di otto anni. Ha precisato l’ermeneutica secondo cui deve leggersi il Concilio Vaticano II, non come rottura, ma nel flusso appunto della tradizione. Anche da un punto di vista esteriore, nel mondo vaticano, ha ripristinato qualche piccola usanza tradizionale, che Giovanni Paolo II sulla scia di Paolo VI aveva fatto cadere. Lo stesso seggio da cui parla il papa è divenuto di frequente più simile a un trono antico che a una nobile sedia. Soprattutto Benedetto XVI ha cercato di ripristinare maggiormente il senso della liturgia cattolica, in linea con la tradizione, aprendo all’uso del latino. Agli abusi della riforma liturgica postconciliare, egli attribuisce, in buona parte, la frattura avvenuta con i tradizionalisti di monsignor Lefebvre (che ha cercato invano di ricucire). Che Benedetto XVI sia uomo della tradizione è peraltro molto apprezzato negli ambienti ortodossi. Specialmente i russi ortodossi hanno simpatia per questo papa che ha incontrato, tra i primi dopo la sua elezione, il metropolita Kyrill, divenuto poi patriarca. 13 Le dimissioni del papa, invece, sono una scelta fortemente innovativa, davvero poco tradizionale. Il papa è consapevole di compiere una scelta nuova, anzi eccezionale, proprio lui che ha voluto ripristinare alcuni aspetti tradizionali. Tutti i suoi predecessori del Novecento si sono misurati con l’indebolimento fisico, talvolta ponendosi il problema delle dimissioni, ma alla fine hanno deciso di non abdicare. Anche Pio XII si era interrogato sulla questione. Ratzinger ha deciso in altro modo rispetto ai predecessori, dimostrando che, pur essendo uomo della tradizione, ha un senso molto personale delle responsabilità, tanto da operare cambiamenti di grande portata. Nell’immaginario cattolico il papa dimissionario per eccellenza è Celestino V, il santo eremita Pier da Morrone di fine Duecento. Celestino, anche nel clima delle profezie di Gioacchino da Fiore, era stato considerato il «papa angelico», eletto al termine di un conclave difficilissimo, in cui si erano rivelate le divisioni della Chiesa. L’eremita, divenuto pontefice, aveva incarnato il sogno di un papa che riconducesse la Chiesa alla povertà e al Vangelo, liberandola dalle incrostazioni del potere. La sfida era immensa in quella difficile società medievale. Tanto che il poeta francescano Jacopone da Todi aveva apostrofato con questi versi il «papa contadino» eletto a una cattedra occupata generalmente da rampolli di nobili casate, da curiali o dotti: Che farai, Pier da Morrone? Éi venuto al paragone. Vederimo êl lavorato che en cell’ái contemplato. 14 «Che farai Pier da Morrone?»: il papa angelico non aveva retto all’urto del governo, agli intrighi della Curia, all’intreccio con la politica. Tolomeo dei Fiadoni da Lucca, un contemporaneo, scrive che papa Celestino era un santo: «tuttavia veniva raggirato dai suoi funzionari in ordine ai privilegi che concedeva, dei quali egli non poteva aver notizia sia per la debolezza della vecchiaia sia per l’inesperienza di governo intorno alle frodi e alle malizie umane nelle quali i curiali sono particolarmente esperti». 15 La sfida della sua elezione, dopo poche settimane, sembrava persa. Celestino V visse un travaglio interiore (che forse troppo malevolmente è stato attribuito alle pressioni del suo successore, Bonifacio VIII), finché non arrivò alla decisione. Così ci viene rappresentata: … entrò nel concistoro pronto al passaggio; e sedutosi in trono, impose il silenzio ai cardinali, che non si opponessero a quanto stava per fare. E prese la pergamena, e cominciò a leggere quella sentenza assai triste e rinunciò al papato. Poi scese dal trono, e l’anello, e la mitra o corona, e il manto pontificale depose per terra, ed in terra egli stesso si pose a sedere. 16 La scena della rinuncia di Celestino (che si riveste dell’abito da eremita) è molto più forte sul piano simbolico di quella di papa Ratzinger, che ha continuato a governare per un periodo dopo l’annunzio delle dimissioni, e poi ha conservato l’abito bianco papale (senza la mantellina), nonché il nome da papa e ha assunto il titolo inusuale di «papa emerito». Si sa che, dopo l’abdicazione di Celestino, ci furono intensi dibattiti: qualche settore della Chiesa non riconobbe l’elezione del nuovo papa. Per Ubertino da Casale, francescano spirituale (vicino alla sensibilità di Gioacchino da Fiore), le dimissioni del papa erano una horrenda novitas. 17 Niente di tutto questo ha accompagnato la decisione di papa Benedetto. Anche se molti hanno ricordato l’antica scelta di papa Celestino, dimessosi perché incapace di reggere, non solo per la vecchiaia ma anche per gli intrighi e il peso del governo pontificio. Il teologo Ratzinger, uno dei più grandi intellettuali europei viventi, è ben diverso dal povero eremita, papa contadino. Tuttavia la fantasia è tornata agli scandali e agli intrighi di Curia di allora, paragonandoli al presente. Cosa è successo nel centro della Chiesa? Quali gravi motivi hanno spinto Benedetto XVI a un tale gesto eccezionale? È la domanda che attraversa l’opinione pubblica e che si appunta sui più o meno recenti «scandali» vaticani, come quello del cameriere infedele e di Vatileaks, l’inedita pubblicazione di documenti riservati, che passavano nell’appartamento papale. 18 Gli «scandali» di tanto in tanto sollevati dalla stampa – notavano alcuni – avevano messo a dura prova la tenuta del papa, che faticava ad allontanare i collaboratori o a imporre un diverso orientamento al suo governo. La mitezza del pontefice (più vicino a un «papa angelico» che all’inquisitore preannunciato) aveva giocato male in un periodo difficile. Nell’emozione suscitata dalla rinuncia papale – un «trauma» secondo Paolo VI – si è avuta la sensazione dell’esistenza di problemi molto gravi che Benedetto XVI non riusciva ad affrontare. A ogni modo, la rinuncia sembrava confermare agli occhi dell’opinione pubblica che la crisi della Chiesa cattolica era tanto grave da non permettere al papa di continuare a governarla, mentre tutti i suoi predecessori l’avevano fatto sino alla fine. Chi conosce Ratzinger sa quanto sia acuto il suo senso del dovere: «Quando il pericolo è grande» ha dichiarato a Seewald nel 2010 «non si può scappare. Ecco perché sicuramente questo non è il momento di dimettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare…». 19 A rileggere queste righe si capisce bene come il papa non sarebbe fuggito di fronte a una situazione critica ma cominciava a sentire di non farcela più ed era orientato a rinunciare. Nel momento della rinuncia non si facevano, però, queste riflessioni, anzi dominava un senso di crisi. L’umiltà di Ratzinger Le dimissioni hanno esposto papa Benedetto a una serie di critiche serrate e a una certa freddezza dell’opinione pubblica, perché in fondo un papa non si è mai dimesso, quindi – si pensa – non si dovrebbe dimettere. Non sono mancate voci in favore, anche se i perplessi sono stati tantissimi. A distanza di tempo si è largamente cancellato quel diffuso stato d’animo. C’è stata una rielaborazione in senso molto positivo, tanto da far dimenticare le perplessità. Papa Francesco, con una battuta, ha ridimensionato la situazione inedita della contemporanea presenza di un papa in carica e di un papa dimissionario: «È come avere il nonno a casa, ma il nonno saggio. Quando in una famiglia il nonno è a casa, è venerato, è amato, è ascoltato. Lui è un uomo di una prudenza! Non si immischia». 20 Tuttavia con la sua rinuncia, papa Benedetto si è sottoposto quasi a un’umiliazione collettiva: il dissenso verso il suo gesto non è stato sempre espresso, ma era latente. Chi ha vissuto quei giorni in contatto con la gente e con i fedeli ne è consapevole. Il papa, il maestro della Chiesa cattolica, con questo passo accetta di essere giudicato anche severamente come un uomo poco coraggioso o più debole dei suoi predecessori. Tendenzialmente l’opinione pubblica di fronte alla decisione papale è stata piuttosto contrariata, silenziosa, preoccupata, eccetto qualche settore. Perché il papa lascia?, è stata la domanda ricorrente. C’è stato un certo spaesamento per chi, più vicino alla Chiesa o osservatore più lontano, considerava il papa un punto di riferimento nella crisi del nostro tempo: anche il papato vacilla? Nella trasmissione della notizia si arriva poi ad amplificazioni caricaturali, anche se si tratta di fenomeni marginali ma di qualche significato: in alcuni paesi africani circola la voce che papa Ratzinger abbia lasciato la Chiesa cattolica per protesta, facendosi neoprotestante o addirittura musulmano. Sono amplificazioni ridicole, ma rivelatrici dello spaesamento. Del resto non sembra che ovunque i vescovi o i responsabili ecclesiali abbiano avuto la capacità di spiegare alla gente l’avvenimento della rinuncia papale: sono rimasti sorpresi loro stessi di fronte a un evento a cui non erano preparati e spesso hanno utilizzato parole generiche. Non era certo facile da spiegare, perché l’evento si presentava totalmente nuovo nella lunga storia cattolica e totalmente inaspettato. Non siamo ancora in grado di valutare l’impatto della decisione del papa sui cattolici del mondo intero, anche perché gli eventi successivi e l’elezione di papa Francesco hanno cancellato i sentimenti dei giorni delle dimissioni. Di certo, con una scelta inedita, Benedetto XVI si è esposto al giudizio di tutti, cattolici e non. Lui, il maestro della Chiesa cattolica, nel volgere di qualche giorno si è sottoposto al vaglio non solo dei media, ma anche dei singoli, sorpresi del suo atto: è divenuto una sorta di imputato, ma al contempo è stato considerato vittima di un sistema ecclesiastico più forte di lui. Le parole dedicate dal papa alla spiegazione di questa sua decisione sono state chiare, ma non molte. È emersa l’umiltà di papa Ratzinger che non si è difeso di fronte a un’opinione pubblica perplessa. Certo non sono mancate le manifestazioni d’affetto, ma al fondo c’erano dubbi e incertezze, anche tra le personalità ecclesiastiche e gli stessi cardinali. È indubbio che, nel complesso, questo atto inaspettato è sembrato confermare l’immagine di una Chiesa in crisi. Nel passaggio di pontificato del 2013, non c’è stato un lutto, come accade ogni volta che il papa si spegne (si ricordi il grande dolore corale per la morte di Giovanni Paolo II). Il lutto univa il popolo cristiano e dal dolore nasceva l’attesa di un nuovo papa con uno slancio di speranza. Nel lutto maturava anche l’attesa di un futuro migliore per la Chiesa. In questo passaggio di pontificato, segnato dalle dimissioni, c’è stato piuttosto silenzio, quasi la muta sensazione che la Chiesa fosse anch’essa un po’ dimissionaria, come il papa. Una Chiesa in crisi I cattolici seguono i media e recepiscono l’immagine di crisi della Chiesa riproposta costantemente. Per i più ci sono tanti elementi che ne mostrano la crisi profonda. Sono gli scandali più recenti in Vaticano, così come quelli più remoti legati alle vicende della pedofilia. Questo senso di crisi viene quasi personificato nella figura del papa dimissionario. In fondo la realtà della Chiesa appare irreformabile, almeno per le forze di un pontefice. La rinuncia di papa Benedetto, che i media hanno considerato un uomo onesto, sarebbe la definitiva conferma di una crisi che taluni hanno considerato gravissima. Un senso autunnale di declino e di grigiore (che covava nelle coscienze e nei pensieri di tanti) ha trovato l’occasione di esprimersi con le dimissioni. Del resto la Chiesa cattolica, non solo in Occidente ma anche in America Latina (si pensi alla perdita costante dei fedeli cattolici in Brasile a favore delle comunità neoprotestanti), appare in grave difficoltà: forse ingrigita come i capelli della maggioranza delle persone che frequentano le sue liturgie domenicali in Occidente (mentre i giovani sono più lontani, come denunciano gli stessi vescovi). È la Chiesa degli scandali, ma soprattutto della scarsa rilevanza nella società. È anche la Chiesa che vede diminuire il numero dei suoi fedeli per la secolarizzazione. Lo studioso potrà ridimensionare queste affermazioni confrontandole con altre stagioni storiche, ma è difficile negare che il sentire generale abbia la percezione di un declino della Chiesa. Un attento osservatore delle cose vaticane, Massimo Franco, ha dedicato alla perdita di peso della Chiesa in Occidente un libro dal titolo significativo: C’era una volta un Vaticano. L’autore inizia la sua esposizione con alcune affermazioni che molti condividono: Fa un po’ effetto vedere un Vaticano in affanno. È come se vacillasse un punto di riferimento certo, sia per chi lo ammira sia per chi lo avversa. Eppure si tratta di una novità con la quale bisogna cominciare a fare i conti. Da tempo, ormai, si percepiscono il difetto di governo, una confusione crescente e perfino conflitti pubblici fra cardinali. Si ha l’impressione di assistere a un larvato ridimensionamento del profilo internazionale della Santa Sede e, come conseguenza degli scandali sugli abusi sessuali, al tentativo di colpire la sua credibilità morale. 21 La poca credibilità del Vaticano si intreccia con la crisi della Chiesa alla base, con la disaffezione dei fedeli, espressa dal calo della pratica religiosa e dalla secolarizzazione, fenomeni che vengono da lontano. L’affermazione della modernità è stata accompagnata dalla riduzione dello spazio della Chiesa, considerata una realtà del passato inevitabilmente superata dal progresso della società. Il declino della Chiesa e la sua irrilevanza sono i sintomi del superamento del cristianesimo e della religione in una concezione della vita più positiva e razionale. La crescente secolarizzazione occidentale degli ultimi decenni ne sarebbe una prova evidente. Insomma con lo sviluppo della modernità (in tutte le sue differenti versioni), si sarebbe verificato un ridimensionamento del cristianesimo, quasi che la legge della storia fosse: più modernità, meno religione. Il pensiero di Auguste Comte, quello della legge dei tre stati (stato teologico, metafisico e scientifico o positivo), in qualche misura, fa da sfondo al comune sentire del nostro tempo, anche se nell’inconsapevolezza dei più: l’età positiva, attraverso la scienza, è l’approdo di un pensiero maturo e della pienezza della modernità. Secondo Comte «la teologia si spegnerà necessariamente davanti alla fisica». 22 Il declino della religione sembra scritto in profondità nei cromosomi dell’età moderna. La crisi del Vaticano e della Chiesa cattolica non sarebbero che conferme di questa convinzione largamente condivisa. Bisogna dire però che gli ultimi decenni del Novecento sembravano aver smentito la teoria dell’inevitabile declino della religione con l’avanzata della modernità. È quella revanche de Dieu di cui ha parlato Gilles Kepel, incarnata dalla ripresa del ruolo pubblico delle religioni, come nel caso dell’islamismo. 23 Si è riscoperto, anche in un contesto di secolarizzazione, il bisogno di spiritualità e di religiosità della società moderna. Nello stesso cristianesimo novecentesco si è assistito alla straordinaria crescita del mondo carismatico e neoprotestante, che ha portato questo variegato insieme di comunità alla soglia di quasi cinquecento milioni di fedeli. 24 Tuttavia il neoprotestantesimo e il pentecostalismo rappresentano un cristianesimo «nuovo» rispetto a quello strutturato della Chiesa cattolica. Come molti studiosi osservano, il cristianesimo neoprotestante ha trovato terreno fertile nella crescita della cultura globale, spesso in nazioni periferiche o semiperiferiche; si è invece scarsamente affermato in Europa, se non tra gli immigrati. 25 Nello spaesamento umano introdotto dalla globalizzazione ha dato l’opportunità di partecipare a comunità «calde», che offrono un orizzonte di speranza, che a volte coincide con la promessa di cambiamenti nella propria situazione personale a breve termine. Tra ineluttabile secolarizzazione e affermazione delle nuove identità religiose, il declino del cattolicesimo sembra un inevitabile portato dei tempi. Un piccolo segnale è che le stesse offerte dei fedeli al papa nel corso del 2012 hanno registrato un calo del 5,4 per cento (non spiegabile solo con la crisi economica). Così le dimissioni di papa Benedetto sono apparse il simbolo della crisi della Chiesa, anzi quasi la sua somatizzazione e personificazione. Il cattolicesimo sembrava avvolto da una spirale di inesorabile declino. II La sorpresa Il bisogno della profezia Nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, il cattolicesimo sembrava esprimere una forte vitalità. I suoi funerali erano stati una manifestazione di attaccamento alla Chiesa e al suo capo. I grandi del mondo erano venuti a Roma per rendere un omaggio a questa decisiva figura del Novecento. Giovanni Paolo II è stato un papa che ha cambiato la storia favorendo la caduta del Muro, ma ha anche realizzato un rapporto di forte simpatia pastorale e umana con tante singole persone e con interi popoli. Il cattolicesimo, dopo gli anni di difficoltà postconciliari, aveva rivelato grandi energie e non solo nell’Est europeo, dove aveva esercitato una funzione storica. Eppure questa condizione felice si era incrinata nel volgere di qualche anno. La responsabilità poteva essere attribuita al governo di papa Ratzinger? Per taluni osservatori la forte personalità di papa Wojtyła avrebbe coperto i grandi problemi irrisolti della Chiesa cattolica. Era l’accusa che il noto teologo svizzero Hans Küng aveva lanciato, giudicando molto criticamente il pontificato di Giovanni Paolo II. Questi avrebbe governato in modo trionfalistico, senza affrontare le grandi questioni esistenti tra Chiesa e mondo moderno, all’origine della recessione cattolica. 1 Come spiegare la crisi della Chiesa? Gli anni di papa Wojtyła non sarebbero stati che una parentesi (ma che lunga parentesi!) o un occultamento trionfale dei problemi. Talvolta la storia o la sociologia non sono gli strumenti migliori o gli unici per penetrare in profondità situazioni così complesse. Qualche volta l’intuizione della poesia va più a fondo. Padre David Maria Turoldo, un religioso e poeta italiano di fine sensibilità, che aveva vissuto una stagione di grande speranza con Giovanni XXIII e il Vaticano II, scrive negli anni Ottanta una poesia dedicata a un monaco camaldolese, Benedetto Calati, studioso di Gregorio Magno, in cui evoca lo stato d’animo di quei momenti: … è notte fratello! Una grande notte incombe sulla Chiesa. Il Concilio, uno scialo di speranze. Sempre più rara, dovunque, la Parola; mentre di inutili parole, a ondate, rimbomba il mondo. Non un profeta che alzi il vessillo della salvezza; gli uccisi della pace sono subito tutti uccisi: tutta la terra è un arsenale di morte. Nel denso smarrimento, che almeno sopravviva la nostra amicizia: questo evento salvatore di essere amici in tanto deserto… 2 Le parole di Turoldo sembrano venate di pessimismo. Sono forse espressione di una generazione che ha creduto nel Concilio, ma poi ha faticato a saldare le proprie attese agli anni di Giovanni Paolo II: qui allora avviene lo «scialo di speranze». Ma, forse, c’è qualcosa di più che va al di là di quel determinato periodo: quasi la percezione che la «profezia» della Chiesa si sia spenta, tanto da affermare «non un profeta che alzi il vessillo/ della salvezza…». È vero che, negli anni dopo il Concilio, il termine profeta è stato molto usato e forse abusato: tutto doveva essere profetico, atti, gesti, prese di posizione… Si conoscono le contraddizioni di questa vicenda, tra cui la politicizzazione della fede e l’ideologizzazione della vita ecclesiale. Eppure – come dice Turoldo in un altro verso di questa poesia – ci vuole sempre una nuova energia per dare speranza al mondo: … componiamo nuovi cantici: perché la terra torni a sperare. Nella Chiesa si è vissuta e forse si vive ancora una crisi di speranza. Non va trascurato un elemento importante, come la prossimità tra la crisi della Chiesa e quella dell’Europa, le cui speranze sono davvero ridotte. Il declino demografico e politico dell’Europa, di fronte all’emersione dei giganti asiatici, come l’India e la Cina, ma anche di altri nuovi paesi emergenti, è sotto gli occhi di tutti. A questo si aggiunge la grande difficoltà di creare un’Europa davvero unita politicamente, anche se federale. 3 Nei nostri paesi europei, a partire dall’Italia, si respira aria di declino, soprattutto mancanza di energia creatrice. Questo clima non può non intrecciarsi con la vita della più antica istituzione del continente, la Chiesa cattolica. Turoldo parla di ricerca di una profezia cristiana, perché la terra torni a sperare. Certamente il profetismo è stato inteso anche in modo equivoco negli anni del postconcilio. Si deve notare però come lo spirito profetico porti un pathos nella comunicazione delle parole e delle esperienze di fede, che appare necessario. Si è molto scritto che il problema attuale della Chiesa è la comunicazione. Ma se si riducono i problemi della Chiesa ai rapporti, pur importantissimi, con i media, si fa un ragionamento ristretto. La comunicazione è qualcosa di più per i cristiani che l’uso dei mezzi di comunicazione. Paolo VI nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, nel 1964, quando intendeva annunciare il clima nuovo del Vaticano II, fece un’importante affermazione: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». 4 La Chiesa vive nel colloquio con il mondo. La sua convinzione è quella «di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositaria, nella circolazione dell’umano discorso». La parola della Chiesa vive quindi nella circolazione dell’«umano discorso». 5 Questa è la Chiesa del Concilio. La profezia può essere intesa proprio nel senso che il Vangelo circola nuovamente nell’«umano discorso». Non è qualcosa di enfatico o di divinatorio, come ammonisce Karl Barth, per cui non c’è profeta cristiano senza un radicamento decisivo nell’insegnamento di Gesù: Nessun uomo annunzia la volontà di Dio, se non è in funzione di Cristo, che è il solo vero profeta. Non si tratta dunque da parte nostra di immaginarci di essere «profeti» liberi. La nostra partecipazione alla profezia è quella di essere scolari nella casa di Dio. 6 Ricordo con quale forza un discepolo di Barth, il pastore valdese Valdo Vinay, affermasse negli anni Settanta, un tempo di turbolenze che si proponevano come profetiche, che i profeti sono predicatori di Cristo e che Cristo è l’unico vero profeta. Un grande teologo, Yves Congar, in un libro sulla riforma della Chiesa, pubblicato negli anni Cinquanta, parla dei profeti e del profetismo, mettendo in luce come i profeti non solo anticipano il senso degli avvenimenti, ma li connettono al regno di Dio. Per Congar il profeta è «pure colui che conferisce al movimento del tempo il suo vero rapporto al disegno di Dio»: «Il profeta apre continuamente il popolo di Dio al suo sviluppo…». 7 Il profeta predica la parola di Dio, ma legge anche il proprio tempo e lo apre alla dimensione futura. Gérard Bessière, in un libro di qualche anno fa, traccia un ritratto dei profeti: «Sono uomini liberi, radicati in Dio e in vasta umanità. Pastori dell’umana transumanza, vivono al largo e respirano il soffio dello Spirito. Questi esseri d’incandescenza vedono così profondamente nel loro tempo che talvolta sembrano mettere a nudo l’avvenire. Lacerano l’orizzonte. Infastidiscono, con una insopportabile lucidità, gli uomini che vivono in superficie…». 8 La mancanza di senso profetico si può riscontrare nella vita della Chiesa: da qui forse la fatica a compiere quell’«umana transumanza» necessaria per avanzare nella storia. Non ha torto Turoldo quando nota come manchi la profezia «perché la terra torni a sperare». La profezia si connette al pathos: i profeti comunicano agli uomini e alle donne del loro tempo il «pathos divino». Ne ha trattato, tra gli altri, con forte convinzione il grande studioso ebraico Abraham Heschel, un maestro sul profetismo d’Israele: «il pathos significa che Dio non è mai neutrale…». 9 Per questo grande studioso, il profeta condivide il pathos di Dio e ne fa partecipi altre persone. Riguardo al senso di crisi della Chiesa, non tutto si può spiegare con il governo o con le carenze di comunicazione mediatica. È un giudizio riduttivo, che non tiene conto della profondità della vicenda ecclesiale. In realtà c’è anche tra i fedeli una domanda di pathos nella comunicazione della fede, di simpatia verso la condizione umana, che rivela l’attutirsi della dimensione profetica nella Chiesa. Il grido e l’invocazione di un poeta Turoldo sperava in un ritorno dello spirito di profezia. Abbiamo visto come il profeta, portatore del pathos di Dio, manifesti la simpatia di Dio verso gli uomini. Non bisogna esagerare, ma è emerso nella crisi qualcosa che era nel profondo del popolo cristiano un po’ ingrigito, senza una chiara prospettiva per il futuro. Le dimissioni di Benedetto sono state un evento che ha fatto misurare uno stato d’animo collettivo. Padre David Maria Turoldo, in un’altra stagione storica, aveva espresso un’invocazione dai toni lirici libera dall’esigenza di dimostrare razionalmente quello che si scrive: Restituiscimi all’infanzia, Signore, fa’ che ritorni fanciullo, al sapore vero delle cose, al gusto del pane e dell’acqua. Il tempo ha limitato i sensi fino a renderli impassibili. Signore, salvami dall’indifferenza, da questa anonimia di uomo adulto. È il male di cui soffriamo senza averne coscienza … Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa senilità dello spirito. Ridonaci la capacità di piangere e di gioire; fa’ che il popolo ritorni a cantare nelle tue chiese. 10 Se ci si sofferma, seppur rapidamente, sulle parole del poeta, si nota come partano dalla constatazione della perdita dello spirito d’infanzia nei cristiani: questo fenomeno ha reso i credenti – o l’io del poeta? O il noi di chi si immedesima? – indifferenti, abitati da poca fede e da poca poesia. È una condizione di senilità dello spirito, che tinge di grigio la vita. La senilità si risolve nella mancanza di empatia della Chiesa, che non sa piangere e gioire con gli altri (si ricordi invece l’incipit della Gaudium et spes, la costituzione conciliare sui rapporti con il mondo moderno, per cui le angosce, le gioie e le speranze dell’umanità sono quelle della Chiesa). Una Chiesa senile non sa più cantare nelle chiese. La poesia di Turoldo è in realtà una preghiera a Dio per essere liberati dal grigiore e dalla senilità dello spirito. Ci si può ritrovare nelle parole di Turoldo o invece respingerle perché non la si pensa in questo modo. Si può far propria o no la preghiera di Turoldo: dipende dal fatto che se ne condividano o meno i sentimenti. Ho sentito di poterla far mia in questa stagione di vita della Chiesa, dicendo: «Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa senilità dello spirito». Seguendo le parole di Turoldo, si può anche dire che l’ingrigimento non si consuma solo tra le mura della Chiesa: «l’indifferenza e l’assenza dello spirito» dice il poeta «sono la causa della nostra schiavitù e della nostra decadenza». L’indifferenza è, per lui, radice delle dittature, che rendono il popolo «appena una turba senza volto»: «allora il bene è uguale al male; il sacro uguale al profano; e l’amore è unicamente piacere, un male il sacrificio…». 11 Nella crisi della società europea c’è una radice spirituale, che va messa in luce. In questo la condizione della Chiesa cattolica, per alcuni aspetti, si intreccia con quella dell’Europa. La radice spirituale della crisi è la mancanza di speranza. Infatti l’Europa, negli ultimi decenni, non crede di poter cambiare se stessa e sa di non riuscire a cambiare il mondo. La crisi economica degli ultimi anni ha spinto gli europei a concentrarsi su se stessi. Forse il ’68, con tutte le sue contraddizioni, è stato l’ultima ventata utopica partita dall’Europa, nella prospettiva del cambiamento. Oggi si tende piuttosto a un atteggiamento di indifferenza e rassegnazione. Non si può cambiare! Non ci sono le risorse economiche; manca il potere; soprattutto non c’è bisogno di farlo. Continua Turoldo: Ora, invece, ho assistito a eventi incalcolabili, a guerre furibonde, alla feroce distruzione di intere città; ho visto milioni di uomini in catene, ho udito il pianto di migliaia e migliaia di innocenti; e il mio cuore non si è neppure indurito, non sono stato capace neppure di una radicale e assoluta condanna per questa storia mostruosa e infernale. 12 La condizione soggettiva dell’uomo e della donna indifferenti (europei o cristiani) porta a rinunciare a sperare in un mondo diverso, ma anche a divenire diversi: «Mi sono invecchiato. Ho accettato la sorte, l’ho chiamata necessità, fatalità; mi sono creato alibi per sentirmi tranquillo. Sono appunto uno tra la moltitudine degli indifferenti». 13 Del resto l’esistenza di una moltitudine di indifferenti non è solo una sensazione soggettiva, ma si rileva anche dall’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte alle grandi tragedie. La seconda metà del Novecento è stata una stagione di viva sensibilità di fronte ai paesi attanagliati dalla guerra: si pensi a come fu seguita la guerra in Vietnam, quale fu la sensibilità di fronte ai boat people, ma anche all’attenzione e all’indignazione davanti all’assedio di Sarajevo o al dramma del Ruanda, solo per fare alcuni esempi. Oggi la terribile guerra in Siria, che sta distruggendo un grande popolo e un meraviglioso paese, non suscita significative reazioni nell’opinione pubblica e si sviluppa in un quadro di generalizzata indifferenza. È una guerra di fronte a cui non si può fare niente: così si dice. L’indifferenza e l’impotenza si mescolano. Se non si può fare niente, allora è meglio non parlarne. L’indifferenza è frutto dell’ingrigimento. Per Turoldo non è solo una condizione un po’ triste e rassegnata, difficile da vivere. È una condizione pericolosa per chi la vive e per il resto del mondo, tanto che scrive: Ora che la comparsa di Cristo non commuove nessuno, non incute riverenza o terrore, ora possono succedere altre più mostruose cose e ognuno direbbe: ah, sì, è comparso il Signore? Ora possiamo ammazzare, rubare, violentare, e tutti continuiamo a dire: è il mondo, è la vita. Ormai siamo uomini senza rimorso e senza peccati. 14 La giovinezza spirituale di un papa anziano Forse le parole del poeta possono apparire eccessive: non è troppo parlare di indifferenza di fronte a grandi dolori e di scomparsa del rimorso e del senso del peccato? Tuttavia colgono in profondità più di tante analisi. Come spazzare via il grigio che rende senili? Anche quando si parla di riforma della Chiesa, i progetti di cambiamento non hanno quel respiro di cui ha bisogno ogni reale riforma ecclesiale – che non sia mero aggiustamento strutturale. Ratzinger ad esempio ha molto insistito sulla necessità previa di una riforma spirituale. 15 Non è facile trovare la via per uscire da una simile situazione di ingrigimento o – secondo altri osservatori – da una condizione di crisi e di declino. Fino a poco tempo fa, non c’era risposta alla domanda su come liberare la Chiesa dalla sua senilità. Si poteva negare con alcuni buoni motivi questa condizione, accusare i media, la loro volontà di svuotare e avvilire la Chiesa, di rimpicciolirla e ridurla ad alcuni fatti marginali o scandalosi. Ed è anche vero che è in atto un processo alla Chiesa e al cristianesimo in Occidente, che viene da lontano e continua ai nostri giorni. 16 In realtà però la Chiesa sembrava realmente ammalata. Anche della stessa malattia dell’Europa, per quell’osmosi che esiste, pur nella distinzione delle vicende. Eppure la Chiesa non conosce se stessa fino in fondo. Il Concilio Vaticano II ha richiamato alla dimensione ineliminabile della Chiesa come mistero. Tuttavia è spesso sembrata un’affermazione importante ma quasi astratta, senza troppa relazione con la vita e con la storia. Lo ha detto anche recentemente papa Francesco: «Forse abbiamo ridotto il nostro parlare del mistero ad una spiegazione razionale». 17 Eppure sono un mistero anche le grandi risorse umane e spirituali di questa Chiesa, quelle della sua comunione, della comunicazione profonda tra le sue parti. 18 Infatti, dopo le dimissioni di papa Benedetto e con l’elezione di Jorge Mario Bergoglio, la comunità ecclesiale ha vissuto una stagione sorprendente. Significativamente, prima del conclave, Bergoglio non è apparso ai media come un papabile. I cardinali hanno discusso a lungo sui bisogni della Chiesa e sul nome del successore di papa Ratzinger. Nelle riunioni prima del conclave sono state espresse molte preoccupazioni, mentre si manifestava la diffusa convinzione di una crisi in corso (e si chiedeva la riforma della Curia romana). Non c’era un candidato che si imponesse in modo forte, quale era stato Ratzinger nel 2005. In un clima di preoccupazione e senza facili vie di uscita, è avvenuta la sorpresa dell’elezione di papa Francesco. È il primo papa gesuita e il primo papa latinoamericano. Ha subito mostrato una carica nuova, giovane, piena di speranza. È stata una sorpresa per i cattolici e per l’opinione pubblica. Ma che cosa era successo? Il papa è apparso nella sua semplicità francescana di fronte alla gente, forte e umile al tempo stesso. Non ha blandito il suo uditorio, anzi è stato asciutto. Non ha ribadito principi. La sua proposta è stata semplice: camminiamo insieme verso il futuro! Ha detto parlando dalla loggia della basilica vaticana: E adesso cominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per questo mondo perché ci sia una grande fratellanza. 19 E poi ha chiesto al popolo di pregare il Signore perché scendesse su di lui la benedizione di Dio. Non c’è vescovo senza popolo. È sembrata l’incarnazione delle parole di sant’Agostino, vescovo di Ippona, nel suo famoso discorso 340 per l’anniversario della sua ordinazione: «Mi consola il fatto di essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico ricevuto, questo della grazia». 20 Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Questo papa si è mostrato fin dall’inizio un cristiano con il suo popolo. Non è retorica ecclesiastica. Come scrisse Hannah Arendt a proposito di Giovanni XXIII, questo papa è «un cristiano sul trono di Pietro». 21 Da dove viene la sorpresa di questo papa, in una Chiesa un po’ intristita e invecchiata? Come è stata possibile questa scelta inaspettata? Bisogna guardare agli elettori del papa. La scelta è venuta da un collegio di cardinali piuttosto vecchi, provenienti da paesi di tutto il mondo (l’età media si aggirava attorno ai 72 anni). 22 I vecchi hanno indicato la via di una Chiesa sorprendente con la scelta di Francesco. Il nuovo papa ha detto nella prima Messa ai cardinali: La metà di noi siamo in età avanzata: la vecchiaia – mi piace dirlo così – è la sede della sapienza della vita. I vecchi hanno la sapienza di aver camminato nella vita, come il vecchio Simeone, la vecchia Anna al Tempio. È proprio quella sapienza che ha fatto loro riconoscere Gesù. Doniamo questa sapienza ai giovani: come il buon vino che, con gli anni, diventa più buono, doniamo ai giovani la sapienza della vita. 23 Sono parole importanti in un mondo che emargina e abbandona al loro destino gli anziani e non crede alla loro funzione: l’ideale diffuso è l’individuo solo, giovane, autosufficiente. La vecchia Chiesa di Roma, con un senato di anziani, ha eletto un uomo che porta un messaggio giovane (il cardinal Bergoglio, che ha 76 anni, peraltro aveva già presentato le sue dimissioni da arcivescovo di Buenos Aires, per aver superato il limite di 75 anni di età imposto a tutti i vescovi). I cardinali hanno mostrato la fecondità della vecchiaia, vissuta come esperienza di umanità aperta al futuro. Papa Francesco – fin dalle prime parole – ha manifestato una ventata di freschezza umana ed evangelica, quasi una risposta al clima di ingrigimento. I temi della vecchiaia e della giovinezza sono apparsi immediatamente legati all’elezione di papa Bergoglio che, fin dal principio, ha suscitato molto consenso tra la gente. Un vecchio papa ha manifestato subito una grande freschezza, anzi la giovinezza della Chiesa. Un teologo e vescovo, Bruno Forte, ha richiamato le parole di Giovanni Crisostomo per illustrare la sorpresa del Conclave: la Chiesa è «più alta del cielo e più grande della terra, e non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna». 24 Il cardinale Newman, parlando della seconda primavera della Chiesa, diceva: «Il mondo invecchia: la Chiesa è sempre giovane…». 25 Il problema della Chiesa «ingrigita» non è la presenza dei vecchi, ma l’assenza di speranza, insomma il cedimento al pessimismo. Il pessimismo è la paura dei vecchi o dei meno vecchi di essere visti invecchiati: è il timore di non riuscire a forgiare il futuro, ma di dover spasmodicamente allungare il presente. Giuseppe De Rita ha sostenuto che, se il tempo non è abitato dalla storia, questo diventa vuoto, anzi vecchio. Vivere la vita come storia non fa sentire il tempo pesante. 26 E la storia è senso del futuro, ma anche un insieme di rapporti, prospettive, obiettivi da raggiungere. Con l’elezione di un papa anziano, la Chiesa ha compiuto un atto di giovinezza spirituale: ha mostrato come un uomo considerato al di là dell’età pensionabile possa ancora essere molto utile a guidarla sulla via del futuro. È un’espressione della differenza della Chiesa dalla società che abbandona gli anziani o li disprezza. Bisognerebbe che la Chiesa assumesse più coscienza della propria diversità anche a questo livello. Colpisce molto vedere la sensibilità di Bergoglio al dolore degli anziani: ad esempio parla di «eutanasia nascosta, ossia la scarsa attenzione agli anziani negli ospedali e nelle strutture assistenziali, che non prestano loro le cure mediche e l’assistenza di cui hanno bisogno». 27 Ma perché il disprezzo della vita dell’anziano è divenuto oggi una pratica costante? Bergoglio risponde con lucidità: «Quando crediamo che la storia abbia inizio con noi, cominciamo a non rendere onore all’anziano». 28 Questo è il grande problema umano del nostro tempo: la riduzione della storia a me, che fa dimenticare chi mi ha preceduto nella vita, ma anche chi mi accompagna nel presente, come sono gli anziani. Si tratta di un insieme di egocentrismo e – vorrei dire – di «presentismo». Più che di riduzione della storia, alla fine, si dovrebbe infatti parlare di morte della storia nella sua dimensione primigenia che è la fine della storia familiare. Giovinezza e vecchiaia si intrecciano nella vita della Chiesa dei primi mesi del 2013. Benedetto XVI si dimette perché anziano; ma un papa anziano rende la Chiesa più giovane. Questi sono i passaggi attraverso cui è maturata la sorpresa del marzo 2013, che ha generato un significativo cambiamento nella Chiesa cattolica. Che cosa è successo? Ma è possibile che in pochi mesi tutti i problemi siano stati risolti? Il nuovo papa ha convocato una commissione di cardinali per discutere di riforme della Curia; quindi ha ammesso che esistono problemi reali. È innegabile, ma qualcosa è già cambiato in profondità. Lo si coglie molto bene già dai primi mesi del 2013. Non si tratta solo di un gioco dei media che, oggi, guardano la Chiesa in modo più favorevole. Come è possibile che una realtà giudicata in drammatico declino sia oggi considerata positivamente? Che cosa è successo? Non si può attribuire a Benedetto XVI la responsabilità della crisi della Chiesa e al cambio di pontificato la sua soluzione. Sarebbe un facile gioco di specchi. Anzi bisogna dar atto a Ratzinger di aver avuto un grande coraggio nell’affrontare i problemi e nel ritirarsi, presagendo che ci voleva un nuovo papa – con rinnovate energie – per dar vita a una condizione diversa, consapevole di non avere le forze fisiche per realizzarla. La storia metterà in luce il valore del suo pontificato. Restano naturalmente tanti problemi aperti. Né si deve credere che il nuovo papa, in un batter d’occhio, potrà risolverli. Sono questioni importanti, ma la sfida è ben più profonda: una comunicazione rinnovata e appassionata del Vangelo. Per meglio comprendere i primi tempi del pontificato di papa Francesco bisogna riandare a quelli di Giovanni XXIII, senza forzati parallelismi tra due uomini diversi. Monsignor Capovilla, segretario di papa Giovanni, scrive di lui: «Egli, il vecchio, senza traumi e forzature seppe invece prendere la velocità della nostra epoca e rimettere più accentuatamente in circolazione il linguaggio di Cristo». 29 Così non solo i cattolici, ma i cristiani e i non credenti cominciarono a chiedersi: «Cosa dice di straordinario quest’uomo?». E, mentre se lo chiedevano, si ritrovarono «quasi inavvertitamente con gli occhi umidi e pieni di commozione…» conclude il segretario. 30 Giovanni XXIII – nota Capovilla – parlava di cose semplici: amore, perdono, ricerca dell’unità, osservanza della legge di Dio. Ma qualcosa era successo: si rimetteva in circolazione «il linguaggio di Cristo». Questo è il fatto decisivo avvenuto nella comunità dei credenti e fuori dalle sue ampie e complesse frontiere. Che cosa è successo con papa Francesco? Si è stabilito un rapporto nuovo tra il papa e il popolo cristiano. Non è solo qualcosa di mediatico. Si è realizzata una «simpatia» profonda. Questa simpatia non è qualcosa di accessorio o sentimentale. Scrive Eugenio Lecaldano, in un libro dedicato alla Simpatia: «Non è in se stessa un’emozione o un sentimento: in realtà provare simpatia non significa sentire un contenuto emotivo specifico, ma si prova simpatia solo in quanto si riesce a partecipare e sentire i contenuti emotivi e affettivi, negativi o positivi, della persona con cui si simpatizza». 31 Amartya Sen, il grande economista indiano, sostiene che, nel mondo globalizzato, solo un allargamento dei sentimenti di simpatia può portare ad affrontare le nuove e grandi difficoltà che si presentano, come le immense distanze che si stabiliscono tra le persone e tra le comunità. 32 La globalizzazione richiede quasi di essere riempita di maggior simpatia. La simpatia è decisiva nella vita della Chiesa nel mondo. Nel primo ritratto che gli Atti degli Apostoli fanno della comunità cristiana di Gerusalemme, si scrive che i cristiani godevano «il favore di tutto il popolo» (2,47). La vecchia traduzione italiana della Bibbia parlava, con più efficacia, della «simpatia di tutto il popolo». Nell’originale greco del Nuovo Testamento si trova la parola káris, che significa grazia: quei primi cristiani erano nelle grazie di tutto il popolo. Quella simpatia non era il frutto di un cedimento al mondo, tanto che gli apostoli furono perseguitati, il diacono Stefano fu ucciso e «scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme» (Atti 8,1). La simpatia di quella comunità è simile a quella dei profeti d’Israele. Abraham Heschel, che ha studiato il messaggio dei profeti, ne parla come di «una religione della simpatia» (nel senso di provare pathos per qualcuno). Quando il divino è percepito come misteriosa perfezione, la risposta è timore e tremore; quando viene percepito come volontà assoluta, la risposta è l’obbedienza incondizionata; quando è percepito come pathos, la risposta è la simpatia. 33 Il profeta – dice Heschel – è un «homo sympathetikos»:34 percepisce il pathos di Dio, non memorizza semplicemente il suo messaggio, bensì si lascia scuotere e armonizza la sua vita alla Parola di Dio, coinvolgendo i suoi sentimenti e quelli di chi lo ascolta. L’uomo di Dio non si subordina silenziosamente a Dio, ma si identifica con tutto il cuore e con tutta la mente nel messaggio di Dio: «Essere profeta» conclude «significa identificare la propria sollecitudine con quella di Dio». 35 La simpatia tocca prima di tutto il rapporto dell’uomo con Dio, ma si allarga verso tutti gli altri. Scrive Heschel: Simpatia è uno stato d’animo nel quale la persona è aperta alla presenza di un altro. È un sentimento che percepisce il sentimento cui reagisce: l’opposto della solitudine emotiva: nella simpatia profetica l’uomo è aperto alla presenza e all’emozione del Soggetto trascendente. Reca dentro di sé la coscienza di ciò che sta accadendo a Dio. Per questo la simpatia ha una struttura dialogica. 36 La simpatia verso Dio (prima di tutto) diventa nei profeti un atteggiamento costante, non un sentimento passeggero o un’estasi: è un amore che permea la vita del profeta e lo porta a Dio. L’uomo simpatetico con Dio si interessa del mondo, perché il mondo si apra ed entri nel pathos (in tutte le sue gradazioni, dall’ira alla tenerezza) che Dio ha per l’umanità. «La simpatia apre l’uomo a Dio» conclude Heschel: «Ma se non ne condividiamo la sollecitudine [per gli uomini], non sappiamo niente del Dio vivente». 37 Il profeta, secondo Heschel, non si definisce per la ragionevolezza del suo messaggio, ma perché il pathos di Dio lo ha profondamente coinvolto, anzi gli ha toccato il cuore (che, come è noto, per la Bibbia è il centro della persona). Papa Bergoglio, fin dall’inizio, ha mostrato di essere un uomo coinvolto nel pathos di Dio, capace di manifestare questa realtà in una simpatia comunicativa e, vorrei dire, profetica. Lo stesso papa, in un suo libro, che raccoglie testi di esercizi spirituali, ha scritto: «Un’altra tentazione è privilegiare i valori del cervello rispetto a quelli del cuore. Non dimentichiamolo mai: solo il cuore unisce e integra. La comprensione senza il sentire compassionevole tende a dividere. Il cuore coniuga l’idea con la realtà, il tempo con lo spazio, la vita con la morte e l’eternità». 38 Il messaggio di Francesco appare, a chi lo ascolta, qualcosa che sgorga dal cuore e che parla al cuore, unendo e integrando. Il suo sentire ha creato una nuova comunicazione con la gente. Questa è la realtà che appare agli occhi di tutti. Il cardinal Bergoglio, dopo la sua elezione, ha risposto con queste parole alla domanda rivoltagli «Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem?»: «Sono peccatore e ne ho coscienza, ma ho una grande fiducia nella misericordia di Dio. Poiché voi mi avete eletto o, piuttosto, perché Dio mi ha scelto, io accetto». Poi è seguita un’altra domanda: «Quo nomine vis vocari?». «Vocabor Franciscus»: mi chiamerò Francesco, così ha detto il cardinal Bergoglio, facendo allusione al santo di Assisi. Francesco non figura nella lunga lista dei papi di Roma, non è un nome tradizionalmente papale. Anzi tutti i papi del secondo millennio hanno preso i nomi già usati in passato da altri pontefici, mai nuovi, con l’eccezione di papa Luciani che ha unito quelli di Giovanni e di Paolo. Volevano sottolineare la continuità e la tradizione. Bergoglio ha invece comunicato qualcosa di nuovo e di antico. Francesco è un nome che suona come un programma, quello del Vangelo per le strade, amico dei poveri in una Chiesa povera, amica di Cristo e della gente. Francesco è nome della semplicità. Il papa ha un nome da persona comune, non aulico o papale. Francesco d’Assisi, un uomo totalmente immerso in Dio, l’alter Christus, era segnato dalla radicalità evangelica e dall’immedesimazione in Gesù, grande amore della sua vita. Ma Francesco è anche l’uomo della «cortesia»: «generoso e cortese» lo definisce la Leggenda dei Tre Compagni. 39 La sua cortesia non è la virtù dei ceti alti medievali, ma l’immedesimazione in Dio. Egli infatti diceva: «Sappi, frate carissimo, che la cortesia è una delle proprietà di Dio, il quale dà il suo sole e la sua pioggia ai giusti e agli ingiusti; e la cortesia è sirocchia della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore». 40 Il Dio di Francesco è cortese e il suo discepolo diventa mite, accogliente, buono, compassionevole, discreto… 41 La rivoluzione francescana, nella vita della Chiesa del Duecento, ha significato un Vangelo che ritorna amico degli uomini, per le strade, umano e vicino. Il Vangelo sine glossa, senza aggiunte, predicato con semplicità, cambia in profondità la vita degli uomini e delle donne, quindi anche la cultura e le abitudini della società. Non è una riforma politica, ma è socialmente incisivo, proprio perché semplice e personale. Ancora oggi, in tanta parte del mondo cattolico, magari solo come prima impressione, il nome di Francesco risuona come un messaggio di richiamo al Vangelo puro. Che cosa è successo con l’elezione di papa Francesco? Il nuovo papa ha immediatamente parlato della misericordia di Dio. Si è rivolto a donne e uomini sotto il peso della crisi economica, inquieti e infragiliti. La misericordia di Dio è larga, ben più di quanto si possa credere. Francesco ha detto: «Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia». 42 Il suo è stato un messaggio di speranza, sensibile all’umanità delle persone. Così ha detto per la Pasqua 2013: Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui. 43 Le parole e le uscite pubbliche di papa Francesco, senza grandi gesti eclatanti, hanno creato una simpatia tra lui e la gente. Lo dimostra l’incredibile afflusso di persone ogni volta che il papa parla a San Pietro o si sposta per Roma e l’Italia o va all’estero. Sembra che la gente ami ascoltarlo, perché si sente coinvolta in una dimensione diversa. È un uomo che non parla di sé, ma di Dio. Anche fuori da Roma o dall’Italia il clima di attenzione al messaggio del papa è intenso. Che cosa è successo con la sua elezione? La Chiesa sembra uscita dal clima di declino. Qualcosa di nuovo può accadere e qualcosa può cambiare nella vita di chi crede. Non è un programma riformista, ma un messaggio fondato su di un Vangelo, che impregna la vita del papa che, appunto, si chiama Francesco. L’attesa si è di nuovo orientata verso la speranza del futuro. Anche i media hanno capito che qualcosa di profondo è successo nella vita della Chiesa. Infatti papa Bergoglio ha detto: «Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita». 