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Dello stesso autore
Il cacciatore di ossa
Cartoline dall’inferno
La casa delle anime morte
Il collezionista di bambini
Il collezionista di occhi
La porta dell’inferno
Sangue nero
La stanza delle torture
Titolo originale: Close to the Bone
Copyright © Stuart MacBride 2013
Stuart MacBride asserts the moral right
to be identified as the author of this work.
All rights reserved
Traduzione dall’inglese di Francesca Noto
Prima edizione: aprile 2014
© 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6230-3
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Stampato nell’aprile 2014 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti da foreste
controllate e certificate, nel rispetto delle normative ecologiche vigenti
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Stuart MacBride
Vicino al cadavere
Newton Compton editori
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A Ishbel
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite,
avvenimenti, società, organizzazioni e luoghi reali ha l’unico scopo di dare alla
narrazione un senso di realtà e autenticità. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e i
fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e
qualunque eventuale somiglianza con fatti o persone reali è del tutto casuale. Uniche
eccezioni i personaggi di Alex (Zander) Clark, Ian Falconer, April Logan/Graham
ed Emma Sim, che hanno dato il loro esplicito consenso ad essere personaggi di
questo romanzo. I tratti caratteriali a loro assegnati sono stati ideati per le esigenze
del testo e non comportano necessariamente una somiglianza con le persone vere.
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che ti piaccia o no, sei ancora vivo
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SABATO
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capitolo 1
La donna stringe tra le dita la scatola di fiammiferi. Si lecca le labbra.
Ha provato e riprovato quelle parole fino a sentirle perfette. «Hai niente
da dire, prima che esegua la sentenza?».
L’uomo inginocchiato sul pavimento del magazzino alza lo sguardo su
di lei. Sta tremando, e mugola pietosamente dietro alla maschera che gli
copre il volto. «Oh Dio, oh Gesù, oh Dio, oh Gesù…». Le catene intorno
ai suoi polsi e alle sue caviglie tintinnano contro il palo di metallo. Una
zaffata di accelerante si alza nell’aria dallo pneumatico incastrato sopra
la testa e le spalle. Gomma nera e paraffina.
«È troppo tardi per questo», dice lei con un sorriso. «Thomas Leis…».
«Ti prego, non devi farlo!».
Il sorriso si smorza. Sta rovinando tutto. «Thomas Leis, sei stato giudicato colpevole di stregoneria…».
«Non sono uno stregone, è uno sbaglio!».
«…e condannato a bruciare sul rogo fino a che morte non sopraggiunga».
«Io non ho fatto niente!».
«Codardo». Sente le luci calde sulla schiena, mentre accende il primo
fiammifero, per poi farlo anche con tutti gli altri. Sibilano e sfolgorano,
luminosi e brillanti. Puri. Gloriosi.
«ti prego!».
«Brucia. Così come brucerai all’inferno». Il sorriso torna a danzarle sul
volto. «Sarà un buon modo per abituarti». Lascia cadere la scatola di
fiammiferi accesi sulla gomma, e l’accelerante prende fuoco. Di colpo, un
lampo di fiamme blu e gialle prende a correre intorno allo pneumatico.
Thomas Leis urla.
Si dibatte contro le catene. Un denso fumo nero gli avvolge il volto,
nascondendo la maschera alla vista mentre il fuoco si innalza. E lui
implora, grida e prega…
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La donna getta indietro la testa e ride, guardando verso il cielo. Apre
le braccia, gli occhi che scintillano come diamanti.
La voce di Dio crepita nell’aria, facendo vibrare il mondo stesso: «E…
taglia. Ben fatto, tutti quanti. Facciamo una pausa per pranzo e poi proseguiamo con la scena due-trenta-sei all’una e mezza».
Si sente uno scroscio di applausi.
Poi un uomo in gilet giallo fluorescente entra in scena con un estintore.
fwooosh – le fiamme scompaiono in uno sbuffo di anidride carbonica,
mentre il cameraman si allontana, proteggendo le lenti.
Un tecnico toglie la maschera verde con le croci gialle dal volto dello
stuntman che ha interpretato Thomas Leis. Sta sorridendo soddisfatto,
anche se sa che alla fine sostituiranno digitalmente il suo volto, in postproduzione. Anche se ha interrotto la battuta di lei.
Dio ci salvi dagli stuntman che si credono attori.
La donna piega la testa di lato e si acciglia. «Non lo so… mi è sembrato
tutto un po’ troppo sopra le righe, all’ultimo. Davvero esagerato. Lei
non dovrebbe essere un po’ più… non so, sommessa? Magari anche un
po’ sensuale? Posso rifarla?».
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capitolo 2
«Sto arrivando. Di’ a tutti di…». Sentì scricchiolare qualcosa sotto al piede. Logan si bloccò sulla soglia, con il cellulare incastrato contro l’orecchio.
Spostò di lato la scarpa e arricciò il labbro superiore. «Non di nuovo».
Tre ossicini erano abbandonati sul marciapiede di cemento, uniti da
un lacero pezzo di nastro rosso.
Un sibilo basso venne dall’altro capo del telefono. «Sul serio, capo, Pete
il Vomitone non la smette più di vomitare, qui, e…».
«Ho detto che sto arrivando».
Logan si schiacciò il cellulare contro il petto e lanciò uno sguardo intorno a sé, nel parcheggio di roulotte ormai quasi avvolto dall’oscurità
crescente. Era pieno di grosse roulotte ferme, delle dimensioni di container da trasporti, tutte dipinte di un uniforme verde istituzionale. Una
macchina di pattuglia era parcheggiata sul tratto asfaltato che fungeva
da rotatoria, con i lampeggianti accesi nell’aria tiepida della tarda serata. L’uomo al posto di guida si piegò in avanti, guardando verso Logan
attraverso il parabrezza, mentre faceva scorrere le mani sul volante come
se stesse cercando di sentirne la consistenza.
Non c’era traccia dei piccoli bastardi.
