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Fondazione Sussidiarietà: ``Conoscenza e compimento di sè`

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Fondazione Sussidiarietà: ``Conoscenza e compimento di sè`
Conoscenza
e compimento di sé
Formazione interdisciplinare in
Matematica, Scrittura, Storia, Dante
a cura di
Eddo Rigotti
Carlo Wolfsgruber
La pubblicazione di questo volume rientra nel progetto “Accademia”, scuola di alta formazione
interdisciplinare per docenti dei licei e raccoglie un’ampia selezione dei contributi offerti durante il
corso residenziale svoltosi a Milano dal 14 al 17 luglio 2011.
Progetto grafico e copertina
Maurizio Milani
Editing
a cura di Emanuela Belloni e Alberto Savorana
Isbn 978-88-97793-05-2
Fondazione per la Sussidiarietà
via Torino, 68, Milano
www.sussidiarieta.net
Indice
7
Prefazione
Eddo Rigotti e Carlo Wolfsgruber
PARTE I. VIRTUTE E CANOSCENZA
11
Conoscenza e compimento di sé
Carlo Wolfsgruber
18
Il lato matematico
Renato Del Monte
22
La scrittura è strumento di conoscenza e consapevolezza
Raffaela Paggi
24
Autocoscienza dell’individuo e della comunità attraverso la storia
Paolo Nanni
28
Il nesso tra conoscenza e felicità in Dante
Luca Montecchi
PARTE II. LE FORME DEL RAGIONARE
32
Alcune domande di fondo sulla matematica
Renato Del Monte
33
Il ragionare matematico
Marco Bramanti
42
Introduzione ai temi della scrittura
Raffaela Paggi
43
Il testo come logos: unità di ragione e linguaggio
Eddo Rigotti
52
Il ragionare storico.
Questioni di fondo sulla storia
Paolo Nanni
53
Intervista a Giovanni Cherubini
a cura di Paolo Nanni
50
Dall’oggetto il metodo. Per esempio in storia
Paolo Nanni
61
Ragioni nuove per studiare Dante
Luca Montecchi
63
Leggere Dante nel XXI secolo
Enrico Malato
PARTE III. LE QUATTRO DISCIPLINE
1. Matematica
76
I contributi dell’area matematica
a cura di R. Del Monte
77
Le ragioni del fare matematico
Claudio Giorgi
85
Modelli matematici: accertare le cose nascoste attraverso le cose manifeste
Giovanni Naldi
94
Algebra: astrarre per comprendere
Raffaella Manara
102
Dalla geometria analitica all’analisi
Andrea Maggi
115
Concetti, proposizioni, argomentazioni. Un percorso didattico
non tradizionale per la geometria euclidea
Renato Del Monte
122
Riferimenti bibliografici
2. Scrittura
126
I contributi dell’area di scrittura
a cura di R. Paggi
128
Ragioni dello scrivere e gesto di scrittura come dialogo
Andrea Rocci
137
Il “filo del discorso”: congruità, coerenza e coesione
Maria Cristina Gatti
147
Progettazione e articolazione del testo: le fasi di elaborazione
Sara Cigada
154
L’assegnazione del compito: traccia o titolo?
Raffaela Paggi
161
Testi propedeutici alla scrittura
Daniela Notarbartolo
165
L’argomentazione: procedimenti, funzioni e ruolo educativo
Sara Greco Morasso
171
Preparando il tema argomentativo
Eddo Rigotti
178
Riferimenti bibliografici
3. Storia
182
I contributi dell’area storica
a cura di P. Nanni
183
La nascita del genere storico
Alfredo Valvo
189
Le condizione del vedere e dello scrivere. Una esemplificazione
Paolo Nanni
195
Tra passato e presente
Danilo Zardin
203
L’insegnamento della storia: aspetti e problemi
Andrea Caspani
208
Società e Stato nell’Ottocento: forme di carità in Lombardia
Edoardo Bressan
212
Le città italiane al tempo di Dante. Il senso della “civitas”
Giovanni Cherubini
217
Riferimenti bibliografici
4. Dante
222
I contributi dell’area di Dante
a cura di L. Montecchi
224
Il “Parlar materno”: lingua e cultura
Elena Landoni
231
Una poesia che ragiona: Purgatorio XVI, Paradiso VII
Luca Montecchi
237
All’origine di una tradizione: san Francesco e san Domenico
Andrea Mazzucchi
245
Dante poeta civile
Sergio Cristaldi
252
De Sanctis su Dante: c’è del vero
Stefano Bertani
258
Eliot: l’audacia di tornare a Dante
Francesco Valenti
266
Riferimenti bibliografici
Conclusioni. A chi ha il coraggio di fare scuola
272
Il dialogo critico come forma ideale dell’educazione
Eddo Rigotti
276
La scuola come opera comunitaria
Carlo Wolfsgruber
279
Gli autori
6
Prefazione
Eddo Rigotti e Carlo Wolfsgruber
Il presente volume inaugura una collana di pubblicazioni che presentano i risultati di studi ed
esperienze didattiche sviluppate entro “Accademia”, un progetto di ricerca-azione che si configura
come scuola di alta formazione interdisciplinare per docenti dei licei. Il volume raccoglie la maggior
parte dei contributi offerti dal corso residenziale, svoltosi a Milano dal 14 al 17 luglio 2011, con
cui Accademia ha avviato la sua attività. Ventiquattro gruppi, ciascuno formato da quattro docenti
interessati ad approfondire dinamiche educative di rilevanza generale, nonché contenuti disciplinari e processi di apprendimento-insegnamento relativi a una delle aree considerate dal progetto,
hanno preso parte in quell’occasione alle intense attività del corso: lezioni, discussioni, momenti di
dibattito assembleare. Essi sono giunti infine a definire un loro preciso punto di interesse, scientifico
ed educativo, che si sono impegnati a sviluppare in un lavoro personale e con gli altri componenti
del gruppo. Sono intervenuti nel corso ventinove studiosi (professori e ricercatori universitari e altri
specialisti riconosciuti delle tematiche considerate).
La sfida in cui Accademia si cimenta è la messa a fuoco (e il riconoscimento delle implicanze)
del fatto, in sé ovvio, ma non di meno stravolgente, che la stessa ragione umana è all’opera – certo
con i metodi specifici richiesti dai diversi oggetti – nell’incontro conoscitivo con le più varie sfere
della realtà. Ne consegue l’impegno di portare alla luce le forme di razionalità, ossia le dinamiche
conoscitive, operanti in diverse discipline, confrontandole fra loro per evidenziarne gli ultimi comuni
fondamenti, senza trascurarne le peculiarità.
La scuola italiana è indubbiamente ricca di contenuti e punta a fornire molteplici competenze
e abilità, ma proprio questa ricchezza e questa varietà creano un effetto di frammentazione disciplinare e dunque di disarticolazione del sapere: così, di fatto, si delega al solo studente il compito
di realizzare una qualche sintesi. La forte differenziazione dei linguaggi disciplinari, se favorisce
la percezione della specificità e l’appropriatezza categoriale, può scoraggiare il dialogo interdisciplinare nella comunità dei docenti. L’interdisciplinarità rischia di ridursi a una batteria di approcci
disciplinari eterogenei. Nella proposta di Accademia il punto di sintesi si colloca già all’inizio, cioè
alla radice dei molteplici percorsi disciplinari: vedendo la ragione all’opera, come unico soggetto
conoscitivo nella costruzione dei saperi, nei diversi ambiti disciplinari, diventa possibile riconoscere
una loro ultima omogeneità metodologica. Provocato dalle ricadute didattiche che inevitabilmente
conseguono a un tale dialogo fra i docenti, lo studente è aiutato a scoprire la rispondenza della sua
ragione alle strutture della realtà.
L’ideale perseguito dal progetto è una scuola che sia realmente luogo di educazione, cioè luogo
dove sia anzitutto interpellata l’autocoscienza dei giovani, proprio a partire dalla loro ragione, in
quanto irriducibile energia di immedesimazione con la realtà e altrettanto tenace esigenza di nessi
e di significato.
Accademia vuole dunque suggerire un particolare “esercizio” dell’interdisciplinarità e lo fa anche
sottolineando, soprattutto attraverso il metodo adottato, la natura comunitaria dell’insegnare (e
dell’apprendere). La sfida culturale ed educativa messa in atto comporta per ogni docente un lavoro
di riflessione e di studio personali, ma anche di confronto, di dialogo e di condivisione: lo scopo è
quello di riappropriarsi, personalmente e insieme, della propria disciplina facendone scaturire quel
7
Prefazione
suo specifico potenziale educativo, quel suo contributo all’apertura della ragione alla realtà, tutta,
che dà dignità all’insegnamento e attiva l’interesse critico degli studenti in classe. La condivisione
di questo lavoro con i colleghi evita l’assolutizzazione della propria disciplina e un fastidioso clima
di concorrenza che rischia di contrapporre materie e docenti.
Sono state proposte quattro aree disciplinari: matematica, scrittura, storia, Dante. Esse sono state
scelte per la loro “prototipicità”, cioè per la loro esemplarità categoriale e metodologica; chiaramente non sono le uniche tra quelle possibili e raccomandabili, ma certamente sono momenti essenziali
del percorso scolastico a livello liceale.
Le prime due parti del volume raccolgono le lezioni svolte in seduta plenaria, che sono state
frequentate insieme da tutti i partecipanti: circa un centinaio di docenti delle scuole superiori di
tutte le regioni italiane. Nella prima parte, la relazione Conoscenza e compimento di sé offre l’ipotesi di lavoro e le categorie fondamentali, rispetto alle quali si sono immediatamente paragonati i
coordinatori delle quattro aree. La seconda parte propone le riflessioni di docenti universitari e altri
specialisti, invitati a definire e illustrare le forme del ragionamento nelle quattro aree.
La terza parte del volume riporta, invece, le relazioni volte a esemplificare l’impostazione di fondo
e a rileggere i contenuti specifici di ogni area, in modo da individuarne le peculiarità metodologiche
e trarne le implicazioni didattiche. I partecipanti si sono così suddivisi in quattro grandi gruppi di
lavoro, uno per ogni area: a ciascun gruppo sono stati offerti approfondimenti evocatori di possibili
ulteriori piste di ricerca, di contenuto e di metodo.
Qui finisce il volume, ma non il lavoro di Accademia. Ai partecipanti, infatti – che erano raggruppati in team interdisciplinari (ognuno costituito da un allievo di Accademia per ciascuna delle
quattro aree) – era richiesto un importante lavoro personale e di gruppo. L’obiettivo di ogni team è
stato anzitutto l’approfondimento di un punto sintetico, conoscitivamente e didatticamente decisivo, attraverso l’individuazione e lo studio di un aspetto che, nella riflessione personale e nell’interazione in classe,sultasse rilevante per ciascuna delle quattro aree. Tale aspetto costituisce una
sorta di crocevia interdisciplinare, un macro-tema rispetto al quale vengono interrogati i contenuti
e le pratiche didattiche di ciascuna area. È emersa una serie suggestiva di macro-temi: il desiderio,
l’interesse, la domanda, il rapporto col maestro, la tradizione, il dato, l’oggetto formale, l’implicito, la
prospettiva, l’analogia, l’inferenza, l’errore, il momento euristico, la descrizione, la sintesi, il dialogo,
l’argomentazione. Ciascuno dei quattro componenti di ogni team è stato invitato a elaborare uno
studio delle implicanze del macro-tema nello specifico della sua area. Il processo di ideazione, ricerca e scrittura ha comportato un serio impegno personale e un confronto costante con i colleghi del
team, con i direttori e i coordinatori di area, con i numerosi specialisti coinvolti in Accademia. Tutto
questo lavoro, concluso nella primavera del 2013, ha portato all’elaborazione da parte di ogni team
di una dissertazione, che è stata in ultimo difesa davanti a una giuria formata da docenti universitari
e altri specialisti delle tematiche affrontate. Per una serie di queste dissertazioni, che rappresentano
dal punto di vista scientifico e didattico effettivi contributi e, dunque, offrono risultati e ipotesi di
lavoro che possono rivelarsi utili per altri docenti, si è decisa la pubblicazione nella collana inaugurata da questo volume.
8
Parte I
Virtute e canoscenza
Conoscenza e compimento di sé
Carlo Wolfsgruber
Il lato matematico
Renato Del Monte
La scrittura è strumento di conoscenza e consapevolezza
Raffaela Paggi
Autocoscienza dell’individuo e della comunità attraverso la storia
Paolo Nanni
Il nesso tra conoscenza e felicità in Dante
Luca Montecchi
Conoscenza e compimento di sé
Carlo Wolfsgruber
Siamo ben consapevoli di farci carico di una sfida culturale decisiva. Lo si evince già dal titolo di
questo intervento.
È significativo che, a fondamento di una Accademia in cui si tratta di formazione interdisciplinare e in cui si avviano un discorso e una ricerca squisitamente didattici, si metta a tema il nesso
tra conoscenza e compimento di sé. Un’espressione, quest’ultima, che, essendo sinonimo di felicità,
riguarda l’io, il mio io, l’io di ciascuno di noi e rimanda perciò a un contenuto di esperienza di cui
non ve ne è altro più personale.
D’altra parte, ponendo questo tema, vogliamo semplicemente affermare che la conoscenza non è
fine a se stessa. “Omne agens, agit propter finem” (San Tommaso), e il fine della conoscenza – che
rende ragionevole anche la fatica implicata in essa – è quell’incremento dell’io (compimento) che si
documenta nell’incremento dell’autocoscienza.
La scelta stessa delle aree su cui lavoreremo è stata operata perché esse ci sono parse, più evidentemente di altre, capaci di far emergere l’unità del soggetto conoscitivo.
Le concezioni antropologiche che dominano nel contesto culturale in cui ci troviamo, hanno
un’ipotesi negativa sulla consistenza dell’io; non dell’uomo in genere, come umanità, ma del singolo io concreto. Esse oscillano tra una sorda ribellione a se stessi (che si documenta in una quasi
normale trascuranza dell’io, la quale poi, nei rapporti, si traduce in una facile e diffusa estraneità) e
una remissiva accettazione di sé come goccia panteisticamente indistinta, che non si attesta se non
per effimera emergenza, rispetto al mare dell’essere; quasi fossimo tutti descrivibili dall’aforisma di
Andy Warhol proposto alla prima prova di maturità del 2011: “Nel futuro ognuno sarà famoso [sarà
se stesso] per 15 minuti”.
La nostra concezione dell’io, invece, è tenacemente positiva.
Non seguiamo però le orme di Rousseau, che immaginava la natura dell’uomo come originaria innocenza, corrotta poi dal condizionamento culturale; non intendiamo farci araldi o paladini di quel
“buonismo” che ritiene possibile la crescita dell’io senza la fatica della conoscenza. Ci rifacciamo
piuttosto a quella “solida” antropologia che è espressa da Dante nei suoi famosissimi versi: “Fatti
non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf. XXVI, 119-120).
La ragione
Il nostro giudizio sull’io si fonda sulla consapevolezza che l’uomo ha una sua natura originaria e
che questa natura è costituita secondo una positività irriducibile.
Il fatto che l’io dell’uomo abbia una sua natura originaria è tutt’altro che scontato: esso è spesso
letto come pura risultante di fattori antecedenti (e in questo caso l’educazione non sarebbe altro
che l’analisi di tali fattori); per noi l’io è certamente condizionato, ma non è definito dai suoi condizionamenti: la spia di questo sta proprio nel suo insopprimibile desiderio (e capacità) di libertà, come
fa capire Vasilij Grossman nel suo romanzo Vita e destino.
La positività della natura umana sta, innanzitutto, nella specificità della sua ragione, che è esigenza di significato totale; ma proprio questa è spesso negata, in quanto è ridotta nei confini che le
11
Parte prima. Carlo Wolfsgruber
assegna il dogma scientista (razionalismo).
La specificità della ragione si documenta nella curiosità sconfinata del bambino, che nell’uomo
diventa consapevole, la quale dimostra se stessa come inesausta apertura di fronte all’inesausto
richiamo del reale. Il fatto che l’apertura della ragione sia inesausta non significa soltanto che essa
non viene meno nel tempo, ma che il suo oggetto ultimo è inesauribile, perché è la totalità.
La ragione, perciò, secondo la nota espressione di Benedetto XVI, è veramente se stessa quando è
disponibile a lasciarsi continuamente “allargare” dall’impatto con la realtà, riconquistando così ogni
volta la sua natura originale.
La sfida culturale, in campo educativo come in tutti i campi dell’umano, è dunque intorno alla
concezione di ragione e, nel nostro lavoro di insegnanti, giochiamo innanzitutto l’opzione di cui ha
parlato il Papa emerito.
Esemplificativamente: un testo letterario può essere analizzato esclusivamente alla ricerca delle
sue componenti formali, senza che mai si instauri alcun dialogo tra l’autore e il lettore; la matematica può essere ridotta a definizioni e a formule da applicare senza che si intravveda in essa una grammatica della realtà (video Dominum geometrizantem); la storia può essere ributtata in una sorta di
lontananza, dove si perde ogni valenza di avvenimento significativo per sé e per la società e così via.
Ogni disciplina, così, diventa un particolare su cui ci si ferma per descriverlo e analizzarlo, senza
che esso apra alla prospettiva di un più grande “racconto” della realtà e tanto meno alla direzione
che la realtà ha in se stessa verso un’unità di destino. Perfino l’interdisciplinarità può essere utilizzata come “politica” pedagogica, invece di essere leale obbedienza allo statuto della vita, che è
interdisciplinare in sé.
L’esito di qualsiasi approccio ridotto è il nichilismo, che si documenta nell’incapacità del reale (e
di conseguenza delle discipline insegnate) a destare vero e permanente interesse.
L’ideale e il compito
La nostra ipotesi di lavoro è che la scuola sia, per chi vi si impegna (docenti e studenti), luogo di
educazione all’ideale, che si configura come compito, personalmente accettato, di fronte alla società
e alla storia.
L’ideale, da questo punto di vista, indica una direzione che non fissiamo noi, ce la fissa la natura.
Perseguendo questa direzione, anche con fatica, andando contro le onde, col passare del tempo,
l’ideale si realizza. Si realizza in modo diverso da come uno se lo immaginava; sempre diverso,
sempre più vero. Perciò bisogna cercare di conoscere l’ideale (la struttura della nostra natura) e non
abbandonarsi all’immaginazione e ai sogni effimeri di cui sono feconde le ideologie, anche quando
si consolidano in forme stabili in forza di un potere acquisito.
Il nemico della nostra concezione educativa è proprio il potere che spadroneggia, ogni forma di
potere dispotico che nega la libertà. Specularmente, questa concezione ha la pretesa di essere verificabile esperienza di liberazione.
La parola “compito” indica altrettanto chiaramente un’urgenza esistenziale, assimilabile a quel
furor (furore erotico, poetico e profetico) che già dai greci fu riconosciuto come “divino-mania”. Il
furore primo di un insegnante che voglia essere educatore – non prima, non dopo, non accanto, ma
nel suo insegnamento – è il compito che lui, come uomo, ha verso di sé, verso il suo soggetto stesso:
capire l’essere che lui è e averne rinnovata consapevolezza: il tutto essendo impossibile a chi non si
impegna con la realtà fino al suo significato.
L’insegnamento non è travaso (sia pur scaltro) di saperi, ma comunicazione per osmosi dell’impegno di sé con la totalità del reale in un particolare (disciplina), secondo quanto ci detta la natura
della nostra ragione. In questo modo è annullata radicalmente ogni presunta neutralità della di12
Parte prima. Conoscenza e compimento di sé
sciplina; un docente di matematica insegna necessariamente la “sua” matematica e il coraggio di
dichiararlo è lucida autocoscienza e appassionata lealtà nei confronti dei propri interlocutori.
Prendiamo ora in considerazione il dettato dantesco.
“Fatti”
Intorno a questo participio (passivo!) si gioca la descrizione dell’io umano nel suo specifico.
Segno della qualità dell’attuale clima culturale (e della sua profonda irragionevolezza) è l’uso
della parola “io” come termine quasi del tutto convenzionale, senza alcuno spessore, senza alcuna
profondità di contenuto. Perciò, in questa temperie, viene in primo piano un giudizio sull’io che si
riduce all’introspezione psicologica, o, magari, alla gentiliana autoctisi (atto o processo in cui l’io
crea se stesso), oppure alla sua funzionalizzazione al divenire sociale, ultimamente definita dal potere, magari dello Stato.
Che cosa è invece l’io, quale è la sua irriducibile identità? In altre parole, qual è il contenuto maturo della sua autocoscienza?
Per rispondere usiamo lo stesso metodo di cui ci siamo serviti per definire la ragione: si tratta di
guardare alla nostra esperienza, non per fare esercizio di introspezione, ma per prendere coscienza
di un rapporto in atto con le cose e con se stessi.
“C’è forse in questo determinato istante un’evidenza sperimentalmente più grande, più affascinante, più tremenda di questa, che non ci facciamo da noi? In questo istante non esiste niente di
più profondo e tremendo e nello stesso tempo di più evidente per me che non mi sto facendo io,
l’essere non me lo do io. In questo istante ciò che è più mio è qualcosa che mi è dato. Dato: sono
fatto!” (Giussani 2005: 20).
Il rifiuto di questa evidenza di dipendenza originale, mentre viene spacciato come conquistato
affrancamento dell’io, è invece il suo più grave depauperamento, tanto che censura il fondamento
di ogni crescita umana, di ogni esperienza conoscitiva e addirittura di ogni capacità critica. Stiamo
parlando della sorpresa di esserci: a tale sorpresa si sostituisce il risentimento perché si è o perché
si è così.
Proprio l’esperienza conoscitiva ci documenta che c’è qualcosa nell’io, qualcosa di dato, che è
diretto rapporto con l’Infinito, diretto rapporto con il Mistero, con Dio: questa è la vera identità
dell’io, che viene prima ed è preponderante rispetto a tutti i condizionamenti, di qualsiasi sorta essi
siano. Tanto è vero che l’atto conoscitivo con cui prendo coscienza di essere, è il medesimo con cui
prendo coscienza di essere fatto, ma è anche il medesimo con cui mi rendo consapevole della mia
irriducibilità e della potenza che la mia ragione ha di risituare, attraverso l’incontro con le cose, me
stesso nel cammino al mio compimento.
“Virtute”
Non allude ad alcun tipo di coerenza morale, bensì è la descrizione dell’uomo adulto (vir) che è
veramente se stesso (libero), cioè che obbedisce alla sua natura che lo urge al fine.
Questa urgenza è una spinta ab intus (Omnis gloria filiae regis ab intus, la grandezza dell’uomo
che riconosce di essere fatto è dal di dentro di sé, dice il Salmo 44 al versetto 14), una spinta che è
insopprimibile – anche se l’uomo può decidere di ignorarla, rinunciando così alla sua umanità –, una
spinta che, in qualche modo, partecipa dell’energia con cui il Mistero ha creato tutto e mantiene
nell’essere ciò che ha creato (Rerum Deus tenax vigor, dice S. Ambrogio in un suo Inno), una spinta
che mi fa desiderare, che mi mette in movimento verso il reale, che mi fa essere curioso di tutto, che
13
Parte prima. Carlo Wolfsgruber
non mi fa escludere a priori nulla; anzi, proprio essa detta continuamente alla mia ragione la sua
categoria propria, che è la categoria della possibilità.
Si tratta di una spinta e di una energia che continuamente mi fanno scoprire (e usare) la ragione
come strumento per la mia ricerca del vero.
La natura stabilisce nell’uomo, in ciascun uomo, questa spinta all’uso della ragione; e in essa sta
anche il criterio con cui la ragione vaglia, giudica tutto: si tratta di un criterio oggettivo e infallibile
in vista dello scopo ultimo che è il compimento di sé, la perfezione, la felicità.
La Bibbia chiama cuore questo criterio originale, nativo, comune a ogni uomo, in qualunque
latitudine nasca, a qualunque cultura appartenga; lo chiamiamo anche “esperienza elementare”,
cioè un fascio di esigenze (ed evidenze) originali di verità, di bellezza, di giustizia, di utilità, in una
parola, di felicità.
Ciò che costituisce il volto interiore dell’io è la sua drammatica sproporzione rispetto a queste sue
esigenze originali, ma, nello stesso tempo, proprio questa sproporzione è la scintilla che mette in
azione il motore umano; prima di essa non si darebbe nessun movimento, nessuna dinamica umana
e, perciò, nessuna dinamica conoscitiva.
Nel contesto di cui stiamo trattando, solo il vir è il magister.
La virtù di chi insegna, come già accennato, è dunque quella di essere prima di tutto un uomo che
non dà per scontato il suo cuore: solo così potrà riconoscere e, in qualche modo, sfidare l’umanità
dei propri allievi, con tutte quelle esigenze che li accomunano a sé, con tutto il desiderio di conoscenza, con tutta la ragione e la libertà che qualificano ogni uomo.
Anche il non-ancora-adulto ha già la sua umanità tutta intera (cuore) e il maestro non ha il compito di supplirla, non è chiamato a sostituirla; egli ha invece quasi una funzione profetica, in quanto
vede quello che l’altro è, e di cui l’altro non è ancora consapevole. Il magister dunque riconosce e sa
come far emergere alla coscienza dell’altro la sua natura.
Come questo avviene? Non è il rapporto con il maestro ciò che fa emergere il cuore dello studente; è il rapporto con la realtà che ha il compito di ottenere, e ottiene sempre, questo. Il vero
problema, allora, è che il maestro proponga la realtà, non un discorso sulla realtà. Egli contribuisce
all’incremento dell’autocoscienza del giovane non attraverso esortazioni, ma attraverso l’interesse
per la realtà totale che muove lui. Il maestro ha a che fare con un particolare della realtà, con la sua
disciplina; ma quella comunicazione di interesse totale non può essere giustapposta dualisticamente alla disciplina stessa.
“Non basta affermare che una cosa è interessante perché diventi interessante, non basta la parola
‘interesse’ per creare interesse. Spesso siamo tentati di fare così. Visto che il bene è communicativum sui, ossia si trasmette per osmosi, nessuno può favorire negli allievi un interesse che lui non
ha. Peraltro l’interesse c’è se opera anche dalla parte del docente: è studium, desiderio amoroso di
conoscere, non riscontro compiaciuto di conoscenza acquisita. Così posso comunicare il mio interesse solo se sono in ricerca. Anche quando presento conoscenze acquisite e consolidate da una lunga
pratica didattica, devo riscoprire insieme ai miei alunni – con una esperienza nuova – il significato
di quello che insegno” (Rigotti 2009: 94).
Il magister offre il suo sapere perché esso alimenti nei più giovani lo studium di un particolare
della realtà perché in quel particolare si riflette la positività e la bellezza dell’essere; solo questa
esperienza fa prendere coscienza all’altro “della” capacità (che viene prima “delle” capacità) del
proprio essere uomo.
“Canoscenza”
“La conoscenza è un incontro tra un’energia umana e una presenza. È un avvenimento in cui si
14
Parte prima. Conoscenza e compimento di sé
assimila l’energia dell’umana coscienza con l’oggetto” (Giussani 2010: 10).
Ogni cammino di conoscenza prende l’avvio da un incontro, dall’imbattersi in qualcosa di nuovo,
di reale, che è dato, che non dipende “da” noi, anche se – nel processo conoscitivo – verrà scoperto
e posseduto come fatto “per” noi.
Qual è dunque la dinamica conoscitiva innescata da tale incontro?
L’inizio è l’accettazione del dato in quanto dato, perché c’è. Questa apparente passività costituisce la prima attività umana di fronte alla “cosa” (res) che, con il suo stesso esserci, si dimostra gravida di ciò di cui il soggetto umano ha somma esigenza: l’essere reale. “L’uomo afferma veramente se
stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare se stesso accettando
di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé” (Giussani 2010: 12).
Non si può saltare, dandolo per scontato, questo primo passo: senza di esso, non sarà più possibile
il coinvolgimento totale – ragione e affezione – dell’io. In qualche modo, coincide con la “meraviglia” da cui Aristotele nella sua Metafisica (982b-983a) sostiene prendere avvio ogni filosofia.
Non può filosofare sulla vita uno che non accetta, cioè non ama, la vita!
Senza questa primigenia accettazione, il dato non si dimostra alla coscienza come presenza, ma
come puro fenomeno, nel rapporto col quale l’unica possibile interazione è la proiezione di quel che
si sente o di quel che si pensa (è ultimamente una forma di violenza). Ogni presenza è come se non
ci fosse e la sua inevitabilità, con la sua innegabilità, tante volte è percepita come minaccia.
Nella cultura attuale non è ovvio che la stessa realtà materiale sia percepita come una presenza;
più normalmente la si ritiene, in qualche modo, esistere solo nell’uso strumentale che il soggetto
può farne (ancora una volta è violenza). Evidentemente in tale orizzonte, non può realizzarsi né la
dinamica del segno, cioè il rimando alla totalità che sola soddisfa la ragione, né quella dell’impegno
affettivo, che è esigenza imprescindibile della libertà.
Riconoscere il dato come presenza è, invece, la scoperta consapevole che esso è così altro da
non essere mai riconducibile al già conosciuto, al già saputo; esso è sempre una novità imprevista
e imprevedibile.
La conoscenza, quindi, non solo inizia, ma procede poi anche secondo la dinamica che è descritta
dalla parola avvenimento. “È una irruzione del nuovo che rompe gli ingranaggi, ciò che mette in
moto un processo”, sosteneva Alain Finkielkraut, proprio parlando di conoscenza (Finkielkraut 1992:
58-61).
“Diceva Péguy: ‘Quello che c’è di più imprevisto è sempre l’avvenimento’. Un avvenimento cioè
è ‘qualcosa’ che improvvisamente s’introduce: non-prevedibile, non-previsto, non-conseguenza di
fattori antecedenti. La parola più accostabile ad “avvenimento” è infatti “caso”; la parola “caso”
definisce qualcosa la cui presenza non si spiega ai nostri occhi che la guardano. Un avvenimento
è allora, possiamo dire, qualcosa di puramente e ultimamente casuale per la nostra ragione, per le
nostre capacità. Anzi, per la nostra capacità di indagine e di presa, un avvenimento è tale proprio in
quanto è inafferrabile, ha qualcosa che sfugge … [È] qualcosa che penetra nell’orizzonte e nell’atmosfera della mia esistenza come un meteorite strano, estraneo, senza che io lo possa prevedere e
quindi, ultimamente, capire, poiché l’imprevedibile non è nemmeno comprensibile” (Giussani 1993:
478).
In questo contesto, comprendere è quel rinchiudere in schemi la “cosa”, che Péguy bollava come
tentativo di “esaurire l’evento”; conoscere invece è quella dinamica inesauribile in cui si afferma ciò
che sempre Péguy chiamava “la sovranità dell’evento”.
Solo la conoscenza per avvenimento dà significato positivo al tempo, il cui valore non è più
l’accumulo di saperi destinati a essere dimenticati, bensì la possibilità in atto di una novità continuamente esperita. Per sua natura, infatti, il dinamismo conoscitivo non si arresta, si apre alla
conoscenza di altro e, a ogni passo, l’uomo subisce quel contraccolpo affettivo in cui prende sempre
15
Parte prima. Carlo Wolfsgruber
più coscienza di sé, del suo bisogno di essere e del suo compito.
Come l’affezione umana tende a realizzarsi nel possesso, così la conoscenza: “Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si quieti l’animo, e disira; / per che di giugner lui ciascun contende” (Purg. XVII: 127-129).
La conoscenza nell’uomo non è mai l’asettica presa d’atto dell’oggetto, ma si invera necessariamente in quel possesso che risitua l’io nel suo rapporto con la totalità dell’essere e quindi di fronte
a se stesso e al proprio destino. Io sono più io perché c’è la res che conosco.
L’oggetto veramente conosciuto viene così utilizzato non più in funzione meramente strumentale,
ma ideale, cioè, in un certo qual vero senso, “adorato”, come si adora il “tu”.
Il possesso si realizza attraverso una immedesimazione con un’alterità ed è proprio in questa
fatica che trova il suo giusto ruolo anche l’immaginazione dell’uomo. Qui – e solo qui – l’immaginazione si fa, per così dire, sinonimo di intelligenza e di semplicità, cioè di capacità di “vedere” le
implicazioni di una presenza.
“Tutta la natura dell’uomo è protesa a immedesimarsi, cioè a esprimere l’unità originale, nativa, lo
scopo ultimo di realizzazione che qualifica tutto il moto, il movimento della natura. Anche l’uomo,
come tutto il movimento della natura, spalanca gli occhi al presente, si apre al presente; riconosce,
cioè accetta, si assimila al presente, ama il presente selezionando il più e il meno [è il giudizio:
l’autocoscienza è sempre anche coscienza critica del reale]. Perciò, il cuore dell’uomo è il centro
della realtà perché quello che avviene in tutta la realtà nel cuore dell’uomo diventa autocoscienza…
L’uomo è l’autocoscienza di tutto. Per questo non può trattenersi prima dell’ultimo confine: [trattenersi] sarebbe proprio l’alternativa all’uomo come autocoscienza del tutto, della totalità” (Giussani
2000: 38-39).
Questo scopo ultimo di realizzazione, che qualifica il movimento del reale e che si fa cosciente
nell’io, è quello di cui parla san Paolo in Rm 8, 22-23, quando dice: “Sappiamo bene infatti che tutta
la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che
possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. Esso è anticipato nell’esperienza presente, passo dopo passo: sono momenti
della stessa natura del fine (della fine), sono un anticipo del compimento totale.
Tali momenti sono assimilabili a un’esperienza di contemplazione, come se il velo che nasconde la
totalità si alzasse improvvisamente e uno di schianto intravvedesse, in un punto, la totalità. È questo
che il vangelo chiama “il centuplo quaggiù”, ma è questa anche la verifica dell’autenticità di ogni
percorso conoscitivo: l’esperienza in cui l’io è così potenziato nella sua autocoscienza da pregustare
l’ideale, cioè la corrispondenza tra la sua ragione e la realtà (l’adaequatio rei et intellectus di san
Tommaso, De veritate: q. 1 a. 2 s.c. 2).
Può così accadere, per ogni docente e per ogni studente, quello che avvenne a Paul Klee quando,
sbarcato in nord Africa, si accorse, per la prima volta (e ogni volta è la prima volta) dei colori, ed
esclamò: “Il colore sono io”. L’itinerario conoscitivo è segnato da momenti in cui l’uomo può dire: “La
matematica sono io, la storia sono io, Dante sono io, la scrittura sono io”.
Solo per questo vale la pena di fare scuola!
La libertà
La condizione necessaria, anche se non sufficiente, per questa educazione alla ragione è la libertà
di tutti i soggetti implicati. Educare significa riconoscere all’altro la sua libertà, cioè la sua capacità
di adesione alla realtà e perciò sfidarla; e la libertà va sfidata con delle ragioni adeguate. Questa
sfida esige dal docente l’instancabile tensione ad aderire alla categorialità dei propri studenti.
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Parte prima. Conoscenza e compimento di sé
Perciò, verso la conclusione di questo intervento, mi permetto di formulare a voi docenti quest’unica domanda: quali “spie” individuate nella vostra didattica per verificare – a ogni livello di scuola
– il cammino dell’autocoscienza dei vostri studenti?
La struttura comunitaria del sapere
La conoscenza, così come l’uso adeguato della ragione, è sì personale, ma non solitaria avventura.
Certamente non lo è per il vero scienziato, il quale, nella sua ricerca, non perde mai di vista il dialogo
e il confronto con tutta la comunità scientifica in cui si riconosce e che lo riconosce.
“Non sono preoccupato per la socializzazione, non è un nostro problema. Il problema è che non
si insegna da soli, anche perché non si riesce; e nemmeno si impara da soli.
Il soggetto educante è sempre un noi. […] Questo è un punto da tenere presente: non possiamo
immaginare semplicemente di salvare noi stessi nel rapporto educativo, mentre il resto dei nostri
colleghi … […] La scuola è un’opera comunitaria. […]
Il primo punto è una comunità; comunità che è indispensabile per costituire il progetto. Il progetto va elaborato tra i docenti. Non vuol dire che non è opportuno che ci sia uno che si incarica di una
proposta sintetica, ma i docenti devono comunque riviverla, riappropriarsene, farla loro, ridiscuterla
profondamente. Altrimenti non si realizza” (Rigotti 2009: 57-59).
La disponibilità a questa dinamica comunitaria non è l’ultimo aspetto in cui si deve giocare la
libertà dell’insegnante: il gaudium de veritate di cui parla sant’Agostino nelle sue Confessioni (X, 33)
è sempre anche gioia dell’essere insieme.
Riferimenti bibliografici
Ambrogio, Inni, cfr. http://www.intratext.com/IXT/LAT0064/.
Agostino d’Ippona, Le confessioni, cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index.htm.
Aristotele, 2000, Metafisica, a cura di Reale G., Bompiani, Milano; per il testo greco cfr. http://www.
perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus%3atext%3a1999.01.0051.
Benedetto XVI, 2006, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Incontro con i rappresentanti
della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre.
Dante Alighieri, La Divina Commedia, cfr. www.danteonline.it/italiano/home_ita.asp.
Finkielkraut A., 1992, Tirerò Peguy fuori dal ghetto, intervista di S.M. Paci, in “30 giorni”, n. 6, giugno.
Giussani L., 1993, Un avvenimento di vita, cioè una storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, a cura di Di Martino C., EDIT-Il Sabato, Roma.
Giussani L., 2000, L’autocoscienza del cosmo, BUR, Milano.
Giussani L., 2005, La libertà di Dio, Marietti 1820, Genova-Milano.
Giussani L., 2010, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, Rizzoli, Milano.
Grossman V., 2008, Vita e destino, Adelphi, Milano.
Rigotti E., 2009, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, a cura di Mazzeo R., Mondadori, Milano.
Tommaso d’Aquino, De veritate, in Alarçon E., Bernot E. (a cura di), Corpus Thomisticum, Fundación
Tomás de Aquino, Pamplona, http://www.corpusthomisticum.org/.
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Il lato matematico
Renato Del Monte
“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”
In numerosi episodi della storia della matematica, questo ideale è stato perseguito con determinazione e caparbietà; vorrei rileggerne brevemente alcuni che mi paiono particolarmente significativi.
“Fatti non foste a viver come bruti”: conquiste di autocoscienza
“La morte di Alessandro Magno aveva portato a lotte intestine tra i generali dell’esercito greco.
Ma nel 306 a.C. il controllo della parte egiziana dell’impero era ormai saldamente nelle mani di
Tolomeo I e questo monarca illuminato fu così in grado di volgere la sua attenzione verso sforzi
costruttivi. Fra i suoi primi decreti vi fu l’istituzione ad Alessandria di una scuola o accademia, nota
come Museo, che non aveva pari a quei tempi. A insegnare in questa scuola chiamò un gruppo di
eminenti studiosi, tra cui l’autore del più fortunato manuale di matematica che sia mai stato scritto:
gli Elementi di Euclide” (Boyer 1980).
Euclide, che aveva studiato all’Accademia di Atene con i Platonici, fu chiamato a insegnare al
Museo di Alessandria. Probabilmente la passione per l’insegnamento, insieme al dono innato per la
matematica, spinsero Euclide a scrivere la sua opera più famosa, gli Elementi; nei 13 libri di cui si
compone prendono forma organica, solida e rigorosa, le numerose conoscenze, osservazioni e congetture matematiche dei secoli passati e della cultura presente.
Uno degli aspetti più innovativi e potenti, maturato sicuramente negli anni dell’Accademia, insieme al pensiero dei primi filosofi, fu l’astrazione; cioè la capacità di pensare in termini universali.
“I matematici si servono di figure visibili e ragionano su di esse, ma non a esse pensando, bensì a
ciò di cui esse sono immagine, ragionando sul quadrato in sé e sulla diagonale in sé, e non su quella
che disegnano. Lo stesso si dica per tutte le figure di cui si servono a guisa di ombre o di immagini
riflesse nelle acque, cercando di vedere i veri enti, che non si possono vedere se non col pensiero”
(Platone, Repubblica).
“Il concetto si distingue dall’oggetto reale che rappresenta per il carattere dell’universalità […]
L’universalità può competere solo a enti ideali: nessun ente reale è universale, ogni ente reale è
individuo: è questo e non altro” (Vanni Rovighi 1995).
Con l’astrazione gli uomini capirono di poter concepire concetti ideali, universali, perfetti, dei
quali ogni rappresentazione grafica o materiale era solamente approssimata.
Ma con Euclide gli uomini conquistarono anche un altro traguardo di autocoscienza.
I concetti astratti, come quello di punto, retta, triangolo, parallelogrammo, cono, godevano di
molte proprietà. Alcune di queste erano evidenti: “Da un punto si può sempre condurre una retta
a ogni altro punto”; altre invece lo erano meno: “La somma degli angoli interni di ogni triangolo è
pari a un angolo piatto”. Molte delle proprietà non evidenti erano già note ai popoli antichi, egizi e
babilonesi, che le avevano stabilite però empiricamente, studiando vari casi particolari.
Euclide pose a fondamento della sua architettura logica le affermazioni evidenti e le chiamò
18
Parte prima. Il lato matematico
assiomi. Le altre affermazioni non evidenti, i teoremi, le corredò di un ragionamento rigoroso che
permise di collegarle alle evidenti, mediante quel tipo di ragionamento che nella logica di Aristotele
è il sillogismo, ovvero la deduzione.
Ecco il nuovo traguardo: gli uomini capirono di poter ragionare con metodo rigoroso procedendo
da verità certe ad altre verità ugualmente ed eternamente certe, benché molto differenti dalle prime.
“Seguir virtute e canoscenza”: obbedienza alla propria natura
V sec. a.C., Crotone. Pitagora e i suoi seguaci pervennero al loro più famoso teorema che, come
tutti sappiamo, afferma che in un triangolo rettangolo la somma dei quadrati dei cateti equivale al
quadrato dell’ipotenusa.
? 1 La preziosissima scoperta fu applicata al quadrato di lato 1 con l’intento di trovare la misura della
diagonale. Impossibile. (?!)
Infatti tale misura non è né un numero intero né un rapporto tra numeri interi, e non si conoscevano numeri diversi da questi.
Ciò si evidenzia in un semplice ragionamento per assurdo: supponiamo che si possa scrivere come
rapporto di due interi, ovviamente primi tra loro (cioè privi di fattori comuni):
m (1)
√2 = n
m2
2
2
allora elevando al quadrato entrambi i membri dell’uguaglianza si ottiene 2 = n 2 , ovvero 2n =m . Ma questa nuova uguaglianza, equivalente alla (1), evidenzia il fatto che m2 è il doppio di n2 e ciò
€comporta che m2 abbia tutti i fattori di n2 più un fattore 2.
Ora, poiché nell’elevamento al quadrato non si aggiungono nuovi numeri
oltre a quelli che già
€
2
2
2
compongono la fattorizzazione (così ad esempio 6=2×3 e 6 =2 ×3 ), si può concludere che l’ipotesi
assunta è falsa.
Resta così provato che non esiste alcuna coppia di numeri m,n tali che il loro rapporto valga 2.
Ecco dunque il problema: non si sapeva che numero attribuire alla misura della diagonale di un
semplicissimo quadrato di lato 1. Per ironia della sorte, il problema fu aperto proprio da coloro che
avevano fatto del “tutto è numero” il motto della loro concezione filosofica e della loro scuola.
È stato forse il cm2 più famoso della storia. La virtù degli uomini non ha saputo risolvere quel
problema per i 22 secoli successivi. Uomini di civiltà, storie e culture diverse hanno cercato quella
misura, senza riuscire a trovarla.
Solo nel 1858, riflettendo ancora sul problema, Richard Dedekind (matematico tedesco) giunse
alla conclusione che portò nella realtà culturale del mondo il nuovo concetto di numero irrazionale.
A differenza dei suoi predecessori, pensò di individuare i nuovi numeri per esclusione. Suddivise
tutti i numeri conosciuti in due classi A e B, che fossero separate: in altre parole ogni numero della
seconda classe era maggiore di tutti i numeri della prima classe, e indefinitamente ravvicinate, ovvero per qualsiasi scelta di intervallo (piccolo a piacere), era possibile trovare un numero della prima
classe e uno della seconda distanti tra loro meno di quell’intervallo.
Con questa Schnitt – o sezione – di Dedekind, restava individuato un unico elemento separatore
delle due classi (A,B) che, poiché non apparteneva né alla classe inferiore come massimo, né alla
classe superiore come minimo, era proprio quel numero irrazionale fino ad allora indefinibile.
19
Parte prima. Renato Del Monte
Così, per esempio, se poniamo nella classe A tutti i numeri razionali negativi e tutti i numeri razionali
positivi il cui quadrato sia inferiore a due, e nella classe B tutti i numeri razionali positivi il cui quadrato
sia superiore a due, abbiamo suddiviso l’intero campo dei numeri razionali in maniera tale da definire
un numero irrazionale: in questo caso, il numero che viene solitamente scritto come √2 ovvero la misura della famosa diagonale pitagorica.
È bastato un semplice cambiamento di prospettiva; ma la semplicità è una conquista molto ardua
che richiede una vera genialità.
Ripercorriamo ora brevemente un altro filone di virtù, che inizia anch’esso da quel big-bang di
cultura che è stata la civiltà greca.
Il 5° assioma (affermazione “evidente”) della geometria euclidea recita così: “Il tutto è maggiore
di ogni sua parte”. Vero, verissimo!
Ogni tutto è maggiore di ogni sua parte.
Vero, con crescente perplessità, nei secoli. Finché la virtù di Galileo Galilei osò esporre una nuova
e semplice osservazione: se si prende come “tutto” l’insieme dei numeri naturali (1, 2, 3, 4, 5 ecc.) e
come “parte” l’insieme dei loro quadrati perfetti (1, 4, 9, 16, 25 ecc.) che, sono una ben piccola parte
dei numeri naturali, si può stabilire una corrispondenza biunivoca di ogni numero col suo quadrato;
una corrispondenza, perciò, di un tutto con una sua parte, che dunque risulta essere ugualmente
numerosa; cosa paradossale, benché ineccepibile!
Ecco un nuovo passo di conoscenza, in cui un nuovo orizzonte si è aperto: l’assioma euclideo vale
solo per insiemi finiti, per quelli infiniti no. Ed è interessante notare che sono stati necessari altri 2
secoli perché (nuovamente) Dedekind, vedesse con chiarezza il nuovo concetto e lo descrivesse con
una definizione:
“Un insieme è infinito se può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte”.
Così gli insiemi finiti, i soli considerati dagli antichi, ebbero una definizione in negativo: “Sono
finiti gli insiemi che non possono essere messi in corrispondenza biunivoca con una loro parte propria”.
Ma la virtù dell’uomo ha superato anche questo traguardo per… seguir canoscenza: il 29 giugno
1877 il matematico tedesco Georg Cantor scrisse al suo collega e connazionale Richard Dedekind
per la seconda volta in una settimana: sollecitava infatti la risposta a una sua precedente lettera del
25 giugno nella quale chiedeva un parere riguardo a una sua osservazione che lo lasciava oltremodo
stupito.
Oggetto sempre un quadratino di lato 1, appoggiato questa volta sugli assi di un sistema cartesiano. Come Galileo, anche Cantor usò la corrispondenza biunivoca per mettere in relazione i punti
dell’intera
superficie del quadrato con i punti del solo lato.
P (0, a1 a2 a3 …; 0, b1 b2 b3 …)
P'(x = 0 ,a1 b1 a2 b2 a3 b3 …) Egli infatti pensò di associare al punto P del quadrato di coordinate xp=0,a1a2a3… e yp=0,b1b2b3…,
il punto P’ del suo lato, di ascissa x = 0,a1b1a2b2a3b3…
Questo semplice abbinamento lo portò a concludere che nell’area ci sono tanti punti quanti sul
solo lato: conclusione paradossale, benché ineccepibile.
La lettera di Cantor terminava con la seguente frase: “Fintanto che voi non mi avete approvato,
20
Parte prima. Il lato matematico
io posso solo dire: lo vedo, ma non ci credo”.
Oltre alla conclusione, che ci trova tuttora increduli, arriva fino a noi un bellissimo esempio di
dinamica comunitaria del sapere.
Credo che la miglior didattica sia quella finalizzata a far riaccadere in ogni studente le stesse
scoperte di autocoscienza e di virtù che episodi come quelli accennati, insieme a moltissimi altri, ci
testimoniano.
Credo anche che sia molto importante accompagnare gli studenti a fare esperienza che ogni vero
“sapere” è un atto di pensiero personale e di approfondimento della propria capacità di conoscere,
descrivere, collegare rigorosamente concetti che proprio in forza della loro natura astratta sono
solidamente reali, tanto che stanno anche, per così dire, nel profondo di ogni realizzazione tecnica.
Per questo ogni domanda e ogni curiosità razionale deve essere considerata fino alla sua soddisfazione, fino a intuire che la trama già dipanata nella storia e sui libri trova consonanza con le esigenze dell’intelletto di ciascuno; fino a intuire, parafrasando Paul Klee, che “la matematica sono io”.
Da ultimo, solo una nota riguardo al compimento di sé.
Il 2° dei postulati di Euclide dice: “Una retta terminata può essere prolungata per diritto, continuamente”.
Mi sembra un’ottima metafora della dinamica della conoscenza scientifica.
Riferimenti bibliografici
Boyer C., 1980, Storia della matematica, Mondadori, Milano.
Platone, Repubblica.
Vanni Rovighi S., 1995, Elementi di filosofia, La Scuola, Brescia.
21
La scrittura è strumento di​
‌conoscenza e consapevolezza
Raffaela Paggi
Qual è il compito della scrittura in una scuola che si prefigga l’obiettivo di incrementare la conoscenza e la consapevolezza dei suoi docenti e dei suoi studenti?
La scrittura, strumento essenziale di ogni disciplina, di ogni sapere strutturato e tramandato, ma
anche di ogni attività razionale che voglia sfidare il tempo e lo spazio, è essenzialmente consegna
del discorso a una dimensione di perennità.
In quanto discorso, essa è strumento di conoscenza prima ancora che di comunicazione: attraverso la denominazione, il parlante conosce ciò che c’è, ne prende possesso.
Dare un nome alle cose è il compito del primo uomo, si pensi ad Adamo nella Genesi, è il compito
di ogni uomo evocato dalla realtà a conoscerla, “confinandola”, dicendone il destino in rapporto a sé,
riconoscendone l’alterità e la sua caratteristica di dato, di dono, dunque la sua positività. Collocare
gli avvenimenti nel tempo, attraverso l’uso del verbo, significa riconoscerli parte di una storia, che
ha un’origine e un destino, significa riconoscere sé come punto di osservazione della storia: prima di
me, dopo di me, presente e futuro. Denominare gli oggetti, i concetti, le situazioni, è dunque la prima
azione conoscitiva che l’uomo compie. E il discorso ha a che fare con il proprio perfezionamento, con
la propria vocazione di uomo, perché nasce dall’esigenza del giudizio, esigenza che l’uomo scopre
in sé, come dato, fin dai suoi primi passi, quando inizia a parlare per mettersi in rapporto alle cose
e agli altri. È mettendo in relazione nomi e verbi che l’uomo formula il giudizio (come ben illustrato
da Platone nel Sofista e nelle prime pagine del trattato Sull’interpretazione di Aristotele), ovvero
afferma la verità o la falsità, il senso della cosa in rapporto a sé, alla sua attesa di compimento
(“adaequatio rei et intellectus”, san Tommaso): “Essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella
situazione, nella sequenza lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile né semplice. È un’invasione
dell’eterno, e viene fatto solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità” (O’ Connor 1993).
Oltre che strumento per favorire la presa di possesso della realtà, mettendola in rapporto con sé,
il discorso favorisce anche l’incremento dell’autocoscienza: contemplando l’oggetto, la situazione,
la sequenza di cui si scrive, si contempla lo strumento del dire; mentre lo scrittore costruisce il testo, scopre la sua ragione all’opera, coglie le possibilità offerte dalla strumentazione che gli è data
per usarla nel pieno delle sue potenzialità (la lingua). Si stupisce di quel datum che è la lingua e di
quell’organon, la ragione, che coglie e attesta nessi, pone domande, inventa mondi possibili, innesca
catene inferenziali che producono conoscenza fondando la verità del dire ancora sulla verità del già
detto.
L’eterno, origine della realtà di cui si prende possesso attraverso il discorso e della ragione che è
data per coglierla nella totalità dei suoi fattori e nel suo significato ultimo, origine della lingua che
è data per attestare questo processo … l’eterno è anche il destino del testo scritto. La scrittura si
configura come attività che sfida il tempo e lo spazio, per consegnare ad altri il proprio personale
tentativo di ricerca del vero, di comprensione del reale e di creazione di mondi possibili, per sottoporre alla ragione altrui le ragioni del proprio dire, il proprio giudizio.
In questo senso scrivere è un esercizio della virtù: il testo come impegno col destino di fronte al
mondo, luogo di incontro con l’alterità: “Ma c’è un granello di stupidità del quale lo scrittore può
22
Parte prima. La scrittura è strumento di conoscenza e consapevolezza
difficilmente fare a meno: lo starsene a fissare senza andare subito al dunque. Più a lungo guardate
un oggetto e più mondo ci vedrete dentro; ed è bene ricordare che lo scrittore di narrativa serio parla
sempre del mondo intero, per limitato che sia il suo scenario” (O’ Connor 1993).
Scrivere di un particolare per scrivere del mondo intero e al mondo intero. In tal senso si scopre
che il particolare evoca l’intera ragione di chi lo contempla, di chi lo vuole possedere nella sua profondità: l’impegno con il particolare è testimonianza del compito di ogni uomo, della sua vocazione
alla totalità. Questa natura segnica della realtà, si riflette nella natura propria del testo, che è il vero
segno linguistico, non il singolo termine – che ha sì un certo potere conoscitivo, ma non comunicativo –, non la lingua in quanto codice, che non è un sistema di segni, ma un sistema segnico, la cui
natura strumentale è cioè finalizzata alla costruzione di segni, ma il testo vero e proprio. In quanto
segno, il testo ha il potere di mettere in relazione l’oggetto di conoscenza e lo scrittore mentre,
contemplandola, attesta la sua scoperta della realtà, e al contempo lo scrittore e il lettore a cui è
destinato il testo, che, a sua volta, interpretandolo, è messo in relazione con il tentativo di risposta
alla domanda che origina il testo stesso. Una semiosi destinata alla totalità, cioè all’incontro con il
senso della realtà, origine e fine dell’atto di scrittura.