44 La simpatia del Concilio Papa Bergoglio non cita molto i testi del Concilio, come talvolta avviene nell’oratoria ecclesiastica dell’ultimo mezzo secolo. Eppure il suo messaggio e il suo stile sono impregnati del Vaticano II. In un commento alle letture della Messa della mattina per un gruppo di fedeli, il papa ha parlato del Concilio: Vogliamo che lo Spirito Santo si assopisca … vogliamo addomesticare lo Spirito Santo … Questa tentazione ancora è di oggi. Un solo esempio: pensiamo al Concilio. Il Concilio è stato un’opera bella dello Spirito Santo. Pensate a papa Giovanni. Sembrava un parroco buono e lui è stato obbediente allo Spirito Santo e ha fatto quello. Ma dopo cinquanta anni, abbiamo fatto tutto quello che lo Spirito Santo ci ha detto nel Concilio? No. Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. 45 Così ha concluso parlando della resistenza dei cristiani allo Spirito Santo: Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore. Succede lo stesso anche nella nostra vita personale. Infatti lo Spirito ci spinge a prendere una strada più evangelica. 46 Abbiamo fatto tutto quello che lo Spirito Santo ci ha detto nel Concilio?, si chiede il papa. Leggendo alcuni suoi testi, si ha la sensazione che per lui il Concilio sia un appuntamento decisivo per la vita della Chiesa e per lui stesso. Il Vaticano II non è per Francesco una bandiera progressista da sventolare contro il conservatorismo della Chiesa, magari notando come i suoi orientamenti non siano stati recepiti nei decenni postconciliari. Non c’è in lui, d’altra parte, nulla che faccia pensare a una critica al Concilio, come origine della crisi della Chiesa contemporanea. Bisogna pensare che Jorge Bergoglio è entrato in seminario nel 1958, all’inizio del pontificato di papa Giovanni, ed è stato ordinato prete nel 1969, a quattro anni dalla chiusura del Vaticano II. Negli anni difficili della dittatura militare, senza mai essere un cattolico conservatore, non ha condiviso l’identificazione della fede con la lotta politica sia nel senso rivoluzionario sia, tantomeno, in quello della sicurezza nazionale anticomunista. Ha varie volte parlato chiaramente del rischio della ideologizzazione della fede. La sua figura e la sua pastorale sembrano imbevute dello spirito del Concilio. Non che si voglia contrapporre uno spirito del Concilio alla lettera dei suoi testi. Infatti in un importante discorso del 2005, Benedetto XVI ha affermato la necessità di leggere il Concilio in una logica di riforma e di continuità con la tradizione, non come un evento di rottura. 47 Ha inoltre criticato chi sostiene che lo spirito del Concilio, che sarebbe solo parzialmente espresso in testi frutto di compromesso, debba farsi strada con spinte innovatrici e originali. La visione di Benedetto XVI non è diversa da quella dei papi del Concilio e di Giovanni Paolo II. Tuttavia c’è innegabilmente uno spirito del Concilio, che si ritrova nei testi elaborati e nel clima vissuto dai padri conciliari e comunicato alla Chiesa durante e dopo l’evento. In modo molto significativo, Paolo VI, nel discorso di chiusura dell’ultima sessione conciliare, ha affermato: Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità: e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità o di infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento … La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che la unisce a Dio, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé … L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. 48 Paolo VI ha ricordato come nel Concilio, pur nelle tante sfaccettature dei suoi dibattiti e dei suoi testi, ci sia stato un atteggiamento di fondo verso la realtà del mondo contemporaneo: «Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso». Significativamente il papa ha fatto della parabola del buon samaritano il paradigma della spiritualità conciliare, con il suo fermarsi accanto all’uomo mezzo morto sulla via, con il prendersi cura di lui in modo compassionevole e realista, infine con il misurare il proprio cammino non con gli appuntamenti del levita o del sacerdote, ma con il bisogno dell’uomo ferito. 49 Questo non significa identificare la Chiesa con un’opera sociale o una lotta politica. La Chiesa ha un suo spessore proprio. Paolo VI lo aveva già detto nella sua enciclica programmatica, Ecclesiam suam, mostrando come la Chiesa non si identifichi con il mondo, ma si distingua da esso: «Ma questa distinzione non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge». 50 La Chiesa si congiunge con grande simpatia all’umanità, anche se si distingue per il suo messaggio. Questa è la sua missione, che Paolo VI identifica nell’Evangelii nuntiandi, proprio nell’evangelizzazione. 51 È una linea che parte da Giovanni XXIII, esposta proprio nel suo discorso di apertura della prima sessione conciliare. Pur avendo presente i tanti concili che avevano condannato errori ed eresie, papa Giovanni individuò l’orientamento prioritario del Vaticano II, non nella condanna ma nella misericordia: «Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori: spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità». 52 La Chiesa del Concilio, come il samaritano della parabola, usa la medicina della misericordia con l’uomo e la donna contemporanei. Una costituzione, la Gaudium et spes, è interamente dedicata ai rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo. Questo testo (che per alcuni è segnato dall’ottimismo degli anni Sessanta, ma che mantiene oggi la sua validità) si conclude con questa affermazione: i cristiani «niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo». Lo fanno aderendo al Vangelo, uniti ai cercatori di giustizia, convinti che sia «un compito immenso». 53 Al di là del dibattito sul Vaticano II, sulle deformazioni dello spirito del Concilio e del rapporto tra spirito e lettera, l’evento conciliare ha inaugurato un atteggiamento di simpatia verso la gente da parte di una Chiesa nuovamente e più radicalmente centrata sul suo Signore: insomma una Chiesa che ama di più Dio, manifesta con più profondità il suo legame simpatetico con le donne e gli uomini del proprio tempo. Si è equivocato sul Concilio. Lo si è ridotto a una serie di riforme attuate o inattuate, ma il Concilio è qualcosa di più. È un ponte, attraverso cui i cristiani di oggi si collegano alla grande Tradizione che ha nel Vaticano II, un passaggio ineludibile. Ma è anche un fascio di luce che si proietta sul futuro. Il Concilio ha preparato la Chiesa alle grandi sfide della globalizzazione, anzi proprio ad abitare in essa con la sua missione. Giovanni Paolo II ha vissuto tutto lo svolgimento del Vaticano II da padre conciliare e lo ha recepito a Cracovia in modo originale: è stato il papa della recezione del Concilio dopo Paolo VI. Nel suo testamento, mentre guarda al nuovo secolo, il ventunesimo, afferma l’attualità del Vaticano II: «Sono convinto» dice «che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito».54 Papa Bergoglio è un vescovo conciliare: è stato nominato da Giovanni Paolo II in quell’America Latina dov’è stata forte la lotta tra la teologia della liberazione e l’autorità della Chiesa, ma anche tra conservatori e progressisti (anche se i due termini appaiono impropri). 55 Il suo episcopato rappresenta una sintesi creativa che va al di là delle fratture drammatiche del postconcilio, che hanno coinvolto anche l’Argentina. È l’uomo non solo dei documenti conciliari, ma di quella simpatia evangelica che rappresenta tanta parte dello spirito del Concilio. Questo è il papa che, in modo sorprendente, ha voluto il nome di Francesco. Con un papa, una volta eletto, occorre sintonizzarsi, mentre necessitano tempo e spirito attento per cogliere la strada da lui indicata. Talvolta ci vuole tempo, non solo per capire. È un esercizio importante, perché la vita cristiana non è centrata attorno alla propria persona, tutta la Chiesa non si riduce a un piccolo mondo o a se stessi, bensì è un destino comune di un vasto popolo. Con papa Francesco però è scoppiata tra molti una sintonia immediata con la sua persona semplice, forse per il suo nome popolare, per la sua parola forte e chiara. Un papa anziano – come si è detto – ha liberato la Chiesa da un certo senso di decadenza. Questa non è una trovata giornalistica. Qualcosa di analogo avvenne più di mezzo secolo fa, nel 1958, quando dopo Pio XII, un pontefice molto amato (lo si è troppo dimenticato), venne eletto Giovanni XXIII: scoppiò una simpatia immediata che fece dimenticare il predecessore. Giovanni XXIII (anche lui anziano) era il papa buono: in quegli anni di guerra fredda offriva la speranza che il clima cupo e grigio finisse presto. 56 Il termine coniato fu «primavera» della Chiesa, che poi ritorna nelle immagini usate durante il Concilio Vaticano II. Atenagora, patriarca di Costantinopoli, disse: «venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni». 57 Che cosa è successo nel 2013 nel mezzo di una Chiesa giudicata declinante? È venuto un papa che si chiama Francesco… Liberi di sperare Era diffuso un forte pessimismo sul futuro della Chiesa, come si è detto. A questo pessimismo corrispondeva un diverso ma parallelo giudizio piuttosto negativo della Chiesa nei confronti della società. Era riapparsa anche quella lettura della realtà contemporanea che il Concilio e lo stesso Giovanni Paolo II non avevano alimentato: le nostre società europee si stavano allontanando profondamente dalla fede e dai modelli di vita cristiani, mentre nel grande Sud prevalevano le sette e soprattutto l’islam. Il cristianesimo era sotto scacco nel mondo: bisognava resistere. Ma era una resistenza generalmente vissuta come un rallentamento del processo di secolarizzazione considerato ineliminabile. I temi bioetici, le manipolazioni sull’uomo, quelli riguardanti una concezione della famiglia contraria a quella della Chiesa, sono alcuni aspetti del dibattito. Sembrava questa l’ultima trincea di una Chiesa che faceva fatica a essere un polo di attrazione nella società. La critica progressista – si pensi al riferimento più anziano e autorevole in Europa e non solo, Hans Küng – insisteva sul fatto che la Chiesa era in declino perché aveva perso tutti gli appuntamenti per aggiornarsi alla modernità, cambiando le sue strutture, l’etica sessuale, il sistema di autorità. 58 Ma la storia del declino di varie Chiese evangeliche europee e di quella anglicana mostra che, adattandosi, non si esce dalla spirale negativa. 59 Giovanni Paolo II aveva risposto che la Chiesa non diventava attuale attraverso l’adattamento. L’attualità della Chiesa è infatti la fedeltà alla comunicazione del Vangelo in un rapporto vivo con le donne e gli uomini contemporanei. Nei primi anni del XXI secolo, anche con l’affievolirsi dell’azione di papa Wojtyła, la Chiesa complessivamente (quindi con diversità, eccezioni, misure differenti) rischiava di scivolare verso un atteggiamento difensivo, venato da un inconfessato pessimismo sul proprio futuro e soprattutto sulla realtà del mondo. Il pontificato di Benedetto in realtà portava a ben altra scelta, concentrato com’era su un approfondimento spirituale e sul tentativo di un dialogo con la ragione occidentale. 60 Quella della Chiesa era una condizione dovuta a molti fattori convergenti, come uno stato dei tempi, una nuova caratterizzazione del mondo contemporaneo, il sentire europeo... In questa prospettiva, papa Francesco ha marcato una rottura con i due pessimismi che caratterizzano l’inizio di secolo: sulla Chiesa e sulla storia umana. Questo atteggiamento non nasce da un’ingenuità. Bergoglio è consapevole delle ambiguità del presente. Lo si è visto dall’impegno con cui si è posto nella società argentina, contrastando alcune scelte etiche e legislative, e intervenendo conseguentemente. Sull’aborto, ha affermato: «Abortire equivale a uccidere chi non ha modo di difendersi». Si tratta di «un genocidio quotidiano, silenzioso e protetto». 61 Ha poi parlato dell’aborto nel quadro della cultura della morte, quella che è alla base dell’eutanasia e dell’eutanasia nascosta che si mette in atto facendo mancare le cure necessarie agli anziani. La lotta all’aborto – ha affermato – «la pongo all’interno della battaglia in favore della vita dal concepimento fino a una morte degna e naturale». 62 La Chiesa, per Bergoglio, ha diritto di parlare sulla vita: A volte il ministro religioso richiama l’attenzione su certi punti della vita privata o pubblica perché è la guida dei fedeli. Non ha il diritto di intromettersi nella vita privata di nessuno, certo. Se nella creazione Dio ha corso il rischio di renderci liberi, chi sono io per intromettermi? Condanniamo l’eccesso di pressione spirituale, che si verifica quando un ministro impone le direttive, la condotta da seguire, in modo da privare l’altro della sua libertà. Dio ci ha lasciato addirittura la libertà di peccare. 63 Sui temi etici e familiari, sul matrimonio gay e l’adozione dei bambini da parte delle coppie gay, Bergoglio è convinto che la Chiesa «ha diritto di esprimere la propria opinione poiché è al servizio della gente»: «se uno mi chiede un consiglio, ho il diritto di darglielo» conclude. 64 Si ritrova nel cardinale argentino una posizione un poco diversa da quella del suo confratello gesuita, il cardinale Carlo Maria Martini (che, pure, lui riconosce come uno dei più grandi scrittori spirituali del Novecento). Martini sentiva la Chiesa «in ritardo» rispetto alla cultura del mondo e agli appuntamenti della storia. 65 La visione di Bergoglio, pur piena di speranza sul futuro, sente la forza del male. Il male e il peccato esistono. Sottovalutarli è la grande tentazione dei contemporanei: «Credo nell’esistenza del Demonio. Forse il suo maggior successo» ha detto «in questi tempi è stato farci credere che non esiste, che tutto possa essere risolto su un piano meramente umano». 66 Ma parlare della presenza del signore del male non è demonizzare gli uomini: «una cosa è il Demonio, un’altra è demonizzare le cose o le persone. L’uomo viene tentato, ma non per questo bisogna demonizzarlo». 67 Questo realismo biblico è ben lontano dal pessimismo sul destino delle persone. La vita degli uomini e delle donne non è prigioniera del male. La Chiesa non è condannata ad assistere impotente all’allontanamento dei fedeli dal suo messaggio. C’è una rottura in Bergoglio con il pessimismo che aleggia nella Chiesa. Eppure l’arcivescovo di Buenos Aires non è un ingenuo. Basti ricordare la sua analisi sulle conseguenze personali e sociali del processo di globalizzazione. Da pastore, il cardinale conosce le difficoltà delle parrocchie, l’allontanamento dei fedeli, le condizioni esistenziali difficili o contraddittorie di tanti. Il peccato esiste, ma l’esistenza del peccato è anche un terreno su cui si sviluppa la speranza cristiana: perché sul terreno del peccato fioriscono il perdono e la speranza di una vita diversa. Nel peccato della persona è nascosta una domanda di Dio. Il peccato ammesso di fronte a Dio è un luogo privilegiato per incontrarlo e crescere nella coscienza. Anche nelle situazioni peggiori e più lontane c’è sempre una speranza di avvicinarsi e trovare perdono. 68 Non bisogna allora demonizzare in modo pessimistico gli uomini e le donne del nostro tempo. Non si deve, d’altra parte, indulgere a una visione ottimistica della realtà o lassista. Il male esiste, ma un cambiamento è possibile nella misericordia di Dio. La speranza espressa dal messaggio di Bergoglio ha una sua forza matura, esperta di umanità, libera dal pessimismo, fiduciosa che la Chiesa possa risorgere nei cuori delle persone. Se c’è stato un divorzio tra il popolo e il messaggio della Chiesa, non è poi così definitivo, irrimediabile e profondo. Quella di Bergoglio è la speranza matura del Vaticano II che, fin dal discorso inaugurale di Giovanni XXIII, prese fortemente le distanze dal pessimismo sul mondo moderno. Le parole di papa Roncalli espressero la scelta della medicina della misericordia come strumento principe del Vaticano II. Il pessimismo sembra paradossalmente rendere inutile la misericordia. Così Giovanni XXIII disse nel suo discorso di apertura ai padri conciliari di tutto il mondo raccolti a San Pietro per la prima volta: Nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita, e come se al tempo dei concili ecumenici precedenti tutto procedesse in pienezza di trionfo dell’idea e della vita cristiana, e della giusta libertà religiosa. 69 Sono parole che segnano il nuovo clima del Concilio, prendendo le distanze dal pessimismo cupo sul mondo, che aveva caratterizzato vasti settori del cattolicesimo tra Ottocento e Novecento. Ma bisogna imparare dalla storia!, affermava papa Giovanni (era tra l’altro uno storico). Anche in altre età della storia cristiana c’erano state grandi difficoltà, ma questo non condannava al declino né la Chiesa né la società. Papa Giovanni ebbe parole forti: A noi sembra di dover dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo a un nuovo ordine di rapporti umani, che per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi: e tutto, anche nelle umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa. 70 È un testo fondatore del corretto atteggiamento della Chiesa del Concilio di fronte al mondo: mette in luce la speranza, che non si risolve in facile ottimismo, riconosce le difficoltà, ma guarda al futuro. I profeti di sventura – una categoria su cui si è poco riflettuto – sono persone che hanno paura del presente e degli altri. E guardano indietro con nostalgia, perché è facile mitizzare il passato sia per le istituzioni che per le persone. Non così fa Giovanni XXIII, il padre del Concilio. Negli anni postconciliari l’opinione cattolica ha spesso ondeggiato tra un facile ottimismo («se la Chiesa cambiasse, il mondo si aprirebbe a lei») e il pessimismo sul futuro. Bergoglio, che ha conosciuto le difficoltà della sua Chiesa e dell’Argentina, insiste sul fatto che gli uomini sono peccatori, ma non condannati al male. Questo è l’elemento decisivo: niente può condannarci al male, se non la nostra scelta. Per il Giovedì santo 2013, papa Francesco ha visitato il carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, dove ha parlato a giovani che hanno già visto la loro vita segnata dal male. Questo il suo messaggio a quella umanità (sofferente e condannata fin dalla giovinezza): «E non lasciatevi rubare la speranza, non lasciatevi rubare la speranza!». 71 Del resto il papa aveva detto ai cardinali: «Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento». 72 Per Francesco il pessimismo che aleggia nella Chiesa (paragonato a una specie di «pane» offerto dal diavolo) è quindi frutto di un disegno che vuole frammentare e svuotare i cristiani. III La cultura dell’incontro Sperare è incontrare Ogni uomo e ogni donna sono, al fondo, aperti alla speranza. Chi li considera già perduti finisce per evitarli. L’incontro invece manifesta speranza verso di loro. Eppure l’incontro non è sempre facile, quantomeno richiede di cambiare qualcosa in se stessi. Negli anni dell’ingrigimento, le comunità ecclesiali hanno vissuto la tentazione dell’autoreferenzialità, frutto del pessimismo sul mondo e sul loro futuro, che le spingeva a una certa inerzia. Non si può certo generalizzare. In tante parti del mondo, il lavoro nelle comunità ecclesiali è grande. In Africa, ad esempio, le chiese sono strapiene. Ma ci si dimentica talvolta di chi è fuori. Lo stesso potrebbe dirsi per movimenti cristiani assorbiti nella loro vita interna. L’autoreferenzialità è una tentazione che viene da lontano, secondo papa Francesco: rende poco interessati al grande mondo, popolato da donne e uomini di ogni tipo. Il ministero pastorale di Bergoglio, già prima dell’episcopato, è impostato sull’incontro. L’arcivescovo di Buenos Aires, che va in metropolitana, non è l’immagine di un prelato anticonformista, ma di qualcuno che vuole incontrare e che si lascia incontrare. A chi gli chiedeva cosa gli piacesse di più di Buenos Aires, il cardinale rispondeva nel 2011: «Camminare per la strada. Ogni angolo di Buenos Aires ha qualcosa da raccontare».1 Il motivo principale di una vita semplice da parte del papa, vissuta come tutti, non è l’esemplarità o tantomeno la demagogia, ma appunto la volontà di incontrare gli altri e di lasciarsi incontrare. Il cardinale ha dichiarato con grande chiarezza: A una Chiesa che si limita ad amministrare il lavoro parrocchiale, che vive chiusa nella sua comunità, succede esattamente come a una persona reclusa: si atrofizza fisicamente e mentalmente. O si deteriora come una stanza chiusa, dove proliferano muffa e umidità. A una Chiesa autoreferenziale succede esattamente come a una persona autoreferenziale: diventa paranoica, autistica. È ovvio che se uno esce in strada gli può anche succedere di avere un incidente, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata che una Chiesa malata. 2 È un concetto che Bergoglio ha ripreso più volte dopo l’elezione a papa. Nel suo ragionamento, c’è l’analisi della situazione difficile della Chiesa: non è il prodotto di un’assenza di riforme o del bisogno di nuove strutture, ma è proprio una postura assunta nella società in modo autoreferenziale e chiuso: «… una Chiesa la quale si limita solo a svolgere un lavoro amministrativo, a custodire il suo piccolo gregge, è una Chiesa che alla lunga si ammala. Il pastore che si isola non è un vero pastore di pecore, ma un “parrucchiere” di pecore che passa il suo tempo a mettere loro i bigodini, invece che andare a cercarne altre». 3 Parlando alle riunioni dei cardinali prima del conclave, Bergoglio ha insistito sull’autoreferenzialità. In quella sede si era discusso delle riforme della Curia romana. Ma la priorità per il futuro papa stava nella collocazione della Chiesa nel mondo, insomma nel suo rapporto con la gente e la vita quotidiana. Il testo di questo intervento (che sembra abbia fatto molta impressione ai cardinali) è stato pubblicato poco dopo l’elezione del papa. 4 Ha continuato il cardinal Bergoglio: Quando la Chiesa non esce per evangelizzare, diventa autoreferenziale e si ammala (cfr. La donna curva ripiegata su se stessa di cui parla Luca nel Vangelo, 13,10-17). I mali che, nel tempo, colpiscono le istituzioni ecclesiastiche sono l’autoreferenzialità e una specie di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse Gesù dice che Lui è alla porta e bussa. Ovviamente il testo si riferisce al fatto che lui colpisce la porta dal di fuori per entrare ... Ma penso ai momenti in cui Gesù bussa dall’interno per lasciarlo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Cristo dentro di sé e non lo fa uscire. Quando la Chiesa è autoreferenziale, crede involontariamente di avere una luce propria … La Chiesa vive per dare gloria degli uni agli altri. In parole povere ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che diffonde «Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans» e la Chiesa mondana che vive in sé e per se stessa. 5 Una Chiesa che vive in sé e per sé è spesso una comunità clericalizzata. Gli ecclesiastici, in questo contesto, si danno gloria l’uno all’altro. Anche i laici – sostiene Bergoglio – vengono clericalizzati in funzioni e aspirazioni tutte interne. 6 Una Chiesa non clericale e non autoreferenziale sa uscire da sé. Non c’è una ricetta da applicare, ma una scelta esistenziale da fare: uscire e incontrare. L’incontro con le persone è essenziale nella visione del papa. Lo si vede anche dalla pratica del suo ministero. Nelle udienze dedica una parte cospicua del tempo a incontrare la gente, quasi personalizzando il contatto con la folla. Questa era anche la via scelta da Giovanni Paolo II: incontrare e farsi incontrare. Quel papa diceva che la gente non vuole solo sentire parole ma anche «toccare». Francesco ribadisce: «È fondamentale che noi cattolici – sia sacerdoti che laici – andiamo incontro alla gente». 7 Ci sono ormai novantanove pecore fuori dal recinto e una sola resta dentro: questa è la sua visione. In questa stagione della storia i cristiani debbono uscire dai loro recinti: i sacerdoti debbono uscire dalle parrocchie e dai circoli ecclesiastici (ma anche dal linguaggio interno a questi ambienti). Nell’incontro con i vescovi brasiliani, Francesco ha parlato criticamente di «pastorali “lontane”, pastorali disciplinari che privilegiano i princìpi, le condotte, i procedimenti organizzativi ... ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora» ha concluso «la “rivoluzione della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo». 8 Bisogna percorrere la via della simpatia per le donne e gli uomini del nostro tempo, vissuta sulla strada, non dietro ai muri della cittadella ecclesiastica o dall’alto dei suoi spalti. Questo invito viene dal Concilio, dalla scelta prioritaria per l’evangelizzazione compiuta da Paolo VI dopo il Vaticano II e da Giovanni Paolo II. Viene pure dalla vita di Bergoglio, che è un uomo che ha fatto esperienza di umanità, perché ha vissuto nella sua esistenza il gusto dell’incontro. L’uscita dai recinti ha determinato le stagioni più felici del cristianesimo, come quella del Duecento, quando il movimento francescano portò il Vangelo fuori dalle grandi cattedrali e dalle abbazie, che erano le fortezze della fede. Il Vangelo prese, per così dire, a camminare sulla strada e nella vita quotidiana della gente. Per il papa il compito odierno della Chiesa non è adattarsi alla pratica della società – come vorrebbero certi progressisti – ma vivere l’arte dell’incontro sulla strada degli uomini e delle donne. Una Chiesa più attrattiva non è una comunità cedevole, ma una comunità dell’incontro. L’impegno a incontrare vale prima di tutto per i pastori. Il pastore, per Bergoglio, «è qualcuno che va incontro alla gente». 9 Incontrare è anche una condizione di «benessere» della stessa Chiesa: Sono sinceramente convinto che, al momento, la scelta fondamentale che la Chiesa deve operare non sia di diminuire o togliere dei precetti, di rendere più facile questo o quello, ma di scendere in strada a cercare la gente, di conoscere le persone per nome. E non unicamente perché andare ad annunciare il Vangelo è la sua missione, ma perché se non lo fa danneggia se stessa. 10 È una visione di Chiesa, come popolo di Dio, estroverso, missionario, capace di incontro. Non è facile realizzare questa visione nelle grandi città anonime, dove la gente vive isolata e ignorata: acquista però un valore tutto particolare proprio lì cercare la gente e conoscerla per nome, facendo in modo che le donne e gli uomini della città non siano più anonimi. La Chiesa impara a conoscere i loro nomi, che vuol dire le loro storie. Questa è la proposta che papa Bergoglio fa alla Chiesa del XXI secolo: uscire per andare incontro alle donne e agli uomini, conoscerli, chiamarli per nome, comunicare la speranza che viene dalla fede. È un’idea che il papa ha maturato nel suo ministero pastorale a Buenos Aires: uscire, incontrare sono espressioni di fedeltà al Vangelo. Ai preti della sua diocesi l’arcivescovo diceva: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». 11 La proposta di papa Francesco si presenta in forma semplice, senza il bagaglio di ricette pastorali, metodologiche o altro. Durante la Settimana Santa del 2013, il papa ha detto: La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona peraprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie – che pena tante parrocchie chiuse! – dei movimenti, delle associazioni, e “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione. 12 Chi esce e incontra l’altro fa un’esperienza non prevedibile e controllabile. Perché l’incontro fa esprimere l’altro che si incontra. Nell’incontro l’altro trova un amico. Forse trova pure un testimone che lo aiuta ad andare verso l’amore misericordioso del Padre, magari a chiedere perdono. Forse nasce un dialogo che rompe una solitudine profonda e fa stringere i fili di una solidarietà di destino. Così, incontrando e uscendo, la Chiesa riprende a sperare e si libera dal pessimismo. Bisogna avvicinarsi davvero agli altri e non sempre è facile, per la cultura di chi cerca di avvicinarsi e per la realtà di chi ci si trova innanzi. Infatti, sulla strada della vita, si misurano le lontananze maturate negli anni, esistenziali, culturali, quelle prodotte da un mondo in frammenti. Il poeta brasiliano Vinícius de Moraes afferma: «la vita, amico, è l’arte dell’incontro, malgrado ci siano tanti disaccordi» (così si intitolava anche un album pubblicato da questi con Sergio Endrigo e il poeta Ungaretti). Il papa ha detto ai vescovi brasiliani, parlando di chi è lontano: «Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte». 13 Talvolta si presume che il mondo dell’«altro» sia negativo, chiuso, ostile. Questa presunzione negativa spinge la Chiesa allo scontro, a quel muro contro muro che rappresenta sempre una sconfitta per i cristiani, perché questi nello scontro – anche se hanno ragione – perdono la loro attrattiva. Invece il mondo non è negativo, ma complesso, articolato, contrassegnato da tante aperture, più o meno evidenti, accanto a chiusure. La speranza matura quando la fede si misura con la realtà, le persone e i popoli. Dice Bergoglio: Questa speranza è diversa dall’ottimismo. Non è perturbatrice, non teme il silenzio, si radica come le radici nell’inverno. La speranza è sicura: ce la dona il Padre di ogni Verità. Discerne il buono dal cattivo. Non dedica un culto all’ottimo (non cade nell’ottimismo) né si crede sicura nel pessimo (non è pessimista). Perché la speranza distingue il bene dal male, è combattiva; e lotta senza ansia né accecamento … La proposta è proprio quella di una speranza combattiva. 14 Miti e arditi nell’incontro Papa Bergoglio non è un buonista che presenta un Vangelo con sconti e glosse. Il suo non è un vago aperturismo. Sullo sfondo degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, il cardinale Bergoglio presenta una lettura militare e militante della vita cristiana: «Chiederemo al Signore la grazia di addentrarci nella dimensione belligerante della vita apostolica; grazia che ci libera dall’inconcludente atteggiamento infantile che ci porta a “giocare con la pace” come con la guerra». 15 Questa dimensione «belligerante» implica servire Dio in modo radicale e lottare alla ricerca della croce, «unico luogo teologico di vittoria». La croce è il cuore della vita cristiana, segno del senso «belligerante» della vita cristiana: «Con la croce non si può negoziare, non si può dialogare: o la si abbraccia o la si rifiuta». 16 Sulla scorta degli Esercizi Spirituali, in particolare della meditazione dei Due Stendardi, Bergoglio afferma che «il Signore ci vede come suo popolo che muove il buon combattimento contro il nemico» (e nel corso di questo ci sostiene e ci consola): «Il Signore è il generale in capo che dà coraggio ai suoi … perché Egli sa quanto è dura la lotta e quanto il Maligno è senza legge né fede».17 L’incontro e la misericordia sono qualcosa di molto serio e si inquadrano in una visione belligerante e militante della vita cristiana, che deve fare i conti con la paura di ciascuno. Bergoglio parla di una «tenerezza combattiva». Aggiunge che nessuno può intraprendere la via del servizio cristiano se non ha la speranza di vincere. È un’espressione, la «vittoria», che può lasciare perplessi. Conviene leggere le parole di Bergoglio: Nessuno può intraprendere una lotta se non è intimamente convinto in precedenza che sarà vincitore. Chi parte sconfitto ha perduto la prima metà della battaglia. Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce innalzata come una bandiera di vittoria. Questa fede invincibile si trova tra gli umili e noi l’acquisteremo e l’alimenteremo … Il volto dell’umile, il viso di chi ha una pietà semplice, è sempre un viso di trionfo, sempre accompagnato da una croce. Invece, il viso dell’orgoglioso è sempre un viso di sconfitta. Non accetta la croce e vuole una resurrezione senza pagarne il prezzo. Separa quello che Dio ha unito. 18 Uscire dagli abituali recinti e incontrare è un passaggio che si nutre del desiderio di «vittoria» cristiana, di cui parla il cardinale. Il sogno del cristiano è che il mondo e gli uomini possano cambiare. Così cerca la «vittoria» anche attraverso un percorso faticoso. Il cardinale conclude: «Saremo giudicati sulla scorta di quanto avremo saputo avvicinarci a “tutti gli uomini” riconoscendo in quella stessa carne il Verbo di Dio». 19 Saremo giudicati da Dio – dice – proprio sull’incontro. Ritorna in Bergoglio la riflessione sulla parabola del buon samaritano, paradigma della spiritualità conciliare, tanto presente nel suo pensiero. Come il levita e il sacerdote, «molte persone hanno disdegnato di avvicinarsi alla carne dei loro fratelli». Altri, secondo Bergoglio, si sono avvicinati in modo sbagliato; oppure hanno scelto di incontrare solo alcuni in maniera selettiva; infine troppi hanno gettato la loro vita nel mondo delle frivolezze «per dimenticarsi della sofferenza». Costoro non hanno né cercato né incontrato nessuno. Infatti, in una vita autocentrata ed egoista, gli altri divengono come trasparenti, invisibili. L’incontro con l’altro non è intellettuale o astratto, bensì è contatto con la sua carne e la sua sofferenza. La «carne» dell’altro è una realtà più volte richiamata nel pensiero del papa. Egli dice proprio sulla scorta della parabola del buon samaritano: Avvicinarsi alla carne sofferente significa invece aprire il cuore, lasciarsi commuovere, mettere il dito nella piaga, portare sulle spalle il ferito, pagare due denari e alla fine farsi carico di tutte le spese. Saremo giudicati secondo quanto saremo capaci di seguire questo modello. 20 La cultura dell’incontro con l’altro – chiunque esso sia e dovunque lo si incontri – porta a una pratica impegnativa della vita cristiana. Ci si responsabilizza verso chi si è incontrato, talvolta ce lo si carica sulle spalle. Il samaritano si fa responsabile del ferito, si affatica e spende le sue risorse per lui. Eppure quel ferito era una persona con cui non aveva nessun legame, incontrata per caso lungo la strada. Incontrarsi lega l’uno all’altro. Non si tratta solo di casualità per il cristiano: è coinvolgersi in una responsabilità. Il rapporto che nasce non è legato a uno statuto specifico di parentela o altro. Non si diventa responsabili dell’altro, solo perché esistono vincoli riconosciuti che legano a lui. Gesù dice nel Vangelo: «Infatti se amate quelli che vi amano, che merito ne avete? ... E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?» (Matteo 5,46-47). Ogni uomo diventa «naturalmente» custode (responsabile) di suo fratello, per il fatto che lo ha incontrato, che lo ha conosciuto per nome. Il papa dice all’inizio del suo pontificato: La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo… 21 La «custodia» manifesta la coscienza della responsabilità verso il creato, verso le persone con cui si è legati in un modo o nell’altro. La «custodia» esprime anche la responsabilità verso l’altro che si incontra. Nell’incontro con l’altro, si manifesta la scoperta che nessuno è estraneo agli occhi di un credente. I cristiani debbono ritornare a incontrare gli altri, i lontani, i diversi, gli indifferenti, gli ostili, gli estranei, guardandoli con simpatia e sincerità. La Chiesa non può essere chiusa in se stessa e autocentrata, distratta perché concentrata su di sé, disinteressata a chi è esterno al suo mondo. Il campo della Chiesa infatti non è il suo mondo, quello ecclesiale o ecclesiastico, ma è il mondo intero. Questo è il vero spazio della Chiesa. C’è un passo dell’Ecclesiam suam di Paolo VI, un papa caro a Bergoglio, che dice a proposito della Chiesa: «Nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace». 22 Non bisogna aver paura dell’altro, demonizzarlo, giudicarlo a priori, escluderlo dal nostro orizzonte. Anzi il nemico stesso va amato, quindi non è un estraneo. Un santo monaco del Monte Athos, morto negli anni Trenta, Silvano, riassumeva così l’insegnamento cristiano sull’amore per i nemici: «l’amore per i nemici è criterio della verità». 23 Ma quali sono allora i limiti dell’attività della Chiesa? Qual è la terra che appartiene al cristiano, lo spazio della sua responsabilità? Altrimenti sarebbe un campo senza confini, quasi utopico. Non potrà essere il mondo intero! In fondo la Chiesa traccia sul territorio i confini di una parrocchia o di una diocesi, mentre delimita l’impegno di un’organizzazione a questo o a quell’ambiente. L’uomo e la donna sono limitati. Ci sono responsabilità circoscritte a una condizione o a uno stato particolare. Ma queste responsabilità sono solamente priorità. La parabola del buon samaritano infatti rivela come l’uomo dal cuore aperto non si chiuda in un itinerario esclusivista o in uno spazio precostituito. Bisogna ritornare alla figura biblica di Abramo, quell’uomo di fede che partì dalla sua terra verso la terra che il Signore gli aveva promesso. Divenne nomade e visse lungamente in esilio. Ma, a un certo punto, dopo la separazione con Lot, Dio si rivolse ad Abramo per rispondere alla domanda che egli si portava dentro da tempo: quella sul suo futuro e sulla terra che gli sarebbe stata assegnata dopo tanto vagare. Qual era la terra promessagli, dove cominciava e dove finiva? Dio disse ad Abramo: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre…» (Genesi 13,14-15). La terra di Abramo sarebbe stata vasta quanto il suo sguardo si poteva inoltrare verso il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest. Non c’erano confini predeterminati. Quello che Abramo poteva vedere era suo. Niente è estraneo all’uomo di Dio: basta che lo veda! Nessuno gli è estraneo, se alza lo sguardo e lo vede. Non ci sono confini alla terra di Abramo, a quella dei credenti, se non quelli imposti dal loro sguardo. Il loro rapporto, con la terra che possono vedere, non è la proprietà o la sovranità, bensì la responsabilità. Nessuno è estraneo alla loro responsabilità, se essi lo vedono. Tutto quel che vedi sarà tuo: è la «sovranità dell’amore semplice e profondo», secondo le parole di Bergoglio. Verso nessuno il credente può dire, come Caino: sono forse il custode di mio fratello? Verso nessuna terra, il credente può dire: sono straniero, non mi riguarda… Tutto quello che è umano riguarda il discepolo di Gesù. Bisogna vedere l’altro. Per questo occorre uscire e incontrare, ma anche alzare lo sguardo che, invece, spesso abbiamo ripiegato su noi stessi. Benedetto XVI ha scritto acutamente nella Deus caritas est: «Il programma del cristiano – il programma del Buon Samaritano, il programma di Gesù – è un “cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in conseguenza». 24 Uscire è un imperativo interiore della crescita della fede: «se si rimane nel Signore si esce da se stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli, si cambia» dice papa Bergoglio. La fedeltà non è tradizionalismo o fondamentalismo, bloccato alla lettera. Chi prega alza gli occhi incontro all’altro con maggiore apertura e perspicacia, uscendo da sé. Jorge Bergoglio ha scritto: «Intraprendere il cammino della preghiera significa saper uscire da sé». 25 Sì, chi prega esce più naturalmente da sé, alza lo sguardo, vede l’altro e vede con il cuore. La fede sorregge lo sguardo del cristiano: Si può dire che lo sguardo della fede ci porta a uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita nella città. Ci porta a uscire incontro all’altro perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, poiché percepisce che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di dominio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che guarda con il desiderio di servirlo … Chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso. 26 Gesù insegna a vedere l’altro. Fu lui a mostrare ai discepoli distratti – dice il cardinale – che una vedova aveva gettato il suo piccolo obolo nel tesoro del tempio: «l’unico che se ne accorse fu Gesù». 27 È un tale sguardo che Gesù chiede ai suoi discepoli. Così il cristiano diventa responsabile di chi vede e di chi incontra. Il suo «dominio» sulla terra si esercita attraverso una responsabilità piena d’amore. La responsabilità è l’esercizio dell’amore, quindi la caduta della normale estraneità. È un «dominio» molto particolare. Il possesso della terra da parte dei cristiani si ottiene, in realtà, non con la conquista o con l’acquisto degli spazi, ma con un mite senso di responsabilità. È il paradosso delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5). Il possesso della terra non è dei ricchi (che possono comprarla), dei violenti e degli aggressivi (che possono conquistarla), dei fortunati (che la ricevono in eredità dai loro padri): il possesso della terra è dei miti. Questi, infatti, alzano il loro sguardo misericordioso e vedono l’altro, si legano a lui, se ne sentono affettuosamente responsabili. Il mite del Vangelo non è colui che scivola nell’irrilevanza, ma colui che si assume la responsabilità dell’altro con cura e senza spirito di dominio. I cristiani miti non si ritraggono di fronte alle difficoltà, ai conflitti, alla complessità delle storie umane. Bergoglio ama usare l’espressione «mansuetudine» («non è sinonimo di debolezza» precisa). I miti non sono gli spaventati né gli spettatori irrilevanti. Sono coloro che affrontano la vita quotidiana con la mansuetudine del loro Maestro. Sono coloro che lo ascoltano e lo pregano: lui ha detto «imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29). Per questo l’ascolto della Parola di Gesù, il radicamento in lui formano un uomo e una donna miti che però posseggono la terra. Possesso e mitezza possono andare insieme: questo è un paradosso cristiano. Paolo lo spiega con molta efficacia nella Prima Lettera ai Corinti a cristiani preoccupati della loro collocazione nella città di Corinto, ma anche dei problemi interni alla comunità: «… tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio!» (3,22-23). In quel grido «tutto è vostro!», c’è la dimensione belligerante della vita cristiana, ardita ma mite. «Tutto è vostro» vuol dire che i cristiani possiedono tutto. I cristiani non sono estranei a niente e a nessuno, si interessano di quanti incontrano: tutto è loro. Ma l’esercizio del loro dominio avviene in modo davvero particolare, senza titolo di proprietà, con grande libertà, con rispettoso e responsabile coinvolgimento. Un «orizzonte utopico» Il cardinal Bergoglio ha molto insistito sul fatto che bisogna vedere in modo rinnovato la città: Se partiamo dalla constatazione che l’anticittà cresce con lo sguardo e che la più grande esclusione consiste nel non riuscire neanche a «vedere» l’escluso – quello che dorme per strada non viene visto come una persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, del rifiuto – la città umana cresce con lo sguardo che «vede» l’altro come concittadino. 28 La pratica dello «sguardo della fede» sulla città diventa «fermento per uno sguardo civico». È la proposta di quella che il cardinal Bergoglio chiama la cultura dell’incontro: così la Chiesa contribuisce al vivere comune. Egli afferma: «La cultura dell’incontro è l’unico modo per far andare avanti la famiglia e i popoli…». Per lui infatti l’Argentina vive purtroppo «in un clima permanente di incontro mancato», attraverso fratture, scontri o processi di frammentazione, fino alla pratica dell’individualismo quotidiano: «… gli argentini» sostiene «fanno gran fatica a incontrarsi. Siamo molto individualisti, pensiamo subito agli affari nostri … l’incontro non è nelle nostre corde; preferiamo notare quello che ci separa, anziché quello che ci unisce; tendiamo a potenziare il conflitto, anziché l’accordo. Mi azzarderei a dire che ci piace farci la guerra a vicenda». La storia del Novecento, secondo Bergoglio, con le sue proposte totalitarie (e accanto al fascismo, nazismo e comunismo, egli colloca anche un certo liberalismo), ha teso ad atomizzare la società. Infatti quella che Mosse ha chiamato la «nazionalizzazione delle masse» non produce una crescita di legame comunitario tra persone. 29 In Argentina il mancato incontro è divenuto una patologia sociale che genera inimicizie e un muro di pregiudizi. 30 Bisogna aprire nel paese una riflessione sulla cultura dell’incontro: la diversità delle posizioni deve portare alla scoperta che è possibile uno scambio nell’incontro. È la proposta del cardinale, avanzata, nel 2001, in quello che è stato chiamato il «dialogo argentino», aperto alle forze sociali e alle religioni. 31 Bergoglio l’ha rilanciata per il Bicentenario dell’Indipendenza. La situazione argentina è difficile, perché la società sta perdendo l’identità collettiva: «Non si dice mai “io sono”, ma “io non sono”. Arriviamo a sminuire l’altro per sembrare più grandi. Dobbiamo riconoscere che la mancanza di identità è mancanza di appartenenza». 32 La situazione è resa più difficile dal gioco dei media, dalla disinformazione e dalla calunnia. Anche la politica è divenuta estetica, forse teatro. Uno studioso italiano, Mario Perniola, ha notato come, specie dopo il ’68 e con lo sviluppo della televisione, la politica abbia preso le distanze dal mondo della cultura o almeno dalle idee, per incamminarsi in un legame stretto e condizionante con l’estetica dell’immagine, tanto da divenire una politica estetica. 33 Il rabbino Abraham Skorka, in un libro di conversazioni con Bergoglio, Il cielo e la terra, afferma che troppo spesso in Argentina le grandi questioni nazionali sono gestite dai media come fossero una partita di calcio, «con fanatismo, con argomentazioni fallaci, con approcci superficiali»: «l’unica cosa che si vuole è aizzare gli animi, fomentare l’ira, agire in base a impulsi momentanei». 34 La società e la politica vivono in un conflitto permanente (e non solo in Argentina). Parlando agli esponenti della classe dirigente brasiliana, papa Francesco ha insistito sul dialogo, tenendo presente anche le tensioni sociali manifestatesi proprio prima del suo viaggio nel paese: Tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo … Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media, quando dialogano. È impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti. Considero anche fondamentale in questo dialogo il contributo delle grandi tradizioni religiose, che svolgono un fecondo ruolo di lievito della vita sociale e di animazione della democrazia. Favorevole alla pacifica convivenza tra religioni diverse è la laicità dello Stato, che, senza assumere come propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la presenza della dimensione religiosa nella società… 35 È una pagina significativa della proposta di Bergoglio alla società: la cultura dell’incontro nella pratica del dialogo. Ma l’incontro è anche la chiave vera per affrontare i conflitti. Per un paese come l’Argentina, la democrazia è il luogo dove le diversità e i conflitti si compongono e si risolvono. Il cardinal Bergoglio dedica un ampio saggio alla rinascita politica e democratica dell’Argentina, Noi come cittadini, noi come popolo, nell’occasione dei duecento anni dell’indipendenza nazionale. Dopo le dolorose vicende dei regimi autoritari, il cardinale afferma la scelta della Chiesa per la democrazia: «Riappropriandoci della democrazia abbiamo accarezzato la speranza che il nostro paese potesse finalmente instaurare e riuscire a delineare un progetto comune. Abbiamo creduto di poter risolvere le nostre divergenze e le tensioni interne con gli strumenti che ci offre la politica…». 36 Si deve costruire un’unità superiore. La pace è la scoperta di un’unità superiore, quando si è presi in ostaggio dalle diverse posizioni conflittuali. Qui Bergoglio riprende le ipotesi del teologo protestante Oscar Cullmann avanzate in campo ecumenico: una differenza riconciliata, non abolita o irriducibilmente condannata alla separazione. La chiave per la costruzione dell’unità è incontrarsi e camminare insieme: «non scagliarci delle pietre, ma … continuare a camminare fianco a fianco. È questo il modo giusto di procedere» conclude «nella risoluzione di un conflitto, sfruttando le potenzialità di tutti, senza annullare le diverse tradizioni o cadere nel sincretismo». 37 Si debbono affrontare i conflitti, senza restarne prigionieri. I cristiani sono davvero capaci di incontro e, per questo, sono costruttori di unità: il loro compito è «immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo». 38 In questo – lo si vedrà dopo – i cristiani per Bergoglio hanno la loro funzione di «mediatori» e di artigiani di pace. Per l’Argentina la grande questione è «consolidare una cultura dell’incontro e un orizzonte utopico condiviso». 39 Solo così si supera una società in frammenti o conflittuale all’estremo. È vero che la storia argentina è complessa e le radici del paese sono molteplici. Ma, attraverso la cultura dell’incontro, è possibile costruire un’unità superiore. E occorre – egli nota – non solo intendersi tra concittadini, ma guardare insieme al futuro del paese. Il cardinale parla di un comune progetto nazionale da condividere. E usa l’espressione «orizzonte utopico». 40 Non ha infatti paura di questa espressione che preoccupa di più il pensiero cattolico europeo, laddove l’utopia richiama tra l’altro il ’68. L’utopia è una finestra sul futuro. «Le utopie» afferma Bergoglio «sono il frutto dell’immaginazione, la proiezione verso il futuro di una costellazione di desideri e di aspirazioni. L’utopia prende la sua forza da due elementi: da un lato … il malessere che genera la realtà attuale; dall’altro, l’incrollabile convinzione che un altro mondo è possibile. Da qui la sua forza mobilizzatrice». 41 Per questo il cardinale conclude: Ogni patrimonio dev’essere utopico: se ne devono conservare le radici, ma bisogna consegnarlo ai figli con la speranza che continuino a svilupparlo. Non dimentichiamoci che le utopie fanno crescere. Certo il pericolo non è solo di cadere nella chiusura della riflessione patriottica … nella cieca fedeltà a ciò che si è ricevuto, ma anche nell’utopia astorica, senza radici, nell’utopia dissennata, nell’utopia pura e semplice. 