Logan fece finire gli ossicini giù dal gradino con un calcio, gettandoli
nell’edera stentata che cresceva sul lato della sua casa. Poi prese un
profondo respiro e urlò: «so dove vivete, stronzetti!».
A quel punto, tornò al telefono.
«Insomma, non è la prima volta che succede, ma mai così. Sta…».
«Se sta inquinando la scena del crimine, arrestalo. Se non è così, tienigli quella cazzo di mano finché non arrivo». Si avvicinò alla volante a
lunghi passi pesanti, e si accomodò sul sedile del passeggero. Allacciò
la cintura. «Muoviti».
L’agente premette l’acceleratore.
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Il sole era una macchia scarlatta lungo l’orizzonte, che riempiva di
sangue e ombre il tratto di terreno brullo. Degli alberi si allungavano
intorno al suo perimetro, e dai loro rami proveniva il gracchiare rauco
e insistente dei corvi che si sistemavano per la notte.
Carcasse grigie e nere affollavano lo spiazzo: macchine bruciate, la vernice venuta via, i sedili ridotti a cadenti intrecci di fil di ferro arrugginito,
le gomme trasformate in ammassi vetrificati e informi.
Un nastro azzurro e bianco con la scritta polizia era teso tra i veicoli,
creando una terra di nessuno di circa sei metri di diametro intorno al
cordone interno giallo e nero della Scientifica, con la scritta scena del
crimine. Tre tecnici erano inginocchiati nella polvere, intenti a esaminare qualcosa, le loro tute in Tyvek bianco che sembravano rosa nella
luce del tramonto.
Logan arricciò il naso. Il fetore rancido del vomito si mescolava a quello
oleoso della carne bruciata e del grasso fuso. Come un barbecue di cibo
avariato. «Dov’è il patologo?».
Uno dei tecnici, una piccoletta con gli occhiali protettivi oscurati, finì
di raccogliere dentro una busta di plastica qualcosa di scuro e appiccicoso, per poi puntare l’indice infilato nel guanto di gomma verso il lato
opposto del nastro giallo e nero. C’era un altro tecnico in uniforme da
Puffo, piegato su un secchio, intento a emettere rantoli inconfondibili,
le spalle scosse dai conati che gli rivoltavano lo stomaco.
La tipa bassa abbassò la mascherina, rivelando un ovale di pelle chiara e sudata e una bocca dalle labbra sottili. «Poveraccio. Non posso
biasimarlo, davvero. Io stessa ho rischiato di vomitare la cena». Sbuffò
gonfiando le guance, tirando con le dita l’elastico intorno al cappuccio
della tuta. «Cristo, si crepa di caldo, qui dentro…».
«Avete chiamato i rinforzi?».
La donna annuì. «La Regina delle Nevi sta arrivando». Poi riposizionò
la mascherina sul viso. «Vuole dare un’occhiata? Abbiamo fatto tutto il
possibile, e stanno per rimuovere il cadavere».
«Quanto è brutto?».
Lei si sfilò i guanti e ne indossò un nuovo paio. «Non voglio certo
rovinarle la sorpresa di scoprirlo da solo». Poi si avviò su una passerella sopraelevata, fatta di gradini metallici, simili a vassoi rovesciati
sostenuti da piccoli supporti, per evitare che i loro stivali di plastica blu
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contaminassero la scena. La passerella procedeva in mezzo a un paio
di auto bruciate e spariva dietro alla carcassa annerita di una Renault
Clio. Un filo di fumo nero si arricciava nell’aria, salendo verso il cielo,
dalla parte opposta.
Logan si sistemò sul viso gli occhiali protettivi, chiuse del tutto la tuta
e seguì la donna zigzagando lungo la passerella, che risuonava sotto i
suoi passi. L’odore di barbecue rancido peggiorò. E poi arrivarono a
destinazione.
Cristo…
Gli sembrò che il suo stomaco si spostasse di un paio di passi verso
destra, per poi piombare di nuovo al suo posto. Deglutì a vuoto. Sbatté
le palpebre. Si schiarì la gola. «Cosa sappiamo?»
«Non molto: la vittima è un maschio, o almeno è ciò che riteniamo».
Un’altra alzata di spalle. «È stato incatenato a quella che sembra una
sezione delle tubature metalliche modulari usate per le impalcature…
sa, quelle che si usano nei garage, per esempio? È stata piantata al suolo
come un palo».
La vittima era inginocchiata sul terreno compatto, con le gambe raccolte sotto i glutei. La tuta arancione che indossava era macchiata sulle
gambe e sul busto, annerita sul petto e sparsa di piccole lacrime lucenti
di gomma vetrificata. Qualcuno gli aveva fatto passare uno pneumatico
sulla testa e intorno a un braccio, come se fosse una fascia a tracolla,
per poi dargli fuoco. Stava ancora bruciando: piccole lingue di fiamma
oleosa scivolavano lungo il lato della gomma.
La donna mugolò. «Dannazione…». Raccolse un estintore da un contenitore di plastica blu, ne direzionò l’erogatore e premette la leva. Uno
spruzzo di vapore bianco coprì per un attimo il volto del poveraccio,
ma quando l’anidride carbonica si disperse, tornò a mostrarsi in tutta
la sua contorta gloria.
La pelle era gonfia e coperta di vesciche, di un violento, bruciante scarlatto; gli occhi velati di bianco opaco; i denti snudati, ingialliti e spaccati.
Non aveva più capelli, e attraverso la carne bruciata si intravedevano le
ossa nude del cranio e degli zigomi…
Non vomitare. Non vomitare.
Logan tornò a schiarirsi la gola. Spostò lo sguardo sul cimitero di macchine
bruciate. Lunghi, profondi respiri. Il lungo tetto di metallo ondulato del
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Thainstone Mart si intravedeva appena dietro agli alberi, in lontananza,
e quelle che sembravano le note di It’s Not Unusual di Tom Jones provenivano da una discoteca o da una qualche festa aziendale, che sarebbe
andata avanti tra balli e bevute fino alle ore piccole. E, una volta finita, un
poveraccio sarebbe dovuto rimanere sveglio per il resto della notte a raccogliere rifiuti e bottiglie vuote prima della successiva vendita di bestiame.
