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Il primo giorno di scuola dell`insegnante

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Il primo giorno di scuola dell`insegnante
Strumenti
di Alessandro Siviero
docente
di Economia, Marketing,
e Comunicazione
in collaborazione con
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SETTEMBRE/OTTOBRE
2006
Il primo giorno di scuola
dell’insegnante
Cristina Vettoretto
esperta
di Mediazione culturale
L’esperienza degli insegnanti cinesi non è poi così “lontana”:
come creare fin dal primo giorno un clima di collaborazione
utilizzando le possibili diversità culturali
Un’occasione che non si può perdere
L’anno scolastico si compone di una serie di eventi che per il loro ciclico ripetersi possono sembrare poco importanti. In realtà, dal primo incontro con la classe fino alla conclusione delle lezioni, passando attraverso i colloqui con i genitori, l’anno scolastico
dell’insegnante è scandito nel tempo da eventi che creano presupposti e determinano il
grado di efficacia del nostro insegnamento, il nostro livello di soddisfazione personale e il livello di preparazione e soddisfazione dei nostri alunni.
Quello che segue è il primo di una serie di articoli che hanno per obiettivo di accompagnare l’insegnante dal primo all’ultimo giorno di scuola con una serie di proposte e
consigli che nascono integrando le esperienze dei docenti (di differenti nazionalità e
cultura) e la teoria: questo permette di rendere riproducibili soluzioni che altrimenti
sarebbero di difficile applicazione al di fuori del loro contesto.
In questo articolo partiremo con le esperienze della “lontana” Cina: i racconti degli
insegnanti cinesi sono tratti e adattati dal manuale di insegnamento che viene consegnato dal governo a ogni insegnante e che è scritto con il contributo delle esperienze
narrate dagli stessi docenti.
Due sono gli argomenti considerati:
L’importanza di questi due temi è data dal fatto che al primo incontro si creano le condizioni e le aspettative del futuro rapporto con la classe, condizioni e aspettative che
difficilmente potranno essere modificate in seguito.
La prima impressione è la nostra prima, e a volte unica, possibilità di far capire agli altri
chi siamo e il suo risultato è spesso duraturo. L’opinione di persone appena conosciute si
basa su una serie limitata di informazioni, come il linguaggio del corpo e il modo di conversare.
Questo articolo aiuta a riconoscere eventuali dissonanze tra come l’insegnante crede di
presentarsi e come gli altri lo vedono e offre suggerimenti e soluzioni per dare il meglio in
ogni nuova situazione, evidenziando gli elementi che “costruiscono” una prima impressione positiva.
Il primo incontro assume un’importanza ancora maggiore in considerazione del fatto
che la multiculturalità tende a crescere all’interno delle classi e quindi gesti, parole ed
efficacia dell’insegnamento devono essere considerati alla luce di questa situazione a
volte curiosa.
Emergono in questo contesto alcune caratteristiche dell’insegnante che possono rivelarsi fondamentali in quanto invitano a considerare le “proprie radici” non come scudo,
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il primo incontro con la classe,
la comunicazione in un ambiente dove sono presenti ragazzi e ragazze di culture e
paesi differenti.
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ma come riferimento per adattarsi all’interlocutore con le gestualità, le parole e gli atteggiamenti: la “differenza” può essere un’ottima leva non per allontanare ma per avvicinare e per vivere la diversità non come un difetto bensì come un elemento che permette
di accrescere le proprie potenzialità.
1.
Comunicare e insegnare
Ogni persona ricorda quando era studente e a ognuno (fatti salvi gli studenti davvero
fortunati!) è capitato di avere un insegnante preparatissimo nella sua materia ma non in
grado, purtroppo, di stabilire con gli allievi un rapporto che permettesse loro di apprezzare o semplicemente imparare gli argomenti delle sue lezioni.
Quanti di noi d’altra parte, una volta “diventati” insegnanti, non hanno sognato di essere maestri di vita e di essere capaci di trasmettere emozioni e passione oltre che essere
docenti molto preparati?
È la capacità di comunicare a far coincidere il nostro proposito con il nostro risultato.
Il racconto
“E
ro responsabile del corso di pedagogia e psicologia presso le scuole medie superiori. Dato
che queste lezioni non erano caratterizzanti dell’indirizzo di specializzazione della
scuola, molti studenti non sembravano provare apparentemente alcun interesse.
La mia unica soluzione per stimolare il loro impegno allo studio di queste materie era farne
comprendere l’importanza. Per questo, alla prima lezione di pedagogia e psicologia parlai così:
«Ragazzi, come prima cosa non voglio preoccuparmi di spiegarvi la lezione, desidero prima di
tutto sottoporvi una domanda: mio figlio adora mangiare pesce. Ditemi, che cosa devo fare?»
Gli studenti ascoltarono per vedere dove sarei arrivato e alcuni dissero:
«Gliene compri un po’ di più!»
Replicò un altro studente: «No, non va bene, la cosa migliore sarebbe insegnargli a pescare».
«Bene» – continuai io – «usando un antico modo di dire “per ottenere del pesce non c’è niente di meglio che procurarselo da soli”, ai miei studenti che in futuro volessero diventare insegnanti, ditemi, che cosa dovrei insegnare?»
«Gli insegni nozioni di didattica!» risposero gli studenti all’unisono.
«Giusto! La didattica però deve naturalmente essere supportata da un sapere sufficiente e se
il sapere non è supportato da un metodo allora è inutile. Il nostro istituto non è uguale a un’altra scuola, perciò deve insegnare agli studenti un metodo didattico e questi metodi si rispecchiano nelle lezioni specifiche di pedagogia e psicologia e nelle lezioni di didattica.»
Arrivati a questo punto i miei studenti avevano già compreso il motivo reale del mio iniziale
«desidero sottoporvi».