42 Coltivare la storia di una comunità, aprirla utopicamente al futuro nella speranza, è compito di tutti. La cultura dell’incontro è una proposta cristiana e umana: è quanto la Chiesa ha da dire al popolo, frutto della sua lunga esperienza di umanità e di amore sviluppatasi nei secoli e nel contatto con gli uomini. La Chiesa ricorda che non ci sono né comunità né nazioni senza storia: «Noi argentini abbiamo la pericolosa tendenza a pensare che tutto cominci oggi, a dimenticare che niente nasce dalla zucca, né cade dal cielo come una meteorite». 43 La soppressione del senso della storia non riguarda tanto il mondo dell’erudizione, ma qualcosa di più profondo. Per andarsi incontro, gli uomini e le donne hanno bisogno di essere consapevoli della storia che hanno alle spalle e, allo stesso tempo, necessitano di una speranza, di una visione utopica del futuro comune. Storia e speranza sono connesse tra di loro. Colorare la vita di amore e speranza Per Bergoglio cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide – come insegnava Giovanni XXIII – è una via maestra per realizzare un incontro vero. Giovanni Paolo II ha approfondito il metodo (pastorale e diplomatico) proposto da papa Roncalli, non considerandolo come frutto di buonismo o di irenismo facile. Proprio papa Wojtyła appare a Bergoglio un grande testimone del valore del dialogo. Il cardinale ha curato una pubblicazione sull’incontro tra Giovanni Paolo II e Fidel Castro, in cui osserva come il papa si sia fatto «pellegrino del dialogo, nell’intento di apertura della Chiesa verso l’umanità, per invitare l’umanità all’apertura alla verità…». Per Bergoglio papa Wojtyła ha quasi modellato il ministero del papa sul dialogo: «Il ruolo della Chiesa, e specialmente del Vicario di Cristo, è quello di liberare, dialogare e partecipare, per costruire la comunione tra gli uomini e la Chiesa. In questo modo, il dialogo, inteso come canale di comunicazione tra la Chiesa e i popoli, si erge a strumento basilare per costruire la pace, promuovere la conversione e creare fraternità». 44 La Chiesa di Bergoglio vive «una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone…». 45 Incontrarsi e dialogare è ricostruire un tessuto comune di cultura. Il dialogo nasce autenticamente quando si crede che l’altro abbia da dire qualcosa di significativo, che insomma si possa imparare da lui. Una delle radici profonde dell’indifferenza nei rapporti umani è la mancanza di interesse verso l’altro, quasi non significasse niente per me e non potesse dirmi nulla. La mentalità utilitaristica accresce la mancanza di interesse per l’altro, qualora non venga identificato un qualche tornaconto nel rapporto con lui. C’è nel futuro papa una ferma convinzione: ciascuno è portatore di un valore, di un motivo di interesse, di qualcosa di positivo. Infatti afferma: «Dobbiamo essere coerenti con il messaggio che riceviamo dalla Bibbia: ogni uomo è a immagine di Dio, che sia o non sia credente. Per questa semplice ragione conta su una serie di virtù, qualità, grandezze». 46 Non è un’affermazione teorica, quella che ogni uomo è immagine di Dio; ma è una sapienza da vivere, che ci fa scoprire il valore degli altri, che ci fa arricchire nei contatti, che esprime rispetto per il significato della vita altrui. La ricerca del valore dell’altro è un’arte della vita, non sempre facile, se si resta esterni al suo mondo o indifferenti alla sua persona. Il valore dell’altro, infatti, va scoperto nella propria esperienza esistenziale e non è un principio da proclamare. Uno storico, il vescovo Cataldo Naro, ha scritto in proposito: «Per amare è necessario ammirare. Si ama ciò che si ammira, perché ci attrae e lo si trova bello». 47 Ciascuno ha qualcosa che può essere ammirato, anche se a prima vista non appare. Questa è l’arte dell’incontro e del dialogo: «l’altro ha molto da darmi», è la fiducia di Bergoglio. Ma c’è un rifiuto nei confronti del dialogo: dopo tanti anni – ci si chiede – quali sono i suoi frutti? Anche guardando alla vita della Chiesa, dopo gli entusiasmi ecumenici e «dialoghisti» successivi al Vaticano II, molta passione è svanita. Che risultati ha dato tanto impegno nel dialogare? Alla fine ci si accomoda in un orizzonte ristretto, in cui gli «altri» (qualunque sia la loro alterità) impallidiscono e perdono significato. Ci si concentra nel proprio mondo. Gli altri diventano troppi, invadenti e di scarsa utilità allo stesso tempo, senza interesse per me. Se non si pratica il dialogo, si smarrisce il senso dell’altro. Questo è vero per le singole persone come per le comunità. Nel mondo globale, nella città globale, a fronte della perdita di senso e dello smarrimento culturale, bisogna investire molto sul dialogo e sull’incontro. Un aspetto tanto trascurato dal dialogo tra i cristiani è stato proprio quello dei «poveri». Che c’entra con il dialogo, quando i poveri sono una questione sociale?, ci si potrebbe chiedere. L’amore per i poveri unisce i cristiani tra di loro, ma anche gli uomini di buona volontà: c’è un indubitabile ecumenismo della carità che avvicina i cristiani separati anche nel servizio ai deboli. Francesco ha parlato espressamente di non cattolici o non cristiani che fanno il bene, suscitando la reazione negativa di taluni cattolici, perché loro non sono «dei nostri». E il papa ha aggiunto: «fare il bene tutti, credo che sia una bella strada verso la pace. Se noi, ciascuno per la sua parte, facciamo il bene agli altri ci incontriamo là, facendo il bene, facciamo lentamente, adagio adagio, piano piano, quella cultura dell’incontro: ne abbiamo tanto bisogno…». 48 Fare del bene insieme costruisce unità. Scoprire il valore del bene fatto da chi non è dei nostri ci fa crescere nella stima e nell’interesse. Il dialogo non è una strategia per ottenere qualcosa o per esercitare un dominio morale, bensì il riconoscimento che l’altro ha qualcosa da dare, che siamo destinati a vivere insieme, quindi prima di tutto a parlare. Attraverso il dialogo, senza uno scadenzario precostituito, si ricostruisce nel quotidiano o su orizzonti più vasti il senso di un destino comune. Il dialogo si manifesta attraverso tanti incontri, percorsi di simpatia e legami, un fascio di esperienze diverse che non possono essere programmate o guidate. Ma tutto questo è efficace? Qualche volta, anche nella Chiesa, come ho detto, ci si interroga sui risultati o sull’utilità di dialogare. Di incontro e di dialogo c’è stato sempre bisogno, perché la presenza dell’altro si smarrisce nel nostro orizzonte. In un mondo vasto, anonimo, scoppiano allora improvvise le ostilità, crescono i pregiudizi. Oggi, di fronte alla mondializzazione, all’abolizione delle distanze geografiche (ma non culturali e umane), c’è ancor più bisogno di incontro e di dialogo. Infatti gli uomini, i gruppi umani e le comunità talvolta sono separati da distanze siderali, che sono fatte di ignoranza, diffidenza, anche se si vive non più tanto lontano. Nel grande spazio della distanza (culturale, umana o geografica che sia) crescono pericolose estraneità o inimicizie. Marc Chagall, pittore russo di origine ebraica dalle vibrazioni religiose (che ha reso familiari le immagini del mondo ebraico dell’Est, scomparso con la seconda guerra mondiale, quasi come Martin Buber ha fatto con la letteratura dei chassidim), ha affermato all’inaugurazione del museo a lui dedicato nel 1973: «Se tutta la vita va inevitabilmente verso la sua fine … dobbiamo colorarla con i nostri colori di amore e di speranza». 49 Esercitando l’arte dell’incontro, ciascuno – anche una persona semplice – «colora» il grigio della vita, riempie con un legame le distanze, talvolta immense, che si creano tra ambienti, persone, mondi. Sembrano percorsi individuali, non connessi, diversi e addirittura divergenti. In realtà corrispondono a un intimo disegno: fanno crescere il colore di amore e di speranza, fanno salire la temperatura di umanità, insomma rendono più familiare e umano il mondo. Perché ci sia un effetto convergente di tante e diverse azioni umane nell’incontro, non è necessario un progetto o un coordinamento. Ma tanti incontri fanno crescere l’unità dei mondi e degli uomini. Teilhard de Chardin, ne L’ambiente divino, forse in una prospettiva un poco diversa, osserva qualcosa di importante sulla missione del cristiano: questi «avrebbe ancora da collegare la sua opera individuale a quella di tutti gli operai che lo circondano. Accanto a lui si accalcherebbero innumerevoli mondi parziali … Egli deve far crescere il proprio calore grazie a quello di tutti quei focolai». La carità, «principio e effetto di ogni legame spirituale», fa esplodere «le nicchie entro cui i nostri microcosmi individuali gelosi tendono a isolarsi e a vegetare». 50 Nessun incontro con l’altro, nessun dialogo, anche piccolo o episodico, va perduto. Amicizia ed ebraismo L’incontro tra le religioni ha un valore tutto particolare per la realizzazione della coscienza di un comune destino dell’umanità. Si realizza in tanti distinti percorsi. Il libro-dialogo del cardinal Bergoglio con il rabbino argentino Abraham Skorka mostra uno di questi percorsi. In questo testo si percepisce la vibrazione amicale che accompagna lo scambio personale tra due uomini con storie e tradizioni religiose differenti, mentre due itinerari umani e spirituali si incrociano. Infatti uno dei grandi limiti dei dialoghi, intessuti dopo il Concilio, chiaramente non di tutti, è stata la riduzione alla dimensione teorica e accademica, con una penalizzazione di quella personale. C’è un’amicizia tra credenti di diverse religioni che si risolve nel dialogo spirituale. Senza amicizia è difficile far progredire il dialogo a tutti i livelli. Un pensatore musulmano africano, Amadou Hampâté Bâ, figura eminente dell’africanistica (scomparso nel 1990), scriveva in base alla sua esperienza di dialogo interreligioso: Talvolta uomini di diversa fede sono percorsi, senza saperlo, da una medesima vibrazione, anche se poi ognuno si serve di parole sue proprie per esprimerla: misteriosa identità di sentimento, destinata a restare per sempre nascosta agli intolleranti e ai bigotti di tutte le religioni. Ciò che ci unisce al nostro prossimo, Dio l’ha deposto nel fondo del nostro cuore. Cerchiamo dunque di scoprire questa comune identità interiore… 51 Giovanni Paolo II, nel testamento, ha ricordato, oltre al nome del suo segretario privato, solamente quello del rabbino capo di Roma, Elio Toaff, malgrado i tanti che gli sono stati vicini. Questo ricordo nei confronti del rabbino della sua città ha un valore esemplare, perché sottolinea allo stesso tempo il significato dell’amicizia e l’importanza del dialogo tra ebrei e cristiani. Toaff è il rabbino che nel 1986 accolse il papa durante la sua visita al tempio maggiore degli ebrei di Roma, la prima effettuata da un pontefice in una sinagoga. 52 Anche Bergoglio è amico di Skorka. Una foto che li ritrae insieme sta a casa sua, quasi a raffigurare «un’esperienza di dialogo,» scrive il futuro papa «un’esperienza ricca che aveva consolidato un’amicizia e che sarebbe stata la testimonianza del nostro camminare insieme a partire dalle nostre diverse identità religiose». 53 L’amicizia non è negoziare le diverse identità religiose per creare una sintesi, ma camminare vicini alla presenza di Dio «con rispetto e affetto». Per questo Bergoglio può definire Skorka, «un fratello e un amico». Non sono parole retoriche. Nel loro dialogo i temi religiosi, le diversità delle proprie tradizioni di credenti, le questioni esistenziali, i problemi sociali e politici si intrecciano. Infatti il dialogo non può ridursi solo alle questioni teologiche o religiose; dialogare vuol dire guardare insieme la società, il futuro, i problemi. Dialogo è anche guardare assieme il mondo e non solo guardarsi in modo più benevolo tra chi parla. L’amicizia tra due leader religiosi fa scaturire una comprensione comune, anche se differenziata, della realtà umana. L’amicizia è una dimensione vitale nella pratica di un dialogo, che non sia un negoziato ideologico o un’occasione accademica: «La parola ci mette in comunicazione e ci vincola l’uno all’altro, permettendoci di condividere idee e sentimenti, purché parliamo a partire dalla verità, sempre, senza eccezioni» 54 dice il cardinale. Il quale insiste sul fatto che la parola crea l’amicizia: non è un vago sentimento filantropico, ma essere amici è imitazione di Gesù che «non mise su casa a parte; si fece amico nostro». 55 Del resto, siamo in una stagione in cui non esistono più grandi passioni per l’ecumenismo o per il dialogo ebraicocristiano. Tutti i grandi processi «unitivi» (per usare una parola cara a Giorgio La Pira), tra cui quelli ecumenici, sono in difficoltà e soprattutto non suscitano grande interesse. Olivier Clément osserva che l’ecumenismo istituzionale è diventato opaco e si trova in difficoltà: «In questa situazione così difficile c’è da chiedersi: che cosa rimane? L’amicizia. Questo è veramente il dialogo dell’amore – un amore che è anche conoscenza, vera conoscenza». 56 Il fine del dialogo – lo dico dopo decenni di cammino nello spirito di Assisi – è la costruzione di una vera amicizia tra credenti. Questo cambia la cultura e la mentalità, creando legami (che sembravano talvolta impossibili). Tanti incontri, tante amicizie fanno crescere il «calore» umano e religioso dell’ambiente in cui si vive e del mondo stesso. Il senso di comune appartenenza all’umanità, la partecipazione alle vibrazioni spirituali e alla profondità della fede altrui fanno crescere l’amicizia tra chi dialoga. Tale amicizia diventa una rete preziosa in tante situazioni di tensione. Ho in mente l’esperienza drammatica di un quartiere di Abidjan in Costa d’Avorio, durante la guerra civile, quando fu bruciata una moschea e, per ritorsione, la folla musulmana minacciava l’incendio delle chiese: l’amicizia della Comunità di Sant’Egidio locale con gli imam e i leader cristiani fece sì che insieme potessero calmare gli animi ed evitare che si precipitasse in una spirale di odio religioso. Naturalmente il dialogo tra il cardinale e il rabbino, anzi la loro amicizia, ha la valenza particolare dei rapporti tra ebrei e cristiani. Bergoglio conosce la storia del cattolicesimo antisemita in Argentina (che ancora sopravvive). Del resto questo paese è stato una terra di rifugio per tanti ebrei europei in fuga dalla persecuzione (il noto giornalista italiano Arrigo Levi ricorda il ruolo del cardinale Copello, arcivescovo di Buenos Aires, nel salvare la sua famiglia dalla persecuzione antisemita), 57 ma è stato anche la terra dove si sono rifugiati e hanno vissuto indisturbati parecchi criminali nazisti. Bergoglio ha chiaro il grande dolore che ha segnato la storia ebraica, la predicazione del disprezzo nei loro confronti, l’odio, fino alla drammatica vicenda dell’antisemitismo nazista. Osserva: La Shoah è un genocidio come tanti altri nel XX secolo, ma ha una peculiarità. Con questo non intendo dire che si tratti di un genocidio di rilevanza primaria e che gli altri passino in secondo piano, ma sicuramente rivela una particolarità: la costruzione di un’idolatria contro il popolo ebraico. La razza pura e il superuomo sono gli idoli sui quali è stato edificato il nazismo. Non si tratta solo di un problema geopolitico, c’è anche una questione religioso-culturale. Ogni ebreo ucciso fu uno schiaffo al Dio vivente. 58 Il cardinale sottolinea l’aspetto idolatrico del nazismo. Non ci furono ragioni politiche o militari per lo sterminio degli ebrei – osserva Skorka a sua volta – ma fu una sfida al Dio d’Israele, alla fede in lui e all’identità del suo popolo che andava cancellato: «I nazisti hanno cercato di radere al suolo la concezione giudaico-cristiana della vita» conclude il rabbino. 59 Giuseppe Dossetti, introducendo un libro di memorie sulla strage nazista di Monte Sole, aveva osservato giustamente una ventina di anni fa che «bisogna rimeditare tutta la dottrina sugli idoli nel libro dell’Esodo e del Deuteronomio, nei Salmi, nel libro della Sapienza e nei profeti … la prostituzione idolatrica è per sé inevitabilmente sempre sanguinaria». 60 Il tema dell’idolatria – nel caso della Shoah, ma anche in altri aspetti della storia – è molto caro al futuro papa Francesco. Auschwitz, dove si misura l’abisso del male, non è stato solo il punto più tremendo della storia europea o del mondo, bensì la svolta in cui si è rivelata definitivamente la capacità umana (e industriale) di uccidere senza alcun motivo. Non si può ridurre Auschwitz a una lezione morale per l’umanità, perché sarebbe un modo di riassorbirne la drammatica unicità. Tuttavia proprio Auschwitz pone la coscienza umana e cristiana davanti alla potenza del male, alla responsabilità dell’indifferenza (la banalizzazione del male, secondo Hannah Arendt) 61 e al ruolo della predicazione del disprezzo nel preparare la tragedia. Dopo questa terribile storia, le comunità religiose non possono più vivere come prima, autocentrate, preoccupate di sé, chiuse. Dalla svolta di Auschwitz, nasce una responsabilità: non si può più essere indifferenti e autoreferenziali, non si può dimenticare e non si può più permettere che la distanza e l’incomprensione si insinuino nei rapporti tra cristiani ed ebrei. Si comprende quindi il valore dei tanti percorsi di amicizia tra cristiani ed ebrei, così personali e profondi, come quello tra Skorka e Bergoglio. È un’amicizia che non evita di misurarsi anche sulla dolorosa storia degli ebrei nel Novecento. Il cardinale non è difensivo nei confronti delle posizioni della Chiesa durante la seconda guerra mondiale. Spiega alcuni motivi dei «silenzi» di Pio XII, ricorda l’impegno dei cristiani per nascondere gli ebrei, ma auspica anche che gli Archivi vaticani vengano aperti perché meglio si possa conoscere la posizione della Santa Sede durante i tempi della caccia all’ebreo da parte dei nazisti a Roma e in Europa. Il paragone corre con i tempi della dittatura in Argentina: «All’inizio» dice il cardinale «forse ci fu qualche vescovo un po’ ingenuo, convinto che la situazione non fosse così preoccupante. È accaduto anche nel nostro paese: alcuni corsero immediatamente a denunciare, altri ci misero più tempo, non lo capirono». 62 La storia di Bergoglio non è drammatica come quella di Karol Wojtyła, compagno di scuola di tanti ebrei in larga parte sterminati e testimone diretto della Shoah. Tuttavia Francesco è un papa che porta in profondità la memoria partecipe della Shoah e il gusto personale dell’amicizia ebraico-cristiana. L’incontro tra le religioni L’Argentina è un paese plurale ben prima della globalizzazione. Oltre all’importante immigrazione italiana e spagnola, nel paese si trovano immigrati di molte nazioni europee, non solo occidentali ma anche dell’Est (e non mancano russi e ucraini). Gli amerindi sono solo lo 0,6 per cento. C’è pure un’immigrazione araba (3,8 per cento). Oggi gli immigrati non vengono più dall’Europa, ma da paesi vicini come il Paraguay e la Bolivia (sono i più poveri e i meno inseriti). Dopo gli Stati Uniti, l’Argentina è il paese americano che ha accolto il maggior numero di immigrati: è una caratteristica che ne ha segnato la storia. Il cardinal Bergoglio conosce la storia dolorosa di tanti popoli, non solo degli ebrei. Anche per i suoi contatti con la comunità armena in Argentina, sa quello che ha significato Metz Yeghérn, il Grande Male, il genocidio degli armeni nell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale, che fece circa un milione e mezzo di morti, il primo genocidio del Novecento. Va anche ricordato che quel genocidio riguardò principalmente gli armeni ottomani, ma non soltanto. Le povere comunità cristiane orientali, immerse nella società ottomana, come i siriaci e i caldei, vi perdettero decine di migliaia di fedeli. 63 La cultura europea non ha saputo fare i conti con la memoria di quel martirio. Il cardinale conosce anche il dramma del genocidio ucraino, Holodomor, la strage conseguente alle politiche economiche staliniane nei primi anni Trenta che provocò tre milioni e mezzo di morti in Ucraina per fame. L’immigrazione in Argentina di armeni, di altri popoli dell’impero ottomano (chiamati paradossalmente «turcos», mentre fuggivano proprio i turchi), degli ucraini e di altre popolazioni dell’Est europeo ha preceduto la globalizzazione. Queste genti hanno conservato la loro memoria dolorosa, portandola con sé in Argentina dalle loro terre. L’identità argentina nasce dal meticciato di differenti ondate migratorie: «Un aspetto caratteristico della nostra storia» dice il cardinale «è la capacità di favorire mescolanze delle razze. Ciò dimostra un certo universalismo e rispetto nei confronti dell’identità altrui». 64 Questo meticciato è stato un vero «incontro di culture». Tuttavia – il cardinale lo ribadisce durante i festeggiamenti per il Bicentenario dell’Indipendenza – esiste un’identità argentina, che integra le differenti culture. Senza identità, non c’è né armonia né dialogo. Le sue posizioni su una globalizzazione livellatrice sono molto critiche: «Nella sfera globale che annulla, tutti sono uguali, ogni punto è equidistante dal centro della sfera. Non c’è differenza tra i diversi punti della sfera. Questa globalizzazione non la vogliamo, essa annulla. Questa globalizzazione non fa crescere». 65 Pur essendo una nazione prevalentemente cattolica, in Argentina ci sono varie comunità non cattoliche. Innanzi tutto si registra la più grande comunità ebraica del Sud America (che subì un sanguinoso attentato terroristico nel 1994 dopo quello all’ambasciata israeliana della capitale). Ma ci sono pure comunità cristiane ortodosse, russe, ucraine, arabe, accanto alla comunità armena e a quelle cattoliche orientali. La complessità argentina nasce dalla stratificazione delle ondate migratorie, ma anche dalle differenti identità etniche e religiose. Il cardinal Bergoglio è stato un uomo dell’incontro in una metropoli dai caratteri molteplici e complessi (come meglio si dirà in seguito, egli riflette anche sul cristianesimo nell’orizzonte urbano). In questa situazione si manifesta come uomo di dialogo tra comunità religiose. Significativamente ha trasformato il tradizionale Te Deum nazionale, legato al carattere di «nazione cattolica» dell’Argentina, in una manifestazione in cui si esprimono anche i rappresentanti delle altre religioni e confessioni. Una volta l’arcivescovo è stato invitato a un grande raduno di evangelici, in cui il pastore ha chiesto di pregare per lui. Allora Bergoglio si è inginocchiato per «ricevere» la preghiera, con un gesto molto cattolico. Qualcosa di simile ha fatto sulla loggia di San Pietro alla sua prima apparizione da papa, quando ha chiesto al popolo di pregare perché scendesse su di lui la benedizione. Ma, con gli evangelici, era un contesto diverso, che suscitò polemiche, tanto che l’arcivescovo fu accusato di apostasia. Così riferisce lui stesso: «Per loro [i tradizionalisti], pregare insieme ad altri era apostasia. Perfino con un agnostico, perfino dal suo dubbio, possiamo guardare insieme verso l’alto e cercare insieme la trascendenza. Ognuno prega secondo la sua tradizione: qual è il problema?». 66 Dopo la preghiera per la pace ad Assisi, nel 1986, ci furono pesanti polemiche tradizionaliste contro Giovanni Paolo II, che avrebbe messo – con quella giornata – il cattolicesimo sullo stesso piano delle altre religioni, annacquando l’identità cristiana e legittimando le altre fedi. Che senso avrebbe avuto allora l’evangelizzazione dopo Assisi, quando le religioni erano state riconosciute tutte uguali? In realtà, il vero logorio dell’identità cristiana nasce dalla fragilità della fede, messa a dura prova dal contatto con una società svuotata di senso religioso. Stare con gli altri, anche in una dimensione religiosa, non mette in crisi la propria fede, anzi la rafforza. Del resto, nel mondo odierno, gente di differente religione vive negli stessi quartieri e frequenta gli stessi ambienti. Papa Wojtyła era convinto che la presenza ad Assisi della Chiesa cattolica, nel ruolo di chi convocava e invitava, facesse emergere con più chiarezza la sua vocazione a servire l’umanità alla ricerca della pace e dell’unità, compiendo il mandato ricevuto da Cristo. La Nostra Aetate, la dichiarazione conciliare sulle religioni, colloca il dialogo tra le religioni nella prospettiva dell’unità delle genti: «Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, [la Chiesa] … esamina tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. Una sola comunità costituiscono infatti i vari popoli». 67 L’idea di un destino comune dei popoli, cara alla tradizione cristiana e rilanciata dal Concilio, va oggi nuovamente collocata sullo scenario del mondo globalizzato e su quello delle metropoli globali. E il dialogo tra le religioni è un appuntamento decisivo in questa prospettiva. La preghiera di Assisi nel 1986 fu la recezione creativa della Nostra Aetate da parte di papa Wojtyła. Era sua intenzione che da Assisi scaturisse quasi un movimento di dialogo e di ricerca della pace, che coinvolgesse permanentemente le religioni. E lo disse in uno dei suoi discorsi pubblici. Per questo Giovanni Paolo II volle che la preghiera di Assisi fosse continuata e ne affidò il compito alla Comunità di Sant’Egidio che, anno dopo anno, ha convocato i leader religiosi in varie città del mondo. Ai leader religiosi si sono via via uniti anche laici e umanisti in un atteggiamento meditativo e di silenzio interiore, oltre che di dialogo. Le manifestazioni nello spirito di Assisi sono un momento di «festa» e di incontro, in cui i leader religiosi si presentano gli uni accanto agli altri in pace. 68 Il cardinal Bergoglio, anche nei suoi contatti con le religioni, non è stato un irenista, ma la sua azione è stata fondata su una fede radicata. L’irenismo è, per lui, «non accettare il carattere combattivo della vocazione»: questa posizione non crea una vera pace. Non si scherza con le diverse tradizioni religiose dell’umanità, che esprimono qualcosa di radicato. Non le si può manipolare a proprio piacimento, anche con le migliori intenzioni. La «religione» è, per lui, espressione dell’inquietudine profonda del cuore umano alla ricerca di qualcosa che trascende davvero: «Finché quell’inquietudine continuerà a esistere, esisterà la religione e ci saranno modi di legarsi a Dio». 69 Sono parole che fanno eco alla dichiarazione conciliare sulle religioni non cristiane: «Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo…». 70 Introducendo un libro di Marco Gallo, El espíritu de Asís (1986-2007), il cardinale scrive in proposito: «Non già gli uni contro gli altri, ma gli uni vicino agli altri per pregare per la pace. Un’icona preziosa del XX secolo che deve essere approfondita nel cuore e nelle coscienze di tanti uomini e donne…». 71 La preghiera per la pace voluta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 si svolse nel quadro della guerra fredda; ma oggi, con la mondializzazione, lo spirito di Assisi ha una funzione decisiva, forse più di ieri. Scrive il futuro papa Francesco nel 2007: L’imperativo di Assisi è, ancora oggi, dopo vent’anni, profondamente attuale, con la sfida della convivenza tra culture e religioni diverse, che richiedono uomini di fede profonda che sappiano scrutare e interpretare i segni dei tempi … In tempo di crisi, di frammentazione delle società contemporanee, dove sembra prevalere la cultura del conflitto, nasce imperiosa la sfida di una convivenza rinnovata e fraterna. 72 Anche l’Argentina ha bisogno dello «spirito di Assisi». In questa prospettiva – scrive il cardinale – è significativo ripensare «la costruzione di una società multiculturale e multireligiosa». 73 Infatti il paese è un «mosaico di religioni», dove le diverse comunità si stanno aprendo al dialogo. Lo spirito di Assisi è definito dal cardinale come «spirito di pace, spirito di riconciliazione, spirito di discernimento che sa accogliere l’altro nella ricerca di una sintesi feconda». Questo spirito spinge gli uomini, le donne, i popoli, pur nella loro diversità, a riconoscersi figli dello stesso Padre. La tessitura del dialogo è decisiva in un mondo segnato da conflitti e culture del conflitto. Il mondo globale infatti non è una pacifica cosmopoli, ma è attraversato da una conflittualità tra culture e da scontri e atti terroristici, giustificati in nome della religione e della civiltà. L’11 settembre 2001 è sembrato offrire la prova concreta che il conflitto di civiltà e di religione esista drammaticamente. Era certamente il disegno di chi ha provocato quel terribile attentato. Religioni e civiltà – ci si chiede – non sono destinate allo scontro, quasi per la loro profonda vocazione o per la loro storia? Huntington (che riprende una linea di pensiero novecentesca) sostiene che il conflitto è quasi un destino iscritto nei cromosomi di alcune civiltà. È la teoria del conflitto di civiltà (e di religione) con cui è stato spiegato troppo spesso il mondo del XX e del XXI secolo: una tesi applicata in particolare ai rapporti tra islam e mondo occidentale. Il mondo globalizzato non può essere spiegato con le semplificazioni dello scontro di civiltà. Tuttavia manchiamo troppo spesso di visioni e interpretazioni di fronte agli orizzonti globali, non facilmente leggibili. La Chiesa, dopo l’11 settembre, grazie al suo senso della storia e alla sua esperienza di umanità, non ha accettato la logica dello scontro di civiltà, ma ha ribadito una posizione favorevole al dialogo e alla comprensione. Così si spiega l’opposizione di papa Wojtyła alla guerra in Iraq. Proprio dopo l’11 settembre 2001, Giovanni Paolo II volle che le religioni tornassero ad Assisi per pregare per la pace e impegnarsi contro la violenza. Per la seconda volta, dopo il 1986, nel 2002 tornò a «presiedere» la preghiera di Assisi. Il Concilio Vaticano II ha preparato la Chiesa a vivere nella complessità contemporanea, offrendole una prospettiva in cui esiste lo statuto dell’altro: fosse il cristiano di altra confessione, fosse l’ebreo o l’appartenente ad altra religione non cristiana, ma anche l’umanista e il non credente. Con il Concilio l’altro entra nell’orizzonte della Chiesa. Stare con l’altro, non contro l’altro né accanto in modo indifferente, diventa un’arte, quella del dialogo e dell’incontro. La Chiesa del Concilio ha approfondito questi percorsi. Taluni sono divenuti creativi di amicizia, di prossimità, di intrecci spirituali, di legami di pace. C’è però ancora tantissimo da esplorare e da costruire, per cui è necessario un nuovo fervore. La Chiesa di Bergoglio non è spaventata di essere tra gente diversa nella megalopoli e di abitare in un mondo senza frontiere. Non si protegge dalle tante diversità, ricordando a sé e a un mondo distratto una serie di principi. Non ignora gli altri. Diceva monsignor Mulla, un turco convertito al cristianesimo, morto nel 1959 dopo un difficile cammino tra mondi diversi: i cristiani non sono mai contro gli altri, casomai sono tutt’altro! La Chiesa di Bergoglio si colloca sulla strada e incontra gli uomini e le donne che hanno storie differenti. Non è chiusa nel ghetto delle sue sicurezze e delle sue paure, anche se Bergoglio stesso non teme di definire tragicamente Buenos Aires come una città pagana. Non è nemmeno una Chiesa che vuole dominare: «Quando la comunità cristiana si lascia prendere da manie di grandezza» afferma il futuro papa Francesco «e vuole trasformarsi in potere temporale, corre il rischio di perdere la sua essenza religiosa». 74 La diplomazia di un papa non diplomatico L’arcivescovo di Buenos Aires ha rappresentato nella capitale argentina l’uomo dell’incontro. Il rabbino Skorka ha detto che Bergoglio è un uomo di unità.75 L’unità, secondo il cardinale, non è uniformità o assorbimento dell’altro, ma costruzione di un’armonia e di un’amicizia tra diversi. Questa costruzione è un’arte di pace, che i cristiani hanno nelle loro corde. Papa Francesco non ha esperienza diretta della diplomazia vaticana, se non quella dei contatti con vari nunzi. Del resto questo è un momento in cui comprendere e rilanciare la funzione della diplomazia della Santa Sede, che stenta a trovare un suo ruolo nel mondo globalizzato, dopo il grande lavoro al tempo della guerra fredda. Francesco ha però un chiaro riferimento in questo campo: il cardinale Agostino Casaroli, collaboratore di Giovanni XXIII e Paolo VI, Segretario di Stato di Giovanni Paolo II, un grande diplomatico. In questa prospettiva si può leggere anche la scelta del papa di restituire la guida della Segreteria di Stato a un esperto diplomatico, come Pietro Parolin, che ha cominciato a lavorare in Vaticano con il cardinale Casaroli e con Achille Silvestrini, entrambi espressione della grande tradizione diplomatica della Santa Sede. Il papa ha letto le memorie di Casaroli pubblicate con un titolo significativo, Il martirio della pazienza. 76 Per lui Casaroli è stato un cristiano capace di costruire pazientemente la pace. Bergoglio nota come il cardinale non abbia mai abbandonato il suo lavoro presso i ragazzi del carcere minorile di Roma, nonostante l’intenso impegno della vita diplomatica. Parlando alla Comunità di Sant’Egidio a Buenos Aires, Bergoglio ha richiamato la figura di Casaroli. E ha aggiunto qualcosa di significativo sull’arte di costruire la pace: C’è bisogno di una laboriosità artigianale. Instaurare l’amore è un lavoro di artigiani, di pazienti, di persone che spendono tutto quello che hanno per persuadere, per ascoltare, per avvicinare. E questo lavoro artigianale ha pacifici e magici creatori d’amore … È il mediatore. Il significato di mediatore lo confondiamo con il termine di intermediario e non è la stessa cosa. Il mediatore è colui che, per unire le parti, paga con il suo stipendio, paga con il suo, si consuma lui stesso. L’intermediario è quel dettagliante, che fa sconti ad ambedue le parti per avere il suo meritato guadagno. L’amore ci colloca nel ruolo di mediatori, non di intermediari. E il mediatore perde sempre, perché la logica della carità è arrivare a perdere tutto perché vinca l’unità, perché vinca l’amore… 77 Essere mediatori è una scelta personale che richiede un reale orientamento nella propria vita: «Per un cristiano progredire non è scalare posti, avere una buona reputazione, essere considerato, per un cristiano progredire è “abbassarsi” in questo compito di essere mediatori. Abbassarsi … Come è stata la condizione di abbassamento e di umiliazione (facendosi nulla) che ha vissuto Gesù. E da lì cambia tutto». 78 Nel mondo globalizzato, nel grande mercato, si moltiplicano gli intermediari che operano per interesse economico o personale. Mancano i mediatori veri, che si abbassano nell’amore e da lì cambiano tutto come artigiani di un grande disegno di pace. Il mondo globalizzato, con la sua complessità, ha ancor più bisogno di mediatori e di artigiani di pace. L’uomo è infatti un essere conflittuale, ma non per questo destinato a restare prigioniero dell’odio o dell’aggressività. La diplomazia dei «mediatori», «veri artigiani di pace», ricerca quello che unisce e libera dalla spirale dell’odio. Bergoglio lo dice anche guardando alla situazione mediorientale, insistendo su come la guerra non risolva nulla: Credo che la soluzione non debba mai essere la guerra, perché questa implicherebbe che uno dei due poli della tensione venisse assorbito dall’altro. E non è nemmeno una sintesi, che è una mescolanza dei due estremi, un ibrido senza futuro. I poli in tensione si risolvono solo su un piano superiore, guardando verso l’orizzonte, non in una sintesi, ma in una nuova unità … Una vera filosofia del conflitto presuppone la forza e il coraggio di provare a risolverlo, sia a livello personale sia a livello sociale, cercando quell’unità capace di riunire le potenzialità di entrambe le parti. 79 Il futuro papa, parlando alla Comunità di Sant’Egidio nella cattedrale di Buenos Aires, ha insistito sul valore della «diplomazia» dei cristiani, come arte dell’incontro: In questo brano evangelico (che non è stato scelto a proposito ma è il brano che corrisponde a oggi, la Domenica XXIIIa), in questo artigianale lavoro di instaurare l’amore vedo riflesso il lavoro e la vocazione della Comunità di Sant’Egidio: è paziente questa gente, gente che ascolta e fa piccoli passi. Si potrebbe applicare a loro quella frase di quel grande cardinale che ha avuto la Chiesa, il cardinale Casaroli, «questi vanno per la strada della pazienza, vanno per il martirio della pazienza». 80 La pazienza è la forza dei mediatori, che non hanno alcun interesse che quello della pace. Il cardinale Casaroli, da parte sua, notava che queste sono le virtù del diplomatico, parlando di Roncalli, che pure non aveva avuto nessuna preparazione professionale in proposito: «Una maggiore prontezza alla comprensione dell’“altro”; una carica di “simpatia” nello sforzarsi di valutare la mentalità e gli atteggiamenti anche dei più lontani; una capacità di rendersi conto delle loro difficoltà obbiettive e l’arte di saper creare un clima di fiducia, nonostante la distanza, o addirittura l’opposizione frontale … la cura di non offendere le persone pur dicendo la verità». 81 L’arte del dialogo «diplomatico» dei cristiani si forgia anche nella preghiera e nell’amicizia con le persone più deboli. Non è il prodotto di un’educazione elitaria. Così infatti il futuro papa Francesco conclude: La grande diplomazia che ha dato tanti frutti alla Chiesa si alimenta con la carità, con la penitenza. Uno dei tratti di questa Comunità [di Sant’Egidio] che si riunisce a celebrare, è la vicinanza alle periferie dell’esistenza, ai più poveri, ai più emarginati, ai più abbandonati. Forse è per questa stessa vicinanza, come lo fece Gesù, che trova forza per abbassarsi e per portare avanti il compito artigianale della pacificazione, di avvicinamento e di instaurazione dell’amore. Rendiamo grazie a Dio per questa Comunità che si riunisce a cantare le preghiere nella basilica di Santa Maria in Trastevere. Chiediamo a questo Cristo che, con i suoi occhi così appassionati, presiede quella basilica, uniti a tanti uomini e donne della Comunità di Sant’Egidio, che continuino a germinare in mezzo alla società, emanando compassione amorosa, con il desiderio di abbassarsi e con una carità artigianale che li porti fino alla periferia dell’esistenza. 82 Significativamente l’arcivescovo parla di «artigianato» nell’omelia sopra citata: è «il compito artigianale della pacificazione, di avvicinamento e di instaurazione dell’amore». La Chiesa non è un’industria, una grande organizzazione internazionale, ma l’insieme grandioso di tanti artigiani. La Chiesa lavora bene artigianalmente, perché la sua è opera di uomini che vivono l’incontro con altri uomini. L’artigianato dà la misura del valore dell’umanità nella vita cristiana. L’immagine della Chiesa che va incontro agli uomini, anzi che si tuffa in mezzo a essi, si trova nelle seguenti parole del cardinal Bergoglio, quando sottolinea come la carica umana dei cristiani parta dall’esperienza spirituale: Il legame religioso comporta un impegno, non una fuga. Ci fu un’epoca nella storia della spiritualità cattolica segnata dalla cosiddetta “fuga dal mondo”; oggi vige una concezione completamente diversa: dobbiamo tuffarci nel mondo, ma sempre a partire dall’esperienza religiosa … Il problema si fa serio quando la spiritualità viene ridotta all’ideologia, quando l’esperienza religiosa perde forza e, per colmare il vuoto, si ricorre al mondo delle idee. L’altro rischio è quello di fare beneficenza per la beneficenza in sé, di agire come una ONG anziché partecipare dell’esperienza religiosa. Ci sono comunità religiose che inconsapevolmente rischiano di trasformarsi in una ONG. Non si tratta solo di fare questo o quello per aiutare il prossimo. Come preghi? Cosa fai per aiutare la tua comunità ad accedere all’esperienza di Dio? Sono queste le domande chiave. 83 Il papa dell’incontro Jorge Bergoglio, nel cuore di una vita tanto impegnata, resta un uomo di preghiera. Lo si sente nelle omelie, non scritte, che ogni mattina tiene nella cappella della residenza, Santa Marta, il pensionato ecclesiastico nelle mura vaticane dove ha scelto di vivere dopo la sua elezione. Si coglie bene come le omelie nascano da un confronto costante e profondo con la Bibbia, a cui dedica molto spazio la mattina presto. Come uomo della Bibbia, aiuta chi lo ascolta a fare l’esperienza di Dio, attraverso una predicazione sapida, viva, breve, piena di interrogativi. Ci si interroga molto sulle scelte dei dirigenti vaticani o sulle riforme, che stanno caratterizzando il suo pontificato. Una simile lettura, pur giusta, non spiega appieno la sua personalità e le sue scelte. Va ascoltato in modo particolare quando parla di Dio e quando predica. Francesco si è qualificato come un papa che vuole incontrare gli altri. La scelta di abitare a Santa Marta è motivata dalla volontà di non essere isolato, di stare in una casa dove vivono altri, dove c’è possibilità di incrociare persone differenti. Così, nelle udienze, anche di massa, sembra aver sempre tempo da dedicare all’incontro con le persone, anche se le domande di vederlo si sono enormemente moltiplicate. Di lui dice il rabbino Skorka: «L’ossessione di Bergoglio … si può definire con i vocaboli: incontro e unità». 84 In questo senso, il papa va incontro alla gente e si fa incontrare. È una risposta a un’aspirazione antica che abita da tempo nel popolo cattolico: un papa vicino alla gente e ai dolori della vita. Antonio Fogazzaro, nel romanzo Il Santo (pubblicato nel 1905 e condannato dalla Congregazione dell’Indice un anno dopo perché considerato modernista), immagina l’incontro del papa (ormai vecchio) con uno spirituale che veste l’abito benedettino con il nome di Benedetto. Questi gli esprime l’attesa di un rinnovamento della Chiesa che giudica inferma per il dominio e l’immobilismo del clero. Dice tra l’altro Benedetto: «Sono idolatri del passato, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli … sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e che sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case». 85 L’appello è in linea con un’attesa verso il papa che attraversa il Novecento: … io scongiuro Vostra Santità di uscire dal Vaticano. Uscite, santo Padre, ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un’opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. 86 Il papa confessa di aver pensato lui stesso a quanto gli suggerisce Benedetto, ma gli ribatte: «te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io governi con essi secondo carità e prudenza, e devo soprattutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni…». 87 Così il papa risponde allo spirituale, che interpreta l’attesa di un pontefice tra la gente e vicino ai poveri. Questo romanzo si colloca negli anni in cui è papa Pio X, severo nei confronti dei modernisti, che vive chiuso in Vaticano per l’irrisolta questione romana. L’invito rivolto al papa è quello di uscire e incontrare i poveri («Lazzaro»). La sensibilità dei cattolici – e non solo – è sempre rimasta molto colpita dalle uscite del papa, come quella di Pio XII nel luglio 1943, quando senza scorta né accompagnamento andò immediatamente dopo il bombardamento nel quartiere romano di San Lorenzo per incontrare gli scampati. Lo stesso deve dirsi di Giovanni XXIII, che si mosse per Roma e cominciò i viaggi fuori dalla città. Bergoglio, fin dall’inizio, si è caratterizzato come un papa che vuole uscire da un quadro protocollare e raggiungere la gente. Non vuole essere separato. Così si è espresso a proposito delle ridotte misure di sicurezza da lui volute, durante il suo viaggio in Brasile: Con meno sicurezza, io ho potuto stare con la gente, abbracciarla, salutarla, senza macchine blindate … è la sicurezza di fidarsi di un popolo. È vero che sempre c’è il pericolo che ci sia un pazzo … eh, sì, che ci sia un pazzo che faccia qualcosa; ma anche c’è il Signore! Ma, fare uno spazio di blindaggio tra il vescovo e il popolo è una pazzia, e io preferisco questa pazzia: fuori, e correre il rischio dell’altra pazzia. Preferisco questa pazzia: fuori. La vicinanza fa bene a tutti. 88 Non solo il suo importante viaggio in Brasile, per celebrare la Giornata mondiale della gioventù e visitare il più grande paese cattolico del mondo, ma tutti i suoi passi sono caratterizzati dalla volontà di incontro. Basterebbe pensare al viaggio – nel luglio 2013 – nella piccola isola mediterranea di Lampedusa, dove sono approdati dal 1999 al 2012 più di 200.000 rifugiati in gran parte dall’Africa. Nonostante Francesco, in questo caso, non sia andato fuori dai confini italiani, da Lampedusa si è affacciato sul grande Sud e sul Mediterraneo, divenuto un mare di morte per troppi migranti: con un gesto reale e simbolico è andato incontro a un mondo di problemi e di popoli. Francesco è il papa dell’incontro. La gente sembra percepire in lui una risposta a un’attesa profonda. IV La Chiesa dei poveri «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!» Il nome del papa e la sua origine latinoamericana sono due caratteristiche che hanno evidenziato subito l’originalità del pontificato. Perché Francesco? Il papa ha spiegato il motivo per cui ha assunto questo nome, che non figura nella serie dei pontefici romani: Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: «Non dimenticarti dei poveri!». E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri! 1 La spiegazione illumina la visione di papa Bergoglio. L’attenzione generale è stata attratta dalla scelta del nome. Questo nome è stato voluto in relazione ai poveri, alla lotta contro la guerra e per la pace, infine alla custodia del creato. La sottolineatura principale riguarda i poveri: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!» ha esclamato il papa. A un’opinione pubblica un po’ distratta sulle cose della Chiesa, quella dei poveri sembrerebbe una tematica da teologia della liberazione o tutt’al più da volontariato sociale. Ma è ben altra cosa. Il cardinale Hummes appartiene alla generazione di vescovi collocatasi al di là della polemica sulla teologia della liberazione che ha diviso la Chiesa brasiliana. Il cardinale ha osservato: «la teologia della liberazione è stata una fase storica che … privilegia … la necessità di essere solidali in termini costruttivi della giustizia sociale». E ha aggiunto: non si deve «trasportare il passato, che non è più una risposta per l’oggi. Il mondo è cambiato, e le risposte sono diverse». 2 Le parole sulla Chiesa dei poveri rinviano immediatamente al Concilio, anzi all’espressione di Giovanni XXIII, quell’11 settembre 1962, nel radiomessaggio che precedeva l’apertura del Vaticano II, in cui il papa disse: «… la Chiesa si presenta qual è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». 3 Di fronte al grande mondo povero (era il tempo in cui si parlava di Terzo Mondo o di sottosviluppo), la Chiesa del Concilio si presenta come la Chiesa dei poveri. Il Concilio parla di Chiesa dei poveri. È stato anche un tema importante nella recezione del Vaticano II. Fin dalla prima sessione del Concilio, il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, aveva detto: «Non renderemo giustizia al nostro compito se non facciamo del mistero di Cristo nei poveri e dell’evangelizzazione dei poveri il centro, l’anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo Concilio. Non può essere un tema del Concilio tra gli altri, ma deve diventare la questione centrale. Tema di questo Concilio è la Chiesa in quanto Chiesa dei poveri». 4 Nella Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, si legge un’affermazione significativa su quella che è stata chiamata successivamente l’opzione preferenziale per i poveri: «La Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, anzi si premura di sollevarne l’indigenza e in loro intende servire Cristo». 5 L’attenzione ai poveri ha un fondamento cristologico. I temi della Chiesa amica dei poveri, della povertà della Chiesa e dei mezzi poveri per compiere la sua missione, attraversano i lavori del Concilio e si riversano nel postconcilio in un movimento multiforme e complesso. In una conferenza ai padri conciliari, a Roma nel 1964, il teologo francese padre Yves Congar parlò del mistero dei poveri nella Chiesa, a partire dall’incarnazione di Gesù: «Dio si rivela nella povertà. Gesù, che ha umiliato se stesso fino al punto estremo, spinge i suoi discepoli all’amicizia con i poveri e a guardare la povertà in modo differente da come la guarda la società. Questo non significa condannare i miseri ad essere tali per sempre e, al massimo, dare ad essi un’elemosina». Padre Congar sostenne con convinzione il significato evangelico dell’incontro con i poveri: «I poveri possono essere rivelatori di Dio. Possono essere un mezzo o una via per trovare Cristo».6 Questa fu una convinzione diffusa tra molti padri conciliari. Ma come viverla nelle differenti realtà sociali del mondo e negli anni che seguono il Concilio? Con il povero, che ha poco o niente da dare e talvolta poco da dire, il cristiano fa un’esperienza particolare: umana certamente, ma anche religiosa. Esperienza umana ed esperienza spirituale si fondono insieme. Nel povero si conosce il Signore Gesù, presente in lui. Infatti nel Vangelo di Matteo al capitolo 25 si legge questa parola di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me» (25,40). Dice ancora Gesù: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…» (25,35). In un piccolo libro di tanti anni fa, La fraternità cristiana, Joseph Ratzinger osservava come Gesù non si identifichi in nessuno se non negli affamati, gli assetati, i carcerati, gli stranieri… e nei cristiani perseguitati (tanto da chiedere a Paolo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», Atti 9,4).7 Il rapporto con il povero ha un innegabile fondo spirituale e religioso, che non riduce lo spessore drammatico della sua realtà, ma anzi lo illumina in modo particolare. Questo è l’insegnamento di Giovanni Crisostomo, un padre della Chiesa che dedica tanta parte della sua predicazione ai poveri e al rapporto dei cristiani con loro. Per lui aiutare i poveri è, con grande realismo, aiutare Gesù stesso; mentre rifiutare di soccorrere i bisognosi significa respingere la persona di Gesù. È un realismo che si fonda sulle parole del capitolo 25 del Vangelo di Matteo, le cui conseguenze non sono state ancora tratte fino in fondo nell’esperienza dei cristiani. Olivier Clément, proprio sulla scia del realismo cristologico di Crisostomo, parla dell’esistenza di un vero e proprio «sacramento del povero», che deve essere avvicinato al «sacramento dell’altare». Anzi spiega la storia del cristianesimo otto-novecentesco come il divorzio drammatico tra il sacramento dell’altare e quello del povero. 