Il tecnico della Scientifica ripose l’estintore nella cassa con un tonfo
sordo. «È la gomma dello pneumatico: una volta che raggiunge la temperatura giusta, è quasi impossibile evitare che riprenda fuoco di continuo».
«Glielo tolga di dosso, allora».
«Lo pneumatico?». La donna buttò fuori una debole, gorgogliante
risata. «Prima che sia arrivata la Regina delle Nevi?»
«Il dottor Forsyth…».
«Pete il Vomitone non riuscirà neanche a dare un’occhiata da lontano a
questo povero stronzo». Abbassò lievemente le spalle. «Un vero peccato.
Era bello avere un patologo con cui si poteva effettivamente parlare…».
Ora che la gomma non bruciava più, altri odori raggiunsero le narici
di Logan, oltre la mascherina che indossava: escrementi, urina. Fece un
passo indietro.
Il tecnico annuì. «Puzza, vero? Non so lei, ma se fosse capitato a me…
se qualcuno mi avesse fatto questo… be’, me la sarei fatta sotto anch’io.
Doveva essere terrorizzato».
Una voce si levò nell’aria immobile della sera: uno di quegli accenti melodiosi tipici delle Highlands e delle isole. «Ispettore McRae? Mi sente?».
Logan si girò.
C’era una donna in piedi dietro al cordone esterno bianco e azzurro con
la scritta polizia, con il tailleur di lino grigio più grinzoso dello scroto
di un elefante. «Ispettore?». Sventolava una mano verso di lui, come se
stesse per partire in treno verso qualche piacevole destinazione, invece
di starsene in piedi su una piccola passerella di metallo accanto a un
uomo che era stato bruciato vivo.
Logan tornò indietro lungo il percorso di vassoi rovesciati fino a ritrovarsi nella zona circondata dal nastro della polizia. Si fece scivolare
sulle spalle il cappuccio della tuta, si sfilò gli occhiali protettivi, si tolse
la mascherina e se la ficcò in tasca.
La donna socchiuse gli occhi guardandolo, per poi prendere un paio
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di occhiali da una grossa borsa di pelle e indossarli, spostando dietro le
orecchie una massa di ricci castani. «Ispettore McRae?»
«Mi scusi, signorina, ma non saranno rilasciate interviste alla stampa
per il momento, quindi…».
«Sono il supervisore della scena del crimine». Gli tese la mano. «Sergente Lorna Chalmers». Un sorriso. «Sono stata appena trasferita dal
Nord. Ha presente? Sto investigando su quella rapina di ieri nel negozio
di alcolici a Inverurie, e sono alla ricerca della Land Rover che hanno
fatto schiantare contro la vetrina. Ricorda?».
No, non ne aveva la minima idea. Ma per lo meno spiegava il suo accento. Logan si sfilò i guanti di nitrile viola. «Sei stata tu a organizzare
il cordone?»
«E a far venire il medico legale di turno, il seb – o comunque lo chiamino
questa settimana – e anche il patologo: sia quello ufficiale che il rimpiazzo».
Arrogante.
Logan si sfilò la parte superiore della tuta, per poi appoggiarsi contro
i resti di una Polo Volkswagen. Il cofano a contatto con le sue natiche
non era semplicemente caldo. Era quasi bollente.
Il sergente Chalmers prese il taccuino da detective e lo aprì. «La chiamata è arrivata alle otto e trenta, anonima… be’, veniva da un cellulare,
ma si trattava di una scheda prepagata. Un uomo non identificato ha
detto che c’era un “tizio in fiamme con una gomma intorno al collo”
nelle vicinanze del Thainstone Mart».
Logan aggrottò la fronte. «Come mai non è stata la stazione locale a
prendere la chiamata?».
Lei sogghignò, mostrando due file di piccoli denti lievemente appuntiti.
«Chi dorme non piglia pesci».
Arrogante e anche ambiziosa. Be’, se era così che voleva giocarsela,
l’avrebbe accontentata. Accennò con un ampio movimento del braccio
alla serie di veicoli bruciati nei dintorni. «Fai identificare tutte queste
macchine. Voglio targhe, indirizzi e fedine penali dei proprietari sulla
mia scrivania entro domani mattina».
Lei gli rivolse un sorriso rigido e un cenno del capo. Sono determinata,
niente mi fermerà. «Subito, capo».
«Molto bene». Logan si scostò con un colpo di reni dalla Polo. «Puoi
cominciare da questa. Oppure non ti eri accorta che è ancora calda?».
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Il sorriso della donna si smorzò. «Davvero? Ah, è…».
«Stava bruciando, quando siete arrivati?»
«Io non…».
«Dettagli, sergente. Sono importanti».
«Ma stavo… ho pensato che il cadavere… stavo organizzando tutto
e…». Un violento rossore le salì alle guance. «Mi scusi, signore».
«Fai fare un ulteriore controllo ai tecnici, prima che vadano. Probabilmente non troveranno nulla, ma vale la pena di fare un tentativo». Si
sfilò anche la parte inferiore della tuta, poi imprecò quando una versione
metallica e un po’ distorta della Marcia Imperiale di Star Wars si fece
sentire dal suo cellulare. Non ebbe neanche bisogno di controllare il
nome sullo schermo per sapere di chi si trattava.
Premette il pulsante per accettare la chiamata. «Cosa c’è adesso?».
Ci fu una pausa, poi la voce rauca del commissario Steel gli vibrò nell’orecchio. «Hai ancora la suoneria di quel fottuto Darth Fener collegata al
mio numero? Perché non è affatto divertente!».
Logan premette il pulsante per silenziare la conversazione. «Sergente,
mi pareva di averti chiesto di recuperare le targhe di questi veicoli».