Grazie al fatto che mi sono impegnato al massimo per far conoscere e comprendere a fondo le
mie lezioni, ho potuto stimolare il loro impegno nello studio di queste materie; quindi, insegnando pedagogia e psicologia, mi è capitato di incontrare raramente una situazione di scarso interesse da parte degli studenti.
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Insegnare una materia o insegnare la propria materia?
Nonostante l’episodio reale (raccontato orgogliosamente dal professor Ou Gui Rong)
sia accaduto in una scuola media superiore cinese, quindi in un contesto sociale e
scolastico molto diverso da quello che affronta l’insegnante in Italia (sia per il ruolo
che riveste il professore sia per il ruolo dell’alunno, più vicino al “discepolo” che allo
“studente” per come lo intendiamo noi) possiamo trarre degli elementi di ragionamento realmente interessanti sulla capacità di “rivestire” i contenuti con la propria
personalità.
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L’insegnante, proponendo agli studenti un problema riguardante la vita comune, sostiene di avere stimolato la loro capacità di ragionamento oltre che il loro interesse per lo
studio.
Se, in una cultura didattica orientale, l’insegnante riesce a usare la propria “sfera privata” per coinvolgere lo studente, immaginiamo quale grande risultato potrebbe ottenere
un’insegnante italiano che è cresciuto e cresce i propri alunni in un contesto sociale
dove vi è libertà di espressione e di pensiero (ascoltando le esperienze degli insegnanti
cinesi si diventa più consapevoli di quanto viviamo questa libertà spesso senza accorgersi delle opportunità che ci offre).
Il professor Ou Gui Rong, come se fosse un burattinaio, vuole dominare la situazione
in cui avviene l’apprendimento. Sa esattamente da dove deve partire e dove vuole arrivare e non è di sicuro il possibile pregiudizio degli studenti sull’importanza della materia a intimorirlo.
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È chiaro quindi che la ricchezza interiore di una persona e la sua capacità di utilizzarla permettono a un insegnante di andare oltre il semplice passaggio di nozioni.
Utilizzando questo approccio didattico, rivolto a creare dei presupposti positivi, prima
di passare al trasferimento di contenuti, si possono ottenere risposte inaspettate anche
da allievi che normalmente sarebbero sottovalutati.
Essere un “buon insegnante” significa trasmettere diversi contenuti attingendo al pozzo
delle proprie esperienze. La metodologia didattica cinese, molto antica anche se riformata di recente, in questo caso è un ottimo termine di paragone perché da sempre utilizza per questo scopo esperienza e coinvolgimento.
Caricare un qualsiasi contenuto didattico di una valenza quotidiana, emotiva, sentimentale non può che favorire la comunicazione e l’apprendimento.
La materia diventa così il punto di incontro tra insegnante e allievo.
E mentre l’allievo può crescere e conoscere attraverso lo studio, allo stesso modo l’insegnante ha la possibilità di “reinventarsi” e arricchirsi attraverso il confronto con lo studente che avrà sempre e ogni giorno un’opinione diversa e più matura su ciò che è
oggetto di apprendimento.
Per ottenere la risposta che cerchiamo dai nostri allievi, dobbiamo prima far loro
“vivere” la materia e, in secondo luogo, fare tesoro delle loro risposte razionali ed
emotive.
La comunicazione fra insegnante e alunno non è soltanto un passaggio di nozioni fra
chi conosce un argomento e chi desidera apprenderlo: è una relazione fra persone con
esperienze diverse dove lo scambio e le possibilità di crescita non sono unilaterali.
La “buona comunicazione” – intesa come relazione che è in grado di coinvolgere indipendentemente dal contenuto – riveste un ruolo fondamentale nell’insegnamento
anche se in molti casi è vista dagli stessi insegnanti come una pratica da apprendere
esclusivamente con l’esperienza più che una base fondamentale per il proprio lavoro.
In questi casi, in cui la capacità di comunicare viene data per scontata, la responsabilità di un eventuale fallimento nell’apprendimento è erroneamente attribuita esclusivamente all’alunno.
Pensare prima a insegnare che a comunicare bene, per dirla con una metafora, è però
come volere costruire una casa partendo dal tetto.
Insegnando si trasmette il proprio modo di vedere e vivere la vita e non solo nozioni su una
determinata materia. Insegnare è dare la propria impronta alla conoscenza dei nostri
alunni: raccontiamo un argomento di cui le nostre esperienze e conoscenze sono il “filtro” che, per quanto oggettivo, lascia trasparire la nostra interpretazione della materia,
il nostro viverla e amarla.
Comportamenti e comunicazione: quale rapporto?
La comunicazione permette di motivare, coinvolgere, organizzare e risolvere problemi:
tutte attività indispensabili all’interno della vita di classe.
La condivisione di informazioni e il raffronto di esperienze di vita diverse sono fondamentali per il successo dell’attività didattica. L’esperienza del professore, se comunicata nel modo giusto, sarà recepita dallo studente come un aiuto per la propria vita e scelta come modello da imitare.
Non dobbiamo sottovalutare il nostro comportamento e il valore delle parole che pronunciamo: la qualità del clima all’interno della classe è frutto del controllo e della conoscenza dei comportamenti comunicativi.
Se l’ascolto è fondamentale, allo stesso modo è importante la capacità dell’insegnante di
osservare: infatti, lo studente raramente manifesta la sua impossibilità di comunicare
cercando il dialogo (ovviamente…) ma cerca di attuare consapevolmente o inconsciamente comportamenti diversi.
Ciò che complica la questione è che il comportamento non assume necessariamente il
significato che il soggetto arbitrariamente gli attribuisce.
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È chiaro nello stesso tempo come la comunicazione sia un processo a due vie: diffondere il messaggio e ascoltare la risposta dei nostri interlocutori.
Nel caso specifico, l’insegnante non sarà in grado di comunicare nel modo giusto senza
prima aver ascoltato o percepito le “richieste” e le “risposte” degli studenti.