8 Chi incontra il povero trova Cristo stesso. Questa è la radice di quell’umanesimo spirituale che cresce nella preghiera e, allo stesso tempo, nell’amore per i poveri. Del resto, secondo la predicazione di Crisostomo, l’amore per i poveri è una soglia di umanesimo: chi non ama i poveri non è un uomo vero. Infatti afferma il santo: «Se vuol bene ai poveri, è un uomo; se si occupa solo dei commerci, è una quercia; se ha un animo feroce, è un leone; se è rapace, è un lupo…». La misericordia rende l’uomo umano. Continua Giovanni Crisostomo: «… se si elimina l’eloquenza, la vita non ne avrà alcun danno … se invece sopprimi la misericordia, tutto perisce e va in rovina». Anzi l’amicizia con i poveri «divinizza» l’uomo, rendendolo simile al Signore: «difatti nulla ci rende pari a Dio, come il beneficare». 9 La via dell’umanesimo spirituale è stata battuta nei decenni dopo il Vaticano II. Tuttavia in questo periodo l’impegno per i poveri si è spesso ideologizzato o politicizzato, mettendone da parte le radici religiose. C’è qui anche la vicenda dell’ideologizzazione e della politicizzazione del cristianesimo, forte in America Latina, con cui il gesuita Bergoglio si è misurato. D’altra parte, seguendo differenti percorsi, l’impegno per i poveri ha talora smarrito il suo spessore religioso, divenendo qualcosa di esclusivamente sociale e di professionale. Non basta costruire istituzioni o organizzazioni in favore dei poveri o che lottano contro la povertà. Non basta creare una capacità professionale e organizzativa. Almeno nella prospettiva della Chiesa. Papa Francesco insiste proprio sul fatto che la Chiesa non è una ONG e il suo impegno per i poveri non può essere ridotto ai moduli delle ONG. Si è verificato, negli ultimi decenni, un ingrigimento dello spessore religioso e profetico delle organizzazioni cristiane al servizio dei poveri, che hanno poco riflettuto sul mistero dei poveri. Pur più efficaci e professionali delle vecchie associazioni di beneficenza, non hanno portato alle estreme conseguenze il messaggio della Chiesa dei poveri; talvolta si sono secolarizzate. La realtà dei poveri non ha risuonato in modo profondo e profetico nella vita cristiana, ma è stata avviluppata dall’ideologia, dalla politica, dalla sociologia o dalla professionalizzazione. Oppure questa realtà è stata ignorata o rimossa tout court dal dibattito pubblico e marginalizzata nella vita della Chiesa. Il distacco dai poveri ha ingenerato un ingrigimento nella Chiesa stessa. La crisi della Chiesa viene anche dalla sua distanza dal mondo dei poveri, dalla distanza personale dei suoi uomini e delle sue donne dalla «carne» dei poveri, direbbe Bergoglio. Se si distanzia dai poveri, la Chiesa finisce stretta nelle sue istituzioni. Ha scritto padre Congar, in un fondamentale libro su Chiesa e povertà, pubblicato dopo il Vaticano II, che esprime quel clima di scoperta della Chiesa dei poveri: I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto la sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri … La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso quale comunione. Non può più esistere comunità cristiana senza «diaconia», cioè servizio di carità, che a sua volta non può esistere senza celebrazione dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme; ma spesso fanno difetto l’immaginazione che rende inventiva la carità, e l’audacia, il coraggio per superare ogni esitazione e prendere l’iniziativa. 10 Questa pagina del grande teologo francese (che ha tanto riproposto nei suoi studi le dimensioni storiche e spirituali del cristianesimo) disegna un’immagine della Chiesa del futuro, attorno all’Eucarestia, amica dei poveri e degli umili. Le tre realtà, Eucarestia, comunità e servizio ai poveri, stanno insieme, si sostengono o invece languiscono quando una di esse si deteriora o si distacca. Se non si amano i poveri, c’è poca fede eucaristica. L’amore per i poveri rende la comunità cristiana più coesa e piena d’amore. Senza Eucarestia e senza senso comunitario, anche l’amore per i poveri diventa episodico, la buona azione di un momento, la professione di qualcuno. Qui c’è anche una chiave per capire le difficoltà e le crisi del presente. Questa lettura è confermata pure dall’esperienza del cardinal Bergoglio, il quale riprende le parole del diacono Lorenzo riguardo ai poveri: «I poveri sono il tesoro della Chiesa e bisogna proteggerli; se non abbiamo questa visione, costruiamo una Chiesa mediocre, tiepida, priva di forza. Il nostro vero potere deve essere il servizio. Non si può adorare Dio se il nostro spirito non accoglie il bisognoso». 11 Per questo papa Francesco ha esclamato all’inizio del suo ministero: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!». Liberare i poveri La Chiesa dei poveri non è solo una tematica da teologia della liberazione. Del resto, anche in questo filone teologico, bisogna avere la capacità di distinguere le domande, le attese, i risultati, le commistioni con il marxismo, i differenti percorsi di pensiero e di vita. Benedetto XVI, in un’intervista concessami, interrogato sulla teologia della liberazione, mi ha risposto: Giovanni Paolo II insisteva sul fatto che si pensasse a una teologia della liberazione anche in modo positivo, dopo aver chiarificato gli aspetti negativi e le commistioni indebite. Non so quanto ci siamo riusciti in seguito a formularla in senso positivo. Tuttavia la seconda istruzione sulla teologia della liberazione vuole muoversi proprio in questa linea, toccando un problema e una prospettiva che sono reali e che Giovanni Paolo II sentiva molto. 12 Il cardinal Bergoglio offre in un’intervista un giudizio equilibrato sulla vicenda della teologia della liberazione: «Sicuramente ci sono state delle deviazioni, ma ci sono stati migliaia di agenti pastorali … che si sono impegnati, come desiderava la Chiesa e che costituiscono il fiore all’occhiello del nostro lavoro, che sono fonte della nostra gioia». 13 Bergoglio ha vissuto la vicenda postconciliare della ricerca di una Chiesa vicina ai poveri, sia nei suoi aspetti concreti che nelle sue ideologizzazioni. Conviene misurarsi con questa sua riflessione sulla teologia della liberazione: Si è trattato di un effetto interpretativo del Concilio Vaticano II. E, come ogni conseguenza di un cambiamento della Chiesa, ha avuto i suoi lati positivi e negativi, il suo equilibrio e i suoi eccessi. Come si ricorderà Giovanni Paolo II affidò all’allora cardinale Ratzinger il compito di studiare la teologia della liberazione, che portò alla stesura di due successivi libricini in cui la si descrive, si segnalano i suoi limiti (tra cui il suo rifarsi all’ermeneutica marxista della realtà), ma se ne dimostrano anche i lati positivi. In altre parole, la posizione della Chiesa al riguardo è molto varia. 14 La storia della Chiesa con i poveri, dopo il Vaticano II, è ricca e complessa: attende, a mio avviso, una nuova sintesi. Il percorso di Jorge Bergoglio è di grande interesse, proprio perché ha attraversato in Argentina e in America Latina le fasi più tempestose della teologia della liberazione e dell’impegno cristiano per i poveri. Egli ribadisce che «la particolare attenzione nei confronti dei poveri è un messaggio molto forte del postconcilio». La polemica sulla teologia della liberazione non può farlo dimenticare perché è un orientamento di fondo del Vaticano II: La maggiore preoccupazione per i poveri, che negli anni Sessanta irruppe nel cattolicesimo, costituiva un brodo di coltura perfetto per qualunque ideologia. Il rischio era snaturare una cosa che la Chiesa ha chiesto nel Concilio Vaticano II e che da allora non ha mai smesso di ripetere: bisogna trovare il cammino giusto per rispondere alla preoccupazione per i poveri, esigenza evangelica imprescindibile e centrale… 15 Il clima incandescente degli anni Sessanta-Ottanta è stato superato. Ritorna il rischio di una visione minimalista dell’impegno per i poveri, che lo riduca alla beneficenza o all’organizzazione assistenziale. Ma soprattutto con la crisi economica mondiale siamo entrati in una stagione in cui l’interesse per i poveri è in calo. Forse c’è una coscienza vittimistica dei propri bisogni, troppo diffusa, per cui non sembra più il tempo di pensare agli altri. Questo è un atteggiamento che si riscontra nella vita personale, ma anche nelle politiche delle grandi istituzioni o degli Stati, che riducono i bilanci della cooperazione allo sviluppo o dell’impegno sociale. La crisi economica spinge a smantellare il welfare state; con esso si incrina la coscienza della responsabilità sociale. Un elemento importante della crisi è il declino di una sinistra, socialista o comunista, impegnata per decenni nelle lotte sociali, la cui azione era stata anche di stimolo per i cristiani, perché non abbandonassero il campo sociale. La sinistra è oggi tendenzialmente più concentrata sulle lotte per i diritti civili che nel contrasto alla povertà. Del resto la coscienza sociale ha perso sensibilmente il senso di indignazione morale di fronte ai casi drammatici. La morte di una persona senza fissa dimora, al freddo, non genera scandalo: diventa spesso un caso di decoro urbano. L’indignazione morale si indirizza sullo sperpero delle risorse dello Stato o sugli sprechi, più che sul dramma e il dolore dei poveri. Papa Bergoglio insiste su questi temi, quasi con il medesimo esempio: Se una notte di inverno, qui vicino in via Ottaviano, per esempio, muore una persona, quella non è notizia. Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così! ... Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città costituisce una tragedia … Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa «cultura dello scarto» tende a diventare una mentalità comune». 16 È avvenuta quella che Luigi Zoja chiama, in un suo libro, La morte del prossimo: «entrati nel XXI secolo,» egli nota «sembra invece che i bisogni individuali siano l’aspirazione universale e la solidarietà l’eccezione». 17 E aggiunge efficacemente: «La solidarietà conosce il sonno, il desiderio non dorme mai. Dioniso è un dio insonne». 18 Per Zoja, lo svuotamento delle chiese è un aspetto fisico della morte metafisica di Dio, mentre lo svuotamento delle associazioni sociali lo è della morte del prossimo. Non è compito dei cristiani aiutare a rifondare una coscienza di solidarietà e di legame sociale? È una coscienza che nasce dal senso di un debito verso i poveri proprio in quest’ora difficile. Anche Bergoglio insiste sul concetto di «debito sociale»: «In tutti i casi di beneficio economico bisogna considerare la dimensione del debito sociale». Si tratta dei rapporti all’interno della città o della società nazionale, ma anche delle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo (anche se oggi in questa parte del globo la geografia della povertà è molto cambiata e conosce aree e settori di grandissima miseria accanto a punte di estrema ricchezza). Attualmente, a differenza degli anni subito dopo il Concilio, la miseria di tanti non fa più troppo scandalo. Alla vigilia di Pentecoste, il papa ha detto: «Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non fa notizia. Oggi è notizia forse uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia!». 19 L’uomo, la donna, il loro dolore non sono al centro dell’interesse generale. Si passa oltre, come il levita e il sacerdote della parabola del buon samaritano, forse perché si crede di avere buoni motivi per pensare a se stessi e proseguire o invece perché la povertà non è più percepita come una domanda. Una ricerca del marzo 2013 sugli italiani e la carità mostra come i donatori sono crollati dal 33 per cento del 2005 al 20 per cento attuale, mentre la quota di chi fa l’elemosina è scesa dal 41 per cento del 2005 al 20 per cento di oggi. Il 53,9 per cento degli italiani è invece ostile o indifferente ai temi della carità. 20 Si può pensare che le difficoltà economiche siano a monte di questo atteggiamento, ma c’è sicuramente anche lo smarrimento profondo del senso di solidarietà. C’è una coscienza sociale da rifondare. Ha affermato il papa: «Se gli investimenti nelle banche calano un po’… tragedia… come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa niente!». 21 Non si tratta certo di recuperare – secondo Bergoglio – i vecchi schemi della lotta di classe. Ma non si può indulgere a credere che il mercato porti provvidenzialmente il benessere e la giustizia per tutti. Da cardinale, nella linea della dottrina sociale della Chiesa, ha avuto accenti severi sul comunismo, ma non ha risparmiato il capitalismo globalizzato. Oggi il dramma del mondo contemporaneo – Bergoglio parla dell’Argentina, ma guarda anche agli altri paesi – è la forbice tra inclusione ed esclusione, che rischia di allargarsi sempre più, facendo aumentare il numero degli esclusi. Spesso, ad esempio, la vecchiaia esclude coloro che avevano passato una parte della loro vita da inclusi. Anche partendo dalla condizione degli anziani, il cardinale ha parlato di «civiltà dello scarto». Nel maggio 2013, già papa, Bergoglio dice ai diplomatici: … va anche riconosciuto che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continuano a vivere in una precarietà quotidiana con conseguenze funeste. Alcune patologie aumentano, con le loro conseguenze psicologiche; la paura e la disperazione prendono i cuori di numerose persone, anche nei Paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va diminuendo; l’indecenza e la violenza sono in aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e spesso per vivere in modo non dignitoso. Una delle cause di questa situazione, a mio parere, sta nel rapporto che abbiamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società. Così la crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr E s 32,15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano. La dittatura dell’economia, secondo il papa, va rimessa in discussione, perché «riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo». In questo quadro, Francesco osserva anche la crisi della dimensione della solidarietà: … oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo incominciato questa cultura dello scarto … In un tale contesto, la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento e il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti. 22 Quale la causa di questa situazione? Il rifiuto di Dio è a monte del rifiuto dell’etica e della solidarietà: «Proprio come la solidarietà, l’etica dà fastidio! È considerata controproducente: come troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere; come una minaccia, perché rifiuta la manipolazione e la sottomissione della persona». Con parole severe il papa continua: «Dio è considerato da questi finanzieri, economisti e politici, come non gestibile, Dio non gestibile, addirittura pericoloso perché chiama l’uomo alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da ogni genere di schiavitù». E conclude con un invito ai politici e al mondo della finanza «a considerare le parole di san Giovanni Crisostomo: “Non condividere con i poveri i propri beni è derubarli e togliere loro la vita. Non sono i nostri beni che noi possediamo, ma i loro”». Questo sistema va cambiato: «Sarebbe auspicabile realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti». I politici debbono riprendersi le loro responsabilità di fronte all’economia, di fronte a una «tirannia invisibile». Proclama papa Bergoglio: «Il denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo. Il Papa esorta alla solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’etica in favore dell’uomo nella realtà finanziaria ed economica … Si formerà allora una nuova mentalità politica ed economica che contribuirà a trasformare la dicotomia assoluta tra la sfera economica e quella sociale in una sana convivenza». 23 Una simile situazione è intollerabile, secondo una visione che Bergoglio nutre da tempo. Dichiara il documento dei vescovi argentini per il Bicentenario, nel 2010: il paese «ha troppi poveri e esclusi che abbiamo saputo creare durante gli ultimi decenni. Dietro i numeri ci sono persone, uomini, donne, anziani, giovani, bambini». 24 Questi sono i poveri da aiutare e da liberare. Il futuro papa Francesco è quasi «utopico» nei suoi intenti: «Non devono esserci poveri e non c’è peggiore povertà – mi preme sottolinearlo – di quella che non ci permette di guadagnare il pane, che ci priva della dignità del lavoro». 25 L’uguaglianza resta sempre un ideale che, realisticamente, va perseguito. Anzi Bergoglio si lascia andare a una riflessione di grande rilievo, sulla scia dell’affermazione di Giovanni Paolo II all’UNESCO: se la fede non diventa cultura resta irrilevante. Questa idea ha molto colpito Bergoglio, tanto che la ricorda spesso. La proposta del futuro papa Francesco è che la fede generi una cultura condivisa della giustizia. Se la fede non diventa cultura della giustizia, è irrilevante. Questa è la sfida della creazione di una nuova coscienza sociale condivisa – fresca e vitale, non dottrinaria – della giustizia e della solidarietà: … l’uomo religioso integro è chiamato uomo giusto, perché porta giustizia agli altri. In questo senso la giustizia del religioso o della religiosa creano cultura. Non è la stessa cosa la cultura dell’idolatria rispetto alla cultura creata da una donna o da un uomo che adorano il Dio vivo. Giovanni Paolo II diceva una cosa molto coraggiosa: una fede che non si fa cultura non è una vera fede. Sottolineava il creare cultura. 26 La fede vissuta genera una cultura (che ha i suoi limiti storici), ma è anche creatrice di un senso condiviso di giustizia. Questa è la grande differenza dalle «culture idolatriche», centrate sul culto di sé e del proprio interesse, attraverso il liberismo sfrenato, il consumismo, l’edonismo, i vari tipi di relativismo. La cultura della giustizia ha al centro l’uomo, anzi ha un rapporto privilegiato con i poveri. Il senso di giustizia guida a liberare i poveri dalla loro condizione periferica e di esclusione sociale. Bisogna ricreare una nuova mentalità, perché la pratica della cultura dello scarto ha reso insensibili – è un aspetto importante – allo spreco degli scarti alimentari in una parte del mondo, mentre in un’altra molti soffrono la fame. Il consumismo ha creato un’assuefazione a questa pratica immorale: «Ricordiamoci bene, però,» ammonisce il papa «che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame!». 27 Per Bergoglio bisogna lottare contro la povertà, trovando i percorsi di inclusione e di liberazione dal peso della miseria. In questo senso la sua parola stimola un pensiero ormai rassegnato al fatto che non si possono discutere l’economia e le sue leggi. Per un cristiano che vede Gesù presente nei poveri, non ci può essere rassegnazione nel sostenerli concretamente e nel liberarli da una condizione ingiusta. Una Chiesa amica dei poveri I poveri non sono utenti dei servizi sociali della Chiesa, bensì quei «piccoli fratelli» di Gesù che fanno parte in modo tutto particolare della famiglia della comunità cristiana. Come non considerare nostri fratelli coloro in cui Gesù si riconosce? Questa coscienza modella il rapporto tra i cristiani e i poveri: la cura dei poveri diventa simile a quella che si presterebbe a qualcuno della propria famiglia (non solo aiuto materiale, ma affetto, parole, interessamento, amicizia). Parlando delle persone della Comunità di Sant’Egidio a Buenos Aires, che si avvicinano ai poveri in modo familiare, il cardinal Bergoglio ha detto: loro si preoccupano «continuamente di aprire strade a quelli che si sentono indegni, perché credono che ci sia posto per loro e sono i preferiti». 28 Il papa ha una visione chiara della presenza dei poveri nella vita del cristiano e della Chiesa. Nella conversazione con il rabbino Skorka, c’è una pagina importante in proposito: Nel cristianesimo l’attitudine nei confronti della povertà e del povero è – essenzialmente – di autentico impegno. E aggiungo l’impegno deve essere corpo a corpo. Non basta che sia mediato dalle istituzioni; benché queste ultime siano utili perché moltiplicano l’azione, non è sufficiente, siamo obbligati a stabilire un contatto con il bisognoso. Bisogna curare il malato – anche quando suscita una certa repulsione –, visitare il carcerato … Mi fa orrore andare in carcere, perché quello che si vede è molto duro, ma vado comunque, perché il Signore desidera che mi trovi a contatto con il bisognoso, il povero, il sofferente. 29 L’amore per i poveri è una storia di contatto personale – «corpo a corpo» dice Bergoglio – e non solo di impegno istituzionale o organizzativo. Questo contatto personale diventa legame e amicizia: «la compassione si converte in comunione» 30 afferma il cardinale in un’omelia del 2003. Ogni cristiano deve essere amico dei poveri, e di un povero come persona concreta. Questa familiarità impegna i credenti a liberare il povero dall’esclusione, perché gli manca il lavoro o un luogo dove vivere: «la persona amata mi chiede di mettermi al suo servizio» dice Bergoglio. Il cristiano è tutt’altro che rassegnato di fronte alla povertà. Ricordando i mendicanti, il cardinale chiede ai cristiani se parlino personalmente con loro, se li tocchino o diano loro solo l’elemosina: «molti gettano la moneta e voltano la testa». 31 I poveri chiedono amicizia e possono dare amicizia. Nel discorso pronunciato alla mensa per i poveri della Comunità di Sant’Egidio, Benedetto XVI ebbe un’espressione felice sul rapporto tra chi è accolto e chi accoglie: «Qui oggi si realizza quanto avviene a casa: chi serve e aiuta si confonde con chi è aiutato e servito, e al primo posto si trova chi ha maggiormente bisogno». 32 E, dopo la visita alla casa per gli anziani di questa Comunità, Benedetto XVI avrebbe avuto un’espressione analoga: «Questo è importante in ogni fase della vita: nessuno può vivere solo e senza aiuto; l’essere umano è relazionale. E in questa casa vedo, con piacere, che quanti aiutano e quanti sono aiutati formano un’unica famiglia, che ha come linfa vitale l’amore». 33 La Chiesa dei poveri è una comunità che include i poveri come una famiglia, insomma una comunità che non solo parla dei poveri, ma è loro amica. Una Chiesa amica dei poveri, che considera i poveri come suoi fratelli, sceglie di realizzare la sua missione con mezzi poveri. Non si tratta di quel pauperismo utopico o estetico, che ebbe nel postconcilio qualche vivace espressione (contrapposta a un trionfalismo barocco). I mezzi poveri non sono una scelta rinunciataria. Privilegiare i mezzi poveri non è negarsi a grandi imprese di liberazione o di servizio, ma è capire quale sia la forza, umile e debole, del cristianesimo: la parola, la misericordia, l’insegnamento, il consiglio, l’amore, il contatto, la fedeltà, la presenza personale, le idee… È la forza debole del Vangelo, che cambia i cuori e il mondo, ma non si impone e non domina. Dice il cardinal Bergoglio: «La forza della Chiesa è la comunione, la sua debolezza è la divisione». 34 Il mondo si cambia, quando il cuore delle donne e degli uomini si apre al Vangelo. Così il primo impegno di papa Francesco è la predicazione, la «stoltezza» della predicazione per dirla con l’apostolo Paolo. Una Chiesa povera è una Chiesa della Parola. Una Chiesa povera è però soprattutto amica dei poveri. Il cardinal Bergoglio, nella relazione al Sinodo del 2001, ha detto sulla figura del vescovo: La sua fedeltà al Vangelo e il suo amore per lo spirito di povertà portano il vescovo a una particolare predilezione per i poveri, che sono il nucleo centrale della Buona Novella di Gesù, a camminare con loro. Non dimentica che nel giorno della sua consacrazione episcopale è stato interrogato sulla sua intenzione di guidare i poveri. Sta imparando a guardare alla gente come la guardava Gesù. È padre e fratello dei poveri della sua diocesi. Il suo essere contemplativo e la sua carità pastorale lo portano a scoprire i nuovi volti che oggi, nella vita moderna, hanno assunto «la vedova, l’orfano e lo straniero» della Scrittura… 35 Nel contatto con la gente – come si percepisce bene dalle immagini delle udienze – papa Francesco ha riservato una particolare attenzione ai poveri, soprattutto alle persone con disabilità. La Chiesa amica dei poveri è una comunità di uomini e donne che non ha paura della tenerezza verso i deboli. Il volto di questo papa, il suo aspetto, i suoi gesti, divengono una proposta di pastoralità alla Chiesa, in particolare ai vescovi. È un esempio che si propone, non una direttiva. Il vescovo di una Chiesa amica dei poveri, vicino ai poveri, che cammina come tutti, è la vera risposta alla mondanità ecclesiastica. Bergoglio ricorda le parole di Gregorio Magno sui pastori che vivono una vita mondana, cercando onore e prestigio. 36 Il papa ha presente in modo particolare una delle ultime pagine del libro di Henri de Lubac, Meditazione sulla Chiesa (a lui molto caro), dove si legge: E il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste stesse vittorie, è quella che dom Vonier chiamava «mondanità spirituale». 37 Papa Francesco insiste sulla «mondanità spirituale», che significa «mettere al centro se stessi».38 La mondanità spirituale nella vita ecclesiastica diventa carrierismo: «La parola carriera suggerisce l’immagine di una gerarchia, come se fosse un’azienda. Al contrario: tutto parte dal fatto che si è chiamati, convocati, toccati da Dio». 39 Da papa, più volte, insiste sul tema del carrierismo e del ministero ecclesiastico concepito come carriera: è una mentalità che deve cambiare a suo avviso. Di fronte alla mondanità spirituale, si lascia andare a un’espressione che può sembrare eccessiva: «Se ciò riguardasse la Chiesa intera, sarebbe una situazione molto peggiore rispetto a quelle epoche vergognose di pastori libertini. Il peggio che ci può accadere nella vita sacerdotale» conclude «è essere mondani, vescovi o preti light, “leggeri”». 40 Una Chiesa amica dei poveri è lontana dalla mondanità spirituale. I poveri aiutano la Chiesa, i preti e i vescovi a essere migliori e a vivere meglio il loro ministero. Aiutano chi si avvicina per aiutarli. I poveri portano vicino al dolore della croce: «Quando camminiamo senza la croce,» ha detto il papa ai cardinali «quando edifichiamo senza la croce e quando confessiamo un Cristo senza croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore». 41 La vicinanza ai poveri ha un profondo effetto di cambiamento nella vita ecclesiale e personale. Nel 1946, la rivista cattolica francese «Esprit» interrogò alcuni credenti sul rapporto tra mondo moderno e cristiani. Il filosofo Étienne Gilson rispose invitando a non avere nostalgia del passato mondo cristiano. Tra l’altro, spiegò perché la Chiesa «s’intende» meglio con i poveri che con le altre categorie di persone: «La Chiesa ha sempre evangelizzato i ricchi come i poveri, ma essa si è sempre fatta più facilmente capire dai poveri che dai ricchi, la beatitudine che promette ai poveri è la stessa che promette ai ricchi, e la miseria che minaccia ai ricchi è la stessa che minaccia a tutti gli uomini, eccetto i poveri…». 42 I poveri, secondo Gilson, ricordano ai ricchi e alla Chiesa che questo mondo è incompiuto. Richiamano alla fragilità della vita umana, da cui è impossibile fuggire, nonostante i tentativi di cosmesi e di eternizzazione del presente. Una Chiesa che frequenta i poveri e parla con loro non sarà tentata dalla mondanità spirituale, dall’ammirazione e dall’imitazione dei ricchi, dalla ricerca di influenza sulla società o sui suoi dirigenti. Non sarà una Chiesa antipatica, ma porrà la misericordia come fermento dei suoi rapporti con la gente. La cultura della rottamazione La Chiesa, ingrigita negli anni, è anche una comunità che non ha saputo affrontare il tema della vecchiaia e dell’aumentato numero di anziani. È il grande dramma umano dell’Europa e ormai di tutte quelle società, laddove lo sviluppo e la medicina hanno prodotto un allungamento della vita media. Paradosso del progresso: in Occidente non si capisce se l’aumento della popolazione anziana sia un valore o un peso sociale. La vita degli anziani diventa difficile con il passare degli anni, segnata dal marchio dell’inutilità. Spesso i vecchi non possono restare nelle loro case (perché non opportunamente sostenuti o impossibilitati a rimanere). Si crea quel popolo di vecchi che, tristemente, affolla gli istituti dove si aspetta di morire. La famiglia, sempre più assottigliata, non sopporta il numero crescente di anziani. La società non riesce a gestire in modo adeguato il gran numero degli anziani, aiutandoli a restare a casa. C’è una mancanza di pensiero, prima che di strategia sociale, peraltro tanto carente. È la grande contraddizione di una società che ha compiuto quasi un miracolo (atteso da secoli), allungare la vita, ma non riesce a gestire questo suo indubitabile successo e a goderne. Che cosa significa spiritualmente invecchiare? C’è, nelle nostre società, un vero continente anziano da evangelizzare e a cui parlare di speranza, mentre cade sovente nella disperazione o è dominato da un diffuso senso di inutilità. Spesso la pastorale ecclesiale ha preferito dedicarsi ai giovani, voltando le spalle agli anziani che sono «vecchi clienti» della Chiesa. Il mondo degli anziani resta non evangelizzato. Spesso non accolto nella Chiesa. È un grande e doloroso problema. La vita dell’anziano, nella sua fragilità, è più vulnerabile in un sistema sociale che non è alla sua misura. In Africa, l’anziano fino a ieri era considerato come un valore per la società (si diceva che quando moriva un anziano era come se bruciasse una biblioteca); ma oggi, con l’aumento del numero dei vecchi, la vita dell’anziano significa molto poco da un punto di vista sociale, anzi ci sono taluni casi di eliminazione violenta degli anziani, talvolta considerati stregoni perché «ruberebbero» la vita ai giovani. Questo atteggiamento negativo è il frutto, anche nei paesi africani, di un cambiamento umano, dell’aumento del numero dei vecchi e di una profonda impreparazione culturale e sociale. Papa Bergoglio ha condotto una riflessione originale sugli anziani, che nasce dalla sua esperienza pastorale nella società argentina. Infatti questo papa è un uomo dalla grande esperienza umana, maturata nell’incontro con gli altri. Ha anche avuto un felice rapporto con gli anziani nella sua famiglia. Il suo pensiero spicca nel mondo della Chiesa, dove sono carenti le riflessioni su questa età. Per Bergoglio la società non si divide in oppressi e oppressori come voleva una certa visione marxista: oggi ci sono gli inclusi e gli esclusi. I primi e più evidenti esclusi sono gli anziani. Afferma il cardinale: In molte famiglie, i genitori devono lavorare e allora bisogna ricorrere a un ospizio che si prenda cura del nonno. Spesso, però, non si tratta di impegni di lavoro, bensì di mero egoismo: in casa i vecchi danno fastidio, magari hanno cattivo odore. E allora si finisce per destinarli a una casa di riposo, con la stessa facilità con cui in estate si ripone il cappotto nell’armadio … Sovente, però, quando mi reco in visita in un istituto geriatrico e domando agli anziani dei loro figli, mi rispondono che non li vedono perché devono lavorare, ossia cercano di giustificarli. E non sono pochi quelli che abbandonano chi ha dato loro da mangiare… 43 È frequente sentire gli anziani negli istituti che giustificano i loro figli e i loro parenti per la mancanza di visite: così difendono la loro dignità e nascondono il loro dolore. Ma soprattutto colpisce l’espressione di Bergoglio: si decide di mettere un anziano in istituto, come si ripone, d’estate, un cappotto nell’armadio. Si è verificata una frattura profonda nella nostra società, manifestata dal distacco dagli anziani: «Ogni volta» dice il futuro papa «che abbandoniamo i nostri vecchi nelle case di riposo con tre palline di naftalina in tasca, come se fossero un soprabito o un cappotto, vuol dire che c’è qualcosa che non va nella nostra dimensione nostalgica, perché mantenere il contatto con i propri nonni vuol dire tornare a incontrare il nostro passato». 44 Il disprezzo degli anziani è sintomo di una vita sociale non più concepita sulla misura delle famiglie, come storia e continuità tra generazioni. Si esalta il presente e si butta via il passato: la vita non è né storia né famiglia. In realtà la questione degli anziani è, secondo il cardinale, rivelatrice della malattia profonda della società. Ricostruire il rapporto con gli anziani vuol dire sanare questo male profondo: «Perché nell’avidità insaziabile del potere, del consumismo e della falsa eternagiovinezza, gli estremi più deboli sono esclusi in quanto materiale a perdere in una società che diventa ipocrita, tutta presa a soddisfare il proprio “vivere come si vuole” (come se ciò fosse possibile), con il solo criterio dei capricci adolescenziali non risolti. Sembra che il bene politico e comune poco importi finché sentiamo l’“ego” soddisfatto». 45 L’abbandono degli anziani è ormai divenuto un fenomeno socialmente accettato, talvolta introiettato dagli anziani stessi. Afferma Bergoglio: … gli anziani sono abbandonati, e non solo nella precarietà materiale. Sono abbandonati nella egoistica incapacità di accettare i loro limiti che riflettono i nostri limiti, nelle numerose difficoltà che oggi debbono superare per sopravvivere in una civiltà che non gli permette di partecipare, di dire la propria, né di essere referenti secondo il modello consumistico del «soltanto i giovani possono essere utili e possono godere». Questi anziani dovrebbero invece essere, per tutta la società, la riserva sapienziale del nostro popolo. Con quanta facilità si mette a dormire la coscienza quando non c’è amore! 46 Un problema nel rapporto con gli anziani è proprio la paura della loro debolezza, ossia il timore di vedere e toccare i deboli, quasi possa avvenire un contagio che ruba la giovinezza o la salute. Anche perché la lotta dell’esistenza sembra spesso quella di negare gli anni che passano, nasconderli nell’idea di una giovinezza senza fine. Gli anziani sono rivelatori del limite e della fragilità: meglio allontanarli. Invece chi li avvicina ne scopre il valore. 47 In una società dalle rapide innovazioni, sembra retorico affermare, come fa il cardinale, che il valore degli anziani consiste nell’essere una riserva di sapienza. Che cosa possono insegnare ai giovani? Il gap tra generazioni è rapido e profondo. In realtà, alla luce di un rapporto personale, fatto di attenzione e di amore, si scopre il vero valore degli anziani. Basti pensare all’importante ruolo dei nonni verso i nipoti. Ma non solo. Una società privata dei suoi anziani è senza storia e senza famiglia. In una logica consumista e narcisista, dice Bergoglio, gli anziani «sono materiale a perdere»: «li gettiamo nella spazzatura». Il cardinale ha un’espressione efficace: la nostra è diventata la «cultura della rottamazione». Per concludere: «Quello che non serve si butta via». 48 Il cardinal Bergoglio si interroga sul domani: «Sapremo preservare questi giovani dalla cultura della “rottamazione” che si sta diffondendo?». La Chiesa deve parlare alla gente, anche perché è la voce dei senza voce. Anche degli anziani. E gli anziani, nella loro debolezza e povertà, rivelano la disumanità della nostra società: «I gerontocomi e le case di riposo per anziani sono sempre più numerosi» afferma Bergoglio. «Il loro affollamento e abbandono, come il trascurare la salute degli ospiti, fanno di questi luoghi veri e propri “depositi di vecchi”. Sebbene l’eutanasia non sia consentita in molti paesi, con questi atteggiamenti di esclusione e abbandono, di fatto essa viene attuata in maniera occulta». 49 La Chiesa può proporre un’altra strada, difendendo gli anziani, aiutando la società e le altre generazioni a non essere deprivate della loro presenza. Per questo, in sintonia con il documento di Aparecida (l’ultima conferenza dei vescovi latinoamericani), l’arcivescovo di Buenos Aires afferma con forza: «La vecchiaia è un bene e non una disgrazia». Ma bisogna aiutare a scoprire e vivere questa realtà. Per questo Bergoglio propone un itinerario di riconciliazione tra le generazioni, basato sul rispetto e la gratitudine per gli anziani e sulla riconoscenza per le loro fatiche in favore della società e delle famiglie. Poche comunità ecclesiali hanno avuto la maturità di riflettere sull’inclusione degli anziani, sebbene la povertà della terza età finisca con il passare del tempo per toccare inevitabilmente tutti. Eppure gli anziani sono una parte cospicua dei partecipanti alle liturgie, si dedicano ai bisognosi e alle attività della Chiesa, mentre, dice il cardinale, «la loro preghiera sostiene la Chiesa».50 Per questo l’itinerario di inclusione proposto da Bergoglio ha un particolare significato. Una comunità cristiana non riconciliata con i suoi anziani non è certo amica dei poveri. L’amicizia con gli anziani è una proposta di umanesimo che la Chiesa può fare alla città: «Si tratta di costruire uno spazio comune con tutti i membri della società e non solo della costruzione di “ricoveri” perché i nostri vecchi non disturbino». 51 La Chiesa e le famiglie debbono nutrire rispetto per gli anziani: «noi vogliamo alzarci in piedi dinanzi ai nostri anziani e fargli sentire che sono importanti agli occhi di Dio e che sono ancora utili alla famiglia e alla società». Eppure il messaggio subliminale della società è che rappresentano un peso e rubano spazio ai giovani. Bisogna praticare l’attenzione personale agli anziani, per combattere il messaggio di morte che viene loro inviato. L’attenzione passa attraverso il dialogo con loro, accettando il loro modo di esprimersi (sono lenti? poco concisi? ripetitivi?), tipico di un’altra generazione e di un’altra età. La vera considerazione per un anziano è parlargli con attenzione. E si scopre il valore della memoria assieme a una grande capacità di affetto. Fare spazio agli anziani nella Chiesa, peraltro, vuol dire anche proporre loro il senso religioso della vita: una compagnia «che mitighi l’angoscia che produce la vicinanza della morte», che aiuti a vivere la sofferenza, a pregare, a scoprire l’utilità di una vita meno abile che nel passato. Una Chiesa amica dei poveri non può non essere una Chiesa che fa spazio agli anziani e che aiuta i giovani, le famiglie e la società a scoprire il valore di una lunga vita. Una Chiesa povera è anche una comunità che si serve dell’impegno degli anziani, scartati dalla società, la cui preghiera sorregge tutti i credenti. Nella Chiesa non c’è spazio per la cultura della rottamazione. Un uomo non è mai un rottame. E la Chiesa non si vergogna di essere comunità di chi è considerato scarto o rottame. Un uomo come tutti La povertà della Chiesa deve riflettersi nello stile povero della Chiesa stessa e del vescovo. È un tema toccato, durante il Vaticano II, dal gruppo di lavoro dei vescovi sulla Chiesa e i poveri. Al termine del Concilio, un nutrito gruppo di padri conciliari firmò un documento, frutto di questo lavoro, che voleva essere una proposta alla Chiesa e un impegno personale. È un testo chiamato «Patto delle catacombe», perché firmato nei pressi di quelle di Domitilla a Roma. Vi si legge: Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso … Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi … Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale … Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di «padre» … nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti … Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad altre persone o gruppi della diocesi. 52 Questo testo includeva un impegno a insistere presso i governi per la promozione dei più poveri; affermava anche la responsabilità dei vescovi nei confronti del mondo povero del Sud. L’esercizio della solidarietà veniva considerato come un aspetto della collegialità episcopale: «Poiché la collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica nell’assumersi in comune l’onere delle masse umane in stato di miseria ... (due terzi dell’umanità) … ci impegniamo a raggiungere insieme … lo stabilimento di strutture economiche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni proletarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria». 53 Lo stile di vita dei vescovi, in genere, pur semplificato dalle riforme e dalle scelte personali, ha conservato alcuni tratti che forse quei vescovi del «Patto delle catacombe» intendevano invece cambiare. Quando il cardinal Bergoglio parla di uno stile semplice e povero del vescovo ha presente, oltre la sua scelta personale, la spiritualità del Vaticano II. In una relazione al Sinodo dei vescovi del 2001 ha infatti detto: Uno degli aspetti più segnalati dai Padri sinodali riguardo alla santità del vescovo è la sua povertà. Uomo di cuore povero, è immagine di Cristo povero, imita Cristo povero, essendo povero con discernimento. La sua semplicità e austerità di vita gli conferiscono una completa libertà in Dio. 54 La Chiesa del postconcilio ha cercato di identificare il significato della povertà nello stile e nei mezzi per la sua missione. Non è stato facile, perché non si trattava di compiere gesti eclatanti né di operare riforme radicali. C’è uno stile da realizzare nella vita degli uomini di Chiesa, dei vescovi e dei cristiani. Bergoglio lo ha incarnato da arcivescovo di Buenos Aires e lo ha mantenuto, pur in un contesto complicato come quello del papato. Il fatto che Bergoglio, per esempio, amasse usare, per gli spostamenti nella capitale argentina, i mezzi pubblici, non era frutto di esibizionismo pauperistico, ma della sua scelta di camminare in mezzo alla gente e di essere come tutti. Vorrei dire che il cardinale si sentiva più a suo agio in questo modo. Così ha spiegato la sua modesta abitazione da arcivescovo: «la mia gente è povera e io sono uno di loro». D’altronde trovava che essere come tutti lo aprisse al contatto e lo rendesse accessibile. La semplicità nella vita da papa mostra un uomo, divenuto successore di Pietro, che non vuole perdere il contatto umano, smettere di essere uno tra gli altri. Il papa è un prete e un vescovo. Francesco non vuole esercitare il suo ministero nelle forme della «sovranità», che hanno accompagnato i papi per molti secoli e che, pur fortemente ridotte dai suoi predecessori, non sono del tutto scomparse. Del resto, anche dopo la fine del potere temporale, con accentuazioni diverse, i papi hanno creduto che la sovranità di uno Stato, per quanto simbolica, fosse garanzia della loro libertà. Qualcosa delle forme sovrane è quindi rimasto anche per scelta consapevole, sebbene Paolo VI abbia fatto cadere quasi tutti gli aspetti della corte pontificia. Benedetto XVI ha restaurato qualche forma, non sovrana, ma di solennità tradizionale, che il suo successore ha lasciato cadere. L’idea della sovranità è legata all’antica concezione della monarchia papale. Scriveva Bernardo di Chiaravalle al suo discepolo Eugenio III: il papa è successore dell’apostolo Pietro e non di Costantino. Vale la pena ripercorrere una pagina del suo De consideratione: Costui è Pietro, del quale nessuno racconta che camminasse ornato di gemme, vestito di seta, coperto d’oro, cavalcando un cavallo bianco, circondato da soldati, accompagnato da un rumoroso seguito di servi. Eppure egli, senza alcuno di questi ornamenti, credette di poter adempiere la missione salvifica che gli era stata affidata con queste parole: «Se mi ami, pasci i miei agnelli». In tutte queste cose, invece, tu sembri essere succeduto non a Pietro ma a Costantino. 55 Significativamente Bernardo di Chiaravalle pensa che, dati i tempi, taluni aspetti esteriori debbano essere tollerati. Ma Eugenio III non deve considerare gli onori come tributati a lui. In realtà, nella storia del papato, non si può giudicare una lontana stagione storica con la sensibilità odierna. Anche il cardinal Bergoglio insiste sul fatto che non si può capire il passato senza rifarsi alla mentalità e ai problemi di quel periodo. Ma oggi Bergoglio vuol essere un papa semplice e povero: non un monarca della Chiesa, ma il vescovo di Roma. La proposta che il papa fa a tutti i vescovi è un modello pastorale ben lontano da quello del «principe» e dalla logica della carriera. Ha detto ai vescovi latinoamericani: «I Vescovi devono essere pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi. Uomini che amano la povertà, tanto la povertà interiore come libertà davanti al Signore, quanto la povertà esteriore come semplicità e austerità di vita. Uomini che non abbiano “psicologia da prìncipi”. Uomini che non siano ambiziosi e che siano sposi di una Chiesa senza stare in attesa di un’altra…». 56 Nell’intervista concessa ai giornalisti di ritorno dal Brasile, ha insistito sul ministero del vescovo: «C’è sempre il pericolo di pensarsi un po’ superiori agli altri, non come gli altri, un po’ principe. Sono pericoli e peccati. Ma il lavoro di vescovo è bello: è aiutare i fratelli ad andare avanti. Il vescovo davanti ai fedeli, per segnare la strada; il vescovo in mezzo ai fedeli, per aiutare la comunione; e il vescovo dietro ai fedeli, perché i fedeli tante volte hanno il fiuto della strada». 57 Questo modello episcopale non può essere imposto, ma solo proposto dal papa ai vescovi. Bisognerà vedere nei prossimi anni come sarà recepito. In ogni modo, in tutti i suoi gesti, papa Francesco dà testimonianza di un modo pastorale e povero di essere vescovo. In papa Francesco c’è la scelta di non farsi proteggere dall’isolamento tradizionale del papa per essere più liberamente e in modo meno condizionato «padre di tutti». La distanza dai contatti e dai condizionamenti aveva invece la funzione di esaltare un papato che apparteneva nello stesso tempo a tutti e a nessuno. Francesco vuol essere fratello di tutti: la sua via è uno stile di vita il più simile possibile a quello della gente, nonostante la particolarità del suo ministero. È interessante ritornare ai consigli che Bernardo di Chiaravalle dava al suo discepolo-papa: «È penoso parlare ancora della curia, è ora di uscire dal palazzo: ci aspettano nella tua casa. Quelli della tua casa non solo ti stanno attorno ma, in certo modo, stanno dentro di te». 58 Anche papa Francesco sa che le persone con cui si vive non stanno solo al fianco, ma anche «dentro»: per questo bisogna essere cauti. La semplicità della sua vita e la sobria residenza a Santa Marta vogliono consentire al papa di essere uno come tutti. La libertà di comunicare il Vangelo non è difesa dalle forme della sovranità o dall’isolamento, ma è protetta dalla semplicità. Giovanni XXIII aveva colto la forza della semplicità. Il giorno del suo ingresso nella basilica lateranense nel 1959 aveva ricordato come quell’atto in passato si compisse con «il fasto dei bei tempi lontani». Invece, con la fine di quel mondo, si era acquistato tanto significato spirituale: «Non è più al principe, che si adorna dei segni della possanza esteriore, che ormai si riguarda: ma al sacerdote, al padre, al pastore» aveva concluso papa Giovanni. Monsignor Capovilla, suo segretario, avrebbe commentato: il papa «riprese … a camminare uomo tra gli uomini, per le strade del mondo». 59 E si vide che era un uomo di fede, tanto da suscitare una simpatia immediata e profonda tra la gente. Francesco o cambiare il mondo Jorge Bergoglio conosce il dolore che si annida nelle pieghe della città globale e del mondo. Qualche volta la sua lettura della situazione contemporanea è severa, tanto che sente il bisogno di affermare che il suo non è pessimismo, ma descrizione della realtà. Il Mercoledì delle ceneri del 2013, il cardinale ha affermato: «Il dramma è nelle nostre strade, nei quartieri, nelle nostre case, e ancora nel nostro cuore. Conviviamo con la violenza che uccide, distrugge famiglie, alimenta guerre e conflitti in tanti paesi del mondo». Per soggiungere poi: «Il dominio del denaro con i suoi effetti demoniaci, come la droga, la corruzione, la tratta delle persone – e anche dei bambini – e insieme la miseria morale e materiale, sono diffusissimi». 60 Parla di uomini, donne, ma soprattutto bambini divenuti ormai schiavi. Nel 2005 aveva invitato a guardare alla gente che vive per strada, ai bambini e ai giovani, senza famiglia, adusi a ogni lavoro e alla droga. Notava come la povertà dei bambini non suscitasse più indignazione («non vorrei» dice Bergoglio «che i nostri occhi si abituassero a questo nuovo paesaggio urbano…»). 61 L’abitudine alla miseria altrui è per il cardinale la rassegnazione al fatto che si può far poco, mentre i problemi sono immensi. Ma i poveri non sono solo una questione sociale: «prima di tutto» dichiara il cardinale «questo è un problema umano. Ha nomi e cognomi, spiriti e volti». 