La Chalmers mantenne lo sguardo sulla punta delle sue scarpe. «Sì,
signore».
Lui sorrise. Be’, non l’avrebbe sicuramente ucciso darle un contentino,
a quel punto. «Hai fatto un buon lavoro, con questa scena: continua
così». Tornò a premere il pulsante. «E ora fuori dai piedi».
Un ringhio rabbioso si udì dal ricevitore. «Non osare dirmi di levarmi
dai piedi! Sono a capo del maledetto cid, non un cazzo di…».
«Non dicevo a lei, ma al sergente Chalmers». La scacciò con un cenno,
poi spostò il cellulare sull’altro orecchio, tenendolo fermo con la spalla
mentre si liberava della tuta bianca. «Cosa vuole?»
«Oh…». Un colpo di tosse. «Bene. Dov’è quel dannato fascicolo?»
«Nel compartimento dei documenti da evadere. Si prende mai la briga
di guardarci dentro, ogni tanto? O ha soltanto…».
«Non sto parlando della tabella degli straordinari, idiota, ma dell’analisi
del budget».
«Oh, pensavo che stesse parlando del mio lavoro. Sa, quello che in
teoria sarei tenuto a fare, al contrario del suo lavoro».
«Mi basta avere tutta questa merda da sistemare senza che ti ci metta
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anche tu a fare una tirata ogni volta che ti viene chiesto di fare qualcosa
di semplice e…».
«Senta, sono sulla scena di un crimine, quindi possiamo saltare i convenevoli e venire al vero motivo della telefonata? Era soltanto per urlarmi
contro? Perché se è così, può…».
«E che mi dici di quella dannatissima coppia di adolescenti scomparsi?
Quando pensi di ritrovarli, eh? O forse sei troppo impegnato a pavoneggiarti con…».
«Quale parte di “sono sulla scena di un crimine” non le è chiara?»
«…quei poveri genitori spaventati a morte!».
«Per l’amor del cielo, hanno entrambi diciotto anni, non sono ragazzini,
ma adulti». Si tolse a fatica gli stivali di gomma blu. «Sicuramente adesso
si saranno chiusi in qualche edificio abusivo di Edimburgo. Scommetto
quello che vuole che ci stanno dando dentro come ricci su un qualche
lurido sacco a pelo».
«Non è una scusa per battere la fiacca! La dannata madre della ragazza
ha chiamato di nuovo. Ti sembra che non abbia di meglio da fare che stare
dietro al tuo culo impallinato tutto il giorno?». La sentì tirare su rumorosamente con il naso dall’altra parte del telefono. «Datti una mossa,
dannazione: non hai fatto nulla per quella rapina alla gioielleria di ieri
sera, c’è un numero incredibile di crimini a sfondo razzista… e già che ci
siamo: la tua maledettissima madre!».
«Ah, ecco: ci risiamo. Era questo il vero motivo della chiamata». Logan
accartocciò il materiale protettivo e lo gettò nel contenitore dei rifiuti
attaccato ai resti di un’Audi. «Non sono il suo responsabile, d’accordo?»
«Di’ a quella stronza che…».
«Le avevo detto di non invitarla al saggio di danza di Jasmine, ma mi
ha dato ascolto, per caso? Nooo».
«…quel dannato vestito tagliato da Attila l’Unno! E un’altra cosa…».
Un’enorme Porsche Cayenne 4×4 schizzata di fango si fermò con uno
stridio e un ringhio del motore sul sentiero accidentato, dietro al furgone
Transit del seb. Con uno scatto secco, i fari si spensero, lasciando vedere
la persona al posto di guida illuminata dalle luci del cruscotto. Aveva
le labbra tese in una linea severa, le narici dilatate e gli occhi a fessura.
Fantastico, sarebbe stata una di quelle serate.
«…nell’orecchio con uno stecco!».
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Logan sollevò una mano in un cenno di saluto verso la Porsche. «Devo
andare, è arrivato il patologo numero due».
«Laz, ti avverto, o fai…».
McRae attaccò.
La dottoressa Isobel McAllister si premette entrambe le mani contro
le reni e sbuffò. La sua tuta bianca era rigonfia sul davanti, come se ci
avesse nascosto un cuscino. Tirò indietro il cappuccio dal bordo elastico,
mostrando un volto paffuto e roseo, incorniciato da un taglio corto e
scalato che sembrava più pratico che alla moda. «Mi sta davvero chiedendo l’ora del decesso?».
Il sergente Chalmers annuì, con la biro sospesa sopra un foglio bianco
del suo taccuino.
Isobel si rivolse a Logan. «È nuova, vero?»
«Appena trasferita dal Nord».
«Che Dio ci salvi dalla Brigata dei Berretti di Tartan». Isobel si aprì il
davanti della tuta. «A quanto pare, il cadavere è stato incravattato: gli
hanno piazzato uno pneumatico sopra la testa e un braccio, in modo che
non potesse liberarsene, poi la superficie esterna della gomma è stata
cosparsa di paraffina e incendiata. La morte è causata solitamente dal
calore e dall’inalazione del fumo, che conducono allo shock e all’arresto
cardiaco. Ci possono volere fino a venti minuti». Si passò una mano sulla
fronte sudata. «È un metodo di esecuzione piuttosto diffuso in alcuni
paesi africani».
Il sergente Chalmers scribacchiò qualcosa sul taccuino. Poi alzò lo
sguardo. «Anche in Colombia. Ho visto un documentario in cui i membri
di un cartello appendevano con una catena un tizio sopra un cavalcavia,
riempivano la gomma di benzina e le davano fuoco. Così tutti quelli che
passavano là sotto vedevano la vittima appesa che bruciava, e sapevano
cosa sarebbe successo se avessero pestato i piedi al…». Si schiarì la gola.
«Perché mi state guardando tutti?».
Isobel scosse la testa. «Comunque, ho…».
Un clacson risuonò nello spiazzo.
La donna alzò lo sguardo al cielo per qualche istante. Digrignò i denti.