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Un punto fermo: è impossibile non comunicare
Esiste una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più fondamentale e, probabilmente per la sua ovvietà, spesso viene trascurata: il comportamento non ha un suo opposto.
In parole più semplici, non è possibile non avere un comportamento.
Se l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di comunicazione, ne consegue che, comunque ci si sforzi, non si può non comunicare.
L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno valore di messaggio: influenzano il
comportamento altrui e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni.
È chiaro a questo punto che il semplice “non parlare” o il non prestare attenzione reciproca costituiscono un comportamento comunicativo allo stesso modo di una animata
discussione.
Due livelli di comunicazione: contenuto e relazione
In un contesto comportamentale il contenuto può essere assimilato a “l’oggetto della
comunicazione” mentre la relazione può essere interpretata nel “come codifichiamo” il
passaggio di informazioni.
Se intendiamo la comunicazione come un semplice “passaggio di informazioni”, è ovvio
pensare che il contenuto abbia un’importanza più rilevante rispetto alla relazione, ma
avendo scoperto che il processo comunicativo è qualcosa di decisamente più complesso, è bene comprendere questa fondamentale distinzione.
Quasi per complicarci le cose, anche il ruolo assume un’importanza rilevante non solo
indicando “la posizione” che un soggetto occupa all’interno dell’ambiente (e quindi una
serie di compiti diversi) ma determinando una serie di atteggiamenti da assumere, di comportamenti da seguire e di valori da rispettare: in pratica un insieme di modelli di comportamento attesi e prevedibili associati non alla singola persona ma alla posizione che essa riveste
all’interno del gruppo.
Come all’interno di un copione, dove esistono diverse parti da recitare o da impersonificare, è come se ognuno in una classe recitasse una parte, grazie ai suoi comportamenti
e per mezzo del suo ruolo.
Questo è uno dei motivi per cui molte volte in un gruppo si può arrivare a discutere
paradossalmente su un argomento sul quale si è d’accordo: l’oggetto del contendere non
è in questi casi il contenuto, ma la relazione fra i soggetti; un esempio frequente sono le
discussioni che non mettono in dubbio la bontà di una decisione ma “come” essa sia
stata presa e comunicata.
Tre linguaggi per comunicare
Secondo alcuni studi, soltanto il 20% delle parole viene ricordato al termine di una
qualsiasi conversazione. Per quanto riguarda la comunicazione scritta, una ricerca stima
che soltanto una percentuale variabile fra il 4% e l’11% di un testo o di un manuale ne
esprima il reale contenuto.
Anche se la parola in un processo comunicativo potrebbe sembrare di importanza vitale per esprimere il contenuto della comunicazione, essa rappresenta però soltanto una
minima parte di quel processo.
Considerando il linguaggio come un sistema di segni attraverso cui le persone comunicano fra loro, possiamo distinguerlo in verbale, paraverbale e non verbale dove intendiamo:
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per linguaggio verbale, i segni espressi mediante le parole,
per linguaggio paraverbale, i segni emessi dalle modulazioni della voce,
infine per linguaggio non verbale, gli altri segni emessi grazie al nostro corpo.
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Ricordiamo che, in molte situazioni, uno sguardo, un gesto, il semplice silenzio costituiscono non soltanto un rafforzamento del significato di una parola o di una frase, ma
assumono da soli un significato ben più importante.
In altri casi, invece, i gesti e i toni della voce possono essere in contrasto con le parole
pronunciate.
Accade però che dalla maggior parte delle persone i gesti siano considerati inconsapevolmente più attendibili delle parole. Diversi studiosi sostengono che la maggior parte
della comunicazione sia costituita dal linguaggio non verbale e da quello paraverbale.
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Infatti, secondo alcuni studi, entrambi rappresentano il 75-85% della comunicazione,
mentre la restante parte è data dal linguaggio verbale.
È altrettanto importante sottolineare che la sincronia di gesti, parole, espressioni del
viso, posizioni del corpo, inflessioni vocali determina il nostro modo di comunicare,
poiché la comunicazione ha un’importanza non soltanto dal punto di vista del contenuto, ma
anche dal punto di vista della relazione.
La loro congruenza determina, in effetti, l’efficacia del processo comunicativo. Quando
i tre linguaggi sono coerenti fra loro e adattati al contesto in cui si agisce, i soggetti sono
in grado di correggere e codificare il messaggio.
LINGUAGGIO
VERBALE
LINGUAGGIO
PARAVERBALE
LINGUAGGIO
NON VERBALE
COMUNICAZIONE INTERPERSONALE
Quattro strade per arrivare alla “buona comunicazione”: punteggiatura, eventi,
simmetria e complementarietà
Una carenza di comunicazione nell’ambiente della classe ha senza dubbio degli effetti
negativi sull’eventuale successo dell’attività didattica. La mancanza di comunicazione
non solo non permette il passaggio di informazioni, ma crea veri e propri problemi di
convivenza, rendendo il rapporto docente-studente totalmente privo di stimoli per
entrambi.
Mancando un rapporto comunicativo, l’allievo non può nutrire quella fiducia che gli
permette di apprendere e porre domande liberamente: questa sensazione di “impossibilità a comunicare” da parte dello studente porterà a sua volta l’insegnante a demotivanti monologhi anziché a lezioni interessanti, accrescendo ulteriormente la sensazione di impossibilità all’interazione da parte dello studente.
Questo processo, che teoricamente potrebbe protrarsi all’infinito, può causare la perdita di fiducia in se stessi sia da parte degli insegnanti che degli studenti e di conseguenza una tendenza a non collaborare.
Il modo in cui si decide di instaurare la relazione ha quindi effetto sulle relazioni successive e costituisce “il punto di partenza” del successivo incontro.
Ogni lezione, in pratica, è un evento che parte dai presupposti costruiti nella lezione precedente: è ciò che gli studiosi di comunicazione chiamano punteggiatura della sequenza di eventi.