62 Di fronte al groviglio dei problemi, viene da chiedersi che cosa si può fare. Si può cambiare il mondo? È una domanda da porsi di fronte alla miseria vicina, ma anche innanzi agli scenari di povertà e guerra, a cui ogni giorno ci avvicinano i media. È una domanda da porsi di fronte al complesso sistema di condizionamenti dell’economia internazionale e dei mercati finanziari. Afferma il cardinale: La trappola dell’impotenza ci porta a riflettere. Ha un senso cercare di cambiare tutto ciò? Possiamo fare qualcosa dinanzi a questa situazione? Vale la pena di tentare se il mondo continua nella sua carnevalata nascondendo continuamente tutto? 63 C’è un’«impotenza della solidarietà». Per questo Bergoglio afferma: «Non basta essere buoni e generosi: bisogna essere intelligenti, capaci, efficaci». 64 La vicinanza ai poveri è già una fattiva contestazione di una società impregnata di mercatismo, in cui tutto si vende e tutto si compra e, in conseguenza, ha valore solo ciò che ha un prezzo. Vicina ai poveri, l’esistenza cristiana manifesta un’altra sensibilità verso ciò che veramente vale. Si può dire che il legame cristiano con i poveri esprime una rivolta del gratuito contro l’egemonia economica, sociale e culturale, del mercato. Infatti, anche quello che sembra così assodato e indiscutibile può essere cambiato. 65 Si può cominciare a discutere e pensare un modo diverso di vivere. E per cambiare il mondo si comincia dal cambiare se stessi vivendo con «una mente aperta e un cuore credente», come dice il cardinale. Questo non può essere impedito da nessuno. Ed è già di per sé un’enorme forza di cambiamento. Bergoglio, pur non avendo una visione «politica», crede che il mondo possa essere cambiato. Del resto chi frequenta i poveri e chi ha i poveri nel cuore (tra i prossimi della sua esistenza) non può accettare un mondo dove tanti soffrono e sono privati del necessario. Questo grande dolore mette in luce un sistema che non funziona, perché non è giusto né umano. Ci vogliono profonde trasformazioni. Già ci si è soffermati sull’idea di Bergoglio che la fede e l’amore debbano produrre una cultura di giustizia; ma anche sul fatto che l’esclusione e la povertà debbano diminuire e non crescere, come avviene. Non si tratta di un vago utopismo. Il cardinale è convinto che ogni uomo possa trasformare il mondo a partire dalla sua esistenza: «la capacità di creare può cambiare la vita». Lo afferma raccontando la storia di ragazzi poveri della bidonville di Barracas, a cui è stata offerta da uno dei suoi preti, padre Pepe Di Paola, un’alternativa alla strada, quella della scuola professionale. È l’educazione alla cultura del lavoro. La capacità di generare lavoro è una delle migliori risposte alla crisi. In questo senso, anche gli impegni concreti ma circoscritti dei cristiani contribuiscono a cambiare il mondo. C’è poi da recuperare il compito dello Stato per «assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e di solidarietà…». 66 Insomma l’arcivescovo di Buenos Aires chiede una più forte responsabilità sociale dello Stato, ma pensa anche che la società deve fare la sua parte. Il cardinale ha sempre criticato una politica ripiegata su se stessa: «quando una persona dimentica di guardarsi intorno, vede solo se stessa e la propria cerchia e perde di vista il popolo» ha detto rivolto alle alte cariche dello Stato argentino nel 1999. 67 La credibilità dello Stato si gioca su questo: creare solidarietà e lottare contro la povertà. Il cardinale afferma: «Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili questi cambiamenti e modificare alla radice il modo con cui si affrontano i problemi della diseguaglianza e distribuzione». 68 Il futuro papa Francesco ha vissuto in anni in cui la società argentina è stata segnata dallo scontro tra il conservatorismo e l’utopismo rivoluzionario. L’utopismo intendeva cambiare drasticamente e rapidamente la società con la lotta armata. È una visione che ha coinvolto anche taluni cattolici, laici, preti o religiosi. Bergoglio si è misurato con essa e ne ha parlato: Una scorciatoia … ha la componente etica di un inganno: per evitare la via maestra si sceglie il sentiero… Transitare alla pazienza presuppone accettare che la vita sia proprio questo: un continuo apprendistato. Quando uno è giovane pensa di poter cambiare il mondo, ed è giusto, deve essere così. Ma poi, quando cerca meglio, nella propria vita e in quella degli altri scopre la pazienza. Transitare nella pazienza significa accettare il tempo… 69 Non si tratta di un atteggiamento rassegnato, tanto che Bergoglio avverte: «Attenzione, la pazienza cristiana non è quietista o passiva. È la pazienza di San Paolo, quella che implica di portare sulle spalle la storia. È l’immagine archetipica di Enea che, mentre Troia brucia, si carica il padre sulle spalle … si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro». La pazienza non si risolve nell’immobilismo, ma nel caricarsi il peso della storia alla ricerca del futuro. Caricarsi la storia sulle spalle richiede di «transitare nella pazienza» e di accettare di misurarsi con il tempo. Infatti – dice il cardinale – «non possiamo creare qualcosa di nuovo nella storia se non a partire dai materiali che la stessa storia ci offre». 70 Le rivoluzioni più vere e i cambiamenti più grandi vengono realizzati dagli spirituali e hanno radici nello spirito. Nella conversazione con il rabbino Skorka, Bergoglio parla del francescanesimo come attore di cambiamenti nella storia: «Francesco ha apportato alla storia del cristianesimo una nuova concezione della povertà in opposizione al lusso, all’orgoglio e alla vanità dei poteri civili ed ecclesiastici dell’epoca. Ha sviluppato una mistica della povertà e della privazione, e ha cambiato la storia». 71 In effetti la figura di san Francesco, pur tra le miriadi di figure di santi del cattolicesimo, è una personalità unica che non tramonta con il passare dei secoli. Francesco non ha cambiato la storia del suo tempo con la politica o le armi, ma è partito dalla predicazione del Vangelo, che ha generato un movimento di spirituali, donne e uomini: sono loro che, in un’epoca di monasteri e grandi cattedrali, hanno portato il Vangelo per strada, nella vita quotidiana. Da questo movimento, originato dalla fede evangelica, è scaturita anche una cultura «cortese» nei tempi nuovi dell’umanesimo duecentesco. André Vauchez, storico medievista, autore della migliore biografia del santo che oggi abbiamo a disposizione, scrive che la povertà non era per il santo di Assisi un esercizio ascetico, quanto la condivisione della vita della gente, di quei minori che sopportavano le fatiche quotidiane. La prospettiva di san Francesco era ben diversa da quella di un monachesimo che aveva perso il senso del lavoro o che lo considerava una pratica ascetica: «lavorare con le proprie mani era certo fuggire l’ozio, nemico dell’anima, ma soprattutto guadagnare il pane con il sudore della fronte e partecipare alla condizione dell’immensa maggioranza degli uomini del suo tempo, i lavoratori, perché i nobili e i chierici erano dispensati da questo obbligo». 72 Il movimento francescano è portatore di novità: il ritorno al Vangelo, un nuovo rapporto con le Scritture (che potrebbe essere definito «lo spirito della lettera»), la predicazione della pace in un mondo violento, la conciliazione con la natura. In san Francesco l’elogio della semplicità non si confonde con l’ignoranza, tanto che il suo movimento apre a tutti – in un tempo in cui la Bibbia era nelle mani di pochi – l’accesso alle Scritture. Francesco d’Assisi, obbediente nella Chiesa, difende al suo interno con coraggio il carisma di cui è portatore. Così avviene un innesto prezioso. Lo dice Vauchez con finezza: Fino ad allora, infatti, nel cristianesimo occidentale l’uomo religioso per eccellenza era il monaco, che viveva separato dal popolo, al riparo del chiostro … L’intuizione di fondo di Francesco volta le spalle a questa tradizione pressoché millenaria: per lui, in effetti, il mondo non era il luogo dell’esteriorità e della vanità che occorreva fuggire per ritrovare Dio, bensì l’orizzonte in cui si dispiegava la carità, un luogo da attraversare – senza installarvisi – in una peregrinatio attiva, impegnandosi in un combattimento contro il male e contro se stessi. 73 In questa prospettiva si superava la distinzione, anzi l’opposizione classica, proveniente dalla tarda antichità, tra gli specialisti della contemplazione e la massa dei fedeli coinvolti nella vita attiva: la vita cristiana rinnovata – dice Vauchez – aveva lo scopo «di portare testimonianza e di indirizzare un appello a ciascuno». Il movimento di Francesco attestava che «un nuovo tipo di rapporto tra gli uomini era possibile»: «Francesco voleva superare le differenze e le opposizioni tra i sessi, le età e le diverse categorie giuridiche e sociali in una comunione spirituale piena di vita». 74 Non si trattava di un progetto perseguito sistematicamente e governato centralisticamente, ma nemmeno di un’utopia astratta: era una storia di uomini e di donne, nutriti del Vangelo, che mettevano in moto una dinamica propria e finivano per rappresentare una riforma nella Chiesa e una rivoluzione nella società. San Francesco cambiò il suo mondo partendo dal Vangelo vissuto e non da un progetto. Il papa ha la convinzione che il Vangelo vissuto incida profondamente nella società e scriva una nuova storia. Maurice Zundel (il teologo svizzero che diceva «non dobbiamo difendere Dio, dobbiamo viverlo») parla della povertà di Francesco d’Assisi in questi termini: «non sarà più un’ascesi, ma una mistica, una gioia, una giubilazione, uno stupore, perché la povertà è il volto stesso dell’Amore … Per amare veramente bisogna essere poveri di sé, essere aperti a un altro, bisogna diventare un immenso spazio per accogliere l’altro…». 75 La conversione di san Francesco, che vive la povertà come apertura e quindi ricchezza umana, ha portato un grande cambiamento nei suoi discepoli e nel mondo cristiano. Giustamente lo storico medievista Ovidio Capitani ha parlato di una mutazione dell’antropologia religiosa: «Fare i poveri e restare uomini, non limitarsi ad accettare o imitare la marginalizzazione implicita nella fuga dal mondo, nel romitaggio, nel monastero; non vedere la società, la natura, la storia, come un male necessario; portare l’entusiasmo … in un’umanità afflitta da ogni abiezione, ma sacralizzata dal Cristo in quanto umanità…». 76 Queste sono le radici e gli effetti della storia francescana che può diventare storia di tutti. Chiesa povera e madre La Chiesa, libera nella sua povertà, capace di fare spazio agli altri, non è un’organizzazione filantropica o irenista. Sarebbe una comunità svuotata, quindi incapace di accogliere, perché non in condizione di offrire nulla. «Siate misericordiosi!» è quello che papa Francesco ripete a tutti. La sua è una Chiesa che non si impone, non è una Chiesa altera, autosufficiente e precettiva. Il papa ha insistito proprio sulla dimensione femminile della Chiesa, pur notando che la donna non è chiamata al sacerdozio ministeriale. Non crede a una lotta femminista nella Chiesa, perché pone «le donne su un piano di lotta, laddove sono molto di più» e corrono il rischio di un «maschilismo in gonnella»: «… secondo la nostra concezione,» dice Bergoglio «la Vergine Maria è superiore agli Apostoli … La presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto perché la tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella comunità». 77 Ha confermato questa visione nel colloquio con i giornalisti di ritorno dal Brasile, dicendo in modo vivace: «La donna, nella Chiesa, è più importante dei vescovi e dei preti; come, è quello che dobbiamo cercare di esplicitare meglio, perché credo che manchi una esplicitazione teologica di questo». Anche Francesco d’Assisi aveva ben chiara la dimensione femminile della Chiesa. L’esercizio dell’autorità da lui proposto non era quello patriarcale delle comunità monastiche, dove l’abate era padre (c’è chi vede in questa figura quasi l’immagine del pater familias romano, tesi non accettata dai più, ma che Ildefonso Schuster sosteneva).78 Francesco si rivolgeva ai suoi frati sicut mater, mentre ribadiva che compito di ogni cristiano era partorire Dio tra gli uomini. Jacques Dalarun osserva che il santo di Assisi ha dato un decisivo contributo alla «femminizzazione del cristianesimo», una svolta nella spiritualità occidentale. Nella visione di Bergoglio, una Chiesa più femminile avrà meno paura della tenerezza. Scrive il vaticanista americano John Allen: questa è «una caratteristica costante della sua visione e del suo operato, maturati nel corso degli anni: coloro che si presentano come annunciatori di Cristo devono “trasudare” misericordia e compassione». 79 Proprio in questa prospettiva, nel maggio 2013, si è rivolto in termini molto chiari alle religiose: … per favore, una castità «feconda», una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre, deve essere madre e non «zitella»! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa. 80 L’affermazione della Chiesa come madre comporta una revisione di tanti tratti della sua vita, ma anche un’accentuazione di alcuni caratteri «materni»: una Chiesa povera, accogliente, misericordiosa, bella, feconda di vita e di gioia. Infatti una Chiesa povera non è una comunità che ha templi brutti e spogli, intristita, rassegnata a non poter aiutare gli altri. È invece un popolo che ha capito come l’universalità e la bellezza nascano da una scoperta: solo se sarà amico dei poveri, potrà essere Chiesa di tutti e Chiesa davvero madre. Il papa parlando ai cardinali ha ipotizzato quasi una crescita della maternità della Chiesa nella storia: «E la Chiesa così è più Madre, Madre di più figli, di molti figli: diventa Madre, Madre, Madre sempre di più, Madre che ci dà la fede, Madre che ci dà l’identità … perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile». 81 C’è bisogno della Chiesa madre, soprattutto quando la società è diventata matrigna per tanti. Nella solitudine, l’uomo e la donna si sentono indifesi, passano da momenti di orgoglio ed esaltazione alla condizione tanto comune della paura. Un poeta turco, Nazim Hikmet, nel 1940, nel pieno di una vita difficile, così descrive la condizione di un uomo indifeso: Siediti per terra E guarda da tutte le parti: chi sa in quale tana la sciagura è in agguato ti colpirà certamente, sfuggire è impossibile… 82 La maternità della Chiesa non cancella la condizione difficile dell’uomo e della donna, ma guida chi si affida a lei verso la scoperta della misericordia di Dio. Una Chiesa misericordiosa è capace di compagnia verso l’indifeso, ma anche di adozione di chi patisce orfananza e fragilità. L’uomo non deve guardarsi «da tutte le parti» perché indifeso e non «sa in quale tana la sciagura è in agguato», come scrive Hikmet. Ha detto il papa: «chi ha sentito la tenera carezza della misericordia, si sente felice e a suo agio con il Signore». 83 C’è nel pensiero di papa Francesco tanta gratitudine per la vita della Chiesa, che precede e sovrasta le preoccupazioni per le condizioni della sua realtà odierna. 84 Per il papa, la Chiesa non è un problema o un insieme di problemi ma – pur con le sue fatiche e le sue ombre – rappresenta soprattutto la grazia di una madre. Così si possono ricordare le parole di Henri de Lubac, che, meditando sul mistero della Chiesa, riprende anche un’espressione di Paul Claudel e scrive: Sì, sia benedetta questa grande Madre, sulle cui ginocchia noi abbiamo infatti tutto appreso e continuiamo ogni giorno a tutto apprendere! È lei che ci insegna, ogni giorno, la legge di Gesù Cristo, ci mette in mano il suo Vangelo e ci aiuta a decifrarlo. Che ne sarebbe di questo piccolo libro, o in quale stato ci sarebbe pervenuto se, per ipotesi impossibile, non fosse stato redatto e poi conservato nella grande comunità cattolica? 85 V Globalizzazione, città e storia Critica della mondializzazione Papa Francesco ha vissuto, da argentino, la complessa vicenda economica del suo paese, l’impoverimento di larghi strati della popolazione, i rapporti difficili con la finanza internazionale. Gli sembra una storia di disumanizzazione con l’umiliazione di interi ceti, particolarmente con la riduzione del valore del lavoro: «L’economia speculativa non ha più bisogno neppure del lavoro. Insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore a trasformare in disoccupati milioni di lavoratori». 1 Di fronte a questo sistema, che definisce imperialismo economico, il cardinale ricorda che l’oppressione del povero e la frode del salario agli operai sono due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. La globalizzazione, che crea uniformità, è per Jorge Bergoglio «essenzialmente imperialista e strumentalmente liberale, ma non è umana». Il cardinale ha dichiarato a Gianni Valente: C’è stato in questo tempo un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media … In questo momento, nella città e nelle zone abitative intorno a Buenos Aires ci sono due milioni di giovani che non studiano né lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione economicistica, la Chiesa di questo paese si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero. 2 Un grave problema creato dal liberismo selvaggio è lo sconvolgimento delle strutture economicosociali di un paese: «l’attuale imperialismo del denaro mostra un inequivocabile volto idolatrico». Il cardinale aggiunge: «il nuovo imperialismo del denaro toglie di mezzo addirittura il lavoro, che è il mezzo in cui si esprime la dignità dell’uomo, la sua creatività, che è l’immagine della creatività di Dio». Gli organismi finanziari e la comunità internazionale non pongono al centro delle loro decisioni l’uomo e la donna, mentre indicano ai governi «le loro rigide direttive», pur parlando di etica e di trasparenza: «mi appaiono» conclude Bergoglio «come dei moralisti senza bontà». 3 Il suo giudizio sulla situazione economica argentina e internazionale matura nel Sud del mondo. Si sviluppa conforme alla dottrina sociale della Chiesa, critica verso il capitalismo internazionale (che rappresenta l’attualità) e il comunismo (che rappresenta l’utopia realizzata del passato). Ci sono però accenti che lo distinguono da vari vescovi europei che, dopo l’89, hanno accettato – non senza obiezioni, certo – il sistema liberale. C’è un anticapitalismo di Bergoglio, non per quello che riguarda il possesso dei beni, ma per la sua considerazione negativa del potere «assoluto» della finanza internazionale sulle situazioni nazionali. Egli non accetta l’idea per cui la società sarebbe «Mercato e nient’altro che Mercato». La storia economica degli ultimi due decenni dell’Argentina è, per lui, un esempio del potere di una dittatura internazionale. Il cardinale non entra nei ragionamenti economici, ma senza timore dichiara che la situazione deve cambiare. Negli scritti di Bergoglio, si trova più volte un vero grido contro un sistema economico iniquo: «Siamo stanchi di sistemi che producono poveri…». Tra l’altro la logica mercatista si è manifestata clamorosamente in Argentina con la rinuncia a investire sulla scuola, un tema che l’arcivescovo ha giustamente molto a cuore. La posizione dell’arcivescovo di Buenos Aires valorizza aspetti importanti di critica al capitalismo, propri del pensiero sociale cattolico. Giovanni Paolo II ha indicato ai cristiani il compito di essere coscienza critica nei confronti di uno sviluppo schiacciato sugli obiettivi del mercato: «Nell’interesse della persona, e quindi della pace,» ha detto «è urgente pertanto apportare ai meccanismi economici quei necessari correttivi che consentano loro di garantire una distribuzione dei beni più equa e più giusta. Per fare questo non basta solo il funzionamento del mercato … Nessun paese può riuscire da solo in una simile impresa. Proprio per questo è necessario lavorare insieme, con la solidarietà richiesta da un mondo sempre più interdipendente». 4 Il rischio odierno è un capitalismo forse più disumano di quello di inizio Novecento, anche perché i suoi effetti si vedono di meno in quella parte del mondo dove si prendono le decisioni: nel passato il dramma dell’operaio era contiguo alla vita dell’imprenditore (stessa città, stessa lingua, stessa gente). Oggi c’è spesso una grande distanza tra chi decide e coloro che subiscono tali decisioni. Non c’è più un comune orizzonte umano e politico. Zygmunt Bauman ha contestato una delle giustificazioni principali di questo sistema: quella secondo cui «il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune». 5 Secondo Bauman bisogna rifondare la cultura della solidarietà in una società che, per tanti aspetti, sta diventando aggressiva e si sta lacerando: «La nostra situazione è la conseguenza dell’aver sostituito la competizione e la rivalità … all’anelito umano, troppo umano, a una coabitazione basata sulla cooperazione amichevole, la reciprocità, la condivisione, la fiducia, il riconoscimento e il rispetto vicendevole». E il sociologo conclude con un’espressione che piacerebbe a papa Francesco: «Non c’è vantaggio nell’avidità». 6 Nell’udienza generale del 5 giugno 2013, papa Francesco ha detto con forza come l’economia stia cambiando l’umanità: E il pericolo è grave perché la causa del problema non è superficiale, ma profonda, non è solo questione di economia, ma di etica e di antropologia. La Chiesa lo ha sottolineato più volte … ma il sistema continua come prima, perché ciò che domina sono le dinamiche di un’economia e di una finanza carenti di etica. Quello che comanda oggi non è l’uomo, è il denaro, il denaro, i soldi comandano. E Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne… 7 Naturalmente Bergoglio non riduce la globalizzazione alla finanza internazionale o all’economia, il cui controllo sta sfuggendo dalle mani delle classi dirigenti politiche e da ogni valutazione etica. Infatti auspica che la politica nazionale ritorni a essere un interlocutore forte in scelte che non possono essere guidate solo da criteri finanziari. Il papa è anche consapevole delle profonde trasformazioni culturali indotte dalla globalizzazione stessa. In questo senso «la globalizzazione che crea uniformazione è essenzialmente imperialista e strumentalmente liberale, ma non è umana. In estrema sintesi è un modo per rendere schiavi i popoli». 8 C’è il rischio di una grande omologazione con lo smarrimento delle identità dei popoli, quando «le peculiarità positive di ogni cultura vengono annullate». Si debbono quindi salvaguardare le diversità nell’«unità armonica dell’umanità». L’arcivescovo di Buenos Aires ha una visione della globalizzazione multipolare, fatta di integrazione di diverse identità: «La vera globalizzazione che dobbiamo difendere ha la forma di un poliedro, dove le diverse facce si integrano senza perdere la propria particolarità e ognuna arricchisce le altre». 9 Infatti il nuovo ordine di relazioni mondiali, indotto dalla globalizzazione, è per sua natura «ambiguo», ma va abitato con un consapevole orientamento costruttivo. Bisogna leggere criticamente la globalizzazione, senza accettare passivamente il suo fascino e le sue promesse. È quanto il papa ha fatto con i vescovi in Brasile, un paese che ha conosciuto una grande crescita ma dove stanno emergendo forti contraddizioni: La globalizzazione implacabile e l’intensa urbanizzazione spesso selvagge, hanno promesso molto. Tanti si sono innamorati delle loro potenzialità e in essa c’è qualcosa di veramente positivo, come, per esempio, la diminuzione delle distanze, l’avvicinamento tra le persone e le culture, la diffusione dell’informazione e dei servizi. Ma, dall’altro lato, molti vivevano i loro effetti negativi senza rendersi conto di come essi pregiudicano la propria visione dell’uomo e del mondo, generando maggiore disorientamento, e un vuoto che non riescono a spiegare. Alcuni di questi effetti sono la confusione circa il senso della vita, la disintegrazione personale, la perdita dell’esperienza di appartenere a un «nido», la mancanza di un luogo e di legami profondi. 10 Bergoglio è severo nei confronti degli effetti negativi della globalizzazione in tanti suoi interventi: «l’indifferenza regnante nei confronti dei crescenti squilibri sociali, l’imposizione unilaterale di valori e abitudini da parte di alcune culture, la crisi ecologica e l’esclusione di milioni di esseri umani dai benefici dello sviluppo pongono serie domande riguardo a una simile mondializzazione». Per questo si deve riconoscere che ancora oggi «il costituirsi di una famiglia umana solidale e fraterna continua a essere, in tale contesto, un’utopia». Eppure la globalizzazione è anche una chance che offre enormi possibilità per il rinnovamento del mondo: «Molti fattori paiono indurci a sopprimere le barriere culturali che impedivano il riconoscimento della comune dignità degli esseri umani, e ad accettare la diversità di condizioni, razze, sesso o cultura. Mai come oggi l’umanità ha avuto la possibilità di costruire una comunità mondiale multiforme e solidale». 11 Abitare con speranza la terra L’utopia di papa Bergoglio resta una famiglia umana solidale e fraterna. La sua critica alla globalizzazione è quella di un uomo del Sud, di un latinoamericano, che ne ha visto gli effetti perversi: «La globalizzazione come imposizione unidirezionale e uniformante di valori, pratiche e merci si accompagna all’integrazione intesa come imitazione e subordinazione culturale, intellettuale e spirituale». 12 Giovanni Paolo II ha affermato che la globalizzazione di per sé non è un fenomeno né negativo né positivo. È storia e va abitata, orientata, modificata: c’è insomma una storia della globalizzazione da scrivere, ma oggi la tendenza è invece lasciarsi scrivere dalla storia della globalizzazione, fosse quella dei mercati finanziari, delle culture di massa, degli agenti transnazionali. Non è facile però oggi orientarsi. Nel 1993 Samuel Huntington, a cui abbiamo già accennato, propose a un mondo scompaginato dalla fine del bipolarismo un nuovo modo di pensarsi, strumenti concettuali per collocare la propria identità in un insieme, quello di un blocco di civiltà. 13 Tali civiltà, per loro dinamica, erano a rischio di un rapporto conflittuale. Lo studioso americano proponeva qualcosa che molti volevano sentirsi dire. Lo desideravano gli orfani della lotta al comunismo alla ricerca di un nuovo nemico e di nuovi barbari da cui difendersi. Lo volevano quei mondi che si erano sentiti marginalizzati dall’Occidente, come quello russo o quello islamico. Non è un caso che il libro di Huntington, The clash of civilisations, sia stato un vero successo nel mondo arabo. Ognuno ritrovava, almeno un po’, se stesso collocando la propria identità in una civiltà e anche trovando un nemico. Che cosa sarà Roma senza Cartagine?, si chiedeva preoccupato Cicerone dopo la sconfitta dello storico nemico. Huntington ha provato a dire che cosa sarebbe stato il mondo dopo la guerra fredda, con la capacità di perimetrare gli spazi di civiltà, di segnalare i rischi all’orizzonte. Con i terribili attacchi a New York e a Washington, la profezia di Huntington non si è rivelata vera? Per lui il vero grande scontro è tra Occidente e islam: «Il conflitto sorto nel XX secolo tra democrazia liberale e marxismo-leninismo non è che un fenomeno storico fugace e superficiale rispetto all’antico e fortemente conflittuale rapporto tra islam e cristianesimo». 14 In realtà, la storia contemporanea è molto più complessa. Anche il mondo fondamentalista musulmano ha mostrato un’articolazione interna tra quelli che seguono il terrorismo, quelli che impongono un islam radicale e quanti, pur fondamentalisti, si misurano con le democrazie. La globalizzazione non ha soppresso le storie nazionali, anche se esse sono potentemente condizionate da un quadro più vasto. Ha prodotto un processo contradditorio: da una parte la perdita o la diminuzione della sovranità degli Stati di fronte ai fenomeni transnazionali, specie finanziari; d’altra parte la difesa del proprio spazio nazionale persino con i muri, come quello che divide Stati Uniti e Messico per fermare l’immigrazione. Wendy Brown, politologa americana, ha ben illustrato questa situazione in un recente e drammatico libro, Stati murati, sovranità in declino. 15 È una storia nuova, complessa e contraddittoria, di cui non abbiamo esplorato ancora tutte le dimensioni. Per abitare responsabilmente la globalizzazione, occorre che tutti i soggetti (nazionali, religiosi, culturali, economici…) giochino attivamente il loro ruolo. Nel mondo globale, pochi possono determinare la vita di tanti. È il caso del terrorismo e del terrorismo religioso. Naturalmente il terrorismo è un fenomeno tutt’altro che nuovo nella storia umana ma, grazie alla mondializzazione dei media, esso ha un influsso e una capacità di minaccia tutta particolare. Gilles Kepel, noto islamologo francese, parla di Osama bin Laden come di un attore «tra terrorismo e grande spettacolo»: «Il terrore da grande spettacolo è l’occasione, grazie alla copertura mediatica che procura, di porsi come campione della causa e di tentare di ritrovare il favore popolare attraverso la rappresentazione televisiva, in assenza di un effettivo lavoro di impiantazione sociale». 16 Attraverso la spettacolarizzazione del terrorismo il leader islamista avrebbe voluto egemonizzare il mondo musulmano. Con l’avvento della mondializzazione, la nazione non deve scomparire come soggetto della storia, pur inquadrata in un plesso di relazioni e di scambi globali: è l’idea di Bergoglio. In Argentina c’è stata una crisi della coscienza nazionale, anche perché i cittadini hanno «la pericolosa tendenza a pensare che tutto cominci oggi…». 17 Invece l’arcivescovo di Buenos Aires coltiva uno spiccato senso della storia. La storia ha un valore nelle comunità nazionali, come nella vita delle persone. C’è un ruolo decisivo della narrazione nel coltivare le identità («Quanto abbiamo perso culturalmente con la rottura con i classici!» confida il cardinale) 18. Attraverso la storia si ridefiniscono le nazioni. I cittadini «globali» debbono «atterrare» in una nazione, delimitare la globalità, pensarsi dentro una storia: … siamo persone storiche. Viviamo nel tempo e nello spazio. Ogni generazione ha bisogno di quelle precedenti e deve dare qualcosa a quelle che seguono. Questo, in larga misura, è essere una nazione: vedersi come continuatori dell’impegno di altri uomini e donne che hanno dato quello che potevano, e come costruttori di un ambito comune, di una casa, per quelli che verranno dopo. 19 Nel quadro del Bicentenario dell’Indipendenza, misurandosi con il processo di mondializzazione, l’arcivescovo di Buenos Aires dà un contributo al ripensamento dell’identità della nazione. È impossibile, a suo avviso, affrontare gli orizzonti della globalizzazione senza essere un soggetto nazionale con una propria identità. Usa il termine «Patria», mentre per lui paese è un’espressione geografica e nazione ha un sapore legale (differente è l’opinione di tanti che hanno affrontato negli ultimi anni la risorta questione delle nazioni). Infatti afferma: «Patria viene da padre; ed è la patria … a ricevere la tradizione dei padri, a portarla avanti, a farla progredire. La patria» conclude «è l’eredità dei padri nel presente, che spetta a noi far crescere». 20 Senza patria, l’uomo e la donna sono sperduti nel mondo globale aperto a correnti e venti che vengono da lontano. La patria è la realtà di un popolo, «una parola tanto carica di sentimento e di emozione, tanto inanellata con storie di lotta, di speranza, vita, morte…». Per Bergoglio un popolo è definito dalla geografia e dalla storia ma ha anche un’anima. Per questo l’individuo deve rompere «la corazza del suo egoismo», per riconoscere che non ci si salva, né si ha un futuro da soli. 21 Dialogo e amore presuppongono il riconoscimento dell’altro in quanto altro e l’accettazione della diversità. Solo su questo si può fondare il valore di una comunità: non pretendendo che l’altro si subordini ai miei criteri e alle mie priorità, non assorbendo l’altro, ma riconoscendo il valore di quello che è, e accogliendo con gioia questa diversità che arricchisce tutti noi. Il contrario è mero narcisismo, imperialismo, pura stoltezza. 22 Bisogna abitare le immense distese del mondo globalizzato con identità mature e aperte al dialogo. Nella mondializzazione dell’informazione e dei contatti, tutto (seppur lontano) sembra vicino, raggiungibile, conosciuto, in fondo consumabile. In realtà non è così. Anche nel mondo globale, non protetto da frontiere, ci sono distanze immense che seminano freddezze, diffidenze, pregiudizi, odi… Questo mondo non è divenuto cosmopolita, anche se genti diverse finiscono per vivere negli stessi spazi urbani, il che non significa che realmente si avvicinino. C’è un grande compito a tutti i livelli (tra popoli, tra religioni, tra culture): costruire ponti, comunicazioni e percorsi di amicizie. Il mondo globalizzato va abitato con uno spirito responsabile, nuovo, costruttivo. Questo impone ai diversi soggetti di ripensarsi su spazi tanto larghi e a fronte di correnti invasive e di spinte all’anonimato. L’identità è una veste senza cui non è possibile realizzare un dialogo vero e abitare felicemente la globalità del mondo. Identità non vuol dire muro o conflitto. Senza identità non c’è la dignità di essere soggetti o interlocutori. Ma bisogna costruire quella che io chiamo la «civiltà del convivere», che non è l’egemonia dell’uno sull’altro, ma è una capacità armonica di essere insieme tra diversi. 23 La Chiesa cattolica, con la sua lunga storia e la sua partecipazione alle vicende di tante terre, è di per sé e già da tempo una realtà globalizzata: non è a disagio nel mondo come si è recentemente delineato, anche se deve compiere nuovi sforzi. La cultura dell’incontro è messa alla prova proprio dalle dimensioni degli orizzonti globalizzati. Da un punto di vista religioso, nel mondo della globalizzazione, lo spirito di Assisi costituisce una grande risposta: abitare l’uno accanto all’altro in un dialogo, che mette in luce le diversità ma anche i legami. C’è una globalizzazione dello spirito, che non è un eclettismo sconsiderato e individualista. In questa prospettiva l’intuizione di Giovanni Paolo II, che convocò ad Assisi i leader delle Chiese cristiane e delle grandi religioni mondiali nel 1986 in tempo di guerra fredda, appare precorritrice della realtà della mondializzazione. I cristiani e la città globale Come vivere nel mondo globalizzato? Nel nuovo panorama della mondializzazione le persone, le comunità, le culture, i paesi, tutti i soggetti umani, debbono – come ho già detto – in qualche modo ricollocarsi. In fondo la globalizzazione è un fenomeno iniziato dopo la caduta del Muro e non è ancora facile trarne le conseguenze. Alcune realtà vivono tuttora come non fosse successo nulla. Il cardinal Bergoglio, in un testo pubblicato nel 2011, osserva: … siamo sottoposti anche alla tensione tra globalizzazione e localizzazione. Bisogna guardare al globale, perché ci riscatta sempre dalla meschinità quotidiana, dalla meschinità casereccia. Quando la casa non è più focolare, ma chiusura, segreta, il globale può riscattarci … Nello stesso tempo dobbiamo assumere il locale, perché il locale ha un qualcosa che il globale non ha, quello di essere lievito, di arricchire, di mettere in moto meccanismi di sussidiarietà. 24 Ma è possibile questo equilibrio? Una globalizzazione invasiva, «che annulla», rende le persone e le comunità periferiche di fronte a un centro irraggiungibile, per cui «non c’è differenza tra i diversi punti della sfera». La reazione è rifugiarsi nel locale e chiudersi al globale. Ma è improponibile: «Per essere cittadini non si può vivere né un universalismo globalizzante né un localismo folkloristico o anarchico. Nessuna delle due cose. Né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata…». La proposta di Bergoglio assume, come già detto, l’aspetto di una figura geometrica, il poliedro. Il poliedro, che è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità. È, per esempio, l’unione dei popoli che, nell’ordine universale, mantengono la loro peculiarità come popolo; è l’unione delle persone in una società che cerca il bene comune … Cercando nell’universale l’unione del locale e, ad un tempo, conservando la peculiarità, costruisco ponti e non abissi, costruisco una prossimità che mobilita. Bisogna operare nel piccolo, nel prossimo, ma in una prospettiva globale… 25 Il principale scenario entro cui avviene questo processo di fusione tra universale e locale è la città. Qui si realizza quell’operare nel piccolo, di cui parla Bergoglio, ma in una prospettiva globale. Nel mondo attuale alcune città – per la loro collocazione all’interno delle reti – possono divenire un soggetto molto rilevante. Nel 2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione delle città ha superato quella delle campagne. È una grande svolta. Questo mostra come gli uomini e le donne, in qualche decennio, siano cambiati. Diventare cittadini produce un cambiamento di mentalità e di stile di vita tra la gente che viene dalla campagna. Ma urbanizzarsi, per enormi masse di persone, vuol dire paradossalmente periferizzarsi e perdere un centro di riferimento esistenziale. Nel mondo si staglia un nuovo tipo di vita urbana, quello delle megalopoli, città superiori ai dieci milioni di abitanti. L’80 per cento di questi agglomerati urbani smisurati si collocano nel Sud del mondo, tra America Latina, Africa e Asia. Producono una qualità diversa del vivere, problemi di convivenza e sicurezza, mentre inevitabilmente cresce il mondo degli slums. Oggi, più di un miliardo di persone – secondo le Nazioni Unite – sono poveri, senza radici, marginali: più del 40 per cento della popolazione urbana di paesi come l’India, la Nigeria, il Bangladesh, l’Iran, le Filippine, la Turchia, il Perù, la Tanzania, il Sudan, il Vietnam. Quali fenomeni nuovi produrrà questa popolazione ai margini della storia? C’è chi ne parla come di «vulcani» pronti a eruttare. 26 La città è un mondo, divenuto il definitivo orizzonte dell’umano. Il poeta David Maria Turoldo scrive: «Per me la città è quella che è: un punto in cui il complotto della vita diventa inestricabile, una zona ove tutti i sentimenti son vivi, si chiamano, si rincorrono, interferiscono come le radici o le ramificazioni nodose di un antico bosco». E la periferia «è come un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini…». Per Turoldo «la città è il luogo della nostra battaglia, in cui solo diventiamo più consapevoli della nostra impotenza, della nostra passività. È, si può dire, la zona del nostro spirito…». Infatti il mondo della città, abitato da donne e uomini così differenti, diventa «un immenso mare di volontà in cui nessuna è se stessa, perché tutto in essa è intrecciato, fissato, superiore e schiacciante». 27 Bergoglio è stato arcivescovo di una città che, considerando la Grande Buenos Aires, conta quasi tredici milioni di abitanti. La diocesi è più piccola, con tre milioni di fedeli, all’incirca il territorio della capitale. La dimensione della città è costantemente presente nella sua riflessione, quale terreno (anche antropologico) in cui la Chiesa si trova a operare. Del resto, in una città con la storia della capitale argentina, come già accennato, i flussi migratori hanno fatto avvertire la globalizzazione ben prima che si affermasse in tanta parte del mondo. La grande città (ancor più con la mondializzazione) è fatta di periferie: bisogna conoscere quelle Villas Miserias «le favelas argentine, a metà strada tra baraccopoli e quartieri operai» scrive Valente. Qui il vescovo Bergoglio ha operato assieme ai suoi preti. Una parte della Villa è cresciuta sulle montagne di immondizia delle discariche abusive, Dio solo sa cosa c’è sotto. Quando ogni giorno, più volte al giorno, i treni merci tagliano senza chiedere il permesso il groviglio di strade di terra, i muri delle casupole tremano come cartine e ogni tanto qualcuno – quasi sempre bambini travolti nei loro giochi di strada – ci rimette le gambe. E poi ci sono le altre malattie, le stesse che assillano gli agglomerati marginali di tante periferie urbane del Sud del mondo… 28 Francesco è un papa che viene dalle grandi periferie urbane del Sud. Ma, come ho tante volte sostenuto, spesso le periferie urbane divengono o si connettono alle periferie umane. In una città fatta prevalentemente di periferie (umane e urbane), si vive con uno sguardo individualista sugli altri, all’interno della realtà del frammento, prodotta proprio dall’individualismo. La città è sempre meno un’identità collettiva e un destino comune. È fatta da grandi e anonime periferie. Nel suo complesso diventa insicura: allora chi ne ha le possibilità si chiude in compound protetti (è la condizione di tante città del Sud del mondo). Così la città non assomiglia più a una comunità, perché perde – se lo ha mai avuto – un centro, smarrisce la realtà della piazza dove, specie nella città europea, ci si incontra tra diversi, tra ricchi e poveri. Le città sono spesso lo scenario di uomini spaesati e periferici, spaventati dell’incerto che entra nella loro vita quotidiana, assillati dal problema della sicurezza e dell’estraneità del vicino, in fuga dal prossimo. Nella città della globalizzazione gli uomini e le donne sono più soli, anzi trascinati da una «forza centripeta che porta il cittadino attuale a vivere isolato», 29 come dice Bergoglio: gente periferica che ha solo «legami liquidi» con gli altri. L’appuntamento con le periferie è decisivo per la Chiesa di domani. Il futuro papa Francesco ne ha fatto uno dei temi chiave nel suo intervento alle congregazioni generali prima del conclave: «La Chiesa» ha detto «è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali: dove alberga il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie». 30 Che può dire la Chiesa nella città? Il cardinal Bergoglio scrive: «Essere popolo e costruire città vanno di pari passo; e così pure essere popolo di Dio e abitare nella città di Dio. In tal senso, l’immaginario teologico può essere lievito per ogni immaginario sociale». 31 Bisogna collocare il cristianesimo nello scenario urbano. La Chiesa ha cominciato a sentire la sfida della città più di un secolo fa, avvertendo l’estraneità del proletariato che si addensava nelle periferie europee: in particolare nella Parigi otto-novecentesca, città cattolica, ma anche fortemente laica e abitata da un folto proletariato attratto dai movimenti socialista e comunista. Il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi dal 1940 al 1949, avvertì il problema dell’estraneità delle periferie in modo molto personale. Fu lui a sostenere l’avventura missionaria dei preti operai tra le masse proletarie, dopo aver letto un libro che lo sconvolse, La France pays de mission? degli abbé Godin e Daniel. Secondo questi due preti le città francesi erano ormai in parte estranee al cristianesimo, quasi come le terre di missione, soprattutto nelle loro grandi periferie operaie. 32 Gilbert Cesbron, un fortunato romanziere francese di quegli anni, racconta l’avventura della missione voluta dall’arcivescovo di Parigi in ambiente operaio. Dipinge Suhard, forse in modo fantasioso ma efficace: mostra il suo rapporto dolente e appassionato con il mondo della periferia, ormai estraneo alla Chiesa. Nelle ultime settimane della sua vita, il cardinale, angosciato, si faceva condurre con la sua piccola automobile nera e fuori moda per la periferia di Parigi: Col viso contro il vetro, le mani giunte, il cuore stretto, il cardinale arcivescovo passava lentamente in mezzo al suo popolo pagano; lo sguardo azzurro faceva provvista di quei visi grigi. «Tutti figli di Dio! E io sono responsabile di tutti loro … Perdonatemi, Padre! Perdonatemi!» Tornava all’arcivescovado traboccante di umiltà e di propositi e rimaneggiava in grandi pagine un piano di conquista che ormai lo sapeva non sarebbe stato lui a mettere in atto. 33 Il cardinale Suhard aveva espresso con chiarezza la sua visione della missione: «L’insieme delle nostre popolazioni non pensa più in modo cristiano. C’è tra loro e le comunità cristiane un abisso. Bisogna uscire da casa nostra e andare tra di loro». Aveva detto ai preti della missione di Parigi: «C’è un muro che separa la Chiesa dalla massa; bisogna abbattere questo muro ad ogni costo per rendere Cristo alle folle che lo hanno perduto». 34 Alcuni grandi vescovi, come Suhard, hanno intuito la novità drammatica di un mondo fattosi periferia. Il cardinal Bergoglio ha additato, come modello di pastore, monsignor Enrique Angelelli, vescovo argentino di La Rioja, assassinato dai militari nel 1976: «camminava con il suo popolo fino alle periferie … era uomo di periferia che andava a cercare gli altri, che usciva per andare incontro…». 35 Il cristiano, in un certo senso, è spinto verso la periferia, perché è uomo di incontro e di dialogo. Chi vive il mondo solo dal centro è spesso prigioniero di una visione egemonica o astratta. Il cristiano e il vescovo vanno al di là dei muri e delle distanze, fuori dal recinto ecclesiastico, tra la gente, con «uno sguardo che si coinvolge drammaticamente nella città e si impegna con essa nell’azione». Bergoglio dichiara con convinzione: Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al fatto di dover imparare dalla città – dalle sue culture e dai suoi cambiamenti – nello stesso momento in cui usciamo a predicare il Vangelo. Anzi questo è frutto del Vangelo stesso che interagisce con il terreno in cui cade il seme. Non solo la città moderna è una sfida, ma lo è stato, lo è, lo sarà ogni città, ogni cultura, ogni mentalità e ogni cuore umano … Il Vangelo è un kerygma che si accetta e spinge a comunicare, le mediazioni si elaborano mentre viviamo e conviviamo. 36 La Parola di Dio ritorna nella circolazione del discorso umano, ma trova tanti ostacoli. Il grande problema della città è la chiusura degli spazi, che diventa chiusura umana dei cittadini. Anche i cristiani rischiano di assumere questo atteggiamento: vivere in comunità chiuse, come luoghi della propria esperienza religiosa. La città non è solo il luogo dove «conquistare» gente per accrescere comunità chiuse, ma anche un luogo – lo dice il cardinale – dove imparare a stringere legami. Per Bergoglio la «porta chiusa» è il simbolo della città spaventata, che sente l’altro come un estraneo. È un atteggiamento tipico della mentalità urbana, che costruisce spazi di sicurezza dove abitare protetti. Infatti il cardinale afferma: Tra le esperienze più forti delle ultime decadi c’è quella di incontrare porte chiuse. La crescente insicurezza ha portato poco a poco a sbarrare porte, a mettere mezzi di vigilanza, telecamere di sicurezza, a diffidare dell’estraneo che bussa alla nostra porta. Nonostante questo, ancora in alcuni paesini ci sono porte che restano aperte. La porta chiusa è tutto un simbolo dell’oggi. È qualcosa di più che un semplice dato sociologico; è una realtà esistenziale che sta segnando uno stile di vita, un modo di mettersi di fronte alla realtà, agli altri, al futuro … La sicurezza delle porte blindate custodisce l’insicurezza di una vita che diventa più fragile e meno permeabile alle ricchezze della vita e dell’amore per gli altri. 37 La porta chiusa manifesta un atteggiamento esistenziale di tanti: «non si tratta solo della mia casa materiale, è anche il recinto della mia vita, il mio cuore». La città delle porte chiuse è quella odierna, popolata di diffidenze, paure, ostilità. La Chiesa non è un insieme di comunità chiuse. Dice l’arcivescovo: «La porta chiusa ci danneggia, ci atrofizza, ci separa». La Chiesa deve intessere un dialogo con gli uomini e le donne per strada: «Dobbiamo uscire a parlare a questa gente della città che vediamo al balcone. Dobbiamo uscire dalla nostra buccia e dirgli che Gesù vive e che Gesù vive per lui, per lei e dirglielo con gioia … Dobbiamo andare a seminare speranza, dobbiamo uscire per strada. Dobbiamo uscire a cercare». 38 La porta chiusa e la strada sono i due poli dell’esperienza cristiana: la Chiesa può chiudere le porte come tutte le case oppure aprirle, uscire per strada e incontrare le persone. Ma ci vuole apertura di cuore, perché «l’apertura agli altri va in coppia con la nostra apertura al Signore». Nella Domenica delle Palme del 2008, il cardinale ha affermato con decisione: «… la Chiesa si rivolge alla strada, perché oggi Gesù è il re della strada». La processione – in questo caso, quella delle Palme – non è una manifestazione del dominio della Chiesa sulla città, ma è seguire Gesù per strada: Diciamo che oggi la Chiesa si rivolge alla strada per imitare quella Domenica delle Palme, ma anche per affermare che oggi, in senso lato, il luogo di Cristo è la strada. I Vangeli ci narrano che andava al tempio, che andava alla sinagoga, ma anche raccontano che attraversava i sentieri, i paesini e le strade. Oggi il luogo di Cristo è la strada; il luogo del cristiano è la strada. 39 L’espressione «apertura» è un termine chiave nell’invito che Bergoglio rivolge ai sacerdoti (e a tutti). Invita a non tenere chiuse le chiese, perché «l’apertura evangelica si gioca nei luoghi dell’entrata: nella porta delle chiese che, in un mondo in cui gli shopping non finiscono mai [sic], non possono restare molte ore chiuse…». 40 Spesso, in una città dalle porte chiuse, le chiese sono invece uno spazio libero; per questo sono talvolta popolate – come possiamo vedere – di gente senza fissa dimora. Talvolta ci si spaventa e si chiudono le chiese, temendo il disordine o i furti. Così diventano un luogo funzionale solo alle celebrazioni liturgiche, quasi fossero aule destinate unicamente a questo servizio. La vita dei cristiani nella città infatti si svolge tra due poli – nota il teologo Joseph Comblin – che si manifestano in due spazi differenti. 