Ci riprovò: «Come stavo dicendo, ho…».
Breeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeep!
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«Oh, per la miseria, non ce li posso proprio avere cinque minuti di
tregua, vero? Neanche cinque minuti!». Puntò l’indice in direzione della
sua Porsche 4×4, prese un profondo, tremulo respiro e sbottò: «sean
joshua miller-mcallister, piantala subito!».
Silenzio.
Un visetto fece capolino dal cruscotto, occhi enormi sotto a una massa
di sporchi capelli biondi. Poi il lampo di un sogghigno sornione.
Breeeep! Breep! Breeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeep!
Isobel si sfilò rabbiosamente i guanti e li gettò a terra. «Visto cosa succede? Visto? E pensate che Ulrika sarà arrestata per questo? Ma certo
che no: sarà già tanto se le molleranno uno schiaffetto sulla mano». La
dottoressa si avviò a passi rapidi verso la macchina. «sei nei guai, giovanotto!», esclamò, mentre si liberava degli strati protettivi.
Il sergente Chalmers spostò il peso da un piede all’altro. «E quello
era…?»
«Hanno scoperto che la baby-sitter rubava in casa». Logan prese il
cellulare. «E considerati fortunata: l’ultima persona che le ha chiesto
l’ora di un decesso è stata costretta ad aiutarla a prendere la temperatura
della vittima. E il termometro non viene infilato in bocca, in questi casi».
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capitolo 3
I moscerini giravano e ronzavano intorno a uno dei fari della Scientifica,
scintillando come minuscoli diamanti assetati di sangue. In lontananza,
Tom Jones aveva lasciato il posto a Dancing Queen degli abba. Logan
si premette due dita contro l’orecchio e si allontanò di un paio di passi
dai rumorosi generatori diesel. «Cosa? Non ho sentito».
All’altro capo della linea, il commissario Steel alzò leggermente la voce.
«Ho detto, cosa ti fa pensare che si tratti di un caso legato alla droga?»
«Potrebbe anche non esserlo, ma sembra un’esecuzione. Ne sapremo di
più non appena il cadavere sarà identificato: scommetto che verrà fuori
che si trattava di un piccolo spacciatore di Manchester o Birmingham».
«Dannazione, proprio quello che mi serviva: un bastardo su di giri che
elimina gli spacciatori rivali facendone una forma d’arte contemporanea».
Silenzio. Poi un respiro profondo. «Non mi farò invischiare in questa
storia. Neanche per sogno».
«Pensavo che fosse questo il compito di chi è a capo del cid».
«A volte la merda scorre verso l’alto, Laz, e su questo caso c’è scritto a
chiare lettere con il pennarello nero indelebile “primo dirigente”. Lascia
che di lui si occupino i membri della stampa».
Il tecnico che l’aveva portato a vedere il cadavere gli passò davanti,
mentre sosteneva un’estremità di quella che sembrava una cassa avvolta in chilometri di spessa plastica blu. Era grande abbastanza da contenere un uomo inginocchiato e incatenato a un palo di metallo. Gli rivolse una smorfia contratta. «Muoviamoci, eh? È dannatamente pesante…».
«E per “membri” intendo…».
«Devo andare, il procuratore generale vuole vedermi». Non era vero,
se n’era andata quasi mezz’ora prima.
«Oh, no, neanche per idea, non andrai da nessuna parte finché non mi
dirai a che punto siamo con quella dannata rapina alla gioielleria. Speri
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di poter scaricare a qualcun altro tutti gli altri casi che ti competono solo
perché ora hai per le mani una succosa guerra tra gang?»
«Le indagini procedono e…».
«Hai fatto già tutto quanto cazzo potevi, vero?»
«Sono stato su una maledetta scena di un crimine!».
I tecnici della Scientifica trasportavano i loro contenitori di plastica blu
attraverso il cimitero di veicoli bruciati, imprecando e borbottando per
tutto il tragitto, mentre i loro piedi sollevavano una nuvola di polvere
bianca dal terreno arido.
«E di chi è la colpa? Sei un ispettore, ora: comportati come tale! Parcheggia
il culo dietro alla scrivania e organizza le cose: manda qualche altro stronzo
a giocare al tuo posto sulla scena».
Brutta, fetida, rugosa, bastarda… «È lei che mi hai ordinato di venire
qui! Non ero neanche in servizio, stavo cenando!». Staccò il cellulare
dall’orecchio e lo fissò con rabbia. Concentrati abbastanza e la sua testa
esploderà come un bubbone maturo dall’altra parte della linea. bang!
Materia cerebrale e schegge di cranio dappertutto.
«Ehm… capo?». Il sergente Chalmers gli toccò cautamente una spalla,
con un’espressione accigliata che le stampava una smorfia su metà del
viso. «Tutto bene? È diventato viola in faccia…».
Logan digrignò i denti, riportando il cellulare all’orecchio. «Io e lei
riparleremo di questa faccenda domani».
«Ci puoi scommettere il culo che lo faremo. Non sono…».
Chiuse. Guardò torvamente il telefono per qualche istante, poi premette con forza il pulsante di spegnimento. Se l’avesse lasciato acceso,
lei avrebbe richiamato, ancora e ancora, fino a fargli perdere del tutto
la ragione e a fargli commettere un omicidio.
Trasse un profondo respiro e lo esalò sibilando dal naso. «Giuro su
Dio…».
La Chalmers sollevò il proprio taccuino come fosse uno scudo. «Abbiamo il numero di telaio di tutti i veicoli, e indovini un po’? Ho trovato
la mia Range Rover». Una pausa. «Sa, la Range Rover che si vede nella
registrazione della telecamera a circuito chiuso? Quella che è entrata
nella vetrina del negozio di alcolici?»
«E per la Golf?»
«Ne è stato denunciato il furto alle dieci e trenta di questa mattina.