Nei rapporti diplomatici la “corsa” agli armamenti fra l’ex Unione Sovietica e gli Stati
Uniti negli anni Ottanta del Novecento ne è forse l’esempio più eclatante: ognuno dei
due Stati, percependo come una minaccia la forza dell’altro, aumentava la propria difesa militare incrementando così la paura dell’altra potenza di essere attaccata: ognuno
dei due, con l’intento di disincentivare gli investimenti in armamenti dell’altro, indirettamente li sollecitava.
Solo la comprensione del meccanismo “della punteggiatura” permette di riconoscerlo, di interromperlo o di accrescerlo.
È chiaro che i sistemi di relazione all’interno di una classe tendono a un progressivo
cambiamento e quindi non è sufficiente limitarsi a considerare le reazioni di uno stu-
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Al contrario, lo studente che “sente aperto” il canale di comunicazione con il proprio
insegnante collabora alla riuscita della lezione e si sente protagonista all’interno della
stessa, incentivando lo stesso docente a sollecitare la sua collaborazione.
Anche questo processo di interazione potrebbe protrarsi all’infinito: sta all’insegnante
scegliere se tenere aperto o chiuso il canale di comunicazione.
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dente al comportamento dell’insegnante, ma occorre esaminare, subito dopo, come queste
reazioni influenzano il successivo comportamento dell’uno e poi dell’altro.
Di norma, i soggetti possono compensare o rispecchiare i comportamenti dell’interlocutore: quando il comportamento di un interlocutore “completa” quello dell’altro (per
esempio, di fronte a un’imposizione il soggetto si “sottomette” senza reagire) parleremo
di interazione complementare, quando i soggetti tendono a rispecchiare il comportamento dell’altro si ha interazione simmetrica (per esempio, nella competizione dove
ognuno reagisce al miglioramento dell’altro cercando di migliorare lui stesso).
Abbiamo analizzato tutti gli strumenti e le potenzialità per comprendere lo studente, l’importante è ora riuscire ad andare oltre le finalità didattiche.
2.
Il “colpo di fulmine”
Ricordate i primi anni di liceo, quando il mondo sembrava stare tutto dentro un pugno,
e quando l’arrivo del nuovo insegnante, di matematica, latino o italiano, sembrava un
evento che in un modo o nell’altro avrebbe movimentato la vita di classe?
All’improvviso, l’insegnante entrava e si accomodava in cattedra e una serie di nuovi
pensieri nella mente degli studenti si facevano largo: un nuovo “maestro” che illumina
la via della conoscenza, per i più preparati, e un arbitro severo da sfidare, per i meno
preparati.
Sembra il momento più semplice e scontato dell’anno scolastico per un insegnante ma
è proprio in questo momento che si può fare la differenza.
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Il racconto
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“A
ppena laureato il professor Ji Xiao Mei venne designato come nuovo insegnante responsabile della classe quinta di una scuola.
Ding….. Ling..Ling… la campanella di inizio lezione era suonata.
«Silenzio! È arrivato!» in classe gli studenti abbassarono la voce.
La tranquillità scese nell’aula e tre ragazzi, stando seduti in un angolo, si lanciavano sguardi
uno con l’altro, attendendo il momento dello scherzo che avevano preparato per il giovane professore.
La porta della classe si aprì. “Bang!”
Un oggetto cadde rumorosamente davanti alla cattedra. Gli studenti posarono lo sguardo sui
libri ma solo dopo aver visto chiaramente di che cosa si trattava: era solo una figura in argilla di un topo e aveva sicuramente a che fare con i quei tre ragazzi, ciascuno dentro di sé lo
aveva capito…
Il professor Ji Xiao Mei, dopo aver dato un’occhiata, non cambiò né espressione del volto né
tono della voce e tranquillamente si diresse verso la cattedra: «Io mi chiamo Ji Xiao Mei, sono
il vostro nuovo insegnante…»
Sembrava che non fosse mai successo nulla e il professor Ji, dopo aver fatto la sua presentazione, iniziò la lezione. Spiegò molto bene, tanto da meritarsi gli applausi di tutti gli studenti.1
Quando terminò la lezione, il professor Ji prendendo in mano il topo, disse: «Nella tradizione
popolare si usa regalare a parenti e amici figure lavorate a mano fatte di farina, che rappresentano pesci o simili: questo gesto indica cortesia o affetto. Voi non avevate della farina e avete
usato l’argilla per modellare un animaletto da dare a me. Essendo il primo giorno da insegnante, sono molto contento di aver ricevuto da voi un bellissimo regalo. Tuttavia, chi l’ha realizzato non ha saputo modellare un pesce, ha ottenuto soltanto un topolino, ma anche questa
è una creazione. È un peccato che questo topolino non abbia la coda. La tecnica artistica nella
creazione di animali non è ancora buona. Volete che ve la insegni? Chi ha creato il topolino
desidera studiare con me?»
I tre autori dello scherzo inizialmente pensavano di aver dato una lezione all’insegnante.
Il metodo del professor Ji fece sì invece che gli studenti rimanessero senza parole.
Non riconobbero l’errore coraggiosamente, abbassarono soltanto la testa imbarazzati.
Alcuni giorni dopo, quei tre ragazzini cercarono il professore per riconoscere l’errore e dissero: «Professore, non le abbiamo dimostrato la nostra amicizia, abbiamo sbagliato».
1. L’applauso al termine della lezione è un abitudine non frequente nelle scuole italiane, al contrario che in
quelle cinesi dove in questo modo si manifesta l’apprezzamento nei confronti di un insegnante o di un
argomento. Anche nelle università europee e americane (oltre che asiatiche) questo tipo di situazione non
è raro, a differenza che nel nostro Paese, dove di certo non si può attribuire la rarità degli applausi al fatto
che gli insegnanti siano meno bravi…
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Analisi di un “colpo di fulmine”: come creare dal primo giorno una buona relazione con la classe
Di fronte a questo episodio, narrato da Miao Jin Xia sul collega Ji Xiao Mei, rimaniamo
ancora una volta sconcertati su come il racconto, pur trattando un ambiente scolastico
completamente differente dal nostro e per certi versi incomprensibile, analizzi dei riferimenti che possiamo naturalmente riscontrare nei nostre classi.