41 C’è la totalità dello spazio della città, dove si percepiscono domande e dolori, dove normalmente si vive in mezzo a tutti. C’è, d’altra parte, uno spazio particolare, «messo a parte nel seno stesso della città»: le chiese. Le chiese, con la loro presenza e il loro linguaggio, parlano a cristiani e non cristiani di un’altra città che «scende dal cielo»; ma invitano anche a credere che sia possibile trasfigurare la città in cui si vive. Nella città complessa di oggi, le chiese possono essere uno spazio differente, di silenzio, di incontro, di presenza di Dio. Debbono essere un santuario in mezzo alle case e ai palazzi. Sono contemporaneamente un segno di alterità e una porta aperta. L’alterità della chiesa non è uno spazio cintato, ma un luogo aperto all’incontro. Le chiese non sono insignificanti nel panorama della città e non possono essere ridotte a un edificio funzionale. La liturgia della consacrazione di una chiesa rivela i significati dell’edificio con il suo alfabeto eloquente e misterioso che parla di una presenza tanto altra e tanto prossima. Quando nel mondo sovietico si entrava in una delle poche chiese lasciate in funzione dal potere, si aveva la sensazione di uscire dal grigio mondo dell’oppressione quotidiana per entrare nello spazio libero di Dio che trasfigurava uomini e donne. Così le chiese debbono essere aperte, belle, significative, popolate di persone che credono e che accolgono. Perché gli uomini e le donne di fede rendono una chiesa eloquente e non solo un monumento. Ma non si tratta soltanto di edifici. Un aspetto decisivo della presenza cristiana è soprattutto il volto dei fedeli: «l’altra porta che è il nostro volto, che sono i nostri occhi, il nostro sorriso, il rallentare un poco il passo e mettersi a guardare colui che sappiamo che sta aspettando» dice Bergoglio. Può apparire un’esagerazione, ma l’incontro con Gesù per i più passa attraverso l’umanità dei cristiani. Tanto che Bergoglio parla anche del valore della cortesia nella affrettata vita sociale di ogni giorno. La prima cosa dell’altro che ci tocca sono il volto e gli occhi. Un volto triste – come quello dei discepoli di Emmaus – non comunica niente. Il problema del volto sta nel cuore. Dice il libro del Siracide: «Il cuore dell’uomo cambia il suo volto o in bene o in male. Indice di un cuore buono è una faccia gioiosa...» (13,25-26). In questa prospettiva vivere l’incontro non è una forma di attivismo. Talvolta ci vuole tempo per realizzarlo. Il tempo dell’incontro ha un suo passo particolare. In Brasile il papa ha detto: «La ricerca di ciò che è sempre più veloce attira l’uomo d’oggi: Internet veloce, auto veloci, aerei veloci, rapporti veloci... E tuttavia si avverte una disperata necessità di calma, vorrei dire di lentezza. La Chiesa sa ancora essere lenta: nel tempo, per ascoltare, nella pazienza, per ricucire e ricomporre? O anche la Chiesa è ormai travolta dalla frenesia dell’efficienza?». 42 Bergoglio ha chiaro come spesso i sacerdoti siano carichi di attività: «Alla fine della giornata talvolta arriviamo malridotti e, senza che ce ne rendiamo conto, filtra nel nostro cuore un certo pessimismo che … ci unge con una psicologia disfattista che ci riduce a ripiegare in difensiva». 43 Agende tanto cariche e precise non tengono conto che «Dio ci sorprende sempre con il non programmato della vita». Infatti l’incontro ha imprevedibilmente bisogno di spazio. Così Bergoglio si lascia andare a questo invito: «Tenete nella vostra agenda il non programmato, che è stare al servizio, essere disponibili all’imprevisto». 44 I discepoli di Gesù sono chiamati a comunicare pazientemente il Vangelo del risorto con le parole, il volto, la vita. Perché comunicare il Vangelo non è un’attività, ma qualcosa che viene dalla profondità della vita che illumina il volto e dà sapore alle parole. Sulla strada, l’incontro avviene tra persona e persona, mentre gli occhi dell’uno guardano quelli dell’altro. Quando l’arcivescovo parla di «missione come opzione pastorale permanente», si riferisce anche al modo quotidiano di vivere e di rapportarsi dei cristiani. In ogni momento, quando cammina per strada, quando lavora, quando fa acquisti, il cristiano è qualcuno che incontra l’altro. E l’altro, prima che ascoltare le sue parole, vede il suo volto. La vita cristiana, secondo il papa, è sale di fede, di speranza e di carità. L’originalità cristiana sta in questo: «quelli che ricevono l’annuncio lo ricevono secondo la loro peculiarità, come i pasti diventano più buoni (con il sale)». Il sale del Vangelo rende gli uomini e le donne più buoni, più sapidi, più umani, «perché l’originalità cristiana non è uniformità, prende ciascuno come è, con la sua personalità e le sue caratteristiche, con la sua cultura…». La realtà di ciascuno è una ricchezza, ma il sale del Vangelo «gli dà qualcosa in più, gli dà sapore». Il Vangelo dà sapore all’uomo, anche se «ciascuno è come è, con i doni che il Signore gli ha dato, perché Dio “è il Signore della varietà”». Il sale è quel sapore della vita che, purtroppo, manca a molti. E i cristiani debbono conservare e distribuire questo sale che non diminuisce nella comunicazione. Questa è la Chiesa di Bergoglio: Chiesa centrata su Dio, ma in missione e incontro alla gente. Città dell’uomo o di tanti dei? Nel 1965, il teologo battista americano Harvey Cox pubblicò un libro, La città secolare, che suscitò molte discussioni per la sua tesi di fondo apparsa provocatoria. Urbanizzazione e secolarizzazione cambiavano radicalmente il rapporto tra l’uomo e Dio: «l’alta mobilità distrugge la religione tradizionale. Essa separa la gente dai luoghi di culto e li mescola con i vicini che hanno divinità con nomi diversi e che le adorano in modo diverso». 45 Come può vivere il cristianesimo in una città profana, pragmatica e secolare? C’era – secondo Cox – una grande trasformazione da operare: «Oggi la nostra transizione dall’era della cristianità alla nuova era della secolarità urbana sarà non meno radicale. Piuttosto che rimanere ostinatamente aggrappati ad appellativi antiquati e sintetizzarne affannosamente dei nuovi, forse, come Mosè, noi dobbiamo semplicemente intraprendere l’opera di liberare i prigionieri…». 46 In realtà la storia della «città secolare» non è così nuova come Cox affermava: Parigi è, da tanto, città laica e secolare, ma allo stesso tempo abitata dai cristiani. La città – nonostante le previsioni di Cox – è divenuta non solo secolare, ma soprattutto religiosamente pluralista. Città, con un passato cattolico, si trovano a fare i conti con importanti minoranze non cattoliche. Le grandi città del Sud del mondo sono abitate da ferventi e diversificati movimenti neoprotestanti o pentecostali. La città globale è pluralista e secolarizzata: quel che scriveva Cox ha avuto, nel mezzo secolo passato, uno sviluppo impetuoso e diversificato. Questo non significa che la Chiesa non abbia voce nella città o che la religione si riduca a gruppi chiusi nelle nicchie della vita urbana. Anche se i nostri tempi registrano una privatizzazione religiosa in ambienti ristretti che rispondono ai bisogni dei singoli. Non si tratta di cattolicizzare la città attraverso manifestazioni ufficiali. Ma la Chiesa, guardando la città e incontrando i suoi abitanti, sa che essa non è stata abbandonata da Dio, pur nelle sue contraddizioni, nella sua corruzione, nella sua inumanità. La Chiesa sa che è difficile essere umani nella città e nelle sue periferie; conosce la condizione di tanti condannati a una vita dura. Eppure è la città dell’uomo, che può divenire più umana. Nell’immagine di Abramo, che intercede nella preghiera per Sodoma, il cardinal Bergoglio vede la figura del cristiano che spera con decisione nella «salvezza» della città e prega per essa. Infatti pone ai cattolici di Buenos Aires questa domanda: «Sono come Abramo nell’audacia dell’intercessione o finisco in meschinità alla Giona, lamentandomi per un’infiltrazione nel tetto e non per questi uomini e donne, “che non sanno distinguere il bene dal male”, vittime di una cultura pagana?». 47 La Chiesa cattolica, anche se minoritaria, si pone sempre come la Chiesa della città. Significativamente le diocesi cattoliche nel loro titolo (la diocesi di New York ad esempio) portano quasi sempre il nome della città e non della regione o della provincia dove si collocano. Scrive il metropolita ortodosso libanese George Khodr: «La Chiesa è il cuore del mondo, anche se il mondo ignora il suo cuore ». La città può ignorare la Chiesa e le sue ragioni profonde. Ma la Chiesa ha a cuore la città. Scrive l’arcivescovo di Buenos Aires: La città attuale è relativista: tutto va bene, e magari cadiamo anche nella tentazione di ritenere che, per non discriminare e includere tutti, sentiamo come necessaria la relativizzazione della verità. Non è così. Il nostro Dio, che vive nella città e si coinvolge nella sua vita quotidiana, non discrimina né relativizza. La verità è quella dell’incontro che scopre volti, e ogni volto è unico. Includere persone con un volto e un nome propri non comporta la relativizzazione dei valori, né la giustificazione degli anti-valori; piuttosto, il fatto di non discriminare e di non relativizzare implica la forza di accompagnare dei processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere. 48 Bergoglio parla dell’esistenza di una «cultura del basso», che omogeneizza sentimenti e comportamenti: «stiamo in un tempo di “miopia spirituale e di appiattimento morale” che fa sì che si cerchi di imporre come normale una “cultura del basso”, in cui pare non esserci posto per la trascendenza e la speranza». La Chiesa conosce la forza della mentalità relativista: «Il relativismo che, con la scusa del rispetto delle differenze, omogeneizza nella trasgressione e nella demagogia: permette tutto per non assumere la contrarietà che impone il coraggio maturo di sostenere valori e principi». Così il relativismo non significa pratica del rispetto: «Il relativismo è, curiosamente, assolutista e totalitario…». Il pluralismo non si deve necessariamente risolvere nel relativismo. Bergoglio afferma che la Chiesa è «un soggetto che si trova immerso in un cocktail di culture ibridate subendone l’influenza e l’impatto»: 49 per questo «è necessario ricollegarsi con lo “specifico cristiano”, per poter dialogare con tutte le culture». 50 Il cardinale non crede alla neutralità motivata dall’apertura a tutti. Soprattutto non ci crede nel campo dell’educazione: «Se all’educazione si toglie la tradizione dei propri genitori, rimane solo l’ideologia … Quando si lascia un vuoto, questo viene occupato da idee lontane dalla tradizione familiare, e nasce l’ideologia». 51 Alla fine tutto si svuota e tende verso il basso; anche le contraddizioni reali della vita e della persona vengono spente, perché – dice il cardinale – «tutto si regola con l’anestesia…». Nella città, la Chiesa sa che ogni giorno deve condurre una lotta pacifica contro una diffusa cultura del vuoto. La Chiesa inquieta e ridiscute questa cultura. Lo fa vivendo l’incontro con le donne e gli uomini della città, comunicando la sua fede, senza niente imporre. Lo fa dialogando sui problemi della vita con tutti e incontrando gente di altra fede, senza paura di cambiare lo stile di vita, evitando di restare sulla difensiva, autoreferenziali, chiusi in piccoli ambiti o anche nelle istituzioni tradizionali. In questa prospettiva, anche sulla linea del Documento dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, Bergoglio parla di «conversione pastorale» della Chiesa. La città non è quella di Dio, la città sacra, nemmeno quella del confessionalismo (laddove si imponeva, non fosse che per conformismo, un costume religioso). Eppure Dio non ha abbandonato la città secolare e pluralista, relativista e talvolta vuota di senso. Il futuro papa cita a lungo il documento di Aparecida sulla città: La fede ci insegna che Dio vive nella città, in mezzo alle sue gioie, ai suoi desideri e alle sue speranze, come anche nei suoi dolori e nelle sue sofferenze. Le ombre che segnano la quotidianità delle città, la violenza, la povertà, l’individualismo e l’esclusione, non possono impedirci di cercare e di contemplare il Dio della vita anche negli ambienti urbani. Le città sono luoghi di libertà e di opportunità… In esse l’essere umano è chiamato a camminare sempre più incontro all’altro, a convivere con il diverso, ad accettarlo e ad essere accettato da lui. 52 Queste belle espressioni mi fanno nuovamente ripensare a quanto scritto dal poeta David Turoldo: «È un errore pensare che Dio è lontano, che abita in un’altra città: di città ce n’è una sola; egli abita tra queste mura…». Turoldo ricordava come fossero stati Caino e i suoi figli a costruire la città: «È stato un bisogno di difesa contro il cielo, contro gli elementi, contro la natura, ad agglomerarci, a fonderci e fortificarci; è stato un bisogno di conquista, di dominio, di benessere. Sorta nel peccato [la città], lo spirito del male vi ha naturalmente piantato le sue tende, ha steso la sua politica, vi ha creato i suoi satelliti». 53 L’inferno si trova anche nella città, nutrito dalle debolezze e dall’«oro della Terra». Ma Gesù ha amato tanto la città, dice padre Turoldo: … è passato proprio a redimere questa città; è nato ed è morto alla periferia di essa, ma è stato condannato nel centro, nel palazzo del Pretorio, ed è stato flagellato nel palazzo del Comune. Prima aveva pianto sopra di lei, sulle alture, e poi è disceso a sudar sangue nell’orto degli Ulivi. Ma nel frattempo aveva trovato un cenacolo … Così Egli è diventato, morendo, la vita della terra, l’anima di questa città, il segreto che tutti cercano nei solchi di sangue. Da allora sorsero i templi accanto alle tane, gli altari accanto alle alcove, i monasteri e i santuari accanto alle taverne. E sulla stessa arena si sono discusse le sorti del tempo e dell’eternità… 54 Così il poeta descrive la città secolare. Dio vive in questa città, non l’ha abbandonata come luogo del maligno o come terra della perdizione. Ovviamente, si debbono trovare le forme, le strade per arrivare nel cuore della città. La quale non sarà mai una città sacra, dominata dalla religione con le sue leggi. Non sarà mai un paradiso. È una città mista, plurale, ambigua, in cui la condizione cristiana è di lotta (agonica, nel senso greco della parola), ma anche di simpatia per le tante vicende umane che si intrecciano tra loro. Sui linguaggi, le condizioni, le opportunità e i limiti dell’orizzonte urbano, la Chiesa deve riflettere con decisione. Il mondo della città è anche quello della Chiesa. Anche se la città è il luogo della corruzione, Dio vive in essa, seppure i suoi abitanti non lo conoscono. I cristiani non possono fuggire la città né rifugiarsi in angoli protetti, ma sentono la presenza di Dio nel dolore, nella confusione, nella solitudine, nella ricerca, nell’amore degli uomini della città. La Chiesa è il segno del fatto che Dio abita nella città. Per questo i suoi figli debbono «guardare» la città nella sua interezza. Il tema dello sguardo è molto presente nelle riflessioni del cardinal Bergoglio, che considera una grande tentazione il «non vedere» (frutto della cecità farisaica, del fascino delle luci del centro, dell’indifferenza…). La condizione urbana è insomma una grande opportunità per la Chiesa. Il cardinale fissa tre atteggiamenti concreti di guida al cristiano nel suo cammino nella città: L’uscire da se stessi incontro all’altro si risolve nella vicinanza, in atteggiamenti di prossimità. Il nostro sguardo deve essere sempre capace di uscir fuori e di farsi prossimo. Non dev’essere autoreferenziale, ma trascendente. Il fermento e il seme della fede si risolvono sempre nella testimonianza … È la dimensione martiriale della fede. L’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomené, che segue passo passo i processi senza bistrattare i limiti. 55 Oggi il vissuto di tanti cristiani, dentro la condizione urbana, sta scrivendo percorsi di spiritualità rinnovata (mentre quella tradizionale era tanto forgiata sulla dimensione dell’uomo della campagna). La Chiesa, attraverso il vissuto di uomini e donne di fede, guarda alla città del futuro. Joseph Comblin osserva come «la Chiesa non esiste soltanto al servizio della città di oggi, ma anche a servizio della città di domani. È a servizio della nuova Gerusalemme, è a servizio della città rinnovata che sorgerà…». 56 In linea con il Concilio e l’Evangelii nuntiandi, papa Bergoglio ripropone la missione come la collocazione normale della Chiesa nella città. La missione è anche una pacifica demitizzazione di tanti idoli della vita urbana, di una visione economicista totalizzante, della potenza dei media globalizzati. Il cardinale parla di un «incantamento» della tecnica sugli uomini nella promessa di cose sempre migliori, di un’economia dalle possibilità illimitate, del consumismo materiale ma anche di quello religioso con la sua teologia della prosperità: questo coacervo di influssi convergono nella grande illusione di rappresentare le vere risposte a tutti i bisogni umani. La comunicazione del Vangelo è una lezione di realismo e di autentica laicità. Risveglia alla realtà. Ha insomma la funzione dei profeti biblici, quella del disincanto, che Bergoglio chiama «escatologico». Il «disincanto escatologico» della fede evangelica richiama al valore delle cose ultime di fronte all’idolatria di sé o delle cose prossime. Bergoglio, aperto a tutti, convinto che da tutti si possa imparare, non è un irenista senza il coraggio di un giudizio profetico sugli idoli che nascono dal culto dell’io. Tornano alla mente le parole del canone di sant’Andrea di Creta, che la Chiesa ortodossa legge per la Quaresima, come preghiera penitenziale. Riguardano proprio l’idolatria più profonda: Idolo a me stesso sono diventato ferendo la mia anima con le passioni. Accoglimi pentito e alla tua luce attirami. Non mi divori il nemico… 57 Ci siamo feriti da soli con le nostre passioni: questo il messaggio di Andrea di Creta. Così si diventa idoli a se stessi: si ha sempre ragione, non si sbaglia mai, si diventa furbi, politici, freddi, paurosi e calcolatori, impigriti. L’«idolo a me stesso» è la condizione di un uomo «disidratato» di spirito. Sant’Andrea di Creta afferma: quest’uomo, idolatra di se stesso, si ritrova nel niente. Si ripete quello che è avvenuto nella Genesi. Il nemico, il serpente, suggerisce di distaccarsi da Dio e dalla sua parola: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio…» (Genesi 3,5). L’uomo e la donna, illudendosi di vedere, credono di poter diventare come Dio. Dei a se stessi. Per Olivier Clément, l’affermazione sull’idolatria di se stessi è centrale nella cultura di oggi. Autoidolatria diventa la separazione da Dio. L’individuo si autodivinizza. Il peccato è «murarsi» in se stessi e nella propria identità, nel proprio io: «nel concentrarsi» osserva Clément «tutto su se stesso, senza via d’uscita che non sia il proprio io. Ne consegue che l’individuo si irrigidisce e si polverizza, incorrendo sia nella durezza di cuore che nel gioco degli specchi del proprio narcisismo». 58 Questa storia antica si ripropone oggi in forme nuove, mentre la società spesso si scompone in un insieme di io senza speranza comune, senza coesione. La missione della Chiesa è, allo stesso tempo, una profezia contro gli idoli e l’autoidolatria, ma anche un richiamo al risveglio di un cuore spento. Certo il profeta e l’inviato sono deboli di fronte alla forza dell’idolatria: «di fronte a questa invasione pseudoculturale, che ci presenta i nuovi volti pagani dei Baal di ieri, sperimentiamo la sproporzione delle nostre forze e la piccolezza dell’inviato» 59 afferma Bergoglio. Continua il cardinale: Nel caso specifico di Buenos Aires, possiamo dire che si tratta di una città pagana; non lo dico in senso peggiorativo, ma solo come constatazione. È una città che adora molti dei … È un fatto che la cultura edonistica, consumistica, narcisista sta inquinando il cattolicesimo. Ci contagia, e in qualche modo finisce per relativizzare la vita religiosa, per paganizzarla, per renderla mondana, secolare… 60 Così la missione cristiana è diversa dalla propaganda e dalla predicazione delle sette (che gridano «smetti di soffrire» e propongono una teologia della prosperità). La missione dei cristiani vive e cresce nel dialogo con la gente, con la sua inquietudine e con il suo dolore. Bisogna riuscire a collocarsi nel clima e nel linguaggio vissuto dagli interlocutori. L’arcivescovo dice: «Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna – ancor più se ci vediamo obbligati a usarne altre – così pure nella fede ci piace che ci si parli con le chiavi della “cultura materna”». 61 Nella città «pagana» vive una religione popolare che non è un residuo del passato o un compromesso con la superstizione. Il cardinale cita il pellegrinaggio di tanti giovani al santuario della Madonna di Lujàn, per molti l’unica esperienza religiosa, fatta spontaneamente e senza alcuna organizzazione. La religiosità popolare è una realtà che, dopo il Vaticano II, è stata considerata con sufficienza, quasi fosse espressione di un passato da cancellare. Per Bergoglio la devozione popolare ha un valore, sebbene sia un aspetto parziale della vita, talvolta in contraddizione con altri: è una «scintilla» che va aiutata a svilupparsi. Nella città secolarizzata, una Chiesa in missione incontra un popolo che non è chiuso alla fede: questa è la sua convinzione al di là di tante analisi sociologiche. Il futuro Francesco non indulge al pessimismo sul mondo contemporaneo che avrebbe voltato le spalle a Dio. Quel pessimismo che spinge a chiudersi in piccoli mondi, magari alla ricerca di una sedicente perfezione, intesa come adesione alle prescrizioni. Bergoglio critica un mondo di «regole troppo rigide da seguire». Così si inibisce l’incontro con la misericordia di Dio, a cui – magari inconsapevolmente – tanti cuori anelano: «L’evangelizzazione, non il proselitismo, che oggi – grazie a Dio – è stato cancellato dal lessico pastorale». L’evangelizzazione si incontra con una grande inquietudine religiosa ancora viva nel cuore delle persone, che non è stata cancellata da una visione psicologica della vita. Deve cogliere la domanda di felicità della gente. Il Vangelo infatti non toglie niente, anzi rende la vita più piena di senso e felice, anche se non regala illusioni di prosperità. Papa Francesco si scaglia contro un «riduzionismo ignobile», che sminuzza o trascura il kerygma in favore della catechesi, della precettistica, del moralismo. Il cardinale critica una certa pastorale ecclesiastica: «si preferisce parlare della morale sessuale: questo si può, questo non si può». Bisogna realizzare un incontro vero con le persone. Ogni cristiano ha il suo carattere e la sua umanità, il suo modo di incontrare e di parlare. A questo si deve essere attenti. Bergoglio non promuove piani pastorali né fissa stili di vita generali per la Chiesa. Ha anzi polemizzato con quanti vogliono erigersi a controllori del popolo, quasi innalzando una «dogana pastorale». Si pensi all’itinerario rigido che talvolta si deve compiere per ottenere il battesimo da parte degli adulti in talune diocesi. Papa Francesco sta ponendo domande fondamentali alla Chiesa, la sta spingendo a interrogarsi sul suo vivere nella città. In Brasile ha detto ai vescovi, riguardo all’atteggiamento verso la gente: Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande; forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo ma non per la sua età adulta. 62 La missione vuol dire uscire nella città, incontrare, parlare di Gesù, ascoltare le persone, non tenere le porte chiuse, vivere responsabilmente sulla strada. Non ci sono semplificazioni o proposte metodologiche che rendano superflua una conversione personale dei cristiani alla missione del Vangelo. Niente è semplice nella città contemporanea. Occorre cambiare, mettendosi nuovamente sulla strada. Non è facile vivere nella città: «Abitare in una grande città al giorno d’oggi è cosa molto complessa, dal momento che i legami di razza, storia e cultura non sono omogenei e gli stessi diritti non sono condivisi in egual misura da tutti i residenti». 63 Ma questa è la condizione dei cristiani oggi. Vedere il lontano Il cristiano, tra mondo locale e mondo globale, è interpellato da tanti fatti: dal povero che incontra sino alle immagini di dolore in paesi lontani, che vede ogni giorno attraverso i media. È interrogato sulla solidarietà. La domanda posta a Gesù sul prossimo è sempre attuale: chi è il mio prossimo? Indubbiamente il vicino. Eppure, oggi, i media ci portano a contatto con tragedie lontane. È significativo che la Croce Rossa nacque, come un impeto umanitario, nell’Ottocento, quando la fotografia testimoniò all’opinione pubblica lo strazio dei feriti in battaglia (quel dolore lontano veniva riprodotto e poteva essere visto anche da chi era assente). 64 La solidarietà internazionale nasce proprio dal sentire «prossimo» chi soffre geograficamente lontano da noi. Per Peter Singer si impongono, in questa situazione, due condotte differenti all’uomo contemporaneo: tirar fuori il bambino che affoga nello stagno di fronte a noi e, d’altra parte, contribuire ad aiutare un altro bambino che muore in Sudan per fame. 65 Forse oggi, tempestati come siamo da immagini e notizie di avvenimenti dolorosi in paesi lontani dal nostro, ci siamo quasi assuefatti a questa realtà. L’inflazione di informazioni ha un effetto deresponsabilizzante. Alla fine si viene a contatto con tante notizie su situazioni problematiche che si pensa sia impossibile seguire. Così, tra impotenza e dimenticanza, ci si rinchiude nella propria vita. Paolo VI, nel 1966, di fronte alla fame in India disse qualcosa che mi ha sempre colpito fin da adolescente: «Guardate l’umanità; sì, questa nostra umanità, così progredita e così potente; guardate: più della metà degli esseri umani che la compongono è in uno stato di sofferenza, che dobbiamo dire ignobile e intollerabile; soffre la fame. La fame, letteralmente! … Nessuno di voi rimarrà sordo a questa inattesa notizia». 66 Paolo VI toccava un problema attuale: l’informazione porta notizie tragiche da ogni parte del mondo. Che si deve fare? Il mondo è divenuto villaggio globale: si viene informati in tempo reale. Ma come reagire? Così Paolo VI continuava: È questo un fenomeno caratteristico del nostro tempo, nel quale i rapporti fra uomini hanno reso di conoscenza comune la vicenda di ogni parte dell’umanità. Nessuno può dire oggi: io non sapevo. E, in un certo senso, nessuno oggi può dire: io non potevo, io non dovevo. La carità tende a tutti la sua mano. Nessuno osi rispondere: io non volevo! Ebbene, oggi, Figli carissimi, quella mano è anche la nostra. Noi la tendiamo mendicando a voi… 67 Oggi si potrebbero ripetere queste parole di fronte a ogni crisi umanitaria in ogni parte del mondo. Una grande vista senza cuore rende l’uomo indifferente. Gli ultimi decenni hanno conosciuto significativi momenti di solidarietà internazionale. La Chiesa stessa l’ha stimolata rendendo sensibili le comunità cristiane del Nord ai drammi della povertà del Sud. Tuttavia, con la crisi economica e di fronte a tante situazioni drammatiche, la solidarietà internazionale si è parzialmente appannata. In visita all’isola di Lampedusa, approdo di tanti rifugiati che attraversano il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna e talvolta perdono la vita, Francesco ha sottolineato come «siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo … non siamo più capaci di custodirci gli uni gli altri». C’è come un’anestesia di fronte al dolore di tanti: «la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere». Invece la «voce del sangue» (che si alza da tragedie lontane) pone una domanda radicale: «Dov’è tuo fratello?». Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi … Chi è responsabile del sangue di questi nostri fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna, siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano … La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone… 68 Il giudizio del papa è severo: «In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affar nostro!». 69 Papa Francesco, recandosi a Lampedusa, ha portato tanti a «vedere» da vicino questa tragedia. Bisogna «vedere» anche quello che avviene lontano. È il primato del cuore: non si ha la soluzione per tutto, ma non si può chiudere il cuore solo perché ora non si ha la soluzione. Resta un’inquietudine partecipe che spinge alla ricerca e alla preghiera. Visione e storia Il mondo si è allargato e il grande problema oggi è avere una visione. La visione ha una dimensione geografica (mondi lontani e vicini), ma pure una dimensione storica e di prospettiva del futuro. Scrive un poeta italiano, Andrea Zanzotto: «siamo, anche se io stento, fatti di orizzonti». Emilio Vergani osserva come l’assenza di visione connoti in genere la vita pubblica: «questa assenza (o perdita) deriva, in buona sostanza, da una deprivazione di forza del pensiero, di immaginazione e di volontà». 70 L’assenza di visione riduce il proprio spazio al mondo attorno a sé, mentre restringe il tempo al presente. Il cardinal Bergoglio ha parlato di «congiunturalismo», di «una visione a breve termine»: si fissa così «il presente come unica dimensione del tempo, che non consente visione e sguardo strategico e pone l’occupazione di spazi come fine ultimo dell’attività politica, sociale ed economica». 71 Si tratta della ricerca dell’interesse individuale, dell’esaltazione del particolarismo e della frammentazione. Diviene una mentalità per tanti, che finiscono per agire in modo solitudinario. Questo impedisce la maturazione di un progetto comune sul futuro. L’arcivescovo nota, in Argentina, l’incapacità della politica di operare una sintesi e avere un progetto. Sulla politica ha parole severe: «È una cultura politica di scontro e non di concordia, non è una cultura dell’incontro; in essa il conflitto è più importante dell’accordo e della ricerca dell’unità». 72 In Italia la politica del conflitto ha divorziato dalle peculiari culture di riferimento, che pure esistevano invece con tutti i loro limiti in una precedente stagione, magari più ideologica. Ormai la politica ha compiuto un’alleanza strutturale con i media, mentre l’invasione del digitale sta mettendo in discussione ogni mediazione politica con l’illusione della democrazia diretta. Dice Bergoglio: La riduzione della politica a spettacolo o a pura immagine è un fenomeno più recente che promuove personaggi privi di contenuto e di proposte, senza capacità di gestione né soluzioni per affrontare situazioni complesse come quelle che si trovano a vivere le società contemporanee. Non si tratta di una questione locale. Non è necessario fare esempi per rendersi conto dell’emergere di leadership inconsistenti prodotte da campagne pubblicitarie o dalla complicità mediatica. 73 La crisi della solidarietà, la mancanza di visione, il congiunturalismo, il divorzio della politica dalla cultura sono espressioni di una società in cui viene a mancare la profondità della storia, ma anche la speranza di scriverne una rinnovata per il futuro. Nel 1995, Giuseppe Dossetti, monaco e acuto osservatore del tempo presente, offriva una lettura preoccupata della situazione contemporanea: «Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture … non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica né da parte cristiana». E soggiungeva: Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche modo, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimistica, perché io so che le sorti di tutto sono in mano di Dio. La speranza non viene meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile… 74 La crisi della cultura, come il suo ripiegamento rabberciato sul presente, è una delle grandi povertà dei paesi europei. Un tempo non abitato dalla storia diventa ciclico, fa scomparire il futuro, resta prigioniero di un presente angusto. La globalizzazione appiattisce la visione su di un presente senza confini che ruota attorno all’ego, creando piccole soddisfazioni in un quadro, però, di grande smarrimento. Del resto anche la storia – si pensi alle storiografie nazionali, così diffuse tra OttoNovecento – è in crisi e non ha più l’importanza culturale e politica di ieri. Ma la storia è una componente decisiva della cultura umanistica. Il futuro papa osserva che un popolo ha un’eredità (con limiti e vantaggi) di cui farsi carico, «perché esattamente questo è il punto di avvio dal quale partire per poter dare il nostro contributo al futuro». 75 Aggiunge che «la memoria è una forza d’unificazione e di integrazione». Anche se «la memoria dei popoli non è un computer, bensì un cuore». 76 Pure una famiglia non è tale se non ha memoria («Una famiglia che non rispetta né si occupa degli anziani … è una famiglia rotta»). Infine «una famiglia e un popolo che fanno memoria sono una vera famiglia e un popolo con un futuro». C’è il senso della storia nel pensiero del papa. Senza senso della storia, senza storia, una comunità non ha futuro. La mutilazione della storia – come avviene in molti paesi nuovi o resi dimentichi dall’appiattimento sul presente – mette in crisi la speranza e le visioni del futuro. Uno dei più grandi storici del Novecento, Eric Hobsbawm ha parlato della «distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti…». E ha aggiunto: «La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente». 77 Il futuro papa Francesco ha una sensibilità simile e osserva in proposito: La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nell’ambito di un popolo in cammino. Per questo ogni sforzo individuale – per quanto prezioso –, ogni tappa di governo che si avvicenda – per quanto significativa possa essere stata – e gli avvenimenti e i processi storici che nel tempo forgiano la storia di un popolo – portatore di vita e di cultura – non sono altro che parti di un tutto complesso e diverso che interagisce nel tempo: un popolo che lotta per un senso, che lotta per un destino, che lotta con dignità. 78 Il cardinal Bergoglio ha parlato degli uomini e delle donne come di «persone storiche». Nazione e politica hanno bisogno di coscienza storica. Lo stesso cristianesimo – come diceva Marc Bloch – è una religione storica e i suoi testi sacri sono anche libri di storia. Affrontare la vicenda dell’Argentina e dell’America Latina porta a fare i conti con vicende storiche complesse e ineludibili come la Conquista o il peronismo. 79 La storia per Bergoglio non è un’epopea patriottica o nazionalista; quella della Chiesa non è apologetica. La storia è però piena di orrori, dalle crociate, alle guerre di religione, alla Conquista: «culturalmente, in quell’epoca si agiva così. Fede e spada andavano di pari passo. Questo ci mostra la bestialità che a volte l’uomo si porta dentro» afferma il cardinale, che pure condanna quei gravi errori. Tuttavia «se non studiamo i contesti culturali finiamo per dare letture anacronistiche fuori luogo»: «L’interpretazione storica va fatta utilizzando l’ermeneutica dell’epoca; finché continuiamo a utilizzare un’ermeneutica estrapolata, stravolgiamo la storia e non la comprendiamo». 80 La storia non si analizza «da una posizione di purismo etico». Bergoglio rifiuta che la storia possa essere «tribunalizzata», per giudicare persone, vicende, popoli. Il futuro papa Francesco conclude le sue riflessioni sulla storia con una considerazione che echeggia Marc Bloch: «L’analisi storica va sempre effettuata con i parametri dell’epoca, con la sua ermeneutica. Non per giustificare i fatti, ma per comprenderli». 81 Uscire da sé, incontro, simpatia – espressioni care al futuro papa – ritornano anche nel lavoro dello storico, pur in modo molto particolare. Henri-Irénée Marrou, grande studioso dell’antichità, affermava che «storico è colui che … sa uscire da se stesso per incontrarsi con gli altri. A tale virtù possiamo dare un nome: simpatia». 82 E aggiungeva che bisogna costruire «un legame di amicizia» con l’oggetto storico che si studia, ricordando la bella formula di sant’Agostino: «nessuno può essere conosciuto se non attraverso l’amicizia». La dimensione della storia è anche rilevante nella vita della Chiesa, pur essendo troppo trascurata dagli studi ecclesiastici, talvolta nel timore che induca a una relativizzazione delle verità di fede. Invece la storia aiuta la comprensione della realtà, ad andare più in profondità nelle situazioni, senza limitarsi a reazioni emotive, ridotte al presente. La globalizzazione ha una storia – come afferma lo storico Agostino Giovagnoli – e non produce un mondo senza tempo, fatto di economia, appiattito sul presente. 83 Infatti frequentare la storia fa crescere la coscienza umanistica della vicenda dei popoli e delle persone. VI Un papa dalla fine del mondo Fuori dall’autoreferenzialità Nel 1978 l’elezione di un papa non italiano («straniero» si diceva) apparve come una svolta radicale, ma si trattava pur sempre di un europeo e di Cracovia, una città profondamente partecipe della cultura dell’impero asburgico che aveva abbracciato anche Veneto e Lombardia, patria di parecchi papi italiani del Novecento. Certo, per Giovanni Paolo II, il fatto saliente era la provenienza da un paese comunista. Bergoglio invece viene dal Sud del mondo. Con la sua elezione, per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa romana c’è un papa che non proviene dall’Europa o dal mondo mediterraneo, le prime aree di evangelizzazione del cristianesimo. Walbert Bühlmann ha scritto, nel 1974, il libro La terza Chiesa alle porte: prevedeva che l’affermazione della Chiesa del cosiddetto Terzo Mondo avrebbe cambiato il cattolicesimo. 1 Oggi un figlio della «Terza Chiesa» non è più «alle porte», ma siede sulla cattedra del papa di Roma, alla testa della più antica istituzione europea e occidentale. Si potrà dire che l’Argentina è tanto legata all’Europa, tuttavia è parte integrante del grande Sud del mondo. Con una forte intelligenza dei tempi, il collegio dei cardinali ha scelto un papa non europeo. Questa è la grande novità. I cardinali non hanno affidato a un europeo la leadership del cattolicesimo mondiale. Questo non significa che la Chiesa cattolica abbia voltato le spalle all’Europa: il papa è vescovo di Roma e Francesco svolgerà la maggior parte del suo ministero da qui. I cardinali però hanno scelto – per guidare la Chiesa universale – un uomo appartenente a un mondo altro rispetto a quello europeo. È l’ammissione di come il cattolicesimo del vecchio continente non rappresenti più (o non rappresenti in modo così forte) il baricentro dell’universalità cattolica. Del resto il cristianesimo del XXI secolo sarà sempre di più una religione del Sud del mondo, non solo per il crescente numero di «nuove Chiese», sette, comunità pentecostali, un universo tanto frammentato quanto diffuso, ma anche perché il cattolicesimo stesso sarà sempre più meridionale, come osserva Philip Jenkins in un libro sul cristianesimo del XXI secolo,La terza Chiesa. L’America Latina è di gran lunga oggi il continente più cattolico: rappresenta il 42 per cento dei fedeli cattolici (ma il 20 per cento dei preti del mondo). L’Europa e il Nord America contano solo il 35 per cento dei fedeli cattolici del mondo (ma il 68 per cento dei preti). Il futuro demografico del cattolicesimo è nel Sud, mentre complessivamente il cristianesimo – secondo Jenkins – non sarà superato numericamente dall’islam, come molti prevedono. Questa constatazione sulla forza del cattolicesimo del Sud non significa che Roma impallidirà nel suo ruolo di servizio all’universo cattolico. Due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno fermamente creduto che, senza la persistenza del cristianesimo in Europa, si sarebbe determinata una crisi a livello universale. Papa Wojtyła ha condotto la sua battaglia per evangelizzare l’Occidente e scalzare il dominio comunista dell’Est. Papa Ratzinger ha lottato e dialogato con il pensiero occidentale. Papa Francesco parla spesso del suo essere «vescovo di Roma». Inoltre, proprio il mondo globalizzato mette in luce il valore insostituibile del servizio del vescovo di Roma per l’unità della Chiesa. Il cardinale Duval, arcivescovo di Algeri e padre conciliare, sosteneva l’importanza del primato del papa, anche per equilibrare il cattolicesimo ed evitare che le Chiese del Nord con i loro potenti mezzi finanziari e con la loro forza intellettuale fossero egemoniche. 2 La Chiesa cattolica, come tutte le realtà del mondo globalizzato, è tentata di proteggere se stessa dai venti della mondializzazione con un ripiegamento autoreferenziale, magari concentrandosi sull’orizzonte locale oppure sui suoi problemi strutturali. La globalizzazione rafforza la paura e il conservatorismo nella Chiesa. Il tradizionalismo e la nostalgia del passato, giustificati spesso con il tema della fedeltà, nascondono il timore del presente e del futuro. Una Chiesa che si difende, in atteggiamento conservatore (che può apparire arrogante, ma è pauroso), diventa una comunità di «cristiani da museo», come dice il papa. Il clima di crisi europea e la perdita di rilievo mondiale delle nazioni europee, per l’osmosi tra la Chiesa e il vecchio continente, rafforza tra i cattolici il senso di autoreferenzialità diffuso nelle strutture cattoliche e tra i fedeli. È un atteggiamento indotto dallo spaesamento di fronte agli orizzonti smisurati della mondializzazione; ma rappresenta anche una scelta protettiva rispetto al «contagio» di ambienti così diversi con cui si viene a contatto. Si scivola in questa scelta, quando non si ha una visione del mondo e si fa fatica a capire le grandi trasformazioni contemporanee. Così si subiscono i cambiamenti senza dialogare o interferire con essi, spesso in una condizione di irrilevanza. Eppure i cambiamenti sono grandi, come quelli di un mondo senza più il baricentro in Europa, e in cui gli Stati Uniti non sono più la grande potenza egemonica, con uno spostamento di interesse verso universi in cui il cristianesimo è meno presente, quali quello cinese e quello indiano. Non si tratta di una nuova egemonia asiatica al posto dell’americana, bensì dell’affermazione di una complessa multipolarità. L’autoreferenzialità rappresenta una scelta confortevole di fronte a scenari complessi che fa vivere gli uomini di Chiesa in ambienti che credono di controllare. La povertà è invece uscire nei cammini della transumanza umana; è incontrare, dialogare, accompagnare, comprendere, comunicare il Vangelo, non rinunciare a essere un popolo di credenti. Oggi il pensiero della Chiesa sulla globalizzazione non è così sviluppato, come occorrerebbe, perché molti ambienti cristiani faticano a guardare fuori del proprio mondo e si limitano a ripetere le cose sicure di sempre. Ma è necessario – come diceva il Concilio e come fece Giovanni XXIII – cogliere i segni dei tempi che orientano la vita del popolo di Dio. Nel preconclave, il cardinal Bergoglio aveva tracciato l’immagine del papa di cui c’era bisogno: Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che, dalla contemplazione e dall’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della «dolce e confortante gioia di evangelizzare». 3 La Chiesa deve uscire da se stessa, collocandosi nelle periferie umane, urbane e geografiche. È la dimensione della missione di cui si è parlato. Infatti, meditando sull’apostolo Paolo e sul suo zelo apostolico, il papa parla di una necessaria «pazzia spirituale» per i cristiani: «… nella Chiesa ci sono cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma che non sanno dare figli alla Chiesa con l’annunzio del fervore apostolico». 4 Non si capisce la strada della Chiesa solo dal centro ma la si comprende dalle periferie (è la tesi di Bergoglio). La scelta per la periferia non è solo un’opzione spirituale e pastorale, ma un atto ispirato da un realismo aderente alla situazione del mondo globale, in gran parte costituito da periferie. Bisogna avere, però, occhi per comprendere quanto sta avvenendo. Per capire meglio la storia e per amarla è necessario vivere un’esperienza spirituale. C’è un primato di Dio nella vita da cui discende uno sguardo diverso sulla realtà. In modo molto semplice ma chiaro, Bergoglio ha detto al popolo radunato nel grande santuario mariano di Luján: «Lo sguardo della Madonna ci aiuta a guardare quelli che istintivamente guardiamo di meno…». 5 Ma, anche per quello che riguarda la cultura, insiste molto sul legame tra la preghiera e la teologia (o il pensiero sull’uomo): la «pietà è, per così dire, l’ermeneutica fondamentale della nostra teologia». 6 Uomini e donne che pregano potranno comprendere il mondo contemporaneo e aiutare la Chiesa a capire la strada da percorrere con speranza. Questi uomini e donne proveranno a capire la realtà, partendo dalle tante periferie. Una Chiesa, che vive in periferia e nei tanti frammenti del mondo, non è però una comunità in frammenti. Le diversità dei territori e delle culture si compongono nella comunione. È questa che va continuamente rivitalizzata. Attraverso la comunione nessuna comunità è sola e autoreferenziale: «Ma non siamo soli, siamo in tanti, siamo un popolo…» ha detto il cardinal Bergoglio al santuario di Luján. 7 Il grande dibattito sul futuro della Chiesa non è sul centralismo o sulla decentralizzazione del cattolicesimo, quanto su come liberarsi dal rischio dell’autoreferenzialità e realizzare una comunione vera. Il gruppo di cardinali che il papa ha chiamato per discutere dei problemi della Chiesa e della riforma della Curia manifesta questa ricerca di comunione, tanto che la loro designazione è stata orientata dalla volontà di rappresentare i differenti continenti. All’epoca del Grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II aveva abbozzato un progetto di riforma. Aveva già realizzato una riforma strutturale della Curia nel 1988, ma credeva che si dovesse fare di più: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia,» aveva scritto nella Novo millenio ineunte «se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo». 8 Questo grande disegno, concepito come una recezione ulteriore del Vaticano II, non ha avuto un’attuazione pratica, per la malattia del papa e anche per le tensioni del mondo dopo l’11 settembre. Papa Wojtyła non mirava prioritariamente a lavorare sulle istituzioni; c’era innanzi tutto da «promuovere una spiritualità di comunione» nel vivere e lavorare con gli altri, nella costruzione di una dimensione autentica di amicizia e di servizio. Questa riforma spirituale, centrata sulla predicazione della Parola di Dio e sul contagio dell’esempio, resta incompiuta (malgrado Benedetto XVI vi abbia poi posto importanti fondamenta spirituali). Wojtyła sognava nel 2000 un nuovo impegno per coltivare gli spazi di comunione e dilatarli: Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» … e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione, più che sue vie di espressione e di crescita. 9 Ma non è proprio la spiritualità di comunione che papa Francesco va riprendendo oggi con la naturalezza di chi prova a viverla? Il cardinal Bergoglio scriveva infatti: «E quando il dialogo fra il pastore, l’insieme del popolo di Dio, il gran pastore, Cristo, il Papa, i Vescovi, quando il dialogo va per la stessa strada non si può sbagliare perché è assistito dallo Spirito Santo. Ma perché il popolo di Dio non si sbagli deve esistere questo dialogo, questa lealtà e questa universalità di tutto il santo popolo fedele a Dio, che va oltre le frontiere di una parrocchia, di una diocesi, di un paese. Ossia è questo sentire il Vangelo». 10 C’è una lunga strada da percorrere. Come uscire dalla crisi della Chiesa Dove Francesco sta conducendo la Chiesa? In genere il giudizio dell’opinione pubblica sul papa è estremamente positivo. C’è qualcosa di felice che si respira nell’aria nei suoi confronti: una nuova simpatia, come ho già detto. Forse tutti i problemi sono stati risolti? Evidentemente no, anche se il papa ha provveduto a relativizzarli, per esempio con le battute sullo IOR, mentre ha mantenuto con molta fermezza la linea del suo predecessore sulla pedofilia. Tuttavia l’attenzione generale si è spostata dagli aspetti istituzionali alla figura del papa e al suo messaggio. La comunicazione della Chiesa ha riacquistato quel chiaroscuro umano che dà profondità al suo contenuto. C’era stato nei media quasi un appiattimento sui problemi istituzionali e amministrativi. Il fascio di luce dei media era stato impietoso. Ha scritto un critico d’arte inglese, John Ruskin: «È l’eccesso di luce che rende la vita di oggi perfettamente volgare». 11 La vita della Chiesa, invasa dalla luce mediatica, appariva involgarita. Papa Francesco non ha chiuso le persiane per evitare troppa luce sulle questioni interne, come si è visto nella lunga intervista al ritorno dal viaggio in Brasile. Ma ha reagito all’«ideologia della banalità» (come diceva Ratzinger), ossia alla banalizzazione della vita ecclesiale. Non ha attaccato il mondo per la sua immoralità o le sue contraddizioni. Non ha condannato nessuno. Con la forza del vissuto e la semplicità della misericordia ha presentato il suo messaggio. La sua Chiesa non si qualifica come perfetta. Non è un giudice che emana sentenze sull’umanità. Continuamente il papa ricorda che lui stesso è peccatore e che il più grande peccato è non chiedere perdono a Dio. In un’occasione ha detto: «per essere un buon cristiano è necessario riconoscersi peccatore». I limiti della Chiesa però non incatenano il suo messaggio. Difficoltà ci sono e ci saranno sempre: è l’umanità della Chiesa. Alla Chiesa si rimprovera di non essere «perfetta», aderente all’immagine che essa propone. È un rimprovero che nasce anche dall’antipatia e dall’ostilità alla Chiesa, ma che trova motivo pure in qualche supponenza di una Chiesa in fondo spaventata. In realtà la lunga storia della Chiesa è una vicenda di tante difficoltà e crisi. Vicenda che nasce dalla fragilità dei cristiani, ma anche dalle avversità, persecuzioni, contraddizioni che essa incontra nel suo cammino storico. Non si può dire che gli anni di Pio XII non siano stati duri, con la seconda guerra mondiale e i cristiani dell’Est sottoposti alle persecuzioni comuniste. Il tempo di Paolo VI, che sperava in una primavera della Chiesa dopo il Concilio, è stato pure assai difficile, segnato dalla contestazione ecclesiale e dalle polarizzazioni nella vita interna. Anche Giovanni Paolo II, pur celebrato come il vincitore del comunismo, ha conosciuto tempi duri, la sconfitta con le stragi nel cattolico Ruanda, l’impotenza di fronte alla guerra in Iraq… La crisi accompagna la vita della Chiesa. La cui storia non è mai trionfale. Miguel de Unamuno, nell’Agonia del cristianesimo, giustamente notava che il cristianesimo va capito in senso «agonico», cioè di lotta: «Bisogna definire il cristianesimo agonicamente…». 