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Secondo la Centrale, il proprietario dice di essere andato in macchina
alla friggitoria di Kintore per cena venerdì sera, poi è tornato indietro
e ha parcheggiato fuori dalla casa di sua madre. Quando si è svegliato,
era sparita». Controllò gli altri appunti che aveva preso. «La macchina,
non la casa della madre».
«Vai a parlarci. Digli tutto, dannazione. Scuotilo un po’ e vediamo che
ne viene fuori».
«Sì, signore». La Chalmers scribacchiò ancora qualcosa sul taccuino,
per poi tornare a infilarlo in una tasca della giacca. «A proposito, avevo
ragione riguardo a quella storia del cartello colombiano. Avevo un ragazzo
che scaricava i video di quei poveracci appesi sul cavalcavia, in fiamme
come se fossero delle… delle orribili decorazioni natalizie. E si eccitava
anche un sacco, dopo che li guardava». Si ripulì le mani sul davanti della
giacca, per poi sfregarsi i polpastrelli tra loro, come se fossero sporchi.
«L’ho mollato: troppo inquietante».
Logan la fissò senza parlare.
«Ah… Troppe informazioni dall’ultima arrivata. D’accordo». La Chalmers arretrò di un paio di passi. «Andrò a cercare quel… sì». E se ne
andò.
«Lo so, lo so, mi dispiace». Logan passò il cellulare da un orecchio
all’altro, bloccandolo contro la spalla, mentre faceva affrontare all’ammaccata fiat Punto la rotatoria di Clinterty, tornando indietro lungo la
strada a due corsie che portava ad Aberdeen. «Sai come è fatta».
Samantha sospirò. «Logan McRae, non dovresti più permetterle di calpestarti in questo modo. Lo sai. Ne abbiamo già parlato».
Lui cambiò marcia e premette il piede sull’acceleratore. Il motore diesel
della Punto tossì e vibrò, faticando a portare il veicolo su per la collina.
«Farò un po’ tardi».
«Pfff… per questa volta ti perdono».
«Bene. Farò…».
«A una condizione, però: i piatti li lavi tu».
«Perché è sempre il mio turno di lavare i piatti?»
«Perché sei così tirchio che non ti sei mai preso la briga di comprare una
lavastoviglie». Ci fu una pausa. «O una macchina decente».
Una Toyota iQ lo superò sulla corsia esterna. Un motore che non
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arrivava a mille di cilindrata, eppure era comunque più veloce della sua
dannata Punto.
«Non sono tirchio. Sono soltanto…».
«“Cauto” è un sinonimo di “tirchio”. Non lo so davvero perché continuo a
starti dietro». Ma in quelle parole sembrava nascondersi un sorriso. «Non
fare troppo tardi. E la prossima volta non farti mettere i piedi in testa!».
«Promesso». Logan chiuse la telefonata e armeggiò con i pulsanti,
finché le parole “sergente rennie” non comparvero sullo schermo.
Uno squillo… un altro… un altro ancora… E poi: «Mmmph, nnnng…».
Uno sbadiglio. Un mugugno. «Che ora è?».
Logan controllò. «Sono appena passate le dieci».
«Urgh…». Si udirono dei rumori indefiniti. «Il mio turno comincia a
mezzanotte».
«Sì, be’, io avrei dovuto staccare alle cinque, quindi credo di essere io
il vincitore del gioco “Chi può lamentarsi della giornata”, non credi?
Dimmi della rapina alla gioielleria».
«Aspetti…». Un tonfo, seguito da un rumore che sembrava quello di
qualcuno che stesse versando una bottiglia di limonata in una vasca
mezza piena. «Unnnng…».
Santo cielo.
Logan fece una smorfia. «Non mi dire che sei in bagno!».
Una lunga pausa decisamente sospetta. Poi: «Non sono in bagno, sono…
in cucina… mi sto facendo una tazza di tè».
Disgustoso, piccolo bastardo.
«Voglio una lista di sospetti per quel furto, prima che stacchi dal turno,
ci siamo intesi? Vai a investigare nei banchi di pegni, dai ricettatori e
da qualunque altra canaglia che abbiamo sbattuto dentro per riciclaggio».
«Ma è notte fon…».
«Non me ne frega niente se dovrai trascinarli giù dal letto: fammi avere
quella lista. O, ancora meglio, direttamente un arresto!».
«Ma sono…».
«E, a proposito, che sta succedendo con tutti quei crimini a sfondo
razzista?»
«Ma non… io…». La sua voce si spezzò e divenne un lamento a tutti
gli effetti. «Ma cosa posso fare? Ho il turno di notte!».
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«Rennie, sei…». Logan tacque. Sprofondò un poco nel sedile, mentre
finalmente la Punto superava l’interminabile salita. Non era giusto, in
effetti: prendersela con qualcun altro, solo perché la Steel gli aveva fatto
passare un brutto quarto d’ora. «Scusami. Lo so. È solo che… avanti,
dimmi soltanto a che punto siamo».
«Non parla nessuno. Tutte le vittime dicono che sono cadute dalle scale,
e roba simile. Perfino il tizio con entrambe le caviglie rotte non ha fatto
un fiato».
«E sono tutti cinesi?»
«L’ultimo è coreano. Con lui fanno quattro maschi orientali nell’ultimo
mese e mezzo».
«Bene… fai quello che puoi».
«Sta tornando all’ovile?»
«Vado a parlare con un tizio riguardo a una possibile guerra interna
nel narcotraffico».
«Capito». Un altro sbadiglio. Poi un inequivocabile gorgoglio. «Oops.
Ho… cioè, Emma deve aver appena… ehm… scaricato la lavatrice?».
La giovane donna in camice da infermiera lo guardò torvamente,
con una mano sul pomolo della porta. «Non mi piace affatto. È tardi.
Non dovrebbe essere qui». Aveva le sopracciglia unite al centro, che
disegnavano una spessa riga scura su quel viso da porridge coagulato, e
sembravano enfatizzare ulteriormente la frangia dritta dei suoi capelli
biondi ossigenati. Era bassa, ma decisamente robusta, con bicipiti che
facevano pensare a un Braccio di Ferro sotto steroidi. Forte. Le spalle
che sfioravano la graziosa carta da parati a righe del corridoio.