È naturale che nel primo approccio con gli studenti l’insegnante debba attingere al
pozzo delle proprie qualità per trovare quella capacità comunicativa che gli permetta di
instaurare un rapporto di fiducia al primo incontro.
Naturalmente non tutti sono dotati di grandi capacità comunicative ma non bisogna
scoraggiarsi. L’insegnante come figura educativa, e ma soprattutto come persona, può
intraprendere in modo molto naturale un cammino che lo porti alla conoscenza delle
proprie capacità e anche dei propri limiti.
A dispetto di quanto si pensi, siamo tutti in grado di comunicare e lo facciamo continuamente. Impariamo a comunicare già da piccoli tant’è che le nostre capacità comunicative sono molto più evidenti in tenera età, quando non abbiamo bisogno della parole per farci capire. Purtroppo, crescendo si perde quella naturalezza e piano piano ci si
dimentica di possedere certe capacità e della loro importanza nella vita sociale.
Ciascuno di noi è quindi in grado di sfruttare le proprie capacità comunicative ma deve
farlo attraverso un cammino che aiuti a riscoprirle, coltivarle e rielaborarle a piacimento. La comunicazione di ognuno deve diventare una comunicazione efficace.
La prima impressione è la nostra più importante e a volte unica possibilità per far capire agli
altri chi siamo e il suo risultato è spesso duraturo.
L’opinione di persone appena conosciute si basa su una serie limitata di informazioni,
come il linguaggio del corpo e il modo di conversare.
Un famoso detto americano sostiene You never have a second chance to make a first impression (“Non si ha mai una seconda occasione di fare una prima impressione”). La prima
impressione che si crea nel nostro interlocutore resterà sempre appiccicata addosso
come una seconda pelle: chi ci sta vicino ricorderà le sensazioni che gli abbiamo suscitato nei primissimi momenti della nostra conoscenza.
I comportamenti che determinano la prima impressione positiva
Dopo la teoria necessaria ad accrescere le nostre capacità di comunicazione, proponiamo alcuni suggerimenti per stabilire con gli studenti una comunicazione che tenga
conto della relazione e permetta la collaborazione e la crescita reciproche.
Essere sempre di esempio con il proprio comportamento.
Manifestiamo il desiderio di comunicare, ascoltare, interagire. Che lo vogliamo o no, il
nostro atteggiamento e il nostro corpo “parlano” e influenzano atteggiamenti e comportamenti dei nostri studenti. Se desideriamo, per esempio, la puntualità degli studenti all’inizio della nostra lezione, dovremo essere noi i primi a essere puntuali.
Definire il contesto: è il terreno in cui si gioca la partita dell’apprendimento.
Definire in modo chiaro le regole con lo studente e fornirgli esempi concreti di quali
comportamenti ci si aspetta da lui, aiutare lo studente a comprendere le conseguenze
– non solo in termini di punizione ma soprattutto in termini di relazione – che potrebbero derivare per lui e per i suoi colleghi a causa del disattendere o grazie al rispettare le regole.
Essere consapevoli delle proprie responsabilità sul risultato della comunicazione.
Domandarsi, in caso di mancata collaborazione dello studente, se egli non abbia qualche buona ragione (stanchezza, preoccupazioni, malanni…).
Questo atteggiamento permette di non trattare una situazione superficialmente; cercando di riconoscerne le cause non avremo bisogno di duri rimproveri e di rendere teso
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Ascoltare e osservare come gli studenti tendono a porsi nei confronti dell’insegnante
permette di trovare il giusto equilibrio fra la formalità dei ruoli e il tono più o meno
amichevole della relazione.
È necessario che lo studente riconosca i limiti fra la disponibilità e la differenza dei ruoli
e non bisogna arrivare mai al punto che lo studente “oltrepassi il limite”: questo porterebbe a interagire con lui in una condizione futura di forte stress per entrambi, vanificando i nostri sforzi.
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il clima dell’aula. Chiaramente, tutto questo non significa che ogni comportamento
dello studente trovi una giustificazione nella nostra incapacità o in fattori esterni.
Sorprendere gli studenti mentre fanno qualcosa di… giusto!
La lode è uno strumento importante per incentivare i comportamenti desiderati: focalizzare l’attenzione sulle attitudini positive degli studenti e sui loro comportamenti positivi li rafforza, creando un ambiente rivolto al miglioramento. Per contro, anche la critica è necessaria: se essa rimane circoscritta all’evento, permette al “colpevole” di comprendere l’errore e di rimediare, è necessario ricordare che lo scopo della critica è disincentivare comportamenti negativi, non abbattere moralmente il destinatario.
Essere preparati.
Essere e dimostrarsi preparati in anticipo sui temi e sulle domande che gli studenti
possono porre al primo incontro (solitamente riguardano… interrogazioni, verifiche
e… gite scolastiche!) permette all’insegnante di mostrarsi sicuro e determinato e di
stabilire le regole che permetteranno uno svolgimento delle lezioni e delle altre attività
nella consapevolezza che i presupposti discussi insieme dovranno essere rispettati.
Entrare in aula con un atteggiamento positivo, creativo e concreto.
I rischi di incomprensione, nel primo incontro, possono derivare solitamente da un
atteggiamento innaturale del docente, che proietta un’immagine falsata e quindi
incomprensibile di sé, o da una marcata incoerenza dei tre linguaggi della comunicazione analizzati in precedenza.
Non lasciarsi condizionare dalla prima impressione.