Riflettere sulla didattica della scrittura ha dunque innanzitutto come scopo il riappropriarsi del
senso di tale attività, del valore del testo scritto come atto conoscitivo e comunicativo, per sfidare
la ragione degli studenti a mettersi all’opera cimentandosi in un’attività che per i più è sentita come
ostica e arida. La scrittura non può essere infatti ridotta a mera tecnica, e la sua didattica non può
ridursi a fornire indicazioni e procedure da ritenersi sempre valide qualunque sia l’oggetto di cui si
scrive e a prescindere da mittente e destinatario, che invece di essere considerati persone concrete e
reali, con la loro esperienza, la loro storia, il loro cuore, sono ridotti a strategie testuali, come teorizzato da Umberto Eco (1979): “Quando un testo viene considerato in quanto testo, e specie nei casi
di testi concepiti per una udienza assai vasta (come romanzi, discorsi politici, istruzioni scientifiche
e così via), Emittente e Destinatario sono presenti nel testo non tanto come poli dell’atto di enunciazione quanto come ruoli attanziali dell’enunciato”.
Spesso nelle aule scolastiche il testo scritto è utilizzato alla stregua dei questionari, per verificare
l’apprendimento di nozioni, oppure è l’occasione per effondere i propri sentimenti e le proprie opinioni in nome di una malintesa libertà del dire. In questo volume vengono invece messe a tema le
finalità e le condizioni di una reale esperienza testuale, a cui è sottesa una concezione di testo come
“meccanismo metanoetico”, producendo e interpretando il quale avviene un cambiamento dell’io,
un riposizionamento dell’io rispetto alla realtà, una crescita della categorialità, cioè avviene conoscenza e autocoscienza: “Un evento comunicativo è uno scambio di segni che produce senso, dove
per senso intendiamo il cambiamento delle soggettività coinvolte nell’evento comunicativo stesso,
consistente in un loro diverso atteggiamento verso la realtà in senso lato. In altre parole l’effetto di
senso è un fenomeno che colpisce la modalità con cui il soggetto si rapporta all’altro (il destinatario
e le “altre cose”) (Rigotti e Cigada 2004).
Riferimenti bibliografici
Aristotele, De interpretatione.
Eco U., 1979, Lector in fabula: la cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano.
O’Connor F., 1993, Natura e scopo della narrativa, in Id., Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di
scrivere, Theoria, Roma-Napoli.
Platone, Sofista.
Rigotti E., Cigada S., 2004, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano.
23
Autocoscienza dell’individuo
e della comunità attraverso la storia
Paolo Nanni
La storia come autocoscienza
“Ogni epoca agogna un mondo più bello” osservava Huizinga, precisando i modi con cui tale fenomeno si è articolato nelle diverse epoche. La rilevanza dell’osservazione mette in evidenza lo specifico della conoscenza storica critica, attenta alla ricostruzione di forme; ma mostra anche quel senso
storico che si identifica nella capacità di rilevare quel modo d’essere di ogni epoca: l’“agognare”. Un
modo d’essere che connota ogni cultura o civiltà, che travalica gli stessi risultati realizzati, tanto
che lo storico olandese aggiungeva che ogni epoca ha lasciato “nella tradizione più tracce delle sue
sofferenze che della sua felicità” (Huizinga 1966: 37).
In questa capacità di cogliere dati storici e implicazioni, dimensioni materiali e immateriali, fili
che legano particolari e contesti generali, risiede lo specifico della conoscenza storica. La storia si
mostra infatti come l’esperienza esistenziale, l’esistere nella storia del vero, dell’alterità; essa ci
propone così quel rapporto col vero come realtà ineffabile eppur mobilitante, tanto che fin dall’antichità si osservava la maggiore efficacia della narrazione storica che neanche della filosofia, la forza
psicagogica degli exempla (Sordi 1982: 7-29).
Attraverso la storia, la tradizione, siamo raggiunti da qualcosa che appartiene alla nostra identità:
perciò la storia è eziologia, anche di sé. Non saranno mai sufficienti mere inventariazioni analitiche di dati senza un punto sintetico, senza l’impegno con l’intrinseco significato che accomuna le
discipline umanistiche in quel susseguirsi di strati interpretativi che si riflettono nel camino dello
sguardo evidenziato da Panofsky (2010: 29-57): dal soggetto primario o naturale (fatti, espressioni), al soggetto secondario o convenzionale (immagini, storie, allegorie), al significato intrinseco o
contenuto, quel “qualcosa d’altro” che in storia tocca l’autocoscienza dell’individuo e della società.
La storia, dunque, è il luogo dove i giovani possono lavorare sull’esperienza della propria identità
e della propria civitas, per farla propria, giudicarla, farne giudizio per la vita. Perché quanto osserviamo sul palcoscenico della storia, come quell’“agognare un mondo più bello”, si riflette nella propria
autocoscienza. Imprese, istituzioni, relazioni, ideali e percezioni, aspetti materiali e immateriali: tutto concorre nella vita e nel destino degli uomini, perché “ciascun confusamente un bene apprende
/ nel qual si queti l’animo, e disira / per che di giugner lui ciascun contende” (Purg. XVII, 127-129).
La sfida della conoscenza storica
L’autocoscienza incide, tuttavia, anche nell’attuarsi stesso della conoscenza storica. Come nella
vita la realtà si rende trasparente nell’esperienza1 – per questo implica la ragione –, così la realtà
storica implica la coscienza di un soggetto per essere riconosciuta come oggetto rilevante (avvenimento). A differenza dei mondi possibili del poeta, che descrive “fatti che possono accadere”, lo
storico descrive “fatti realmente accaduti” (Aristotele, Poetica, 1451ab), la dimensione attuata della
realtà. La stessa nascita della scienza storica si fonda infatti su due colonne: la critica delle testi1 Giussani, L. 2001: 143.
24
Parte prima. Autocoscienza dell’individuo e della comunità attraverso la storia
monianze (Tucidide) e il criterio di rilevanza, ovvero l’interesse affermatosi nel mondo greco non per
inventari di dati, ma “per ciò che il logos faceva di un materiale raccolto in base a criteri soggettivi”
(Pohlenz 2006: 337).
La storia è dunque un incontro tra una realtà (nello specifico immersa nel suo esistere nella
storia-passato) e un soggetto (nello specifico immerso nel suo esistere nella storia-presente), che si
pone nel momento in cui si comunica, si narra (opus oratorium maxime, Cicerone). La realtà storica si presenta ai nostri occhi sotto forma di dati che lo storico riconosce per i propri interlocutori,
mettendo così alla prova quella “primigenia accettazione” del dato, senza la quale “il dato non si
dimostra come presenza, ma come puro fenomeno”2.
V
“La conoscenza storica è sempre, in un modo o nell’altro, autocoscienza” osservava Gurevic (1983),
mettendo però in guardia dal rischio di applicare le “proprie misure”. Si manifesta qui il dilemma caratteristico della nostra epoca: se nella conoscenza necessariamente interferisce il soggetto, questo
impedisce una conoscenza certa? Ripetiamo volentieri che la storia è la realtà storica (dato, fatto,
fenomeno) e non le interpretazioni. Ma occorre riflettere: cosa è reale? La certezza della conoscenza
è in proporzione alla quantità di dati? Ecco raggiunto il limite (confine) che segna il problema del
rapporto con la realtà.
Siamo dunque di fronte a un’alternativa: o evitare l’impresa, rimanendo al di qua delle colonne
d’Ercole, nel mare nostrum di ciò che possiamo possedere con i nostri strumenti (storico-critici)
o con i nostri schemi interpretativi; oppure accettare la sfida dell’oceano del significato (i nessi e
una sintonia con l’oggetto), sollecitati da quel richiamo che ci invita a comprendere (conoscenza),
a scoprire qualcosa di sé (virtute): “Fatti non foste a vivere come bruti, / ma per seguir virtute e
canoscenza” (Inf. XXVI, 119-120).
Un dinamismo di conoscenza che inizia già nell’originarsi del
gesto
L’opposizione soggettivo-oggettivo in storia discende da quell’esaltazione-menomazione della
ragione che è il dogma scientista. L’insistenza sulla metodologia disciplinare è l’inevitabile conseguenza, senza mettere a fuoco l’oggetto specifico (e dunque l’interesse) della disciplina stessa. Per
la storia, materia sfuggente tra scienza e arte, il tentativo di affrontare i problemi epistemologici
finisce spesso per essere affidato a trattazioni sulla teoria della conoscenza o dell’interpretazione
(ermeneutica) che, quanto impegnano la riflessione, tanto risultano inutili al mestiere dello storico e
ai risultati della sua indagine. Intendiamo cogliere invece i fattori essenziali in gioco, quasi tentando
di ripercorrere quella necessaria approssimazione nella dinamica del conoscere: “È un paradosso
da cui non si può scappare: la ragione raggiunge la certezza o la pienezza di un ‘vero’ attraverso
approssimazioni, passi approssimativi. L’approssimazione non è una irrazionalità, perché l’approssimazione – per usare un’altra metafora – pre-sente, anticipa, ha il presentimento di qualcosa di
serio” (Giussani 1996: 23).
La segreta domanda
C’è un presentimento che precede ed è costitutivo della domanda (domande) con cui si affronta
ogni ricerca, ogni indagine, ogni conoscenza storica. Una domanda che costituisce il principio formale che permette di vedere (dati che divengono oggetti), perché se uno non ha il problema, il quid
nascosto, non ha nemmeno la storia.
2 Vedi Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume.
25
Parte prima. Paolo Nanni
Occorre il coraggio di prenderlo sul serio, perché si trova, nel bene e nel male, quello che si cerca.
“Ogni creazione – affermava Stravinskij – suppone all’origine una specie di appetito che viene
dalla pregustazione della scoperta. La pregustazione dell’atto creativo accompagna l’intuizione di
un’incognita già posseduta, ma non ancora intelligibile, e che sarà definita soltanto dallo sforzo della tecnica vigile” (Stravinskij 1983). Prima di iniziare una strada di conoscenza, c’è un presentimento
che fa guardare la cosa, un approssimarsi che esige che la cosa sia compresa sotto la pressione di
una segreta domanda che nasce dalla vita, dall’esperienza, ma che si rende intellegibile in sé davanti
alla cosa: la domanda è il rapporto tra la totalità del soggetto e la totalità dell’oggetto. In questa
risonanza l’oggetto di studio partecipa del destino della propria vita e del mondo: e “io sono più io
perché c’è la res che conosco”3.
La ragione all’opera
Le regole tassative della conoscenza storica implicano anche la capacità di lavorare con specifici
registri per compiere passi di certezza: affermare qualcosa con in mano le ragioni in rapporto con la
realtà (antidoto al fanatismo e al bigottismo). Si tratta ad esempio della capacità di proporzionare
il particolare con il contesto: sono i quadri o i problemi generali a far risaltare i casi singoli; tanto
quanto sono i casi particolari a dare una più giusta proporzione alle ricostruzioni generali. Oppure
la distinzione tra attendibile (o affidabile) e verosimile.
Possiamo domandarci: è verosimile che un mercante del Trecento doni alla fine dei suoi giorni i
propri averi per comprare il “paradiso”? L’ipotesi è certamente verosimile, non solo alla luce della
nostra mentalità, ma anche a quella del tempo, come nel caso del ser Ciappelletto di Boccaccio (Decameron, I, 1). Ma esaminando singoli casi di mercanti medievali non è accettabile questa ipotesi di
verosimiglianza: l’attendibilità è la norma dello storico.
La ragione all’opera nella conoscenza storica si mostra anche nella sua capacità di cogliere impliciti che restituiscono il senso agli eventi storici, trasfigurano i dati in avvenimenti, in oggetti storici
specifici. Nella complessa discussione circa la fine della schiavitù antica, pur ridimensionando il
ruolo esercitato dalla Chiesa, uno storico come Bloch (1993: 3-40) non poteva non osservare un
dato inedito: “Non era tuttavia poca cosa l’aver detto allo ‘strumento provvisto di voce’ (instrumentum vocale) dei vecchi agronomi romani: ‘Tu sei un uomo’ e ‘Tu sei un cristiano’”; un evento che
non ha solo valore episodico, ma ha un carattere di avvenimento epocale. Oppure avvenimenti che
coinvolgono la persona, che propongono l’impresa del destino. Di fronte all’epilogo della storia di
Carlo V – dall’Impero su cui non tramontava mai il sole al distacco di Yuste – non può non imporsi
una elementare domanda: “Ma perché?” (Braudel 2003: 443-489). In quel perché si esprime una
domanda che stabilisce una consonanza tra la figura dell’imperatore e il ricercatore, un’analogia che
è il presentimento del destino.
Anche l’interpretazione storica, sul piano generale, può muoversi enucleando e ricostruendo avvenimenti o oggetti storici specifici catalizzatori della conoscenza o di un compito comune. In due
occasioni mi è stata rivolta una obiezione derivante dalla stessa radice: “L’individuo è il prodotto
delle strutture che lo definiscono e dunque in che misura può esistere un protagonismo individuale?”; oppure: “Ha senso parlare di desideri o aspirazioni personali in uomini del Medioevo che vivevano determinati dalla cornice della societas cristiana?”. Non ho avuto difficoltà a rispondere: ora
che c’è il mio libro su Francesco di Marco Datini, chiedetelo a lui (Nanni 2010).
La scrittura di storia mostra una sua specifica caratteristica: una narrazione capace di affermare
qualcosa con in mano le ragioni.
3 Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume.
26
Parte prima. Autocoscienza dell’individuo e della comunità attraverso la storia
È il momento in cui il soggetto si fa a sua volta testimone, afferma con attendibilità ciò che ha
visto. Un impegno della ragione che si attua di fronte a due interlocutori: la realtà del passato (ciò
di cui narra) e i suoi destinatari (coloro a cui narra).
Riferimenti bibliografici
Bloch M., 1993, Come e perché finì la schiavitù antica, in Id., La servitù nella società medievale, La
Nuova Italia, Firenze (ed. orig. Mélanges historiques, Paris 1963).
Braudel F., 2003, Carlo V. Testimone del suo tempo: 1500-1558, in Id., Scritti sulla storia, Bompiani,
Milano (ed. orig. Écrits sur l’histoire, Paris, 1969-1990).
Giussani L., 1996, Si può (veramente?!) vivere così?, Rizzoli, Milano.
Giussani, L., 2001, Dal temperamento un metodo. I libri dello spirito cristiano: Quasi Tischreden, vol.
6, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.
Huizinga J., 1966, L’autunno del Medioevo, Sansoni, Firenze (ed. orig. Herfsttij der Middeleeuwen,
1919).
Nanni P., 2010, Ragionare tra mercanti. Per una rilettura della personalità di Francesco di Marco
Datini (1335 ca.-1410), Pacini, Pisa.
Panofsky E., 2010, Iconografia e iconologia. Introduzione allo studio dell’arte del Rinascimento, in Id.,
Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino (ed. orig. Meaning in the visual Arts. Papers in and on
Art History, 1955).
Pohlenz M., 2006, L’uomo greco, Milano, Bompiani (ed. orig. Der hellenische Mensch, 1974).
Sordi M.,1982, Dalla storiografia classica alla storiografia cristiana, “Civiltà Classica e Cristiana”, 3.
Stravinskij I., 1983, La poetica della musica, Curci, Milano.
27
Il nesso tra conoscenza
e felicità in Dante
Luca Montecchi
L’orizzonte di positività che ci connota – dichiarato da Carlo Wolfsgruber nel contributo che apre il
presente volume – è quello in cui appunto si situa Accademia e la ragione per cui la si è fatta.
La dichiarazione è evidentemente impegnativa, laddove l’orientamento prevalente nella cultura
odierna è debole, relativistico e soggettivistico, refrattario e sovente riluttante ad assumere la realtà
nel suo valore irriducibile di dato, specie nel suo permanere nel tempo lungo della tradizione. Un
dato con cui misurarsi.
A tale professione, non di fede, bensì di ragione, mi allaccio per illustrare il punto di vista dal
quale guardiamo a Dante e ne affrontiamo lo studio. Il reale per Dante ha sempre alcunché di positivo in quanto è sempre significativo, ossia signum facit naturae e ad cor loquitur. Nella Commedia
il reale è sempre allegorico, non però da sùbito, ex abrupto, per un sùbito prodigio; lo diventa agli
occhi e alla mente dell’autore-protagonista del poema per successiva ragionevole approssimazione:
dalla fragilità estrema fino al gaudium de veritate Dei. In Dante la ragione è eminentemente l’òrganon percettore del reale, che non è già la somma dei realia presi come banca dati, per accumulo,
interessanti per un analista che valuti ex post, ma del tutto inservibili all’uomo ordinario che vive e
opera in actu exercito e pensa mentre agisce. Essa è piuttosto l’organo che coglie il logos – insieme
il senso e la ragionevolezza – e la direzione prospettica, teleologica, salvifica della realtà. Con ciò
si rende imprescindibile l’impegno a ragionare, cioè a darsi o chiedere spiegazione dei dubbi, ad
attrezzarsi nell’uso largo del logos – di ratio atque oratio – per dar ragione, argomentandoli, di un
giudizio o di una decisione.
Come Faust, il dotto onnisciente e inappagato al principio del dramma goethiano, così Dante,
alle soglie del suo itinerarium, ha fatto suo, se non l’intero scibile, di certo tutto quanto le scholae
e le summae, le enciclopedie medievali, mettevano a disposizione e ha maturato un’esperienza del
mondo di valore incomparabile. Eppure, non soltanto come Faust non è felice, ma, nel pieno del
“traviamento” – cioè di un generale smarrimento esistenziale e artistico – di chi è giunto a mezzo
del guado della vita, addirittura dispera della salvezza, che da sé egli non può darsi. Come dirà Dante
sulla cima del Purgatorio nella risposta alla donna amata, il traviamento si può genericamente definire un prevalere del tempo sull’eterno, dell’apparenza delle cose sul loro significato. Tutto il sapere
acquisito e tutta la storia vissuta svaniscono alla prova del baratro – che è poi il rovescio del destino.
La luce che Dante vede dalla selva oscura gli dà la speranza di riguadagnare tutto quel sapere che
già possedeva, ma che fino ad allora non gli era valso a salvarsi. Lo riguadagna in grazia di un bene
intravisto e in virtù delle guide che via via glielo offrono (con tutta la sua ben nota e anche irritante
“superbia” di poeta sommo, non si può chiudere gli occhi dinanzi al ripetuto, continuo abbassamento o, meglio, all’autentica mortificazione di Dante, che si presenta proprio come un discepolo, uno
scolaro che vuol capire e imparare), così che il suo tragitto penitenziale è insieme un itinerario di
risignificazione – di nuovo guadagno – di tutto quel sapere, finalmente ancorato al vero e proiettato al cielo, destinato alla gioia del bene. L’esatto opposto del raffinato, ostinato, intellettualismo
dell’amico Guido Cavalcanti, il cui superiore ingegno è esposto al “fummo” dell’orgoglio intellettuale
che acceca.
Ma a differenza di Faust, che stipula un contratto di mutuo scambio con Mefistofele – il potere
28
Parte prima. Il nesso tra conoscenza e felicità in Dante
acquistato ipotecando l’anima –, Dante testimonia che si può essere, anzi, diventare se stessi a patto
di accettare un soccorso, un bene donato (un munus, più che un donum) che ti attrezzi per il cammino che si sta compiendo in vista di un bene infinito. Col che, comprendiamo come quell’organo
della conoscenza che chiamiamo “ragione” si dia come un dirsi del pensiero in relazione, come un
sottoporsi e un consegnarsi alla ragione di un altro, come lo sperimentare la tenerezza di un padre.
È quasi superfluo menzionare il caso emblematico di Virgilio: maestro, autore, duca, padre, appunto.
Di conseguenza, ogni incontro non è per Dante mera opportunità d’apprendere qualcosa che già
non sappia, ma è occasione per darsi ragione di ciò che viene riscoprendo, cioè per giudicare l’esperienza, per argomentarsi, per impossessarsi degli strumenti concettuali che corroborino la riscoperta
e dicano la rilevanza e il sapore, in un processo di graduale avvicinamento al fine. Basti il celeberrimo
exemplum di Francesca da Rimini, dannatamente travolta con Paolo nella bufera infernale: all’ascolto del loro agghiacciante romanzo, Dante a tal punto è traversato da quella tragedia che, nel perdere
i sensi, arriva a un passo dall’identificarsi nella sorte dei due amanti. Ma è solo così, nella trafittura
provata, nella vertigine precipitante, che egli può cominciare a giudicare la sua stessa trascorsa illusione di poeta d’amore nutrito dell’ideale (e della retorica) della fin’amors, dell’amor cortese: mentre
partecipa, anzi, s’immedesima nello strazio dell’anima dannata, prende anche le distanze dall’errore
contemplato e si rimette docilmente in cammino, in progresso verso il Bene infinito.
La Commedia, assai più della Vita Nuova o del Convivio, senza cedimenti né infingimenti, insegna
o, meglio, svela che la verità è finalmente la materia prima del canto del poeta, che non ne fa possesso acquisito e detenuto, bensì la testimonia, la serve, la onora a rischio della vita. E non si può
servire la verità soltanto oggettivandola, tenendola a distanza, foss’anche per scrupolo di purità: si
può e si deve “appresentarla” con la forza persuasiva della testimonianza e mettendo a rischio il
proprio (buon) nome, disponendosi a un cambiamento imprevedibile, di arte non meno che di vita.
A patto di un’ascesi non intellettualistica, bensì umile (come il sermo che la esprime) e disposta
alla sequela di chi promette e comanda di “tenere altro viaggio” se davvero vuole “campar d’esto
loco selvaggio”. Una strada – lo sappiamo – di sacrificio, che al pellegrino costa “prieghi e lagrime”,
che è “duro calle”, che esige l’esproprio di “ogne cosa diletta / più caramente”, ma che è illuminato,
premiato, colmato, dalla felicità della fede: “questa cara gioia / sopra la quale ogne virtù si fonda”.
Da questa fondamentale opzione dell’Alighieri è germinata la nobile lingua italiana con la sua
letteratura, che lungi dal – o prima di – porsi quale letteratura nazionale, è stata ponte universale,
nel tempo e nello spazio, tra gli autori greco-latini e le grandi letterature europee, da Shakespeare a
Dostoevskij. Per questa via si sono incamminati i poeti-scrittori religiosi, morali e civili del Novecento, da Pound a Eliot a Mandel’štàm, da Pascoli a Gozzano a Rebora, da Montale a Pasolini (per tacere
di Sbarbaro, Luzi, Caproni, Giudici, Quadrelli, e di Seamus Heaney). Sulla medesima traccia dantesca
ci siamo avventurati noi, insegnanti e studiosi, che “ci movemmo con la scorta fida”.
Stiamo senz’altro con Osip Mandel’štàm: anche per noi i canti della Commedia sono come “proiettili scagliati verso il futuro, che esigono un commento ad futurum”.
Riferimenti bibliografici
Mandel’štàm O.E., 1994, Conversazione su Dante, Il Melangolo, Genova, in Id., Sulla poesia, Bompiani, Milano 2003.
Ossola C., 2012, Introduzione alla Divina Commedia, Marsilio, Venezia.
29
Parte II
Le forme del ragionare
Alcune domande di fondo sulla matematica
Renato Del Monte
Il ragionare matematico
Marco Bramanti
Introduzione ai temi della scrittura
Raffaela Paggi
Il testo come logos: unità di ragione e linguaggio
Eddo Rigotti
Il ragionare storico. Questioni di fondo sulla storia
Paolo Nanni
Intervista a Giovanni Cherubini
a cura di Paolo Nanni
Dall’oggetto il metodo. Per esempio in storia
a cura di Paolo Nanni
Ragioni nuove per studiare Dante
Luca Montecchi
Leggere Dante nel XXI secolo
Enrico Malato
Alcune domande di fondo sulla matematica
C’è una dimensione inevitabilmente matematica
nella vita e nel pensiero di ciascuno, così come
nella vita e nel pensiero di società ed epoche
storiche.
Di questa dimensione si tende spesso a
ignorare la vastità e la portata, concentrando
l’attenzione sui soli aspetti pratici, applicativi.
Questa riduzione è paragonabile a quella di chi
pensasse di considerare e utilizzare la Divina
Commedia come testo di rime e immagini per
vendere prodotti e lanciare mode.
Morris Kline, celebre storico della
matematica, scrive riguardo alle (famosissime)
realizzazioni tecniche di Archimede di Siracusa:
“Non che a esse si fosse dedicato come a un
lavoro degno di attenzione; in maggioranza
erano divertimenti di geometria, che aveva fatto
a tempo perso”. E di esse il grande matematico
non lascia alcuno scritto, mentre scrive molto
sulle dimostrazioni e sui metodi da lui escogitati
32
per risolvere grossi e antichi problemi del
pensiero astratto.
In cosa consiste esattamente la dimensione
matematica? Quali sono le sue caratteristiche
di lettura e interpretazione della realtà, non
solo quella concreta, anche materiale, ma tutta
la realtà, anche quella dell’astrazione, che
dell’altra è trama e struttura? Quali sono i suoi
metodi di indagine e scoperta? Quale livello di
certezza raggiunge sulle sue conclusioni? Quale
linguaggio forgia per fissare i suoi traguardi,
condividerli, rilanciarli? Quali sono i suoi
momenti di sviluppo, sull’orizzonte storico e su
quello didattico, che di esso vuole farsi piccolo
modello?
Questi i temi che a vario titolo vengono
affrontati nell’area matematica del progetto
Accademia, a partire dal seguente saggio.
Renato Del Monte
Il ragionare matematico
Marco Bramanti
Che cos’è il ragionamento matematico – Che cos’è la
matematica
Dire cos’è il ragionamento matematico non è molto diverso da dire cos’è la matematica: infatti,
chi ha provato a dire cos’è la matematica normalmente ne ha definito il metodo, il modo di ragionare. Ad esempio: “La matematica pura è la classe di tutte le proposizioni della forma ‘p implica q’
[…]” (Russell 1989).
Curiosamente, e diversamente, ad esempio, dalla chimica, dalla biologia, dalla storia, la matematica non è definita in modo naturale dagli oggetti che studia. Possiamo dire che la biologia è la
scienza che studia gli esseri viventi, o la chimica la scienza che studia le trasformazioni delle sostanze, la storia la disciplina che studia le vicende umane del passato…, ma la matematica di cosa si
occupa? Forse la matematica è “la scienza dei numeri”? Questo non è vero più di quanto non lo sia
l’affermazione “l’architettura è la scienza che studia i mattoni” o “la pittura è la disciplina che studia
le vernici”. Si può dire piuttosto che la matematica è definita dal suo modo di procedere.
Caratteristiche di base del ragionare matematico
Il ragionamento matematico è tipicamente un ragionamento ipotetico deduttivo: “se, allora”.
La matematica stabilisce nessi necessari tra proprietà, verità logicamente necessarie. Quando
diciamo: “In un triangolo, la somma degli angoli interni fa 180°”, affermiamo che in qualsiasi triangolo, necessariamente, vale questa proprietà. Non è quindi una verità contingente, stabilita per
constatazione empirica, constatazione che sarebbe impossibile effettuare negli infiniti casi esistenti.
È una verità necessaria, stabilita a priori dell’osservazione o dell’esperienza, per necessità logica:
dalla nostra definizione di triangolo e dai princìpi primi della geometria discende deduttivamente
questo fatto.
Stabilire una volta per tutte verità necessarie è uno degli elementi di fascino della matematica.
Ribadiamo: ciò che è stabilito non è la verità isolata di una proprietà, ma piuttosto il nesso, l’implicazione tra due proprietà: se – allora. Se questa figura è un triangolo piano, allora…
In questo senso ipotetico-deduttivo, la matematica si applica anche al mondo fisico: se realizziamo un triangolo con un foglio di compensato, se quello è piano, allora posso affermare che la
somma degli angoli interni sarà di 180°: non è possibile costruirne uno in cui la somma degli angoli
faccia 200°; se fisicamente è un triangolo ed è piano, necessariamente la somma degli angoli interni
è di 180°, inutile cercare espedienti artigianali per violare questa legge: so già che è impossibile.
Notiamo che l’applicazione della matematica alla realtà fisica richiede un ulteriore elemento
che è un atto di giudizio: io giudico che quello ritagliato nel compensato sia un triangolo, e che il
compensato sia piano, non curvo. Questo è un giudizio sulla realtà fisica, non è più una deduzione. È
importante tenere presente questo aspetto quando si insegnano le scienze, utilizzando anche strumenti matematici: occorre distinguere i ruoli di osservazione sperimentale, il giudizio sulla realtà, la
deduzione matematica. Questo affiancarsi alla deduzione matematica di giudizi sulla realtà e osser33
Parte seconda. Marco Bramanti
vazione della realtà, immette un elemento di contingenza e anche, in un certo senso, di incertezza,
nelle affermazioni scientifiche, o comunque empiriche, che la matematica contribuisce a stabilire, il
che faceva dire già a Einstein: “Fin quando le nostre leggi della matematica si riferiscono alla realtà,
esse non sono certe; e fin quando sono certe, non si riferiscono alla realtà”. (Einstein 2010)
Ma proseguiamo sul filo principale del discorso circa il metodo della matematica, e chiediamoci:
come la matematica stabilisce la verità di una certa implicazione, di un certo teorema? Attraverso
la dimostrazione. Si può far coincidere l’invenzione della matematica con l’invenzione della dimostrazione. Noi sappiamo che il teorema di Pitagora, come elemento di conoscenza, come enunciato,
magari in qualche suo caso particolare, è noto da millenni, ma diciamo che la matematica, come noi
la intendiamo, nasce in Grecia tra il VI e il III secolo a.C. perché quello è il contesto in cui nasce la
dimostrazione. Noi riteniamo che Pitagora sia stato il primo a dimostrare il suo teorema, e sappiamo
per certo che Euclide ne ha dato una dimostrazione, inserendo quel teorema nel corpo di una teoria,
un intero sistema, un grande disegno in cui un passo dopo l’altro dai principi primi si deducono via
via le conseguenze.
Ora, come avviene la dimostrazione? Come possiamo mostrare che in tutti gli infiniti triangoli rettangoli vale una certa proprietà? Non passando in rassegna ciascun triangolo, ma piuttosto
eseguendo un ragionamento che sia valido per un generico triangolo rettangolo; per un triangolo
rettangolo qualsiasi, cioè: per un oggetto che si suppone unicamente soddisfare quelle (poche) proprietà che definiscono il concetto di triangolo rettangolo. Qualsiasi concreto triangolo rettangolo
avrà qualche proprietà speciale, ma nei passi del ragionamento noi ci appoggiamo solo a quelle
che valgono per ciascuno di essi. Questa universalità è resa possibile dall’astrazione: il concetto di
triangolo rettangolo è astratto, è stato definito isolando poche proprietà, comuni a tutti i triangoli
rettangoli concreti. Notiamo quindi che quel tratto caratteristico, potente, della dimostrazione, ossia
la possibilità di stabilire per sempre e oltre ogni ragionevole dubbio, con un ragionamento di un numero finito di passi, ciò che una vita intera non basterebbe a verificare empiricamente caso per caso,
è resa possibile dalla natura astratta degli oggetti matematici, definiti da poche proprietà astratte.
Raccogliamo da questa prima veloce analisi alcuni punti fermi:
– la matematica normalmente non si occupa di oggetti singoli, ma di totalità di oggetti, insiemi
(spesso infiniti) di oggetti (per esempio i triangoli);
– oggetti di un certo tipo sono definiti astrattamente mediante (solitamente poche) proprietà
astratte comuni;
– la dimostrazione di una “implicazione universale” (“Per ogni oggetto di tipo x, se vale la proprietà
p allora vale la proprietà q”) viene compiuta considerando il generico oggetto di tipo x che soddisfa
la proprietà p, e deducendo da questo che necessariamente deve valere la proprietà q.
Potremmo quindi provare a dire di che cosa, in generale, si occupa, o meglio si può occupare, la
matematica come disciplina, e tentare così di dare una definizione di matematica che comunichi
qualcosa tanto del metodo quanto del contenuto: la matematica è la disciplina che studia le classi
di oggetti che è possibile definire (compiutamente) precisandone (poche) proprietà astratte. Attorno a questi oggetti stabilisce, mediante dimostrazione logica, delle verità necessarie, solitamente
espresse da implicazioni tra proprietà.
Nella sua vaghezza, questa definizione credo comunichi qualcosa delle caratteristiche importanti
della matematica, e ne delimiti un po’ il campo. È vero che qui non si dice che la matematica parla
di numeri, o di triangoli, o di funzioni, difatti in un certo senso la matematica potrebbe parlare di
qualsiasi cosa. Ma, in effetti, l’insieme di tutti i triangoli si può definire compiutamente con poche
proprietà astratte, l’insieme di tutti i cavalli no, e difatti la matematica non ha teoremi sui cavalli.
Nota bene: si può obiettare all’ultima affermazione fatta (la matematica non ha teoremi sui
34
Parte seconda. Il ragionare matematico
cavalli) dicendo che in effetti noi possiamo applicare teoremi matematici anche a oggetti concreti;
quando facciamo questo, però, valgono le avvertenze già fatte sul margine di incertezza che rimane,
per cui in pratica le nostre affermazioni non sono più valide in modo così universale e a priori. Inoltre, quando applichiamo un risultato astratto a una cosa concreta, noi non stiamo considerando la
cosa concreta in tutti i suoi aspetti; piuttosto, usando il punto di vista specifico della matematica,
stiamo ritagliando nella cosa concreta un oggetto astratto, che legge solo alcune delle caratteristiche di quella cosa concreta, prescindendo da tutte le altre.
Per quanto riguarda l’uso che ho fatto del termine verità (nel dire che la matematica stabilisce
delle verità necessarie attorno ai propri oggetti), se è chiaro il contesto in cui ci stiamo collocando
(proposizioni vere, nel senso della logica deduttiva, riguardanti oggetti definiti in modo astratto),
questo credo non dovrebbe destare particolari problemi o fraintendimenti. Il problema di cosa significhi verità in matematica emerge quando si discute dei suoi fondamenti, meno quando si discute
della sua pratica quotidiana. Credo che spesso i problemi che sorgono attorno all’affermazione della
verità delle proposizioni matematiche nascano, in effetti, dalla poca chiarezza su un altro aspetto,
che è quello del rapporto matematica-realtà, e del valore conoscitivo della matematica, a cui ora
dedichiamo un po’ di attenzione.
Matematica e conoscenza
Quanto abbiamo detto sulle caratteristiche della matematica come sapere organizzato, introduce
in modo naturale il tema del ragionamento matematico e, in particolare, il tema del linguaggio, su
cui ci dovremo soffermare. Ma, invece di entrare subito in questo tema, apro ancora una parentesi
per affrontare un tema che viene vissuto da molti come un’obiezione al valore della matematica
(potrebbe accadere anche a chi la insegna). Vorrei ora documentare in che senso la matematica è
una forma di conoscenza della realtà, rispondendo ad alcune tipiche obiezioni che si fanno a questa
tesi. Se questo non è chiaro anzitutto a chi insegna matematica, e poi a chi la studia, non può esserci una vera stima di questa disciplina, e quindi una stima del valore che ha l’impegnare la nostra
ragione nella matematica.
Se fosse così qualsiasi discorso sul ragionamento matematico si ridurrebbe a una serie di consigli
su come ben addestrare a certe abilità. Queste obiezioni solo a volte sono fatte in modo esplicito;
più spesso rimangono implicite, come incrostazioni di pregiudizi che non vengono mai messi in
discussione.
Sapere ipotetico deduttivo e conoscenza
La prima obiezione si può esprimere così: un sapere ipotetico-deduttivo (come la matematica è)
può essere conoscenza?
A sua volta, questa obiezione ha due aspetti diversi, si dettaglia in due obiezioni:
La prima: Se le tue conclusioni sono solo svolgimento logico di quanto contenuto nelle premesse,
alla fine – in fondo – non hai niente di nuovo.
Questa è un’obiezione tanto comune quanto superficiale; un’obiezione che è davvero fuori dalla
realtà. Noi non siamo esseri superiori che vedono a colpo d’occhio tutte le conseguenze delle premesse. Trarre le conseguenze delle premesse per noi può essere il lavoro faticoso di una vita.
Andare dall’osservazione della biglia che rotola sul piano inclinato al lancio di un’astronave è
poca cosa? O dagli assiomi dei numeri naturali alla dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat,
che ha richiesto 300 anni di sforzi? Se, dopo aver fatto un po’ di questo lavoro, ti guardi indietro,
35
Parte seconda. Marco Bramanti
vedi che prima non sapevi che certe premesse hanno certe conseguenze, ora lo sai. Se prima non
lo sapevi e ora lo sai, la tua conoscenza è aumentata. Quindi il metodo ipotetico-deduttivo è un
metodo di conoscenza.
La seconda obiezione rivolta alla matematica come sapere ipotetico-deduttivo è la seguente: Se
stabilisci solo dei nessi logici, delle verità ipotetiche, in fondo non concludi mai la verità di nulla. Certo, dire: “Se vale questo, allora vale quello”, apre ovviamente il problema di quali sono le premesse
da cui partire, visto che non possiamo risalire all’infinito nelle nostre deduzioni. Questa è un’obiezione più seria, che porta all’eterna discussione: le nostre premesse sono verità evidenti o sono pure
convenzioni? Rimando ancora ad Agazzi 1961 e Bramanti 1991 per un approfondimento di questi
temi, e mi limito qui a qualche osservazione.
In effetti c’è stata un’evoluzione storica del nostro modo di concepire il ruolo delle premesse nella
matematica. Se per Euclide, 2300 anni fa, le premesse del discorso (assiomi o postulati) erano verità
evidenti, a partire dal XIX secolo, sotto l’influsso prima della scoperta delle geometrie non euclidee
e poi per vari altri fattori, si iniziò a sottolineare il ruolo delle premesse come pure e semplici “regole del gioco”, oggetto di convenzione. Attenzione a non intendere troppo frettolosamente questa
svolta come l’approdo a una posizione relativista. Il punto di vista contemporaneo prende atto che
viviamo in un mondo complesso, in cui, a seconda di qual è il pezzo di realtà che ci interessa studiare
e il punto di vista da cui ci interessa studiarlo, dobbiamo scegliere opportunamente le premesse della teoria. Ciò che dal punto di vista formale è “solo una convenzione”, dal punto di vista del rapporto
tra la teoria e la realtà è invece oggetto di osservazione, riflessione, valutazione e scelta. E questo,
se vogliamo, è sempre stato vero.
La novità che i tempi moderni hanno portato è la sottolineatura del fatto che questa scelta non si
fa una volta per tutte, ma caso per caso: se voglio studiare la geometria delle figure disegnate sulla
superficie della sfera, le premesse saranno diverse da quelle che farei per studiare le figure disegnate nel piano: nel primo caso il 5° assioma di Euclide non vale, la somma degli angoli interni di un
triangolo non fa 180° ma di più, il teorema di Pitagora non vale, e così via. Un grande cambiamento
di prospettiva, certo, ma non il crollo di ogni certezza o simili.
Il metodo ipotetico-deduttivo della matematica rivela storicamente la sua potenza nella comprensione della realtà fisica quando, a partire dal 1700 e oggi più che mai, si unisce alla scienza
moderna, matematizzata. La scelta, volta per volta, delle premesse valide, diventa la modellizzazione
matematica dei concetti e fenomeni fisici. Questa scelta è un esercizio di giudizio compiuto dalla
scienziato che applica la matematica. La storia dimostra che questo nostro “esercizio di giudizio”
è stato ed è estremamente utile alla descrizione, comprensione e previsione dei fenomeni. La matematica, unita all’osservazione della realtà, ha dimostrato di offrire un potentissimo strumento di
conoscenza della realtà, anche fisica.
Quello che emerge, stando di fronte alla storia della matematica e della scienza, è quella sorprendente efficacia della matematica nella comprensione del mondo fisico, di cui tanti autori si sono
giustamente meravigliati. Allo stupore di molti, Benedetto XVI ha aggiunto un commento profondo,
che è stato tra gli spunti iniziali che hanno messo in moto la mostra sulla matematica al Meeting di
Rimini 2010 (cfr. Aa.Vv. 2010): “Una caratteristica fondamentale delle scienze moderne è l’impiego
sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura. La matematica come
tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture
reali dell’universo suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che
l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una
e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore.
36
Parte seconda. Il ragionare matematico
Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre a
esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà” (Benedetto XVI 2006).
Il carattere ipotetico-deduttivo della matematica quindi non le toglie affatto il suo valore conoscitivo anche verso la realtà fisica.
Astrazione e conoscenza
Quanto detto fin qui risponde anche a un’altra obiezione frequente che si fa al valore conoscitivo
della matematica, obiezione basata sull’aspetto dell’astrazione matematica: “Tu non parli della realtà, ti occupi di cose astratte”. Quindi, come può essere conoscenza un discorso che non parla della
realtà?
Abbiamo visto come l’astrazione sia una caratteristica degli oggetti matematici che rende possibile lo stabilire verità necessarie attorno a essi (è un punto di forza del suo metodo). In secondo
luogo, l’astrazione matematica è una lettura sintetica della realtà concreta, uno sguardo che coglie
gli aspetti profondamente comuni presenti in tante realtà concrete. E questa è una forma di comprensione e conoscenza della realtà, che avviene in matematica come in ogni altra disciplina del
pensiero, perché in ogni ambito della conoscenza la ragione non fa molti passi senza usare anche
delle categorie astratte. In questo senso possiamo anche dire che l’astrazione è un punto di vista, un
punto di osservazione sulla realtà concreta, non una negazione della o un disinteresse per la realtà
concreta.
Infine, abbiamo visto come l’astrazione matematica, unita all’osservazione della realtà e alla
riflessione scientifica, permetta una potentissima forma di conoscenza, comprensione, previsione e
manipolazione della realtà fisica.
Abbiamo detto che l’uso dell’astrazione è una forma di conoscenza della realtà che pratichiamo
in ogni disciplina: le categorie storiche, o politiche, o letterarie, che usiamo in queste discipline non
sono “meno astratte” delle categorie matematiche, sono piuttosto tipi diversi di astrazione. Non ha
senso, quindi, giustificare la propria freddezza nei confronti della matematica “perché è astratta”:
utilizziamo continuamente astrazioni nella nostra conoscenza della realtà. Comprendere meglio
certi concetti astratti e le loro relazioni è conoscenza, non meno che conoscere le viti e i bulloni. Si
dice allora: sì, ma l’astrazione di certi concetti storici, politici ecc., serve a capire la realtà, c’entra
con la realtà di tutti i giorni. E l’astrazione matematica no? È la base di infinite applicazioni scientifiche e tecniche, senza le quali non useremmo il cellulare, non ascolteremmo musica, non manderemmo una e-mail, non ci sposteremmo se non a piedi. E sta alla base di tanti aspetti della nostra
percezione della realtà (spazio, tempo, relazioni…).
Ragionamento matematico e linguaggio
Abbiamo fatto un discorso sulla natura del metodo matematico anzitutto per iniziare a collocarlo
nel contesto più ampio della ragione, per dare qualche spunto per comprendere il ruolo della matematica nel complesso della conoscenza e il rapporto con altre forme di conoscenza e di ragionamento. Proseguendo su questa linea arriviamo a un’osservazione che introduce un altro tema.
“La matematica – osserva Alfred Whitehead – come scienza iniziò quando qualcuno, probabilmente un greco, dimostrò proposizioni riguardanti ‘qualsiasi’ cosa o riguardanti ‘almeno una’ cosa,
senza specificare oggetti particolari”.
37
Parte seconda. Marco Bramanti
Il fatto che la matematica si occupi principalmente di insiemi di oggetti anziché di oggetti singoli,
introduce immediatamente una specificità del ragionamento matematico rispetto al ragionamento
comune. Nel linguaggio comune è normale fare affermazioni attorno a oggetti singoli, ad esempio
quella finestra. Posso dire che quella finestra è aperta o è chiusa. Ma se io chiedo: “Le finestre di
questa stanza sono aperte o chiuse?”, le risposte possibili non sono più solo due: “Tutte le finestre
sono aperte”; “Almeno una finestra è aperta”; “Nessuna finestra è aperta”. Questa è la situazione più
comune nel ragionamento matematico: “Per ogni x vale la proprietà p(x)”; “Esiste almeno un x per
cui vale la proprietà p(x)”; “Per ogni x non vale la proprietà p(x)”. Non che queste cose non possano
entrare anche nei ragionamenti della vita quotidiana, ma in matematica occorrono molto più di
frequente.
Usiamo continuamente i quantificatori “esiste”, “per ogni”, e questa è una difficoltà specifica
del ragionamento matematico. Detto con linguaggio logico: nei ragionamenti quotidiani, utilizziamo spesso quelle che la logica chiama “proposizioni atomiche” come “questa finestra è aperta”.
In matematica se ne usano poche (un esempio è: “il numero 5 è dispari”; non diciamo spesso frasi
così semplici); le proposizioni matematiche sono ottenute normalmente utilizzando proprietà che
contengono variabili: la proposizione “Tutte le finestre di questa stanza sono aperte” ha la struttura
logica “Per ogni finestra x di questa stanza, x è aperta”, cioè “per ogni x nell’insieme S, vale la proprietà p(x)”. Come ha ben evidenziato Bertrand Russell, la nozione di variabile è la vera regina della
logica matematica, e della matematica stessa.
La centralità della logica predicativa (quella che usa proprietà, contenenti variabili) è una difficoltà (e non solo una caratteristica) del ragionamento matematico, sia perché è chiaro che ci risulta più
difficile qualcosa a cui siamo meno abituati dalla vita di tutti i giorni, sia perché la logica predicativa è intrinsecamente più sottile della logica proposizionale in quanto ha a che fare con gli insiemi
infiniti. Difatti Hermann Weyl chiama logica finita la logica preposizionale, e logica transfinita la
logica predicativa. Si può dire che l’infinito entri costitutivamente nella matematica, prima ancora
che con il riconoscimento esplicito e consapevole dell’importanza, nella pratica matematica, dei
procedimenti infiniti o degli insiemi infiniti, attraverso l’infinito della generalità, l’infinito del “per
ogni”. Ancora Weyl dice che la matematica si può definire come “scienza dell’infinito”.
Così come parlare di che cos’è la matematica ci ha portato immediatamente a parlare del metodo
matematico, del ragionamento matematico, abbiamo visto che parlare di ragionamento matematico ci conduce inesorabilmente a parlare del linguaggio logico-matematico: proposizioni, proprietà,
variabili, quantificatori. Weyl scrive: “La logica è l’igiene che il matematico usa per far sì che le sue
idee restino sane e robuste” (Weyl 2009).
Si capisce dal discorso precedente come il ragionamento matematico richieda un’attenzione logica al linguaggio. Utilizzare correttamente i quantificatori, non lasciarli impliciti (magari nell’articolo
indeterminativo “un”) usare in modo non ambiguo la “o” (esclusiva o non esclusiva?), costruire in
modo corretto la negazione di una proposizione, comprendere cosa afferma una implicazione e
che cosa esattamente è incompatibile con essa e così via, sono elementi necessari al ragionamento
matematico. Non sono preliminari, da trattare in qualche lezione introduttiva, nelle prime pagine
dei libri di testo, solo perché si usa far così, sono la stoffa di ogni ragionamento matematico. Ma
diciamo qualcosa di più: il ragionamento matematico non solo richiede un’attenzione logica al
linguaggio; il ragionamento matematico si nutre di un amore per il linguaggio. Senza amore per il
linguaggio, la matematica resterà sempre un’estranea. Un certo uso delle parole non nasce dalla
paura dell’errore (cioè dalla paura della “malattia”) ma dall’amore per il linguaggio, cioè per la verità,
per la conoscenza, e per la comunicazione con altri esseri umani. Apprezzare (e far apprezzare) le
differenze specifiche del linguaggio matematico rispetto ad altri linguaggi disciplinari è importante
per accettare (e far accettare) certe sottolineature e attenzioni non come una “deformazione men38
Parte seconda. Il ragionare matematico
tale” ma come un giusto adeguamento del metodo all’oggetto di studio. Apprezzare un sapere come
quello matematico, che attraversa il tempo e lo spazio, con una tradizione vivente che prosegue da
2500 anni in tutto il mondo, non è possibile senza un interesse alla comunicazione tra le persone,
una cura per il linguaggio scritto e parlato come condizione necessaria per la comunicazione tra le
persone.
Il linguaggio matematico e i linguaggi matematici specifici
Ma il linguaggio in matematica non è solo un certo uso della logica. C’è un altro aspetto del
linguaggio, direttamente legato ai contenuti matematici. Si può dire anzi che l’insegnamento della
matematica a scuola, dalle elementari alle superiori, consista in misura importante nell’insegnamento di certi linguaggi specifici della matematica:
la scrittura dei numeri;
il linguaggio dell’algebra, o del “calcolo letterale”;
la geometria analitica;
il linguaggio degli insiemi e le funzioni
sono esempi di linguaggi matematici specifici che costituiscono una parte importante dell’insegnamento della matematica a scuola. Per diverse volte nell’arco dell’età scolastica, l’allievo è
introdotto a un nuovo linguaggio, con cui affronterà un nuovo contesto. In ciascuno di questi nuovi
contesti molto spesso non si arriva lontano: grandi teorie, grandi teoremi, non se ne vedono spesso
a scuola, se si toglie la geometria euclidea e un po’ di analisi matematica alla fine dei licei. Questo è
uno dei motivi per cui la matematica della scuola viene spesso associata al fare esercizi, agli aspetti
procedurali, di tecniche, formule eccetera, più che all’aspetto di teoria ipotetico deduttiva fatta
di definizioni, teoremi, dimostrazioni. Certamente un maggior peso, nella matematica scolastica,
dell’aspetto ipotetico deduttivo (definizioni, teoremi, dimostrazioni), non potrebbe che giovare sia
all’educazione del ragionamento nei ragazzi, sia alla reputazione della matematica tra di loro, o almeno tra i più intellettualmente vivaci di loro. Ma occorre anche capire e valorizzare fino in fondo il
ruolo dei vari linguaggi matematici specifici che sono insegnati a scuola, per apprezzare il fatto che
insegnare e imparare questi linguaggi è molto di più che un addestramento tecnico.
Prendiamo ad esempio il linguaggio algebrico, del calcolo letterale: il concetto di incognita, l’idea
di formalizzare un problema mediante un’equazione, la scrittura simbolica e il “calcolo letterale”…
Se riflettiamo su queste idee, magari avendo anche un’idea della fatica con cui storicamente
sono emerse nell’arco di secoli (la storia della matematica non è un optional per pochi curiosi: un
minimo di storia delle idee dovrebbe essere conosciuta almeno da chi insegna la matematica, se
vogliamo avere consapevolezza dell’originalità di certe idee e delle difficoltà con cui vi si è arrivati),
vediamo che il linguaggio matematico non è semplicemente un modo per comunicare certe idee, ma
è esso stesso il luogo in cui risiedono certe idee. Il linguaggio incorpora in sé progressi, idee, giudizi,
astrazioni frutto di una lunga storia. Ad esempio, quando certi problemi formulati nel linguaggio
quotidiano vengono formalizzati con una semplice equazione di primo grado, ci appaiono banali,
mostrano da sé la strada per la propria soluzione. In realtà il problema non può essere considerato
banale di per sé; piuttosto, si può dire che in quel caso il linguaggio si sia fatto carico della maggior
parte del lavoro necessario a risolvere il problema. Dire questo non è come dire che la fatica l’ha
fatta la lavagna, o la penna: “il linguaggio” non è qualcosa di impersonale, è uno dei frutti di 2500
anni di storia e di tradizione matematica. Il linguaggio ricapitola i progressi concettuali di tutta una
storia, e ci fa vedere le cose “dalle spalle dei giganti”. Ma se è stato faticoso arrivarci per l’umanità,
se è stata una conquista di secoli, sarà faticoso anche oggi per chi lo incontra per la prima volta, e
39
Parte seconda. Marco Bramanti
questo dice della pazienza e accortezza che occorre avere nell’insegnare queste cose, e anche della
grande dignità che queste cose hanno. Altro che “banale equazione di primo grado”!
Momenti del ragionamento matematico
Dovremmo ora esaminare più da vicino il ruolo che hanno certi elementi specifici del discorso
matematico, che possiamo vedere come momenti diversi del ragionamento matematico, o come i
diversi tipi di testo che troviamo in matematica. Quattro aspetti significativi mi sembrano i seguenti:
la definizione; il teorema e la dimostrazione; l’esempio e il contresempio; il problema e l’esercizio.
Alcuni di questi aspetti sono legati trasversalmente anche al ruolo della motivazione nell’insegnamento e apprendimento della matematica, e del rapporto con la realtà nel ragionamento matematico.
Una conclusione. Si può insegnare a ragionare?
Non so se si può, ma si deve. Questo vuol dire che c’è un metodo che garantisce che tutti imparino
a ragionare bene? Certamente no. Questo non dipende solo da noi. Ma non possiamo usarla come
scusa per non insegnare a ragionare. Insegnare il metodo di una certa disciplina, richiede nell’insegnante, anzitutto, una consapevolezza del metodo stesso, che è qualcosa di più della padronanza
del metodo. Non basta che io ragioni bene, occorre che sia diventato consapevole dei modi, delle
forme del mio ragionare; occorre una riflessione e un’esperienza di introspezione, coltivata per il
piacere di capire che cosa è servito a me per capire, qual era l’origine della mia incomprensione,
del mio errore, che cosa mi aiuta a fare passi veloci, che cosa mi rallenta. Occorre poi la capacità
di immedesimazione, il desiderio e l’attenzione di capire il ragionamento dell’altro, la fatica altrui,
l’errore o il fraintendimento altrui, e che cosa invece aiuta la persona che ho davanti a capire, cosa la
mette in moto. Tutto questo è un lavoro che avviene dentro l’insegnante, anche se nel rapporto con
gli allievi. Poi c’è il lavoro che l’insegnante fa in aula, quindi con gli allievi, e il lavoro che sollecita
negli allievi. Penso che il metodo, il ragionare, non si insegni esclusivamente dando il buon esempio
di “metodo in azione”; questo è necessario, lo pensano tutti, a volte può essere anche sufficiente,
ma non è l’unica arma che abbiamo. Abbiamo anche la possibilità di fare un lavoro espressamente
mirato ad aiutare l’affinamento del metodo in chi abbiamo davanti; un tempo espressamente dedicato a un lavoro sul metodo, sul ragionamento. Che non è un lavoro “preliminare” che si fa una volta
per tutte, e poi finalmente si passa oltre e ci si dedica ai contenuti; non sono i preamboli del corso.