Logan si strinse nelle spalle. «Lui ha detto che andava bene, no?»
«A me questa faccenda non piace». Aprì del tutto la porta, scostandosi,
il viso corrucciato intorno a due grandi occhi verdi. Agitò l’indice davanti
al naso dell’ispettore. «La avverto: se darà fastidio a Mr Mowat…».
Una voce sottile e tremante si fece sentire dall’interno: un misto dell’aristocratico inglese insegnato nelle scuole private e del tipico accento di
Aberdeen, scricchiolante come ghiaia. «Chloe, è Logan?».
L’indice ammonitore picchiettò l’ispettore sul petto, mentre la voce
della donna si abbassava a un ringhio cupo: «Io l’ho avvertita». Poi si
sforzò di sorridere. Sarebbe stato carino affermare che quel sorriso era
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in grado di trasformarle il viso, ma purtroppo non era così. «È appena
arrivato, Mr Mowat».
«Be’, non startene lì impalata, fallo entrare».
La stanza doveva misurare almeno nove metri di lunghezza. Una vetrata
che prendeva un’intera parete dava su un giardino immerso nell’oscurità,
con qualche cespuglio o albero illuminato da fari colorati. Wee Hamish
Mowat premette in avanti la leva sul bracciolo della propria sedia a rotelle
e si spostò sull’enorme tappeto indiano che copriva il pavimento. La sua
pelle cerea era punteggiata di macchie senili, e sembrava troppa per la
sua struttura scheletrica, mentre i capelli erano così sottili da rivelare per
intero la pelle del cranio al di sotto delle rade ciocche grigie. Una flebo
era agganciata alla sedia, e il sottile tubicino di plastica spariva dietro il
polso. Ondeggiò, quando l’uomo tese una mano tremante.
Logan la strinse con attenzione. Era molto calda, come se qualcosa gli
bruciasse violentemente sotto la pelle. «Hamish, come stai?»
«Come un cane fottuto. E tu?»
«Sono sulla buona strada per raggiungerti».
Il vecchio annuì, facendo tremare le pieghe di pelle che gli pendevano
sotto il mento. Poi prese un fazzoletto da una tasca del cardigan grigio
che indossava e si asciugò gli angoli della bocca. «Sei in servizio, o accetti un bicchierino?». Accennò a una grande vetrina piena di bottiglie.
«Chloe, sii gentile e prendi quella bottiglia di Dalmore… no, l’altra:
l’Astrum. Sì, quella».
L’infermiera la posò senza molta grazia sul tavolino e lanciò un altro
sguardo torvo a Logan. «È tardi, e dovrebbe già essere a letto, Mr Mowat».
Wee Hamish le sorrise. «Vai pure, cara, ti chiamerò se ne avrò bisogno».
«Ma Mr Mowat, io…».
«Chloe». Un’ombra dell’acciaio di un tempo gli indurì il tono. «Ho
detto che puoi andare».
Lei annuì. Sbuffò vagamente verso Logan, poi si girò e uscì dalla stanza,
sbattendo quasi la porta alle proprie spalle.
Wee Hamish scosse il capo. «La figlia piccola di mio cugino Tam. Be’,
io la chiamo “piccola”… Comunque, è una persona di cuore».
Logan prese due tumbler di cristallo dalla vetrinetta. «Non starai parlando di Tam “Grand’uomo” Slessor, vero?»
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«Gli ho promesso che mi sarei preso cura di lei, quando è stato beccato
per quel container di sigarette contraffatte». Wee Hamish armeggiò con
il tappo della bottiglia di whisky. «Se vuoi dell’acqua, ce n’è una bottiglia
in frigorifero».
«Allora, come se la sta cavando Tam Grand’uomo, di questi tempi?»
«Non troppo bene: l’abbiamo seppellito un mese fa». Sospirò. «Senti,
puoi svitare questo tappo? Le mie dita…».
Logan lo accontentò. «Sai nulla del cadavere che abbiamo trovato nei
pressi di Thainstone, oggi?». Versò un bel po’ di liquido ambrato in un
bicchiere, e appena due dita nell’altro, una dose che non avrebbe dato
problemi per guidare, in seguito. E passò il bicchiere più pieno a Wee
Hamish.
«Grazie». L’uomo sollevò il tumbler, mentre il whisky all’interno tremolava come la sua mano. «Alla nostra».
Logan fece tintinnare il proprio bicchiere contro quello del vecchio.
«Chi è uguale a noi?», replicò, secondo un vecchio brindisi scozzese.
La risposta fu seguita da un sospiro. «Ben pochi… e sono tutti morti»,
concluse Wee Hamish, come voleva la formula tradizionale. Prese un
sorso. «Maschio non identificato, incatenato a un palo e… credo che il
termine giusto sia “incravattato”».
«Pensiamo che sia un’esecuzione legata al traffico di droga».
«Hmm… Che ne pensi del whisky? Invecchiato quarant’anni, quasi
millecinquecento sterline a bottiglia». Un lieve sorriso sollevò gli angoli
delle sue pallide labbra. «Non te la puoi portare dietro».
Logan ne prese un sorso. Lo fece circolare in bocca fino a far intorpidire
le gengive e a sentire soltanto sapore di chiodi di garofano, noce moscata
e caramello bruciato. «Sta per scoppiare un’altra guerra tra gang?»
«Ci ho pensato su parecchio. Be’, del resto è normale, no? Quando
arriverà il mio momento? Quale sarà l’eredità che lascerò? Cosa mi
lascerò alle spalle, dopo la morte?»
«Dobbiamo fare in modo di fermarla, prima che peggiori».