Il dedurre informazioni alla prima impressione è un meccanismo che utilizziamo probabilmente per riconoscere le situazioni che si ripetono e quindi per difenderci da
potenziali pericoli. Anche se in dieci secondi l’interlocutore ha già formulato più o
meno consciamente un giudizio sulla persona che ha di fronte per la prima volta, questo meccanismo di difesa non deve, però, farci incorrere nell’errore del pregiudizio: in
genere le persone (per confermare la propria sicurezza o per avere delle certezze) tendono a confermare il proprio pregiudizio senza preoccuparsi se esso sia giusto o sbagliato, piuttosto che cercare di valutarne l’esattezza.
3.
Tutti diversi e tutti uguali
Il pluralismo culturale è divenuto una realtà delle società contemporanee.
Il modo tradizionale di pensare la cultura, ossia delimitata geograficamente e appartenente a specifici gruppi che occupano determinati territori, appare superato.
L’insieme dei fenomeni definiti come “globalizzazione” impone di acquisire consapevolezza del fatto che le culture sono miste, intrecciate tra loro e sottoposte a reciproca
influenza. Questo non significa , però, che il mondo sia diventato tutto uguale e omogeneo, anzi, vi sono disuguaglianze che tendono ad aumentare (come, per esempio,
quelle economiche) e culture locali che, per fronteggiare la minaccia dell’omogeneizzazione, tendono a chiudersi in loro stesse o in nuovi fondamentalismi.
Le classi di oggi sono caratterizzate da una ricchezza di culture e lingue mai vista prima.
La sfida della didattica odierna consiste proprio nel saper insegnare ad allievi che
hanno un background che spesso non possiamo nemmeno immaginare, ricordando
che per quanto diversi fra loro un punto certamente li accomuna: i protagonisti delle
lezioni sono proprio loro.
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Il racconto
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“I
l 5 aprile del 1987, nella gremita aula magna del nuovo distretto di Xin Xiang, l’emerito professore di Shanghai Qian Meng Lon, teneva una lezione dimostrativa il cui contenuto era Riflessioni intorno alla caduta di Lei Feng2.
Sistemò sul vasto palcoscenico la lavagna, la cattedra, i tavoli e le sedie per la lezione.
Il professor Qian non aveva mai conosciuto gli studenti ed esordì così:
«I vostri compiti di preparazione alla lezione hanno suscitato in me un notevole interesse, siete
tutti acuti nel ragionamento, il livello intellettivo è alto.3 Vi propongo quindi un indovinello:
possedendo dei valori vuole comunque valore, chi è? Dite un nome».
2. Soldato dell’Armata di Liberazione del Popolo della Repubblica Popolare Cinese; considerato umile e
altruista, fu scelto da Mao Zedong come modello dell’eroe comunista. Subito dopo la sua morte, Mao iniziò la “campagna di studio di Lei Feng”, proprio per far conoscere alle masse le sue qualità.
3. È caratteristico della metodologia di apprendimento cinese che gli studenti preparino l’argomento prima
di affrontarlo in aula.
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(Gli studenti iniziarono a riflettere)
Studente: «Ho indovinato, la risposta è Qian Meng Lon».
Professore: «Giusto, perché sarei io?».
Studente: «Se uno ha valori significa che ha zecchini, se pensa a diventare di talento significa che
sogna di essere un drago, i caratteri di zecchini e drago formano il suo nome».4
Professore: «Ora vi invito a osservare per un attimo questa aula magna, sotto il palco il pubblico numeroso, sopra il palco la nostra area di lavoro, vi invito a osservare questa scena: a
che cosa vi fa pensare?».
(Gli studenti cominciarono a guardarsi intorno, alcuni a bassa voce esprimevano le loro osservazioni: sembrava una rappresentazione teatrale.)
Professore: «A me sembra una rappresentazione teatrale. Ora, chi fa la parte del protagonista?».
Uno studente dal suo posto disse: «Naturalmente è lei il protagonista».
(In “classe” ci furono risate sommesse.)
Professore: «Non credo proprio. Indovinate qual è la mia opinione! Vediamo chi indovina!».
Studente: «Lei probabilmente ritiene che siamo noi i protagonisti, perché il fatto che questa
rappresentazione riesca bene o male dipende da come noi la valorizzeremo».
Professore: «Assolutamente giusto! Siete davvero intelligenti! Quale ritenete sia il mio ruolo?».
Studente: «Un ruolo secondario!».
(Risate)
Professore: «Guardate, mentre sto in piedi davanti a questi protagonisti gesticolando, sembro
un personaggio secondario?».
Studente: «Lei è il regista!».
Professore: «Siamo d’accordo. Riflettete ancora, dei due caratteri che rappresentano il termine regista, qual è il più importante e perché?».
Studente: «Il più importante è il carattere di “guidare” poiché il compito del regista non è rappresentare un’opera in prima persona ma guidare gli attori nella rappresentazione».
Professore: «Dici bene! Benché fare lezione non sia recitare, tuttavia ci sono alcuni punti in
comune. Quindi, qual è il compito dell’insegnante?».
Studente: «Il compito dell’insegnante consiste nel guidarci nella comprensione dei testi e non
nel sostituirsi a noi nello studio».
Professore: «Dici bene! Credo diventerete tutti protagonisti dotati di grande professionalità! Il
fatto di poter lavorare come regista insieme con voi eminenti attori mi rende assai felice. E
adesso che ognuno entri nella propria parte!».
Quando cominciò la lezione vera e propria l’atmosfera in classe era cambiata. Nell’espressione
degli occhi degli studenti cominciava a intravedersi una nuova vitalità.
Uno sguardo a Oriente
I metodi didattici di oggi sono decisamente orientati all’attenzione verso il singolo, al riconoscimento e all’applicazione delle sue capacità. Questa nuova impronta ha offerto alla
didattica contemporanea nuovi spunti e ha creato una scuola dinamica e stimolante.