Può avere una collocazione naturale, speciale, all’inizio di un corso, di un anno, all’incontro con una
nuova classe, e così via, ma poi è utile che continui in dosi calibrate anche più avanti, in modo che
il metodo sia messo in gioco sui contenuti veri, non sui preamboli. Il libro Matematica. Questione di
metodo (Bramanti e Travaglini 2009) è un tentativo di fornire uno strumento di lavoro mirato specificamente all’educazione del ragionamento matematico, rivolto agli studenti di fine scuola superiore
in vista dell’università. È uno strumento concreto che indico, perché la raccomandazione a dedicare
tempo ed energie a un esercizio specifico di educazione al ragionamento matematico rimane vuota,
senza avere a disposizione anche un serbatoio di esempi, esercizi, osservazioni, percorsi possibili.
40
Parte seconda. Il ragionare matematico
Riferimenti bibliografici
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Russell B., 1989, I princìpi della matematica, Newton, Roma.
Weyl H., 2009, Philosophy of Mathematics and Natural Science, Princeton University Press, Princeton.
41
Introduzione ai temi della scrittura
Non si può parlare di ragione e ragionamento
senza al contempo mettere a fuoco la testualità,
perché è nella costruzione del discorso che la
ragione è più manifestamente all’opera. È infatti
principalmente attraverso il linguaggio che
l’uomo diviene consapevole della realtà e di se
stesso in rapporto a essa.
Eppure nel panorama attuale degli scambi
educativi, della prassi didattica e finanche degli
studi accademici, sembra essere sottinteso, se
non addirittura dichiarato, uno iato tra parola
e ragione, essendo i parlanti testimoni e gli
studiosi teorici di una concezione di testualità
quale attività irrilevante rispetto alla dinamica
conoscitiva e non vincolata dall’esigenza di
sensatezza.
Da dove ripartire allora per portare in
luce l’intrinseca e costitutiva razionalità del
discorso?
Rigotti propone di rifondare una concezione
di discorso come momento costitutivo della
ragione nel legame di quasi-identità che ben
emerge nel greco logos. Questa parola misteriosa, sconvolgente, si presenta al lessicografo
come un coacervo di valori apparentemente
irrelati (discorso, linguaggio, favella, calcolo,
conto, argomento) che nelle lingue moderne
suonano come distanti e quasi estranei. Sembrerebbe un caso conclamato di omonimia. Se,
tuttavia, si approfondisce il concetto di ragione
facendone emergere la essenziale funzione
di organon, ossia di strumentazione di cui gli
umani si valgono, per rapportarsi, collegarsi
42
e connettersi alla realtà, tutti questi valori si
riaggregano senza forzatura, mostrando la polisemia del termine logos. In effetti, è attraverso
la struttura logico-semantica del linguaggio
che l’essere umano rappresenta stati di cose che
nell’esperienza, poi, possono essere verificati o
falsificati.
Si riparte dunque da Platone, il quale, illustrando la symploké, “intreccio di predicati e di
‘nomi’ (modi d’essere ed esseri) che costituiscono il logos-discorso”, mette a fuoco la funzione
della lingua nel rapportarsi alla realtà e, dunque, la forma logica del discorso. Una linea di
pensiero che attraversa la storia della filosofia
e della grammatica classica e medioevale fino
alle più recenti grammatiche categoriali, capace
di salvaguardare una concezione unitaria di
discorso e ragione.
Tale unità originaria è il fondamento della teoria della congruità elaborata da Rigotti e dalla
sua scuola. In essa la sensatezza del discorso si
rivela come organicità in rispondenza a un fine,
cui la ragione tende e la composizionalità della
lingua all’opera in ogni discorso, dal semplice
enunciato al più complesso dei testi, rivela la sua
vera natura: non successione casuale di elementi
qualsiasi, bensì unione di strutture linguisticosemiotiche capaci di generare un senso nuovo,
non riducibile alla somma dei sensi delle strutture di partenza.
Raffaela Paggi
Il testo come logos: unità di
ragione e linguaggio
Eddo Rigotti
La tesi
L’intento è di portare in luce il legame, a mio avviso essenziale, fra il linguaggio e la ragione.
Nelle lingue moderne questo legame è oscurato da una netta differenziazione lessicale, che peraltro
già si presentava con il latino ratio rispetto a oratio e sermo. Tale differenziazione suggerisce una
reciproca estraneità di questi concetti e può far pensare che sia possibile considerare il linguaggio
senza la ragione e la ragione senza il linguaggio. Forse anche l’epistemologia della scuola ne è stata
negativamente influenzata. Diversamente da quanto avviene nelle lingue moderne, il lessico greco,
grazie al termine logos, tiene insieme il concetto di ragione con i concetti che fanno capo al linguaggio suggerendo una loro consustanzialità.
È per noi davvero sorprendente la molteplicità di valori del termine greco. A livello di formazione
lessicale logos è il nome deverbale di lego. Questo verbo, come sottolinea Moreno Morani (Radice
e Valvo 2011: 29-64) significa originariamente, sia in greco sia in nell’equivalente latino, “cogliere”,
cioè “scegliere e raccogliere” (anthe lego: flores lego; insomma non deve sorprender che si parli di
antologie e florilegi). Si tratta, a ben vedere, delle due operazioni che costituiscono l’atto linguistico
(scelta dal paradigma e combinazione nel sintagma; cfr. eklogé e synthesis già nel Perì onomàton
syntheseos di Dionisio di Alicarnasso) e non è un caso che, tanto in greco quanto in latino, presto
siano venuti in primo piano significati legati all’attività linguistica, rispettivamente il dire e il leggere. Il verbo greco lego significa appunto “dire” senza coprire fondamentalmente altri significati (a
parte quello originario, ma decisamente meno frequente, di cogliere). Invece il suo nomen actionis,
logos, movendo dal significato suo proprio di “atto del dire”, quindi di discorso o, con la felicissima
metafora latina, di testo (textus = tessitura), si è esteso a coprire, oltre il discorso, da una parte la
facoltà linguistica in generale (nel senso di linguaggio, parola, favella, come facoltà strumentata per
costruire discorsi), dall’altra quella dimensione, la razionalità, che costituisce il predicato distintivo
dell’umano, indicando infine non solo la ragione, ma anche l’uso astratto e formale, direi quasi meccanico, della ragione, cioè il calcolo, fino a indicare le ragioni sia nel senso di fini che di argomenti.
Chiedersi se i diversi valori siano connessi tra loro, equivale a chiedersi se logos sia un termine
polisemico o omonimico. Spieghiamo con un esempio questa distinzione. L’italiano presenta tre parole che hanno un significante assolutamente identico mentre i significati sono totalmente estranei
l’uno all’altro:
fiera/1, nel senso di fiera di Milano o di Francoforte o fiera dell’antiquariato
fiera/2, belva o animale selvaggio
fiera/3, femminile dell’aggettivo fiero
Si tratta di tre segni omonimi, ossia di parole distinte il cui significante è identico. Vanno considerati analogamente omonimi in francese louer/1 (lodare) e louer/2 (affittare) e in italiano conti
come nobili e conti come computi.
Ben diverso è il caso di carta che in diversi usi (carta dei diritti umani; carta di Fabriano) presenta
significati sensibilmente diversi, ma evidentemente imparentati: la carta dei diritti umani è un testo
scritto e, dopo tutto, la carta – intesa come materiale fisico – è stata per millenni il supporto tipico,
43
Parte seconda. Eddo Rigotti
(naturalmente, non l’unico) di un testo scritto: si tratta in questo caso di polisemia. Altri casi di
polisemia sono il tedesco Grund che presenta significati piuttosto differenziati, ma fra loro connessi
(“fondo” e “fondamento”, quindi “motivo”) e l’italiano capo (“testa”, “inizio”, “estremo”, “dirigente”
ecc.).
A mio avviso, la molteplicità dei valori di logos rappresenta un fenomeno di polisemia e non di
omonimia. Si tratta peraltro non di una polisemia fondata, come molte di quelle precedenti, su un
rapporto di somiglianza o di frequente concomitanza (un rapporto in ogni caso ontologicamente
poco impegnativo), ma di una connessione reale del tipo della aristotelica polisemia di essere (to
on legetai pollachôs, l’essere si dice in molti modi, cioè per tutte le modalità di esistenza ancorate
alla sostanza: ad esempio, l’accidente esiste in quanto “inerisce” a una cosa che esiste, ossia a una
sostanza). Anzitutto, tra ragione e calcolo va rilevato una polisemia di questo genere in quanto il
calcolo è un uso particolare, una specificazione, della ragione (un procedimento razionale standardizzato ovvero un percorso sperimentato e usuale della ragione). Inoltre c’è polisemia anche fra
i significati di discorso e linguaggio essendo il linguaggio una facoltà strumentata per costruire
discorsi. Ma la nostra ipotesi è qui che ci sia questo stesso rapporto anche tra ragione e discorsolinguaggio, che è quanto dire, in latino, tra ratio e oratio. È indispensabile a questo punto caratterizzare in modo più concreto il concetto stesso di ragione, per poter quindi illustrare i nessi reali che
intercorrono tra ragione e linguaggio.
È utile a questo fine confrontare la ragione con i cinque sensi (intesi come organi percettori).
Ognuno di questi sensi svolge una funzione molto rilevante per il nostro rapporto con la realtà in
quanto ci connette con un preciso aspetto di essa: la vista è l’organo con cui percepiamo i colori e le
forme, l’udito è l’organo con cui percepiamo i suoni... Analogamente, possiamo parlare della ragione
come dell’“organo” che rapporta l’uomo con la realtà in quanto tale, con la sua totalità.
Anzitutto essa, integrando i dati offerti a più riprese dai diversi sensi, ci permette di sintetizzarli elaborando una rappresentazione complessiva dell’oggetto. Tuttavia, per concepire la ragione
come “organo o strumento del rapporto con il tutto”, occorre oltrepassare approcci che riducono la
mente umana o a un calcolatore o a una base dati: la ragione fa certamente l’uno e l’altro lavoro,
ma non solo. In effetti l’uomo è capace di oltrepassare nella sua immaginazione e nella sua concettualizzazione le esperienze fatte, di collocare i dati in un orizzonte più ampio rispetto alla propria
esperienza diretta, di avvertire i limiti della propria esperienza, di configurare infine mondi diversi
da quello attuale. Peraltro, in questa prospettiva, i dati – preziosi in quanto sono il fondamento di
tutta la nostra conoscenza e da rispettare in se stessi in quanto assicurano il nostro aggancio alla
realtà – diventano tuttavia indizi: la loro funzione diventa quella di rimandare al tutto, di alludere
al tutto. Se invece ci poniamo di fronte ai dati come se fossero essi stessi la totalità, ne perdiamo il
senso e diventiamo irragionevoli: assolutizziamo una prospettiva parziale, in cui il particolare indica
se stesso, facendo dimenticare che la sua comprensione è possibile solo nella relazione con l’altro,
il “tutto” di cui è parte e manifestazione. La ragione è proprio l’organo che apre il soggetto a quel
che c’è, a tutto quel che c’è.
In un senso ulteriore si può dire che la ragione è “organo del tutto”, in quanto punta al compimento della totalità del soggetto. Faccio riferimento al concetto di ragione delineato da Carlo
Wolfsgruber nella sua concisa e lucida Introduzione1. Nella conoscenza come nell’azione, sia che noi
puntiamo al cambiamento della realtà (e dunque ci poniamo delle mete che oltrepassano il mondo
attuale e agiamo per raggiungere tali mete) sia che scandagliamo la realtà per definirne la natura
e il senso, la nostra passione per la realtà è mossa dal desiderio del nostro compimento. In effetti
la ragione, tanto nella sua dimensione conoscitiva che in quella pratica, è più una tensione che una
1 Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume
44
Parte seconda. Il testo come logos...
struttura: la si rappresenta più adeguatamente se la si paragona all’ago attratto dalla calamita,
piuttosto che a una costruzione possente, ma statica. È un arco teso al bersaglio: in-tendo (tendere
puntando al bersaglio), intentio (anche, secondo la terminologia medievale, come concettualità in
attesa di fare esperienza) e entendement, cioè, finalmente, intelletto. La sua funzione fondamentale
è la capacità di dirigersi “spontaneamente” verso un obiettivo vuoi conoscitivo vuoi pratico che
realizza il compimento dell’io: Omne agens, agit propter finem. Qui il soggetto si scopre come un
momento della realtà stessa, cosa tra le cose: tra tutte le cose che ci sono, ci sono anch’io. La ragione, tuttavia, grazie alla quale l’uomo scopre le cose e se stesso tra le cose, rende l’uomo un essere
particolare, al tempo stesso, bisognoso dell’altro e responsabile di sé. Proprio per il fatto che, grazie
alla ragione, egli è un essere consapevole della propria collocazione all’interno della realtà, l’uomo si
specifica come un vivente “consapevolmente particolare” (animal rationale). La consapevolezza del
limite è la maggior risorsa dell’animale ragionevole perché attiva in lui il presentimento dell’infinito.
La ragione, vista in questa prospettiva, è l’organo che rapporta il desiderio alla totalità del sé, che è
quanto dire al sé rispetto alla totalità, cioè al suo destino.
Platone e la definizione induttiva di logos-discorso
Gli aspetti che legano la ragione al linguaggio sono molteplici. Il linguaggio è dentro la ragione
perché è attraverso le sue categorie (intentiones primae – predicati per parlare di cose – e intentiones secundae – predicati per parlare di predicati), ossia attraverso la sua articolazione concettuale,
che la ragione del soggetto affronta la realtà, descrivendola e spiegandola. Tutto questo il soggetto
lo fa costruendo discorsi. Dunque, è nella costruzione del logos-discorso che la ragione è più manifestamente all’opera. Ora, per quanto riguarda il lógos inteso come discorso, Platone osserva che
esso non è fatto solo da una successione di elementi qualsiasi: ci vuole una connessione logica che
tenga insieme gli elementi che compongono un testo. Platone enuclea il procedimento con cui un
vero discorso può essere costruito e dà quindi una definizione induttiva di discorso. Si scopre così la
natura composizionale del discorso.
Si tratta del fatto che il linguaggio umano, unico tra tutti i linguaggi, non presenta solo singole
espressioni linguistico-semiotiche, dotate di significante e di significato, ma anche strutture composte, ottenute dall’unione di più strutture linguistico-semiotiche che vengono a generare un senso
unitario e nuovo, cioè un senso che non è riducibile alla successione dei sensi delle strutture messe
insieme. Per esempio, se si confronta Il ladro scappa con il ladro e scappare, si nota che nella prima
espressione si genera un “enunciato” che asserisce il realizzarsi dello scappare del ladro nel tempo
in cui ha luogo la comunicazione. Otteniamo non il susseguirsi di due significati – “ladro” e “scappare” –, ma un senso complessivo, la rappresentazione di un evento in un certo contesto spaziotemporale. Ebbene la lingua ci permette di costruire un numero infinito di discorsi rispondenti al
contesto della nostra esperienza, a partire da un numero finito di elementi di base. Questa capacità
è detta creatività linguistica.
Ma vediamo come Platone nel Sofista ricostruisca attraverso il dialogo di Teeteto e lo straniero
questa misteriosa capacità del linguaggio di creare sensi nuovi.
Teeteto: – A che cosa bisogna dunque prestare attenzione, a proposito delle parole?
Straniero: – Se tutte si accordano l’una con l’altra, oppure nessuna; se alcune ammettono questo
accordo e altre, invece, no.
T: – Almeno questo è chiaro: alcune lo ammettono e altre no.
S: – Forse tu intendi dire che le parole pronunciate di seguito e indicanti qualcosa (kai delounta ti) si
accordano, mentre quelle che nella successione non significano nulla, non si accordano.
45
Parte seconda. Eddo Rigotti
T: – Come? Che cosa vuoi dire?
S: – Quello che credevo che tu già sapessi nel dichiararti d’accordo con me. Infatti noi abbiamo, mi
pare, un duplice genere di segni per indicare con la voce le cose.
T: – Come?
S: – L’uno è chiamato nomi, l’altro verbi.
T: – Descrivi l’uno e l’altro.
S: – Il segno che si riferisce (on deloma) alle azioni lo chiamiamo verbo, nevvero?
T: – Sì.
S. – Il segno, invece, che si riferisce a coloro stessi che compiono quelle azioni si chiama nome.
T: – Perfettamente.
S: – Né, dunque, da nomi soli pronunciati di seguito deriva mai un discorso, e neppure, d’altro canto,
da verbi proferiti senza nomi.
T: – Questo non l’ho capito.
S: – È chiaro che poco fa ti sei detto d’accordo, ma pensavi a qualcosa d’altro. Perché è proprio questo che volevo dire: questi termini pronunciati così, di seguito, non sono un discorso (lógos).
T: – Come?
S: – Per esempio: “cammina corre dorme”, e tutti quanti gli altri verbi che significano azioni, anche
se uno li dicesse tutti uno dopo l’altro, non per questo costruirebbe un discorso.
T: – E come, infatti?
S: – Dunque, di nuovo, anche se si dice “leone cervo cavallo”, e tutti gli altri nomi che si possono
riportare di coloro che compiono le azioni, anche secondo questa successione non si forma ancora
un discorso. Né in questo caso né in quello, infatti, le parole pronunciate indicano azione o assenza
d’azione, esistenza di un ente o di un non-ente, prima che uno abbia unito verbi e nomi. In questo
secondo caso invece si accorderebbero e la prima connessione (symploké) subito formerebbe un
discorso (lógos), direi il primo e il più breve dei discorsi.
T: – Che cosa intendi dunque con ciò?
S: – Quando uno dice “L’uomo impara”, riconosci che questo è il più breve e il primo dei discorsi?
T: – Sì.
S: – Infatti, indica già in qualche modo le cose che esistono o che accadono, o che sono accadute, o
che stanno per esistere, e non solo denomina, ma anche determina, connettendo i verbi con i nomi.
Per questo noi diciamo che afferma e non solo che denomina, e è in particolare a questo intreccio
che noi diamo il nome di discorso.
T: – Giusto.
S: – Così dunque come, delle cose, alcune si accordano fra di loro e altre invece no, anche per quanto
riguarda i segni della voce, alcuni non si accordano, e quelli di essi che invece si accordano costruiscono un discorso.
T: – È proprio così.
Anche noi abbiamo adesso chiaro come Teeteto che per fare un discorso non basta mettere
insieme delle espressioni significative. Ci vuole una combinazione significativa di espressioni significative. La combinazione significativa presuppone la differenziazione del ruolo semantico delle parole. Platone distingue nomi e verbi. I verbi sono segni il cui ruolo semantico è di riferirsi alle azioni (camminare, correre, dormire). È importante notare che si tratta di azioni solo se
usiamo il termine azione, come del resto si fa spesso nelle grammatiche scolastiche, in modo alquanto approssimativo, visto che dormire non è propriamente un’azione (si veda in proposito la
fallacia parà to schema tes lexeos nel De sophisticis elenchis di Aristotele, che sfrutta ai fini della
manipolazione questa approssimatività). In effetti il concetto di azione è usato come prototipo
46
Parte seconda. Il testo come logos...
di qualsiasi modo d’essere. I nomi sono segni che indicano coloro (leone, cervo, cavallo) che compiono tali azioni ovvero che sono partecipi di tali modi d’essere.
Gran parte della linguistica dell’ultimo secolo è stata dominata da un’interpretazione banale del
principio di composizionalità, cioè dall’idea che il testo sia fatto di parti, così come un tavolo è fatto di
un piano d’appoggio e di (più o meno) quattro sostegni. Platone considerava il discorso un corpo vivo
che non può essere smembrato – come sarebbe possibile se fosse una somma di parti. Il discorso ha senso
proprio perché è fatto di costituenti che sono fatti per stare l’uno con l’altro. Solo se uniamo (in greco
la parola usata è sympléko, “intrecciare”) verbi e nomi otteniamo un testo sensato. Ora, traducendo il
principio di Platone in un linguaggio vicino alla semantica contemporanea, possiamo dire che le parole che servono a fare riferimento a entità e dunque fungono da argomenti, sono tendenzialmente i
nomi, mentre i verbi sono le parole che usiamo per indicare i modi d’essere e che fungono da predicati
Per Platone dunque per produrre senso, cioè per dare vita a un lógos, occorre mettere insieme almeno due elementi di cui uno dice un modo d’essere e l’altro un essere che può essere in quel modo.
Questa unione non si limita a nominare i diversi aspetti della realtà, ma afferma l’esistenza o la
presenza o assenza dello stato di cose e l’esistenza o non esistenza di un’entità. Anzi, il lógos elementare che si costituisce con l’intreccio del verbo con il nome “indica già in qualche modo le cose
che esistono e che accadono, o che sono accadute, o che stanno per esistere”: per questo dobbiamo
dire che non solo denomina, ma afferma, cioè situa il soggetto rispetto all’essere, quasi sfidando la
realtà.
Parlare sensatamente significa sempre, pertanto, combinare concetti che sono fatti l’uno per
l’altro, ossia che sono congrui (su questa nozione torneremo tra poco). Questa relazione è spesso
chiamata nesso predicativo-argomentale. I predicati sono i modi d’essere, gli argomenti sono gli
esseri (uno o più) che sono coinvolti in tali modi d’essere. Pertanto uno scambio di segni è un lógos
se in qualche modo attiva almeno un nesso predicativo-argomentale.
Abbiamo visto che in greco il termine lógos copre significati apparentemente molto diversi: linguaggio, discorso, ragione, argomento, calcolo. Riusciamo ora a intravedere un legame essenziale
fra queste accezioni collegando l’analisi sopra condotta del concetto di ragione con la definizione
“induttiva” di discorso elaborata da Platone. Se la ragione è l’organo per rapportarsi alla realtà attuale e possibile e questo rapporto con la realtà è assicurato dal linguaggio attraverso la costruzione
dei discorsi, il linguaggio diventa un momento della ragione: infatti è attraverso la composizionalità,
cioè la struttura logico-semantica del linguaggio, che l’essere umano rappresenta stati di cose che
nell’esperienza poi possono essere verificati o falsificati. In ultima analisi la composizionalità rivela
che il linguaggio rispecchia la struttura della realtà possibile. In effetti, come mostra Platone, le parole hanno funzioni diverse, in quanto si riferiscono ad aspetti possibili, diversi ma complementari,
della realtà, in quanto indicano possibili entità e modi d’essere.
Abbiamo detto che la combinazione dà origine alla rappresentazione di una realtà possibile. Per
questo si può dire che la symploké è costitutiva della virtualità, è il luogo nel quale si costituiscono
tutti i possibili frammenti di mondo, che sono “capaci di avere luogo”. Le strutture che creiamo attraverso la combinazione significativa rappresentano la dimensione di virtualità o potenzialità della
ragione. Essa si contrappone all’attualità, cioè all’essere effettivo, che possiamo accostare soltanto
attraverso una verifica – diretta o indiretta – nell’esperienza. In questa sua capacità di misurarsi con
l’esperienza la ragione oltrepassa il linguaggio. Qui scaturisce l’opposizione fra vero e falso.
La composizionalità, in quanto genera l’insieme dei possibili frammenti di realtà, può non trovare
una corrispondenza con lo stato di cose effettivo. La possibilità di dire cose tanto vere quanto false
nasce proprio dalla natura virtuale delle rappresentazioni semantiche generate dal linguaggio, la
quale si pone come uno dei tratti distintivi del linguaggio umano: parrebbe che gli animali non sap47
Parte seconda. Eddo Rigotti
piano mentire. Si può addirittura concludere che la composizionalità assicura la libertà dell’uomo di
fronte alla realtà, gli permette tanto il vero quanto il falso.
Torniamo alla symploké di Platone: per ottenere la struttura comunicativa elementare (“il primo
e il più breve dei discorsi”) bisogna intrecciare parole che dicono azioni con parole che dicono quelli
che fanno quelle azioni. Il testo platonico sembra appunto dire in modo alquanto implicito che
quelli che fanno le azioni, ossia gli agenti, non sono entità qualsiasi ma le entità che fanno quel tipo
di azione. In effetti, per la congruità non basta legare predicati e argomenti qualsiasi, ma si deve
legare ciascun predicato a una precisa classe di argomenti. Se, in effetti, prendo un predicato come
camminare, posso avere argomenti come Socrate, il bambino, Chiara, ma non argomenti come l’aria,
l’acqua, la gioia e infiniti altri. Certamente, se in Socrate corre sostituisco Socrate con una parola
che non indica un argomento come affinché o purché (*Purché corre), si avverte una più profonda
lesione della struttura del discorso che introducendo un argomento come la gioia (*La gioia corre).
Per quest’ultima espressione si potrebbe magari trovare una qualche interpretazione metaforica
e, soprattutto, abbiamo la percezione che un qualche livello di correttezza – potremmo dire, con
Chomsky, di grammaticalità – sia comunque salvaguardato: tale espressione rispetta infatti tutte le
regole sintattiche e morfologiche.
Ma nella buona formazione di un discorso dobbiamo distinguere, oltre al livello della grammaticalità, il livello più profondo della coesione logico-semantica, ossia, con il termine assai antico che
abbiamo adottato, il livello della congruità.
Logos, congruità e sensatezza: la struttura logica del linguaggio
La congruità condiziona la sensatezza, ossia la capacità del discorso di confrontarsi con la realtà
(di essere vero o falso, possibile o impossibile, necessario o contingente ecc.). La sensatezza non va
confusa con la verità: un discorso falso è in effetti sensato e dunque congruo. Anzi, una costruzione
è congrua anche se è contraddittoria. Il senso contraddittorio è comunque un senso (anche se è
sicuramente “compromesso”) proprio perché riesce a manifestare la sua inconsistenza. Per esempio,
Ho mangiato una pasta alla carbonara ma sono digiuno
Questo numero è pari e dispari
Ti prometto di pagarti, ma non mi impegno
sono testi evidentemente contraddittori, ma che hanno un senso, anche se si tratta di un senso,
appunto, contraddittorio. Invece le seguenti sono espressioni che, pur rispettando la grammaticalità,
non sono congrue e dunque sono insensate:
Questa montagna è piuttosto intelligente
Mi piacciono gli arrivi blu
Michele ha fatto bene a nascere!
Ti prometto che ieri sono venuto.
La prospettiva teorica che qui propongo ha gradualmente adottato il nome di Teoria della Congruità. Il termine congruus figura nella celebre definizione priscianea di oratio (constructio dictionum congrua perfectam sententiam demonstrans) e diventa una parola chiave in tutta la grammatica speculativa medievale.
Una combinazione congrua di dictiones (= forme di parola, ossia unità minime della catena sintagmatica) può corrispondere sul piano logico-semantico a un enunciato. Ad esempio, Stefano ha
comperato per mezzo milione una casa da Elisabetta è un enunciato costruito intorno alla struttura
predicativo-argomentale del verbo comperare. La sua congruità è garantita dal fatto che tutti i suoi
quattro posti argomentali (x1, x2, x3, x4) sono occupati da altrettanti argomenti su misura. Così, x1
e x4 sono correttamente occupati da soggetti umani (non importa se individuali o sociali). Sareb48
Parte seconda. Il testo come logos...
be incongrua, e manifestamente insensata, una combinazione come La serenità ha comperato per
mezzo milione una casa dalla barca, dove x1 e x4 non rappresentano soggetti umani. A sua volta x3
seleziona l’ambito piuttosto ampio e variegato dei beni negoziabili e x2 non può essere rappresentato che dall’indicazione di una somma di denaro (il fatto che debba essere una somma di denaro
e non un bene scambiabile qualsiasi permette di distinguere l’acquisto dallo scambio o baratto).
Il predicato comperare seleziona così per i suoi posti argomentali altrettanti classi di argomenti, imponendo a ciascuna una particolare batteria di presupposizioni. La congruità della struttura
predicativo-argomentale è garantita dal rispetto delle presupposizioni che il predicato impone a
ciascuno posto argomentale:
La lesione del presupposto è all’origine di un certo tipo di insensatezza. Tale lesione può avvenire
o perché l’argomento concreto del posto argomentale non attua le proprietà specifiche richieste (La
casa legge il topo) o perché la costruzione non soddisfa le condizioni strutturali in quanto cancella
uno o più argomenti: La casa di Elisabetta è uguale
A quale casa?
A nessuna2
In effetti la soppressione di un argomento implica l’impossibilità dello stato di cose designato dal
predicato. Per questo, l’affermazione di questo stato di cose crea un non-senso:
Elisabetta ha venduto la sua casa, ma nessuno l’ha comperata.
Gli argomenti possono non essere esplicitati perché sono recuperabili o anaforicamente (dalla
parte precedente del testo) o, più in generale, dall’esperienza condivisa (common ground). Per esempio, Pietro si è trasferito a Bergamo, è congruo se ci è stato detto o già sappiamo che prima era in
un altro luogo. L’omissione degli argomenti può recare effetti di opacità semantico-argomentativa
e, addirittura, effetti manipolatori. Se la tesi di un candidato è Bisogna cambiare e non si specificano gli argomenti di cambiare – chi cambia, che cosa è cambiato e con che cosa lo si cambia – il
messaggio è molto opaco e può indurre l’interlocutore a legittimare ogni tipo di integrazione, a
meno che il “common ground” non permetta di specificare gli argomenti connessi con il predicato
cambiare.
A questo punto possiamo formulare una legge della congruità relativa ai presupposti dei posti
argomentali:
Sussiste congruità logico-semantica fra un predicato e gli argomenti che esso domina quando
ciascun posto argomentale è occupato da un argomento a esso iponimo.
Si specifica che l’argomento deve essere iponimo e non semplicemente sinonimo. In effetti, dicendo, valendoci di sinonimi del posto argomentale, che qualcuno vende beni o mangia cibo, lediamo l’impegno di specificazione legato alla formulazione dell’argomento. Le nostre espressioni, infatti, diventano immediatamente congrue se aggiungiamo una pur minima specificazione: Elisabetta
vende beni immobiliari; Stefano mangia cibo ipocalorico3.
Un altro componente che la Teoria della Congruità mette a fuoco nell’analisi delle strutture predicativo-argomentali riguarda le implicazioni del predicato. Mentre le presupposizioni sono condizioni
di possibilità del predicato, le implicazioni coincidono con ciò che ha luogo se il predicato ha luogo.
Nel nostro caso, se il predicato ha luogo – precisamente, dopo che il predicato ha avuto luogo, dato
che il nostro predicato è un modificatore di mondo – Stefano non dispone più del suo capitale, ma
diventa il proprietario della casa, mentre Elisabetta viene a disporre del capitale che era di Stefano,
ma non dispone più della casa. Naturalmente, l’implicazione non può emergere quando il predicato
2 Questo tipo di insensatezza è segnalato da Husserl. Per i rapporti tra Teoria della Congruità e grammatica pura si veda
Rigotti e Rocci 2001.
3 Se l’argomento non è specificato, la congruità è recuperata “incorporando” l’argomento nel predicato.
49
Parte seconda. Eddo Rigotti
non ha luogo (è negato): insomma Stefano non diventa proprietario della casa di Elisabetta se non
la compera.
Congruità e sensatezza a livello di enunciato (sequenza) e di
testo: i connettivi
Nella Teoria della Congruità i predicati non si limitano ai verbi: gli aggettivi (L’acqua è bollente;
Quest’informazione è affidabile) e gli avverbi, le preposizioni e le congiunzioni sono spesso predicati.
Peraltro, data la loro frequente polisemia, capita che preposizioni e congiunzioni abbiano in certi
casi natura predicativa e in altri siano puri indicatori di funzione sintattica: con in passeggiare con
qualcuno è un predicato che esprime co-agentività (“x si associa a y nell’attività del passeggiare”),
mentre in litigare con qualcuno la stessa preposizione è un segnale sintattico che introduce il secondo argomento del predicato litigare (non si può litigare da soli, ma si passeggia anche da soli!).
Anche la congiunzione che talvolta è un predicato che può essere di natura semantica diversa:
temporale (Arrivò che il treno era partito), argomentativa (Alzati che sono le nove!), argomentativocausale (Canta che ti passa). Assai frequentemente introduce, invece, un argomento proposizionale
ossia una proposizione che funge da argomento di un predicato :
Dicono che si sia laureato;
Obiettò che mancavano i fondi.
Le strutture predicativo-argomentali garantiscono la congruità e quindi condizionano la sensatezza a tutti i livelli dell’organizzazione testuale (proposizione, enunciato, sequenza, testo) avvalendosi tuttavia di strutture predicativo-argomentali diverse. Questo vale per i livelli di enunciato
o sequenza e di testo. Questo livello del senso è gestito da predicati semantico-pragmatici detti
connettivi. È importante notare in proposito che la manifestazione del connettivo, non è per lo più
semiotica ma inferenziale; infatti, anche quando essa è affidata a strutture linguistiche, come i
connettori (particelle discorsive, discourse particles, Modalpartikeln, asticy… (vedi Gobber 2006), lo
è in misura parziale e in modo vago. Il fatto che il connettivo sia affidato a strategie di manifestazione inferenziali e non semiotiche rende problematica la sua identificazione. La manifestazione più
esplicita del connettivo, che avviene attraverso verbi performativi, non è frequente ed è riservata
a specifiche forme di lingua scritta. Forse il fatto che non sia ostensibile come oggetto linguisticosemiotico fa del connettivo una categoria piuttosto trascurata sia dai linguisti “puri” che dai teorici
di pragmatica. Tuttavia un buon dominio delle funzioni logico-semantiche dei connettivi è essenziale nella costruzione e nell’analisi del discorso tanto a livello orale che scritto. Si tratta del così detto
filo del discorso, un tema molto rilevante teoricamente e dal punto di vista didattico cui è dedicata
la relazione di Maria Cristina Gatti4.
Io qui mi limito ad anticipare che il connettivo di un enunciato o di tutto un testo è l’azione
comunicativa realizzata con l’enunciato o con il testo dal parlante (o dallo scrivente) per un certo
destinatario. Di nuovo abbiamo a che fare con un’azione cioè un modo d’essere di un certo tipo
(in quanto si tratta di un evento causato intenzionalmente da un agente razionale) che coinvolge
determinati esseri.
Conclusioni
Possiamo a questo punto dare una prima approssimativa definizione del rapporto fra linguaggio e
4 Gatti M.C., “Il filo del discorso”: congruità, coerenza e coesione, nel presente volume.
50
Parte seconda. Il testo come logos...
ragione. Il linguaggio è quel “momento” della ragione che predispone le strutture semantico-pragmatiche (categorie e procedimenti) con cui il soggetto dotato di ragione costruisce modelli della
realtà attuale e virtuale (discorsi) che gli consentono di sfidare la realtà stessa facendone esperienza
conoscitiva e pratica. Diventa a questo punto chiaro che linguaggio e ragione sono strettamente
connessi: il linguaggio è lo strumento usato dalla ragione per collegarsi e confrontarsi con la totalità
dell’oggetto e del soggetto.
La ragione oltrepassa però il linguaggio: il suo “di più” è soprattutto legato al suo essere apertura,
anzi tensione, alla realtà che rende possibile la “prova di realtà” mediante l’esperienza (la verifica
dell’adaequatio rei et intellectus) e la problematizzazione dell’esperienza stessa rispetto alla totalità
della cosa e del sé che la trascende. Ne discendono due corollari: il linguaggio è strumento della
ragione e dunque la ragione può piegare il linguaggio (tropos) secondo le sfere conoscitive e pratiche che affronta, fino a definire sistematicamente linguaggi disciplinari e settoriali e a forgiarsi, al
servizio dell’inventio, strumenti espressivi nuovi (poiesis = facimento); inoltre, siccome ogni esperienza consapevole della ragione è fatta dalla ragione elaborando strutture discorsive, potenziare
la categorialità del linguaggio (id quo cognoscitur) è agevolare l’autocoscienza dell’io che mette in
azione la sua ragione. Si tratta di un fondamentale compito educativo.
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1961, Einaudi, Torino.
51
Il ragionare storico
Questioni di fondo sulla storia
Il ragionare storico viene affrontato con due
testi: un dialogo con Giovanni Cherubini, professore emerito di Storia medievale all’Università
di Firenze, e la relazione tenuta da Paolo Nanni
in un successivo incontro (31 marzo 2012),
presentato come esemplificazione del lavoro di
Accademia.
La scelta di interrogare quasi “dietro le
quinte” un grande maestro di studi storici,
trasformando in domande alcune sue massime,
è stata motivata dalla convinzione che per
recuperare la rilevanza categoriale della
storia, occorre ripartire dai primi passi del
dinamismo della conoscenza storica e da due
considerazioni. La prima riguarda il fatto che la
storia e il senso storico fondano la possibilità
della cultura, della stessa convivenza degli
uomini e del loro esistere nel tempo: un ambito
che travalica i confini di una disciplina. In
questo senso è impossibile cogliere l’interesse
per il passato senza respirarlo per il presente.
La seconda considerazione concerne
l’uso della ragione nella conoscenza storica,
conoscenza indiretta, capace di certezza e di
sintesi attraverso dati, testimonianze e tracce
storiche. Si tratta di un uso della ragione che
impegna la totalità della persona, non coinvolta
solo con l’uso di uno strumento, un metodo o
una facoltà slegata dall’interezza del soggetto.
52
In storia si può parlare bene o male della vita,
del tempo e dell’eterno, ma non si può non
parlarne; e per parlarne occorre prenderne
coscienza. La storia ne emerge come luogo di
educazione del senso della identità personale
e al tempo stesso della civitas: la storia come
autocoscienza. Le risposte di Cherubini, talvolta
anche con disarmante semplicità, confermano
la possibilità di questa avventura vissuta, che
impegna tutta la vita. Il ragionare storico,
inoltre, reclama (e perciò può educare) domande
che nascono dalla vita e implica un apporto
personale. La storia non è mai neutrale, ma
educa a manifestare e verificare le proprie idee
e convinzioni, mettendo chi scrive sullo stesso
piano di chi legge alla ricerca del vero, del reale,
attraverso passi compiuti con ragioni adeguate.
Il caso specifico della storia, disciplina
costitutivamente argomentativa, ha offerto
l’occasione di mostrare una esemplificazione
della precedenza dell’oggetto sul metodo. Senza
una chiara presa di coscienza dello specifico
ambito di realtà indagato da una disciplina
(oggetto reale e oggetto formale) gli aspetti
metodologici si esauriscono in una tecnica o
in equivoche trattazioni sulla conoscenza che
eludono la scoperta dell’unica ragione all’opera.
Paolo Nanni
Intervista a Giovanni Cherubini
a cura di Paolo Nanni
Per fare storia occorre una motivazione, o visione ideale. Più volte hai palato dell’importanza delle
domande per lo studio della storia e del coraggio di prenderle sul serio: perché è essenziale?
Il ragionare storico parte sempre (o dovrebbe) da una o più domande che orientano o danno un
senso alla nostra vita: il rapporto tra la vita e la morte, le convinzioni religiose, una ideologia politica, la visione dei rapporti tra gli uomini, la necessità della solidarietà, della giustizia (o/e dell’uguaglianza) nella società.
Non c’è bisogno di aggiungere che a queste convinzioni che orientano il nostro pensiero (e spesso
la nostra vita) noi giungiamo attraverso le esperienze personali e spesso le suggestioni più diverse,
di amici, di adulti ai quali va la nostra fiducia e il nostro affetto, o per vie diverse. E già questo ci
dovrebbe convincere che non siamo mai, anche nel nostro pensiero, degli atomi lontani dagli altri.
La storia non è solo descrittivismo, ma occorre cogliere i problemi sul piano più generale e saperli
gerarchizzare: dove sta la differenza?
Un primo punto che mi sembra opportuno richiamare è che la storia deve porsi, in primo luogo,
il problema di capire il passato (o anche la storia contemporanea), cioè di individuare i fattori che
muovono la società in una direzione piuttosto che in un’altra, avvertendo subito la necessità di gerarchizzare i fenomeni, di non falsare mai i dati di fatto venuti alla nostra conoscenza (ad esempio
una data, un nome, o cose della stessa natura e valore).
Giova aggiungere che nessuna storia, di nessuno studioso, quand’anche lo affermi e ne sia anche
convinto, è una storia ”neutrale”. Anzi si potrebbe quasi dire che gli studiosi più grandi sono proprio
coloro che non hanno paura di esporre le idee e le convinzioni da cui sono mossi: la fede religiosa,
una idea politica, un ideale o un insieme di ideali, il desiderio di una qualche giustizia sociale, ecc.
Nella qualificazione di ”più grandi” or ora usata c’è anche compresa la valutazione positiva che
bisogna dare della loro onestà che non intende falsare le carte, ma parlare su un piano di parità al
lettore. Che va anzi alla ricerca della verità (almeno la loro verità) interrogando il maggior numero
possibile e vario di testimonianze, affidandosi a un metodo sempre più sicuro e sperimentato, dove
la ”tecnica” di ricerca dia solidità all’argomentare.
Aggiungo anche, a questo punto, che, diversamente da quanto si pensa, la storia medievale non
è inevitabilmente e neppure necessariamente quella che qualcuno potrebbe definire ”una storia di
santi”, cioè una storia generalmente dedicata al fattore religioso, non foss’altro perché il fattore
religioso può diventare con facilità oggetto di interesse, anche quando meno ci si pensa. Posso, ad
esempio, confessare che nella mia ormai lunga attività di ricercatore e di studioso sono stato conquistato talvolta e più di una volta dallo studio del pellegrinaggio, del giubileo, e da quelle fonti,
straordinarie e difficili, che sono le serie di miracoli di un santo o di una santa determinati. Vorrebbe
dire che sono uno storico della santità? L’espressione non mi convince. Ma confesso che di fronte
a quelle fonti, a quegli avvenimenti, a quelle figure umane ho avuto spesso la sensazione di avere
toccato una parte della realtà. Ma non in misura diversa, direi, di quando mi sono occupato di salariati cittadini, di mezzadri, di poveri montanari, di pastori transumanti, di povere vedove o di vecchi
soli al mondo.
53
Parte seconda. Intervista a Giovanni Cherubini
A quanto detto fino a questo punto vorrei aggiungere una notazione relativa, diciamo così, allo
stile di scrittura. Personalmente ho sempre pensato che fosse necessario tentare di scrivere in modo
chiaro, sintetico quanto basta, e se possibile in uno stile personale che conquisti il lettore. Ma non
sono in grado di giudicare se questo mi sia mai avvenuto, ed eventualmente in quali occasioni e
intorno a quali argomenti.
Sono tuttavia un nemico feroce del ”descrittivismo”, che è, nella sua manifestazione più estrema,
l’esatto contrario di una bella e sintetica descrizione, che può essere talvolta utile e gradita a chi
legge, e persino a chi legge per studiare.
Si trova solo quello che si cerca: cosa “serve” per trovare? Nel tuo volume Santiago di Compostella.
Il pellegrinaggio medievale (1998) non hai taciuto il tuo dissenso nei confronti di chi tende a ”sopravvalutare” il ”ruolo che il pellegrinaggio ha avuto nella vita dell’Europa medievale, a cominciare
proprio da quella religiosa”. Nelle ampie conclusioni di quel volume hai elencato alcuni fattori fondamentali per la storia dell’Europa, tra ”unità” e ”forte diversità”: dalla centralità delle origini romane,
alla rottura tra Roma e Bisanzio; dalle forme di governo (monarchie e governi comunali), alla cultura
e all’arte; dalla rete di strade e comunicazioni, all’economia; dal papato alle istituzioni ecclesiastiche e alle forme di religiosità tra cui lo stesso pellegrinaggio; per ritornare infine agli aspetti relativi
alla collocazione della storia di Spagna nella storia d’Europa. Pagine di storia, di paesaggi, di uomini,
largamente inedite anche nella loro sintesi complessiva, che in qualche modo animano anche i tuoi
interessi per la storia delle città, in Italia e in Europa dall’Atlantico agli Urali. Da dove hai tratto queste
osservazioni?
Devo dire che esse vengono prima di tutto dal mio insegnamento, per alcuni anni, in un Istituto
Professionale, nel quale una delle mie materie era ”Cultura generale”. In quella disciplina il docente
aveva la possibilità di educare gli alunni (che erano poi quasi tutte alunne) alla lettura, alla discussione, alla capacità di ragionare. Furono quelli per me anni particolarmente proficui e che mi dettero
molte soddisfazioni. Forse una delle più grandi venne quando incontrai in biblioteca dopo qualche
anno una ragazza molto seria, ma non tra le più brave, che riconsegnava un mazzetto di libri e altri
ne prendeva in prestito. Alla mia domanda, diventando un po’ rossa, confessò che lei e le compagne
avevano imparato da me l’abitudine a leggere.
Ma aggiungo che avevo una particolare passione anche per la politica, per la discussione politica,
per la lettura di qualche giornale che mi apriva ai fatti del mondo. E aggiungo anche che, appena
laureato, potei cominciare a comprarmi qualche volume (di storia medievale) o a fare molte recensioni su libri di storia moderna e contemporanea che arricchivano le mie conoscenze e i miei possessi. Non ho difficoltà a dire che con i primi stipendi della scuola (il primo centro-sinistra guidato
da Fanfani aumentò, tra l’altro, in modo sensibile, gli stipendi degli insegnanti) dal nulla di prima
cominciai ad avere una libreria per la quale oggi, cresciuta a dismisura, non riesco più a trovare
non una collocazione, ma collocazioni sufficienti! In definiva, dunque, la storia d’Europa me la sono
portata in casa.
Ma se a questo mi fermassi non darei il quadro completo e non indicherei le altre vie attraverso
le quali le mie conoscenze si sono accresciute. Intanto devo ricordare i fitti e spesso lunghi viaggi
turistici, il primo in treno e in autobus fatto in Iugoslavia con mia moglie, poi sempre in auto, con
moglie e figlia, sin da piccolissima, che mi portarono ripetutamente in Spagna e in Francia, varie
volte in Portogallo e ancora in Inghilterra, in Grecia, a Istanbul, in Ungheria, nei Paesi Bassi e in
Belgio, persino nella Cecoslovacchia di Novotny, dove a stare con l’orecchio teso, l’occhio vigile e
confrontando fra di noi le sensazioni e le scoperte piccole o grandi fatte ogni giorno riuscivamo a
capire molte cose. Ma dal viaggio le conoscenze passano molto forti nella memoria e fanno persino
54
Parte seconda. Il ragionare storico
fruttificare qualche futuro lavoro, soprattutto se dal viaggio si riportano anche dei libri.
Ai viaggi non furono estranei poi gli inviti scientifici per tenere una conferenza o qualche lezione,
da Parigi (dove fui invitato più di una volta e una volta anche al Collège de France), a Poitiers, a
Strasburgo, a Flaran, da Valenza a Madrid, a Barcellona, a Estella, a Valencia, ad Alicante, poi a Varsavia e a Mosca, rispettivamente al tempo del regime comunista ormai in crisi e del regime ancora
apparentemente forte (a Mosca andai infatti nel 1977, sessantesimo anniversario della Rivoluzione
d’Ottobre), infine in Finlandia. Col tempo vennero anche due incursioni fuori d’Europa, a congressi in
due diverse aree, anglofona e francofona, del Canada, e in Argentina, alle Università di Buenos Aires,
e di Santa Rosa nella Pampa. In entrambi i luoghi, se così si può dire, l’Europa pur geograficamente
lontana era ben presente nella vita d’ogni giorno, a partire dalla lingua, pur piegata, in modo significativo, a una diversa pronuncia rispetto alla madrepatria. Ma la mia esperienza d’Europa attiene
anche alle mie funzioni di assessore alla cultura in un comune della cintura fiorentina popolato da
un po’ meno di trentamila abitanti. Fra i miei compiti rientrava anche infatti quello di assessore
al gemellaggio. Il comune con cui eravamo gemellati era quello di Plessis Robinson, nella banlieu
parigina. I viaggi, gli incontri reciproci in Italia o in Francia sviluppavano esperienze, conoscenze (in
qualche caso sino al matrimonio), contatti politici sempre interessanti. Ma per quello che mi riguarda ricordo anche che l’area in cui era compreso Plessis suggeriva molti ricordi. Il palazzo comunale
apparteneva alla famiglia d’Artagnan, ma tutta l’area immetteva verso sud e mi faceva ricordare che
la mia lettura di Dumas mi portava il ricordo di una delle donne che aveva amato Aramis. Ma altro
emergeva dalla memoria pensando a quel territorio a sud di Plessis. Ricordavo con precisione, infatti,
date le mie ricerche di allora, i dati rarissimi offerti dalla storiografia sui caratteri demografici ed
economico sociali di quella zona.
Esiste un contributo civile della storia?
Forse qualche mio alunno ricorda ancora che io legavo in qualche modo – pur non parlandone
spesso come pur facevano tanti illustri colleghi (mi viene in mente, a questo proposito, il caro amico
scomparso Antonio Rotondò) – l’impegno nella ricerca all’interesse quotidiano per la vita civile.
Nella mia Facoltà fiorentina questo era anzi, allora, una sorta di habitus mentale, di convinzione che
studiare storia volesse dire non vivere in una bella torre d’avorio lontana dal mondo, ma immergersi
nel mondo e nei suoi problemi.
Senza dubbio alcuni di noi dovettero constatare che l’insorgere della contestazione studentesca,
soprattutto di quella che si manifestò negli anni della violenza, non era un facile approccio per quel
tipo di idee dei docenti, in fondo rispettose delle libertà di ciascuno al di là delle diverse valutazioni
del mondo. Ma mi sento in coscienza di affermare che almeno i più tennero fede a quell’idea sulla
”vita civile” come abito dello storico, per quanto dalla storia degli ultimi vent’anni abbiano spesso
ricevuto delusioni e smentite.
Un elemento tuttavia centrale nella pagina dello storico dovrebbe essere il ragionare serrato, la
difesa onesta delle proprie idee e delle proprie convinzioni, ma senza mai cadere nel dispregio delle
convinzioni e delle idee altrui. In questo senso mi è sempre parso naturale, sin da giovanissimo, che
lo storico portasse e dovesse anzi portare un contributo civile alla vita collettiva, in particolare nella
parte più strettamente attinente alla vita politica.
55
Dall’oggetto il metodo.
Per esempio in storia
Paolo Nanni
Da sensato apprende ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Visibile e invisibile (gli impliciti)
Osservando il paesaggio delle campagne risaltano all’occhio le linee orografiche (pianura, collina,
montagna), le forme di regimazione delle acque, le disposizioni delle coltivazioni, la dislocazione di
fabbricati. Prendendo ad esempio le pianure lombarde a nord del Po, a una più attenta osservazione
si noteranno le differenze tra edifici rurali di grande dimensione con ampie stalle collocati in un’area
ben individuabile, rispetto ad altre zone con case di dimensioni minori. Potrà non cadere inosservata
la ricorrenza, lungo quella prima fascia, di toponimi come “Fontanelle”, “Fontanile” o “Fontanellato”.
Una prima rappresentazione del paesaggio geografico, anche sul piano storico, si atterrà a rilevare
i tratti ambientali e antropici, che distinguono la bassa pianura, con le sue risorgive e le pratiche
dell’agricoltura irrigue unita all’allevamento, dall’alta pianura. Una distinzione che corre, tra Adda
e Ticino, grosso modo lungo la linea che separa il nord dal sud di Milano. Fin qui possiamo parlare
di paesaggio geografico (e storico) sensibile, secondo la definizione del noto geografo Aldo Sestini
(1963), centrato sugli aspetti visibili. Una serie di dati che si mostrano alla nostra osservazione implica tuttavia l’esistenza di qualcosa di non direttamente visibile. La cascina lombarda (quei grandi
edifici con stalle), i canali navigabili che si irradiano fin dentro la città (i navigli) sono, o sono stati,
resi possibili da specifiche condizioni ambientali, ma suppongono anche una trama di relazioni economiche e sociali invisibili. È ancora Sestini che proponeva una più ampia definizione di paesaggio
geografico che contemplasse non solo gli aspetti visibili, ma anche quelli invisibili, quelle realtà,
cioè, senza le quali non ci sarebbe ciò che si vede: il paesaggio geografico (e storico) razionale. Definizione che ci permette di parlare, ad esempio, di “paesaggio della cascina” – o altrove di “paesaggio
della mezzadria” o di “paesaggio della masseria” – cogliendo i fabbricati non solo nella loro tipologia
costruttiva, ma anche, se non soprattutto, nella loro tipologia funzionale strettamente legata a inconfondibili relazioni economiche e sociali: chi ci stava e a che titolo, cosa faceva e come campava,
come articolava l’attività agricola e zootecnica.
Se l’esempio può essere generalizzato, è questa combinazione di aspetti visibili e invisibili che
compone una realtà storicamente individuabile che, come tale, reclama la sensibilità e l’attenzione
di un soggetto, poiché l’oggetto non si identifica con il mero dato.
Dal dato all’oggetto
Se il ”lato matematico” si occupa di ”totalità di oggetti, insiemi (spesso infiniti) di oggetti […]
definiti astrattamente mediante (solitamente poche) proprietà astratte comuni” (Bramanti, in questo volume), il “lato” storico si situa quasi al suo opposto: ma, lo ripeto, il singolo oggetto non si
identifica con il dato o il fenomeno.