12 Il cristianesimo non è mai una realtà pienamente realizzata: «è l’illusione» scriveva il filosofo francese Étienne Gilson «che il cristianesimo, che è una rivoluzione religiosa permanente nel cuore del mondo, sarebbe stato in qualche momento una rivoluzione “riuscita”». 13 Per questo il filosofo francese insiste sul fatto che i cristiani si debbono sbarazzare dell’idea di vivere una fase di decadenza rispetto a passate età dell’oro, perché il vero rischio che il cristianesimo corre è quello di sentirsi riconosciuto, garantito e realizzato. Il modernista romano Ernesto Buonaiuti (che vagheggiava una nuova stagione spirituale) da parte sua osservava che il cristianesimo ha cominciato a decadere «proprio il giorno in cui ha creduto di tenere il mondo in mano». 14 Il mondo di Costantino (del cui editto si celebrano i 1700 anni e che la Chiesa ortodossa considera un santo) è finito da tempo. 15 Oggi il cristianesimo – notava Karl Barth – «non sta più – anche laddove esso ancora c’è – sui suoi piedi. Nella misura in cui esso vive ancora, sta in affitto in casa d’altri». Conosce i disagi e la precarietà di vivere in una casa non propria. Ma questo era anche il cristianesimo delle origini, in affitto – e che affitto pesante talvolta! – in casa d’altri. La crisi viene anche dai drammi, dai compromessi, dalla fatica, da quell’insieme di atteggiamenti necessari a vivere in casa d’altri. Non c’è stata per il cristianesimo un’età a cui ritornare. Nel lontano 1947, l’arcivescovo di Parigi, cardinale Suhard, lanciò con una sua lettera pastorale una domanda che fece grande effetto: Essor ou déclin de l’Eglise?16 Ci sarebbe stato uno sviluppo della Chiesa o un suo declino? La guerra era finita da due anni, c’era un clima di tensione politica e sociale molto grave, la scristianizzazione era evidente in una grande metropoli come Parigi, il mondo coloniale si avviava a un nuovo assetto politico… Forse la Chiesa aveva finito il suo itinerario storico in Europa, come molti pensavano. Declino o sviluppo della Chiesa? Per reagire al declino, ci si rifugiava nel tradizionalismo religioso e nel conservatorismo sociale – notava il cardinale. Per lui bisognava accettare i cambiamenti e le crisi: «il compito della Chiesa non è di conservare il mondo com’è, neanche nel caso in cui sia divenuto cristiano, bensì di conservarlo cristiano in modo che non cessi mai dal diventare altro…». Il concetto di decadenza della Chiesa è legato a un’idea illusoria di età dell’oro, mai esistita, e al rifiuto di camminare nella storia. La «crisi» è una condizione permanente nella vita del cristianesimo. La Chiesa non era in declino, secondo Suhard, ma viveva nuove e temibili sfide. Egli intravedeva qualcosa che sarebbe avvenuto con la mondializzazione, quando scriveva: «Cadono le barriere sopra questo mondo in espansione, e sotto il formidabile urto di questa nuova marea che sovverte e livella ogni cosa, si spezzano i diaframmi, verificandosi così per tutto l’orbe ciò che s’era visto in piccolo, durante l’apogeo di Roma, per il mondo mediterraneo: il profilarsi di una comune civiltà». 17 Condizione nuova e difficile per la Chiesa. Questa era l’idea dell’arcivescovo di Parigi, dopo che la guerra mondiale aveva cambiato il mondo, realizzato un impero comunista, posto le premesse della fine degli imperi coloniali… e tant’altro. Ci sono svolte profonde nella vita della Chiesa, quando si aprono nuovi orizzonti, ma ne scompaiono altri e cadono mura protettive. Gregorio Magno, mentre il mondo romano declinava, ebbe il coraggio di guardare lontano, al mondo dei barbari, agli angli dell’Inghilterra, dove mandò i suoi monaci a evangelizzare (fu l’inizio del cristianesimo anglosassone). La Chiesa si disloca, quando un mondo declina, ma essa stessa non declina necessariamente. Scrive uno studioso del grande Gregorio, Emilio Gandolfo: «I barbari premono alle porte di Roma che sta per cedere; ma dove Roma ha il presentimento della sua fine, Gregorio vede una porta nuova e promettente per il Vangelo. Egli non identifica il Vangelo con la civiltà che sta per tramontare; per lui come per san Paolo, il Vangelo è potenza di Dio per salvare chiunque crede, sia romano sia barbaro». 18 Barbaro vuol dire periferico rispetto all’impero, fino ad allora considerato il centro del mondo. Papa Bergoglio, che conosce bene Gregorio Magno, non ha negato la crisi, ma l’ha assunta come condizione permanente da vivere privilegiando l’apertura alla missione verso il futuro e le periferie del mondo. Non c’è un passato da restaurare per evitare il declino: «… questo tipo di fondamentalismo restaurazionista è come l’oppio, perché allontana dal Dio vivo» ha detto. Francesco porta la Chiesa fuori dal declino, accettando la crisi e non chiudendosi nel pessimismo o nella nostalgia. È quanto scrive Jenkins, studioso delle religioni, al termine del suo libro: Il cristianesimo non è mai debole quanto sembra, e neppure forte quanto sembra. E sia che guardiamo alla storia passata o a quella futura, possiamo vedere che ripetutamente il cristianesimo ha dimostrato una sbalorditiva capacità di trasformare la debolezza in forza. 19 Avviene nella storia del cristianesimo quello che l’apostolo Paolo aveva intuito, fin dai primi passi della vita della Chiesa. Per questo aveva scritto ai Corinti: «quando sono debole, è allora che sono forte» (Seconda Lettera ai Corinti 12,10). E nella stessa lettera aveva affermato: «… noi portiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (4,7). È la «forza debole» del cristianesimo (e delle religioni), secondo la felice espressione del vescovo e teologo Pietro Rossano, che tocca il cuore dell’uomo, lo cambia dall’interno, senza imporre niente. 20 In un documentato libro di esegesi biblica sulla «coppia “debole/forte”» nel Corpus Paulinum, il biblista Angelo Colacrai conclude che le beatitudini domandano ai cristiani di ripartire «dal debole, dal disprezzato, da ciò o da chi per il mondo politico, militare o economico imperante non conta, ma che già proprio per questo somiglia di più al Cristo crocifisso». 21 Una Chiesa, vicina ai poveri e nelle periferie, non può essere paralizzata dalla paura della crisi o dal timore di non avere risorse. Sa che questa è la condizione della sua esistenza. Il problema – nota Bergoglio – è che la speranza sia più forte di ogni avversità e debolezza e che superi gli orizzonti limitati entro cui si è abituati a vivere. Profezia o governo? Molti hanno scritto sulle riforme da introdurre, particolarmente nella Curia romana. I cardinali le hanno chieste prima dell’elezione del papa. Ci sono problemi nella Curia e nel governo della Chiesa o nelle diocesi. Esiste la necessità di operare mutamenti nella qualità del servizio della Curia romana. Come papa Francesco ha riconosciuto, non è solo un problema di strutture ma anche di qualità del personale. Il papa ha affermato con grande equilibrio: «Una cosa – questo non l’ho mai detto, ma me ne sono accorto – credo che la Curia sia un poco calata dal livello che aveva un tempo, di quei vecchi curiali … il profilo del vecchio curiale, fedele, che faceva il suo lavoro. Abbiamo bisogno di queste persone. Credo … ci sono, ma non sono tanti come un tempo. Il profilo del vecchio curiale: io direi così. Dobbiamo averne di più, di questi…». 22 Si potrebbe dibattere anche dei problemi dell’esercizio del ministero episcopale, talvolta troppo centrato sull’io del vescovo, che fatica a far esistere un «noi» nella comunione, anche per la difficile condizione del clero in alcune diocesi. Il soggettivismo si rivela evidente quando, con puntuale ripetitività, nella vita diocesana, il successore critica o annulla l’operato del predecessore. È la difficoltà di costruire una comunione. Il cardinal Bergoglio ha detto: «La sufficienza si avverte in ogni falso profeta, nei cattivi leader religiosi che usano la religione a favore del proprio ego». 23 Questo può avvenire nei movimenti o nelle comunità di ogni tipo, quando si guarda con sufficienza gli altri cristiani, mentre ci si attribuisce un ruolo messianico nella Chiesa. È un tipo di messianismo o aristocrazia di gruppi laici, monastici o altro. C’è poi la grande questione del clericalismo, l’irrisolto problema del rapporto tra preti e laici, che si manifesta complesso oggi a fronte di un clero generalmente ridotto. Papa Bergoglio parla di «clericalizzazione, perché sovente i preti clericalizzano i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati». 24 E aggiunge che i laici hanno potenzialità non utilizzate. In realtà il grande popolo di Dio è stato solo marginalmente coinvolto nella missione della Chiesa, anche perché talvolta si privilegiano percorsi ecclesiastici o progetti che non sono alla misura di tutti. Si potrebbe poi parlare della vita delle religiose e dei religiosi che, salvo alcune significative eccezioni, conosce un certo crepuscolo con l’invecchiamento delle comunità. Se, da una parte, è oggi divenuto meno comune prendere un impegno per la vita, dall’altra molto di quel servizio che ieri facevano i religiosi viene ora compiuto dai laici. Tuttavia la scomparsa di una forte presenza dei religiosi cambia fortemente l’ecologia umana e spirituale del cattolicesimo. In alcune regioni e per molto tempo, la suora ha rappresentato il volto femminile della Chiesa. C’è infine la grave questione della marginalizzazione della donna e del femminile nella Chiesa. Da tempo Bergoglio sostiene che «è necessario superare una mentalità maschilista che ignora la novità del cristianesimo…». 25 Non si tratta dell’accesso delle donne ai ministeri ordinati, ma della necessità di una nuova e articolata teologia della donna. 26 Come governare questa realtà così complessa? Papa Francesco non ha tracciato un programma di governo all’inaugurazione del suo pontificato. Ha detto alla Messa dopo il conclave: «Proprio partendo dall’autentico affetto collegiale che unisce il Collegio cardinalizio, esprimo la mia volontà di servire il Vangelo con rinnovato amore, aiutando la Chiesa a diventare sempre più in Cristo e con Cristo, la vite feconda del Signore».27 Sono belle parole d’occasione o è il programma del papa? È possibile governare senza un programma concreto? Il papa non rifiuta la responsabilità del suo ministero anche per le decisioni che personalmente deve prendere. Ma non vuole essere isolato. La comunione è il terreno su cui si svolge il suo ministero. Francesco ha detto nella prima Messa ai cardinali: «Qualcuno mi diceva: i Cardinali sono i preti del Santo Padre. Quella comunità, quell’amicizia, quella vicinanza ci farà bene a tutti. E questa conoscenza e questa mutua apertura ci hanno facilitato la docilità all’azione dello Spirito Santo». 28 Francesco ha dimesso i tratti (affievolitisi nel tempo, ma ancora presenti) che legavano il ministero petrino a una qualche forma di sovranità monarchica. Lo si vede nell’Annuario Pontificio del 2013, dove il papa ha fatto mettere sul retro della pagina a lui dedicata tutti i titoli pontificali (Vicario di Gesù Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia, Arcivescovo Metropolita della Provincia Romana, Sovrano della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio), per lasciare sulla prima pagina un unico titolo (che così risulta esaltato): Vescovo di Roma. Non ha abolito gli altri titoli – come ha fatto Benedetto XVI con quello di patriarca d’Occidente – ma li ha fatti scivolare dietro la pagina. 29 Ha scritto il cardinal Bergoglio: Le grandi guide del popolo di Dio sono stati uomini che hanno lasciato spazio al dubbio. Tornando a Mosè, è la persona più umile che ci sia mai stata sulla terra. Al cospetto di Dio non si può far altro che essere umili, e chi vuole guidare il popolo di Dio deve lasciare spazio al Signore; quindi deve farsi piccolo, raccogliersi in se stesso con i suoi dubbi, con l’intima esperienza delle tenebre, del non sapere come agire. Una cattiva guida è piena di sé, è ostinata. Una caratteristica di un leader empio è l’essere troppo prescrittivo per via dell’eccessiva sicurezza di sé. 30 Il nuovo papa pone al centro la questione del cuore e della fede per chi vuol essere un buon servitore del popolo di Dio: «nella religione, la santità è ineludibile dai suoi leader». 31 La sua scelta prioritaria è parlare al cuore. Questa scelta è la madre di ogni riforma nella Chiesa: la conversione dei cuori e lo spazio lasciato al Signore nella vita personale di ciascuno. Non si può dire che i papi precedenti non ne abbiano parlato; anche Benedetto XVI aveva insistito su questo aspetto. Del resto, nonostante la chiara differenza di stile umano e di tratto pastorale, la continuità tra i pontificati di Ratzinger e di Bergoglio è forte, come si vede dall’insistenza sul tema del primato della fede. Questa continuità è rappresentata anche da un fatto inedito nella storia: papa Francesco ha assunto il testo dell’enciclica Lumen fidei, preparata dal suo predecessore, aggiungendo qualche ulteriore contributo. 32 Questo senso della continuità è anche un tratto distintivo delle «grandi guide del popolo di Dio». Bergoglio ha un senso spiccato del valore delle istituzioni. Negli Esercizi Spirituali, predicati ai vescovi spagnoli nel 2006, ha affermato come «la costanza apostolica … crea l’istituzione»: «… niente può funzionare fra esseri umani senza istituzioni. Il vero governo è quello che legifera, che dà al suo popolo un’eredità di norme … La Chiesa è visibile, questo non è semplicemente nell’aria. Chiesa visibile significa che c’è un’organizzazione percepibile da tutti. Un’istituzione pastorale ha un corpo e un’anima, è una tradizione e un carisma, è una storia e un presente». 33 Si sente, nelle parole del papa, il senso realistico della vita della Chiesa. Del resto Jorge Bergoglio è un uomo che non viene da una realtà esterna al governo della Chiesa, non è un eremita o un intellettuale, bensì è stato, da giovane, provinciale della Compagnia di Gesù (che ha un’importante tradizione di governo), vescovo ausiliare e coadiutore, infine arcivescovo di una grande diocesi. Ha familiarità con il governo nella Chiesa cattolica. Papa Francesco sa però che la Chiesa non è fatta solo dai leader e dalle istituzioni. Bisogna ascoltare quello che il papa dice sul popolo di Dio: «La fede del popolo di Dio, che è una fede semplice, forse senza tanta teologia, ma con una teologia dentro, non sbaglia, c’è lo Spirito dietro … Questo popolo che sempre si avvicina a Gesù, ma a volte è insistente in questo. Ha l’insistenza della fede». 34 Il papa ha una «teologia del popolo» (diversa dalla teologia della liberazione, spesso fondata sull’antagonismo della lotta di classe): per lui il popolo, anche semplice, è portatore di Dio, soggetto di vissuto religioso e umano, dotato di intuito di fede. Il popolo non è solo un contorno al papa o alla gerarchia, ma una parte sostanziale, significativa ed eloquente della Chiesa. Francesco lo ha detto nel santuario dell’Aparecida, cuore popolare del Brasile, ricordando come i lavori dei vescovi latinoamericani si siano svolti accanto alle manifestazioni di pietà popolare: «si può dire che il Documento di Aparecida sia nato proprio da questo intreccio fra i lavori dei Pastori e la fede semplice dei pellegrini». È un intreccio simbolico e vitale per il papa. Non è populismo. Questa è la Chiesa: il popolo di Dio in tutte le sue componenti e attraverso tutti i suoi percorsi religiosi. Il popolo per Francesco non è ristretto ai praticanti e ai cristiani impegnati o militanti, ma abbraccia il mondo della religiosità popolare e tanti credenti che pure non sono facilmente inquadrabili. Non si tratta di retorica sul popolo. Per Bergoglio, «il popolo santo, fedele a Dio, non sbaglia». Per lui il carattere popolare del cristianesimo non è stato cancellato dalla secolarizzazione: «Nel confessionale si percepisce la santità del popolo di Dio…». 35 La risposta alla secolarizzazione non è soltanto realizzare comunità cristiane minoritarie dai contorni certi, ma sostenere la fede del popolo, comunicando il Vangelo. 36 È quanto scriveva un intellettuale uruguaiano, Alberto Methol Ferré, amico del cardinal Bergoglio: «… dopo il Concilio l’idea di popolo ha iniziato a sfocarsi, fino ad assumere i connotati dell’astrazione o della riduzione a “comunità”». Per questo il papa e i vescovi debbono prima di tutto parlare di Dio al popolo, dialogando con i suoi sentimenti e le sue domande profonde. Papa Francesco ha scelto il primato della profezia. Beninteso, non nel senso esibizionista o miracolistico, bensì proprio come servizio alla Parola, comunicata con semplicità e simpatia. E la gente intuisce che lui fa spazio personalmente alla Parola nella sua vita. Bergoglio dice di essere un prete contento di quel che è. Tuttavia non è un ecclesiastico tradizionale e non ha una maniera ecclesiastica di concepire la vita. In realtà un certo stile ecclesiastico ha avuto una ripresa anche come risposta alla crisi del prete negli ultimi decenni (contestazione, indebolimento del riconoscimento sociale, secolarizzazione, riduzione del numero…). L’idea ecclesiastica del prete ha un che di separato dal mondo dei laici, ma ha anche un aspetto molto laico (che dura da secoli), la cosiddetta «carriera ecclesiastica». Per papa Francesco bisogna cambiare: Ma da quel tempo [quello di Gesù] fino adesso le lotte per il potere sono nella Chiesa. E anche nella nostra maniera di parlare, quando a una persona danno una carica che secondo i nostri occhi è una carica superiore si dice: questa donna è stata promossa a presidente di questa associazione, questo uomo è stato promosso. Questo verbo promuovere. Sì, è un verbo bello! Si deve usare nella Chiesa? Sì, quest’uomo è stato promosso alla croce, alla umiliazione. Quella è la vera promozione che ci assomiglia meglio a Gesù. 37 Papa Bergoglio parla criticamente della concezione della vita come «carriera» (che talvolta pone problemi con il pensionamento o con la fatica dell’impatto con la competitività). L’idea del progresso della società ha un suo riverbero nella vita dei singoli e anche dei religiosi. Lo storico delle religioni Mircea Eliade, con grande sensibilità, scrive in proposito: «Siamo nati tutti con una superstizione: che ci attendano posti migliori in alto, mai più in basso». 38 È la superstizione del progresso individuale, all’origine dell’infelicità e dell’aggressività: «Possediamo» continua Eliade «ciascuno un orcio d’olio da lampada, e invece di spartirlo con i poveri che marciscono al buio riempiendo le loro lanterne, lo teniamo stretto al petto, aspettando il fanale che crediamo d’essere destinati ad accendere per illuminare il mondo intero. E, nel frattempo, gli uomini ci muoiono accanto». 39 Il papa richiama a un’altra concezione della felicità. Si rivolge in particolare al mondo della Chiesa, dove c’è ancora una mentalità da carriera. Papa Bergoglio dice: «Un’altra maniera di promozione [che] non è quella di Gesù, è mondana. Sempre ci sono state nelle Chiese le cordate per arrivare più in alto, il carrierismo, gli arrampicatori, sempre ci sono stati, il nepotismo, anche la simonia, non quella di pagare per diventare qualcosa, ma una simonia nascosta, una simonia educata». 40 Per lui c’è una regola d’oro nella Chiesa: «per un cristiano progredire, andare avanti significa abbassarsi». 41 Ma, per comprendere e vivere tutto questo, non basta una riforma istituzionale, occorre aprire il cuore al Vangelo. Per questo Bergoglio parla di Dio e del Vangelo incessantemente. È la «profezia» in senso evangelico. Il papa ha posto il problema del potere nella Chiesa in termini evangelici. «Potere» può sembrare una parola poco edificante. Ma è una realtà con cui fare i conti. La risposta alla ricerca o al gusto del potere non è l’irrilevanza, il negarsi all’amore, al servizio, all’impegno per cambiare. Anzi questo è un atteggiamento speculare e contrario alla mentalità di potere, quello dell’impotenza o dell’irrilevanza compiaciuta e indifferente. Del resto anche nel Vangelo si parla di potere. È «il potere di scacciare gli spiriti immondi e guarire ogni sorta di malattie» (Matteo 10,1). In greco exousía e in latino potestas. Papa Francesco ha affermato: «la lotta per il potere nella Chiesa non deve esistere. O, se vogliamo, che sia lotta per il vero potere, quello che lui ci ha insegnato, il potere di servizio. Il vero potere è il servizio, come ha fatto lui che è venuto non a farsi servire ma a servire». 42 Sì, la Chiesa ha un potere: servire gli uomini e le donne, cambiare con amore la loro condizione, rimettere i peccati, comunicare una Parola che non viene da lei, guarire… Il «vero potere» dice il cardinale è «battezzare, insegnare la dottrina, aiutare a viverla, benedire, curare, perdonare…». 43 La Chiesa, come si accennava prima, è in una condizione agonica, di lotta. Vive in una terra dove c’è anche il potere del male. Bergoglio ha una visione impegnata del servizio della Chiesa, non buonista o superficiale. In una pagina degli Esercizi, da lui predicati, usa un tono militare dal sapore ignaziano, in cui indica i segnali dell’infedeltà alla missione: … bisticciare con gli amici, anziché affrontare il nemico; discutere su chi è il più forte del battaglione invece di obbedire agli ordini del capo dell’esercito e servire i propri compagni; seminare zizzania con chiacchiere inutili invece di mettersi al lavoro con umiltà; adottare lo stesso stile del nemico anche in tempi di tregua; essere un ciarlatano ma millantare una grande causa; approfittare della guerra per dedicarsi ai propri affari … Il Signore ci invita ad essere fedeli fino alla morte nelle cose grandi come in quelle piccole. 44 Partecipare al potere che il Signore dà ai discepoli, qualunque sia la propria funzione, richiede uno spirito di servizio. È certo che, nei secoli, i modelli di partecipazione sono stati differenti. Non si può sempre giudicare il passato con la mentalità di oggi. Né basta fare cambiamenti per liberarsi della mentalità di potere. Con una retrospettiva storica il cardinal Bergoglio ha affermato: La perdita dello Stato Pontificio fu un evento positivo, per la Chiesa, perché così è chiaro che il papa governa solo su mezzo chilometro quadrato. Invece, quando il papato aveva la sovranità spirituale e temporale si moltiplicavano gli intrighi di corte. Ora i due piani non si mescolano più? Sì, succede anche oggi, perché purtroppo tra gli uomini di Chiesa esistono l’ambizione e l’arrivismo. Siamo esseri umani e possiamo essere indotti in tentazione, dobbiamo fare molta attenzione per proteggere l’unzione che abbiamo ricevuto, perché è un regalo di Dio. I gruppi di potere, che sono esistiti e continuano a esistere nella Chiesa, sono dovuti alla nostra condizione umana. Chi entra a farne parte cessa di essere eletto per il servizio e diventa qualcuno che decide di vivere come gli piace, mescolandosi con la bassezza interiore. 45 Il papa non crede che una riforma delle strutture possa magicamente instaurare una mentalità di servizio. Sa che gli uomini sono fragili e che sempre esisterà la tentazione di ridurre il ministero a una logica mondana. C’è nel papa l’idea del «progresso», non nel senso dell’avanzamento individuale, ma dell’abbassamento nell’imitazione di Gesù, come si è accennato. Il progresso è anche una migliore comprensione del messaggio di Dio. I cristiani e la Chiesa crescono nel tempo, debbono crescere realizzando un «progresso». La Dei Verbum, la Costituzione conciliare sulla Rivelazione, parla di questa «crescita» in modo tutto particolare quando afferma: Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con l’intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro che con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. 46 Uno studioso di Gregorio Magno, il monaco Benedetto Calati, che abbiamo già avuto modo di citare, sottolineava la novità di questa affermazione, che faceva eco alla teologia dei Padri e rompeva le «angustie giuridiche della spiritualità ecclesiale tardiva». Bisogna risalire – diceva – ai grandi Padri «per trovare questa coraggiosa affermazione sulla esperienza spirituale dei vari membri del popolo di Dio, quale coefficiente della traditio ecclesiae, alla pari del carisma della successione apostolica nell’episcopato, il che non significa ignoranza della specificità del carisma gerarchico». 47 La Parola cresce: è la grande tradizione, che viene dagli Atti degli Apostoli dove la Parola è protagonista, anzi dove si nota che «la parola cresceva e si diffondeva» (12,24). È il grande insegnamento di Gregorio Magno, per cui la Parola «è come se crescesse insieme con il suo lettore…», come dice il santo commentando il Libro di Giobbe. Il Concilio echeggia questo, quando afferma che la Chiesa «nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina…». E se la Parola cresce nella Chiesa e con chi la legge, anche la Chiesa progredisce in spirito e umanità. Questo è il «progresso» della Chiesa e di tutto il popolo che la forma, che avviene nell’ascolto della Parola di Dio. In tale quadro si sviluppa il servizio del papa: predicare il Vangelo, come profezia di una vita nuova. Non c’è in Francesco la cultura del progetto (a cui si collega in parte anche l’idea dei cosiddetti piani pastorali, che maturò nel cattolicesimo prima e dopo la seconda guerra mondiale, quasi come risposta alle ideologie totalizzanti). Bergoglio ricorda quando il re Davide volle fare il censimento del suo popolo, per controllarne le dimensioni: il popolo si ammalò di lebbra. È «l’ansia di dominare ciò che ci circonda» 48 (che con il tempo può diventare svuotamento del mistero). Per la Pentecoste del 2013, il papa ha osservato: «Si può pensare che l’evangelizzazione dobbiamo programmarla a tavolino, pensando alle strategie, facendo dei piani. Ma questi sono strumenti, piccoli strumenti. L’importante è Gesù, farsi guidare da Gesù. Poi possiamo fare le strategie, ma questo è secondario». 49 Bisogna crescere nella fede e nell’ascolto della Parola di Dio; tutto il resto si metterà in movimento in modo sorprendente. Non si tratta di trascurare il governo, le decisioni e i cambiamenti, che sono una grave responsabilità, ma di affermare il primato della fede. Così la Parola cresce nel corpo della Chiesa anche con l’«intelligenza spirituale» del popolo cristiano. Il cristianesimo non è mai compiuto nell’una o nell’altra forma. Un grande spirituale russo, padre Alexander Men, ucciso dal KGB nel 1990, aveva scritto con grande profondità: Solo uomini limitati possono immaginare che il cristianesimo è compiuto completamente come si è costituito nel IV secolo secondo gli uni e nel XIII secolo secondo altri o in altri momenti. In realtà, il cristianesimo non ha fatto che i suoi primi passi, passi timidi nella storia del genere umano. Molte parole di Cristo sono ancora per noi poco comprensibili … La storia del cristianesimo non fa che cominciare. Tutto quello che è stato fatto nel passato, quello che ora chiamiamo storia del cristianesimo, non è che l’insieme di tentativi ... di realizzarlo. 50 Per la salvezza e la felicità Bergoglio conosce l’infelicità degli uomini e delle donne del nostro tempo: «È una generazione autoreferenziale, che vive secondo il proprio capriccio, secondo il proprio banale “mi piace” o “non mi piace”». Anche le persone «realizzate» sono, per lui, condannate all’infelicità. Le difficoltà e le infelicità sono motivo per far crescere una mentalità vittimistica, tanto diffusa ai nostri tempi e accresciuta dalla crisi economica. È una generazione che si lamenta: «Il male» scrive il cardinale «si compie quando un uomo o una donna non vedono che i loro impedimenti e non pregano, ma si lamentano. In questo modo l’uomo … si trasforma in vittima. Si canonizza da sé…». 51 In un tempo fortemente emozionale, la categoria delle «vittime» (riferita in passato ai grandi fatti storici di spessore drammatico) ha avuto un’incredibile estensione, tanto che la vittima in qualche modo diventa un soggetto di rilievo nella società contemporanea. 52 Da qui la diffusione di un atteggiamento vittimistico che impone la concentrazione dell’attenzione prioritariamente su di sé. L’eroismo, che si incarnava in una società dai tratti patriarcali o maschilisti, ha lasciato spazio al vittimismo tipico delle società più destrutturate. Il sociologo inglese Frank Furedi, al termine del suo bel libro sul «nuovo conformismo», osserva come la nostra società occidentale sia imbevuta di una cultura terapeutica (abbia cioè l’abitudine a trattare i problemi come una malattia più che risolverli): questo diffonde «un senso di vulnerabilità, impotenza, e dipendenza». 53 Cos’è la felicità in questa società? Mircea Eliade risponde: «La felicità è una questione che non bisogna mai porsi per sé. Essa ha un senso e un contenuto effettivo solo se la si considera per gli altri … Ogni volta che si riporta questa nozione alla propria persona essa perde completamente di senso … All’uomo che è consapevole di non poter mai raggiungere la felicità con i suoi propri mezzi, con la sua ascesa spirituale, resta un’unica cosa da fare … realizzare la felicità di un altro, degli altri». 54 Ma sono attuali queste posizioni in un tempo di morte del prossimo e di trionfo dell’io? C’è molta sensibilità psicologica nel discorso di Bergoglio all’uomo e alla donna contemporanei. Non parla del fatto che non rispettino i principi (la Chiesa dev’essere «più facilitatrice della fede che controllore della fede»). 55 Ma mostra di comprendere la loro infelicità, i loro dolori reali. Il papa affronta il tema della tristezza e del pessimismo, proponendo l’incontro con Gesù, nella Domenica delle Palme 2013: «Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi mai prendere dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi…». E conclude: «E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! ... Quella che ci dà Gesù». 56 Il problema dell’uomo contemporaneo non è lamentarsi, affermando così la propria centralità, ma riconoscersi peccatore. C’è un’inversione profonda nella concezione dell’uomo vittimista che si sente in credito verso la società: il peccatore è colui che è in debito e domanda la remissione dei propri debiti. L’uomo è sempre debitore. Il peccatore può cambiare: «Si possono commettere errori enormi, ma si può anche riconoscerlo, cambiare vita…». La trasgressione – continua Bergoglio – ci rende umili, perché consapevoli del bisogno di Dio. Bergoglio fa l’elogio della figura biblica di Davide, un grande peccatore, «perché ebbe il coraggio di dire “ho peccato”. Si umiliò davanti a Dio». Chi si riconosce peccatore, nonostante sembri il contrario, è un uomo che ha speranza. Non tutto può essere letto e spiegato con le categorie della psicologia o della psicanalisi. Scrive padre Turoldo: «Ormai siamo uomini senza rimorso e senza peccati». L’ex arcivescovo di Canterbury, George Carey, ha affermato che la terapia psicologica o psicanalistica sta prendendo il posto del cristianesimo: al Cristo salvatore si sostituisce il Cristo consigliere psicologico. Bergoglio conosce bene e apprezza il mondo della psicologia. La terapia non è però la salvezza. Nella coscienza del peccato si nascondono in profondità una domanda di salvezza e un radicale bisogno di Dio. L’arcivescovo di Buenos Aires afferma: «Per me il sentirsi peccatori è una delle cose più belle che possano capitare a una persona a patto di portarla alle estreme conseguenze». Infatti, ricorda, «quando prendiamo coscienza che siamo peccatori e siamo salvati da Gesù, confessando questa verità a noi stessi scopriamo la perla nascosta, il tesoro sepolto». Questa è la grandezza dell’uomo secondo Bergoglio: «Penso che solo noi grandi peccatori abbiamo questa grazia … l’unica gloria che possediamo è essere peccatori». 57 Non si tratta di un’iperbole. La coscienza di essere giusti, di aver ragione, di essere vittime della vita, non è solo autoassoluzione, ma ci indurisce nei confronti degli altri e sopprime in noi il bisogno di Dio. Non si tratta di sviscerare la vita delle differenti persone, mettendole a nudo. Jorge Bergoglio è sensibile alla riservatezza della coscienza di ciascuno. Dietrich Bonhoeffer ricorda come Dio stesso fece delle vesti per i primi peccatori. E aggiunge: «mettere a nudo è un’operazione cinica; e anche se il cinico si atteggia a onesto o si presenta come fanatico della verità, egli trascura tuttavia la verità decisiva, quella cioè che dal peccato originale in poi devono esistere anche velo e segreto…». E conclude: «il velo dev’essere tolto solo nella confessione, cioè dinanzi a Dio». 58 La coscienza del peccato è la ferita del proprio essere. Per questo il peccatore vive una domanda e un bisogno. Non è chiuso nel proprio ego, nell’arroganza verso gli altri o nell’autosufficienza verso Dio. Bergoglio aiuta a liberarsi da un cristianesimo ideologico, fatto di buona coscienza, autoassolutorio, per percorrere una via interiore – da peccatori – che rappresenta il vero «progresso» nella vita: … per me il peccato non è una macchia che devo pulire: ciò che devo fare è chiedere perdono e riconciliarmi, non andare alla tintoria … Devo andare incontro a Gesù che ha dato la sua vita per me. È una concezione del peccato profondamente diversa perché, per dirla in altre parole, il peccato ammesso onestamente è un luogo privilegiato di incontro personale con Gesù Cristo Salvatore e permette la riscoperta del senso profondo che Lui ha per me. In breve, rappresenta la possibilità di vivere lo stupore di essere salvato. 59 La sfida di un cristianesimo spirituale Il cristianesimo sarà la religione del XXI secolo, così globalizzato? I tempi dell’ateismo e del materialismo dialettico del marxismo sono tramontati. Se restano consistenti settori di ateismo, più vasta è la domanda di risposte religiose però fuori dai quadri istituzionali delle religioni storiche e del cristianesimo stesso. Ormai i «prodotti religiosi» offerti dal grande mercato delle religioni sono innumerevoli. Le parole come «spiritualità», «silenzio», «meditazione»… non sono lontane dall’esperienza quotidiana, come potevano esserlo negli anni Settanta, quando venivano tacciate di evasione dalla realtà. La secolarizzazione è avanzata – come mostrano tanti studi – ma la religione e la religiosità non sono scomparse. Marco Vannini, studioso di spiritualità, in un suo interessante libro, Oltre il cristianesimo, sostiene la tesi che il cristianesimo non regga più all’analisi scientifica, ma soprattutto si sia impoverito di contenuti interiori e abbia divorziato dalla mistica, sola capace di superare il «dualismo» cristiano tra l’io e Dio. Per questo ritiene che il cristianesimo sia in una condizione di decadenza simile all’antico paganesimo, mentre i suoi pastori si «baloccano» con i «miti biblici». 60 Cita Henri Le Saux, mistico cristiano che intraprese le vie dell’induismo: «Soltanto maschere questi cristiani, questi hindu, questi musulmani … L’uomo non sopporta di essere nudo di fronte all’altro … Maschere che si attaccano così fortemente alla pelle che non si possono più staccare». Per Vannini bisogna costruire un cristianesimo postreligioso come «superamento di tutto il cristianesimo di venti secoli». 61 Un tempo postcristiano non sarebbe un’età senza religione, ma il superamento della «sclerosi» delle istituzioni, delle contraddizioni tra vita e spirito… È un’idea ricorrente lungo la storia del cristianesimo, che ha conosciuto una nuova fioritura con esperienze di spiritualità che guardano altrove rispetto alle radici ebraiche e cristiane. L’Oriente asiatico ha giocato un ruolo decisivo, come patria di tanti viaggi alla ricerca delle fonti genuine dello spirito. È una storia che sale dall’Ottocento e diviene nel XX secolo un entusiasmo di massa verso l’Oriente asiatico, simile a quello per l’antichità greco-latina vissuto nel Rinascimento. L’Oriente rappresenta la tradizione perduta – avrebbe detto René Guénon – da ritrovare in fonti non ancora inquinate. Pascal Bruckner ha parlato di una folla di europei «in cerca di credo sostitutivi, sospinta sulle strade da uno spirito violentemente negatore dell’Europa e delle sue religioni», smarrendo ogni senso critico di fronte a un maestro orientale e immergendosi in uno spirito di sottomissione. 62 Inoltre missioni e missionari asiatici, buddisti o induisti diffondono in Occidente miriadi di percorsi per partecipare, da occidentali, ai mondi spirituali dell’Oriente. Due grandi personalità, Thomas Lawrence (nel mondo arabo-islamico) e Mircea Eliade (in India), hanno notato come esista una frontiera non facilmente superabile nelle esperienze di passaggio ai mondi delle grandi religioni. Eliade osserva rispetto alla sua vita giovanile in India: «Ciò che avevo tentato nel mio desiderio di strapparmi alle mie radici occidentali per meglio fondermi in un esotico universo spirituale, equivaleva in fondo a rinunciare prima del tempo alla mia creatività». 63 Drammaticamente Lawrence, nei Sette pilastri della saggezza, nota come «lo sforzo di anni per vivere come gli arabi ed imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese e mi mostrò l’Occidente e le sue convinzioni sotto un aspetto nuovo – che lo distrusse completamente ai miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente … È facile per un uomo diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova». 64 Un teologo cristiano che ha avvertito fortemente l’attrazione dell’India è stato Olivier Clément. Egli ha sostenuto però l’originalità irriducibile del cristianesimo nei confronti dei tentativi di svuotamento «orientali», quasi dell’assorbimento di Dio e dell’altro nell’io. L’universo diversificato dell’Oriente, anche nelle sue versioni di consumo per gli occidentali, rappresenta un’alternativa a una religione troppo razionale, sociale, svuotata di mistica, troppo istituzionale. Il cardinal Bergoglio afferma: «si ricerca Dio in mille modi, cosa che esige attenzione per evitare di ricadere in un’esperienza consumistica o, tutt’al più, in una “trascendenza immanente” che non riesce a diventare una vera religiosità». 65 La spiritualità orientale rappresenta un’alternativa al cristianesimo. Oggi la Chiesa è sfidata dal mercato dei prodotti religiosi e da una spiritualità postcristiana, mentre, qualche decennio fa, subiva la sfida dell’ateismo di massa. Di fronte a questa realtà la reazione non può essere solo svalutare quell’insieme di proposte alternative (su cui ovviamente c’è molto da dire e riflettere). La sfida è un interrogativo. Forse, per i cristiani, c’è il problema di avere cuori troppo svuotati, che trasmettono poco il senso della ricerca di Dio e sono così poco attrattivi. E poco sanno comunicare la gioia della fede. Un vissuto cristiano interiore ha una capacità attrattiva e comunicativa. Il cristianesimo che Bergoglio propone (nel solco di una grande tradizione) non è svuotato della dimensione interiore o solo preoccupato di alcuni valori o di talune opere da realizzare: «La cosa fondamentale da dire a qualsiasi uomo è di entrare dentro di sé … È questo il nocciolo della questione: contenersi». L’espansione dell’ego in una vita autocentrata smorza la dimensione interiore. Il futuro papa ha una percezione viva del problema di tanta gente adulta nel nostro tempo: quello dell’espansione dell’ego, con l’autocondanna al vuoto interiore e alla ricerca di egemonia sugli altri. L’invito del cardinale è questo: «All’uomo dico di non conoscere Dio per sentito dire. Il Dio vivo è quello che vedrà con i propri occhi all’interno del proprio cuore». Non si tratta di vie particolari per un’aristocrazia spirituale. Troppo è stata diffusa la convinzione che la spiritualità sia per specialisti. La spiritualità elevata si connette, per tanti versi, alla pietà del semplice popolo di Dio. Bergoglio parla di una fede vissuta dai semplici. Cita spesso il caso di sua nonna, che gli ha insegnato molto con semplicità e profondità. La chiamata a un cristianesimo spirituale è per tutti i cristiani, non solo per gli specialisti. Il futuro papa Francesco ricorda: «L’esperienza spirituale dell’incontro con Dio non è controllabile». In accordo con i mistici e la teologia orientale, papa Bergoglio insiste su una «dimensione apofatica», che parla di Dio dicendo più quello che non è, piuttosto che affermando con sicurezza quel che è: «concordo» dice «nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire esattamente com’era». 66 E osserva: «A volte si crede di avere in mano la verità, ma non è così». Bisogna tornare a un cristianesimo evangelico: è la vera risposta alla confusa sete di spiritualità dell’Occidente. Non bisogna sradicarsi per dislocarsi in mondi altri. Ma riprendere il filo delle proprie radici cristiane e andare spiritualmente più in profondità. In questa via c’è la scoperta interiore di Dio, in connessione intima con quella dell’altro. Dio non può essere ridotto all’ego. Bergoglio, uomo di preghiera, spiega come pregare sia invece uscire da sé, compiere un esodo dal mondo dell’ego, anche se si prega per sé: «Intraprendere il cammino della preghiera significa saper uscire da se stessi. Non vuol dire fuggire, né alienarsi, ma mettersi a disposizione del Padre che ci conduce verso la terra promessa. A volte tutto ciò equivale a un esilio». La preghiera è esilio da un cuore calcificato, frutto di una vita chiusa in se stessi: «la preghiera è parola e ascolto». 67 Nell’orazione questo silenzio riverente convive con una sorta di contrattazione, come quando Abramo si mette a negoziare con Dio per i castighi di Sodoma e Gomorra. Anche Mosè mercanteggia, avanza richieste per il suo popolo, vuole convincere il Signore a non punirlo. È questo un atteggiamento di coraggio che, unito all’umiltà e all’adorazione, risulta imprescindibile nella preghiera. 68 La preghiera del cristiano – lo si vede fin dalle pagine del Vangelo e si pensi alle richieste di guarigione – è segnata dalla vita e dai suoi dolori. La preghiera non è avulsa dagli echi della propria e dell’altrui esistenza umana, non è priva di domande e di bisogni. D’altra parte chi si mette al servizio dei poveri e si avvicina alla carne sofferente, si prepara alla preghiera. Anzi il cardinale afferma: «L’azione giusta che si concretizza nell’aiuto al prossimo è preghiera». 69 Il cristianesimo evangelico di Bergoglio ha una dimensione spirituale profonda e semplice, ma anche una dimensione di amicizia con gli uomini, specie con i più poveri. Non si tratta di una via per avanguardie impegnate o aristocrazie dello spirito, i «cristiani inamidati» – li chiama. È una proposta per il popolo: «lì dove questa Parola è stata accolta da un popolo, incorporata nella sua cultura,» dice nel 2005 «questa sintesi è quello che chiamiamo religiosità popolare». Il cardinale cita spesso la fede che si manifesta attorno al santuario argentino della Madonna di Luján, dove si vede bene come non si sia esaurita la domanda di Dio: «Può darsi che ci sia meno gente nelle chiese, ma l’inquietudine religiosa non si è spenta; è ancora forte, a tratti un po’ disorientata, non più inserita nelle strutture istituzionali. A mio parere la sfida più grande per i leader religiosi odierni è capire come guidare quella forza». 70 Anzi il futuro papa sostiene che bisogna parlare alla gente anche attraverso le chiavi della «cultura materna», cioè con quell’alfabeto che accompagna un popolo. Bergoglio, diffidente nei confronti del miracolismo, del profetismo e del culto del prodigioso che, paradossalmente, si diffondono in questo tempo secolare, racconta una vicenda molto umana di qualche anno fa. Un padre, un operaio dell’elettricità, riceve la notizia che sua figlia di sette anni è in fin di vita e non si può fare niente. Così corre la sera al santuario di Luján: «Ha cominciato a pregare la Madonna, con le mani sulla cancellata di ferro, e pregava e piangeva e chiedeva. È stato lì tutta la notte e lottava con Dio per avere la guarigione della sua fanciulla». Poi, la mattina, torna all’ospedale e trova sua moglie che piange di commozione: la figlia è inspiegabilmente guarita. Commenta papa Francesco: Questo succede ancora, i miracoli ci sono! Ma la preghiera, una preghiera coraggiosa che lotta per arrivare a quel miracolo … Non quelle preghiere di cortesia, io pregherò per te … no, una preghiera coraggiosa che lotta, come quella di Abramo che lotta per salvare la città, come quella di Mosè che stava con le mani in alto e si stancava, pregando il Signore, come quella di tanta gente che ha fede e con la fede prega. La preghiera fa miracoli e noi dobbiamo credere questo. 71 Il papa è convinto che la preghiera non sia una terapia per la tranquillità, ma una lotta nella compassione e nella fede. La preghiera può cambiare il mondo, perché sposta le montagne, come afferma Gesù nel Vangelo. Anche un incredulo (che chiede a Gesù di aiutarlo a superare l’incredulità che è dentro di sé) può pregare con forza: «Una preghiera umile e forte fa sì che Gesù possa compiere il miracolo. La preghiera per chiedere un miracolo, per chiedere un’azione straordinaria, deve essere una preghiera che ci coinvolga tutti … Bisogna nella preghiera mettere la carne al fuoco». 72 La preghiera è anche un atto di responsabilità da parte dei cristiani. Il cardinal Bergoglio osserva come, a volte, i cristiani si possano sentire stanchi e sconfitti. Si scivola così nel pessimismo e nelle scelte riduttive, autoreferenziali, difensive, pensando di dover lavorare solo alla sopravvivenza. Ricorda come Abramo invece non si rassegni di fronte al destino di Sodoma: «in Abramo prevalse il senso di responsabilità … Non è tranquillo con una sola richiesta, sente di dover intercedere per salvare la situazione, percepisce di dover lottare con Dio, di iniziare un lungo e difficile braccio di ferro». Questo è pregare con parresìa: «non essere tranquilli dopo aver chiesto una sola volta. L’intercessione cristiana comporta tutta la nostra insistenza fino al limite». 73 Così la preghiera cristiana manifesta senso di responsabilità per luoghi del mondo magari lontani, dove si soffre, raggiunti dal nostro sguardo: è il «dominio» cristiano della sovranità dell’amore. «Abramo non era abitante di Sodoma, ma» dice Bergoglio «sentiva quel popolo peccatore come figlio suo … decide di scommettere in suo favore. La sua decisione mostra coraggio, anche col rischio di irritare il Signore». Così prega un semplice cristiano, senza particolari risorse, che si sente coinvolto in una difficile situazione lontana: «La intercessione non è per persone deboli. Non preghiamo … per godere di una armonia interiore puramente estetica. Quando preghiamo stiamo lottando per il nostro popolo». 74 La preghiera così affatica e dà pace allo stesso tempo: «Fatica e pace vanno insieme nel cuore di chi prega» 75 conclude il cardinale. La rivolta dello spirito Nonostante il generale consenso verso il papa, qualche dubbio si affaccia sulla concretezza del suo programma: non si riduce tutto ad affermazioni belle ma semplici? Le domande si intrecciano. Francesco farà una grande riforma? Il suo pontificato sarà destinato a deludere le attese? Certo il papa, con il passare dei mesi, va prendendo alcune decisioni importanti sulla struttura della Chiesa. Ma per capire questo pontefice, vanno prima di tutto ascoltati i suoi discorsi. La sua scelta per la parola non è quella per una cattedra distaccata; bensì per una verità comunicata con amore, anzi con gesti di tenerezza. Lo ha ripetuto: vuole essere prima di tutto pastore, il vescovo di Roma. E il suo primo ministero è la parola, non un flatus vocis. Così, ad esempio, ha parlato nella basilica di San Paolo all’inizio del suo ministero: Questo ha una conseguenza nella nostra vita: spogliarci dei tanti idoli piccoli o grandi che abbiamo e nei quali ci rifugiamo, nei quali cerchiamo e molte volte riponiamo la nostra sicurezza. Sono idoli che spesso teniamo ben nascosti; possono essere l’ambizione, il carrierismo, il gusto del successo, il mettere al centro se stessi, la tendenza a prevalere sugli altri, la pretesa di essere gli unici padroni della nostra vita, qualche peccato a cui siamo legati, e molti altri. Questa sera vorrei che una domanda risuonasse nel cuore di ciascuno di noi e che vi rispondessimo con sincerità: ho pensato io a quale idolo nascosto ho nella mia vita, che mi impedisce di adorare il Signore? 