Sappiamo tutti quali siano i vantaggi dei metodi odierni ma non dobbiamo dimenticare che stiamo istruendo le donne e gli uomini “di domani” e quindi, oltre alla preparazione e all’educazione, dobbiamo trasmettere loro quelle capacità di saper vivere e convivere in gruppo che permetteranno loro di inserirsi nella società a venire.
Non è quindi detto che la corsa al successo scolastico e la competizione siano le chiavi
giuste per la formazione di uno studente.
4. La deduzione dello studente è data dal fatto che i caratteri della lingua cinese che rappresentano il nome
del maestro sono zecchini e drago.
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Come sfruttare le analogie e senza sminuire le differenze
I vantaggi che si possono trarre dal conferire a ognuno dei nostri allievi una parte all’interno della classe sono numerosi. Nel momento in cui ogni studente si sentirà indispensabile come persona all’interno del gruppo sarà disposto ad aprirsi totalmente ai
compagni e al docente, favorendo massimamente la comunicazione.
Essere regista della situazione di apprendimento significa quindi rendere gli studenti
protagonisti senza creare “orfani di classe”. Non si tratta di conferire il titolo di più o
meno bravo, ma di saper cogliere le peculiarità di ognuno e contestualizzarle all’interno del gruppo. Il compito dei docenti consiste nel guidare gli studenti a scoprire le loro
personalità e capacità all’interno dell’insieme, favorendo la comunicazione tra compagni e con lo stesso insegnante.
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Se, per esempio, prendiamo come punto di riferimento altre culture orientali, possiamo notare come l’attenzione da noi data al singolo venga data al gruppo.
L’abilità di uno studente in questo caso consiste proprio nel sapersi confrontare con
gli altri, saper mettere le proprie capacità a disposizione dei compagni e saper collaborare per il successo di tutti.
Usando la metafora proposta dal racconto, possiamo dire che il buon insegnante veste
i panni del regista e fa sì che i suoi allievi abbiano il ruolo di attori principali sulla scena
“classe”. Non ci sono comparse in una classe di buoni elementi.
Anche noi possiamo certamente cercare di essere, almeno qualche volta, i registi della
nostra classe e non il primo attore, riuscendo in questo modo “a far accadere” ciò che desideriamo nella classe.
La comunicazione interculturale
Il più importante studioso di comunicazione interculturale è probabilmente l’olandese
Geert Hofstede il quale sostiene che l’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi: la consapevolezza, la conoscenza e l’abilità.
Tutto comincia con la consapevolezza: lo studioso invita a riconoscere che ciascuno
porta con sé quello che egli chiama un particolare “software mentale” che deriva dal
modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per
le stesse ottime ragioni, un diverso “software mentale”.
La conoscenza dovrebbe essere il seguito naturale di questo riconoscimento: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali
sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti.
Infine, l’abilità di comunicare tra culture differenti è frutto della consapevolezza, della
conoscenza e dell’esperienza personale.
La comunicazione in un ambito interculturale si presenta, dunque, come un’integrazione fra abilità e facoltà generali e non come insieme di competenze specifiche: questo non significa, tuttavia, che non si possano acquisire conoscenze particolari che
arricchiscano la relazione comunicativa.
In particolare, ognuno di noi può accorgersi come nelle situazioni quotidiane, quando
si interagisce con persone provenienti da altri paesi, la conoscenza della lingua costituisca un modo per “accorciare le distanze”’ e per dimostrare interesse e rispetto verso
l’altro.
Il linguaggio, oltre a essere uno strumento di comunicazione, è anche un “sistema di rappresentazione della percezione e del pensiero”.
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Un altro elemento di conoscenza specifica è la conoscenza non stereotipata di valori
e tradizioni.
Gli studi sulla comunicazione interculturale fanno poi riferimento alla essenziale conoscenza degli stili di comunicazione e delle regole di interazione.
La competenza specifica risiederà, pertanto, nella capacità di interpretare i modi particolari con cui stili e regole vengono espressi attraverso la comunicazione dalle singole
persone.
Una comunicazione interculturale correttamente intesa si focalizzerà, quindi, sulla modalità
soggettiva con cui le altre culture vengono vissute: la lingua parlata, la comunicazione non
verbale, gli stili di comunicazione, la comprensione dei diversi ‘’caratteri nazionali’’.
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Un’attenzione particolare va prestata al linguaggio non verbale, quella che lo studioso
Edward T. Hall, chiama la “dimensione nascosta”.
Secondo questo autore, gli esseri umani sono guidati da due forme di informazione alle
quali si può accedere in due modi diversi: il modo della cultura manifesta, che viene
appreso tramite le parole e i numeri, e quello della cultura tacitamente acquisita, che non
è verbale ma altamente legata alla situazione e opera secondo regole che non sono consapevoli, ossia non vengono apprese nel senso comune del termine, ma vengono acquisite durante il processo di crescita o quando ci si trova in ambienti diversi.
Le distorsioni e i malintesi che si creano a seguito di questa mancanza naturale di consapevolezza sono molto frequenti nell’incontro fra culture differenti. Uno degli ostacoli della comunicazione è, per esempio, costituito dal contesto in cui le espressioni
vanno collocate per poterle interpretare correttamente. Esistono infatti culture definite
“ad alto contesto” dove la maggior parte delle informazioni non viene fornita in modo
esplicito, bensì va desunta dall’ambiente, dalla gestualità o dal tono di voce.
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Anche se la comunicazione, come abbiamo visto, esiste a prescindere dalla volontà dei
soggetti (anche tacendo si comunica) la comprensione del significato della comunicazione è
sicuramente essenziale. La cura della comunicazione interculturale contribuisce a realizzare, unita all’empatia nelle sue molteplici dimensioni, la comprensione dell’altro:
anche se purtroppo non è possibile immaginare una piena comprensione per l’indefinita libertà della persona e per l’immensa varietà di significati che noi stessi attribuiamo alla vita e alle espressioni culturali.