Partirò anche in questo caso da un esempio: l’affresco del Buon Governo del 1339 commissionato
56
Parte seconda. Dall’oggetto il metodo
ad Ambrogio Lorenzetti per il Palazzo Pubblico di Siena. Se trattenendo la nostra fretta di correre
subito alle definizioni ci soffermiamo sul dato, non possono essere trascurati alcuni aspetti. Si fronteggiano con diverse proporzioni Buono e Cattivo Governo. Entrambi sono rappresentati facendo
leva su due sensi, quello letterale e quello allegorico. Letteralmente, o realisticamente, sono raffigurati città e campagna, in un caso dominati dalla Securitas nell’altro dal Timor, qui nel senso di
paura; allegoricamente i presupposti e la trama di nessi e implicazioni che originano quegli effetti.
Se il Cattivo Governo si identifica con il Tiranno che sottomette la giustizia allo stato di larva, la
figura regale del Buon Governo rappresenta il Comune (C[ommune] S[enarum] C[ivitas] V[irginis]),
dove giustizia induce a unità i ”molti” (non tutti) e questi “acciò ricolti un Ben Comun per lor signor
si fanno” (Castelnuovo 1995: 385).
Trattenendo ancora la fretta anzidetta, possiamo compiere delle osservazioni partendo da quella
“primigenia accettazione” del dato in quanto dato, “senza della quale il dato non si dimostra alla
coscienza come presenza, ma come puro fenomeno”5 sul quale riversare sentimenti o pensieri. In
questo momento di autocoscienza possiamo rilevare che si tratta di un affresco dalla collocazione
particolare, la Sala consiliare del Governo dei Nove, ma che poteva essere intravisto anche dalla
stessa piazza. Un governo, quello committente dell’affresco, che si definiva “de la mezza gente”,
cioè “dei milliori, più savi et più utili” (VI dist.) secondo il Costituto del 1309-1310 redatto in volgare, primo caso in età comunale. Si può ancora osservare che non si tratta di una rappresentazione
utopica o idealizzata: negli stessi Effetti del Buon Governo in campagna ci sono mendicanti ai piedi
dei signori che escono per la caccia dalla città, oltre al ladro di strada giustiziato per mano della
Securitas.
È a questo punto che possono insorgere in chi guarda domande di senso: perché, di che si tratta
ecc. A queste domande che esigono risposte la conoscenza storica offre tessere di un mosaico che
sostengono o motivano ipotesi di spiegazione. Elementi materiali e immateriali entrano in gioco:
dalla demografia all’economia; dalla costruzione della città alle forme di governo; dall’identità civile
alla consegna di memoria storica; dalle arti alla socialità. Così come una tradizione culturale, che da
Aristotele giungeva a Tommaso, Tolomeo da Lucca, Egidio Romano, Bartolo da Sassoferrato, emerge
in tutta la sua attualità nella condanna della tirannide e nella convinzione che la forza argomentativa è fondamento della politica, contestando così quelle false origini dell’assolutismo attribuite al
Medioevo cristiano. Quei dati fin qui rilevati, quelle domande che rimandano al fatto nel suo insieme, diventano così un oggetto: la “civitas medievale” o la “terra di città” sono solo alcuni esempi di
questi oggetti storici specifici. Tanto quanto la “crisi del Trecento” sta a indicare la rottura di quella
realtà documentabile sotto vari punti di vista, dagli aspetti materiali fino agli aspetti della coscienza
e della “coscienza religiosa”, altro oggetto storico rilevante (Giussani 2010).
Oggetto e soggetto sono dunque intimamente legati e non esiste oggetto prima dell’inferenza del
soggetto: “da sensato apprende, / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (Par IV, 41-42). L’oggetto in
storia, è questa invenzione degna d’intelletto.
Oggetto reale e oggetto formale
L’oggetto reale si presenta dunque ai nostri occhi sotto forma di dati. Nel loro complesso essi
possono prestarsi a diverse inquadrature, per il filosofo, il politologo, lo psicologo, l’economista, il
sociologo, l’antropologo.
Con il termine oggetto formale si intende la prospettiva specifica di ogni disciplina, nel nostro
caso la storia: “l’oggetto formale è l’insieme delle risposte che l’oggetto reale dà a un insieme particolare di domande, tipiche di una disciplina particolare” (Rigotti e Cigada 2004: 61).
5 Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume.
57
Parte seconda. Paolo Nanni
Prendiamo ad esempio il caso del mercato. Questa realtà storica (del passato come del presente), si presenta ai nostri occhi attraverso una serie di dati e viene accostata dalle singole discipline
secondo il loro particolare punto di vista. Agli occhi dell’economista, o dello storico economico,
risulterà come un elemento delle strutture della società, secondo specifici fattori: rapporti di produzione, domanda e offerta, tecniche contabili e finanziarie, meccanismi di credito ecc. Il tempo dello
storico economico è un tempo dilatato, di lungo periodo, alla ricerca di quei fenomeni che mostrano
continuità e discontinuità per cogliere il movimento della storia nella sua tendenza prevalente.
E lo storico? Pur assumendo i diversi approcci e le diverse valutazioni, non potrà ricacciare dubbi
e quesiti che ronzano costantemente nella propria mente, tra passato e presente. Chi erano quegli
uomini che chiamiamo mercanti? Cosa facevano e come valutavano il proprio agire? Quali ideali,
quali concezioni tramavano il loro esistere nella storia? Lo storico non sarà soddisfatto di descrivere
senza affrontare i suoi perché, anche di fronte a fatti marginali. Non basteranno gli avvenimenti e
il loro corso senza tentare di comprenderne i tratti distintivi, le motivazioni contingenti, le cause e
gli effetti, le gerarchie di problemi. Certo non si darà per vinto fin quando non giungerà a toccare
qualcosa, a sentire qualcosa che appartiene alla vita e al destino degli uomini. Attentissimo alle
strutture, non potrà mai dimenticare quelle “sfumature” che tengono per terra i suoi piedi. E partendo dalla terra, non potrà smontare quella struttura tutta personale e al tempo stesso relazionale
degli uomini, che vivono tra aspetti materiali e immateriali.
Nella prospettiva storica, l’oggetto formale è dunque la dimensione attuale della realtà. I dati,
come in tutte le discipline, passati al vaglio del soggetto si trasformano in indizi, per quella duplice
facoltà dell’autocoscienza: la capacità di problematizzare e la necessità di spiegare, di rendere ragione. Senza contare che l’esperienza del conoscere incrementa l’autocoscienza, perché ora che ho
visto sono diversi i miei occhi che vedono.
Anche in storia si fa uso di una forma di astrazione: l’audacia dello storico si allontana dal
dato facendo leva sulla capacità inferenziale della ragione, che coglie impliciti o “entità nascoste”
(dall’invisibile del paesaggio geografico razionale al concetto di civitas medievale) per riconoscere
e trasfigurare dati in oggetti: “quando si costruisce un’ipotesi, si trova il significato del particolare
dentro a una totalità. Solo il fatto nel suo insieme dà la ragione del dato e consente pertanto di
capirlo davvero, perché quel che si vede rimanda a quel che non si vede” (Rigotti e Cigada 2004: 65).
È qui che risiede la portata del titolo, ovvero dall’oggetto il metodo e non viceversa. Non è il metodo storico che crea oggetti storici: l’oggetto si crea nell’autocoscienza del soggetto; il metodo è il
procedimento per attestarne l’attendibilità, la veridicità non la verosimiglianza, l’ipotesi di spiegazione. Risalendo alle origini della scienza storica, è la scoperta del vero storico, del reale (Relazione
Valvo). Ma soprattutto è nel momento in cui la conoscenza storica si dimostra come audace capacità di allontanamento dal mero dato, che il metodo storico deve essere riformulato. Per spiegare
singoli elementi possono bastare specifici procedimenti (dalla paleografia all’ermeneutica testuale,
dalle teorie economiche a quelle sociali); per quegli oggetti così rinvenuti no.
Aspetti del Metodo storico
Seguendo queste osservazioni, non possiamo omettere dalla definizione di metodo storico quel
suo primo originarsi che lega fase euristica e fase critica: “il fatto che sia attraverso una precisa
domanda all’oggetto reale che si costituisce l’oggetto disciplinare ci fa comprendere la natura del
metodo”, quel “procedimento adeguato per rispondere alla domanda che costituisce l’oggetto disciplinare” (Rigotti 2009: 18).
58
Parte seconda. Dall’oggetto il metodo
Fase euristica
L’oggetto storico nasce come una scintilla tra due poli che distinguiamo per necessità espositiva,
ma che in realtà si presentano in modo inscindibile e si documentano in quel presentimento che precede ed è costitutivo della domanda con cui si affronta ogni ricerca, ogni indagine, ogni conoscenza
storica. Si tratta dell’essenziale principio della cultura: “Ex uno verbo omnia, et unum loquuntur
omnia. Et hoc est principium quod et loquitur in nobis” (Giussani 1995: 72).
Il primo polo è il dato (dati) che si mostrano ai nostri occhi: eventi, cose, persone, idee, misure,
dati quantitativi, aspetti materiali e immateriali, documenti, relazioni. Il secondo polo è la domanda,
il principio formale che permette di vedere, di riconoscere i dati come presenza. Domande specifiche
che si rendono intellegibili in noi di fronte al dato, ma che al fondo si documentano come riflesso,
memoria – “una passione ripetuta”, “un ricordo, un modello” (Pavese, Le muse) – di una esigenza di
significato, di una segreta domanda che anima il nostro esistere, come sottolineava Cherubini. Se
uno non ha il problema, il quid nascosto, non ha nemmeno la storia: occorre il coraggio di prenderlo
sul serio per non errare eternamente a caso.
È in questo momento che nascono ipotesi interpretative che orientano la nostra ricerca. Ipotesi
che si costruiscono sull’individuazione di indizi rilevanti per la conoscenza complessiva di un certo
ambito della realtà storica. L’ipotesi in storia spesso si identifica con l’individuazione di un oggetto
specifico portatore di senso, catalizzatore di significato, capace di proporzionare la dimensione di
tutta la realtà, perché mentre lo osservo è il mio occhio che si tara e allarga la percezione di tutta la
realtà. Se il fatto non è il solo dato, ma l’oggetto storico rilevato, rilevante, ricostruito e motivato, è
il fatto stesso a poter essere assunto come criterio.
Si può forse richiamare l’attenzione sul fatto che la rilevanza data da Sallustio alla congiura di
Catilina sia discutibile, ma non va trascurato il suo intento di collocare nella storia la causa “razionale” di una crisi. “La scelta della storia – scriveva La Penna – è, dunque, per Sallustio una risposta
alla crisi dello Stato e della società: quindi, innanzitutto, un’interpretazione della crisi”; una spiegazione che faceva appello ad aspetti morali ma anche a un “concetto razionale”: la “caduta della
paura dei nemici esterni fu la fine della concordia interna” (La Penna 2004: 44-46). Analogamente
potremo citare i canti di Cacciaguida (Par XV-XVII) per la Firenze dell’inizio del Trecento (Cherubini
1991), o il dialogo con Marco Lombardo per il rapporto tra Impero e Papato: entrambi i casi collocano nella storia ragioni morali – la “mala condotta” e “non natura che ’n voi sia corrotta” – ma
anche politiche – “è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva forza mal
convien che vada” (Pur XVI, 109-111) – evidenziando così cause ancora razionali, strutturali, di una
crisi precocemente avvertita da Dante.
Fase critica: le regole tassative
Aspetto specifico della disciplina storica è l’uso di un procedimento ipotetico deduttivo: “una
domanda precisa (e solo domande siffatte si dimostrano utili alla storia) si presenta sotto l’aspetto
di una ipotesi da verificare: ‘Non sarà vero che …?’” (Marrou 1988: 53). Le fonti sono il luogo in cui
mettere alla prova l’ipotesi.
Appartengono alla fase critica aspetti rigorosi, regole tassative: lo stato delle conoscenze (bibliografia); la selezione, la critica e l’interpretazione delle fonti (documenti, tracce, dati ecc.) che
mettono alla prova l’acribia della conoscenza storica, quel non poter affermare nulla senza mostrare
come posso sapere ciò che sto per dire. Non va trascurata neanche la sensibilità per le acquisizioni
specifiche provenienti da altre discipline che possono mettere a disposizione oggetti, conoscenze o
strumenti di lettura (ad esempio geografia, economia, diritto, archeologia, paleografia e diplomati59
Parte seconda. Paolo Nanni
ca, linguistica e filologia, arte e letteratura, scienze naturali).
In questa fase la ragione non si impegna solo con specifiche procedure, ma sono sollecitati diversi
processi inferenziali. Ad esempio è la stessa definizione di fonte storica che viene arricchita: può essere una fonte tutto ciò che siamo in grado di far parlare. O ancora possiamo esemplificare con i casi
di fallacia: le falsificazioni fattuali come le fosse di Katyn; le paramassime presentate come massime
del machiavelliano “il fine giustifica i mezzi”; i falsi concetti (o endoxa inconsistenti) come le parole
chiave di diverse ideologie. Il valore civile della storia sta anche in questo recupero di una capacità
argomentativa che nasce dall’osservazione storica. Tuttavia anche in questi casi la conoscenza storica può essere arricchita, ad esempio in quegli aspetti che appartengono alla storia della percezione
e delle idee: ciò che in una data epoca è ritenuto plausibile è un documento di quella cultura.
Se non vogliamo limitarci solo a una contro-storia, che rimane tuttavia bloccata in una forma
apologetica di fare storia, sostanzialmente difensiva e minoritaria (molto più preoccupante quando
divenisse maggioritaria); se non vogliamo svagarci in discutibili interpretazioni storiche che per voler essere originali risultano nel migliore dei casi fantasiose, è la conoscenza storica tout court che
dobbiamo recuperare. Una disciplina costitutivamente argomentativa (Rigotti e Greco 2005).
Riferimenti bibliografici
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Cherubini G., 1998, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Protagon, Siena.
Cherubini G., 2009, Le città europee del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano.
Giussani L., 1995, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano.
Giussani L., 2010, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, in Id., Il senso di Dio e l’uomo moderno.
La “questione umana” e la novità del Cristianesimo, BUR, Milano: 77-139.
La Penna A., 2004, La storiografia, in Montanari F. (a cura di), La prosa latina. Forme, autori, problemi,
Carocci, Roma.
Marrou H.I., 1988, La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna (ed. orig. De la connaissance historique,
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Rigotti E., 2009, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, a cura di Mazzeo R., Mondadori, Milano.
Rigotti E., Cigada S., 2004, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano.
Rigotti E., Greco S., 2005, Introducing Argumentation, Argumentum. E-course of Argumentation
Theory for Human and Social Sciences, www.argumentum.ch.
Sestini A., 1963, Il paesaggio, TCI, Milano.
60
Ragioni nuove per studiare Dante
Il testo che ci ha consegnato Enrico Malato
ripercorre la storia critica o, per meglio dire,
il moderno tragitto di riscoperta di Dante e,
dunque, della Commedia, quale si affaccia nel
secolo XVIII, quindi si afferma in tutta l’Europa romantica e positivista, fino a espandersi e
ramificarsi nel Novecento, in un processo di riconquista di schiere crescenti di lettori che non
si arresta e non incontra limiti né temporali né
geografici neppure nel terzo millennio appena
cominciato.
Colpisce la dovizia dei nomi dei letterati, dei
commentatori, dei pittori, italiani e stranieri, che
hanno amato, studiato, illustrato i celeberrimi
“cento canti”, ma più ancora il rendiconto del
lavorìo critico che quegli uomini profusero onde
pervenire vuoi all’affidabile redazione criticotestuale del poema e delle opere minori (opus
infinitum) vuoi alla comprensione dei significati
con cui intendere il messaggio semplice e
complesso, profondo e accessibile dell’opera
dantesca (labor nondum consummatus).
Proprio in questo la lezione di Malato assume
la maggior autorevolezza e forza suggestiva,
è un invito a battere piste d’indagine forse
non inedite, ma certo non ricercate quanto
meritano. La seconda parte del saggio è dunque
interamente dedicata alla originale proposta
interpretativa – che rilancia una potente
intuizione di Gianfranco Contini, corroborata
da nuova mole di dati – che vede nell’insieme
dell’opera dantesca un serrato dialogo o
contraddittorio sul tema dell’amore – che è
l’idea centrale, prima e ultima della Commedia
– tra la visione negativa e mortifera di Guido
Cavalcanti e quella benefica e salvifica del suo
più giovane e intimo amico, Dante Alighieri. Da
filologo e storico della letteratura, Malato ha
naturalmente la cura d’indagare tale ipotesi
mettendo sul tavolo o, comunque, tenendo
a disposizione dati e argomenti sicuri o assai
probabili, e però non si accontenta dell’epoché
della filologia testuale, non si rifugia nella
neutrale sospensione del giudizio dinnanzi a
una straordinaria difficoltà: si tratta cioè, se
si toglie il fugace intermezzo dell’incontro col
padre, Cavalcante, nel c. X dell’Inferno (più un
altro cenno in Purgatorio), del problema della
misteriosa assenza di Guido, l’amico di più alto e
sottile ingegno morto nell’estate del 1300, dalle
molte centinaia di personaggi con cui Dante
viene in contatto nel viaggio oltremondano.
Assenza? O non piuttosto presenza occultata?
La questione non è da poco, e non è una
faccenda privata: ne va addirittura del senso
ragionevole dell’itinerarium e della scrittura
del poema e, insieme, del destino del poeta
personaggio, individuale ed esemplare. A chi
conosca anche sommariamente la vicenda
biografica e autorale del poeta, suona insomma
plausibile una così inspiegabile lacuna, anzi,
una così singolare autocensura dell’affectus, in
chi non teme di condannare in vita un pontefice
come Bonifacio VIII o di sottoporre sé all’esame
nientemeno che del primo degli Apostoli?
Malato, allora, per colmare quest’ardua
lacuna, prova a riconsiderare l’intero poema e
le altre opere poetiche di Dante movendo da
una formidabile scoperta del grande Charles
Singleton: nei sette canti dal XIV al XX del
Purgatorio – e specialmente nel XVII, che è il
centro esatto dell’intera architettura poematica
– Dante concentra e tematizza la questione
cardinale de amore, che del resto attraversa
in ogni guisa e in indimenticabili colloquii le
tre cantiche. Ebbene? Proprio in quella zona
cruciale della Commedia si annida la risposta
che Dante manda a Guido, l’amico ormai
61
Parte seconda. Luca Montecchi
trapassato, e a quanti ne seguono le orme fallaci
in terra, e cioè che Amore, già conosciuto da
giovane nel sembiante miracoloso di Beatrice,
reca una promessa di speranza e di salvezza, di
felicità totale non illusoria, ché quella Beatrice
terrena e trasfigurata, ma non reclusa in
paradiso, si è fatta custode del suo fedele, della
sua ragione e dei suoi sentimenti, e tramite per
condurlo alla sua perfezione, cioè al godimento
eterno di quell’Amore che è Dio e di cui ella
stessa è beata. E che, come osserva la Landoni
nel suo saggio sul Parlar materno, appellandosi
al verso perifrasi che chiude la Commedia, “è
l’amore che muove l’uomo ad agire, che lo pone
in azione”.
Un’ultima considerazione. Non è usuale,
fra quanti professionalmente si occupano di
lettere, udire o leggere giudizi sul valore di
un’opera d’arte in prosa o in versi che non sia
puramente estetico o storico o sociale, ma che
invece ne comporti la rilevanza e il beneficio,
o il danno, per l’uomo. Ebbene, Enrico Malato
non ha timore, sulla scorta di Dante che dialoga
a distanza con Guido, di riconoscere che non
ogni opera, per esser “letteraria”, è ipso facto
“buona”, cioè degna di esser letta, meditata,
62
messa in scena. Né, come pretendono gli
strutturalisti, i testi sono fra loro indifferenti e,
in ultima analisi, equivalenti. Il genio di Dante
ha sancito la funzione elevatrice della poesia e
mostrato che a certe condizioni la letteratura è
in grado di svolgere “un ruolo fondamentale di
orientamento dell’uomo nel percorso della vita”.
Ma esiste parimenti una “cattiva letteratura,
quella dei romanzi cortesi, che […] affermavano
la natura passionale, travolgente, irresistibile
dell’amore, [che] ciecamente seguita, è stata
causa della rovina di Francesca e Paolo”. Non
diversamente, in fondo, Flaubert racconterà la
rovina, nella borghese provincia della Francia
ottocentesca, di Emma Bovary, lei pure imbevuta
di romanzi d’amore passionale e, perciò, tanto
più incline al rêve, al sogno a occhi aperti, alla
rinunzia al vero che ti giudica e ti libera.
La partita si decide sul punto della ragione
umana di fronte alla realtà e sull’uso che
facciamo della dote inestimabile della libertà:
ciò che, appunto, è la sostanza teoretica ed
esistenziale della poesia di Dante, che non è
Ulisse, non Tristano, e neppure Don Giovanni.
Luca Montecchi
Leggere Dante nel XXI secolo
Enrico Malato
Avvicinandosi il settimo Centenario della morte di Dante, nel 2021 – e si sa quanto per Dante sette
fosse un numero sacro per eccellenza, dunque una cadenza particolarmente carica di valori simbolici
e significativi –, mentre è in corso il settimo centenario della Divina Commedia, il “poema sacro” di
cui egli dovette iniziare la stesura proprio intorno agli anni 1306 o 1307 o 1308, sembrano maturi i
tempi per qualche riflessione: in ottica retrospettiva, in chiave di bilancio degli studi danteschi negli
ultimi decenni (o diciamo pure negli ultimi due o tre secoli), e però anche in ottica di prospettiva,
di previsione e programmazione dei sentieri che la critica dantesca potrà percorrere, o almeno vede
schiusi davanti a sé, alle soglie del nuovo millennio. E inevitabilmente ne verrà insieme qualche considerazione su un altro aspetto – sconcertante e affascinante insieme – della dantologia moderna:
sul perché si continui a leggere Dante, oggi, con immutato interesse, magari con crescente entusiasmo e partecipazione delle masse, che lo hanno promosso addirittura a protagonista di romanzi popolari a circolazione internazionale, e sul come lo si legga, con quale effettiva aderenza al messaggio
poetico che egli ci ha lasciato; sulle ragioni di questa intramontabile fidelitas di un vasto pubblico
a un poeta che è oggettivamente “difficile”, tale da chiedere una speciale attrezzatura mentale e un
bagaglio culturale non comuni, e in un momento di crisi – almeno in Italia – degli studi letterari e in
particolare della critica e soprattutto della filologia dantesca nella scuola e nell’università.
Grandi critici e artisti del Novecento, italiani e stranieri – da Michele Barbi a Erich Auerbach, da
Ernst Robert Curtius a Gianfranco Contini, ad Antonino Pagliaro, al poeta Eugenio Montale, ecc. –,
hanno parlato, con riferimento a Dante, di “miracolo” o di “prodigio” dantesco: tale non soltanto
per la densità e l’altezza della poesia di Dante, senza uguali nella storia della poesia universale, non
soltanto perché la Commedia “è l’unico capolavoro del medioevo in lingua accessibile” (Contini),
scritto nell’unica lingua di cultura dell’Occidente che, grazie proprio a quell’opera, è rimasta
sostanzialmente inalterata per oltre settecento anni, così che è oggi coincidente (a differenza dal
francese, dall’inglese, dallo spagnolo, dal tedesco, ecc.) con la lingua italiana parlata, ma anche per
la sua “popolarità” intramontabile, appena ricordata, per la sua capacità di esercitare un fascino
straordinario su legioni di lettori, in tutte le latitudini del globo, che non conosce crisi.6 Dante
contende a Shakespeare, spesso con successo, il “primato” nella “grandezza poetica”, quale viene
dichiarato nelle valutazioni soggettive di quei lettori, e anche nella frequentazione delle loro opere:
ciò che appare tanto più sorprendente, in quanto non solo Dante ha scritto in una lingua molto
meno diffusa di quella di Shaskespeare (letto perciò spesso, fuori d’Italia, in traduzione), ma perché
mentre il drammaturgo è un poeta moderno, vicino alla sensibilità dell’uomo del nostro tempo, Dante è un uomo tipicamente del Medioevo, portatore di una tematica e una problematica in apparenza
propri di un’età che sembra lontanissima dalla nostra. E pure riesce a proporli, quei temi e quei problemi, in modi, in forme, con un linguaggio che esercitano una forte “presa” su lettori di ogni tempo
e di ogni paese, un fascino, una suggestione che coinvolge lettori comuni e critici letterari, come
attestano pochi dati certi: La Divina Commedia è l’opera in lingua straniera più tradotta e ristampata in inglese dopo la Bibbia; su Dante si pubblicano ogni anno nel mondo, solo in sede scientifica,
circa 1000/1500 contributi critici (libri, saggi, articoli, recensioni, traduzioni, ecc.), esclusi i giornali
6 Su questo quadro vd. Malato 1999-2001, partic. 658 sgg.
63
Parte seconda. Enrico Malato
e le pubblicazioni divulgative e scolastiche, dei quali un terzo fuori d’Italia, e di questi, la metà tra
USA e Canada.7
Conviene dunque fermare brevemente l’attenzione, ai fini del nostro discorso, da un lato sulla
produzione critica dantesca, sulla quantità (e la qualità) della “letteratura” relativa a Dante che,
sempre più abbondante, si va producendo nel mondo, con contributi talvolta importanti al progresso
della conoscenza della figura e dell’opera di Dante, non di rado con effetto di “ingorgo”, creando
difficoltà agli studiosi nell’orientarsi in questa selva selvaggia, ardua da districare; dall’altro – in
conseguenza – sulla fruizione che di essa si è fatta, sui risultati effettivamente e stabilmente conseguiti e quelli tuttora incerti e discutibili e discussi, sulle prospettive nuove che si sono aperte alla
ricerca, sui campi in cui essa potrà utilmente svilupparsi.
La nuova “fama” di Dante
è appena il caso di ricordare che, dopo la parentesi seicentesca, la rinascita, fin dagli inizi del XVIII
secolo, dell’interesse per Dante – che approdò nel giro di pochi anni alle nuove edizioni commentate (tutte poi variamente ristampate) della Commedia, a cura di Giov. Antonio Volpi (1726-27), di
Pompeo Venturi (1732), fino a quella curata da Baldassarre Lombardi (1791) – trovò centri particolarmente attivi di ricerca di documenti danteschi e di studio dell’opera di Dante a Venezia, a Roma, a
Firenze, soprattutto a Verona, dove per impulso di Scipione Maffei si costituisce un nucleo di valenti
studiosi – Bartolomeo Perazzini, Lodovico Salvi, Giuseppe Torelli, il canonico Gio. Jacopo Dionisi –
che afferma la necessità di uno studio sistematico dell’opera dantesca, sostenuta da un’apposita
istituzione, per la quale si ipotizza la forma di una “Accademia dantesca”.8
è l’inizio di una “riscoperta” di Dante che nel volgere di pochi decenni si traduce in fervore di studi, di iniziative, di manifestazioni celebrative, in attività di ricerca di antichi documenti danteschi,
di antichi codici testimoni delle sue opere, che coinvolge non solo ammiratori italiani – di un’Italia
ancora divisa in tanti Stati e staterelli –, ma anche stranieri. La fama di Dante si spande rapidamente
in tutta Europa: in Inghilterra, dove già nel Seicento John Milton era stato grande estimatore del poeta della Commedia, Coleridge, Shelley, Byron sono impegnati fin dagli albori dell’Ottocento in una
entusiastica divulgazione della sua opera, cui contribuiscono anche Foscolo e altri esuli italiani a
Londra; in Svizzera e in Francia ammiratori di Dante, contro la contestazione di Voltaire, sono M.me
de Staël e Sismonde de Sismondi, Dumas e Sainte-Beuve; in Germania lo sono Schelling, Schlegel,
Hegel, dopo che Goethe lo aveva “scoperto” durante il suo viaggio in Italia nel 1787; in Russia sono
ammiratori di Dante Puškin, Gogol’ e più tardi Turgenev, ecc. Ma è la diffusione dei temi danteschi
nella grande pittura europea già dalla fine del Settecento che dà la misura della popolarità raggiunta dall’opera sua: basti ricordare i nomi di Joshua Reynolds, William Blake, John Flaxmann, William
Dyce e più tardi Dante Gabriel Rossetti in Inghilterra, Ingres, Carpaux, Delacroix in Francia, Asmus
Jacob Carstens in Germania, Ary Scheffer in Olanda, e tanti altri. Al tempo stesso, accanto all’ammirazione per il poeta si afferma l’esigenza di un approfondimento critico della sua opera, partendo dal
recupero dei testi, trasmessi con troppe incertezze e varianti di lezione dalla ricchissima tradizione
manoscritta medievale e rinascimentale.9
Di qui, iniziative che vedono spesso studiosi stranieri all’avanguardia. Il tedesco Karl Witte, che
aveva avuto modo di “scoprire” Dante durante un soggiorno romano nel 1820, dedicò la sua vita
7 Cfr. la Bibliografia Generale della Lingua e della Letteratura Italiana (BiGLI).
8 Cfr. Zamboni 1901: 1 sgg.
9 Su questa fase della storia della “fortuna” di Dante vd. Malato 1999-2001, partic. 686 sgg. (e sul concreto apporto di
questo ambiente e di questa stagione di studi al progresso della ricerca dantesca, di cui ora si verrà a dire, vd. Malato
20043 e Malato 20044: 43 sgg., 119 sgg. e passim.
64
Parte seconda. Leggere Dante nel XXI secolo
allo studio degli antichi commenti e al testo della Commedia, di cui offrì nel 1862 il primo tentativo
di edizione critica moderna (seguita nel 1865 da una traduzione tedesca integrale), mentre il re
Giovanni di Sassonia (König Johann von Sachsen), grande ammiratore del poeta fiorentino, sotto lo
pseudonimo di Filalete ne realizzava a sua volta (tra il 1825 e il 1865 circa) una pregiata traduzione e un ampio commento che resta uno dei contributi importanti della dantologia dell’Ottocento.
In Svizzera il pastore protestante Giovanni Andrea Scartazzini pubblicava tra il 1874 e il 1882 La
Divina Commedia riveduta nel testo e commentata, che almeno nel commento rappresenta – dopo
quello di Niccolò Tommaseo (1837, 18542, 18653) – il maggiore sforzo esegetico sul poema del XIX
secolo. In Inghilterra Edward Moore, rettore del St. Edmund College di Oxford, in lunghi anni di studio allestiva una edizione di Tutte le Opere di Dante che, pubblicata nel 1894, s’impose súbito come
la nuova edizione di riferimento dell’opera dantesca (nota come Oxford Dante).10
è in questo clima di grande fervore internazionale intorno alla figura e all’opera di Dante, di cui
si sono ricordati appena gli episodi più significativi, che matura la nuova iniziativa delle “Società
dantesche”, mirate da un lato alla ricerca scientifica, dall’altro all’alta divulgazione, con varia prevalenza dell’uno o l’altro aspetto. Una prima associazione di “dantofili” venne costituita a Breslavia
da Karl Witte dopo il suo ritorno dall’Italia, con il nome di Dante-Verein (1825): il sodalizio ebbe
vita breve, ma fu poi rifondato a Dresda nel settembre 1865 come Deutsche Dante-Gesellschaft, con
l’ adesione di illustri studiosi, da A. Mussafia a E. Böhmer, da K. Bartsch a F.X. Wegele, a Th. Paur,
presidente Witte, protettore Giovanni di Sassonia, e con il patrocinio della regina madre Elisabetta
di Prussia, della regina Augusta di Prussia, della granduchessa di Weimar. Di poco posteriore è la
Oxford Dante Society, a carattere inizialmente più elitario della tedesca, costituita per iniziativa
di Edward Moore il 24 novembre 1876 e divenuta rapidamente il centro di raccolta di una nutrita
schiera di dantisti inglesi, da H.F. Tozer a lord George Vernon, a Edm. Gardner, a Paget Toynbee (e tra
gli altri il primo ministro William Ewart Gladstone, grande ammiratore e studioso di Dante).11 Quasi
simultanea, ma indipendente, fu l’iniziativa di promuovere una società dantesca americana, nata
dai semi portati oltreatlantico da Lorenzo Da Ponte e altri esuli italiani, approdata nel dicembre del
1880 alla fondazione, a Cambridge (Mass.), della Dante Society of America: fondatori e animatori ne
furono H.W. Longfellow, già autore della prima traduzione americana della Commedia (1865-1867),
J.S. Lowell, Ch. E. Norton, che ne furono in successione presidenti, e più tardi C.H. Grandgent, E.H.
Wilkins, ecc.12 Del 1888 è la fondazione, a Firenze, della Società Dantesca Italiana, che, con il patronato del re Umberto I, chiamò a raccolta i più bei nomi della cultura letteraria e della dantologia del
tempo (molti non privi di peso politico), tra cui Guido Biagi, Ruggero Bonghi, Cesare Cantù, Giosue
Carducci, Giuseppe Chiarini, Augusto Conti, Alessandro D’Ancona, Angelo De Gubernatis, Isidoro Del
Lungo, Cesare Guasti, Guido Mazzoni, Ernesto Monaci, il promotore Carlo Negroni, Enrico Nencioni,
Pio Rajna, Giuseppe Rigutini, Giovanni Tortoli, Pasquale Villari. Poco dopo, il 26 giugno 1889, per
impulso di Ruggero Bonghi, il nuovo sodalizio metteva a fuoco anche il programma di lavoro della
Società, a partire da una nuova edizione criticamente accertata della Divina Commedia, e s’impegnava in un’attività che nel volgere di pochi anni, con l’ aggregazione di nuove forze intellettuali
– Adolfo Bartoli, Giovanni Busnelli, Antonio Fiammazzo, Francesco Maggini, Salomone Morpurgo,
Francesco Novati, Ernesto Giacomo Parodi, Flaminio Pellegrini, Ermenegildo Pistelli, Enrico Rostagno, Giuseppe Vandelli, cui si aggiunga un giovanissimo, poco più che ventenne, Michele Barbi, che
sarebbe presto diventato l’animatore instancabile e il più attivo operatore del gruppo –, conseguì
risultati importanti.13
10 Per un orientamento essenziale su queste iniziative vd. ancora Malato 20044: 115 sgg. e passim.
11 Su cui vd. Toynbee 1920 e Toynbee 1958. Poco aggiunge Vincent 1973.
12 Notizie storiche più ampie in Gifford 1956. E vd. Pisanti 1970 e la bibl. ivi cit.
13 Sul quadro qui richiamato vd. Malato 20065, da cui sono ripresi qui alcuni passaggi (pp. 7 sgg.).
65
Parte seconda. Enrico Malato
Sono stati anni “eroici” della ricerca dantesca, italiana e straniera, che nell’arco di un secolo e
mezzo o due ha esplorato tutta la documentazione su Dante e l’opera sua reperibile in tutte le biblioteche e gli archivi del mondo: un lavoro sorprendente, di cui una sorprendente testimonianza ha
offerto, a metà dell’Ottocento, la Bibliografia dantesca di Paul Colomb de Batines, che in due tomi di
circa 1200 pagine complessive (Prato, Tip. Aldina, 1845-1846), cui se ne aggiungeranno altre circa
400 di Indici e di Giunte e correzioni (1883, 1888), ha offerto una documentazione puntuale di tutto
quanto era conservato di manoscritto e (a quell’altezza cronologica) era stato prodotto a stampa
sul tema; un censimento tuttora prezioso, imprescindibile per gli studi danteschi.14 Per la prima
volta s’inizia l’esplorazione e si tenta il recupero degli antichi commenti – il cosiddetto “secolare
commento” – alla Commedia; si promuovono nuove edizioni delle opere, sostenute da un delicato e
impegnativo lavoro di restauro testuale, di selezione dell’autentico da quanto è stato abusivamente
attribuito dalla tradizione, di interpretazione dei testi, di elaborazione di strumenti di consultazione
e ricerca. Al tempo stesso si moltiplicano gli studi, di ampia esegesi complessiva o su singoli aspetti
o passi dell’opera dantesca. Un segno della crescente e ampia attenzione popolare all’opera di Dante
è offerto dalla nuova formula di lettura pubblica inaugurata a Firenze il 27 aprile 1899 e rapidamente affermatasi come Lectura Dantis, che sul modello delle antiche pubbliche letture – da Boccaccio
a Benvenuto da Imola – offre una lettura e interpretazione, generalmente di un canto della Commedia, ma non solo (a volte anche gruppi di canti, o, più raramente, segmenti di canti), spesso a un
livello di esegesi che senza escludere il pubblico specialistico, non respinge quello meno qualificato.
Un momento di “svolta” in questa fase storica della dantologia moderna è rappresentato dal Centenario del 1921, sesto della morte di Dante: non soltanto perché – come era già stato in passato,
nel 1865, e sarà poi, nel 1965, per altri Centenari – la ricorrenza è stata occasione di studi, convegni,
mostre, iniziative celebrative e di ricerca, che hanno portato un contributo notevole al progresso
degli studi danteschi, ma perché in coincidenza con quella data è stata pubblicata l’edizione (nota
poi come “Edizione del Centenario”) di tutte Le Opere di Dante, curata da una schiera di eminenti
studiosi coordinati da Michele Barbi, sotto l’egida della Società Dantesca Italiana, che per la prima
volta ha offerto un’edizione “definitiva”, criticamente accertata e affidabile, delle opere dantesche;
con un progresso notevole rispetto al ricordato Oxford Dante di Moore e presto diventata, come per
molta parte resta tuttora, l’edizione di riferimento nella lettura delle opere di Dante. Solo La Divina
Commedia ha avuto una radicale (ma non sconvolgente) revisione a cura di Giorgio Petrocchi nel
1965-1966, e il De vulgari eloquentia è stato ri-edito da Pier Vincenzo Mengaldo nel 1968, con
utilizzo dell’importante codice Berlinese, scoperto e reso fruibile dopo la pubblicazione dell’edizione
del 1921. Altre edizioni recenti di altre opere – dalla Monarchia di Pier Giorgio Ricci del 1965 al
Convivio di Franca Ageno del 1995, dalla Vita nova di Gugliemo Gorni del 1996 alle Rime di De Robertis del 2002 – non hanno ottenuto quei consensi che avrebbero potuto portare a una tranquilla
sostituzione dei nuovi testi a quelli dell’Edizione del Centenario, i quali restano di fatto il più sicuro
punto di riferimento in una lettura scientifica, non avventurosa, delle opere di Dante.15 Tanto meno
ambizioni “sostitutive” possono fondatamente riconoscersi ai testi della Divina Commedia proposti
da Antonio Lanza nel 1995 e da Federico Sanguineti nel 2001, che certamente non sono in grado di
proporsi quale alternativa minimamente credibile al testo Petrocchi.16
Non è questo il luogo per un approfondimento delle ragioni per cui le nuove proposte testuali
relative alle opere di Dante appaiono più o meno inattendibili, almeno nella loro globalità, e al di là
14 Vd. ora Colomb de Batines 2008.
15 Per una ricostruzione analitica e documentata del quadro cui qui si accenna vd. Malato 20044. In partic. sull’edizione delle Rime, oltre quanto detto ivi, pp. 12-40, vd. Malato, 2002, la “scheda” pubblicata in RSD, II: 175-80; e ancora:
Malato 20062, partic. 89-98; Malato 20071.
16 Su tale problema vd. da ultimo Malato 20072.
66
Parte seconda. Leggere Dante nel XXI secolo
di eventuali contributi migliorativi di singoli passi. Premeva qui mettere in evidenza come la filologia
dantesca si sia particolarmente impegnata, negli ultimi due secoli, con risultati per molti versi di
grande portata, sul preliminare e doveroso piano dell’autenticazione e dell’accertamento testuale
delle opere di Dante, mentre parallelamente è stata condotta un’opera di scavo documentario, di
approfondimento esegetico, di recupero del senso profondo del messaggio poetico di Dante, che di
fatto ha aperto orizzonti nuovi alla critica dantesca e indicato direzioni di ricerca che hanno già
prodotto e promettono risultati di eccezionale rilievo. Risultati – va anche questo ricordato – che
la moltiplicazione degli interventi critici ha talvolta compromesso, con proposte che hanno piuttosto complicato che favorito un chiarimento del dettato dantesco (basti ricordare, per fare un solo
esempio, la varietà delle proposte interpretative di un verso famoso, il “forse cui Guido vostro ebbe
a disdegno” di Inf., x 63);17 ma inevitabilmente, come sempre, la verità, più o meno faticosamente, si
fa strada e finisce con l’imporsi sulle indicazioni false o fuorvianti.
Guido Cavalcanti: presente o assente?
Siamo dunque pervenuti – sembra – a un passaggio di “svolta”: di bilanci, come dicevo all’inizio,
del lavoro fatto, di vaglio dei risultati conseguiti, soprattutto sul piano del restauro testuale delle
opere di Dante, di valutazione degli eventuali ulteriori miglioramenti ragionevolmente prevedibili
in base alla documentazione di cui si dispone; e però anche di programmazione della ricerca, la
quale piuttosto che andare, come spesso è stato in passato, in direzione più o meno casuale, vede
schiudersi davanti a sé nuovi ben definiti campi d’indagine, spazi di approfondimento di nuove prospettive critiche, che possono portare all’illuminazione di aspetti non soltanto rimasti in ombra, ma
addirittura insospettati, del messaggio dantesco. Ed è qui, come sopra accennavo, uno degli aspetti
tuttora più affascinanti dello studio di Dante, che riserva ancora, dopo settecento anni di scavi pressoché ininterrotti, di esplorazione in lungo e in largo dell’opera sua, la sorpresa di angolature nuove
di ricerca, di segnali e messaggi più o meno rilevanti sapientemente nascosti nelle pieghe del dettato
poetico, rimasti oscuri o comunque non còlti, o non compiutamente còlti, se non invece insospettati,
nella loro effettiva valenza di “comunicazione” che l’autore intendeva trasmettere ai suoi lettori.
Su questo tema mi è capitato già di fare qualche proposta in un intervento di qualche anno fa,
intitolato appunto: Nuove prospettive degli studi danteschi, pubblicato (nel 2004) come postfazione
alla seconda edizione di un mio studio di alcuni anni prima (1997), dal titolo Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la “Vita nuova” e il “disdegno” di Guido; nel quale, portando avanti uno spunto
di ricerca iniziata tra il 1986 e il 1989, scaturita da una lectura del canto v dell’Inferno, segnalavo
come nella Commedia sia riconoscibile un’ampia presenza – accuratamente, abilmente dissimulata – di un personaggio di primissimo piano nel contesto storico e biografico di Dante, capace, per
quella “presenza”, di modificare in profondità la prospettiva di lettura della Commedia e non soltanto di essa: Guido Cavalcanti.18 Com’è noto, Guido Cavalcanti, tradizionalmente accreditato come
esponente massimo, dopo Dante, del “dolce stil novo”, amico della prima giovinezza e “corrispondente” nelle prove d’esordio in rima volgare del più giovane Alighieri, dedicatario della Vita nuova,
in cui si allude a lui con parole di affettuosa intesa; Guido Cavalcanti, dicevo, amico autorevole e
caro, al quale più tardi, nella Commedia, Dante non esiterà a riconoscere, unico fra i contemporanei,
un’“altezza d’ingegno” pari alla propria (quando Cavalcante, padre di Guido, gli chiederà, nel sesto
cerchio dell’inferno: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? e perché non è teco?”: Inf., x 58-60); Guido, dunque, “presenza” dominante negli anni della giovinezza di
Dante, dedicatario del libello della Vita nuova, risulta poi clamorosamente “assente” dal grande sce17 Su cui vd. Malato 1990.
18 Vd. Malato 20041 e Malato 20042. Vd. inoltre Malato 1986.
67
Parte seconda. Enrico Malato
nario del poema, dove è citato appena un paio di volte, e sempre in modo ostentatamente cursorio,
quasi allusione accidentale in contesti che trattano d’altro: il ricordato “forse cui Guido vostro ebbe
a disdegno”, di Inf., x 63, nel dialogo con Cavalcante, che si apre come intermezzo fortuito all’interno
del più ampio colloquio con Farinata; e nel dialogo con Oderisi da Gubbio, quando il miniatore, che
sta espiando il peccato di superbia nella prima cornice del purgatorio, allude ancora incidentalmente
a lui, in un più articolato discorso sulla “vana gloria de l’umane posse” (Purg., xi 91): “Così ha tolto
l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua” (ivi, 97-98).
Il dato non è sfuggito, com’è naturale, ai commentatori antichi e ai moderni, che vi hanno variamente almanaccato sopra. Alcuni, assumendo come elemento di giudizio anche un famoso sonetto
noto come la “rimenata” o “paternale” di Guido a Dante, I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte (Dante,
Rime, xxix; Guido, Rime, xli), in cui Guido si rivolge all’amico con espressioni apparentemente molto
severe (“tròvote, pensar troppo vilmente”, “la vil tua vita”, “l’anima invilita”: vv. 2, 9, 14), hanno
ipotizzato anche uno screzio o una rottura tra i due, indeterminata nelle ragioni e nei tempi, cui
farebbe tuttavia qualche difficoltà l’allusione a Guido, nei due luoghi ricordati della Commedia, in
termini in apparenza laudativi: nel primo caso con riconoscimento della sua “altezza d’ingegno”, nel
secondo con l’attribuzione a lui della palma della vittoria nella competizione con “l’altro Guido” per
“la gloria de la lingua”. Altri hanno negato una crisi nei loro rapporti, immaginando che fino alla fine
della vita di Guido, “tra lui e Dante il colloquio sia pieno, “corale”” (Marti); ma resta inspiegata la
marginalissima presenza del primo nel poema. Altri ancora hanno invece ritenuto che una frattura
ci sia stata, seguita da una “chiusura” definitiva di Dante verso Guido, perciò emarginato nella Commedia: si è ritenuto che il richiamo a “l’uno” e “l’altro Guido” alluda non a Guinizzelli e Cavalcanti,
bensì a Guittone e Guinizzelli, per cui si produrrebbe “nella memoria e nell’opera dantesca una linea
di sbarramento [all’altezza del canto x dell’Inferno], al di là della quale il nome di Cavalcanti non si
trova più” (G. Di Pino). Proposta in verità tanto più sorprendente, in quanto in evidente contrasto
con tutt’altro quadro che anni prima aveva scorto l’occhio acuto di Gianfranco Contini: il quale,
rilevando come “l’ombra e il pensiero di Cavalcanti lo accompagnano”, Dante, “fino al termine d’una
carriera” poetica che si conclude proprio con la Commedia, osserva che in questa “la presenza di
Cavalcanti aleggia in modo tanto più inquietante quanto più indiretto: inquietante per i posteri, non
per lo scrittore, i cui silenzî, le cui reticenze, le cui oscurità e ambiguità sono ferree quanto tutto il
resto”.19 Ben altro che la pretesa “chiusura” alla prima citazione nel canto x dell’Inferno.
In ogni caso, l’approccio tradizionale lasciava Guido nella sua apparente marginalità nel quadro
generale della Commedia, più o meno circoscritta e più o meno inspiegata, sia che si ipotizzasse la
rottura fra Dante e il “primo amico” della Vita nuova, sia che si immaginasse una inalterata amicizia e un perdurante “corale” colloquio tra i due, fino alla fine della vita. La prospettiva è cambiata
quando, a partire dalla fine degli anni Ottanta, e a conferma della penetrante intuizione di Contini,
si sono trovate cospicue tracce di Guido Cavalcanti in luoghi della Commedia dove non erano mai
state neanche sospettate, e questa scoperta ha lasciato intravedere percorsi di ricerca del tutto
inesplorati. Non è possibile riassumere qui il frutto di oltre vent’anni di studi, che hanno coinvolto
ampi settori della dantologia internazionale e portato alla piena – ancorché non pacifica – acquisizione di dati storici e critici che proiettano una luce nuova sull’opera maggiore di Dante e sulla
figura e la vicenda biografica del suo autore.20 Basti ricordare che la riconosciuta diffusa “presenza”
di Guido Cavalcanti in passaggi che sono snodi cruciali della Commedia, e il fatto stesso che essa
sia caratterizzata dai silenzî, le reticenze, le oscurità e ambiguità denunciati da Contini, aprono una
problematica inedita su tutta la costruzione dantesca, che risulta strettamente collegata al “primo
19 Una ricostruzione di tutto il quadro in Malato 20063. Vd. Contini 1970: 433. Sulla sostituzione del binomio GuittoneGuinizzelli a Guinizzelli-Cavalcanti nel discorso di Bonagiunta, vd. Malato 20064.
20 Una rassegna dei consensi e dissensi a quella proposta, a quella data, in Malato 20042.
68
Parte seconda. Leggere Dante nel XXI secolo
amico” della giovinezza, dedicatario della Vita nuova, e portatrice di un messaggio quanto meno più
denso e pregnante di quello messo a fuoco nei quasi settecento anni di esegesi precedente.
In realtà la ricerca più recente ha evidenziato come il rapporto dialogico fra Dante e Guido non
si esaurisca nello scambio di pochi sonetti attestato dai manoscritti e nella dedica della Vita nuova,
da parte del primo, al più anziano e autorevole amico, che non ha poi dato segno di gradimento. Si
è visto come Donna me prega, per ch’eo voglio dire, la canzone di Guido per cui egli si è guadagnato
nei secoli la fama di grande poeta-filosofo, teorico d’amore, espone una dottrina dell’amore che è
esattamente agli antipodi della linea di pensiero di Dante sottesa alla costruzione della Vita nuova:
laddove per Guido l’amore è passione smodata, incontenibile, travolgente, tanto che “Di sua potenza
segue spesso morte” (v. 35), cioè è causa di morte, morale e intellettuale, per Dante esso è “nobilissima vertù” (V.n., ix 3), forza vitale, beatifica, strumento di edificazione e di elevazione a Dio, dunque
causa di salvezza nella vita eterna. La divergenza è tale, che si è posto il quesito di come Dante abbia
potuto dedicare il suo “libello” a Guido, nei toni “ammiccanti” che caratterizzano quella dedica, se
Guido avesse già manifestato – come tradizionalmente si riteneva – tali suoi convincimenti. Si è
potuto invece stabilire che non solo Donna me prega non era stata ancora scritta all’atto della dedica della Vita nuova – databile, com’è noto, intorno al 1292-’93, al più tardi ’94 –, ma costituisca la
replica di Guido a quella dedica: di netto dissenso, contestazione puntuale delle enunciazioni teoriche fondamentali del “libello”, rifiuto delle posizioni di Dante, mai nominato ma ben riconoscibile
come destinatario di quella contestazione. Altri testi, fra i quali in primo luogo il ricordato sonetto
di Guido I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte, sono coinvolti in questo contrasto, che non conosce
interventi di Dante. Ma non per questo si deve supporre che Dante abbia rinunciato a opporre le sue
ragioni, lasciando a Guido l’ultima parola. Il rapporto si sarà certo incrinato; ma troppo forte era stato l’antico sodalizio, il legame d’amicizia, forse d’affetto, tra i due, perché la divaricazione ideologica
successivamente esplosa in forme laceranti potesse anche portare a una divaricazione intellettuale,
a una definitiva reciproca cancellazione di ciascuno dall’orizzonte dell’altro.
La morte di Cavalcanti, intervenuta nell’agosto del 1300, forse due o tre, al massimo quattro o
cinque anni dopo la composizione di Donna me prega, può aver impedito nuove occasioni di confronto pubblico. Ma non è certo caduto il “debito” di Dante verso Guido, l’impegno suo di dare una
“risposta” alle contestazioni di Guido, di cui il progresso della ricerca ha riconosciuto le tracce in vari
punti del poema, coinvolto dunque a pieno titolo in questa devastante polemica tra i due più “alti ingegni” dell’ambiente intellettuale toscano dell’ultimo Duecento. La polemica, chiaramente collegata
al quadro storico appena accennato, affiora in modo clamoroso in una imponente (ancorché velata)
rappresentazione conflittuale di se stesso e del già “primo amico” nei canti xvi e xviii del Purgatorio,
posti in rilievo in una complessa struttura architettonica – scoperta da Charles Singleton nel 1965
–, per cui i sette canti centrali della seconda cantica, dal xiv al xx, sono congegnati in modo tale da
costituire una sequenza chiastica incardinata sui numeri 3, 7 e 10. Al centro di questa costruzione,
che è anche il centro del poema, nel canto xvii, Dante affronta sul piano teorico il tema dell’amore,
che è il tema cardine della Commedia e quello su cui si è consumata la frattura con Guido. Nei due
canti contigui, xvi e xviii, in posizione speculare, Dante rappresenta sé stesso e Guido in situazione
antagonistica: sé accecato dal fumo nella cornice degli iracondi che si tira fuori dall’impasse e consegue la salvezza affidandosi a Virgilio, cioè alla guida della sua ragione (“Sì come cieco va dietro a
sua guida / per non smarrirsi e per non dar di cozzo [...]”: Purg., xvi 10-11); Guido a sua volta come
cieco, inconsapevole di esserlo, che facendosi guida di altri ciechi – nella elaborazione teorica di
Donna me prega – finisce con loro nella fossa, cioè nel peccato e nella perdizione, secondo il precetto evangelico di Matteo (“fieti manifesto / l’error de’ chiechi che si fanno duci. [...]””: Purg., xviii
17-18). È la “risposta” di Dante alla contestazione di Guido: che non è nominato, in quei passaggi
cruciali della Commedia, come Dante non era stato nominato nella canzone contestativa della Vita
69
Parte seconda. Enrico Malato
nuova, ma non mancano segnali precisi, illuminanti le intenzioni allusive dei due autori. Non è possibile qui entrare nei dettagli. Ma la scoperta di questo serrato e insospettato contraddittorio nelle
pieghe profonde della Commedia apre evidentemente prospettive nuove e intriganti alla esegesi
dell’opera dantesca.21
La lirica amorosa
Su quell’elemento strutturale, collocato certo non a caso con straordinaria evidenza, e tuttavia
perfettamente mimetizzato, esattamente al centro dell’intero edificio della Commedia, poggia tutta
una serie di diramazioni che ampliano e articolano il confronto dialettico tra il poeta che, smarrito
nella selva oscura della irrazionalità, trova la via della salvezza recuperando la voce e la guida della
ragione, e il già “primo amico”, diventato irriducibile contestatore, fermo su una posizione negativa
che non dà speranza all’uomo. Egli è morto da dieci o dodici anni quando Dante scrive quelle pagine, ma resta suo “interlocutore” in un dialogo virtuale ininterrotto: forse, si può anche immaginare,
dall’aldilà, certo nell’attenzione dei lettori, contemporanei e posteri, che sono vivi e hanno letto le
riserve di Guido e possono leggere la replica di Dante: che a quella speranza non rinuncia e vuole
che non vi rinunci l’umanità, di cui egli si erge a simbolo e alla quale narra la sua esperienza salvifica
perché ne sia fatta partecipe.