«Non mi fraintendere, Logan: non mi vergogno di ciò che ho fatto, o di
quello che ho fatto fare ad altri, ma… voglio… qualcosa. Ho fatto istituire
ai miei avvocati delle borse di studio all’Aberdeen University e all’rgu,
ho aiutato tanti ragazzi a diventare medici e infermieri, ho sponsorizzato
programmi di vaccinazione nel Terzo Mondo, pagato per la costruzione
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di pozzi e per l’installazione di zanzariere negli orfanotrofi… ma non
mi sento diverso».
Sorseggiò cautamente il whisky. Poi aggrottò la fronte, alzando lo
sguardo verso il soffitto. «Forse dovrei tentare con dei grandi lavori
pubblici? Per esempio il progetto di Ian Wood per gli Union Terrace
Gardens, oppure quel Trump e i suoi campi da golf? Potrei lasciare alla
città qualcosa per cui essere ricordato…». Sogghignò. «A parte le storie
dell’orrore che si raccontano i tuoi colleghi».
«Sai chi è stato? Puoi scoprirlo? Perché non appena i media fiuteranno
l’opportunità, questa storia sarà su tutti i notiziari e i giornali».
Wee Hamish lanciò uno sguardo all’ampio giardino. O forse stava
fissando il proprio riflesso nella vetrata. Difficile a dirsi. «A dire il vero,
Logan, preferirei non concentrarmi su quel lato degli affari. Una volta
conoscevo quel genere di operazioni dall’interno, ma… be’, mi stanco
molto più di un tempo, ormai». Si strinse nelle spalle, che si sollevarono, ossute, al di sotto del cardigan. «È Reuben che si occupa del nostro
ramo farmaceutico, al momento. Come se si occupasse di chissà quante
cose…».
Silenzio.
«Logan, tu lo sai che per me Reuben è come un figlio, che Dio benedica
quella violenta testa calda, ma è soltanto un soldatino, un esecutore.
Non sarà mai un capo». Prese un altro sorso tremante di whisky. «Se lo
lascerò al comando, scoppierà una guerra».
«Non sarò io a prendere il suo posto». Logan posò il bicchiere sul
tavolino.
«Lo so, lo so. Ma se non posso lasciare gli affari in mano a Reuben,
che altro dovrei fare? Tu non ne vuoi sapere, Reuben non è all’altezza;
dovrò forse vendere tutto a Malcolm McLennan?»
«Malk la Scure è già abbastanza pericoloso senza donargli anche Aberdeen su un piatto d’argento. Ha già il controllo di tutti i territori a sud
di Dundee».
La sedia a rotelle emise dei flebili pigolii, poi arretrò di qualche metro,
prima di ruotare su se stessa per mettersi davanti a Logan. Wee Hamish
non sorrideva più, e un cipiglio severo aveva scavato colline e vallate sulla
pallida pelle della sua fronte. «Mi impegnerò a scoprire chi è il responsabile di quell’esecuzione sommaria. E non preoccuparti, se è stato uno
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dei miei uomini, mi assicurerò che riceva… una sanzione disciplinare.
Non è questa l’eredità che voglio lasciare».
All’esterno, la Punto di quinta mano di Logan era illuminata da una
lampada di sicurezza. Un uomo enorme era appoggiato al cofano, con le
braccia simili a tronchi conserte sull’ampio petto. Il tre pezzi che indossava sembrava nuovo di zecca, con il gilet teso sul suo vasto addome. Le
scarpe erano nere e scintillanti. Il volto mostrava un mosaico di cicatrici
e grasso, uniti da una barba brizzolata. Il naso era così massacrato e
schiacciato da far ritenere un miracolo che fosse ancora lì.
Logan gli rivolse un cenno del capo. «Reuben».
Non ci fu risposta.
Okay… l’ispettore pescò le chiavi da una tasca. «Pensavo fossi più un
tipo da tuta e stivali con la punta di metallo, a dire il vero».
Reuben si limitò a fissarlo. Poi, lentamente, si scostò dal cofano.
Le sospensioni della Punto si sollevarono di quasi dieci centimetri.
Logan aprì le spalle e sollevò il mento.
«Avanti, sputa il rospo».
Ma l’uomo si voltò e si allontanò nel buio, facendo scricchiolare la
ghiaia sotto le scarpe. Non disse una sola parola.
L’ispettore restò immobile finché non lo vide sparire, poi scivolò al
posto di guida. Il mondo era pieno di matti fottuti.
Le finestre della roulotte accanto brillavano di una chiara luce giallastra nell’oscurità, e Logan scese dalla Punto, mentre il motore ancora
borbottava, spezzando il silenzio. Dall’altra parte del fiume Don, le luci
del grosso supermercato Tesco scintillavano attraverso gli alberi.
Un rumore, alle sue spalle…
Si voltò di scatto, con le mani già chiuse a pugno.
Niente.
Il cimitero di Grove era una massa di sagome scure, che risalivano lungo
la collina fino alla ferrovia e alla strada a due corsie sulla sua sommità.
Le prime tre file di lapidi si vedevano appena, alla luce arancione dei
lampioni. Subito dopo, c’erano soltanto il buio e il silenzio. Si sentiva
unicamente il brusio soffocato del traffico notturno intorno alla rotonda
di Haudagain.
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«C’è nessuno?».
Resta immobile, trattieni il respiro, ascolta…
Niente, era assolutamente solo. Il che era un bene: nessuno l’aveva visto
comportarsi come il protagonista di un film dell’orrore di infima categoria.
Idiota.
Logan trovò le chiavi di casa e… si fermò. Un altro mucchietto d’ossa era
appeso alla maniglia della porta. Altri ossicini di pollo, legati a un nastro
su cui spiccavano macchie grigio-verdastre sotto la fredda luce al neon.
«Molto divertente». Sfilò il nastro dalla maniglia e lo gettò tra i cespugli
che separavano il minuscolo parcheggio delle roulotte dall’argine del
fiume. «Piccoli bastardi».
Solo perché lo stabilimento della Grampian Country Chickens si trovava dall’altra parte della strada, non significava per forza che qualcuno
dovesse approfittarne per fare dei macabri scherzi.
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