76 La sua parola identifica gli «idoli» del mondo contemporaneo e della stessa Chiesa con un taglio profetico. Vuole guidare a un incontro con Dio e a un cammino di progresso spirituale e umano. Il papa parla alla coscienza di un vasto popolo che, dall’inizio del pontificato, sorprendentemente viene ad ascoltarlo in massa. Più il papa parla in questo modo, più la gente si avvicina. Evidentemente c’è bisogno di parole come le sue. L’attenzione del popolo sembra quasi confermare la scelta del papa per una parola comunicata con simpatia. Il papa non ha – come si è detto – la cultura del progetto o la mentalità del piano. Questo non vuol dire che sia disorganico o spontaneista. Il papa comunica il Vangelo. A chi lo ascolta, spetta in tutta libertà la responsabilità di recepirne la parola. Niente si impone in lui o appare precettistico. Anche all’interno della Chiesa, il suo è un modello di «pastoralità» che può essere recepito o rifiutato dai vescovi e da tutti gli altri responsabili. Ci si chiede oggi, però, se la Chiesa, oltre agli appelli, non debba condurre una politica «concreta». Insomma, la Chiesa in un mondo liquido non rischia l’astrattezza e l’irrilevanza? La grande sfida di Francesco è però parlare al cuore degli uomini e delle donne, perché la Parola di Dio tocchi e cambi la loro vita. Solo uomini e donne rinnovati nel cuore potranno inaugurare una stagione diversa della storia (piccola o grande che sia). Il papa è tutt’altro che rassegnato di fronte ai dolori dei popoli e dei poveri, tutt’altro che silenzioso di fronte agli idoli, al dramma di uomini disperati, alla crisi della famiglia, a paesi interi che perdono di peso e di senso: questo mondo ha troppi aspetti di ingiustizia e di iniquità, che sono, secondo lui, espressioni del potere attrattivo e dominante del male. Il mondo vive anche in una condizione tragica. Questa analisi è chiara nei suoi discorsi e nei suoi scritti. Francesco non è il papa semplice di un mondo liquido, in cui è possibile fare poco e bisogna limitarsi allo spirituale. Il suo parlare non è elusivo o evasivo rispetto alla concretezza della storia. E questo si vedrà sempre più. Egli vuole cambiare il mondo, specialmente perché c’è troppa gente che sta male e il male è troppo forte. La sua forza è quella debole della predicazione cristiana. Non è la proposta di un’ideologia cristiana. Non è nemmeno – sarebbe impossibile – la proposta di una egemonia cristiana che imponga una fede. Nella storia dell’Occidente c’è stata una frattura tra cristianesimo e umanesimo. La sensibilità di Bergoglio è vicina a quella di Henri de Lubac, che identificava come dramma degli ultimi secoli l’«umanesimo ateo». 77 Anche se i padri del mondo moderno (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud…), secondo la felice espressione di Clément, vanno impallidendo, bisogna dire che «la loro tematica ci impregna e impregna lo spirito del tempo». Nel lontano Natale 1943, nel pieno della guerra mondiale, de Lubac scriveva che l’uomo aveva ormai mostrato che il mondo si poteva organizzare senza Dio. Da allora, più di mezzo secolo di storia ha confermato abbondantemente questa interpretazione. Così il mondo e la vita si organizzano senza Dio. De Lubac notava: «È vero però che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo [il mondo] contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». 78 Il cardinal Bergoglio condivide questa analisi. Bisogna allora parlare di Dio agli uomini, perché dal loro vissuto e dal loro pensiero rinasca o si rafforzi un umanesimo «umano», non esclusivista, non chiuso all’esperienza religiosa. Nell’introduzione a un significativo libro, intitolato La Révolte de l’Esprit, Clément scriveva (siamo nel 1979): «In un momento in cui le tecniche, sociologiche e psicologiche, vorrebbero spiegare tutto attraverso questo mondo, e guarire tutto all’interno di questo mondo (salvo la morte), lo Spirito ci ricorda violentemente che nessuno è di questo mondo, ma che, nella comunione delle persone – di cui la Trinità è l’esempio, la sorgente e il luogo –, il mondo può infine respirare». 79 Questa è la sfida di un umanesimo cristiano che rinasca dal vissuto. Il mondo cambia quando gli uomini e le donne rinascono allo Spirito, anche nel silenzio o nel nascondimento. L’insieme di tante esistenze così vissute rappresenta per Clément la «rivolta dello Spirito» che «penetrando nella storia, la apre a un’insolita benedizione». Questa non è una strategia o un piano d’azione, ma un umile cammino di uomini di fede che possono però spostare continenti, anche se sembra loro di scavare solo qualche buco nel terreno o di aprire solo qualche spazio nelle coscienze. Un grande poeta musulmano dell’India novecentesca, molto amato in Pakistan, Muhammad Iqbal, scrive in una poesia del 1936 intitolata Il destino: No, ben altro è il senso della rassegnazione all’Eterno! Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! Non è così stretto lo spazio! O Uomo di Dio! Non è stretto il Regno dei cieli! 80 In un mondo difficile non è stretto lo spazio per i credenti, purché essi abbiano l’umiltà di abitarlo pazientemente e non siano alla ricerca di inutili ed effimere scorciatoie. Papa Francesco guarda con simpatia questo mondo e i suoi abitanti, ma ricorda incessantemente che non tutto si risolve e si racchiude in quello che si vede e si tocca; che non tutto gira attorno all’ego, fattosi così forte e così gonfio, seppur dolente. In un tempo illuminato dai riflettori dell’informazione, non si percepisce la dimensione spirituale oltre la realtà, che però è parte integrante della realtà stessa. Ci sono correnti profonde nella storia, quelle dello spirito e dell’amore che, alla fine, scuotono la realtà. Papa Francesco ha detto: «la nostra fede è talmente rivoluzionaria che questo la rende perpetuamente suscettibile d’essere messa alla prova dal nemico». In Brasile il papa ha parlato in modo esigente ai giovani: «vi chiedo di essere rivoluzionari, vi chiedo di andare contro corrente; sì, in questo vi chiedo di ribellarvi a questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non siate in grado di assumervi responsabilità, crede che voi non siate capaci di amare veramente». 81 Colpisce l’uso non retorico di «rivoluzione» o «rivoluzionari», ormai quasi scomparso dal vocabolario politico. L’invito del papa è vivere il cristianesimo come una rivoluzione ed essere protagonisti del cambiamento. Così si è espresso parlando ai giovani di tutte le nazioni, raccolti a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù: Seguo le notizie del mondo e vedo che tanti giovani in tante parti del mondo sono usciti per le strade per esprimere il desiderio di una civiltà più giusta e fraterna … Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! … Attraverso di voi entra il futuro nel mondo … Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. 82 Clément sottolinea il carattere rivoluzionario della fede cristiana. Ma osserva che «se il cristiano non è rivoluzionario nel senso della rivoluzione mitica, sa che il cristianesimo racchiude una potenza rivoluzionaria, quella del Cristo vincitore della morte, la potenza che può trasformare la struttura della persona». 83 Questo cambia in profondità. Perché «se questa trasformazione si opera simultaneamente in molti, in comunione, anche il mondo comincia a cambiare e viene fondata una civiltà». La fede e la vita di molti creano una nuova realtà. Jorge Bergoglio vuole essere un cristiano prima di tutto e invita gli altri a esserlo con lui. All’uomo e alla donna di oggi, chiede di riconoscersi peccatori. A loro, con l’amato Gregorio Magno, dice: «Riconosci il tuo Medico!». Lo dice alla società. Dio è il vero medico della condizione umana. Bergoglio indica una via alternativa all’egocentrismo. Mostra la via della felicità del dare agli altri, di chi apre il cuore a Dio. Questa è la vera grandezza di tanti anche piccoli, degli uomini e delle donne, dell’umanità. Con Giovanni Crisostomo, Bergoglio afferma: «se non fai il bene degli altri, non farai niente di grande». La grandezza è far il bene agli altri. La conversione a Dio ingenera una rivolta dello Spirito, un percorso di umanesimo che, anche se nascosto, ha un significativo valore per l’umanità proprio per l’amore che semina. È un percorso che richiede tanta pazienza e molta speranza. Va incontro a tempi bui e a giorni luminosi. Ma è davvero creatore di umanità nuova, perché consapevole che non tutto si riduce alla tragedia dell’uno o alla commedia dell’altro. La gente riprende a camminare con Dio. Trova una grande visione che non si esaurisce nemmeno con la propria vita o con la propria generazione. È la storia antica dell’Esodo di Israele, diventata la transumanza di genti credenti, che irradiano amore, trasformano, umanizzano, liberano. La terra non diventerà mai un paradiso. Ma si aprono le porte delle «prigioni» delle esistenze e delle menti. Il mondo può diventare più umano. La proposta di papa Bergoglio, vissuta nella comunione di tanti credenti, può diventare una vera rivoluzione, una rivolta nello Spirito. È un grande e umile, paziente, lavoro. Per coglierne la portata, bisogna imparare a leggere le correnti profonde della storia e non limitarsi ai sondaggi e alla superficie. Il monaco Silvano del Monte Athos affermava negli anni Trenta: L’unità ontologica di tutta l’umanità è tale che ogni persona che supera in se stessa il male, infligge una grande sconfitta anche al male cosmico, per cui le conseguenze di questa vittoria si ripercuotono in modo benefico sui destini del mondo intero. Anche un solo santo è per l’intera umanità un evento estremamente prezioso. 84 È questa la scommessa del cristiano, la scommessa di papa Francesco: il valore universale di un uomo che si converte e vince il male. Il cristianesimo antico convertiva i sovrani per poter battezzare i popoli. Fu una grande storia, ma pure una grande illusione. Oggi la santità di un uomo, la conversione di una donna, la fede di tanti in una comunione senza confini costituiscono una realtà che scorre nel profondo della storia e ne scuote la superficie. E poi la storia è piena di sorprese. Note I. Le dimissioni di Benedetto XVI 1 www.vatican.va, Concistoro ordinario pubblico, Declaratio del Santo Padre Benedetto XVI sulla sua rinuncia al Ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, 11 febbraio 2013. 2 Cfr. M. Politi, Papa Wojtyła. L’addio, Brescia, Morcelliana, 2007. 3 S. Dziwisz, Una vita con Karol, Rizzoli, 2007, pp. 215 sgg. Vedi anche A. Tornielli, Francesco. Insieme, Milano, Piemme, 2013, p. 4 A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011, p. 528. Vedi anche Id., Il secolo del martirio. 41. I cristiani nel Novecento, Milano, Mondadori, 2009. 5 Cfr. www.vatican.va, Benedetto XVI,Omelia del Santo Padre Benedetto XVI in occasione della beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011. 6 Colloquio dell’autore con Benedetto XVI. 7 A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, cit., p. 530. 8 Ibidem. 9 Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Benedetto XVI , a cura di P. Seewald, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, p. 53. 10 www.vatican.va, Concistoro ordinario pubblico, Declaratio del Santo Padre Benedetto XVI sulla sua rinuncia..., cit. 11 R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Brescia, Morcelliana, 2013, p. 114. 12 Cfr., ad esempio, P. Flores d’Arcais, Il Papa inquisitore, in «Micromega» 6/2009, pp. 5-22. 13 Cfr. Luce del mondo, cit., pp. 130-131. 14 Jacopone da Todi, Epistola a Celestino papa quinto, chiamato prima Pietro da Morrone, in Le laudi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1955, pp. 182-183. 15 P. Golinelli, Il Papa contadino. Celestino V e il suo tempo, Firenze, Camunia, 1996, p. 161. Si veda anche A. Marini,La rinuncia di Celestino V, in «Eurostudium 3w», ottobre-dicembre 2012, pp. 13-25. 16 P. Golinelli, Il Papa contadino, cit., p. 166. 17 Ibidem. 18 Cfr. G. Nuzzi, Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI, Milano, Chiarelettere, 2012. 19 Luce del mondo, cit., p. 53. 20 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013. 21 M. Franco, C’era una volta un Vaticano, Milano, Mondadori, 2010, p. 3. 22 Cfr. H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992, p. 124. 23 Cfr. G. Kepel, La Revanche de Dieu, Paris, Le Seuil, 1991. 24 Cfr. G. Cavallotto, Dati invisibili e futuro della missione, Città del Vaticano, Urbaniana Press, 2006. 25 Cfr. Ph. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2004. II. La sorpresa 1 Cfr. H. Küng, Santo subito? Il caso Maciel e altre ombre, in Karol Wojtyła. Il grande oscurantista, «Micromega», aprile 2011, pp. 5-11. 2 D.M. Turoldo, Perché la terra torni a sperare, in B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, a cura di A. Cislaghi e G. Remondi, Roma, Centro Studi Sant’Anselmo, 1994, p. 66. 3 Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013. 4 Paolo VI, Ecclesiam suam. Lettera enciclica, Torino, Elledici-Leumann, 1992, p. 34. 5 Ivi, p. 39. 6 K. Barth, La confession de foi de l’Eglise, Neuchâtel, Delachaux & Niestlé, 1943, p. 34. Cfr. anche L’intuition prophétique. Enjeu pour aujourd’hui, a cura di A. Vauchez, Paris, Les Éditions de l’Atelier, 2011; Prophètes et prophétisme, a cura di A. Vauchez, Paris, Éditions du Seuil, 2012. 7 Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 1972, p. 155. 8 G. Bessière, Le Feu qui rafraîchit, Paris, Éditions du Cerf, 1978, p. 36. 9 A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1983, p. 18. 10 D.M. Turoldo, Il sapore del pane, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002, p. 11. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 12. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Cfr. Luce del mondo. Il Papa la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Benedetto XVI , a cura di P. Seewald, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pp. 93 sgg. 16 In questo senso è molto significativa la ricostruzione di un autore molto equilibrato come R. Rémond, nel suo Le christianisme en accusation, Paris, Desclée de Brouwer, 2000. 17 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013. 18 Cfr. Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 18. 19 www.vatican.va, Papa Francesco, «Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam». Elezione di papa Francesco,13 marzo 2013. 20 Agostino di Ippona, Sermo 340,1: PL 38, 1483. 21 Cfr. anche Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII,a cura della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, Bergamo, 2003, p. 9. 22 Cfr. www.lapresse.it., Conclave, età media 72 anni, 58% cardinali scelti da Benedetto XVI, 12 marzo 2013. 23 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013. 24 Giovanni Crisostomo, Hom. de capto Eutropio, 6; PG 52, 402, cit. in B. Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995, p. 372. 25 J.H. Newman, Sermoni cattolici, Milano-Brescia, Jaca-Book-Morcelliana, 1984, p. 284. 26 Intervento di G. De Rita alla presentazione di La forza degli anni, a cura di G. Battaglia, Milano, Francesco Mondadori, 2013. 27 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 94. 28 Ivi, p. 96. 29 L.F. Capovilla – E. Bolis, I miei anni con Papa Giovanni XXIII. Conversazione con Ezio Bolis, Milano, Rizzoli, 2013, p. 90. 30 Ibidem. 31 E. Lecaldano, Simpatia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 150. 32 Ivi, pp. 183-184. 33 A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1981, p. 116. 34 Ivi, pp. 117-120. 35 Ivi, p. 345. 36 Ivi, p. 119. 37 Ivi, p. 346. 38 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 33. Si veda anche La nuova Chiesa di papa Francesco, a cura di J.M. Kraus, Roma, Moralia, 2013. 39 Leggenda dei Tre Compagni, 3, in Fonti Francescane, Padova, Ed. Messaggero, 1982, p. 1068. 40 I Fioretti di San Francesco, 37, in Fonti Francescane, cit., p. 1535. 41 Cfr. J.G. Jeusset, Dio è cortesia. Francesco d’Assisi, il suo Ordine e l’Islam, Padova, Edizioni Messagero, 1988. 42 www.vatican.va, Papa Francesco, Angelus, 17 marzo 2013. 43 www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia Pasquale nella Notte santa, basilica vaticana, 30 marzo 2013. 44 Ibidem. Per una lettura delle radici e della vicenda di Jorge Bergoglio si veda A. Melloni,Francesco, in Enciclopedia dei papi 2013, su www.treccani.it 45 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 aprile 2013. Per questi testi di omelie mattutine sono state utilizzate anche le registrazioni delle parole di Francesco. 46 Ibidem. 47 www.vatican.va, Benedetto XVI,Discorso alla Curia Romana. Leggere il Concilio alla luce della Tradizione, 22 dicembre 2005. 48 Paolo VI, Discorso di chiusura della IV sessione del Concilio Vaticano II,in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1966, p. 1084. 49 Cfr. Ivi, pp. 1084-1085. 50 Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 33. 51 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, in Enchiridion Vaticanum, Bologna, EDB, 1979, pp. 1009-1125. 52 Giovanni XXIII, Discorso di apertura della I sessione del Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p. 996. 53 Gaudium et spes, in Ivi, pp. 963-964. 54 Giovanni Paolo II, Testamento, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2005, p. 13. 55 Una significativa lettura dei problemi e delle prospettive della Chiesa in America Latina in G.M. Carriquiry Lecour,Una scommessa per l’America Latina, Firenze, Le Lettere, 2003. 56 Chi ha colto efficacemente questo stato d’animo è il giornalista e lo studioso G. Zizola in un libro per certi aspetti toccante, L’utopia di papa Giovanni, Assisi, Cittadella, 1973. 57 Cfr. V. Martano, Athenagoras il patriarca (1886-1972). Un cristiano tra crisi della coabitazione e utopia ecumenica, Bologna, Il Mulino, 1996. 58 Cfr. H. Küng, Salviamo la Chiesa, Milano, Rizzoli, 2011. 59 Cfr. A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Roma-Bari, Laterza, 1996. 60 Una valutazione critica di questo dialogo in V. Ferrone, Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger, Roma-Bari, Laterza, 2013. 61 J.M. Bergoglio – A. Skorka,Il cielo e la terra, cit., p. 101. Vedi pure J. Bergoglio, El verdadero poder es el servicio, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2013, p. 270. 62 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 87. 63 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 106-107. 64 Ivi, p. 106. 65 Cfr. C.M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, intervista di G. Sporschill, Milano, Mondadori, 2008. 66 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 19. 67 Ivi, p. 20. 68 Cfr. Ivi, pp. 65-66. 69 Giovanni XXIII,Discorso di apertura della I sessione del Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., pp. 992-993. 70 Ivi, p. 993. 71 www.vatican.va., Papa Francesco, Omelia alla Santa Messa nella Cena del Signore, Istituto Penale per Minori di «Casal del Marmo» in Roma, 28 marzo 2013. 72 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013. III. La cultura dell’incontro 1 E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 14. Cfr. anche G. Dell’Arti, Francesco. Non abbiate paura della tenerezza, Firenze, Clichy, 2013. Si veda pure M. de Vedia, Francisco, el papa del pueblo, Buenos Aires, Planeta, 2013. 2 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 72. Cfr. anche www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013. 3 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 72. 4 Il discorso è stato pubblicato in spagnolo dalla rivista dell’Arcidiocesi di Cuba, «Palabra Nueva». I sitizenit.org e aleteia.org lo hanno pubblicato in italiano. 5 www.zenit.org. 6 Cfr. J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 73. 7 Ivi, p. 71. 8 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con i vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco , Rio de Janeiro, 28 luglio 2013. 9 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 71. 10 Ibidem. 11 G. Valente, Francesco. Un papa dalla fine del mondo, Bologna, Emi, 2013, p. 38. 12 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 27 marzo 2013. 13 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013. 14 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 87. 15 Ivi, p. 64. 16 Ivi, p. 70. 17 Ivi, pp. 64 sgg. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 183. 20 Ivi, p. 184. 21 www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia alla Santa Messa per l’inizio del Ministero Petrino del Vescovo di Roma, 19 marzo 2013. 22 Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 44. 23 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, p. 36 . 24 Benedetto XVI, Deus caritas est, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2006, p. 74. 25 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p. 187. 26 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, pp. 35-36. 27 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 73. 28 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 37-38. 29 Cfr. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1975. 30 Cfr. J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., pp. 105-106. 31 Cfr. E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., pp. 137 sgg. 32 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 108. 33 Cfr. M. Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Milano, Mimesis, 2011. 34 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 192. 35 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Incontro con la classe dirigente del Brasile. Discorso del Santo Padre Francesco, Teatro Municipale, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013. 36 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 37 J. M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 194. 38 Ibidem. 39 Cfr. Ivi, pp. 9-10. 40 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 39. 41 J.M. Bergoglio, Educar, elegir la vida, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2005, p. 13. 42 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 109. 43 Ivi, p. 166 e p. 109. 44 Diálogos entre Juan Pablo II y Fidel Castro, Buenos Aires, Ciudad Argentina, 1998, pp. 10-13. Osservazioni in M. Fazio,Con 29. Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, pp. 72-75. 45 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., pp. 73-74. 46 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 22-23. 47 C. Naro, Amiamo la nostra Chiesa, Palermo, s.e., 2005, p. 31. 48 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, Mercoledì 22 maggio 2013. Si veda anche Carità, parola antica per fare nuovo il mondo, a cura di M. Gnavi, Milano, Leonardo International, 2010. 49 Discours d’inauguration prononcé par Marc Chagall, le 7 juillet 1973, in Chagall, Musée National Marc Chagall, Nice, Paris, Éditions Artlys, 2011, p. 9. 50 P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, Brescia, Queriniana, 1994, pp. 111-112. 51 A. Hampâté Bâ, Gesù visto da un musulmano, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 75. 52 Cfr. E. Toaff, Perfidi Giudei, fratelli maggiori, Milano, Mondadori, 1987. 53 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 10-11. 54 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 188. 55 Ibidem. 56 O. Clément, Dio è simpatia, Milano, Leonardo International, 2003, p. 39. 57 Cfr. A. Levi, Un paese non basta, Bologna, Il Mulino, 2009. 58 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 161. 59 Ivi, p. 163. 60 G. Dossetti, Introduzione a L. Gherardi, Le querce di Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 1994, p. XXIII. 61 H. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964. 62 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., pp. 136-137. 63 Cfr. A. Riccardi, Mediterraneo. Cristianesimo e islam tra coabitazione e conflitto, Milano, Guerini e Associati, 1997. 64 J.M. Bergoglio – A. Skorka,Il cielo e la terra, cit., p. 145. Si veda anche C. Martini Grimaldi,Ero Bergoglio, sono Francesco, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 90 sgg. 65 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 67. 66 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 197. 67 Nostra Aetate, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1966, p. 483. 68 Cfr. J.D. Durand, Lo Spirito di Assisi. Discorsi e messaggi di Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant’Egidio , Milano, Leonardo International, 2004; Comunità di Sant’Egidio,Lo Spirito di Assisi. Dalle religioni una speranza di pace, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011. 69 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 200. 70 Nostra Aetate, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p. 483. 71 M. Gallo, El espíritu de Asís (1986-2007). Aporte de las religiones al diàlogo y la paz del mundo, Buenos Aires, Guadalupe, 2007, p. 7. Cfr. anche J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 125. 72 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 125. 73 Ivi, p. 126. 74 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 209. 75 Ivi, p. 7. 76 A. Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti, Torino, Einaudi, 2000. Cfr. anche L’America latina fra Pio XII e Paolo VI, a cura di A. Melloni e S. Scatena, Bologna, Il Mulino, 2006. 77 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 145. Si veda anche la biografia del cardinale di R. Morozzo della Rocca, in corso di pubblicazione. 78 Ibidem. 79 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 194. 80 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 146. 81 A. Casaroli, Il martirio della pazienza, cit., p. 11. 82 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 147. 83 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 204-205. 84 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 7. 85 A. Fogazzaro, Il Santo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, p. 243. 86 Ivi, pp. 243-244. 87 Ivi, p. 246. 88 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013. IV. La Chiesa dei poveri 1 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza ai Rappresentanti dei media, 16 marzo 2013. 2 F. Maisonnave, Card. Cláudio Hummes: «La Chiesa non funziona più», intervista, su www.aleteia.org, 19 marzo 2013. 3 Giovanni XXIII, Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1966, pp. 985-986. 4 G. Lercaro, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, Bologna, EDB, 1984, p. 119. 5 Lumen Gentium, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., pp. 136-137. 6 AA.VV., Chiesa e povertà, Roma, AVE, 1968, pp. 167 sgg. 7 Cfr. J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Roma, Paoline, 1960. 8 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, p. 89. Cfr. anche Id.,Dio è simpatia, Milano, Leonardo International, 2003, pp. 58 sgg. 9 Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova, 2003, vol. II, pp. 338-339; p. 161. 10 AA.VV., Chiesa e povertà, cit., p. 286. 11 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 157. 12 A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011, p. 382. 13 E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 99. 14 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 78. Cfr. L. Ceci, La teologia della liberazione in America Latina. L’opera di Gustavo Gutiérrez, Milano, Franco Angeli, 1999. 15 Ibidem. 16 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013; cfr. anche «L’Osservatore Romano», 6 giugno 2013. 17 L. Zoja, La morte del prossimo, Torino, Einaudi, 2009, p. 84. 18 Ivi, p. 99. 19 www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013. 20 Indagine di Astraricerche condotta nel marzo 2013, commissionata dalla Casa della Carità di Milano (vedi www.casadellacarita.org/italiani-carita). 21 22 www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, cit., 18 maggio 2013. www.vatican.va, Papa Francesco, Discorso ai nuovi ambasciatori di Kyrgyzstan, Antigua e Barbuda, Lussemburgo, Botswana accreditati presso la Santa Sede, 16 maggio 2013. 23 Ibidem. 24 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 81. 25 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 157. 26 Ivi, p. 31. 27 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013. 28 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 189. 29 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 154. 30 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 79. 31 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 148. 32 Comunità di Sant’Egidio, Benvenuto alla Mensa della Comunità di Sant’Egidio. Benedetto XVI alla mensa per i poveri , Milano, Leonardo International, 2010, p. 26. 33 www.santegidio.org, Visita di Papa Benedetto XVI alla casa «Viva gli anziani» della Comunità di Sant’Egidio, Roma, 12 novembre 2012. 34 E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., p. 130. 35 J.M. Bergoglio, Sintesi dell’intervento al Sinodo, «Osservatore Romano», 4 ottobre 2001. 36 Discorso ai vescovi argentini, 9 novembre 2009, in J.M. Bergoglio, Enviados a hacer el bien, Buenos Aires, Agape, 2013, p. 58. 37 H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, Paoline, 1955, p. 470. 38 A. Tornielli, Francesco insieme, Milano, Piemme, 2013, p. 173. 39 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 47. 40 Ivi, p. 51. Cfr. anche A. Spadaro, Da Benedetto a Francesco, Torino, Lindau, 2013, pp. 72 sgg. 41 www.vatican.va, Papa Francesco, Santa Messa con i cardinali, 14 marzo 2013. 42 É. Gilson, Pas d’illusion rétrospectives, in «Esprit», 8-9, août-septembre 1946, p. 193. 43 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 93. 44 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 24. 45 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 82. 46 Ivi, p. 83. 47 Cfr. Comunità di Sant’Egidio, La forza degli anni. Lezioni di vecchiaia per giovani e famiglie, Milano, Francesco Mondadori, 2013. 48 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 83. 49 Ivi, p. 215. 50 Ivi, p. 98. 51 Ibidem. 52 www.wikipedia.org, Patto delle catacombe, 16 novembre 1965. 53 Ibidem. Cfr. pure M. Mennini, Paul Gaultier e la povertà della Chiesa durante il Vaticano II. La faticosa ricerca di un consenso, in «Cristianesimo nella Storia», 34 (2013), pp. 391-422. 54 J.M. Bergoglio, Sintesi dell’intervento al Sinodo, cit. 55 Cfr. AA.VV., Problemi di Storia della Chiesa. Il Medioevo dei secoli XII-XV, Milano, Vita e Pensiero, 1976, vol. III, p. 37. 56 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con i vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco , Rio de Janeiro, 28 luglio 2013. 57 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013. 58 Vedi supra nota 55. 59 L.F. Capovilla, I miei anni con Giovanni XXIII. Conversazione con Ezio Bolis, Milano, Rizzoli, 2013, p. 206. 60 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., pp. 115-116. Cfr. pure J.M. Bergoglio, Quo nomine vis vocari? Francisco. Reflexiones de un pastor, Buenos Aires, Editorial Santa Maria, 2013, p. 22 e p. 82. 61 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 126. 62 Ivi, pp. 108 e 116. 63 Ivi, p. 116. 64 Id., Educar, elegir la vida, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2005, pp. 102-103. 65 Cfr. J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 79. 66 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 83. 67 Discorso citato in E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., pp. 126-127. 68 Ibidem. 69 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 65. 70 Ivi, p. 67; J.M. Bergoglio, Educar, cit., p. 43. 71 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 207. 72 A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 2010, pp. 37 sgg. 73 Ivi, p. 323. 74 Ivi, pp. 326 sgg. 75 M. Zundel – F. du Guérand, A l’écoute du silence, Paris, Tequi, 1979, p. 44. 76 O. Capitani, Introduzione a M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. XXIII sgg. 77 J. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 97-98. 78 Cfr. Benedetto da Norcia, Regola. Testo latino a fronte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996. Cfr. B. Celati,La questione monastica nella letteratura di carattere teorico degli ultimi trent’anni , in AA.VV., Problemi e orientamenti di spiritualità monastica, biblica e liturgica, Milano, Paoline, 1961, pp. 340-497. 79 J.L. Allen, Le dieci encicliche di papa Francesco, Milano, Ancora, 2013, p. 16. 80 www.news.va, Papa Francesco, Udienza alle Religiose partecipanti all’Assemblea plenaria dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (Uisg), 8 maggio 2013. 81 www.vatican.va, Papa Francesco, Concelebrazione eucaristica con gli Em.mi Cardinali residenti a Roma in occasione della festa di San Giorgio, 23 aprile 2013. 82 N. Hikmet, Poesie d’amore, Milano, Mondadori, 2002, p. 57. 83 J.L. Allen, Le dieci encicliche di papa Francesco, cit., p. 16. 84 Cfr. M. Fazio, Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, p. 29. 85 H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, cit., p. 337. V. Globalizzazione, città e storia 1 G. Valente, Francesco. Un papa dalla fine del mondo, Bologna, Emi, 2013. 2 Ivi, p. 44. 3 Ivi, p. 46. 4 Ivi, pp. 44-45. 5 Z. Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. (Falso!), Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 5. 6 Ivi, p. 95. 7 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013. 8 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 145. 9 Ivi, p. 143. 10 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013. 11 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 164. 12 Ivi, p. 165. 13 S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997. 14 Ivi, p. 306. 15 Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013. 16 G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2001, p. 366. 17 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 166. 18 J. Bergoglio, Mente abierta, corazón creyente, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2012, p. 6. 19 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 167. 20 Ivi, p. 161. 21 Importanti osservazioni sull’idea di popolo in J. Bergoglio, El verdadero poder es el servicio, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2013, pp. 87-94. 22 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 165. 23 Cfr. A. Riccardi, Convivere, Roma-Bari, Laterza, 2006. 24 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 25 Ivi, p. 68. 26 In proposito cfr. B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma-Bari, Laterza, 2013. Cfr. anche M. Davis,Il pianeta 67. degli slum, Milano, Feltrinelli, 2006. 27 D.M. Turoldo, Elogio della città, mistero di pietre, in «L’uomo», luglio 1946. 28 G. Valente, Francesco, cit., p. 10. Si veda anche E. Bianco, Quel ragazzo d’oratorio diventato papa Francesco, Torino, Elledici, 2013. 29 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 38-39. 30 L’intervento del cardinal Bergoglio che ha convinto i cardinali, su www.aleteia.org. 31 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, p. 26. 32 Cfr. H. Godin – Y. Daniel, La France pays de mission?, Lyon, Éditions de l’Abeille, 1943. Sulla figura del cardinale Suhard si veda J. Vinatier, Le Cardinal Suhard (1874-1949). L’evêque du renouveau missionnaire en France, Paris, Le Centurion, 1983; J.P. Guérend, Cardinal Emmanuel Suhard Archevêque de Paris (1940-1949). Temps de guerre, temps de paix, passion pour la Mission, Paris, Éditions du Cerf, 2011. Si veda pure É. Poulat, I preti operai, Brescia, Morcelliana, 1967. 33 G. Cesbron, I Santi vanno all’inferno, Milano, Longanesi, 1954, p. 302. 34 E. Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise. Lettre pastorale, Paris, Éditions du Vitrail, 1947, p. 6. 35 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 54. 36 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 45-46. 37 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., pp. 7-8. 38 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 49. 39 Ivi, pp. 135-136. 40 Ivi, pp. 35-36. 41 Cfr. J. Comblin, Teologia della città, Assisi, Cittadella, 1971. 42 Incontro con l’Episcopato Brasiliano, cit. 43 Omelia del 17 marzo 2012, J.M. Bergoglio,Quo nomine vis vocari? Francisco. Reflexiones de un pastor, Buenos Aires, Editorial Santa Maria, 2013, pp. 105-106. 44 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 23 maggio 2013. Le citazioni sono integrate con la trascrizione della registrazione delle parole del papa. 45 H. Cox, La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 3. 46 Ivi, p. 269. 47 Lettera del card. Bergoglio, 29-7-2007, in appendice a M. Fazio,Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, pp. 91-99, p. 94. 48 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 42. 49 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 33. 50 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 25-26. 51 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 121. 52 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 19. 53 D.M. Turoldo, Elogio della città, cit. 54 Ibidem. 55 J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 48. 56 J. Comblin, Teologia della città, cit., pp. 415-416. 57 O. Clément, Il canto delle lacrime, Milano, Ancora, 1983, p. 147. 58 O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, pp. 10-11. 59 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 78. 60 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 208. 61 J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 109. 62 Incontro con l’Episcopato Brasiliano, cit. 63 J.M. Bergoglio, Dio nella città, cit., p. 5. 64 Così N. Bouvier – M. Mercier, in Guerre et Humanité, un siècle de photographie, Genève, Skira, 1995, pp. 7-13. 65 Cfr. O. Clément, Dio è simpatia, Milano, Leonardo Internazionale, 2003, p. 58 sgg. 66 www.vatican.va, Paolo VI, Udienza generale, 9 febbraio 1966. 67 Ibidem. 68 www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia. Celebrazione liturgica durante la visita a Lampedusa, 8 luglio 2013. 69 Ibidem. 70 E. Vergani, Costruire visioni. Fare il mondo come dovrebbe essere, Roma, Exòrma, 2012, p. 15. 71 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 53. 72 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 106. 73 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 54. 74 G. Dossetti, Scritti politici 1943-1951, Genova, Marietti, 1995, p. LIX. 75 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 25. 76 Cfr. M. Fazio, Con Papa Francesco, cit., p. 52. 77 E. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 14-15. 78 J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 26. 79 Sulla Chiesa latinoamericana novecentesca si veda la completa ricostruzione di G. La Bella,Roma e l’America Latina, Milano, Guerini e Associati, 2012. 80 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 179-180. 81 Ibidem. 82 H.-I. Marrou, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 235. 83 Cfr. A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003. VI. Un papa dalla fine del mondo 1 W. Bühlmann, La terza Chiesa alle porte, Roma, Paoline, 1976. 2 Cfr. Ph. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2004, pp. 277 sgg. Vedi pure M. Impagliazzo, Duval d’Algeria, Una Chiesa tra Europa e mondo arabo, 1946-1988, Roma, Studium, 1994. 3 L’intervento del cardinal Bergoglio che ha convinto i cardinali, su www.aleteia.org. 4 www.vatican.va., Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 maggio 2013. 5 Omelia citata in M. Fazio, Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, pp. 62-64. 6 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 44. 7 Testo citato in M. Fazio, Con Papa Francesco, cit., pp. 62-64. 8 www.vatican.va, Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte. Lettera apostolica, par. 43. 9 Ibidem. 10 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, p. 48. 11 «La Repubblica», 10 settembre 2008, p. 37. 12 M. de Unamuno, L’agonie du christianisme, Paris, Berg International, 1996, p. 45. Cfr. anche l’introduzione di E. Poulat al volume. 13 É. Gilson, Pas d’illusions retrospectives, in «Esprit», 14, 8-9 (1946), pp. 192-196, p. 194. 14 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo (3 voll.), Milano, Corbaccio-Dall’Oglio, 1942, vol. III, p. 749. 15 Cfr. G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, Il Mulino, 2012. 16 E. Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise?, Paris, Éditions du Vitrail, 1947. 17 Ivi, p. 4. 18 E. Gandolfo, Gregorio Magno. Servo dei servi di Dio, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1980, p. 86. 19 Ph. Jenkins, La terza Chiesa, cit., p. 314. 20 P. Rossano, Un tesoro in vasi di creta, in Comunità di Sant’Egidio – Uomini e Religioni,Mai più la guerra. War never again, Brescia, Morcelliana, 1990, p. 13. 21 A. Colacrai, Forza dei deboli e debolezza dei potenti. La coppia «debole: forte» nel Corpus Paulinum, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2003, p. 568. 22 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013. 23 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 40. 24 J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 73; cfr. anche Quello che avrei detto al concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, in «30 giorni», 11, 2007. 25 E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 196. 26 Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno, cit. 27 www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013. 28 Ibidem. 29 Cfr. Annuario Pontificio 2013, Città del Vaticano, 2013, pp. 23*-24*. 30 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 39. 31 Ivi, p. 44. 32 Francesco, Lumen fidei, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013. Ci sono casi di encicliche preparate da un papa e non pubblicate o completate che non sono state utilizzate dal successore (come la vicenda dell’enciclica sull’uguaglianza delle genti e contro il razzismo, fatta approntare da Pio XI). Nel caso del testo sulla fede, si tratta della prima enciclica che papa Francesco pubblica; l’enciclica d’esordio è in genere utilizzata da vari papi come scritto programmatico del pontificato. 33 J.M. Bergoglio-Pape François, Amour, Service & Humilté, Paris, Magnificat, 2013, pp. 63-64. 34 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 25 maggio 2013. Tra l’altro si vedano J.C. Scannone, Teologia, cultura popolare e discernimento , in La nuova frontiera della teologia in America Latina, Brescia, Queriniana, 1991, pp. 313-349 e Id., La teologia di Francesco, in «Il Regno – Attualità», 6 (2013), p. 128. Cfr. anche Escritos Teológicos-Pastorales de Licio Gera (2 voll.), a cura di V.R. Azcuy et alii, Buenos Aires, Agape, 2006 e 2007; e L. Gera, Religiosità popolare, dipendenza, liberazione, Bologna, Dehoniane, 1978, a proposito di teologia del popolo. 35 E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., p. 129. 36 Cfr. A. Methol Ferré – A. Metalli, L’America Latina del XXI secolo, Genova-Milano, Marietti, 2006, p. 90. 37 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 21 maggio 2013. 38 M. Eliade, Oceanografia, a cura di R. Scagno, Milano, Jaca Book, 2007, p. 58. 39 Ibidem. 40 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 21 maggio 2013. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 J.M. Bergoglio-Pape François, Amour, Service & Humilté, cit., p. 109. 44 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p. 161. Si veda anche J.M. Bergoglio,Umiltà, la strada verso Dio, Bologna, Emi, 2013. 45 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 137. 46 Dei Verbum, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p. 503. 47 B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, Roma, Centro Studi Sant’Anselmo, 1994, p. 48 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 197-198. 71. 49 www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013. 50 A. Men, Le christianisme ne fait que commencer, Paris, Éditions du Cerf, 1996, p. 49. 51 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 208-209. 52 Cfr. le riflessioni di P. Novick, L’Holocauste dans la vie américaine, Paris, Gallimard, 1999. 53 Cfr. F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 247-248. 54 M. Eliade, Oceanografia, cit., p. 212. 55 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con i vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco , Rio de Janeiro, 28 luglio 2013. 56 www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia della Celebrazione della Domenica delle Palme, 24 marzo 2013. Cfr. G. Vigini, Il parroco del mondo, Milano, Paoline, 2013, p. 61. 57 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 96. 58 D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Milano, Bompiani, 1969, p. 155. 59 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 96. 60 M. Vannini, Oltre il cristianesimo, Milano, Bompiani, 2013. 61 Ivi, p. 304. 62 P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco. Il terzomondismo: storia di un mito duro a morire, Parma, Guanda, 2008, p. 27. 63 M. Eliade, Oceanografia, cit., p. 57. 64 T.E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Milano, Bompiani, 1949, p. 702. 65 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p.76. 66 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 24. 67 J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 187 sgg. 68 J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 59. 69 Ivi, p. 64. 70 Ivi, p. 209. 71 www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 20 maggio 2013. 72 Ibidem. 73 J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 133. 74 Ivi, p. 134. 75 Ivi, p. 137. 76 www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia della Celebrazione Eucaristica, 14 aprile 2013. 77 Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992. 78 Ivi, pp. 141 sgg. 79 O. Clément, La Révolte de l’Esprit, Paris, Stock, 1979, p. 11. 80 M. Iqbal, Poesie, Parma, Guanda, 1956, p. 94. 81 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Incontro con i volontari della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, Discorso del Santo Padre Francesco, Rio de Janeiro, 28 luglio 2013. 82 www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Veglia di preghiera con i giovani, Discorso del Santo Padre Francesco, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013. 83 O. Clément, La Révolte de l’Esprit, cit., p. 226. 84 Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, Torino, Gribaudi, 1978, p. 215. Indice dei nomi Abramo Agostino di Ippona, santo Allen, John L. Andrea di Creta, santo Angelelli, Enrique Anna, profetessa Arendt, Hannah Atenagora I, patriarca di Costantinopoli Azcuy, Virginia R. Barth, Karl Battaglia, Gino Bauman, Zygmunt Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa Benedetto da Norcia, santo Bernardo di Chiaravalle, santo Bertone, Tarcisio Bessière, Gérard Bianco, Enzo Bin Laden, Osama Bloch, Marc Bolis, Ezio Bonhoeffer, Dietrich Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa Bouvier, Nicolas Brown, Wendy Bruckner, Pascal Buber, Martin Bühlmann, Walbert Buonaiuti, Ernesto Caino Calati, Benedetto Capitani, Ovidio Capovilla, Loris Francesco Carey, George Carriquiry Lecour, Guzmán M. Casaroli, Agostino Castro Ruz, Fidel Cavallotto, Giuseppe Ceci, Lucia Celestino V (Pietro da Morrone), papa Cesbron, Gilbert Chagall, Marc Cicerone, Marco Tullio Cislaghi, Alessandra Claudel, Paul Clément, Olivier Colacrai, Angelo Comblin, Joseph (José) Comte, Auguste Congar, Yves Copello, Santiago Luis Costantino I il Grande, imperatore romano Cox, Harvey Cullmann, Oscar Dalarun, Jacques Daniel, Yvan Davide Davis, Mike Dell’Arti, Giorgio De Rita, Giuseppe De Vedia, Mariano Dezza, Paolo Di Paola, Pepe Dossetti, Giuseppe Du Guérand, France Durand, Jean-Dominique Duval, Léon-Étienne Dziwisz, Stanisław Eliade, Mircea Endrigo, Sergio Eugenio III (Bernardo Paganelli), papa Fazio, Mariano Ferrone, Vincenzo Feuerbach, Ludwig Fiadoni, Bartolomeo (Tolomeo da Lucca) Flores d’Arcais, Paolo Fogazzaro, Antonio Forte, Bruno Francesco d’Assisi, santo Franco, Massimo Freud, Sigmund Furedi, Frank Gabriele, Paolo Gallo, Marco Gandolfo, Emilio Gänswein, Georg Gera, Lucio Gherardi, Luciano Gilson, Étienne Gioacchino da Fiore Giona Giovagnoli, Agostino Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), papa Giovanni Crisostomo, santo Giovanni Paolo I (Albino Luciani), papa Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa Gnavi, Marco Godin, Henri Golinelli, Paolo Gregorio I Magno, santo, papa Guénon, René Guérend, Jean-Pierre Hampâté Bâ, Amadou Heschel, Abraham Hikmet, Nazim Himitian, Evangelina Hobsbawm, Eric Hummes, Cláudio Huntington, Samuel Ignazio di Loyola, santo Impagliazzo Marco Iqbal, Muhammad Jacopone da Todi, Iacopo de’ Benedetti, detto Jenkins, Philip Jeusset, Jean-Gwenolé Kepel, Gilles Khodr, George Kyrill (Vladimir Michailovich Gundyayev), metropolita, ora patriarca di Mosca Kraus, Joseph M. Küng, Hans La Bella, Gianni La Pira, Giorgio Lawrence, Thomas Edward (Lawrence d’Arabia) Lecaldano, Eugenio Lefebvre, Marcel Lercaro, Giacomo Le Saux, Henri Levi, Arrigo López Trujillo, Alfonso Lorenzo, santo Lot Lubac, Henri de Luca, evangelista, santo Maisonnave, Fabiano Marini, Alfonso Marrou, Henri-Irénée Martano, Valeria Martini, Carlo Maria Martini Grimaldi, Cristian Marx, Karl Melloni, Alberto Men, Alexander Mennini, Matteo Mercier Michèle Metalli, Alver Methol Ferré, Alberto Mollat, Michel Moraes, Vinícius de Morozzo della Rocca, Roberto Mosè Mosse, George Lachmann Mulla, Paul Naro, Cataldo Newman, John Henry Nietzsche, Friedrich Wilhelm Novick, Peter Nuzzi, Gianluigi Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa Paolo di Tarso, santo Parolin, Pietro Perniola, Mario Pietro, apostolo e santo Pio X (Giuseppe Sarto), papa Pio XI (Achille Ratti), papa Pio XII (Eugenio Pacelli), papa Politi, Marco Poulat, Émile Ratzinger, Georg Rémond, René Remondi, Giordano Riccardi, Andrea Rossano, Pietro Rusconi, Roberto Ruskin, John Scagno, Roberto Scannone, Juan Carlos Scatena, Silvia Schuster, Ildefonso Secchi, Bernardo Seewald, Peter Sen, Amartya Silvano del Monte Athos, santo Silvestrini, Achille Simeone, santo Singer, Peter Skorka, Abraham Sofronio Archimandrita Spadaro, Antonio Sporschill, Georg Stefano, santo Suhard, Emmanuel Teilhard de Chardin, Pierre Toaff, Elio Tornielli, Andrea Turoldo, David Maria Ubertino da Casale Unamuno, Miguel de Ungaretti, Giuseppe Valente, Gianni Vannini, Marco Vauchez, André Vergani, Emilio Vigini, Giuliano Vinay, Valdo Vinatier, Jean Vonier, dom (Anscar Vonier) Zamagni, Gianmaria Zanzotto, Andrea Zizola, Giancarlo Zoja, Luigi Zundel, Maurice Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. 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