Alla demolizione dei capisaldi della teorica di Guido, operata da Virgilio nei suoi sermoni dottrinari (Purg., xvii 85-139; xviii 19-39, 49-75), si aggiunge così, estesa a tutto il poema, un’ampia
argomentazione accessoria, più o meno surrettiziamente collegata all’edificio principale: partendo
dall’esibizione della vicenda di Paolo e Francesca, tipico caso esemplare – nel segno dell’exemplum,
tanto caro alla letteratura omiletica medievale – di chi, avendo prestato fede a cattivi maestri,
avendo seguito insegnamenti erronei (nel caso specifico, di Andrea Cappellano, ispiratore di tutta
la letteratura cortese, che i peccatori di Rimini avevano assunto a modello di comportamento), si
ritrova dannato all’inferno; fino alla rappresentazione, a sua volta esemplare, di un amore cristiano,
puramente spirituale, quello fra Stazio e Virgilio: definito come “Amore / acceso di virtù”, nobilitante, edificante, salvifico, che “sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore” (Purg.,
xxii 10-12): capace di suscitare amore, la reciprocità del sentimento amoroso, non per forza propria,
non per impulso passionale, come aveva creduto Francesca (“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
[...]. Amor, ch’a nullo amato amar perdona [...]”: Inf., v 100, 103), ma perché “acceso” di quella “virtù”
che sola può dare valore positivo all’inclinazione amorosa. Esattamente il contrario di quanto era
enunciato in Donna me prega. Il tutto in una costellazione di echi, richiami, riprese dai testi cavalcantiani, in chiara funzione di segnali, per il lettore, sorprendentemente sfuggiti come tali all’esegesi
storica.22
E in questo quadro, in cui è ribadito alla letteratura un ruolo fondamentale di orientamento
dell’uomo nel percorso della vita, non manca un ulteriore probabile intervento di rettifica a carico di
Guido. La cattiva letteratura, quella dei romanzi cortesi, che sulle orme del Cappellano affermavano
la natura passionale, travolgente, irresistibile dell’amore, ciecamente seguita, è stata causa della
rovina di Francesca e Paolo, “i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento” (vv. 38-39); la
buona letteratura, invece, è stata la via della salvezza di Stazio, che addirittura ha potuto riscattare
la sua condizione di pagano attraverso un’avveduta lettura delle opere di Virgilio, al quale dichiara,
incontrandolo (Purg., xxii 64-69):
21 Questo quadro, già ricostruito in Malato 1989, è stato poi ulteriormente definito in Malato 2002. Vd. Singleton 1978.
22 Un’ampia ricognizione di tali “segnali” è nella bibliografia citata: Amor cortese e amor cristiano, Dante e Guido, Nuove
prospettive, Cavalcanti nella ‘Commedia’, ecc.
70
Parte seconda. Leggere Dante nel XXI secolo
[...] Tu prima m’inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte. [...].
Un ruolo di altrettanto rilievo è attribuito da Dante alla nuova letteratura volgare, in particolare
la lirica amorosa che segna la temperie culturale in cui hanno operato da protagonisti egli stesso e
Guido, al punto che ritiene di dover riservare a quella esperienza due passaggi importanti della Commedia, nel colloquio con Bonagiunta Orbicciani (Purg., xxiv) e nell’altro con Guido Guinizzelli (Purg.,
xxvi), designato come l’iniziatore di quello che, con definizione dantesca, appunto, si usa definire il
“dolce stil novo” (Purg., xxiv 57).
Del “nuovo stile” si è ritenuto da sempre esponente massimo, a parte Dante, Guido Cavalcanti: al
quale verrebbe riconosciuto il primato su Guido Guinizzelli, si è già ricordato, nella “gloria de la lingua” – benché superato, “forse”, da altri, magari Dante stesso, venuto dopo di lui –, ma è negato, nel
De vulgari eloquentia, né ce n’è traccia nella Commedia, il riconoscimento di cantor amoris, poeta
d’amore, che è titolo onorifico esclusivo di Cino da Pistoia (D.v.e., ii 2 8).
Una più approfondita esplorazione dei testi, soprattutto di Cino e Guido e Dante, dei quali è possibile cogliere qualche sfumata eco nella Commedia, lascia intravedere un nuovo campo di tensione
fra Dante e il già “primo amico”, con coinvolgimento di Cino, per cui la divaricazione ideologica
sopra ricostruita si estende al piano stilistico nella pratica poetica, per altro non distinta, o almeno
non sganciata dalla prima. A Dante che in Donne ch’avete intelletto d’amore, la canzone “manifesto”
delle “nove rime” (Purg., xxiv 50) nella Vita nuova (V.n., xix 4-14; Rime, xiv), ha esaltato la ‘dolcezza’
del linguaggio d’amore (“Amor sì dolce mi si fa sentire”: v. 6) e affermato la necessità di parlare
di lui in termini piani e ‘leggeri’ (“E io non vo’ parlar sì altamente, [...] / ma [...] / a respetto di lei
[Beatrice] leggeramente”: vv. 9, 11, 12), che è la leujairia dei provenzali, requisito connotativo delle
nuove “rime d’amor [...] dolci e leggiadre” (Purg., xxvi 99); a Dante, dicevo, che marcia decisamente
in una direzione di nobilitazione del sentimento d’amore, viatico di salvezza, e di semplificazione
del linguaggio lirico amoroso, dichiarata e consacrata negli incontri con Bonagiunta e con Guinizzelli, Cavalcante oppone da un lato, si è visto, la definizione ‘feroce’, ‘punitiva’, dell’amore, che “Di
sua potenza segue spesso morte”, dall’altro una complessità formale del discorso amoroso senza
precedenti: che trova in Donna me prega una esasperazione del requisito della sottiglianza, già
contestato a Cavalcanti da Guido Orlandi (nel sonetto Per troppa sottiglianza il fil si rompe: va), tale
da porre quella canzone inesorabilmente fuori dal novero delle “nove rime” di cui si celebrano le lodi
fra la sesta e la settima cornice del purgatorio. E si vede allora come il profilo di Cavalcanti, pur non
nominato, si staglia con forte rilievo negativo nello scenario rappresentato: elogiato poco sopra per
aver superato Guinizzelli “ne la gloria de la lingua”, ridimensionato dall’annuncio che “forse è nato /
chi l’uno e l’altro caccerà del nido” (Purg., xi 98-99), egli ritorna come “presenza”-“assenza” sulla ribalta del “dolce stil novo”, di cui viene definito il profilo in termini che escludono senza possibilità di
dubbio la magna canzone cui è soprattutto legata la sua figura di rimatore (e di teorico) d’amore.23
Una nuova dantologia
Sono soltanto alcuni spunti di uno spazio di ricerca che è ancora da definire ed esplorare in tutta
la sua estensione, e promette di essere produttivo di frutti di straordinario sapore. Il recupero della
23 Vedi ora Malato 20061.
71
Parte seconda. Enrico Malato
figura di Guido Cavalcanti in posizione dominante in snodi cruciali della Commedia, la cura con cui
essa – in attuazione di un disegno chiaramente predefinito – è stata mimetizzata da Dante in ogni
parte, salvo i due luoghi di citazione esplicita, dove ancora sembra volergli dare un rilievo appena
marginale, ed è invece, si è detto, di grande spessore; e ancora la frequenza degli echi, delle riprese,
delle suggestioni, in molti casi certo preterintenzionali, di Cavalcanti nella Commedia, che hanno
indotto Contini ad affermare che “l’elogio in fatto di Dante a Cavalcanti non cessò mai”, e addirittura che “Cavalcanti aveva salato il sangue a Dante” (Contini 1970: 441, 445), sono dati che aprono
prospettive di ricerca nuove e inedite, capaci di modificare in profondità il profilo della Commediatradizionalmente acquisito.
Esaurita la fase “pionieristica” della dantologia moderna, la nuova dantologia, che ha ormai tesaurizzato risultati importanti sul piano dell’indagine testuale e della documentazione storica, dovrà
non solo prendere atto degli orizzonti nuovi che si schiudono alla ricerca, ma dovrà convincersi della
necessità di una correzione di metodo nella conduzione della ricerca stessa. La moltiplicazione degli
studi ha provocato, come si accennava all’inizio, frequenti “ingorghi” nella letteratura critica, causa
non solo di difficoltà nell’aggiornamento scientifico degli studiosi, ma spesso anche di digressioni
fuorvianti. Settori della dantologia chiusi in se stessi e autoreferenziali, attenti alla “novità” clamorosa molto più che all’effettiva conquista della verità, non hanno esitato a formulare proposte talvolta “originali” non meno che prive di fondamento, costruzioni fantasiose, perfino bizzarre, indotte
spesso solo dalla suggestione più o meno estrosa dei proponenti, riprese e rilanciate da altri, con il
risultato di portare, piuttosto che un contributo, difficoltà oggettive al progresso della conoscenza.
Basti ricordare, per fare un solo esempio, la deviazione dai risultati di Contini relativi ai rapporti
fra Cavalcanti e Dante, del 1965, e la riproposta, ancora trent’anni dopo, di ipotesi tanto ingegnose
quanto improbabili (per non dire inverosimili). “Lo studio di Dante – avvertiva Michele Barbi circa tre
quarti di secolo fa – è davvero una cosa seria, che chiede come pochi altri studi vasta preparazione
e lunghe meditazioni” (Barbi 1935: 7). Ciò che palesemente non è da tutti. Salvo, sempre, il diritto
di tutti di esercitarsi in libere letture dei testi danteschi, pur utili alla più ampia frequentazione
dell’opera di Dante, bisognerà che la critica dantesca “seria”, in senso barbiano, si attrezzi con gli
strumenti della filologia, l’unica che possa consentire di estrarre dai testi ciò che Dante ai testi ha
affidato. Previo accertamento – com’è ovvio –, per evitare mistificazioni, di quella che possa ritenersi
la più probabile autentica lezione d’autore. è la sfida che, sulle soglie del XXI secolo, alla vigilia del
settimo Centenario della morte di Dante, la nuova dantologia ha davanti a sé. è certo che – pur
non senza prevedibili ingorghi, contrasti, tentativi di depistaggi – sarà utilmente raccolta, e da essa
trarrà alimento un rinnovato interesse del pubblico, del più vasto pubblico, per la figura e l’opera
del nostro Poeta.
Intanto – per tornare alla domanda di partenza: perché si continua a leggere Dante oggi –, prendiamo atto della perdurante e inalterata fidelitas di questo pubblico al suo Poeta. Che sarà in parte
– forse in parte – alimentata dalla problematica critica cui si è accennato, ma non solo. In verità è
difficile dire cosa alimenti questa fama tenace e catturante, che non conosce cedimenti né confini,
di tempo o di spazio. Certo, un ruolo importante svolge la forma del messaggio poetico dantesco,
quella sua capacità di rappresentare un mondo fantastico e imprevedibile con tratti di estremo
realismo, di descriverlo in quel suo linguaggio asciutto ed essenziale, sentenzioso, memorizzabile,
ripetibile in occasione di altre esperienze della vita di ognuno. Ma fondamento della sua intramontabile attualità è – credo – la sua vocazione a rappresentare la vita e la problematica esistenziale
dell’uomo in un modo assolutamente originale, per cui negli scenari e nei personaggi della Commedia ogni lettore riconosce una proiezione e una figurazione delle sue proprie esperienze, dei suoi
timori, le sue ansie, le sue aspirazioni, che sono i sentimenti propri dell’uomo, di ogni tempo e di
ogni latitudine. Per altro, Dante scrive – si è ricordato – sullo scorcio del Medioevo, ormai in crisi, in
72
Parte seconda. Leggere Dante nel XXI secolo
un momento di passaggio, dall’età antica alla moderna, in cui l’eredità della cultura classica, filtrata
dal cristianesimo, viene assunta a fondamento di una nuova cultura, che sarà quella dell’Umanesimo
prima, poi dell’età che chiamiamo moderna, su cui sarà plasmata la nuova identità dell’Occidente.
Accogliendo nella sua opera, con prodigiosa opera di sintesi, la somma dei fermenti, dei tormenti,
delle angosce che attraversano e sconvolgono quel processo di trasformazione, Dante ha fatto della
Commedia anche un documento straordinario, una testimonianza unica del processo formativo di
quella nuova realtà che è la civiltà moderna. In questo senso, il poema dantesco è – e viene più o
meno inconsciamente sentito – come un punto di riferimento culturale e identitario imprescindibile
non solo dell’Italia, ma dell’intero mondo Occidentale.
Riferimenti bibliografici
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promossa dal Centro Pio Rajna, n. 3: 3 tomi).
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a l’altro Guido / la gloria de la lingua”, in Id., Studi su Dante, cit.: 460-492.
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Parte seconda. Enrico Malato
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Zamboni M., 1901, La critica dantesca a Verona nella seconda metà del secolo XVIII, Lapi, Città di
Castello (“Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari” diretta da G.L. Passerini, vol. LXIII).
74
Parte III
Le quattro discipline
1.Matematica
I contributi dell’area matematica
a cura di R. Del Monte
Le ragioni del fare matematico
Claudio Giorgi
Modelli matematici: accertare le cose nascoste attraverso le cose manifeste
Giovanni Naldi
Algebra: astrarre per comprendere
Raffaella Manara
Dalla geometria analitica all’analisi
Andrea Maggi
Concetti, proposizioni, argomentazioni. Un percorso didattico
non tradizionale per la geometria euclidea
Renato Del Monte
Riferimenti bibliografici
75
I contributi dell’area matematica
a cura di R. Del Monte
Nella sezione che segue sono raccolti contributi proposti con l’intento di declinare l’impostazione generale del lavoro di Accademia su alcune tematiche di particolare interesse generale
e/o didattico in ambito matematico.
Innanzitutto, si vuole riprendere il tema centrale, contenuto della relazione di apertura di C.
Wolfsgruber. Chi insegna deve avere una chiara
consapevolezza dell’impossibilità a comunicare la vivacità umana e l’acutezza del pensiero
matematico senza una continua riscoperta
personale. Visitando l’Università di Bologna,
Giovanni Paolo II disse ai docenti convenuti: “Un
insegnamento senza ricerca è come una palude
dove ogni cosa saputa imputridisce” ovvero,
dove non avviene alcun progresso nella conoscenza e nel compimento di docenti e allievi.
Al fine di delineare le coordinate di un compito
così importante, Claudio Giorgi, docente presso
il Dipartimento di Matematica dell’Università di
Brescia, sottolinea l’importanza della soggettività nell’apprendere e nell’insegnare. Soggettività
che comincia dalla sensibilità a cogliere le domande che la realtà (concreta e astratta) pone,
e prosegue nella dialettica “regole-libertà”, che
ogni attività matematica presenta. Si sofferma
infine sulla dinamica argomentativa della ragione e sulla sua importanza nell’insegnamento e
nell’apprendimento.
Nel suo intervento Giovanni Naldi, docente
presso il Dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Milano, propone i modelli
matematici come modalità di ricerca della
visione delle cose nascoste attraverso le cose
manifeste. Il suo contributo è esemplificativo
di un alto livello di autocoscienza dei ricercatori e nello stesso tempo di conoscenza di certi
ambiti del mondo concreto e della loro implicita struttura, che la matematica sa cogliere e
rappresentare.
Raffaella Manara, docente e autrice di
numerose pubblicazioni, svolge poi alcune
76
riflessioni sulla nascita del pensiero astratto, nel
passaggio dall’aritmetica all’algebra, dal calcolo
numerico a quello letterale, dalle operazioni alle
relazioni. È questo un passaggio estremamente
importante che nella storia ha richiesto secoli di
maturazione, elaborazione e approfondimento
di pensiero e linguaggio e che nella didattica
richiede grande consapevolezza e cura da parte
del docente nel proporre un percorso formativo
di scoperta e autocoscienza.
La puntualizzazione/esemplificazione successiva è affidata ad Andrea Maggi ed è volta a
fissare la stretta connessione del metodo e linguaggio algebrico con il metodo e il linguaggio
geometrico, nella geometria analitica. Si tratta
di un punto di sintesi tra due mondi concettuali,
quello algebrico e quello geometrico, cresciuti
per molti secoli separatamente, che anche gli
studenti apprendono separatamente nei diversi
anni. Si indaga un passo decisivo nella storia e
nella didattica: luogo di connessione di significati e di reciproche interpretazioni, che spinge
l’indagine e la riflessione fino a esplorare gli
infinitesimi e gli infiniti, là dove l’immaginazione
non arriva se non adeguatamente guidata. Nuovo traguardo di autocoscienza e di conoscenza
della ragione.
Infine il sottoscritto propone un itinerario non
tradizionale di presentazione della geometria
euclidea. Esso riprende le tre dimensioni della
logica nella filosofia medioevale: il concetto, l’enunciato e l’argomentazione, come Sofia Vanni
Rovighi le ha riproposte. In questo contesto, esse
sono riprese in collegamento con le tre attività o
momenti della conoscenza intellettuale: definire,
enunciare e dimostrare. La struttura logica ed
espositiva degli elementi di Euclide è così ripercorsa con l’intento di accompagnare gli studenti
nell’itinerario conoscitivo, fino a far maturare
quella consapevolezza che nella relazione di
apertura è stata descritta con la suggestiva
espressione “La matematica sono io”.
Le ragioni del fare matematico
Claudio Giorgi
Premessa
Voglio condividere con voi una riflessione sulla mia esperienza di apprendimento e di insegnamento della matematica: non un resoconto di fatti accaduti o di impressioni, quindi, ma un giudizio
che possa mettere a fuoco le ragioni del mio “fare matematico”.
Quella che ascolterete non si può neppure definire una conferenza, cioè una esposizione di idee
razionalmente concatenate in modo da apparire il più possibile “oggettive”. Al contrario, cercherò
di documentare come la “soggettività”, nell’apprendere e nell’insegnare, costituisca un elemento
indispensabile alla comunicazione e alla comprensione delle scienze esatte, non un limite.
Spero che questo approccio sia adeguato al tema che mi è stato assegnato “Le ragioni del fare
matematico” (o del “fare matematica”, per l’identità tra metodo ed oggetto): peraltro, se anche non
lo fosse, non sarei in grado di parlarvene che in questo modo, in un modo, cioè, profondamente
soggettivo, basato sulla mia esperienza diretta, a partire dal mio “io”. Non posso parlare altro che
delle “mie” ragioni del fare, maturate all’interno dalla “mia” esperienza dell’apprendere e dell’insegnare la “mia” matematica. Come uno che, cercando di sorprendersi “in azione”, ha maturato con
sorpresa, ma molto lentamente e molto faticosamente, una coscienza organica del proprio lavoro
di matematico.
Questa non è semplicemente la premessa formale di un discorso, ma è il metodo con cui ho cercato di affrontare tutta la mia vita. Non dico che sia l’unico modo per farlo, ma è l’unico modo con
cui io sono stato in grado di farlo.
Per comprendere meglio come si sia sviluppata questa coscienza, devo raccontare due episodi,
che corrispondono a due tappe della mia vita.
Quando facevo la terza Liceo Scientifico, è cambiato l’insegnante di matematica ed è arrivato un
anziano laureato in Farmacia. Poco sa e nulla sa spiegare; così i compagni chiedono a me: vai tu
alla lavagna ed aiutaci. Ma per spiegare bene occorre prima capire bene: a questo punto, mi sono
messo a studiare da solo il libro di Matematica. Quel momento ha deciso la mia vita: sono diventato protagonista del processo di acquisizione della conoscenza, per la prima volta “studioso” di
Matematica. Fino ad allora i libri della materia erano serviti solo per fare gli esercizi: il professore
spiegava in classe, e per verificare se avevi capito, non faceva certo spiegare a te l’argomento… no,
ti faceva fare gli esercizi. Ma così non si possono imparare i concetti ed il metodo: si diventa solo
esecutori di protocolli.
Per questa circostanza, in terza liceo ho scoperto che mi piaceva studiare ed insegnare la matematica: all’Università quindi mi sono iscritto a Matematica. La mia iniziale intuizione è maturata:
negli anni universitari, lo studio andava di pari passo con la “spiegazione” ai compagni con cui
studiavo, ero certo di aver capito solo se ero in grado di spiegare ad altri. “Spiegare” non è solo dire
come si sono capiti gli argomenti, ma anche avvicinare ciò che sai si sa a chi ti ascolta. Il che implica
anche capire gli altri, in particolare il loro modo di ragionare.
All’Università non mi bastava il fatto che mi piacesse studiare e spiegare la matematica. Mi domandavo “perché mi piace la matematica? Perché altri la odiano? Serve a qualcosa nella vita?”; mi
77
Parte terza. Claudio Giorgi
domandavo quali fossero le ragioni della mia passione e quale legame avesse, con il resto della mia
vita, cosa rappresentasse rispetto al mio destino. Cercavo anche di dare un giudizio sul sapere matematico, sul ruolo di questo tipo di conoscenza in relazione con altre forme di razionalità e con la
fede stessa. All’epoca, però, riducevo questa domanda all’ambito filosofico-razionalistico e cercavo
una risposta nell’assunzione di categorie intellettuali.
Ricordo bene in quegli anni gli incontri organizzati da “Scienza e fede” o i seminari a Bologna con
Alberto Strumia, dove si invitavano amici come don Francesco Ventorino o Egisto Mercati, incontri
vissuti col desiderio di imparare le categorie adeguate - epistemologiche e metafisiche - per l’affronto delle nostre discipline, la matematica e la fisica.
In questo sforzo, però, non mi sentivo a mio agio: non mi ritenevo adeguato e non riuscivo a fare
mie quelle categorie, come chi entra in un negozio e si prova tanti abiti senza sentirne nessuno
come suo. Ricordo che ero preoccupato della mia incapacità, e mi domandavo: “Come farò - in modo
corretto, etico, cristiano - a fare un lavoro come questo, alle prese con contenuti e metodi tanto
astratti ed astrusi, lontani mille miglia dalla quotidianità? Cosa me li renderà meno estranei?”.
Direi che da allora non ho fatto nulla di speciale: semplicemente, non mi sono scoraggiato. Ho
continuato a fare matematica e a prendere sul serio quelle domande, senza scoraggiarmi se le
risposte non arrivavano subito, fiducioso che quelle risposte esistessero, ed io prima o poi le avrei
incontrate.
La coscienza critica nasce da una domanda. Io mi sono domandato, mi domando da quarant’anni,
ormai, con caparbietà e tenacia, e oggi domando anche a voi: “Cosa c’entra la matematica con le
stelle?”, cioè con me, con te e col destino di ciascuno? Non è facile prendere sul serio una domanda
così radicale, soprattutto è difficile mantenerla viva nel tempo, senza avvilirsi, perché non si trova
in poco tempo una risposta convincente.
Se oggi mi volto indietro, mi rendo conto che scoprire le ragioni del “fare matematica”, i suoi nessi
con il mio destino e con il resto della realtà, è stato ed è il compito di tutta la mia vita professionale,
è’ scoprire la mia vocazione, ciò per cui Dio mi ha fatto nascere così come sono. Infatti, le ragioni
profonde della mia passione per una materia così apparentemente arida hanno reso ragionevoli
anche tutti i limiti umani che a questa passione si accompagnano, almeno nel mio caso: una certa
dose di autismo ed ipersensibilità emotiva, una elevata timidezza con conseguente solitudine.
La sola soluzione che sono riuscito a trovare è quella di “fare” la matematica meglio che potevo,
e di farla come uomo intero, cosciente di sé, paragonando tale azione con tutto, ma proprio tutto,
il resto. Perché si può “fare” qualcosa dimenticandosi completamente di tutti i fattori che ci costituiscono, senza averli lì presenti mentre agiamo. In tal caso il fare non produce alcuna coscienza:
pensate a quante azioni compiamo senza che ce ne resti alcuna memoria (non è così che mettiamo
le chiavi dell’auto in freezer e poi non le troviamo più?).
Credo che questo atteggiamento, sebbene molto ma molto faticosamente, abbia dato i suoi frutti:
mi ha dato la possibilità di non essere inghiottito dall’aridità della matematica e dai luoghi comuni
su di essa, mi ha permesso di trovare pian piano una mia visione di essa. Le ragioni dell’agire sono
emerse a poco a poco, queste hanno prodotto convinzioni ben radicate e con esse si sono delineati
gli argomenti per comunicare dialetticamente tali convinzioni agli altri.
Come dice Florenskij, la misteriosa bellezza della matematica non si svela subito, ma solo “dopo
esserci rimasti accanto per un po’...”
La matematica: ricerca di verità
L’uomo è consapevole di ciò che è e di quel che gli sta intorno, si pone quindi domande sul senso
della realtà e sui nessi che legano aspetti differenti di essa, cerca di farsi una ragione del mondo che
78
Parte terza. Matematica
lo circonda. Cioè, cerca di farsene una rappresentazione che sia ultimamente capace di cogliere i nessi tra tutti i fattori in gioco. L’uomo ha sete di conoscenza; come dice L. Negri, “è proprio nell’impostazione della vita come ricerca del senso ultimo di essa che l’uomo si scopre persona” (Negri 2007).
La matematica fa parte del modo con cui l’uomo ha coscienza di ciò che lo circonda: essa costituisce un aspetto della sua intelligenza, della sua capacità di leggere la realtà.
Ci possiamo, infatti, domandare: la matematica fornisce all’uomo una reale conoscenza?
Il numero 1033 è un numero primo, sarà sempre primo, e lo è anche per gli extraterrestri: questa
è una verità indipendente dall’uomo. Analogamente, un qualunque poligono regolare ha proprietà
“oggettive”, indipendenti dalla intelligenza che lo esamina. Ma nello stesso tempo sia il numero, sia
il poligono regolare non esistono in natura, sono il frutto di una astrazione.
La matematica è una produzione totalmente umana, strumento dell’uomo nel suo rendersi consapevole della natura, ma nello stesso tempo è assolutamente oggettiva: i suoi teoremi sono verità
incontrovertibili ed i suoi metodi razionali sono rigorosi, non modificabili dal soggetto che li usa.
La relazione di Marco Bramanti ha ampiamente sviluppato questo punto. Vorrei solo aggiungere
che la matematica, più di ogni altra scienza, si occupa della verità. Infatti, diversamente dalle altre
scienze, continua a essere costruita sulle stesse fondamenta gettate dai Greci e dagli Arabi: nulla è
mai stato buttato via.
Il “fare matematico” si fonda dunque su due certezze:
che la verità esiste, indipendentemente da chi la cerca;
che la verità è attingibile, cioè può essere svelata all’intelligenza umana ed essere compresa.
È sorprendente che una pura creazione della mente umana possa svelare i segreti della natura:
era anche lo stupore che manifestava Einstein quando scriveva a Solovine:
“Non ho mai trovato un’espressione migliore di ‘religioso’ per questa fiducia nella natura razionale della realtà e della sua particolare accessibilità alla mente umana. Dove manca tale fiducia la
scienza degenera in un processo senza ispirazione. Non importa se i preti ne traggono vantaggio,
non esiste rimedio a ciò”.O ancora quando afferma: “Anche se gli assiomi della teoria sono imposti
dall’uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado di ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che a priori non si è per nulla autorizzati ad attendersi. È questo il miracolo
che vieppiù si rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze” (Einstein 1956)
Per la mirabile corrispondenza tra le sue strutture, creazioni dell’intelligenza, e le strutture della
realtà, possiamo dire con Galileo che “il libro della natura è scritto con caratteri matematici”. Questa
fiducia nella capacità di leggere la realtà è stata ribadita recentemente anche da Benedetto XVI :
“La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue
strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici
e tecnologici ...– suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile
chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e
dell’altra” (Benedetto XVI 2006).
Tutta la scienza, non solo la matematica, è essenzialmente basata su questo: se non ci fosse fiducia nell’esistenza della verità, che dà un senso della realtà, e nella capacità umana di comprendere
tale senso, se non esistesse una facoltà umana di costruire strutture (i modelli matematici) capaci
di rappresentare il reale in modo efficace (cioè una rappresentazione che sia ultimamente capace di
cogliere i nessi tra tutti i fattori in gioco), allora non esisterebbe la ricerca scientifica: tutto sarebbe
dominato dalla pura casualità e/o dal puro utilitarismo.
79
Parte terza. Claudio Giorgi
Regole e libertà: l’esperienza della matematica
Troppo spesso, anche per come viene insegnata, la matematica è identificata con un insieme di
regole costringenti, applicate senza fantasia, attraverso aridi calcoli numerici, operazioni obbligate,
sillogismi cavillosi e passaggi da mandare a memoria.
In altre parole, viene pensata come un ambito in cui la libertà personale non ha cittadinanza, anzi
deve auto-sospendersi per non alterare l’oggettività della formula.
Se così fosse veramente, non ci potrebbe essere che un modo meccanico di impararla ed ogni
coscienza critica sarebbe impossibile. Né sarebbe possibile fare alcuna “esperienza” della matematica, perché sarebbe impossibile esprimere un giudizio sul “fare” matematico. La conoscenza critica
richiede l’esercizio della libertà, e la libertà può essere esercitata solo da un soggetto.
Per meglio affrontare la dialettica “regole-libertà”, vorrei documentare che è possibile fare esperienza della matematica e sgombrare il campo dalle obiezioni del tipo “Sarebbe bello, ma...”
Esempio 1.
La mostra “Da Uno a infinito” ha voluto documentare il titolo del Meeting 2010 con l’esperienza
del fare matematica. Credo che l’obiettivo sia stato raggiunto ed ora la mostra è disponibile per essere proposta nelle scuole e nelle università, affinché tale esperienza si rinnovi. Senza nulla togliere
a Raffaella Manara ed a Marco Bramanti, che sono state le colonne portanti di quell’impresa, vorrei
ricordare il profetico suggerimento di alcuni studenti universitari che così ci avevano scritto nella
fase iniziale:
“Quello che ci sembra essenziale è l’immedesimazione del visitatore con il matematico: solo
così uno può uscire dalla mostra dicendo ‘Io ho scoperto qualcosa’ e avendo capito di più la propria
natura di uomo, qual è il motore che è in tutti gli uomini e senza il quale non si sarebbe potuta
sviluppare la matematica e ogni altra forma di conoscenza (ndr. fare esperienza di qualcosa vuol
dire comprenderne le ragioni!). In sintesi, pensiamo che trattare della matematica possa dare un
contributo utile rispetto alla dinamica della conoscenza, che è totalmente umana ed è un tratto
distintivo dell’uomo: una fenomenologia fa nascere delle domande, seguendo una strada si arriva
a vedere qualcosa che prima non si vedeva, e il nuovo passo inevitabilmente apre altre domande.
In matematica si vede bene l’esigenza umana di una comprensione che va oltre la risoluzione del
problema, mirata a rendere più familiare possibile l’oggetto. Nel nostro studio spesso ci stupisce la
sproporzione fra la limitatezza delle condizioni umane e la profondità di conoscenza scientifica che
siamo in grado di raggiungere. Questo emerge sia quando il linguaggio matematico viene usato in
ambito scientifico e tecnologico, sia nella ricerca matematica stessa.”
(Nicola Abatangelo, Martino Borello, Brunella Spinelli, Giacomo Zanella, 2010)
Ebbene, la Matematica evidenzia in modo paradigmatico come la ragione umana stia di fronte
alla realtà in una perenne sfida tra “regola” e “libertà”. In particolare, laddove emerge la sua dimensione non intuitiva (come nei problemi sugli insiemi infinti), essa è per molti aspetti una scienza
paradossale (nel senso letterale del termine, dal greco parà-doxon). Attenzione: paradossale non significa assurdo, irragionevole, ma indica qualcosa di ragionevole che però si colloca oltre l’orizzonte
del senso comune. Qualcosa, insomma, che stimola la libertà della ragione ad andare oltre la regola.
Esempio 2.
Talora i matematici sono in grado di intuire la verità di una proposizione senza essere in grado
di dimostrarla: in tal caso tale proposizione non è considerata un “teorema”, ma è semplicemente
una “congettura”, come la famosa congettura di Goldbach, che dice, nella sua forma forte, dovuta a
Eulero: “Ogni numero pari maggiore di 2 può essere scritto come somma di due numeri primi diversi”.
80
Parte terza. Matematica
A sostegno di una congettura possono esserci argomenti o indizi tali, da indurre molti matematici a ritenerla con ogni probabilità vera. Tali argomenti, tuttavia, sono basati in genere su tecniche
diverse dal sillogismo deduttivo: per esempio, la maggior parte dei matematici ritiene vera la congettura di Goldbach basandosi principalmente su considerazioni statistiche e probabilistiche. Essa
è molto probabilmente vera: infatti, è stato dimostrato (quindi è certamente vero!) il seguente teorema dei numeri primi: “Più grande è il numero pari, più diventa probabile che possa essere scritto
come somma di due numeri primi.”
In matematica il genio è colui che prima intuisce la verità di un certo enunciato e poi ne inventa
la dimostrazione: magari in un primo momento la dimostrazione funziona solo in un caso particolare, poi viene estesa al caso più generale, pare che Pitagora sia pervenuto così al teorema che porta
il suo nome. Il genio matematico “vede” la verità e la sua dimostrazione laddove altri non vedono
proprio nulla.
E questo è un buon modo di fare anche dal punto di vista didattico: come in un cammino, si deve
“vedere” la meta per orientare i propri passi. E si deve anche desiderare di giungere alla meta, come
in una escursione in montagna. Ne segue che il desiderio, l’intuizione, l’allenamento dell’occhio,
della ragione a vedere le cose è tanto importante quanto la conoscenza delle regole.
“D’altra parte, il modo con cui la matematica viene proposta nelle scuole, come disciplina puramente logico-deduttiva, spesso ridotta a un ammasso informe di tecniche di calcolo senza alcun
riferimento storico-culturale, non è certo invitante per la maggior parte gli studenti. L’idea storicamente radicata che la matematica non sia niente altro che la massima espressione del pensiero
razionale risulta quanto mai deleteria, oltre che discutibile (per dirla con Poincaré, “è attraverso la
logica che noi dimostriamo, ma è attraverso l’intuizione che inventiamo”). Per fortuna il sogno di
Hilbert di meccanizzare la matematica si è rivelato un’illusione, altrimenti oggi si occuperebbero
di matematica solo i computer. Un risultato matematico è molto di più che non la semplice conseguenza di una catena di deduzioni logiche, per quanto mirabile possa essere. Il percorso che porta
al suo conseguimento non è mai lineare: ci sono intuizioni, errori, aggiustamenti, risultati intermedi.
La vicenda della congettura di Poincaré, a partire dagli stessi lavori iniziali di Poincaré, é significativa
da questo punto di vista” (Piergallini R., Da Poincaré a Perelman: un secolo di ordinaria matematica).
“La matematica si scopre o si inventa?” chiesero un giorno a Ennio De Giorgi. Egli rispose in questi
termini:
- le affermazioni della matematica,Teoremi, Lemmi, Corollari, si possono solamente scoprire, in
quanto sono verità immutabili (le “regole”).
- le dimostrazioni di tali affermazioni, invece, sono un’invenzione della libertà umana: è la “libera
scelta” del cammino. Pensate che solo per il teorema di Pitagora esistono moltissime dimostrazioni,
tutte diverse tra loro: il sito http:/www.cut-the-knot.org/pythagoras/index.shtml ne riporta ben 69!
Alcune dimostrazioni possono essere esposte addirittura utilizzando i colori al posto delle lettere .
(O. Byrne, The element of Euclid in which coloured diagrams and symbols are used instead of letters).
Potremmo dire che la verità matematica “esiste ed è unica”, ma non esiste un unico sentiero per
giungere a essa. Esistono percorsi personali, che da un lato sono “oggettivi” (perché costruiti con
regole rigorose) e dall’altro sono “soggettivi”, cioè da inventare.
L’esperienza della dimostrazione in matematica è un cammino al vero, che si produce nella costante dialettica tra regole del gioco e libertà personale. Forzando un po’ lo spirito con cui è stata
pronunciata da Krishnamurti, potremmo anche usare la seguente formula: “La verità (matematica) è
una terra senza sentieri”, ognuno può trovare il suo cammino per giungere alla tesi, pur nel rispetto
delle regole. E potrebbe essere un cammino “nuovo”, mai percorso da altri. Percorrere un sentiero
già tracciato seguendo una guida, può essere utile nell’apprendimento del metodo, ma non è “fare
esperienza” della matematica. Per fare esperienza occorre mettere in gioco la propria libertà assu81
Parte terza. Claudio Giorgi
mendo il ruolo del protagonista, cioè “immedesimandosi con il matematico”.
Come è stato detto, la libertà è sempre in gioco nella conoscenza. L’atteggiamento morale dello
scienziato è amare la verità dell’oggetto più ancora che le proprie opinioni.
Non si fa esperienza senza porre domande
La conoscenza critica si sviluppa come coscienza consapevole dell’esperienza del reale, di ogni
aspetto del reale. Ma, come dice Gadamer: “non si fa esperienza senza porre domande” (Gadamer
1983).
Ma quali domande? E per ottenere che cosa? Come dice F. Botturi: “Il domandare è il motore
dell’intelligenza, è l’inevitabile portatore della questione della verità... Il fatto stesso di domandare
implica che, di principio, una qualche risposta sia possibile, altrimenti il domandare sarebbe un atto
intrinsecamente insensato; ed essendo il domandare principio del sapere, conseguirebbe che tutto
il sapere sarebbe un’impresa insensata. Il domandare umano implica una previa e costitutiva fiducia
della ragione nell’intelligibilità della realtà... L’università – l’uso dell’intelligenza in qualche modo –
nasce dalla fiducia nella capacità dell’uomo di leggere la realtà” (Botturi 2008).
Obiettivo di ogni domanda è ottenere una risposta, e ogni risposta è un pezzetto di verità. Ogni
domanda, quindi, è inevitabilmente una domanda di verità.
Possiamo porre ora la questione: da dove nascono le domande sulla matematica?
Esattamente da dove nascono le domande sulla fisica, sulla storia, su tutto ciò che circonda
l’uomo e che chiamiamo “realtà”, ed è anche lo stesso luogo da cui nascono le domande ultime
sull’esistenza dell’uomo: nascono dal desiderio di conoscere la verità. La ricerca della verità in matematica ha la stessa “molla” della ricerca della verità di sé, della verità di tutto: cambia il metodo,
non lo strumento, che è la ragione: “La ragione è la stessa; con tanti metodi per tanti oggetti, ma
la stessa” (Rigotti 2009).
La coscienza che ho oggi della mia esperienza di ricercatore è che questa non si limita alla cosiddetta “ricerca scientifica”, ma coinvolge la ricerca del senso di tutte le cose, la ricerca delle risposte
alle domande che ogni uomo si fa, fin da bambino.
Perciò essere ricercatore costituisce oggi la mia vocazione, la mia coscienza di essere persona.
Ragionare significa cercare risposte (vere) alle domande
L’uomo possiede un grande strumento per cercare la verità, cioè per conoscere le risposte alle
domande che si pone: la sua intelligenza. Dice Giovanni Paolo II: “L’uomo è grande per la sua intelligenza, mediante la quale conosce se stesso, gli altri, il mondo e Dio” (Giovanni Paolo II 1982).
Ciò che oggi manca all’uomo non è lo strumento per ragionare, oggi gli studenti dotati di buona
intelligenza non sono meno di quelli di un tempo: manca piuttosto la fiducia che tale strumento sia
adeguato a indagare la realtà. Si dubita, cioè, che valga la pena di farsi delle domande, o perché si
dubita che le risposte a tali domande esistano, o perché si dubita che siano accessibili alla conoscenza razionale.
Invece, la fiducia che la ragione umana sia strumento adeguato a indagare la realtà sussiste
pur nella consapevolezza che esso non è esaustivo, cioè non potrà mai conseguire una conoscenza
completa ed esauriente dell’oggetto. È come uno speleologo che sa di essersi equipaggiato in modo
adeguato a esplorare le caverne di un sito carsico, ha con sé tutto quel che gli può servire, ma è
anche consapevole di non essere in grado di esplorarle tutte, in ogni spedizione ne scopre una nuova.
82
Parte terza. Matematica
Mi domando spesso per quali ragioni si stia spegnendo il desiderio di domandare.
Da un lato i mezzi di comunicazione di massa forniscono oggi risposte pre-confezionate su tutto,
ed i più si accontentano: in tal modo è venuto meno lo stupore per il “dato” della realtà. In fondo,
ogni studente si rapporta alle conoscenze che cercate di trasmettergli in due modi: o crede di saperle già, perché ne è stato informato (dalla TV, da internet), oppure, se non le conosce, ritiene che
non siano importanti (se no i mezzi di comunicazione ne avrebbero parlato) e quindi che siano inutili.
Tale mancanza di desiderio di conoscenza si accompagna spesso a un’esasperazione dell’utilitarismo e del tecnicismo. Se chiedo ai miei studenti di ingegneria “Perché volete fare gli ingegneri?”, le
risposte sono: “Perché si fanno i soldi, perché si può esercitare un ruolo di comando sugli altri, per
il prestigio” Oppure sono loro a domandarmi “Ma questo a cosa serve?”, riferendosi alla loro futura
pratica professionale. La mia risposta è sempre una sola: “È utile proprio perché non serve immediatamente, perché è formativo”. Io insegno agli ingegneri una materia di base, non professionalizzante,
quindi mi paragono a un preparatore atletico: “Altri insegnano a dribblare e tirare i rigori: io insegno
ad avere il necessario controllo sui muscoli per far fare loro quello che il cervello comanda. E questo
serve, eccome!”. Faccio mie le parole di R. Brague: “Il programma di una scuola impossibile ... In essa
io ristabilirei lo studio delle lingue classiche. E innanzi tutto per la ragione stessa per la quale sono
trascurate oggi: esse sono totalmente inutili e ci danno quindi l’idea del valore di ciò che è inutile ...
Si dice: ‘non servono a nulla’. Che magnifico elogio! Ciò che ‘serve’, per definizione, è servile” (Brague
2010).
D’altra parte, esiste anche un altro aspetto di questo fenomeno. Quando nel 1982 facevo esercitazioni di meccanica razionale per 300 allievi ingegneri dell’università di Bologna, ero sommerso
dalle loro domande: nascevano dalla loro esperienza quotidiana, dal comportamento dinamico della
moto in curva al funzionamento del differenziale di un’auto, dalla traiettoria delle gocce di pioggia
al moto dei pianeti. Oggi è sempre più difficile rimandare in questo modo all’esperienza concreta.
Perché questa difficoltà degli studenti a fare domande al docente? Sono forse totalmente privi
del desiderio di conoscere? Non credo. Piuttosto, dubitano che valga la pena di fare domande al docente! Molto spesso siamo proprio noi insegnanti a spegnere quel desiderio di conoscenza, a rendere
impossibile la domanda da parte dello studente, perché o non abbiamo certezze o se le abbiamo non
sappiamo darne ragione. Lo segnala bene Starnone: “Sono affezionato all’ipotesi di una scuola tutta
domande.... Da ragazzo non mi azzardavo nemmeno a dire “Posso fare una domanda?” ...Si parlava
solo se interrogati, e l’interrogato eri sempre tu. ....È passato del tempo da allora, ma la scuola seguita a interrogare senza farsi interrogare.... Siamo addestrati ed addestriamo a perdere la capacità
di porre “perché”, come se farlo fosse un insulto all’autorità dell’interlocutore” (Starnone 1998).
La certezza, in matematica, si basa sul metodo di indagine e di ragionamento: appropriarsi di esso
consente allo studente, se sollecitato in tal senso, di sviluppare propri ragionamenti e non ripetere
ragionamenti di altri. Cioè, consente di fare esperienza del “fare matematico”.
Fare, anche solo una volta, questa esperienza rende lo studente fiducioso nelle proprie capacità di
apprendere la matematica. Chi dice “tanto io di matematica non capisco niente”, lo dice spesso perché non ha provato a fare questa esperienza, perché ha paura di non riuscire. Il compito del docente
oggi è quello di far rinascere la “curiositas” (desiderio di conoscenza) negli studenti, comunicando
loro la propria fiducia nello strumento e nel metodo di indagine.
Dunque “non basta che io (insegnante) ragioni bene”, come è stato detto nella relazione di Bramanti: insegnare non è appena una questione di competenza.
Ma allora, come si deve fare?
83
Parte terza. Claudio Giorgi
Insegnare la matematica: una passione conoscitiva e
comunicativa
Dalla mia trentennale esperienza di insegnamento universitario mi sono fatto un’idea precisa,
ma forse poco ortodossa, del mio mestiere: insegnare una disciplina matematica è in fondo come
insegnare a vivere. Quando vado in aula, una specie di fossa dei leoni con 250 studenti “ruggenti”,
non vado a proporre un’idea, magari attraente, della mia disciplina, non cerco di affabulare la folla
con giochi di prestigio. Vado a proporre il mio modo di vivere la disciplina, con tutto il rigore, le certezze ed i limiti, la passione e l’entusiasmo di cui sono capace. Quindi propongo me stesso, perché io
sono in quel momento la circostanza attraverso cui ognuno dei 250 studenti può incontrare la mia
disciplina: bravo o somaro che io sia, eloquente o balbuziente, io rappresento la porta attraverso cui
ciascuno di loro può entrare in relazione con quel pezzo di realtà che è la mia disciplina.
E introdurre alla realtà non è altro che insegnare a vivere: ringrazio di cuore l’amico Giancarlo
Cesana per avermi aiutato a comprendere questo.
La soggettività nell’insegnare, quindi, non è un limite, anzi è un elemento indispensabile per poter
comunicare la conoscenza.
Parafrasando la celebre frase di sant’Agostino “Non si conosce veramente se non ciò che si ama“,
direi che non si può nemmeno insegnare veramente se non ciò che si ama.
Io amo la matematica, e non per modo di dire, tanto che mia moglie, che pure amo più della
Matematica, ne è gelosissima. Io amo la matematica perché è al contempo scoperta ed invenzione.
All’inizio della mia carriera mi vergognavo di ammetterlo, come se tale approccio soggettivo alla
disciplina ne contaminasse le radici oggettive: col tempo ho imparato non solo che non c’è nulla di
cui vergognarsi, ma che al contrario è solo amando la verità dell’oggetto che si garantisce l’oggettività dei risultati della propria ricerca.
Nell’esercizio della propria professione, il rischio degli insegnanti di matematica è l’abitudine. “Ab
assuetis non fit passio” è una locuzione latina che letteralmente significa: “Dalle cose abituali (alle
quali siamo assuefatti) non nasce la passione”.
La passione nasce dal non essere assuefatti alla realtà, cioè a “se stessi, gli altri, il mondo e Dio”.
Riprendo qui Bramanti: “Insegnare a ragionare, insegnare il metodo di una certa disciplina, richiede nell’insegnante anzitutto una consapevolezza del metodo stesso, che è qualcosa di più della
padronanza del metodo. Non basta che io ragioni bene, occorre che sia diventato consapevole dei
modi, delle forme del mio ragionare”.
Ed io aggiungerei: occorre consapevolezza dei modi e dei fini. Quante volte l’insegnante di matematica si sente domandare “perché dobbiamo studiare questo argomento?”, che significa: “a che
scopo si deve fare questo?”.
La domanda sui fini è ineludibile: non si può rispondere “perché è così, e basta”. Talora la domanda
viene piegata sul versante utilitaristico: “a che cosa serve?”, ma molto più spesso la formulazione
degli studenti ha una portata più vasta. È una domanda importante, che provoca l’insegnante a
comunicare la coscienza che ha della propria vocazione. Perché di questo si tratta: dare le ragioni
del perché l’insegnante è lì con loro a spiegare matematica. Se la matematica non fosse un fattore
importante della vita di ogni uomo, stare in classe a studiarla sarebbe una inutile perdita di tempo,
mentre la vita pulsa altrove.
84
Modelli matematici: accertare le cose
nascoste attraverso le cose manifeste
Giovanni Naldi
“I primi e più antichi problemi di ogni branca della matematica, traggono certamente la loro
origine dall’esperienza e sono ispirati dal mondo dei fenomeni esterni […] Ma nel progressivo
sviluppo di una disciplina matematica lo spirito umano, incoraggiato dalla scoperta di soluzioni,
prende coscienza della sua autonomia e crea lui stesso nuovi e fecondi problemi, nella maniera più
libera, senza apparenti stimoli esterni e unicamente per combinazione logica, per generalizzazione
e particolarizzazione, per separazione e riunione di idee... D’altra parte, sul potere creativo della
pura ragione il mondo esterno esercita di nuovo la sua influenza e ci conduce attraverso fatti reali
a nuove domande, ci apre nuove regioni della matematica... È su questi reiterati scambi tra ragione
ed esperienza che riposano tante analogie sorprendenti, come quell’armonia apparentemente
prestabilita, tante volte notata dai matematici, tra le questioni, i metodi e le concezioni dei diversi
domini della loro scienza.”
D. Hilbert, Mathematische Probleme Parigi 1900, 2° Congresso internazionale di matematica
Incipit
Una breve introduzione ai modelli matematici non può prescindere da una premessa riguardante
il rapporto tra matematica, conoscenza e realtà. Su tali intrecci ci si potrebbe soffermare a lungo e
qui si rimanda ai contributi di Marco Bramanti e Claudio Giorgi in questo volume.
Desidero però sottolineare due “situazioni” in cui ritroviamo la matematica in azione:
- la matematica come strumento utile per descrivere e conoscere la realtà (pur utilizzando immagini semplificate). Questo non può che partire dal fatto che il mondo fisico è intellegibile e la
matematica ci aiuta in questa comprensione. L’esasperazione di tale aspetto può condurre a un
approccio di tipo strumentale: la matematica è un linguaggio utile in quanto capace di descrivere
i meccanismi che guidano i fenomeni del mondo naturale, ma non per questo le si deve attribuire
una qualche realtà concreta autonoma. Si può arrivare a posizioni in cui c’è la “matematica dei
matematici” e la “matematica che serve”, che inevitabilmente è quel frammento di matematica che
“serve” a descrivere una dinamica naturale particolare. Nel corso del tempo le opinioni di scienziati
e filosofi sono state le più diverse.
- L’astrazione come caratteristica saliente dell’indagine matematica, che conduce a uno sguardo
profondo sulla realtà stessa (non come cosa avulsa o lontana da essa). Solo uno spunto veloce e
parziale:
”Nella storia della scienza, infatti, è accaduto spesso che il linguaggio formale ha creato il concetto, e non viceversa, come banalmente si potrebbe pensare.” (Benvenuto 1981).
Un esempio significativo è la rappresentazione di una forza: fino la Medioevo si ricorreva a
espressioni verbali per descrivere il concetto di componente della forza, in seguito comparvero tanti
fili tesi da manine, in seguito frecce con la punta e la coda. Solo un salto concettuale notevole ha
portato a esprimere una forza attraverso le sue componenti secondo la terna delle coordinate. Per
arrivare poi al moderno concetto di vettore, occorre una ulteriore riflessione sul considerare l’ente
invariante rispetto al cambiamento delle coordinate stesse.
85
Parte terza. Giovanni Naldi
Quando un fenomeno viene tradotto nel linguaggio matematico, in linea di principio può essere
analizzato alla luce di pure considerazioni logico-formali, in maniera autonoma rispetto al problema
di provenienza. L’abbandono dell’ambito concreto specifico non viene considerato un “tradimento”,
ma, al contrario, un indicatore della bontà dell’approccio. È proprio questa caratteristica insita
nell’approccio matematico a sostenere la percezione dell’esistenza di una realtà matematica oggettiva e “concreta” al pari del mondo che ci circonda (si veda per esempio Mascia 2010; Israel 1999).
Non mi dilungherò oltre su questi due aspetti, che fanno certamente sorgere domande sulla natura del sapere matematico; vi tornerò saltuariamente nel corso di alcune esemplificazioni utili, si
spera, per stimolare la riflessione personale.
Iniziamo con qualche osservazione e qualche elemento storico: ci muoveremo a grandi balzi e,
necessariamente, in modo estremamente sintetizzato.
Dalla realtà alla matematica e ritorno?
Il legame tra oggetti matematici e oggetti naturali risale alle remote origini della matematica e
alle esperienze di base del contare (origine dell’Aritmetica) e del misurare (origine della Geometria).
Anche nei primi documenti scritti è evidente il legame tra i primi procedimenti matematici e le
necessità pratiche. A titolo di esempio, citiamo le iscrizioni su tavolette d’argilla venute alla luce
in Iraq ed Iran nei siti della città pre-sumerica di Uruk e della città pre-elamita di Susa. In queste
incisioni sono state rintracciate riferimenti a un doppio sistema di numerazione (decimale e sessagesimale) oltre che a semplici algoritmi di calcolo relativi a pagamenti in orzo (la più diffusa merce
di scambio del quarto millennio a.C.). Certo occorre aspettare gli Elementi di Euclide (circa 300 a.C.)
per trovare un’opera di matematica in cui le nozioni sono organizzate utilizzando il metodo proprio
della Matematica, ovvero il metodo logico deduttivo. Anche negli Elementi appaiono delle definizione “operative” di oggetti geometrici, definizioni che possono trovare una naturale corrispondenza
con il lavoro degli agrimensori.
Deve passare ancora molto tempo affinché la matematica assuma un ruolo importante ed esplicito nello studio dei fenomeni naturali. Leggiamo, per esempio, il seguente richiamo del filosofo
teologo scolastico medioevale Grossatesta: “L’utilità di considerare le linee, gli angoli e le figure è
grandissima, perché senza di essi non si può conoscere la Filosofia Naturale. Essi sono validi in tutto
l’universo e nelle singole parti. Hanno validità anche nelle proprietà delle relazioni, come nel moto
retto e circolare.” (Grossatesta R., De lineis, angulis et figuris, 1220-1235).