Per uno studente cinese, per esempio, è improprio guardare il proprio insegnante negli
occhi, nella nostra cultura, chi non ci guarda negli occhi è invece inteso come una persona che vuole mentirci o “sfuggire”.
Anche la comprensione dipende quindi strettamente dal contesto, dalla situazione in
cui si colloca la relazione.
Gli ostacoli da superare
La comprensione dei ragazzi di diverse culture incontra, oltre ai meccanismi sociali e
politici, anche una serie di ostacoli psico-affettivi, che vanno dalla “paura del diverso”
alla tentazione di vedere in esso un “capro espiatorio”.
La comprensione reciproca non è un “evento naturale” ma uno sforzo che va in controtendenza con l’individualismo e la chiusura.
Nel contesto storico di un’Europa costituita da 25 Stati nei quali si parlano 20 lingue
comunitarie (senza contare le lingue minori), dove la multiculturalità diventa simbolo
dell’identità culturale europea, è importante porsi domande su come adeguare i servizi
pubblici, e in particolare quelli scolastici, alle nuove esigenze che tale cambiamento
richiede.
In un territorio caratterizzato da una sempre maggiore immigrazione, dove molte persone hanno trovato accoglienza, solidarietà e contribuiscono a modo loro alla cultura e
all’economia dell’Europa, è importante considerare i servizi pubblici come luoghi d’apprendimento interculturale nei quali la cultura della eterogeneità è fortemente presente.
Purtroppo, è facile notare che in realtà molti servizi offerti all’utenza non sempre tengono conto delle diversità culturali. Spesso non si è preparati a svolgere il proprio ruolo
di “mediatore interculturale”, di colui che deve facilitare il dialogo tra l’utente e le istituzioni stesse (nel nostro caso, fra lo studente e la scuola) e spesso non si è pronti a lottare contro qualsiasi forma di discriminazione legata al sesso, all’orientamento sessuale,
all’handicap, alla religione o all’origine etnica.
È in questo ambito che un insegnante può fare la differenza nella crescita dei ragazzi e
delle ragazze: la comunicazione interculturale diventa un elemento essenziale per una
corretta gestione delle relazioni con gli studenti capace di influire in modo positivo sulla
crescita e produttività dei servizi di cui essi sono utenti.
Solitamente gli ostacoli più comuni da superare sono:
Le capacità da affinare
Entrare in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i propri valori ma
conoscere gli altri e tollerare le differenze (almeno fino a quando non entrano nella sfera
dell’illegalità del contesto in cui si vive o, addirittura, nell’immoralità che non intendiamo accettare): vuol dire rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle diverse culture e vuol dire anche mettere in discussione
i modelli culturali con cui siamo cresciuti, senza giudicarli.
La multiculturalità è un atteggiamento che prende atto della ricchezza insita nella varietà, che
non si propone l’omologazione ma ha lo scopo di permettere un’interazione possibile tra le
diverse culture.
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la presunzione di essere uguali, perché impedisce di vedere la diversità;
la differenza linguistica, perché rafforza le differenze essendo non solo linguaggio
comunicativo ma presupposto per la formazione del pensiero;
i fraintendimenti verbali che spesso sono una conseguenza del punto precedente;
i preconcetti e gli stereotipi: ricordate il discorso sulla prima impressione?
la tendenza a giudicare: la differenza è spesso vista sotto un’ottica di giudizio del
tipo “negativo o positivo” oppure “meglio o peggio”;
l’ansia: spesso non si comunica efficacemente per la semplice paura di non essere
in grado di raggiungere il risultato desiderato.
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Un buon insegnante in grado di comunicare bene in una classe interculturale dovrà
essere in grado di:
scegliere consapevolmente quali modelli comportamentali accettare, tollerare, rifiutare
nelle varie situazioni in cui si trova a operare;
evitare i conflitti involontari dovuti alle differenze culturali (questo è possibile proprio grazie alla chiarezza del punto precedente);
rendersi protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche sostituisce la curiosità, il rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie.
Nell’ambiente scolastico, la capacità di comunicare in ambienti interculturali dovrebbe
accompagnare e favorire la costruzione di un “mondo perfetto”: non dove tutti hanno
uno stesso sistema di relazione, ma in cui ciascuno ha il sistema che preferisce – o che
si è trovato molto più probabilmente dalla nascita – e questo non gli crea alcuna difficoltà nel comunicare con gli altri.
Dopo i ragazzi… i genitori
Con questo articolo abbiamo voluto iniziare un viaggio per accompagnare ogni insegnante durante il corso dell’anno nei momenti più importanti del suo lavoro, o più correttamente, nel corso della sua missione.
In un prossimo articolo proseguiremo insieme affrontando un altro aspetto fondamentale: la comunicazione con i genitori. Pensate a come affrontereste una situazione di
questo genere:
Un professore di una scuola superiore ricevette una chiamata da un genitore che protestava
per il voto assegnato al figlio riguardo al suo compito, un tema. «Il genitore in questione era
d’accordo con ogni punto del tema», ricorda l’insegnante, che subito realizzò perché la madre
era così sconvolta dalla votazione: «Era ovvio che il tema l’aveva scritto lei».
Se chiediamo agli insegnanti quale sia la parte migliore del loro lavoro, molti risponderanno che amano lavorare con i ragazzi.
Se chiediamo loro quale sia la parte più impegnativa, molti risponderanno: l’avere a che
fare con i genitori. Un recente studio ha infatti rivelato che, tra le sfide che devono
affrontare, gli insegnanti collocano i genitori al primo posto.
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Saremo felici di ricevere le vostre considerazioni, le vostre osservazioni e anche le vostre esperienze
(più o meno divertenti ma certamente edificanti) all’indirizzo [email protected]
La condivisione è ciò che permette di vedere le situazioni comuni ogni volta come se
fossero nuove.
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