Infine, con Galileo questo modo di guardare la natura in modo più profondo attraverso la matematica si concretizza: il tutto è “cristallizzato” nella celebre frase (che ricorre più volte con qualche
variazione nella sua opera):
“…La filosofia e` scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a
gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e
conoscer i caratteri, ne’ quali e` scritto. Egli e` scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezzi e` impossibile a intenderne umanamente
parola; senza questi e` un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto…” (Galilei 2008).
Dopo Galileo, per tutto il Seicento e il Settecento, ha luogo un grandioso sviluppo della fisica che
si serve potentemente dello strumento matematico. Il personaggio che meglio rappresenta questo
aspetto è probabilmente Leonhard Euler (1707–1783). Nella sua fiduciosa ricerca di principi generali
descrivibili in termini matematici, ritroviamo affermazioni come le seguenti (qui a titolo di esempio
data l’enorme mole della sua produzione scientifica):
“Poiché infatti la fabbrica dell’Universo è perfettissima ed è governata dal creatore più sapiente,
86
Parte terza. Matematica
non accade nulla nel mondo, in cui non traspaia qualche ragione di massimo e di minimo; per la qual
cosa non può esservi alcun dubbio che tutti gli effetti della realtà possano essere determinati col
metodo dei massimi e dei minimi in modo egualmente felice che mediante le stesse cause efficienti.”
(Eulero 1744).
Il “libro matematico” della natura contiene la descrizione della natura quale essa “è”? Anche se
nelle opere di Galileo, Newton, Euler,... forse non appare sempre esplicitamente, probabilmente così
si pensava. Da questo atteggiamento nascono le solenni affermazioni sulla immutabilità delle leggi
della natura così come le descriviamo. D’Alembert poteva così vantare la scoperta nel secolo dei
lumi del “vrai système du monde”. A questo faceva eco Laplace, che intitolava una delle sue opere
maggiori Exposition du système du monde.
La convinzione che esista un’unica interpretazione e descrizione della realtà, ottenibile in termini
matematici, porta ad associare a ogni insieme di fenomeni della stessa natura un’equazione (differenziale) che li rappresenti.
Sentiamo uno dei maggiori rappresentati di questo atteggiamento fortemente radicato nell’800,
J. B Fourier:
“Le equazioni differenziali della propagazione del calore esprimono le condizioni più generali,
e riducono le questioni fisiche a problemi di analisi pura e questa è l’oggetto vero e proprio della
teoria [...]
Dopo aver stabilito queste equazioni differenziali, bisognava ottenerne gli integrali; il che consiste nel passare da un’espressione generale a una soluzione specifica soggetta a tutte le condizioni
date. Questa ricerca difficile esigeva un’analisi speciale fondata su teoremi nuovi [...]
Lo studio profondo della natura è la fonte più fertile delle scoperte matematiche. Questo studio
non ha solo il vantaggio, presentando un oggetto ben determinato di indagine, di escludere questioni vaghe e calcoli senza scopo, esso è inoltre un metodo sicuro per costruire l’analisi stessa e per
scoprire gli elementi che ci interessa conoscere e che le scienze naturali devono sempre preservare:
questi sono gli elementi fondamentali che si ripresentano in tutti i fenomeni naturali” (Fourier
1822).
All’approfondirsi dei sistemi di indagine sperimentale è però risultato che queste leggi, che si
credevano immutabili, si dimostrano essere approssimazioni di leggi più generali. La visione ottocentesca allora entra in crisi per varie ragioni, per esempio: si danno descrizioni differenti per
lo stesso fenomeno; ci sono fenomeni differenti descritti dalla medesima equazione (una armonia
nascosta?); si sviluppano le geometrie non-euclidee (in quale geometria viviamo?) e in generale la
matematica deve affrontare la cosiddetta “crisi dei fondamenti”; nasce la Meccanica quantistica (il
ruolo dell’osservatore conta).
In ogni caso, la fiducia nella struttura matematica della realtà resta. Oggi il libro della natura ci
appare più come un libro di modelli della natura (spesso di un suo particolare aspetto), basati sulle
nostre conoscenze fenomenologiche e sperimentali.
La matematica consente una riflessione sui principi scientifici fondamentali permettendo una
indagine della realtà. Con Galileo abbiamo imparato che
“l’ordine del cosmo è il linguaggio stesso dei fenomeni naturali e non solo l’apparenza più epidermica delle armonie colte dalla nostra sensibilità” (Stagnitto 2005).
I due poli che hanno motivato e orientato lo sviluppo dei modelli matematici sono la verità e l’utilità: la ricerca dell’intima essenza dei fenomeni e il grado di utilità dei modelli stessi. Un modello
non può che essere una immagine matematica dei fenomeni e non può esserne lo specchio.
Un modello non può ambire a essere l’unica rappresentazione di un fenomeno, ormai si è abbandonata la convinzione che ci possa essere una corrispondenza biunivoca tra realtà e Matematica,
inoltre, a riprova della struttura intimamente matematica del mondo che ci circonda, può capitare
87
Parte terza. Giovanni Naldi
che lo stesso modello possa descrivere situazioni molto lontane tra loro.
La classificazione dei modelli matematici attraverso la suddivisione dei vari ambiti della Matematica risulta poco utile. Altri tipi di classificazione potrebbero aiutare nella comprensione dello
sviluppo e nello studio dei modelli matematici (modelli deterministici/stocastici, modelli discreti/
continui, modelli qualitativi/quantitativi,...).
Anche lo scopo per cui ci si interessa a un modello matematico potrebbe servire alla classificazione dei modelli stessi dal punto di vista della loro utilità: modelli descrittivi, modelli predittivi,
modelli prescrittivi.
Nella mia pur limitata attività di collaborazione scientifica con persone di altre discipline, ho
potuto osservare due atteggiamenti principali. Alcuni, per lo più con una “buona” formazione matematica di base, per esempio Fisici ed Ingegneri, tendono ad affrontare lo sviluppo della descrizione
matematica di un fenomeno o di un processo in modo pragmatico. Sono ragionevolmente convinti che la matematica possa fornire una descrizione sintetica ed efficace della realtà (anche della
piccola fetta di realtà che li interessa al momento) e sono interessati al modo di rendere effettiva
questa descrizione. Questo non si riduce solo a “tirar fuori dei numeri”, ma la miglior comprensione
delle proprietà qualitative del modello, la possibilità di riprodurre alcune situazioni semplificate, il
confronto con il dato sperimentale, l’opportuna approssimazione numerica ottenuta con algoritmi
efficienti e affidabili.
Altri, spesso con una base matematica più “debole”, si pongono di fronte allo sviluppo del modello
matematico in modo più scettico: essenzialmente, si aspettano uno schema, magari sintetico, di
qualcosa che ritengono di sapere già. La matematica, in ogni caso, appare più come un’invenzione
di qualcuno, come un prodotto artificiale e misterioso.
In questo ultimo caso, ho trovato importante stanare, se c’era, una domanda scientifica relativamente al fenomeno in esame. Questo è ovviamente il primo passo, in seguito ci si poteva render
conto se la richiesta fosse su una semplice analisi statistica dei propri dati sperimentali, o se si
potesse andare oltre, chiedendosi, per esempio: Che relazioni sussistono tra le quantità misurate?
Che ipotesi si possono avanzare? Che tipo di esperimenti si possono pianificare per accreditare le
relazioni ipotizzate?
Il modello matematico può allora diventare, cosa che non sempre accade, un utile strumento di
indagine. La matematica supera una visione che chiamerei “statica”, e dispiega il suo potenziale.
Per esprimere questo aspetto “dinamico” della matematica, riprendiamo le parole di Enrico Bombieri (medaglia Fields nel 1974).
“Quindi cos’è la matematica? Questa è una domanda che mi sono posto molte volte, e ho deciso
così, per dare un’idea, che la matematica è lo studio delle relazioni tra oggetti diversi. Oggetti diversi
che possono essere messi in relazione in vario modo ma la cosa interessante è che i tipi di relazione
sono relativamente pochi e questo permette di dare un certo ordine, una certa logica. Quindi la
matematica, attraverso lo studio delle relazioni, usa il linguaggio della logica e della linearità. Dal
punto di vista filosofico troviamo anche dei filosofi, come per esempio Ludwig Wittgenstein, che
usavano la nozione di aspetto come una cosa intrinseca che andava studiata. I matematici stessi, per
esempio Godfrey H. Hardy, identificavano la matematica in un modo molto simile, ricercando quello
che chiamava i patterns, cioè la ricorrenza di certi aspetti. Quello che importa nella matematica, è
quindi, la relazione e la struttura interna delle relazioni e da qui viene il suo potere di astrazione e
pertanto il potere di sintesi che è fondamentale nella matematica. Adesso, quindi, la matematica è
diventata un linguaggio base, non è l’unico, ma un linguaggio fondamentale di tutta la scienza. Ora
la scienza si può fare in due modi: uno è quello dell’osservazione, la raccolta dei dati, cioè l’analisi,
ed un altro modo è per procedimento di induzione in cui, attraverso l’osservazione, si fa quel balzo
avanti, quella cosa che ci permette di procedere oltre. La matematica lavora nello stesso modo: ci
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Parte terza. Matematica
sono delle fasi in cui settori diversi procedono attraverso raccolta di dati, piccoli passi di volta in
volta che poi, a un certo momento, vengono messi insieme attraverso un procedimento di tipo induttivo” (Bombieri 2010).
Un esempio: a spasso per Königsberg
Il termine modello (dal latino modulus, forma, stampo; diminutivo di modus, misura, norma) ha
differenti accezioni. Per esempio, può significare: una riproduzione in scala ridotta di un oggetto
reale; uno schema precostituito di atti da eseguire durante lo svolgimento di un processo; una
rappresentazione di un oggetto reale già esistente o da realizzare; una riproduzione controllata di
situazioni reali; una riproduzione simulata di una situazione reale; un gioco in uno scenario con
regole definite.
In ambito scientifico, un modello è una rappresentazione concettuale di un fenomeno o un oggetto reale. In particolare un modello matematico ha come componenti concetti ed oggetti matematici (come variabili, funzioni, equazioni,...). Se originariamente la parola modello implicava un
cambiamento di scala nella rappresentazione di un oggetto reale, attualmente un modello matematico rappresenta un cambiamento nella scala di astrazione. Il processo di costruzione di un modello matematico è il processo di “matematizzazione del reale”, cioè l’utilizzo di tutti gli strumenti
matematici disponibili per la rappresentazione e la comprensione della realtà che ci circonda ed in
cui viviamo.
Interessante risulta lo sviluppo e la discussione inerente l’utilizzo di modelli matematici non in
ambito fisico o chimico, ma biologico, sociale, economico,... Non possiamo soffermarci e rimandiamo alla letteratura (in crescita) su questo notevole aspetto; solo a titolo di esempio citiamo Israel
2004; Musso, Barzaghi 2009; Naldi 2001; Tortora 2011).
Facciamo un esempio di lavoro di “matematizzazione” del reale attraverso quello che è, in fondo,
un famoso gioco enigmistico.
Il problema dei ponti di Königsberg, Leonhard Euler
Questo è il testo del problema affrontato da Euler.
La città di Königsberg è attraversata dal fiume Pregel, e un suo quartiere sorge su di un’isola
(chiamata der Kneiphof) oltre la quale il fiume si spezza in due rami (Figura 1).
Figura 1. La città di Königsberg con i suoi ponti e la descrizione attraverso un grafo
A quei tempi l’isola era collegata tramite due ponti con ciascuna delle due sponde che il fiume
forma prima di suddividersi in due rami, mentre la sponda situata dopo la suddivisione del fiume
era collegata con un ponte sia con l’isola sia con le sponde citate precedentemente, per un totale
di sette ponti. Ebbene, gli abitanti di Königsberg si domandavano se fosse possibile compiere un
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Parte terza. Giovanni Naldi
cammino semplice, percorrendo cioè ogni ponte una volta sola, lungo i ponti della città in modo tale
da percorrerli tutti.
Il grande Euler osservava che si potrebbe cominciare con l’elencare tutte le passeggiate possibili:
così facendo si potrebbe sicuramente trovare il cammino che soddisfa il problema, oppure constatare che tale passeggiata non esiste.
Egli escluse però subito tale metodo per due motivi. Primo, perché i percorsi possibili sono un numero enorme, e la loro elencazione creerebbe difficoltà che nulla hanno a che vedere con la natura
del problema. Secondo, perché, così facendo, si risolverebbe sì il problema specifico, che resterebbe
però aperto per altre disposizioni di regioni e ponti e per il loro numero.
Euler inventò un modo idoneo di rappresentare i percorsi.
Cominciò con l’indicare con A, B, C e D le quattro regioni da collegare e con a, b, c, d, e, f, g i sette
ponti. Se il viaggiatore dovesse partire dalla regione A e, attraverso non importa quale dei ponti a
o b, si recasse in B, indicherà il suo percorso con AB; se poi si recasse in D, il nuovo tratto verrebbe
indicato con BD e tutto il tragitto con ABD. E se poi andasse da D a C, allora il percorso complessivo
sarebbe ABDC. In generale, il numero di ponti attraversati è di uno minore del numero di lettere della
parola-percorso. il percorso cercato dovrà essere descritto da una “parola-percorso” di otto lettere
con alcuni vincoli. Esiste?
Euler dimostrò che non è possibile scrivere questa “parola-percorso”, direi con un metodo di tipo
algebrico.
Al fine di generalizzare il problema, rappresentò regioni e collegamenti con quello che chiameremmo oggi un grafo non orientato. I punti (regioni) A, B, C, D sono detti nodi, le linee a, c, d, e, f,
g si chiamano archi (o lati o segmenti). Il numero di archi che escono da un nodo si chiama ordine
del nodo. Euler dimostrò che il percorso desiderato c’è solo quando tutti i nodi hanno ordine pari:
“Dato dunque un qualunque caso, si può immediatamente e facilissimamente riconoscere se la passeggiata, alle solite condizioni, è possibile o no, in forza della seguente regola. Se sono più di due
le regioni alle quali conducono un numero dispari di ponti, allora si può affermare con certezza che
la passeggiata è impossibile. Se sono solo due le regioni alle quale conducono un numero dispari di
ponti, allora la passeggiata è possibile, a condizione che si parta da una di esse. Se infine a nessuna
regione giunge un numero dispari di ponti, allora la passeggiata è possibile, qualunque sia la regione
dalla quale si parte. E questa regola è del tutto soddisfacente, qualunque sia il problema posto”.
Viene riconosciuto da molti che Euler, con il metodo di soluzione di questo problema, dà inizio
a una nuova branca della matematica che oggi viene chiamata “topologia”, ed è oggi considerata
come fondamentale per tutta la matematica: Euler la presentava come una “analisi qualitativa” dei
rapporti geometrici.
Questo esempio mostra come lo studio delle proprietà e delle relazioni tra gli oggetti matematici
che si introducono attraverso il metodo logico deduttivo può portare molto lontano rispetto alle origini. L’organizzazione dei “fatti matematici’’ e lo sviluppo dei vari capitoli della matematica hanno
spesso messo in evidenza la ricchezza e la profondità del processo di astrazione. Più recentemente
si è assistito e si assiste alla ricaduta degli strumenti, dei metodi, delle proprietà degli oggetti matematici nella rappresentazione di svariati insiemi di fenomeni in linguaggio matematico, attraverso
la costruzione di modelli matematici. Di più, il pensiero matematico ha talvolta consentito di anticipare fenomeni che neanche erano stati immaginati, e solo in seguito sono stati osservati (si veda
il catalogo della mostra Da uno a Infinito. Al cuore della matematica, Aa.Vv., 2010).
Per un approfondimento generale sui modelli matematici, si veda per esempio: Israel 2003.
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Parte terza. Matematica
Studio di casi
Proviamo a esemplificare il processo di sviluppo e studio di un modello matematico attraverso
due “casi” significativi. Dal punto di vista didattico potrebbero essere declinati in vari modi in base
al livello richiesto. Vari sono gli obiettivi che si potrebbero perseguire e che, a mio parere, non dovrebbero essere messi in contrapposizione ma sviluppati insieme: dalla risoluzione di problemi volti
alle applicazioni, allo sviluppo di strumenti quali astrazione, rigore, uso del linguaggio, fino alla
matematica come disciplina autonoma (si veda Millán Gasca 2012).
Problemi di minimo/massimo
Molti problemi scientifici e tecnologici si presentano come problemi di minimo o massimo. Ovvero, si hanno delle quantità (funzioni, funzionali,...) i cui valori che realizzano un punto estremo, di
minimo o di massimo, rappresentano la soluzione cercata.
I principi di massimo/minimo hanno assunto nello sviluppo dei modelli una guida ed un modo di
operare (si pensi al “principio di minima azione”). Va osservato che molti dei problemi riguardanti
le applicazioni della matematica in fisica ed ingegneria, ed oggi anche in Biologia, necessitano la
minimizzazione di funzioni che hanno come variabili non punti di uno spazio di dimensione finita,
bensì funzioni a loro volta. Per esempio, posso mettermi alla ricerca di una traiettoria che ottimizzi
qualche criterio (distanza minima, minimo costo,...).
Il problema della brachistocrona con i metodi che sono stati messi in campo per risolverlo è stato
di importanza centrale per lo sviluppo del Calcolo delle Variazioni.
Il problema, posto da Galileo (1638), è il seguente: “Dati due punti A e B, con B posto a un’altezza
inferiore rispetto ad A, si consideri una curva C congiungente A a B e il tempo T(C) che una pallina
impiega per scivolare lungo la curva, da A a B (si trascurano le forze di attrito e si suppone la pallina
puntiforme e la velocità iniziale nulla). Qual è la curva che ha un tempo di percorrenza minimo?”
Figura 2. Schematizzazione del problema della brachistocrona
Il problema fu ripreso da Giovanni Bernoulli negli Acta Eruditorum (Leipzig, 1696) e lanciato
come sfida ai Matematici dell’epoca. Lo stesso Bernoulli risolse il problema, anche Leibniz propose
una soluzione insieme a Newton, che però non mostrò la dimostrazione utilizzata. Secondo Galileo
la traiettoria ottimale era un arco di circonferenza, come in fondo sembra ragionevole, mentre la
soluzione consiste geometricamente in un arco di cicloide.
Ma l’aspetto più importante erano i metodi dimostrativi. L’idea di Bernoulli fu di trasformare il
problema meccanico in un problema di ottica geometrica, di rifrazione in un mezzo avente densità
ottica variabile e dipendente dall’ordinata y (in modo che la luce si propaghi sempre più lentamente
al crescere di y). Applicando ripetutamente la legge della rifrazione, attraverso un’approssimazione
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Parte terza. Giovanni Naldi
basata su suddivisioni in strati sempre più sottili, egli dedusse la forma della cicloide. Modernamente potremmo dire che Bernoulli ha applicato un metodo di approssimazione ed è “passato al limite”
(operazione quanto mai delicata ma in questo caso funzionante).
Tuttavia il metodo di Bernoulli ha un carattere ad hoc e non può essere applicato a problemi
più generali. È solo grazie a Euler e a Lagrange che questo e altri problemi trovano una soluzione
soddisfacente. Il loro metodo consiste nel fare piccole variazioni C’ della curva, e di calcolare ΔT=
T(C’) − T(C) in corrispondenza di tali variazioni. In corrispondenza della curva C di lunghezza minima,
queste variazioni si devono bilanciare e questo individua, tra tutte le curve, una sola classe di curve,
le cicloidi. Sul piano più strettamente matematico questo procedimento presuppone una formula
esplicita per la funzione che a C assegna T(C). Occorrerà procedere individuando una opportuna
classe di (funzioni) percorsi C e tecniche di calcolo (Calcolo delle variazioni).
Come secondo problema scegliamo un altro problema classico: il problema isoperimetrico, o meglio una sua variante, un problema “immobiliare” di Didone. Il tutto ha origine in una leggenda,
raccontata da Virgilio nell’Eneide: la regina fenicia Didone ottenne dal re locale Jarbas, per sé e per
la sua gente, tanta terra quanta sarebbe riuscita a contenerne la pelle di un bue. Didone non si scoraggiò e, per prima cosa, tagliò la pelle in sottili strisce ottenendo una lunga corda; poi, la dispose
in modo da racchiudere una regione di area massima. Il problema è quindi: assegnato un perimetro
P, qual è la regione di area massima con quel dato perimetro?
Un’altra formulazione (apparentemente diversa, ma equivalente) dello stesso problema è: assegnata un’area A, quale è la regione di perimetro minimo di area A?
Il problema nasconde diverse insidie, dovute al fatto che dovremmo poter “controllare” aree e perimetri di figure qualsivoglia (o meglio all’interno di una certa classe di figure piane). Molto elegante
risulta la soluzione del problema di Didone, un cerchio o un semicerchio, se consideriamo un tratto
di costa, attraverso mezzi geometrici fornita da Jakob Steiner. La dimostrazione di Steiner parte però
da un assunto: che la soluzione esista. Questa osservazione sollevata da Weierstrass ha aperto la
strada a nuovi filoni di ricerca più analitici.
Per una panoramica: Hildebrandt, Tromba 2006; Ekeland 2001; Ambrosetti 2009.
Codici correttori d’errore
Affrontiamo un problema tecnologico. Le informazioni in un computer o su un CD sono memorizzate attraverso sequenze di zero e uno. Se un CD viene danneggiato, o la memoria di un computer
non funziona bene si verificano degli errori nella trasmissione e nella codifica delle informazioni.
Risulta necessario proteggere queste informazioni sia rilevando gli errori sia cercando di correggere
questi stessi errori.
Facciamo un esempio banale: immaginiamo che il segnale da memorizzare o trasmettere sia
1 0 1 1 0 1 0 0 1 1 0 …; il segnale si corrompe e diventa
1 0 1 0 0 1 0 0 1 1 0 … con un errore nella quarta cifra.
Risulta impossibile trovarlo.
Cambiamo la modalità di rappresentazione raddoppiando il numero di cifre, la sequenza originale
diventa 11 00 11 11 00 11 00 00 11 11 00 …; e quella corrotta 11 00 11 10 00 11 00 00 10 11 00 …;
ora è facile rilevare l’errore ma per correggerlo? Potremmo pensare di triplicare il numero di cifre
aumentando la ridondanza.
Attraverso metodi algebrici è possibile introdurre codici efficienti e stabilirne l’efficacia. Uno
strumento utile risulta la definizione di una distanza tra sequenze binarie, in questo modo è possi92
Parte terza. Matematica
bile introdurre le proprietà generali a cui deve soddisfare una funzione distanza (anche quando non
è valutata tra “punti o numeri”). Modernamente si sono sviluppati codici correttori d’errore basati
sulla interpretazione delle parole del codice come coefficienti di polinomi su campi finiti. Per un
approfondimento (si veda Fabris 2001).
Osservare e simulare
Un approccio ulteriore nello sviluppo dei modelli consiste nell’utilizzare metodi di simulazione
per addentrarsi nei meandri di un fenomeno e della sua descrizione. Questo può portare a ipotesi
e “congetture” interessanti. Un esempio recentemente sviluppato da vari matematici, e non solo,
riguarda i moti collettivi ben organizzati: stormi, banchi di pesci, sciami ed altri ancora. Situazioni di
comportamento collettivo, non solo di moti, si possono presentare anche a livello di attività umane:
dal traffico pedonale all’evacuazione di luoghi affollati, dall’accesso ai più diversi servizi agli scambi
finanziari.
La discussione sullo sviluppo di tali modelli è molto accesa e non ci soffermeremo su questo. Il
comportamento e la descrizione di sistemi composti da oggetti considerati, almeno in prima battuta, uguali tra di loro è un tema presente in ambiti differenti della Fisica-Matematica, in particolare
risulta essere un tema centrale della Meccanica Statistica. Nella maggior parte dei casi, gli oggetti
sono “passivi” cioè non prendono decisioni autonome in base a informazioni acquisite e relative a
oggetti differenti e/o all’ambiente circostante. Nel caso di gruppi di animali, si suppone che ogni
individuo del gruppo possa prendere decisioni sul proprio moto in base a ciò che “vede” intorno.
È possibile modellizzare il conseguente moto organizzato? La domanda non è solo di carattere
speculativo, anche se questo basterebbe a giustificarla, ma potrebbe essere collegata a situazioni
applicative molto interessanti, per esempio nell’ambito della robotica.
Volendo sviluppare un semplice modello, possiamo seguire l’approccio recentemente introdotto
da Felipe Cucker e Steve Smale. Consideriamo quindi l’interazione di N particelle (agenti) Pi, i =
1,...,N, indistinguibili, in movimento e disposte nello spazio tridimensionale. Ogni oggetto sarà caratterizzato al tempo t dal vettore posizione Xi(t) e dal vettore velocità Vi (t). Supponiamo che ogni
oggetto “veda” gli altri e adatti la propria velocità in base alla distanza da altri oggetti e alla loro
velocità. È quindi possibile introdurre un sistema di equazioni che possono descrivere il moto del
gruppo formulando le leggi di variazione della posizione e della velocità.
Cambiando il modo in cui gli agenti interagiscono possiamo produrre varie simulazioni anche
introducendo effetti casuali (stocastici). Questo non basta: come prevedere il comportamento del
sistema? Occorre sviluppare della matematica e stabilire e dimostrare dei teoremi riguardo questo
comportamento. La sola simulazione numerica non è sufficiente a garantirci un certo comportamento collettivo. La simulazione può invece fornire indizi verso quali ipotesi ragionevoli possono
essere considerate (per un articolo introduttivo si veda Naldi 2012).
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Algebra: astrarre per comprendere
Raffaella Manara
L’unico modo per apprezzare gran parte della matematica consiste nell’imparare una sorta di lettura
a prima vista dei simboli. K. Devlin Il gene della matematica
Il fatto è che il simbolico è più potente dell’utilitaristico. P. Meirieu I compiti a casa
Dal pensiero aritmetico al pensiero algebrico
Nel mondo di pensiero che caratterizza la matematica, colpisce la complessità delle relazioni tra
esperienza e astrazione, tra linguaggi verbali e non verbali, tra euristica, intuizione e creatività e
rigore e controllo. Per chi la pratica, si tratta di una ricchezza di problematiche e approcci che affascina e attrae: la matematica è tutt’altro che univoca e monotona, il suo discorso comprende una
grande varietà di registri, oltre che presentare una sconfinata profondità e ampiezza di contenuti.
Un matematico russo del secolo scorso, I. Safarevic, suggestivamente ne sottolineava l’aspetto sinfonico. Seguendo questo calzante paragone musicale, comprendiamo l’importanza del compito degli
insegnanti: per introdursi alla matematica, infatti, occorre unire alle disposizioni personali anche un
lungo percorso educativo, proprio come per la musica.
L’acquisizione del simbolismo algebrico, cioè l’introduzione al mondo dell’algebra, è una delle
tappe più importanti e delicate di questo percorso, e riguarda il momento cruciale di passaggio dei
giovani dalla scuola del primo ciclo alla secondaria superiore.
Qui vogliamo soffermarci su alcuni aspetti di questo snodo concettuale, troppo spesso sottovalutato dagli insegnanti, che tendono a consideralo un momento più addestrativo che concettuale.
Questo atteggiamento crea frequenti ostacoli all’apprendimento della matematica, e favorisce il
distacco di molte intelligenze dai suoi contenuti, in modo purtroppo irrimediabile.
Per rinforzare la nostra sensibilità all’importanza di questo specifico momento di sviluppo del
pensiero, che deve abbandonare la matematica elementare centrata sull’aritmetica, per passare a
forme e formalismi più astratti, vale la pena di fare un breve cenno a ciò che è avvenuto nella storia
della matematica.
Se il senso del numero e le capacità e manipolazioni aritmetiche sono presenti in tutte le culture
dai tempi più antichi, comparendo insieme alla scrittura delle parole quasi sempre anche la scrittura
dei numeri, non è affatto così per la manipolazione di espressioni simboliche. Perfino i Greci, che,
insieme a quei contenuti geometrici che sono ancora il modello del nostro ragionamento, avevano
raggiunto conoscenze aritmetiche molto alte e raffinate, non disponevano di un linguaggio per trattarle in forma astratta. Il percorso che ha portato alla nascita di quella che oggi riconosciamo come
algebra simbolica è durato millenni, almeno fino al XVI secolo.
Lo storico della scienza G.H.F. Nesselmann ha proposto una descrizione dell’evoluzione storica
dell’algebra, a cui molti studiosi si riferiscono, che ne individua tre stadi concettuali ed espressivi.
La tratteggio brevemente, perché, oltre ad essere interessante, fa luce sul percorso di elaborazione
94
Parte terza. Matematica
concettuale che la scuola impone ai giovani allievi in otto anni, cioè in tempi considerevolmente
più brevi!
Nella sua suddivisione, un primo stadio è detto dell’algebra retorica, e comprende tutta la matematica antica fino a Diofanto d’Alessandria (III secolo dopo Cristo). In questa fase, calcoli, problemi, e procedimenti sono espressi solo a parole, con espressioni prese esclusivamente dalla lingua.
Questa prima forma di algebra, presente nella matematica dei Babilonesi e degli Egizi, esprime
procedimenti che potremmo chiamare di algebra aritmetica, è basata su tecniche di calcolo e casi
particolari, senza procedimenti di carattere generale. Anche i Greci, fino a Diofanto, esprimevano a
parole procedimenti anche complessi, ma, in aiuto all’algebra in parole, si servivano di rappresentazioni geometriche, tanto che parliamo di algebra geometrica: eseguivano operazioni algebriche
ragionando su enti geometrici.
Il secondo stadio indicato da Nesselmann è detto dell’algebra sincopata: in questa fase, per
esprimere relazioni numeriche in forma sintetica, si introducono opportuni simboli in funzione di
abbreviazione, ottenendo così formule che rappresentano equazioni e calcoli. Fu Diofanto il primo a
servirsi di un simbolo letterale per rappresentare un’incognita in una equazione, perciò si può considerare che questa fase copra i secoli dal III al XVI, quando si riconosce che l’opera del matematico
francese Viete (1540 – 1603) abbia dato origine a quello che rappresenta il terzo stadio.
È solo a questo stadio che parliamo di algebra simbolica o semplicemente di algebra in senso
moderno: i simboli, introdotti in funzione sintetica e generalizzatrice, diventano loro stessi oggetto
della manipolazione concettuale. Nell’algebra, cioè, le relazioni che vengono analizzate e affermate
sono relazioni tra i simboli stessi.
Pur nella schematicità del riferimento, non è difficile l’analogia con gli “stadi” del percorso di
apprendimento che la scuola sviluppa.
La scuola primaria e buona parte della Secondaria di primo grado sono dedicate alla formazione
di quello che possiamo chiamare pensiero aritmetico, cioè
– all’acquisizione del concetto di numero, nelle sue diverse caratteristiche (numero intero, numero razionale, numero relativo)
– all’estrapolazione delle relazioni fondamentali in ambito numerico, quali l’uguaglianza e i diversi usi e significati del segno “=”, il confronto e l’ordinamento, che richiedono il significato e l’uso
del simbolo “<”, le operazioni e le loro proprietà, caratteristiche come la primalità, la divisibilità, …
– l’assimilazione delle procedure di calcolo e le procedure risolutive che coinvolgono le operazioni
sui numeri (separatamente e insieme)
– la capacità di interpretare relazioni numeriche in contesti concreti, in particolare l’acquisizione
della misura delle grandezze.
In questa lunga elaborazione il veicolo di trasmissione fondamentale è il linguaggio verbale, attraverso il quale hanno origine i concetti numerici.
Vengono introdotti certamente anche simboli, quali le cifre o i segni di operazione, o le parentesi
(segni della sintassi delle operazioni). La stessa scrittura posizionale dei numeri rappresenta un raffinato passaggio di simbolizzazione: infatti, la piena comprensione del suo significato non è quasi
mai del tutto assimilata fino alla scuola superiore, anche se la manipolazione è acquisita. Spesso
nella Secondaria di primo grado sono i ragazzi stessi, poi, a introdurre e dominare anche scritture
simboliche, magari spontanee e non convenzionali, in funzione soprattutto di stenografia, per abbreviare passaggi, calcoli, spiegazioni, riferimenti, mostrando che sta maturando il passaggio alla
consapevolezza algebrica. Tuttavia, i primi otto anni di scuola sono da avvicinare ai primi due stadi
dello sviluppo dell’algebra, anzi, in quanto tali sono da considerare importanti e preziosi: mettono i
fondamenti, servono a preparare il terreno, e non vanno bruciati nella fretta dell’anticipo.
L’ultimo anno della media può favorire molti prodromi e gettare ponti verso lo stadio successivo,
95
Parte terza. Raffaella Manara
che vede il suo naturale momento all’inizio della scuola superiore. Adesso è l’ora del passaggio al
pensiero algebrico, che riguarda le relazioni tra i simboli, cioè
– i concetti algebrici sono le relazioni numeriche
– le proprietà delle relazioni tra numeri (un esempio sono i prodotti notevoli) sono le relazioni da
manipolare in ambito algebrico (equazioni e disequazioni, per esempio)
– le procedure algoritmiche di manipolazione simbolica, cioè il cosiddetto calcolo algebrico, rappresentano il livello deduttivo
– nei contesti concreti si formalizzano relazioni tra variabili, espresse in relazioni algebriche:
l’algebra permette di codificare non solo particolari problemi, ma intere classi di problemi (problemi
di primo grado, problemi di scelta, problemi di ottimo…).
Imparare a pensare algebricamente, dunque, non significa imparare i meccanismi algebrici di manipolazione dei simboli, ma lavorare sui significati delle relazioni, staccandosi da contesti concreti e
particolari. Il pensiero algebrico è un pensiero generalizzante, da verità piccola, particolare, a verità
generale: senza il passaggio al pensiero algebrico, la matematica non sarebbe potuta diventare il
linguaggio della fisica, e non potrebbe oggi fornire modelli di interpretazione e codifica di tanti fenomeni. Non vogliamo solo formare dei bravi manipolatori, vogliamo che si sviluppi nei nostri allievi
un pensiero ricco di ragioni e significati.
Sviluppo dell’algebra: “dare forma” al pensiero
Non parlerò nei dettagli dei passi del processo di simbolizzazione, che è stato trattato in modo
articolato in più occasioni (Manara 2002). Ne indico schematicamente i costituenti fondamentali,
non in ordine cronologico, ma di sviluppo.
La formazione dei concetti matematici ha inizio nell’esperienza sensibile, procede attraverso l’estrapolazione della fantasia, l’interiorizzazione e l’astrazione
Si cercano e scelgono forme di rappresentazione dei concetti: dall’illustrazione generica alla
schematizzazione geometrica, in aritmetica e algebra si adottano simboli
Attraverso i simboli scelti, i concetti sono manipolati, per generare nuovi concetti: si passa al
grado superiore di astrazione. Servono nuovi simboli per i nuovi concetti: la formalizzazione spinge
avanti la concettualizzazione (Freudenthal 1994).
Questi passi del processo di simbolizzazione hanno inizio nell’infanzia: pensiamo a quando un
bambino, anche prima di andare a scuola, sa riconoscere, contando a parole, “sette” cubetti, poi
passa a fare con il pennarello sette piccoli segni, poi sceglie di adottare la cifra 7.
L’esempio è elementare, ma illumina come il formarsi del concetto spinge avanti la simbolizzazione, e, viceversa, senza adeguata simbolizzazione, il concetto non si “espande”, l’astrazione non
procede: se dovesse riconoscere 17 pennarelli, un bambino si stanca di fare 17 trattini, tuttavia può
volerci molto tempo ancora per arrivare a scrivere 17, numero molto più complesso di 7.
Preferisco allora produrre alcuni esempi, in cui mostrare attività didattiche che si rivelano formative dell’attitudine alla simbolizzazione, perciò, in qualche modo, preparano o sviluppano il pensiero
algebrico.
Esempi
1. Siamo in IV elementare, l’attività ha origine in ambito geometrico: si vuole introdurre l’idea
di diagonale di un poligono1. L’insegnante propone una situazione in cui si parla di abitare in un
1 La relazione dell’attività si trova negli Atti del Seminario 2011 a cura del Ma.P.Es
96
Parte terza. Matematica
condomino con in mezzo un giardino, di bambini che sono “vicini di casa” (vertici consecutivi) e altri
che occorre andare a trovare “attraversando il giardino” (diagonali).
Il contesto immaginato è riprodotto sul pavimento, i bambini sono fisicamente i “vertici”, i percorsi sono tracciati con nastro adesivo, le “diagonali” con corde tenute dai bambini.
In questa esperienza, i bambini raggiungono spontaneamente l’uso di termini geometrici come
Vertice, Vertici consecutivi, Lati, Diagonale. Di questa danno una definizione ingenua, legata al
contesto narrativo dell’esperienza didattica e a quello che vedono fisicamente: ciò non impedisce
loro di fare numerose osservazioni e scoperte spontanee (per esempio, del fatto che un triangolo
non ha diagonali).
L’attività continua poi opportunamente in una fase di riflessione ed elaborazione: i bambini sono
guidati a riflettere sul numero delle possibili diagonali di un poligono, e le situazioni osservate e
analizzate sono raccolte sistematicamente e organizzate in una tabella sintetica (figura 1), sulla
quale … le scoperte aumentano: ad esempio, “Nicola scopre che l’unico poligono in cui il n° dei
vertici è uguale al numero delle diagonali è il pentagono”. Come si nota nella figura, le osservazioni
sui numeri della tabella evidenziano che è “scoperta” sostanzialmente anche la legge che dà il numero delle diagonali in qualunque caso. Sembrerebbe lì pronta da afferrare addirittura la formula!
Tuttavia, giustamente l’insegnante non preme l’acceleratore su questo risultato, perché non ha
fretta di ottenere definizioni corrette da ripetere e formule da applicare. Sarà solo in terza media o
in prima superiore si può ottenere che una formula esprima il numero delle diagonali di un poligono
(convesso) in funzione del numero dei vertici, per qualunque poligono, identificato dal numero n dei
vertici, nella scrittura formale
Un’astrazione di questo livello sarebbe decisamente inadeguata in IV elementare (mentre la
formula deve poter essere decodificata chiaramente in prima superiore!), ma ecco che attraverso la
geometria si è piantata una piccola radice per l’algebra!
2. Un’attività di risoluzione di problemi con ragazzi di seconda e terza media offre significative
97
Parte terza. Raffaella Manara
informazioni sulla capacità di simbolizzazione raggiunta da ciascuno. Questo il testo:
Una scacchiera quadrata ha 6 × 6 caselle.
Possiamo individuare ogni casella con due numeri, che corrispondono alla riga e alla colonna che
in essa si incrociano (come a battaglia navale).
Immaginiamo di disporre sulle caselle chicchi di riso in questo modo:
1 chicco se la casella corrisponde a una riga dispari e una colonna dispari
2 chicchi se la casella è su una riga pari e colonna dispari oppure su riga dispari e colonna pari
3 chicchi se la casella è su una riga pari e una colonna pari.
Quanti chicchi di riso abbiamo messo in totale sulla scacchiera?
Nella fase di rappresentazione del problema, si sono osservate queste scelte di simbolizzazione:
- c’è chi disegna chicco per chicco (non riesce a staccarsi dal contesto concreto)
- altri, tracciano un trattino per indicare un chicco e disegnano trattino per trattino (prima simbolizzazione)
- alcuni indicano in cifre il numero di chicchi per ogni casella. Nella fase operativa, c’è stato un significativo riflesso della scelta fatta per simbolizzare.
- C’è chi ha contato sommando (i chicchi o i trattini o i numeri) casella per casella
- Alcuni hanno identificato (figura 2) un modulo 2 × 2, che ha somma 8, poi hanno riconosciuto
che ci sono 9 moduli, e hanno fatto 8 × 9 = 72
98
Parte terza. Matematica
- C’è però anche chi ha osservato che la media dei chicchi per ogni casella è 2, perciò la disposizione è pari a metterne 2 per ogni casella: così hanno fatto 2 × 36 = 72.
Nella fase di discussione, emerge che il risultato è raggiunto da tutti, anche se con diversa velocità. Tuttavia è evidente la differenza nei tre percorsi, e la ricaduta si ha nello sviluppo successivo,
perché il problema… continua: modifichiamo i dati per spingere alla generalizzazione in due passi.
I passo: se la scacchiera invece che 6 × 6 fosse 8 × 8?
Qui si nota che quelli che avevano sommato casella per casella (gli a)) … ricominciano a contare! Invece, chi aveva individuato dall’osservazione una strategia di conto (b) e c)) sono in grado di
rispondere al volo.
II passo: se pensiamo una scacchiera di un numero qualsiasi di caselle, n × n, quanti sono i chicchi?
La presenza della variabile, simbolizzata dalla lettera n, rende inefficace il procedimento di conteggio, il problema è inaccessibile per chi ha solo sommato. Ma anche per gli altri che hanno analizzato
la configurazione più a fondo, il problema è fine. Infatti, bisogna distinguere il caso di n pari, nel
quale le due diverse strategie si equivalgono, da quello di n dispari, per il quale l’ultima strategia
(riconoscere il “peso” medio di 2 chicchi) è l’unica che porta immediatamente alla soluzione. Un
limpido esempio di come la simbolizzazione sostiene l’astrazione e la matematizzazione!
Numeri pari e dispari e loro proprietà
In questo esempio voglio dare un’idea del lungo processo di elaborazione che può portare dall’intuizione di un concetto al suo completo dominio.
Che i numeri naturali si suddividano in pari e dispari spesso è un’acquisizione spontanea dei
bambini, che può provenire da molte esperienze anche prescolari. In una significativa esperienza
narrata da un’insegnante in II elementare, si nota come i bambini non solo avevano il concetto,
ma riuscivano a darne un’adeguata descrizione, affermando che in un numero dispari le unità si
dispongono “a coppie, ma ne avanza una”, ma addirittura sapevano usare questa definizione per giustificare correttamente il comportamento dell’addizione rispetto alla parità e disparità. Ricorrendo a
una semplice rappresentazione delle unità con pallini, sostanzialmente mostravano che sommando
due numeri dispari, in ciascuno dei quali rimane un pallino singolo, rimangono due pallini singoli
che si accoppiano, dando un numero pari. Sono poi in grado di produrre esempi numerici anche su
numeri grandi, controllando la validità generale della proprietà, opportunamente senza ripetere la
rappresentazione con pallini, che sarebbe lunga e confusa, ma ricorrendo al calcolo. E non è finita:
senza difficoltà completano le loro osservazioni affermando che pari più pari dà pari, e dispari più
99
Parte terza. Raffaella Manara
pari dà dispari. L’espressione verbale (ne “avanza” uno), sostenuta dalla rappresentazione grafica,
che costituisce una simbolizzazione adeguata ai 7 anni, non solo esprime completamente la loro
immagine mentale del concetto di numero pari o numero dispari, basato sulla situazione additiva,
ma consente la notevole elaborazione induttiva, rinforzata dagli esempi, della proprietà generale
che implicitamente accettano, cioè del teorema che dice: “La somma di due qualsiasi numeri dispari
ha come risultato un numero pari”
Dove si può collocare la dimostrazione di questo teorema?
Non ci si deve stupire osservando che occorrono ancora cinque o sei anni di matematica dopo la
seconda elementare per “manovrare” il piano simbolico in cui si domina completamente il concetto
di numero pari o dispari in termini moltiplicativi (un numero è pari se e solo se è un multiplo di 2,
per negazione, è dispari se e solo se non è un multiplo di 2), e di conseguenza si può adottare consapevolmente l’espressione simbolica 2∙a per rappresentare un generico numero pari (riconoscendo
che tale espressione si riferisce a un numero divisibile per 2), 2∙b + 1 per rappresentare un generico
numero dispari, riconoscendo che quel “+ 1” fa assumere a quell’espressione il significato di numero
non divisibile per 2. Dai pallini alle lettere!
Deve poi essere maturata adeguatamente la capacità di interpretare l’espressione simbolica, fino
a riconoscere in essa una proprietà generale: questa è la forza dell’algebra!
Percorriamo i passaggi dell’esempio:
La simbolizzazione porta al dominio del concetto, descritto dalla sua definizione, e tradotto in
forma non verbale. Per tradurre simbolicamente “un numero pari qualsiasi” o “un numero dispari
qualsiasi” si deve ricorrere a variabili, rappresentate da lettere.
Sottolineiamo una difficoltà non trascurabile: per esprimere due numeri dispari qualsiasi, occorrono due variabili diverse, indipendenti l’una dall’altra: 2n + 1, 2k + 1
Usando i simboli, si possono tradurre le espressioni verbali in espressioni simboliche da manipolare (uso delle relazioni tra i simboli).
Esprimiamo simbolicamente la somma di due dispari, scrivendo
(2n + 1) + (2k + 1)
Abbiamo introdotto le parentesi, ora però dobbiamo “toglierle” (usando sui simboli la proprietà associativa dell’addizione sui numeri)
2n + 1 + 2k + 1
per poter “ricombinare” i termini, usando sui simboli la proprietà commutativa dell’addizione sui numeri 2n + 2k + 1 + 1
per sommare, a questo punto, 1 + 1, ottenendo l’espressione:
2n + 2k + 2
Ora serve interpretare l’effetto delle nostre manipolazioni simboliche. In questa scrittura è contenuto, se sappiamo decodificarlo, l’obiettivo da raggiungere: riconosciamo che il numero ottenuto
è un numero pari, riscrivendolo – usando sui simboli la proprietà distributiva della moltiplicazione
rispetto all’addizione nei numeri - come 2×(n + k + 1)
scrittura che esprime un numero divisibile per 2, quindi un pari.
Dunque, i calcoli dell’algebra sono implicazioni: tre passaggi sui simboli contengono più di infiniti esempi e verifiche sui numeri, addirittura, in un certo senso, li rendono inutili.
Il grande vantaggio del trattare i simboli, vantaggio per il quale occorre far maturare con pazienza nei ragazzi tutte le abilità linguistiche, logiche, operative necessarie, spinge ora la capacità
di inoltrarsi nel mondo dei numeri alla ricerca di altre proprietà generali. Se pari e dispari sembrano
un’acquisizione così semplice che possono sfuggire tutte le questioni che ho cercato di sviscerare,
se ci proponessimo di esplorare analoghe proprietà nell’addizione di numeri, per esempio, multipli
100
Parte terza. Matematica
o non multipli di 3, incontreremmo senz’altro difficoltà superiori. Sarebbe impensabile ricorrere a
semplici rappresentazioni, e anche trovare esempi ci impegnerebbe a lungo. La forza dell’algebra
simbolica ci rende leggibile “a prima vista” espressioni come:
3 n, 3 n + 1, 3 n + 2 in cui riconoscere multipli e non multipli di 3, e lavorando su di essi in
analogia all’esempio precedente ci porterebbe brevemente al risultato.
Un continuo “scambio tra forma e contenuto”
Ho volutamente analizzato il delicato percorso che nell’apprendimento della matematica conduce dall’esperienza concreta alla concettualizzazione, attraverso la formazione di immagini mentali
e l’adozione di rappresentazioni simboliche adeguate, attraverso esempi relativamente semplici. A
livello formativo, l’algebra è il campo in cui tale passaggio è decisivo, perciò non smetterò di raccomandare che va guidato e reso consapevole con pazienza, senza fretta, guardando ai significati e
non ai risultati.
Nello schema successivo segnalo sinteticamente alcuni punti in cui è evidente il legame tra
pensiero aritmetico e pensiero algebrico, e, dopo quanto abbiamo detto non può sfuggire, agli insegnanti, come ogni riga esprima un lungo e delicato percorso, nel quale molti si perdono.
A sinistra c’è la radice, perciò la scuola primaria o secondaria di primo grado, a destra lo sviluppo,
il livello della scuola secondaria, in cui si dovrebbe vedere che la forma è diventata il contenuto.
Caso numerico singolo
formulazione di proprietà
•
3+5=5+3
a+b=b+a
proprietà commutativa
•
8 ⋅ 7 = 56 ↔ 56 : 8 = 7
a⋅ x = b ↔
equazione
→
funzione
•
32 + 4 2 = 52
a2 + b2 = c2
→
•
35 = 3 ⋅ 3 ⋅ 3 ⋅ 3 ⋅ 3
2
teorema di Pitagora
2
x +y =r
2
a n=
equazione cart. di una circ.
definizione della potenza
→
a n : a m = a n–m
formulazione di proprietà
→
a –n =
estensione della definizione
→
nuova definizione
Una considerazione sull’ultimo punto dello schema può concludere il lavoro. La forma più generale possibile della potenza, y = a b , contiene i significati precedentemente accostati (moltiplicazione ripetuta, potenza a esponente razionale, estrazione di radice), nella sintesi concettuale della
funzione. Quando raggiungiamo questo livello, ci accorgiamo di quanto cammino abbia richiesto:
il concetto di funzione è un frutto maturo del pensiero matematico. Sottolineo che nemmeno a
questo livello si può considerare conclusa l’espansione del concetto iniziale. Infatti, le due funzioni
y = x 3 e y = 3 x esprimono, attraverso la medesima forma della potenza, due relazioni funzionali
molto diverse, di cui solo la prima (x3) è riconducibile direttamente alla definizione numerica della
potenza nei numeri naturali.
Dunque, l’espressione formale, di una leggerezza evidente – per usare un’espressione rubata a
Calvino – esprime un contenuto sempre più profondo e ricco. 101
Dalla geometria analitica all’analisi
Andrea Maggi
Geometria analitica
“Geometria analitica”: l’aggettivo fa capire che non si tratta della solita geometria, ma di una
geometria che è legata all’algebra.
Il termine “analitico” vuole indicare il processo che consiste nel risalire all’indietro da ciò che
deve essere dimostrato fino a quando si giunge a una qualche verità nota. Questo metodo è legato
fortemente all’invenzione stessa dell’algebra, dove l’introduzione della lettera come incognita ha lo
scopo di indicare una quantità che ancora non si conosce ma che, se esiste, deve soddisfare a una
certa proprietà. In questo senso “analitico” è l’opposto di “sintetico” che denota il procedimento
deduttivo, tipico della geometria euclidea.
Per entrare in merito, conviene partire dalle critiche che Cartesio - uno dei fondatori dal metodo
analitico insieme a Fermat –, intorno al 1637, rivolgeva alla geometria degli antichi, rea di essere
troppo astratta, e talmente legata alle figure “che essa può esercitare l’intelletto soltanto a condizione di affaticare grandemente l’immaginazione” (Descartes 1637), e troppo appesantita dall’algebra, perché così soggetta alle regole e alle formule “che se ne è fatta un’arte confusa e oscura che
appesantisce lo spirito invece di farne una scienza che lo coltiva”.
Cartesio si propose perciò di prendere tutto quanto vi era di meglio nella geometria e nell’algebra
e di correggere i difetti dell’una con l’aiuto dell’altra.
Come molti pensatori della sua epoca, Cartesio era interessato alla comprensione della natura e si
era convinto che la matematica non fosse una disciplina contemplativa, ma una scienza costruttiva
e utile, atta allo studio dei fenomeni fisici. Ritenendo egli che la natura non fosse altro che un grande sistema geometrico, il suo punto di partenza fu allora la geometria: “Ho deciso di abbandonare
quella geometria che è unicamente astratta e che serve solo a esercitare la mente, per studiare,
invece, un altro tipo di geometria, che ha, come obiettivo, la spiegazione dei fenomeni della natura”.
Questo “altro tipo di geometria” consiste nel far uso “dell’algebra dei moderni” per risolvere problemi
di geometria, sottolineando la capacità di generalizzare che l’algebra ha e il suo valore nel rendere
meccanici i ragionamenti e nel rendere minimo il lavoro necessario per risolvere i problemi.
Su cosa si fonda la geometra analitica? L’idea fondamentale è l’introduzione delle “coordinate”,
cioè di numeri associati a un ente geometrico, in modo tale da individuarlo completamente.
Alla base di questa associazione vi è un ulteriore concetto, che solo alla metà del XIX secolo fu
affrontato nella sua complessità: il continuo numerico. Infatti, la premessa della geometria analitica
è la corrispondenza biunivoca tra numeri e punti di una retta, relazione che si basa sul concetto di
misura: a ogni numero x viene associato il punto P appartenente a una retta orientata e dotata di
origine O, tale che x sia la misura relativa del segmento OP.
Ma quali numeri possono esprimere misure di segmenti?
L’associazione punto – numero è semplice e intuitiva, nel momento in cui si considerano i numeri
razionali; inoltre, in alcuni casi, anche l’identificazione del posto che un numero irrazionale deve
occupare sulla retta è semplice: può bastare l’uso della riga e del compasso (le radici quadrate). Ma
per poter associare a ogni punto un numero occorre ampliare il concetto di numero, costruendo un
102
Parte terza. Matematica
insieme numerico, quello dei numeri reali, che ha la proprietà di continuità, tipica della retta, mediante l’assioma della continuità, che hanno espresso i matematici Richard Dedekind e Georg Cantor
(intorno al 1872).
Una volta stabilita la corrispondenza biunivoca tra numeri reali e punti di una retta orientata, è
possibile individuare la posizione di un punto in un piano mediante una coppia ordinata di numeri
reali, associati rispettivamente a due rette orientate tra loro incidenti: è il sistema di assi cartesiani.
Si hanno le prime conseguenze:
il teorema di Pitagora permette di determinare la misura di un segmento (o la distanza tra due
punti), note le coordinate degli estremi;
il teorema di Talete permette di determinare le coordinate del punto medio di un segmento, il
baricentro di un triangolo e di operare la suddivisione di un segmento in parti che siano tra loro in
un dato rapporto.
Ma ciò che è interessante è che, se si considera un insieme di punti che formano un luogo geometrico (curva), cioè l’insieme di tutti e soli i punti che godono di una certa proprietà, è possibile
associare a esso un’equazione (detta equazione del luogo) a due incognite le cui soluzioni sono le
coordinate di tutti e soli i punti della curva.
Come è possibile? Traducendo in termini algebrici la proprietà del luogo!
A titolo di esempio, mediante il concetto di distanza tra due punti, è immediato determinare l’equazione di una circonferenza, noti il centro e il raggio, oppure l’equazione dell’asse di un segmento.
Infatti:
a) Circonferenza:
l’affermazione di carattere geometrico: “P è un punto della circonferenza di centro C e raggio r se
e solo se la sua distanza da C è uguale a r” si traduce algebricamente nell’equazione nelle incognite
xey
ovvero (x-x0)2 + (y-y0)2=r2
essendo (x0; y0) le coordinate di C e (x; y) le coordinate di P.
b) Asse di un segmento AB:
l’affermazione: “P è un punto dell’asse di AB se e solo se equidista da A e da B” si traduce algebricamente nell’equazione (x-xA)2 + (y-yA)2 = (x-xB)2 + (y-yB)2
essendo (xa; ya) e (xb; yb) rispettivamente le coordinate di A e di B.
Una prima conseguenza della portata del nuovo metodo si vede già dal fatto che diventa semplice
verificare se un punto appartiene o no a un luogo: basta che le sue coordinate siano soluzione dell’equazione del luogo! Poiché questo è solo un calcolo, inizia il predominio dell’algebra sulla geometria.
Anche le trasformazioni geometriche piane hanno un referente algebrico: un sistema di equazioni
che esprimono il legame tra le coordinate di un punto del piano e le coordinate del suo trasformato.
Utilizzare analiticamente le equazioni delle trasformazioni facilita:
- determinare l’equazione di una curva rispetto a un qualsiasi sistema di riferimento, nota la sua
equazione rispetto a un sistema particolare (di solito è la sua equazione canonica, quella cioè scritta
rispetto a un sistema di riferimento che sfrutta le simmetrie e i punti notevoli del luogo e risulta
quindi semplice);
- stabilire se è possibile associare a un’equazione una curva.
103
Parte terza. Andrea Maggi
Per quest’ultimo punto, mostriamo un esempio:
, a quale luogo geometrico, se esiste, è associata?
Data l’equazione
Analizziamo i casi:
l’equazione diventa un’equazione di primo grado cui è associata in ambito geometrico
• se
una retta;
• se
l’equazione, nel caso in cui
, diventa
.
Tale equazione, utilizzando il metodo del completamento del quadrato, è equivalente a
Se operiamo il seguente cambiamento di variabili
(1)
Si ottiene
(2)
Se rileggiamo tutto dal punto di vista geometrico, l’equazione (1) rappresenta una traslazione,
mentre l’equazione (2) rappresenta una parabola con vertice nell’origine del sistema cartesiano e
asse di simmetria coincidente con l’asse delle ascisse. Possiamo quindi affermare che la curva
associata all’equazione
rappresenta una parabola.
, utilizzando ancora il metodo del completamento dei quadrati, l’equazione data
• Se
è equivalente all’equazione:
.
Come nel caso della parabola, si può dimostrare che:
-
Se
e
l’equazione rappresenta un’ellisse o, come caso particolare,
una circonferenza (vista come ellisse opportunamente dilatata).
Osservazione: se
e
, allora non esiste alcuna curva associata
all’equazione data; questo significa che non è sempre possibile associare a un’equazione una
curva nel piano cartesiano, a coordinate reali.
-
104
Se
l’equazione rappresenta un’iperbole.
Parte terza. Matematica
Dalla geometria all’algebra
Tuttavia, se è vero che, data un’equazione a due incognite, è unica, se esiste, la curva ed essa
associata, non vale il viceversa: l’equazione associata a una curva dipende infatti anche dal sistema
di riferimento. Ma allora, data una curva, qual è il sistema di riferimento rispetto al quale l’equazione a essa associata è la più semplice possibile? È ciò che viene chiamata la ricerca dell’equazione
canonica di un luogo geometrico, legata alle proprietà geometriche del luogo. E qui è il predominio
della geometria sull’algebra!
A titolo di esempio, riporto un’esperienza che faccio ogni anno quando, assegnata una retta
(direttrice) e un punto (fuoco), chiedo ai ragazzi di determinare almeno quattro punti del piano che
equidistano dal punto e dalla retta (parabola). È immediata la determinazione del punto medio del
segmento che ha per estremi il punto dato e la sua proiezione sulla retta assegnata: è un punto notevole, il suo vertice! Gli altri due successivi punti che vengono determinati sono quelli che formano
un quadrato i cui vertici sono il fuoco, la sua proiezione sulla direttrice, il punto determinato e la sua
proiezione sulla direttrice. Questi due punti determinati permettono di osservare che il luogo cercato ammette una simmetria rispetto alla retta perpendicolare alla direttrice e passante per il fuoco.
Per trovare un quarto punto del luogo occorre determinare un metodo che non si basi sulle caratteristiche dei singoli punti (essere il punto medio o formare un quadrato), ma che sfrutti la proprietà
luogo. Una mia alunna mi ha fatto scoprire una costruzione che non conoscevo:
fisso un punto P sulla direttrice e considero la retta r passante per P e perpendicolare alla direttrice;
considero l’asse a del segmento che ha per estremi il fuoco F e P
il punto A di intersezione tra r ed a è un punto del luogo.
Come mostreremo in seguito, è interessante osservare che l’asse del segmento PF è la retta tangente alla parabola nel suo punto determinato!
Per passare dal luogo geometrico alla sua equazione occorre a questo punto fissare un opportuno
sistema di riferimento; ma quale? Rispetto a un generico sistema di assi cartesiani la direttrice avrà
equazione del tipo ax + by + c= 0 mentre il fuoco avrà coordinate (x0; y0).
Traduciamo in termini algebrici la proprietà geometrica del luogo: “Un punto P appartiene alla
parabola se e solo se la sua distanza dal fuoco è uguale alla sua distanza dalla direttrice”.
Allora le coordinate
del punto P saranno soluzione dell’equazione:
e quindi dell’equazione:
(1)
Tale equazione è un’equazione di secondo grado in x e y, cioè del tipo:
(2).
105
Parte terza. Andrea Maggi
Osservazioni:
- il termine rettangolare Bxy dell’equazione (2) proviene dallo sviluppo del quadrato di trinomio
che c’è a secondo membro nell’equazione (1); ciò significa, che per non esserci, occorre che in (1)
non ci siano contemporaneamente i monomi ax e by e quindi che la direttrice sia parallela a uno dei
due assi cartesiani. Per realizzare questa condizione, consideriamo un sistema xOy rispetto al quale
la direttrice sia parallela, ad esempio, all’asse delle ascisse;
- il fatto che il luogo ammetta una simmetria rispetto alla retta passante per F e perpendicolare
alla direttrice, ci permette di affermare che, se, l’asse delle ordinate coincide con l’asse di simmetria
del luogo, allora, se P (x; y) è punto della parabola, anche P’ (-x; y) lo è; ma le due coppie di coordinate sono soluzione dell’equazione (2) se, e solo se, D=0;
- se si fa poi coincidere il vertice della parabola con l’origine degli assi cartesiani, allora nell’equazione (2) viene a mancare il termine noto (F=0).
A questo punto, rispetto al sistema di assi cartesiani determinato, il fuoco ha coordinate F (0; y0)
e la direttrice equazione d : y + y0 = 0 ; quindi l’equazione (1) diventa x2 + (y-y0)2 = (y + y0)2 cioè
un’equazione nella forma x2 + Ay = 0.
Se poi si esplicita la variabile y rispetto alla variabile x si ottiene l’equazione y = ax2, che ci permette di determinare proprietà geometriche del luogo, quali la concavità e la monotonia (per x>0).
E si ritorna al predominio dell’algebra sulla geometria!
Torniamo all’intuizione che l’asse del segmento FP, essendo P la proiezione di un punto A della
parabola sulla direttrice, coincida con la retta tangente alla parabola in A.
Geometricamente potrebbe essere dimostrata per assurdo. Nell’ipotesi in cui l’asse non fosse
tangente alla parabola si verificherebbero due casi:
- tale retta è perpendicolare alla direttrice: ma questo porterebbe ad affermare che il fuoco F
della parabola appartiene alla direttrice;
- esiste un altro punto B, oltre ad A, comune alla parabola e all’asse di PF. Se Q è la proiezione
di B sulla direttrice, possiamo affermare che FB = BQ, in quanto B è un punto della parabola, e
che FB = BP, in quanto B è punto dell’asse di FP. Per proprietà transitiva si avrebbe che BQ = BP, ma
questo è impossibile essendo il triangolo BPQ rettangolo in Q e quindi BP ipotenusa e BQ in cateto.
Verso l’analisi
La proprietà geometrica appena dimostrata, se passiamo in ambito algebrico, ci permette di determinare il coefficiente angolare della retta tangente a una parabola in un suo punto, nel caso in
cui la parabola abbia asse di simmetria parallelo all’asse delle ordinate.
106
Parte terza. Matematica
Infatti, rispetto ad un sistema di assi cartesiani soddisfacente all’ipotesi, l’equazione associata alla
parabola è del tipo
e un suo punto A ha coordinate
. Sapendo
che
e che d:
punto medio di FP è
, la proiezione P di A su d ha coordinate
e il
. La retta tangente in A alla parabola passa anche per M,
quindi il suo coefficiente angolare sarà:
Il problema di determinare la tangente a una curva in un suo punto è uno dei grandi interessi
che ha percorso le varie epoche (soprattutto dal 1600 in poi). Esso emergeva in più di un contesto:
- era un problema di geometria pura;
- aveva grande importanza per l’indagine sulle leggi che governano i fenomeni fisici (ad esempio
lo studio della direzione del moto di un corpo, Galileo e Newton) e per le applicazioni scientifiche
(quali la progettazione di lenti in ottica, Fermat).
L’esigenza dello studio della retta tangente a una curva acquista maggior significato se la si
collega:
- all’esame di curve e superfici, per quanto riguarda il calcolo delle loro aree e volumi, problema
che ha portato alla nascita del calcolo differenziale e del calcolo integrale. La data di nascita del calcolo integrale precede di molti secoli quella del calcolo differenziale; tuttavia il metodo di approssimare l’area sotto una curva con rettangoli di spessore piccolissimo porta evidentemente a un esame
della curva. E questo esame conduce a un’osservazione: la differenza fra l’area di un rettangolo e la
corrispondente area racchiusa sotto un piccolo arco di curva è tanto maggiore quanto più “ripida” è
la curva. Si capisce quindi quale importanza può avere lo studio della - della curva, pendenza che si
può determinare a partire dalla pendenza della retta tangente.
- al problema della ricerca di soluzioni ottimali in ambito fisico, quali ad esempio la determinazione della distanza massima e minima di un pianeta dal sole nel suo periodo di rivoluzione, oppure
la determinazione della gittata massima di una palla di cannone rispetto all’angolo di inclinazione
del cannone.
Tornando alla parabola, in che modo la geometria delle coordinate è in grado di verificare che
l’asse di FP è tangente alla parabola in A?
Per determinare i punti di intersezione tra due curve dal punto di vista algebrico, occorrerà risolvere il sistema formato dalle loro equazioni, in quanto le coordinate dei punti cercati devono essere
soluzioni di entrambe le equazioni. A questo scopo, determiniamo l’equazione dell’asse di PF.
107
Parte terza. Andrea Maggi
Ricordando che
e
, si ha:
e dunque:
y = (2ax 0 + b) x + c − ax 2 0
Determiniamo le coordinate dei punti di intersezione risolvendo il seguente sistema:
€
La sua equazione risolvente risulta essere:
cioè:
e dunque:
(x − x )
0
2
=0
(
)
L’unica soluzione del sistema risulta quindi essere la coppia x 0 ;ax 0 + bx 0 + c , che rappresenta proprio
le coordinate di A!
2
€
Ciò che è interessante osservare è il fatto che, dal punto di vista algebrico, tale soluzione ha molteplicità due. Questo dipende dal fatto che la €
retta è tangente alla curva?
Questo approccio cambia la nozione di tangente rispetto a quella della geometria euclidea: per
i greci infatti, nel caso di coniche, la definizione di tangente coincideva con quella retta che tocca
la curva in un solo punto e che sta tutta da una parte rispetto a essa. È chiaro che tale definizione risulta inadeguata per curve più complesse. Seguendo l’argomentazione utilizzata nell’esempio,
possiamo definire la retta tangente alla parabola come quella retta che interseca la curva in due
punti coincidenti.
Un’altra osservazione importante da fare circa il valore conoscitivo che l’algebra ha intorno alla
geometria, riguarda il linguaggio e il simbolismo matematico: se da una parte essi descrivono e
sintetizzano relazioni e proposizioni, dall’altra parlano!
Ad esempio: l’equazione y = ax2 + bx + c viene tradotta in ambito geometrico in “parabola con
asse parallelo all’asse delle ordinate”; ma, se si scrive y-bx-c = ax2, o anche y-bx-c = a(x-0)2, possiamo dire “parabola con asse parallelo all’asse delle ordinate e tangente in (0;c) alla retta y-bx-c = 0”.
In generale infatti l’equazione ax+by+c = k(x-xA)(x-xB) rappresenta una parabola con asse parallelo
all’asse delle ordinate e passante per i punti della retta di equazione ax+by+c = 0 di ascissa xA e xB.
Dall’algebra alla geometria: le funzioni
Fin qui abbiamo mostrato come a un luogo geometrico è possibile associare un’equazione, traducendo in termini algebrici la proprietà geometrica del luogo. Nasce naturale domandarsi se è
108
Parte terza. Matematica
possibile, data un’equazione, associare a essa una curva: la geometria analitica introduce curve che
nella geometria euclidea non possono neppure essere prese in considerazione, in quanto insiemi di
punti che non hanno una proprietà comune che li possa caratterizzare come luogo geometrico. Nella
geometria analitica l’equazione stessa della curva diventa la proprietà caratterizzante il luogo, che
risulterà essere l’insieme di tutti e soli i punti le cui coordinate sono soluzione dell’equazione!
Esaminiamo il seguente problema:
“Rispetto a un sistema di assi cartesiani xOy, è assegnata la parabola con asse parallelo all’asse
delle ordinate e passante per A(-3; 0), B(0; 6) e C(1; 0). Inscrivere nel segmento parabolico AB un
triangolo di area 6”.
Se si rappresenta la parabola e si fissa un punto P sull’arco parabolico AB, si può osservare che vi
è un altro triangolo, inscritto nel segmento parabolico, equivalente al triangolo ABP: è quello il cui
terzo vertice è individuato dall’intersezione tra la parabola e la retta passante per P e parallela ad
AB. Questo porta ad affermare che il problema ammette due soluzioni.
Per determinarle, passiamo al punto di vista algebrico. Determinata l’equazione della parabola,
y = –2x2 –4x + 6, la posizione del punto P sarà nota se si conosce la sua ascissa t, con –3<t<0 (limitazioni imposte dal problema geometrico), in quanto, se P appartiene alla parabola, la sua ordinata
sarà necessariamente data in funzione dell’ascissa t dall’espressione: y = –2t2 –4t + 6.
Se poniamo tale espressione uguale a 6 (condizione del problema), si ottiene un’equazione di secondo grado, le cui soluzioni rappresentano l’ascissa dei punti P che identificano i triangoli richiesti.
Prendendo come base del triangolo
, l’altezza PH sarà data dalla distanza di P dalla
; risulta
retta passante per A e B; quindi
.
L’espressione algebrica che permette di determinare l’area α del triangolo ABP sarà allora,
in funzione di t,
.
Facciamo un’ulteriore domanda: quale deve essere la posizione di P affinché il triangolo inscritto
ABP abbia area massima?
Questa domanda acquista maggior interesse se si pensa che Archimede dimostrò che l’area del
segmento parabolico è 4/3 dell’area di tale triangolo!
Da un punto di vista geometrico, si osserva che tale punto risulta essere il punto di tangenza tra
la parabola e una retta parallela alla retta passante per A e B, essendo quello il punto dell’arco di
parabola più lontano da AB.
Quindi per determinare le coordinate di tale punto, basterà mettere a sistema l’equazione della
parabola con l’equazione del fascio di rette parallele ad AB e imporre che l’equazione risolvente il
sistema ammetta due soluzioni coincidenti.
In realtà Apollonio stesso nello studio sulle coniche e delle loro proprietà aveva messo in evidenza
geometricamente che, se si traccia la retta passante per P e parallela all’asse di simmetria, questa
interseca il segmento AB nel suo punto medio M; quindi, per determinare la posizione di P, basterà
intersecare la parabola con la retta passante per M e parallela all’asse di simmetria. Algebricamente, le sue coordinate risulteranno essere, per quanto riguarda l’ascissa, l’ascissa di M e, per quanto
riguarda la sua ordinata, il valore che si ottiene risolvendo l’equazione della parabola avendo prima
sostituito alla variabile x l’ascissa di M.
La proposizione enunciata da Apollonio non è semplice da verificare da un punto di vista geome109
Parte terza. Andrea Maggi
trico, anche se la sua verità risulta evidente da un punto di vista grafico.
Algebricamente la dimostrazione potrebbe essere la seguente.
Assegnata una parabola, consideriamo come sistema di riferimento quello per cui O coincida con
A e l’asse delle ordinate sia parallelo all’asse di simmetria; in questo modo l’equazione della parabola
risulterà essere: y = ax2 + bx.
Inoltre
,
e quindi
. Il coefficiente angolare della retta passante per
A e per B è:
;
questo valore corrisponde, per quanto dimostrato precedentemente, al coefficiente angolare della
retta tangente alla parabola nel suo punto di ascissa t. Questo dimostra che il punto della parabola
in cui la tangente è parallela alla retta per A e B è un punto appartenente alla retta parallela all’asse
delle ordinate e passante per M!
Ma cambiamo ora prospettiva.
. In un
Fissata la variabile t, ad essa è stato associato il valore α legato a t dall’equazione
sistema cartesiano tOα, tale equazione rappresenta una parabola con vertice in
.
Ma cosa rappresentano le coordinate dei punti di tale parabola rispetto al problema da cui siamo partiti?
L’ascissa è l’ascissa del punto P mentre l’ordinata è il valore dell’area del triangolo ABP. Essendo il vertice
dell’ultima parabola il punto la cui ordinata ha il massimo valore, si può affermare che, se l’ascissa del punto P
è
, allora il triangolo ABP avrà area maggiore rispetto a tutti i triangoli inscritti (e risulterà essere
).
Ma qual è la novità? La novità consiste nel fatto che si è introdotto il concetto di funzione e un
modo di rappresentarla.
Infatti sono state introdotte due variabili, nel nostro caso t e a, e una legge che fa corrispondere
ad un valore di t uno e un solo valore di a. Non solo: è occorso anche specificare l’insieme in cui
varia t. Questo si riassume dicendo che si individua una funzione quando sono dati:
- un insieme A, detto dominio, cui appartiene la prima variabile;
- un insieme B, detto codominio, cui appartiene la seconda variabile;
- una legge che associa a ogni elemento x di A uno e un solo elemento y di B, in simboli y = f(x).
A una funzione è poi possibile associare un insieme G di punti nel piano cartesiano, detto grafico,
così definito:
110
Parte terza. Matematica
Se la funzione è reale a variabile reale, l’insieme G è in corrispondenza biunivoca con l’insieme di
punti di un piano cartesiano xOy le cui coordinate sono date delle coppie (x;y) di G.
Il sistema cartesiano xOy acquista un nuovo significato. In questo nuovo ambito le due rette del
sistema permettono di visualizzare rispettivamente gli elementi dell’insieme A (sull’asse delle ascisse) e gli elementi dell’insieme B (sull’asse delle ordinate), mentre la curva visualizza la relazione che
lega la variabile dipendente y a quella indipendente x. Una curva, che nella geometria analitica è un
luogo geometrico - algebrico, nell’analisi può essere un modello rappresentativo di una funzione, in
cui è possibile sintetizzare a colpo d’occhio tutte le sue caratteristiche e proprietà.
Il problema della ricerca della retta tangente a una curva in un suo punto, nel caso in cui si
considerano funzioni intere o razionali fratte, è risolvibile dal punto di vista algebrico, utilizzando il
principio di identità dei polinomi.
Supponiamo infatti di dover determinare l’equazione della retta tangente ad una curva di equazione
(essendo A(x) e B(x) due polinomi) in un suo punto
. Tale retta appartiene al fascio di equazione
. Le intersezioni tra la retta e la curva assegnata sono determinate risolvendo il seguente
sistema:
che ammette la seguente equazione risolvente:
(1)
che è un’equazione intera di grado k.
La retta del fascio tangente alla curva (geometria) ammetterà in x 0 due soluzioni coincidenti (algebra); il che
significa
che
il
polinomio
a
primo
membro
nell’equazione
(1)
sarà
scomponibile
in
, essendo x1, …., xk-2 le ulteriori intersezioni tra la retta cercata e la curva.
Dalla seguente identità:
,
utilizzando il principio di identità dei polinomi, si ottiene un sistema di k equazioni nelle incognite
e m, risolvendo il quale si ottiene il valore di m cercato.
Primo esempio:
Consideriamo una cubica di equazione
in A appartiene al fascio di equazione
e il suo punto
; la retta tangente alla curva
. Le intersezioni tra la retta e la cubica sono
determinate risolvendo il seguente sistema:
Esso ammette la seguente equazione risolvente:
.
La retta del fascio tangente alla curva ammetterà in 1 due soluzioni coincidenti; il che significa che il polinomio
a primo membro nell’equazione risolvente sarà scomponibile in
; allora vale la seguente
identità:
.
Utilizzando il principio di identità dei polinomi si ottiene il seguente sistema:
111
Parte terza. Andrea Maggi
.
Utilizzando il principio di identità dei polinomi si ottiene il seguente sistema:
che ammette come soluzione
e
; e quindi la retta cercata ha equazione
.
Va notato che una o più delle k-2 soluzioni xi può coincidere con x0, nel caso in cui l’intersezione tra la
tangente e la curva abbia in x0 molteplicità maggiore di 2.
Secondo esempio
Supponiamo di dover determinare i massimi e minimi della funzione di equazione
.
Dal punto di vista della sua rappresentazione grafica, possiamo osservare che nei punti cercati la retta tangente
risulta essere parallela all’asse delle ascisse; dunque la sua equazione è del tipo
.
Se si considera l’equazione risolvente il sistema:
cioè l’equazione:
(1)
si può affermare che x0 è estremante della funzione se è soluzione di (1) con molteplicità almeno 2 e quindi il
polinomio a primo membro di (1) risulta essere scomponibile in
. Allora vale la seguente
identità:
.
Utilizzando il principio di identità dei polinomi, si ottiene il seguente sistema:
che è equivalente al sistema:
Si ricava:
112
Parte terza. Matematica
Dunque una soluzione è x0 = –1; le altre si ottengono risolvendo la seguente equazione:
x03 – x02 + 3x0 + 1 = 0!
Anche di fronte a questo nuovo problema la geometria analitica risulta vincente, passando questa volta però dall’algebra alla geometria! Infatti l’equazione di terzo grado è equivalente al seguente sistema:
Rileggendo in termini geometrici, le soluzioni del sistema sono le coordinate dei punti di intersezione tra una cubica e una parabola, punti la cui ascissa risulta essere soluzione dell’equazione
data.
Rappresentando le due curve si osserva che c’è un punto di intersezione di ascissa compresa tra
-1/2 e 0.
Si potrebbe obiettare che non è possibile stabilire se le due curve si intersecano anche per x>3.
Ma l’equazione (utilizzando il metodo del completamento del cubo di binomio!) risulta anche
essere equivalente a:
E quindi:
La cui risoluzione grafica risulta essere la seguente, confermando il risultato precedente:
113
Parte terza. Andrea Maggi
In conclusione possiamo affermare che la curva ammette due punti a tangente orizzontale. Infatti:
!
Oltre la geometria analitica
Come abbiamo precedentemente detto, la geometria analitica ha ampliato il concetto di curva,
dando cittadinanza anche a quelle la cui equazione non è algebrica. Nasce quindi un nuovo problema: se la funzione assegnata ha come espressione analitica un’equazione non algebrica, come
è possibile determinarne i massimi e i minimi, dal momento in cui il precedente metodo non è più
applicabile?
La geometria analitica ci permette di passare dall’equazione della funzione alla sua rappresentazione grafica in un sistema di assi cartesiani mediante una curva.
La visualizzazione di tale funzione ci permette di vedere la retta tangente t in un punto P come
caso “limite” di una retta secante la curva, la cui pendenza può essere ottenuta con il ragionamento
seguente: si considera un punto Q, appartenente anch’esso alla curva, “vicino” a P e si rappresenti
la retta secante PQ. Si capisce che, se Q percorre la curva avvicinandosi a P e la curva è continua, la
secante tende a coincidere con la tangente t e, dunque, la pendenza della secante deve tendere alla
e, quando Q
pendenza della tangente. Ma la pendenza m della secante è data dal rapporto
tende a P, sia HP che HQ tendono a zero e il rapporto m perde di significato. D’altra parte è il disegno
a dirci che la retta tangente in P esiste veramente. Si rimane perplessi e ci si chiede: come si può
lavorare con un rapporto in cui sia il numeratore che il denominatore tendono a zero?
Là dove prima l’algebra risolveva problemi di carattere geometrico, ora ha lei stessa un problema
da risolvere!
È la nascita del calcolo differenziale!
Il concetto di funzione, insieme al concetto di limite, diventa il cardine su cui si fonda l’analisi
matematica ma, come nel caso dell’asse reale, l’esigenza di una sua precisa definizione avvenne solo
più tardi aprendo ulteriori nuovi orizzonti: neppure i padri fondatori del calcolo differenziale, Leibniz e Newton, compresero con chiarezza e definirono rigorosamente i loro concetti fondamentali,
il primo perché, seppure convinto di aver portato alla luce una nuova scienza, non si preoccupava
troppo della mancanza di rigore e, a coloro che criticavano le sue idee, dava risposte insoddisfacenti; il secondo invece perché non credeva veramente di essersi allontanato dalla geometria greca,
ma, pur usando la geometria delle coordinate, pensava che i suoi metodi fossero solo una naturale
estensione della geometria pura.
Il passaggio dalla geometria analitica all’analisi è dovuto al fatto che si lavora con grandezze che
possono diventare infinitamente grandi o infinitamente piccole: si lavora con l’infinito!
114
Concetti, proposizioni, argomentazioni.
Un percorso didattico non tradizionale
per la geometria euclidea
Renato Del Monte
Nei molti anni in cui ho insegnato al biennio del Liceo, ho dovuto constatare la grande difficoltà
degli studenti ad apprendere la geometria euclidea. I più diligenti riuscivano a imparare i teoremi
principali e costruire qualche dimostrazione, ma senza il gusto e la forza di chi capisce di avanzare
in un campo della conoscenza secondo una potenzialità che scopre in sé.
Muovendomi alla ricerca di soluzioni a questo problema mi sono imbattuto in un articolo della
Prof.ssa Raffaella Manara, nel quale erano menzionate le tre dimensioni della ragione, secondo
l’insegnamento di Sofia Vanni Rovighi, raccolte nel testo Elementi di filosofia edito da La Scuola
(1962). Mi sono accorto che la concezione ivi esposta permetteva una rilettura ordinata, completa e
assolutamente organica del pensiero razionale così come è stato introdotto da Euclide nel IV secolo
a.C. nei suoi Elementi.
Le tre dimensioni della logica
Ho provato quindi a ripensare l’insegnamento della geometria euclidea secondo le tre dimensioni
della logica ben delineata da Sofia Vanni Rovighi, che scrive: “La logica è lo studio dell’ente di ragionare, ossia del pensato in quanto pensato”. […]
“La logica studia il pensiero, la conoscenza; ma la conoscenza può essere considerata in due
modi: come atto del pensare, come attività conoscitiva di un soggetto, oppure in ciò che essa mette
dinnanzi alla mente, nel suo termine, nel suo oggetto.”
“Possiamo distinguere tre tipi di attività conoscitiva intellettuale: la pura apprensione, il giudizio
e il ragionamento.
La pura apprensione è l’atto col quale ho pensato un oggetto, senza ancora affermare nulla di
esso. Il giudizio è l’atto col quale affermo o nego qualcosa. Il ragionamento è l’attività con la quale
connetto insieme delle enunciazioni, cioè passo da un’enunciazione a un’altra.”
“All’apprensione corrisponde il concetto, al giudizio corrisponde l’enunciato e al ragionamento
l’argomentazione.” (Vanni Rovighi 1962)
Esaminiamo più precisamente cosa significa tale impostazione per la geometria euclidea.
Definire i concetti
“La forma più semplice del pensato è la nozione o il concetto, perché la proposizione presuppone il concetto e l’argomentazione presuppone la proposizione.”
“La definizione è il discorso col quale significhiamo cos’è un oggetto.” (Vanni Rovighi 1995)
È questo il primo momento del pensiero razionale o la sua prima attività, finalizzata alla descrizione chiara degli oggetti sui quali prenderanno forma le proposizioni e poi il discorso argomentativo.
Euclide sente l’esigenza di porre all’inizio dei suoi Elementi le definizioni dei termini, a cominciare
115
Parte terza. Renato Del Monte
da quelli più semplici, più intuitivi, cioè da quelli che potrebbero essere concepiti con la loro sola
menzione, senza necessità di spiegazioni: il punto, la linea, il piano.
Sono questi gli “enti primitivi”.
Infatti, è evidente che non tutto si può definire. Ad esempio, si può descrivere un angolo come
“una parte di piano delimitata da due semirette con l’origine in comune”: e subito sorge la necessità
di sapere cosa s’intende con “semiretta” e con “origine”; mentre si conviene che il concetto di “parte
di piano” e “in comune” non richiedano ulteriori spiegazioni.
In fondo, questa prima attività cerca di rispondere alla domanda “di cosa vogliamo parlare”, esigenza prima e fondamentale di ogni discorso che voglia essere sensato.
Seguire il concatenamento linguistico e concettuale delle definizioni geometriche permette di
prendere coscienza di una gerarchia linguistica e logica rigorosa, in cui emergono già le forti esigenze della razionalità; si può cominciare a parlare di linguaggio-ragione.
Con una immagine, si possono pensare i concetti disposti a strati, secondo il livello della loro
complessità:
- a livello 0 stanno gli enti primitivi (punto, retta, piano);
- a livello 1 stanno quegli enti che nelle loro definizioni fanno riferimento agli enti primitivi (segmento, semiretta, semipiano ecc.);
- a livello 2 stanno quelli che nelle loro definizioni fanno riferimento ai concetti di livello 1 ed
eventualmente ai concetti primitivi (come angolo, semirette opposte, segmenti consecutivi e così
via)
- in modo analogo si passa ai livelli successivi.
Per chiarire, analizziamo un esempio.
In questa stratificazione linguistica la definizione del concetto di TRIANGOLO compare a livello
5. Infatti:
(5) Un TRIANGOLO è un POLIGONO (→4) di tre lati;
(4) Un POLIGONO è una parte di PIANO(→0) delimitata da una POLIGONALE SEMPLICE CHIUSA
(→3);
(3)Una POLIGONALE SEMPLICE CHIUSA è una LINEA (→0) costituita da una sequenza di SEGMENTI
CONSECUTIVI (→2) detti lati, senza ESTREMI liberi né intersezioni tra suoi SEGMENTI (→1);
(2) Due SEGMENTI (→1) sono CONSECUTIVI quando hanno un ESTREMO in comune e nient’altro;
(1) SEGMENTO è una parte di RETTA (→0) delimitata da 2 PUNTI (→0) detti estremi
Questa prima dimensione viene più facilmente appresa dagli studenti chiedendo loro di svolgere
un piccolo progetto informatico: un ipertesto che consenta di “navigare” tra i concetti collocati nei
livelli di complessità delle relative definizioni.
Per realizzarlo, basta creare una cartella Windows contenente tante sottocartelle quanti i livelli in
cui si possono stratificare i concetti: una cartella di livello 0, contenente solo il file con gli enti primitivi; una cartella di livello 1 contenente solo i file degli enti che nella loro definizione richiedono solo
gli enti primitivi, e così via.
In questo modo il “pensato” di ogni studente, mediante lo strumento informatico, acquista ordine.
Potremmo dire, riferendoci anche all’immagine successiva, che la struttura delle cartelle Windows
diventa modello del pensiero logico.
116
Parte terza. Matematica
Enunciare i giudizi
“L’enunciazione o proposizione è il termine logico del giudizio e il giudizio è l’atto col quale affermiamo o neghiamo qualche cosa. Il giudizio è una frase alla quale compete di essere vera o falsa”
(Vanni Rovighi 1995)
Dal punto di vista logico sono proposizioni solo le frasi per le quali ha senso dire che siano “vere”
o che siano “false”.
Per esempio, “Un rombo ha le diagonali perpendicolari” è proposizione logica; mentre “I triangoli
migliori sono quelli equilateri” evidentemente non lo è. Ma anche “il 24 luglio 2011 era sabato” è
proposizione logica, mentre “giovedì scorso è stata una bella giornata” no.
Anche le proposizioni, come i concetti, possono essere ordinate dal punto di vista della loro complessità, ora non più linguistica ma deduttiva.
A livello zero ci sono le proposizioni “primitive”, cioè quelle ineccepibili, ovvero accettate come
evidenti e dichiarate indiscutibili.
Già a questo “livello 0” sorgono nuove difficoltà. Euclide, infatti, scelse le sue proposizioni primitive secondo il criterio dell’evidenza, sia nel campo geometrico (postulati), sia in quello più generale
(nozioni comuni), in cui gli oggetti generici prendono il nome di “cose”.
Lo “strato base” della geometria euclidea è perciò costituito da dieci proposizioni: 5 postulati e 5
nozioni comuni. Li riportiamo per chiarezza, come sono enunciate negli Elementi:
p1: Da qualsiasi punto si può condurre una retta a ogni altro punto;
p2: Ogni retta terminata si può prolungare continuamente per diritto;
p3: Con ogni centro e ogni distanza si può descrivere un cerchio;
p4: Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro;
p5: Se una retta, incontrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di
due retti, le due rette, prolungate indefinitamente, si incontrano dalla parte in cui sono i due angoli
minori di due retti. (esistenza e unicità della retta parallela).
a1: Cose uguali a una stessa sono uguali tra loro;
a2: Uguali aggiunti a uguali sono uguali;
a3: Uguali sottratti a uguali sono uguali;
a4: Cose che coincidono tra loro sono uguali;
a5: Il tutto è maggiore di ogni sua parte.
Per più di venti secoli queste proposizioni furono accettate come evidenti e indiscutibili e su di
esse venne eretto da Euclide tutto l’edificio, assolutamente solido, della geometria razionale.
Restarono irrisolte alcune mancanze: la mancanza di proposizioni sull’ordine di successione dei
punti su una linea e quelle a riguardo della continuità. La relazione di congruenza era poi ricondotta
a quella di “sovrapponibilità mediante movimento rigido”, data per intuitiva.
117
Parte terza. Renato Del Monte
La prima trattazione della geometria euclidea che colma queste lacune è del 1882: Vorlesungen
uber neuere Geometrie a firma di Moritz Pash.
A prescindere da queste considerazioni, la dimensione logica delle proposizioni esige la dichiarazione di proposizioni di base delle quali non è richiesta dimostrazione, siano esse ritenute evidenti
o non. Tutte le altre proposizioni della teoria devono invece poter essere dimostrate da esse con
deduzioni rigorose.
In questa seconda dimensione del pensiero, la gerarchia delle proposizioni, ovvero la loro “stratificazione”, richiede di aprire il discorso sull’argomentazione; essa deve perciò essere rimandata. È
ora importante soffermarsi sull’analisi delle proposizioni.
Analizzare una proposizione logica non primitiva, cioè che non sia un assioma, significa innanzitutto evidenziare i concetti sui quali esprime un giudizio; successivamente, è necessario chiarire
quale parte della proposizione funge da premessa e quale da conclusione.
Così, ad esempio, se si afferma che “In un triangolo isoscele due angoli interni sono congruenti”, i
concetti interessati sono quello di “triangolo isoscele”, “angolo interno”, e “congruenza” [...], ognuno
dei quali ha la propria collocazione entro la mappa concettuale descritta nella prima dimensione.
La premessa è che il triangolo considerato sia isoscele (ovvero abbia almeno due lati congruenti),
e la conclusione è che due dei suoi tre angoli siano congruenti.
Per meglio esplicitare l’implicazione tra premessa e conclusione, è utile riformulare l’enunciato
in due diverse versioni: la forma implicazione – “Se un triangolo è isoscele allora ha due angoli
congruenti” e la forma condizione – “Che un triangolo sia isoscele è condizione sufficiente affinché
abbia due angoli congruenti”.
Restando sempre nell’ambito della seconda dimensione del pensiero razionale, è interessare associare a ogni proposizione nella forma di implicazione, assunta come “diretta” (Ipotesi → Tesi) le
altre tre che pur utilizzando gli stessi soggetti esprimono giudizi differenti:
Proposizione inversa: Ipotesi ← Tesi
nel nostro esempio: “Se un triangolo ha due angoli (interni) congruenti allora è isoscele”;
Proposizione contraria: ¬ Ipotesi → ¬Tesi;
“Se un triangolo non è isoscele allora non ha due angoli (interni) congruenti”;
Proposizione controinversa: ¬ Ipotesi ← ¬ Tesi;
“Se un triangolo non ha due angoli (interni) congruenti allora non è isoscele”.
Data per vera la proposizione diretta, pur senza una dimostrazione completa per il momento, si
può dedurre la verità o falsità delle altre implicazioni giungendo a introdurre le Condizioni Sufficienti non Necessarie, le Condizioni Necessarie non Sufficienti e le Condizioni Necessarie e Sufficienti, come nel seguente esempio.
“Che un quadrilatero abbia le diagonali perpendicolari è C.N (¬C.S.) affinché sia un rombo”
“Che un quadrilatero sia un rettangolo è C.S. (¬C.N.) affinché sia un parallelogrammo”.
Per affermare la “necessità - non sufficienza” occorre mostrare che la falsità della premessa dichiarata, “un quadrilatero ha le diagonali perpendicolari”, comporta l’impossibilità della conclusione
“essere rombo” – ovvero che “tutti i rombi hanno le diagonali perpendicolari” ; e che, d’altra parte,
la verità di tale premessa può portare ad altre conclusioni, ovvero “qualche quadrilatero con le diagonali perpendicolari non è rombo”, come è illustrato nella figura .
È questo il momento più opportuno per introdurre il concetto di controesempio e la sua importanza per provare la falsità di un giudizio.
Si potrebbe ora estendere il discorso analizzando le quattro forme del giudizio in Aristotele, introducendo i quantificatori e le proposizioni aperte con i rispettivi insiemi di verità, passando così dalla
logica degli enunciati a quella dei predicati del primo ordine, di cui qui non parleremo.
118
Parte terza. Matematica
Costruire argomentazioni
“L’argomentazione è il termine logico della terza operazione dello spirito: il ragionamento.
Il ragionamento è l’attività con la quale lo spirito passa da una proposizione nota a un’altra;
esso implica dunque un movimento, un discursus da una conoscenza all’altra.
Affinché ci sia ragionamento non basta che un giudizio segua un altro: occorre che il primo sia
in certo modo causa del secondo.
L’argomentazione è un insieme ordinato di proposizioni, una delle quali è posta come inferita dalle altre. La proposizione inferita si chiama conseguente, quella o quelle da cui è inferita si
chiama antecedente.
Il vincolo di dipendenza fra il conseguente e l’antecedente si chiama conseguenza. La conseguenza è forma dell’argomentazione.”
“Materia dell’argomentazione sono le proposizioni e i concetti di cui è costituita, forma è la
disposizione delle proposizioni e dei termini in modo tale che da essi risulti il conseguente o la
conclusione. La forma può essere deduttiva o induttiva.” (Vanni Rovighi 1995)
Mentre parlando di concetti e di proposizioni c’è una certa staticità della “materia pensata”, con
le argomentazioni s’introduce una dinamicità: si passa da una proposizione a un’altra secondo la
legge ferrea della deduzione.
Ecco un punto molto interessante, un punto di consapevolezza importante di se stessi in quanto
esseri razionali: la deduzione è una legge ben più che “ferrea”, in quanto nessun tipo di calore la
può ammorbidire.
Data una proposizione non si può dedurne qualsiasi altra, ma solo alcune, ben identificabili, proposizioni legate a essa da una forma di causa. Non solo: una certa costruzione deduttiva, concordati
gli assiomi base ed espresse le regole usate nei passaggi, è indiscutibilmente, inequivocabilmente e
immutabilmente condivisa da ogni uomo razionale. È proprio questa caratteristica della logica che
rende certe ed eterne le conclusioni che raggiunge; ne sono prova tutti i teoremi che da Euclide in
poi sono stati dimostrati, diventando patrimonio del pensiero occidentale.
Ad esempio, dall’assioma che “due punti distinti appartengono a una e una sola retta” si può
dedurre che “Due rette non coincidenti hanno al più un solo punto comune”, mentre non si può in
alcun modo dedurre che “A una retta appartengono infiniti punti”. Per giustificare (causare) quest’ultima proposizione mi occorre anche sapere, a titolo previo, che “Dati due punti A e B si può sempre
trovare un terzo punto C tale che B stia tra A e C”, che è un altro assioma (il secondo assioma
dell’ordinamento, secondo l’esposizione di Hilbert).
Nell’analizzare la struttura gerarchica dell’argomentazione, possiamo dire che gli assiomi stanno
a livello zero, come già detto.
119
Parte terza. Renato Del Monte
Al livello 1 staranno i teoremi che richiedono solo gli assiomi a sostegno delle loro argomentazioni; al livello due, quelli che richiedono oltre agli assiomi almeno un teorema di primo livello, e
così via.
Dobbiamo osservare che assiomatizzazioni diverse portano a teoremi diversi.
Ad esempio, per Euclide che una retta abbia infiniti punti è un postulato (p2), mentre per Hilbert
è un teorema. Del resto per Euclide il 1° criterio di congruenza dei triangoli è un teorema, per Hilbert
è un assioma (C5).
D’altra parte, gli edifici logici eretti con la rigorosità del metodo deduttivo lasciano ampio spazio
alla libertà sia sulla scelta degli assiomi, sia sulle costruzioni argomentative conseguenti. È proprio
l’esercizio di questa libertà che può condurre la ragione a scoprire mondi razionali possibili ben oltre
la visuale dell’immaginazione e della fantasia. Ne sono prova le geometrie non euclidee che hanno
avuto tanta risonanza (e inaspettate applicazioni) nel secolo scorso.
Dal punto di vista didattico, quando si muovono i primi passi nella dimensione argomentativa è
molto importante seguire e analizzare i tracciati dimostrativi dei primi teoremi con le attenzioni che
espongo di seguito.
Suddividere il discorso dimostrativo in proposizioni logicamente successive, evidenziando i motivi
di causa tra una proposizione e l’altra;
Distinguere passi di carattere costruttivo, da osservazioni e da deduzioni;
Appuntare i passaggi nei quali un’ipotesi entra in scena e constatare quindi l’indispensabilità ed
essenzialità delle ipotesi dichiarate;
Appuntare i passaggi nei quali si fa appello a qualche proposizione precedente, sia essa un assioma o un teorema già dimostrato;
Individuare l’idea (o le idee) cardine della dimostrazione.
Quest’ultima attenzione è importante anche per memorizzare le dimostrazioni: fissare i cardini
di un ragionamento lascia la mente libera da ingombranti dettagli e permette di ricostruirne con
facilità i nessi che consentono di ri-completare il discursus che corre dall’ipotesi alla tesi.
È di grande utilità completare ogni dimostrazione con una “scheda riflessioni” che contenga almeno i seguenti elementi:
Quali sono i concetti coinvolti nell’enunciato;
Quali sono le idee cardine dell’argomentazione;
Dove giocano gli assiomi e/o i teoremi precedenti utilizzati.
È proprio conseguenza di questo tipo di lavoro la possibilità di dare un ordine gerarchico ai teoremi, collocandoli in successivi “strati” logici con esigenze di crescente complessità.
Così, ad esempio, nell’assiomatizzazione di Hilbert si trovano a livello 1 i teoremi relativi all’infinità dei punti di una retta e alla sua densità, come anche il teorema sugli angoli adiacenti ad angoli
congruenti e il 2° criterio di congruenza, mentre sono a livello 2 i teoremi sulle infinite rette passanti
per un punto e quello sugli angoli alla base di un triangolo isoscele.
Un aspetto particolarmente interessante di quest’ultima dimensione del pensiero è il binomio
rigore-libertà che può essere ben compreso proponendo prima e sollecitando poi dimostrazioni
diverse dello stesso teorema.
Il loro confronto ovvero la loro difesa quando esse siano esito di un lavoro originale intrapreso
dagli studenti, consente di vagliare coerenza, semplicità ed eleganza dei ragionamenti.
L’impegno nel cercare nuove dimostrazioni e nel prevedere quelle già scritte sui libri è una delle
tappe che possono portare alla consapevolezza che “la matematica sono io”.
In analogia con il modello informatico realizzato per la dimensione dei concetti, è didatticamente
utile progettare un nuovo ipertesto, più complesso del precedente, contenente una mappa deduttiva
con i teoremi disposti per livelli e cliccabili in modo da avere accesso agli enunciati, alla loro analisi
120
Parte terza. Matematica
(concetti - proposizioni) e alla dimostrazione contenente, a sua volta, link alle proposizioni di livelli
inferiori richieste.
Considerazioni conclusive
È molto istruttivo sorprendere gli stessi momenti logici in domini della matematica diversi dalla
geometria, mostrando come intervengono le tre dimensioni nella trattazione degli altri argomenti
sui libri di testo.
Vediamo solo un accenno a un esempio aritmetico: le potenze in N.
Negli anni cui ho proposto a studenti del biennio la geometria euclidea come delineato in queste
- Definizione del concetto: Chiamo potenza n-esima del numero naturale a il prodotto
-
di a per se stesso n volte e lo indico an: an=a·a….·a
(es. 23= 2·2·2=8)
n volte
-
Enunciazione di Proposizione:
-
Costruzione di Argomentazione: infatti
-
an=a·a….·a
n volte
a ·am = an+m; (es. 22·23 = 22+3 = 25).
n
, am=a·a….·a ,
m volte
an ·am= a·a….·a
n+m volte
pagine, ho constatato i seguenti punti di interesse.
L’esplicitazione dei tre momenti del pensiero razionale è stata incremento di consapevolezza nelle
potenzialità e nelle dinamiche della ragione di cui ognuno è dotato.
La dimensione del “Concetto” educa a un uso del linguaggio preciso e rigoroso.
La dimensione della “Proposizione” educa a una riflessione sul significato logico dei giudizi.
La dimensione della “Argomentazione” educa a cogliere e costruire nessi tra proposizioni. La padronanza della struttura logica incentiva libertà e immaginazione spingendo a cercare dimostrazioni
“migliori” (più semplici, più brevi, più eleganti …) degli stessi enunciati.
Tutte e tre le dimensioni hanno notevoli riscontri in altre discipline insegnate nel biennio.
L’introduzione delle schede di riflessione nelle argomentazioni fa maturare la consapevolezza che
un lavoro è compiuto non già quando raggiunge una conclusione, bensì quando “tesorizza” la fatica
svolta mettendo a fuoco gli aspetti cardine di quanto fatto.
Questo sforzo contribuisce a generare in una persona un assetto razionale solido e consapevole,
che inevitabilmente va a influenzare tutto lo studiato e il vissuto. Un giorno, una studentessa del
secondo anno mi disse: “Sa professore, da quando mi sono messa a studiare seriamente la matematica non sopporto più il disordine nella mia stanza.”
121
Parte terza. Matematica
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123
Parte III
Le quattro discipline
2. Scrittura
I contributi dell’area di scrittura
a cura di R. Paggi
Ragioni dello scrivere e gesto di scrittura come dialogo
Andrea Rocci
Il “filo del discorso”: congruità, coerenza e coesione
Maria Cristina Gatti
Progettazione e articolazione del testo: le fasi di elaborazione
Sara Cigada
L’assegnazione del compito: traccia o titolo?
Raffaela Paggi
Testi propedeutici alla scrittura
Daniela Notarbartolo
L’argomentazione: procedimenti, funzioni e ruolo educativo
Sara Greco Morasso
Preparando il tema argomentativo
Eddo Rigotti
Riferimenti bibliografici
I contributi dell’area di scrittura
a cura di R. Paggi
L’ipotesi con cui in questa sezione viene preso
in esame il problema della scrittura nella didattica è la sua significatività in ordine
all’incremento dell’autocoscienza e quindi al
costituirsi di un soggetto libero e ragionevole,
“capace di iniziativa nella realtà perché capace
di desiderare, essendo dotato di una ragione
che non è mero dispositivo logico, ma thymós,
secondo la bella metafora platonica di cuore,
quindi desiderio di crescita, di compimento,
di bene” (Gatti, in questo volume). Al fine di
verificare tale ipotesi i contributi indagano le
finalità dello scrivere e i criteri dell’organizzazione del testo scritto; le modalità con cui
l’impegno della scrittura interpella la ragione di
chi scrive e di chi legge; l’incremento categoriale
che può derivare dall’atto dello scrivere quando
non si limita al puro esercizio retorico, ma ha
scaturigine nell’implicarsi con una questione
degna di interesse alla quale chi scrive intende
dare una risposta personale e argomentata. In
apertura Andrea Rocci tratta la questione della
ragionevolezza del gesto dello scrivere a scuola
partendo da due considerazioni fondamentali:
in quanto atto, la scrittura ha le sue ragioni nel
suo scopo; in quanto atto comunicativo essa si
dà soltanto entro un dialogo. Definita la sensatezza del dialogo in rapporto alla nozione di
scopo condiviso, il contributo dimostra come
l’originarsi di uno scopo condiviso dipenda dalla
domanda del destinatario e dal rapporto tra
questa e l’interesse del destinatario e del mittente per un aspetto della realtà investito dallo
sguardo di entrambi. In relazione a questa dinamica vengono affrontate la definizione di temi,
titoli e tracce, la necessità di proporre agli allievi
figure credibili di destinatario e le conseguenze
dell’incertezza sul destinatario sui processi di
gestione del condiviso nel testo.
Dopo aver preso in esame le ragioni dello
scrivere e le conseguenze in ambito didattico di
una concezione di scrittura come attestazione
dell’esperienza, la sezione propone due contri126
buti che mettono a tema l’organizzazione del
discorso nell’atto di scrittura, individuando l’origine del principio organizzativo del testo nella
rispondenza teleologica dei costituenti testuali
alla finalità del testo stesso.
In tale organizzazione svolgono un ruolo
strategico i connettivi, che costituiscono il “filo”
del discorso, in quanto da essi dipendono la sua
coesione e la sua coerenza, ossia la sua congruità. Dopo aver messo in luce in che senso la
dinamica del connettivo testuale coincide con
l’attivazione di una ragione attenta all’oggetto
discorsivo nella sua totalità e, nel contempo, alla
totalità delle soggettività da esso implicate, il
testo di Maria Cristina Gatti si sofferma sui vantaggi di un uso consapevole dei connettivi per
l’attività di scrittura. Se educare alla scrittura è
accompagnare il giovane scrittore nella messa
in pubblico delle mosse della ragione, il compito
che si apre all’adulto sarà quello di osservare
come il giovane scrittore attivi la ragione nel testo, nella consapevolezza che lacune, incertezze,
sfasature, opacità sono in ultima analisi blocchi
di una ragione che necessita di essere aiutata ad
essere se stessa. L’attività di scrittura, attraverso
il rispetto esigito della congruità del discorso,
viene così a configurarsi come occasione di
esercizio dell’impegno critico e proprio in tale
invito alla criticità sta la destinazione di una
guida alla scrittura che possa dirsi autentica.
Sara Cigada, proseguendo nel discorso sulla
congruità del testo, ne sottolinea la dimensione
lineare di manifestazione. Il compito del testo
si realizza attraverso parole, disposte lungo
una linea scritta così come nel discorso orale si
succedono l’una all’altra nel tempo. Non è sufficiente però che il testo trasmetta in sequenza
gli elementi che si presentano alla ragione di
chi scrive: occorre che scrivendo si rappresenti
anche la disposizione reciproca di tali elementi
e la loro salienza. Il progetto del testo è dunque
il progetto di un oggetto di natura precisa e decisamente particolare: è il progetto di una linea,
Parte terza. Scrittura
di cui occorre far emergere l’articolazione. Due a
tale proposito gli aspetti rilevanti: l’articolazione è affidata sia a elementi che appartengono
alla linea stessa (connettori), sia a elementi
metadiscorsivi, in particolare l’interpunzione
e la paragrafazione. A partire da esempi tratti
da temi degli studenti, il contributo mostra in
che modo l’articolazione possa essere realizzata
attraverso tali elementi, con quali effetti e con
quali problemi.
Prosegue la riflessione sulla didattica il testo
della sottoscritta, che affronta la questione del
ruolo del titolo del tema attraverso l’analisi di
alcune tracce realmente assegnate in ambito
scolastico, con lo scopo di trarre suggerimenti
utili per una formulazione delle consegne consapevole ed efficace, non coercitiva, ma rispettosa della libertà del dirsi dello studente, tesa a
favorire la crescita dell’autocoscienza nell’attività dello scrivere. Condizioni affinché il tema sia
occasione di crescita dell’autocoscienza e di conoscenza sono la presenza di parole chiave nelle
tracce dei temi, volte a indirizzare il giovane
scrittore nell’organizzazione del testo-risposta;
la chiarezza nel porre i termini del problema
da affrontare; l’indicazione dei tipi testuali
attraverso i quali è conveniente comunicare il
proprio tentativo di svolgimento del discorso; il
suggerimento di strategie finalizzate a reperire
argomenti validi per attestare il proprio ragionamento e il proprio giudizio intorno all’oggetto di
conoscenza.
Daniela Notarbartolo, dopo essersi soffermata
su alcuni tipi discorsivi dominanti nella scrittura
scolastica, propone alcune strategie didattiche
volte a favorire, attraverso precise consegne in
ordine alla coerenza e alla coesione, la riorganizzazione dell’esperienza e la sua attestazione,
mediante l’uso di testi propedeutici, i cosiddetti
praeexercitamina, ossia scritti su consegne
vincolate di carattere sintattico o tematico, che
non si vuole rimangano confinati nel limbo del
non senso.
L’ultima parte della sezione è dedicata al
testo argomentativo, di cui si approfondisco-
no lo scopo, la natura e le strategie didattiche
finalizzate alla sua produzione.
Il contributo di Sara Greco Morasso mette
l’accento sugli strumenti fondamentali dell’argomentare, volti alla costruzione di argomentazioni solide, personali, ancorate al condiviso
dei soggetti coinvolti. L’argomentazione richiede
innanzitutto la presa di posizione (tesi) rispetto a un problema emerso nella realtà (issue);
tale presa di posizione implica un soggetto che
accetti il rischio di confrontarsi con il problema,
riconoscendone l’interesse. Perché ci sia argomentazione occorre poi un processo di verifica
critica della posizione stessa, nel dialogo con se
stessi e con altri, portatori di posizioni diverse.
In questo dialogo, la tesi deve essere supportata
da ragioni (argomenti), la cui fondatezza deve
essere vagliata rispetto alla forza e coerenza
logica del ragionamento (componente procedurale) e alla conoscenza dell’oggetto reale di cui
si discute (componente materiale).
Eddo Rigotti, partendo dal presupposto che
l’argomentazione innervi tutte le sfere della nostra cultura e determini il tasso della sua ragionevolezza, che la qualità dell’interazione umana
sia garantita quando non si scambiano solo le
tesi, ma anche le ragioni, che nell’interazione
argomentativa tesi e ragioni si sottopongano
allo scrutinio della ragione dell’altro, propone
alcune modalità volte a favorire la competenza
argomentativa degli studenti. Nella preparazione
è detto essere utile innanzitutto distinguere uno
sfondo, che punta a creare un certo gusto per
l’argomentare e a fornire gli strumenti linguistici e discorsivi richiesti e un primo piano, in
cui figura la scelta della tematica, la quale deve
essere nota, problematica, interessante.
Il contributo offre importanti suggerimenti
per l’affinamento della competenza argomentativa, quali l’apprendimento del lessico dell’argomentazione, l’uso delle domande critiche e dei
luoghi argomentativi e il dominio dell’organizzazione del discorso argomentativo a partire da
una rilettura delle partes orationis della retorica
classica.
127
Ragioni dello scrivere e gesto
di scrittura come dialogo
Andrea Rocci
Perché si scrive a scuola?
In questa relazione cercherò, in primo luogo, di dare alcuni elementi di risposta alla domanda
perché si scrive? Cercherò, inoltre, di specificare questa domanda rispetto al contesto della scuola:
perché si scrive a scuola? Come indicato anche dal titolo della relazione, il perché non va inteso,
in queste domande, in senso causale: quali sono le cause dello scrivere. Non si vuole indagare quali
siano gli antecedenti sociologici o cognitivi dello scrivere ma riflettere sulle ragioni di un’azione, le
ragioni del gesto di scrittura.
È utile distinguere questa domanda sulle ragioni dello scrivere da quella, messa a tema in altre relazioni, del dispiegarsi della ragione nel testo scritto, ossia dal modo in cui il testo scritto manifesta,
in modo più o meno sincero, obbediente, trasparente e coerente l’articolazione del reale, così come
è colto nell’esperienza. A maggior ragione, la questione che trattiamo va distinta dalla domanda
sull’argomentazione, ossia sul particolare modo in cui il testo scritto può mostrare quel percorso
della ragione che è l’inferenza e, mostrandolo, proporlo alla ragione dell’interlocutore.
Distinguiamo quindi la ragionevolezza pragmatica del gesto di scrivere, dalla ragionevolezza semantica dei contenuti di un testo, e quest’ultima dalla solidità argomentativa, che riguarda soltanto
alcuni testi – quelli che assumono impegno argomentativo. Questi tre livelli sono indubbiamente
connessi, come mostrano altri interventi in questo volume, ma per cogliere i relativi nessi occorre
prima distinguerli.
Due considerazioni preliminari permettono di circoscrivere meglio il problema delle ragioni dello
scrivere. La prima è che lo scrivere è un’azione, e quindi occorre considerare le ragioni su cui si basa
un’azione. La seconda è che occorre tener conto della specificità dell’azione dello scrivere, cioè del
fatto che si tratta di un’azione comunicativa.
Le ragioni di un’azione
Su che tipo di ragioni si basa un’azione? Il ragionamento pratico – ossia orientato all’azione
– si basa necessariamente su premesse di tipo diverso, semanticamente ed epistemologicamente
eterogenee. Per esempio, se dico che andrò a passeggiare in giardino perché ha smesso di piovere
è indubbio che la descrizione fattuale “ha smesso di piovere” svolga un ruolo di premessa nel mio
ragionamento. È altrettanto indubbio, però, che le descrizioni fattuali non sono sufficienti a render
ragione di un’azione. Un ruolo essenziale è giocato anche da premesse che esprimono generalizzazioni di tipo causale (banalmente: ‘sotto la pioggia ci si bagna’). Né le prime, né le seconde sono però
specifiche del ragionamento pratico: potrebbero trovarsi, per esempio, in un ragionamento volto a
sostenere una spiegazione scientifica. Inoltre, descrizioni fattuali e generalizzazioni causali, insieme,
non sono sufficienti a render ragione di un’azione. Un altro tipo di premesse emerge come specifico
del ragionamento pratico: lo scopo (Rigotti 2008). Secondo la formula aristotelica e tomistica omne
quod agit, agit propter finem (Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 22 a. 1 s. c. 3).
Un primo livello di razionalità dell’azione emerge quando l’azione è adeguata al raggiungimento
128
Parte terza. Scrittura
in rapporto a una gerarchia di scopi (gerarchia teleologica). Per esempio, l’uso di un veleno potentissimo come mezzo di derattizzazione è irragionevole, non perché non uccida i topi (realizzazione
del fine immediato), ma perché rischia di uccidere anche le persone. Dunque possiamo riformulare
così la domanda iniziale: a quali scopi risponde la scrittura a scuola? Il che significa anche chiedersi
quando essa sia pienamente adeguata rispetto alla gerarchia dei fini (quando non finisce per derattizzarci tutti).
Natura dialogica dell’azione comunicativa
La scrittura è un’azione comunicativa. Qualunque sia il suo fine ultimo, esso viene realizzato
sempre attraverso la comunicazione. Per esempio, se scrivo per convincere la gente a comprare
aspirapolveri, il mio fine ultimo (vendere aspirapolveri) si realizzerà solo attraverso la realizzazione
di un fine intermedio, di natura comunicativa. E la comunicazione è un tipo molto particolare di
azione. Anzitutto, non è un’azione che si possa fare da soli: se il mio interlocutore non ha ascoltato,
capito, risposto (cioè preso posizione rispetto a ciò che ho detto) la comunicazione non è avvenuta.
Due tradizioni teoriche elaborano una riflessione in parte convergente su questa specificità dell’agire comunicativo: il dialogismo bachtiniano, e il filone di ricerche incentrate sulla comunicazione
come joint action (azione congiunta), che emerge dalla pragmatica – una corrente di pensiero sul
linguaggio e la comunicazione sviluppatasi nella seconda metà del Novecento in ambito anglosassone, i cui fattori decisivi erano già stati però anticipati da alcuni linguisti e filosofi dell’Ottocento,
soprattutto tedeschi, tra i quali spicca, per profondità di coscienza, Philipp Wegener (1991).
Bachtin: la comprensione responsiva
Per Michail M. Bachtin ogni atto comunicativo racchiude in sé una dimensione dialogica: da una
parte esso si orienta verso una risposta del destinatario, dall’altra esso si riallaccia inevitabilmente
alle enunciazioni che lo hanno preceduto. Sviluppo qui primariamente il primo versante del dialogismo.
Ogni nostro enunciato, dice Bachtin, si orienta verso una risposta (esplicita o implicita, immediata
o differita) del partner della comunicazione. Il destinatario ha quindi nel nostro enunciato un ruolo
attivo, non è un terminale passivo, un bersaglio. La comprensione stessa dell’enunciato è da intendere più come una risposta dell’altro, che come la riproduzione nella mente dell’altro dei concetti
che si trovavano nella mente del parlante. La comunicazione non è un trasbordo o travaso concettuale. Essa implica, invece, ciò che Bachtin chiama comprensione responsiva:
“In effetti, l’ascoltante, percependo e comprendendo il significato (linguistico) d’un discorso,
contempo­raneamente assume nei riguardi di esso una posizione responsiva attiva: è in accordo o in
disaccordo (del tutto o in parte), lo integra, lo applica, si prepara a eseguirlo, ecc.; e questa posizione
responsiva dell’ascoltante si forma nel corso di tutto il processo dell’ascolto e della comprensione,
fin dal suo inizio, a volte letteralmente fin dalla prima parola del parlante. Ogni comprensione d’un
discorso vivo, d’una viva enunciazione ha un carattere attivamente responsivo (anche se il grado di
questa attività può variare assai); ogni comprensione è pregna di una risposta e, sotto una forma o
sotto un’altra, la genera immancabilmente: l’ascoltante diventa il parlante. La comprensione passiva
dei significati del discorso sentito è soltanto il momento astratto della reale e globale comprensione
attivamente responsiva, che si materializza nella successiva risposta reale ad alta voce.” (Bachtin 1988:
254-255).
Altrove Bachtin afferma che non bisogna pensare alla comprensione e alla risposta come a due
129
Parte terza. Andrea Rocci
momenti distinti e successivi: la comprensione si sviluppa come se a ogni parola che noi incontriamo
nel processo di comprensione noi facessimo corrispondere delle nostre parole di risposta, e quanto
più ricca è la risposta tanto più sostanziale e profonda sarà la comprensione. Il nostro discorso chiede la risposta del destinatario, si orienta verso la sua comprensione responsiva, ne tiene conto, cerca
di anticiparne il percorso, di indirizzarla.
La comunicazione come azione congiunta
L’idea della comunicazione come joint action (“azione congiunta”) viene da una lunga tradizione,
ma si è cristallizzata negli ultimi due decenni nella formulazione dello psicologo H.H. Clark (1996).
Per Clark ogni enunciato implica la messa in gioco di un’intenzione condivisa, di uno scopo comune
che uno dei partecipanti propone e che l’altro accetta o rifiuta. Questa dinamica si attua tanto al
livello delle unità minime del dialogo, come, per esempio una coppia domanda-risposta, che di interi
episodi d’interazione. La sensatezza, la ragionevolezza di un dialogo dipende quindi dalla definizione e dall’accettazione di uno scopo condiviso. Per esempio, se sono in una città straniera e chiedo
un’indicazione a un passante, gli propongo un compito, assegno a lui e a me stesso un ruolo, e a
entrambi un compito: a me il compito di specificare dove voglio andare, a lui il compito di dirmi per
dove devo andare. Se questo scopo viene accettato e diviene condiviso, le successive battute del
dialogo verranno interpretate in relazione a esso. La loro ragionevolezza viene allora a consistere
nella loro rispondenza – o, più precisamente, congruità – come rispondenza al compito condiviso.
Si pensi al non-senso comico di Totò (in Totò, Peppino e... la malafemmina) quando chiede al vigile:
(1) Scusi, noi vogliamo sapere per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?
Lo stesso approccio può essere applicato al testo scritto. Chi scrive – per esempio, una guida
turistica – presuppone l’esistenza di scopi condivisi dal destinatario e a partire da questo elabora
un progetto condivisibile di realizzazione di questo scopo, cercando di anticipare la risposta del
destinatario a diversi livelli.
In relazione agli scopi condivisi emergono tre fenomeni che influiscono profondamente sulle
pratiche di scrittura:
1 – Spesso i luoghi sociali, ossia i campi d’interazione (Rigotti e Rocci 2006), si caratterizzano per
scopi condivisi e compiti predefiniti. Uno sportello di informazioni turistiche pre-definisce a livello
istituzionale lo scopo condiviso che invece devo negoziare con il passante. Si tratta di uno scopo cui
l’impiegato s’impegna per una ragione professionale. L’impiegato agisce per conto della destinazione turistica, ne diviene l’agente. La comunicazione spesso si caratterizza per contesti organizzativi,
istituzionali, in cui delle persone s’impegnano a condividere certi scopi.
2 – Spesso gli scopi che si condividono con l’interlocutore nell’interazione non sono gli scopi
ultimi, ma degli strumenti per raggiungere degli altri scopi. Quali sono gli scopi della destinazione
turistica? Dietro questo soggetto ci sono diversi soggetti (comune, albergatori, ecc.) portatori d’interesse (in inglese stakeholders), che desiderano aumentare la presenza di turisti in un certo luogo,
fidelizzarli, ecc. Fornire informazioni ai turisti non è un fine ultimo, ma un mezzo.
3 – La nozione di genere del discorso – altro contributo teorico che dobbiamo a Bachtin – emerge
proprio in rapporto alla rilevanza di certi scopi condivisi in un dato campo d’interazione. Il dialogo
allo sportello delle informazioni o la guida turistica sono dei generi nella misura in cui corrispondono
a ricette standard, pacchetti di scelte prefabbricate, con cui, entro un certo campo d’interazione, si
è soliti rispondere a certi compiti comunicativi ricorrenti.
130
Parte terza. Scrittura
Dagli scopi condivisi alla pedagogia della scrittura funzionale
I tre fenomeni sopra citati contribuiscono a definire le ragioni di un ambito molto vasto di pratiche di scrittura. Si tratta dei generi della scrittura funzionale tipici degli ambiti professionali,
organizzativi, istituzionali. Sebbene il termine scrittura funzionale – ossia non artistica, né orientata
alla costruzione del sapere – sia spesso associato all’idea di una scrittura banale e standardizzata,
non va dimenticato che quest’area può includere produzioni testuali di notevole complessità, anche
argomentativa, orientate alla decisione nei diversi ambiti.
Il lavoro sulla scrittura funzionale può illuminare (in parte per contrasto, in parte per analogia)
il lavoro sulla scrittura a scuola. Nell’ambito della pedagogia della scrittura funzionale sono state
fatte diverse esperienze interessanti. Ne cito una, sviluppata di recente entro il triennio di Scienze della comunicazione a Lugano e documentata in un articolo di Sabrina Mazzali-Lurati (2011).
L’idea centrale è che chi scrive entro un contesto organizzativo non debba limitarsi a realizzare
un’azione congiunta col suo destinatario, ma debba costruire il suo compito comunicativo tenendo
conto delle domande esplicite ed implicite di una serie di portatori d’interesse (stakeholder), che
includono tanto il destinatario, quanto la committenza, le istanze di controllo e regolamentazione,
tutti coloro che pur non essendo destinatari si trovano esposti e reagiscono a un testo pubblico,
nonché chi controlla, a vario titolo, i canali di diffusione del testo. Tutte queste persone hanno un
interesse verso il testo, sono portatori di esigenze. In un percorso di studi universitari che è orientato anche alla professione un lavoro di costruzione di testi appartenenti a generi funzionali che
tenga conto, soprattutto a livello dell’inventio, di questa rete di portatori d’interesse può giocare un
ruolo importante. Spesso si tratta anche di un’esperienza di ribaltamento completo d’orizzonte per
studenti ancora immersi in una concezione decontestualizzata e “romantica” della scrittura, vista
come “processo creativo senza limiti, in cui l’autore scrive con il solo scopo di esprimere se stesso”
(Mazzali-Lurati 2011). Fare i conti con gli altri e le loro esigenze, e in più con le restrizioni materiali
e le convenzioni, associate ai diversi generi, può produrre nei casi più felici un momento prezioso di
sincerità, in cui lo studente mette in gioco la sua ragione dentro una circostanza data2. Si tratta di
un’esperienza che ha un valore educativo oltre che formativo.
Sincerità e simulazione
La modalità precisa con cui questo lavoro viene attuato può risultare però decisiva. Per ovvie ragioni di fattibilità un laboratorio di scrittura deve contemperare lavori in cui la committenza è reale
a simulazioni di scenari fittizi, basati su di una sorta di gioco di ruolo.
È questo un funzionamento pedagogico tutt’altro che nuovo alla storia della scuola, che fin
dall’antichità è stata vista (anche) come ludus litterarum, una simulazione che prepara alla vita. Per
gli antichi la pedagogia della scrittura passava attraverso i praeexercitamina (gr. progymnasmata):
una progressione di esercizi di composizione atti a preparare l’oratore al compito di difendere una
causa. All’interno del trivium essi preparavano al passaggio dalla grammatica alla retorica. Siamo
qui di fronte a una progressione di esercizi – fabula, narratio, usus, sententia, refutatio, locus com2 Questo tipo di pedagogia comporta anche dei rischi che sono emersi nell’esperienza didattica di Sabrina MazzaliLurati e che sono stati oggetto di una riflessione, cui ho avuto la fortuna di partecipare, in una serie di conversazioni con
Sabrina ed Eddo Rigotti. Se, specialmente negli studenti più maturi, la presenza insistita degli stakeholder e la necessità
di tener conto di restrizioni materiali e convenzionali possono produrre un momento di sincerità, in altre situazioni esse
possono contribuire, paradossalmente, alla percezione di spossessamento dello studente, che, di fronte a richieste ed
esigenze, finisce per sentirsi mero esecutore e cessa di percepirsi lui stesso stakeholder del testo: l’unico non interessato
in mezzo a una rete di interessi. Emerge quindi, anche nel contesto della didattica universitaria, la pertinenza di quanto
si dice sulla scrittura a scuola nell’ultima parte di questo articolo.
131
Parte terza. Andrea Rocci
munis, laus, conparatio, adlocutio, descriptio, positio, legis latio3 – che rappresentano altrettanti
generi scolastici.
Una volta completati con successo questi esercizi, che – con l’eccezione della descrizione – progrediscono gradualmente da testi narrativi o parzialmente narrativi (per esempio l’usus) a testi
argomentativi via via più complessi, l’alunno si sarebbe potuto dedicare alla composizione di una
vera e propria orazione retorica, cioè del genere di testo effettivamente utilizzato nella vita sociale.
Insomma, questi esercizi sono informati da un principio ludico: la simulazione di compiti comunicativi via via più complessi e vicini al compito vero che si dovrà affrontare nella vita professionale.
Quello che Sabrina Mazzali-Lurati ed io abbiamo potuto riscontrare nel laboratorio di scrittura
funzionale in università è che la simulazione, pur utile, difficilmente permette quei momenti di sincerità di cui dicevo prima. O meglio li permette solo ai livelli più tattici di controllo formale e di adeguatezza di genere. A un livello più globale, strategico, niente può sostituire la responsabilità verso
un committente reale. I no del gioco non vengono presi sul serio, e i successi non danno la stessa
gioia. Questo dato forse non è sorprendente, ma è interessante soprattutto se si pensa che riguarda
degli studenti che sono affettivamente e immaginativamente proiettati in un futuro professionale
sognato, desiderato, talora angosciosamente anticipato. Fingere di avere un compito comunicativo
e un destinatario non è la stessa cosa che averli.
Qual è lo scopo condiviso dello scrivere a scuola?
Il percorso fatto fin qui contiene già alcune provocazioni per ripensare le ragioni dello scrivere
a scuola: come ogni atto la scrittura è ragionevole solo se ha uno scopo (condizione necessaria ma
non sufficiente) e, in quanto atto comunicativo, deve rispondere a uno scopo condiviso con il suo
destinatario. Inoltre per l’atto dello scrivere simulare uno scopo comunicativo non è la stessa cosa
che averlo. È naturale, a questo punto, domandarsi quale possa essere lo scopo comunicativo della
scrittura a scuola in generale e, in particolare, per il più centrale tra i generi scolastici, ossia per il
tema.
L’esperienza della scrittura funzionale può aiutare, in parte, a rispondere a questa domanda, ma,
come vedremo, non per quanto riguarda il tema, cosa che ci costringe a un passo ulteriore nella
nostra disamina delle ragioni dello scrivere.
Che cosa può imparare la scuola dalla pedagogia della scrittura
funzionale?
Uno spunto di lavoro che ci viene da questa esperienza, tutto da verificare, è il seguente: è possibile costruire a scuola dei momenti di laboratorio di scrittura in cui vi siano dei destinatari chiaramente identificabili (oltre all’insegnante), una committenza, dei vincoli di produzione del testo?
Un esempio – molto impegnativo – potrebbe essere il lavoro di scrittura entro la preparazione di
una mostra a pannelli come punto di arrivo di un lavoro interdisciplinare. Ci sarebbero dei destinatari: i potenziali visitatori della mostra che potrebbero coincidere, a seconda dell’occasione di esposizione con l’intera comunità scolastica (genitori inclusi). Ci sarebbe una committenza: il professore
di scienze, arte, storia e filosofia. Ci sarebbero dei vincoli materiali e formali: lunghezza, struttura,
relazione tra il testo e l’immagine nel pannello. Un lavoro di questo tipo offre alla scrittura un contesto vitale, in cui si confronta con un oggetto, un compito, delle altre persone.
Un’altra ipotesi praticabile in alcuni contesti scolastici è la collaborazione degli studenti alla re3 Riporto qui la serie proposta dal grammatico latino Prisciano, che riprende quella del retore greco Ermogene.
132
Parte terza. Scrittura
dazione di una newsletter scolastica insieme ad adulti (insegnanti, genitori, sostenitori della scuola).
Questo offrirebbe ai ragazzi la possibilità di intervenire entro un contesto, un campo d’interazione
reale, non simulato, in cui la loro esperienza è significativa per altre persone: per esempio per possibili futuri studenti o per i loro genitori.
La dimensione ludica, infine, non va del tutto espunta dal laboratorio di scrittura. Essa può essere
conservata ponendo l’accento su quegli aspetti che rimangono inevitabilmente sinceri, veri anche
nel ludus: gli aspetti formali (pensiamo alla palestra di impegno formale della ragione rappresentata dal gioco delle carte all’osteria per le generazioni che ci hanno preceduto!). Perché allora non
chiedersi com’è fatta una buona didascalia che accompagna un’immagine e in cosa differisce da
una descrizione che deve sostituirla? Questo lavoro potrebbe essere legato a un progetto come la
mostra, oppure essere semplicemente legato alla scoperta degli strumenti del lavoro scolastico che
sono i libri di testo. Tentativamente non escluderei da questa dimensione ludica le forme letterarie.
Per esempio, è veramente impensabile provare a scrivere un sonetto – o un’altra forma metrica
chiusa? Mi chiedo: non sarebbe invece un momento di sincera esperienza di un aspetto, limitato e
parziale, ma reale dell’oggetto letterario?
La scrittura funzionale può, da un lato, aiutarci a ricollocare il gesto dello scrivere in un campo
d’interazione, il che vuol dire ricollocarlo in un luogo vivo di relazioni tra persone caratterizzate sia
da personali interessi che dall’impegno in progetti condivisi. Nel caso della scuola si tratta di un
campo d’interazione tutto particolare: la comunità educante che condivide un progetto educativo e
s’impegna per realizzarlo (Rigotti 20091, in particolare il Cap. 2).
Dall’altro lato, il lavoro sulla scrittura funzionale, anche solo a livello ludico, aiuta a riscoprire la
dimensione di design della scrittura (perfectio prima), il gusto per l’oggetto ben fatto che si è perso
quando un Romanticismo scadente ha squalificato la dimensione artigianale della letteratura.
Il tema e lo scopo della scrittura a scuola
Gli spunti di lavoro evocati finora non intaccano le pratiche di scrittura più centrali per la scuola
e, in particolare, il tema che non è né una scrittura funzionale, né un esercizio ludico preparatorio
o euristico. È naturale a questo punto chiedersi quali sono gli scopi di una pratica di scrittura quale
il tema. Rigotti (2009: 150) scrive: “È frequente, anche fra persone distintesi poi nella vita per una
notevole capacità di scrittura, riconoscere di aver avuto un rapporto inautentico con il tema”.
Rigotti (2009: 150) definisce che cosa dovrebbe essere un buon tema: “Un testo che risponda in
modo autenticamente personale, ossia argomentando con correttezza logica e adeguatezza espositiva sulla base della propria effettiva esperienza, a domande non banali”. Il fine educativo di questa
pratica chiaramente eccede la formazione alla scrittura per fini comunicativi particolari. Non si tratta qui, in ultima analisi di efficacia e correttezza comunicative, ma della maturazione critica della
categorialità dell’allievo. Ciò che è in gioco in modo privilegiato in questa pratica scrittoria, sebbene
non esclusivamente in essa, è il discrimine tra la trasmissione critica e quindi libera di saperi e valori
e una forma violenta o velleitaria di “riproduzione culturale”. Ora, non è questo uno scopo da cui si
possa ragionevolmente dedurre un compito comunicativo per l’allievo; si tratta, infatti, di uno scopo che non può essere raggiunto se non viene liberamente riconquistato. Se in questa prospettiva
risulta assurda la prospettiva della simulazione – come mostra (2) – altrettanto lo è quella dell’assunzione “contrattuale” dello scopo condiviso reale – come evidenziato dall’esempio (3):
(2) Immagina un po’ di prendere posizione rispetto alla realtà, ti servirà saperlo fare nella vita.
(3) La tua mansione qui – il tuo “job” – è sviluppare la tua ragione.
Infine, le scorciatoie autoritarie, ancorché cariche di sentimento, sono pericolose. Il non-senso
133
Parte terza. Andrea Rocci
di certi imperativi come Stupisciti! o Sii libero! dovrebbe farci riflettere sulla delicatezza di questo
passaggio. Pensiamo, a questo proposito, alla violenza e alla stupidità della scena del film L’attimo
fuggente (di Peter Weir, 1989) in cui il professor Keating (Robin Williams) fa strappare agli alunni
l’introduzione dell’antologia per poi soggiungere: “E ora, miei adorati, imparerete di nuovo a pensare
con la vostra testa”: ecco un insegnante-guru, tutto sentimento, che ci ingiunge di essere liberi.
Il tema: interesse e domanda
Per capire il tema occorre andare oltre la presenza di uno scopo condiviso tra mittente e destinatario nel dialogo ed esaminare il suo costituirsi. Con un gioco di parole possiamo dire che dobbiamo
risalire alla funzione pragmatica di tema. Nella tradizione dell’analisi funzionale dell’enunciato –
una tradizione che si sviluppa con il Circolo Linguistico di Praga, ma che risale a studiosi francesi e
soprattutto tedeschi del XIX secolo tra i quali ho ricordato prima Wegener (1991) – il tema è un segmento dell’esperienza condivisa del mittente e del destinatario che è oggetto della loro attenzione
congiunta perché carico di interesse, e che, in quanto tale, può divenire oggetto di un’enunciazione.
Molte volte nel dialogo il tema non ha bisogno di essere verbalizzato perché è immediatamente
evidente nella situazione o estremamente saliente nella memoria degli interlocutori: apro la finestra
sulle montagne e dico: “Che bello!” oppure: “Piove ancora!” Ancora, posso dire semplicemente: “È
arrivato”, se il tema del mio enunciato è qualcuno che stavamo aspettando con trepidazione. In
altri casi, invece, possiamo avere un’esplicitazione del tema. Questa può avvenire monologicamente
attraverso quella che Wegener (1991: 19 ss.) chiamava Exposition, una messa a tema più o meno
sviluppata:
(4) Ignazio è arrivato
oppure
(5) Ti ricordi del figlio della Giuseppina, quello che era emigrato in Australia? Ecco, è tornato.
A livello di un testo esteso, composto da più enunciati, il titolo può funzionare come Exposition
del tema. Ma non tutti i titoli sono dei temi (per esempio i titoli degli articoli di giornale sono dei
riassunti della notizia, vi possono poi essere dei titoli-tesi, e altri tipi ancora).
Alternativamente la definizione del tema può avvenire dialogicamente, attraverso una domanda
del nostro interlocutore:
(6) Che tempo ha fatto ieri? Ieri è piovuto.
Oppure
(7) Quando è piovuto? È piovuto ieri.
La domanda non si limita a indicare all’interlocutore un oggetto d’interesse: essa individua anche un’indefinitezza, una carenza rispetto a questo oggetto d’interesse e indica all’interlocutore un
compito che predefinisce, sebbene in modo non meccanico, la classe dei testi sensatamente rispondenti (Rigotti 1991). Un enunciato come
(8) Avresti dovuto vedere che temporale! Grandinava pure
non è una risposta alla domanda Quando è piovuto? sebbene essa agganci, in qualche modo, il
tema, ossia la pioggia che c’è stata.
Nella scrittura scolastica questo ruolo di definizione del tema e del compito comunicativo avviene, dialogicamente, attraverso il titolo o traccia formulato dall’insegnante.
Rimane aperta una questione essenziale: se si escludono le motivazioni estrinseche, quali sono le
ragioni per far proprio un tema e rispondere alla domanda? Le ragioni sono fondamentalmente due,
sempre presenti seppure in diversa misura:
(a) La prima, evidenziata proprio da Wegener, è un interesse benevolo per l’altro, il volergli bene,
e quindi il desiderio di fare quello specifico bene che consiste nel rispondere alla domanda.
134
Parte terza. Scrittura
(b) La seconda è l’interesse per il tema, che viene rimesso in gioco dalla domanda. La domanda
dell’interlocutore diventa anche una domanda per l’autore del testo con la conseguente esigenza di
elaborare una risposta per sé. Una domanda sincera, non banale, attorno a un oggetto d’interesse
condiviso può interpellare l’esperienza e attivare la categorialità dell’autore rivelandone aspetti
nuovi, che erano ignoti all’autore stesso.
Non solo queste due ragioni sono sempre presenti, esse si rafforzano l’una con l’altra: il rapporto
con l’altro cui voglio bene, l’interesse che l’altro porta per il tema rafforza il mio interesse per il
tema. In particolare aiuta a sconfiggere il sospetto che questo interesse sia fallace, che il desiderio
suscitato in me dall’oggetto deluda. Una domanda sincera aiuta ad aver stima della propria ragione,
della propria capacità di giudizio, del valore della propria esperienza.
Il tema, quindi, inevitabilmente sfida il docente a un rapporto autentico con gli alunni: egli è la
persona che ha fatto la domanda ed è anche il concreto destinatario del testo che l’alunno produce.
È questo rapporto il punto concreto in cui si decide la ragionevolezza del testo a livello pragmatico.
Tocco qui una questione che va ben al di là dello scrivere, ma sta al cuore dell’educazione (Si veda
su questo punto Rigotti 20091: 86-107).
Il destinatario del tema: lettore implicito e uditorio universale
Le implicazioni didattiche della funzione di domanda realizzata da titoli sono trattate in modo
più puntuale nella relazione di Raffaela Paggi4. Nella parte finale del presente lavoro vorrei invece
concentrarmi su di un corollario di quanto detto, che permette di recuperare diversi momenti del
percorso fatto sino a qui. Si tratta del modo in cui il tema dovrebbe costruire il suo destinatario,
orientandosi alla sua comprensione responsiva, ossia della questione del lettore implicito del tema.
Alla luce di quello che abbiamo detto sull’originarsi del senso del testo, il lettore implicito cessa
di essere un device semiotico tra gli altri, una delle tante voci o maschere messe in scena dal testo.
Si pone infatti il problema del rapporto, non meccanico, ma comunque congruo, tra questo “ruolo
attanziale” (Eco 1979) e il concretissimo destinatario che è l’insegnante.
Potrà magari essere un ruolo vuoto in un testo ludico come Se una notte d’inverno un viaggiatore
di Calvino, il cui principale aggancio con il reale, l’unico serio oggetto d’indagine e d’interesse, è
il meccanismo stesso della narrazione. In un tema o il lettore implicito è traccia sostanzialmente
fedele di quel rapporto reale in cui chi educa e chi impara si coinvolgono con un oggetto d’interesse,
oppure è una spia di quella insincerità di cui dicevamo prima.
Vorrei osservare alcuni esempi, tratti da temi, che ci mostrano come la costruzione del lettore
implicito nei temi sia tutt’altro che ovvia:
(9.a) Un esempio di una giornata rivoluzionata da un piccolo segno può essere oggi, infatti un mio
compagno mi ha chiesto se GS avrebbe organizzato una vacanza per Pasqua.
L’insegnante corregge questo passo e la correzione riguarda proprio la costruzione del lettore
implicito:
(9.b) [GS] > Di cosa si tratta? Devi dare a chi legge tutti gli elementi per capire. Non dare per scontato ma spiega sinteticamente di che cosa stai parlando. Chi non vive la tua stessa esperienza deve
essere messo nelle condizioni di poter capire.
È giusta questa correzione? Probabilmente l’insegnante, che abbiamo detto essere il destinatario
concreto del tema, sa di che cosa si sta parlando. Se l’alunno avesse scritto una lettera all’insegnante
– credo e spero non accada troppo spesso – non ci sarebbe stato nessun problema. Perché, allora,
questa insistenza su un lettore implicito che non vive la tua esperienza?
Vediamo un altro esempio. Un’alunna scrive in un tema che forse io non avrei dato: Un quattro
4 Paggi R., L’assegnazione del compito: traccia o titolo?, nel presente volume.
135
Parte terza. Andrea Rocci
in italiano o in matematica può essere un’esperienza positiva. Argomenta la tesi data. […]. L’alunna
scrive un tema sbarazzino, di cui riporto due brevi passaggi:
(10.a) Passo ora alla categoria opposta quella che prevede personaggi innominabili se non si vuol
causare catastrofi, urla di gente e fuga di compagni: mi riferisco ai così chiamati “caproni”. Questa
“specie” presenta alunni teppisti, o anche studenti tranquilli […]
(10.b) […] Caro lettore, sai cos’è un voto? Un voto non è che un giudizio personale da parte di un
insegnante sul lavoro svolto […]
Nella sua valutazione complessiva l’insegnante commenta:
(10.c) Il tono colloquiale si adatta all’argomento e all’autrice (non si dovrà usare sempre, però).
Chi è il “caro lettore” che non sa che cos’è un voto, e che evidentemente non si identifica con
l’insegnante? E perché il tono colloquiale non dovrà essere usato sempre?
Questi esempi e queste correzioni, che ritengo, in realtà, molto ragionevoli, ci fanno capire che
l’insegnante è sì il destinatario concreto del tema, ma non lo è in quanto individuo destinatario di
un messaggio privato. Lo è nel suo ruolo, nella sua capacità di insegnante. Sebbene la parola ruolo
possa farci storcere il naso, per una sua associazione a una concezione burocratica dei rapporti e a
una inautenticità di fondo, essa è utile per significare che la persona dell’insegnante è lì, tutta intera
sì, ma per fare scuola.
Il destinatario del tema non è mai l’insegnante da solo – non è una lettera privata! – ma l’insegnante in quanto concreto, vivace, credibile rappresentante di una comunità educante che ha
molti stakeholder (gli altri docenti, il preside, i compagni, i genitori, ecc.) e uno scopo condiviso
che si dettaglia in un progetto educativo. Scrivendo il tema lo studente partecipa con l’insegnante
all’impresa della scuola, un’impresa che ha come ogni impresa i suoi stakeholder che comprendono
i compagni, i genitori, ma anche l’intera società che affida all’istituto della scuola un compito delicato. L’insegnante, quindi è lì con la sua persona e la sua partecipazione anche affettiva alle risposte
che lo studente elabora, ma non da privato cittadino. Il “tono colloquiale” dell’esempio (2) si adatta
a certe occasioni, certi momenti del fare scuola – possiamo facilmente immaginarlo in un momento
divertente, di recita, alla festa di fine d’anno, magari davanti ai genitori – ma ha il fiato troppo corto
per il compito che si affida alla scuola. Possiamo, infine, domandarci perché sia necessario insistere
nella correzione di (1) su di un destinatario che non vive la tua stessa esperienza, quando magari
l’insegnante la vive.
Non si tratta di un ritorno sulla simulazione, di un ludus preparatorio (preparati a incontrare
chi non la pensa come te), ma di un tratto costitutivo del compito di insegnante e del fare scuola.
All’insegnante in quanto lettore del tema è chiesto di incarnare quello che due dei fondatori della
moderna teoria dell’argomentazione, Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958) hanno chiamato uditorio universale. Gli autori del Traité de l’argumentation osservano che la persuasività di
un discorso argomentativo non è una qualità intrinseca del discorso stesso, ma è sempre relativa a
un uditorio. Vi sono però due tipi di discorsi: quelli che si rivolgono a un uditorio particolare, che
vogliono persuadere solo quelli fatti così e così (che so, gli alti e biondi …, pensiamo, come esempio
estremo, al Mein Kampf di Hitler) e quelli che si rivolgono a un uditorio universale composto in linea
di principio dall’umanità tutta intera, ossia intendono parlare al cuore e alla ragione di ogni uomo
(pensiamo a Dante: Nel mezzo del cammin di nostra vita…). Essere destinatario, in quanto insegnante, significa anche incarnare l’uditorio universale.
In ragione della responsabilità ultima affidata alla scuola (la crescita dell’autocoscienza), l’insegnante non è mai un uditorio particolare (da blandire con i suoi “pallini”, o con cui sviluppare un
rapporto connivente) ma un rappresentante dell’uditorio universale, ossia dell’umano, che viene
persuaso in quanto il discorso tocca il cuore. Il fatto che l’insegnante sia un essere umano garantisce
la possibilità di questa posizione.
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Il “filo del discorso”: congruità,
coerenza e coesione
Maria Cristina Gatti
Poiché la conoscenza ha il suo fine non in se stessa, ma nell’incremento dell’autocoscienza delle
soggettività in essa implicate, proviamo a vedere per quali vie la scrittura può offrire un apporto al
costituirsi dell’unità del soggetto conoscitivo, scopo irrinunciabile di ogni conoscenza autentica.5
Lasciandoci provocare dalla struttura stessa del termine scrittura, deverbale di scrivere, che nella
sua veste di nomen actionis richiama l’attenzione sull’atto dello scrivere e sul modo con cui esso
avviene, cercheremo di far emergere, in un primo momento, il principio organizzativo del testo e il
ruolo strategico svolto nell’organizzazione del discorso dai connettivi, che ne costituiscono il “filo”,
in quanto da essi dipendono la sua coerenza e la sua coesione, ossia la sua congruità. In un secondo
momento osserveremo in che senso la dinamica del connettivo presuppone l’attivazione nel discorso
di una ragione attenta alla totalità dell’oggetto e del soggetto e quindi la profonda significatività
che ha l’impegno alla scrittura per il costituirsi della soggettività nei suoi fattori fondamentali. Ci
soffermeremo poi, da ultimo, sulla guida alla scrittura come luogo di osservazione della messa in
pubblico delle sue mosse da parte di una ragione in crescita. Si prenderanno in esame alcune implicazioni che ciò comporta per la considerazione di sfasature, opacità e lacune, i classici blocchi del
discorso, che si rivelano in ultima analisi blocchi di una ragione bisognosa di essere aiutata a essere
se stessa.
Il principio organizzativo del discorso: congruità come
rispondenza teleologica a un fine
L’atto di scrittura presuppone una consapevolezza, almeno in linea di massima, della organizzazione globale del discorso.
Il discorso si dispiega in un prima e in un poi, presenta una dimensione lineare, ma dove va individuato ultimamente il suo principio organizzativo?
Nel rispondere a questa domanda, cerchiamo di vedere innanzitutto che cosa distingue una mossa comunicativa di natura testuale da una semplice giustapposizione di enunciati (Rocci 2003: 301302). Se osserviamo la serie di enunciati in
(1) Mio fratello è farmacista. Sua moglie ha 39 anni. Un giorno nella farmacia entrò un tizio che
aveva la stessa età. Quel giorno io ero all’università. Questa è un grande edificio di mattoni rosso. Il
colore preferito da Maria.
è immediatamente evidente che nonostante la continuità referenziale, pur presente, essa non
veicola un senso unitario, a differenza di
(2) Luigi era molto pallido e piuttosto nervoso. Gli ho chiesto se si sentiva bene e mi ha risposto in
malo modo. Dopo pranzo è scappato via senza salutare. Suppongo che fosse preoccupato per l’esame
di dopodomani.
5 Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume.
137
Parte terza. Maria Cristina Gatti
Intuitivamente avvertiamo che la compiutezza della mossa comunicativa in questo secondo caso
“è una capacità di conclusione, quasi di onorare un impegno assunto. Un testo privo di conclusività
è sentito invece come non-testo” (Rigotti 1993: 75).
Il senso unitario che sentiamo depositato in (2) non nasce a ben vedere dalla somma del senso
dei singoli enunciati. Esso emerge piuttosto dalla rispondenza a uno scopo, di cui si fa carico l’intera
mossa comunicativa: individuare le ragioni di un certo modo di essere di Luigi nonché di un comportamento a esso conseguente.
Troviamo già qui delineato il principio che fa di una mossa comunicativa, di qualsiasi estensione
essa sia, una mossa testuale. Entità linguistiche di diversa estensione, da una intera opera, a un
capitolo, a un paragrafo o un capoverso sono da considerare di natura testuale quando veicolano un
senso unitario, che si identifica con la pertinenza pragmatica a uno scopo (Rigotti 1993: 43).
Identificare il costituirsi del senso del testo con il suo scopo significa concepire il testo in termini
pragmatici come azione, di un tipo in ogni caso particolare, in quanto viene attuata con il dire6.
Proprio per la sua natura di azione, il testo determina il passaggio da uno stato di cose a un altro,
producendo un cambiamento, che consiste in una profonda ristrutturazione dell’intersoggettività
da esso coinvolta7.
Il testo, conformemente alla sua natura azionale, è quindi dominato nel suo livello strategico più
alto da un predicato di azione8 – un connettivo – che specifica di volta in volta ciò che colui che
scrive si impegna a fare al suo destinatario con quel preciso gesto semiotico. È questo connettivo
dominante ciò che orienta l’azione di colui che scrive nella progettazione del testo. Nella redazione
di un testo di tipo per esempio argomentativo, un connettivo dominante di argomentatività guiderà
l’azione dello scrivente, impegnandolo a esplicitare le ragioni per cui una determinata tesi merita di
essere sostenuta.
Il connettivo che domina strategicamente il discorso lo situa in una dimensione relazionale, agganciandolo ai fattori costitutivi del contesto, che sono rappresentati innanzitutto dalle soggettività
coinvolte. Queste dovranno comparire necessariamente tra gli argomenti del connettivo, accanto al
testo stesso (Fig. 1):
Figura 1
Nell’attività di scrittura colui che scrive si trova impegnato nella realizzazione di un’azione comu6 La dimensione pragmatica del dire fu sottolineata già da Platone nel Cratilo: “Tò légein mía tis tôn práxeon estín”
(Plato, Cratylus 387b).
7 Riprendendo una distinzione antica, mutuata dall’etica aristotelica, fra disposizione momentanea (diáthesis) e disposizione stabile della persona nei confronti della realtà (héxis), è nel cambiamento di habitus, ossia degli aspetti stabili
della soggettività, che va ravvisata la destinazione di una azione comunicativa autentica. Si veda in proposito Rigotti e
Cigada 2004: 51-52.
8 Le azioni, in quanto modi di essere relazionali di tipo dinamico, rientrano nell’ambito dei predicati. Il termine “predicato” è qui usato in prospettiva logico-semantica, per indicare i modi di essere delle entità che a noi si danno nella realtà.
Per ulteriori approfondimenti si vedano Rigotti e Cigada 2004: 77-126 nonché Rigotti e Greco 2008: con particolare
attenzione al terzo paragrafo (Strumenti di analisi semantica).
138
Parte terza. Scrittura
nicativa, caratterizzata da un notevole grado di complessità. Complessità che è peraltro costitutiva
della natura stessa dell’azione. Avvalendoci della distinzione, antropologicamente rilevante, fra atto
e azione, quest’ultima può essere definita come un processo orientato a un fine, il cui raggiungimento viene affidato a una serie di atti, ciascuno dei quali si relaziona all’azione nei termini di mezzo
in rapporto al fine.
Mettere a tema l’azione ci porta inevitabilmente a tematizzare, sia pur con un rapido accenno,
il soggetto da essa presupposto. Se osserviamo l’azione nella sua ontologia, possiamo notare che
essa si origina in un soggetto, capace di iniziativa nella realtà perché capace di desiderare, essendo
dotato di una ragione che non è mero dispositivo logico, ma thymós, secondo la bella metafora
platonica di cuore, quindi desiderio di crescita, di compimento, di bene. Quando la situazione che si
trova davanti non gli è indifferente il soggetto prende iniziativa, perché la ragione si muove solo su
qualcosa che la interpella nella sua dimensione affettiva. Il testo, quale azione comunicativa, vede
quindi il suo originarsi in una domanda, in una attesa di compimento, che sottende il gesto dello
scrivere (Rigotti 1991).
Nell’attività di scrittura la realizzazione del testo chiede pertanto, come ogni azione complessa, di
essere articolata in una serie di singoli atti, di singole mosse comunicative, anch’esse di natura testuale, dotate di una loro autonomia, ma nel contempo funzionali al compito globale di cui si incarica l’unità testuale nella sua globalità. Ciascuna di queste collabora con un suo apporto specifico alla
attuazione del cambiamento delle intersoggettività, assegnata al testo come sua finalità globale.
La progettazione del testo può essere accostata a tutti gli effetti, come ogni atto creativo, alla
realizzazione di un’opera, in cui il fine perseguito, la perfectio saecunda, viene attuato attraverso
una perfectio prima, che si origina nella rispondenza teleologica delle parti (ex integritate partium)
alla finalità del testo stesso9.
La costruzione del testo in cui ci si impegna nella scrittura è quindi da pensare più che “come
compimento ordinato di un disegno predefinito, come riformulazione – forse continua – di una
ipotesi di testualità in crescita, di una ipotesi di pertinenza ultima del testo alla domanda delle soggettività coinvolte. L’adeguatezza del testo al suo compito – non possiamo non riconoscerlo – non è
un requisito nettamente decidibile, come ad esempio la grammaticalità, ma una virtù testuale, che
un testo può realizzare cioè rendere perspicua in misura maggiore o minore” (Rigotti 1993: 53 e 68).
L’articolazione del discorso in singole mosse o unità testuali costituisce la ragione ultima della
comparsa, nel suo tessuto, di connettivi, che ne costituiscono il filo. Essi assegnano infatti a ciascuna unità costitutiva del testo la sua funzione comunicativa specifica, agganciandola alla funzione
globale, che deve essere svolta dal testo nella sua interezza.
Il tessuto del discorso viene per questa via a configurarsi come una rete di connettivi, relazioni
logiche che si instaurano fra le unità pertinenti del testo, le quali si dispongono in modo gerarchico.
Il testo presenta quindi una struttura ultima gerarchica, che si manifesta a noi in una linearità. Il
raccordo tra dimensione gerarchica e lineare è reso possibile dalla presenza nel suo tessuto dei connettivi. Mediante prese foriche essi consentono di riprendere o di anticipare interi segmenti testuali,
presenti nel cotesto che precede o che segue.
In questa struttura gerarchica, il testo affida una funzione rilevante di chiave di lettura a una delle sue mosse comunicative, che domina tutte le altre, individuando quel cambiamento di cui il testo
globalmente si incarica. Così all’inizio della seconda cantica del Paradiso, le prime due terzine in cui
Dante si rivolge ai suoi lettori, ricordando loro che il prosieguo del cammino richiede una gran mente
9 Scrive in proposito san Tommaso: “[..] duplex est rei perfectio, prima et secunda. Prima quidem perfectio est, secundum
quod res in sua substantia est perfecta. Quae quidem perfectio est forma totius, quae ex integritate partium consurgit.
Perfectio autem secunda est finis” (Summa Theologiae, Ia q. 73 a. 1 co) .
139
Parte terza. Maria Cristina Gatti
e un gran cuore10, sono evidentemente una mossa testuale di rango diverso. Essa assume foricamente la Commedia che precede e che segue, dominando la totalità del testo (Rigotti 1993: 50-52).
Attraverso la dinamica dei connettivi il testo attua la sua articolazione in unità testuali, rendendo
presente a colui che scrive attraverso l’articolazione del discorso l’articolazione dell’oggetto. Ciò fa
dell’attività di scrittura, non solo di tipo argomentativo, occasione particolare di educazione della
soggettività alla presa sull’oggetto. Anche se il testo argomentativo mostra in modo più evidente le
sue mosse discorsive e quindi l’articolazione dell’oggetto nei suoi fattori costitutivi, la presa sull’oggetto viene potenziata da ogni tipo di scrittura. Ogni testo scritto, proprio grazie alla dinamica dei
connettivi, lascia intravedere la sua articolazione in mosse congrue rispetto a un fine, facendoci così
cogliere l’oggetto nella totalità dei suoi fattori costitutivi e ciascuno di questi ultimi in rapporto alla
totalità a cui appartiene. Quel continuo ritorno sul testo nel momento del controllo al fine di verificarne la coerenza e la coesione, fa della attività di scrittura occasione privilegiata di educazione alla
criticità ragionevole, in cui si dispiega un uso della ragione che eccede la pura razionalità (Rigotti e
Greco 2005: 27-36).
Attraverso i connettivi il discorso lascia intravedere le sue connessioni, pur lasciandole per lo
più implicite. Per una maggiore consapevolezza del modo con cui il testo allude a tali connessioni,
può valer la pena osservare la variegata modalità a cui può essere affidata la manifestazione dei
connettivi nel discorso.
Il connettivo: dalla funzione alla strategia di manifestazione
Occorre innanzitutto precisare che il connettivo non consiste propriamente in una struttura, ma
in una funzione. Come ogni funzione linguistica, esso può ricorrere a diverse strategie di manifestazione.
Nella maggioranza dei casi il connettivo non è manifestato da alcuna struttura linguistica, come
ad esempio in:
(3) Anna non guida. Ha 11 anni.
(4) Luigi cadde. Marco lo aveva spinto.
(5) Che bello! Ho superato l’esame di Stato con il massimo dei voti.
(6) Piove. Non esco.
(7) Sono allergico all’acido acetilsalicilico. Non devo usare l’Aspirina.
(8) Luigi guadagna bene. La moglie è felice.
Il senso unitario che percepiamo in questi esempi si deve alla presenza di un predicato di tipo
relazionale – un connettivo – che stabilisce di volta in volta la ragione dello stare insieme degli
enunciati in ciascuna mossa testuale, senza che il nesso logico sia esibito da una marca linguistica.
Nell’oralità questi nessi potrebbero essere segnalati da pause ed intonazioni, affidate nello scritto
in modo vago all’interpunzione. Riusciamo in ogni caso a percepirli chiaramente anche nel discorso
scritto.
I connettivi, infatti, quando sono privi di manifestazione linguistica vengono ricostruiti attraverso
processi di natura inferenziale11, che ci consentono di spiegare la compresenza delle strutture lingui10 “O voi che siete in piccioletta barca,/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca,/ tornate
a riveder li vostri liti:/ non vi mettete in pelago, ché forse,/ perdendo me, rimarreste smarriti” (Paradiso, II, 1-6; www.
princeton.edu/dante/).
11 Sul ruolo dell’inferenzialità in ambito dimostrativo e argomentativo rimandiamo a Rigotti e Greco 2005: 16-17; si
veda inoltre il Capitolo ottavo sull’inferenza in Newman 1874: 245-320 (tr. it. 1980: 159-210).
140
Parte terza. Scrittura
stiche attraverso la formulazione di un’ipotesi interpretativa.
Tramite un processo inferenziale ipotizzeremo come ragione dello stare insieme delle parti nelle
mosse testuali (3) e (4) un nesso di tipo causale, in (5) un nesso che giustifica l’esclamazione di
sorpresa positiva, in (6), (7) e (8) un nesso di consequenzialità fra stati di cose.
Il fatto che il connettivo vada ricostruito inferenzialmente documenta bene come il discorso, nel
farsi presente a noi con le sue mosse, attiva in chi scrive – e in chi legge – un uso della ragione come
ragionevolezza, chiamandola a collocare i particolari nella totalità da cui sono implicati.
Anche qualora il connettivo sia rappresentato da una marca linguistica, quale ad esempio un
connettore pragmatico12 – è questa una categoria che include elementi di vario genere, dagli avverbi
alle congiunzioni –, esso affida al connettore la manifestazione della sua funzione solo in misura
parziale. Tale funzione andrà infatti precisata di volta in volta per via inferenziale. Così emergerà
che in
(9) Pioveva troppo. Allora decisi di stare a casa
il connettore pragmatico allora esprime consequenzialità e non va confuso con l’avverbio di tempo allora con funzione temporale.
Analogamente in
(10) Tu sei buono e ci perdoni
al connettore e il discorso affida l’espressione di una relazione di consequenzialità. Lo potremmo
sostituire con il sinonimico quindi, che darebbe maggiore trasparenza al nesso consequenziale.
Nella mossa testuale
(11) Tutti intorno gli facevano festa. E lui non si accorgeva
il connettore e manifesta invece una relazione di avversatività, che lega il secondo enunciato
al primo come espressione di una concomitanza contraria al solito. Anche in questo caso l’uso del
connettore sinonimico ma sarebbe stato più trasparente. Vediamo quindi dagli esempi (10) e (11) che
un connettore e può essere sinonimo di quindi e di ma. Una strategia di manifestazione sinonimica
di e/ma potrebbe essere costituita da una marca semiotica zero, presente in
(12) Tutti intorno gli facevano festa. Lui non se ne accorgeva.
Oltre ai connettori, altre ancora possono essere le marche linguistiche dei connettivi. I connettivi
di argomentatività si possono affidare per esempio a strumenti espressivi della modalità epistemica
(Rigotti 2005: 84-87), come il modale epistemico deve in
(13) Non vedo la macchina del Preside nel parcheggio della scuola. Deve essere già andato via.
Esso rende manifesto il nesso connettivale solo parzialmente, invitando a un processo inferenziale abduttivo (Peirce 1969: 5.188-5.189), che ci porterà a interpretare il secondo enunciato come
conclusione inferibile con un certo grado di probabilità da una premessa esplicitata nel testo (Non
12 Si è deciso di diversificare la designazione per la funzione da quella per la strategia di manifestazione, ricorrendo
per la prima al termine connettivo e per la seconda al termine connettore. Per ulteriori approfondimenti rimandiamo a
Gobber 2002: 48-50.
141
Parte terza. Maria Cristina Gatti
vedo la macchina del Preside nel parcheggio della scuola) e da una premessa implicita (Se non c’è la
macchina nel parcheggio scolastico, il Preside non è a scuola), inclusa nel mondo pretestuale condiviso dagli interlocutori.
La conoscenza della modalità per lo più inferenziale con la quale il discorso realizza le sue connessioni consente a colui che scrive di individuare con maggior consapevolezza le unità costitutive
del testo, il che è sicuramente di vantaggio per il processo di paragrafatura, così rilevante nell’attività di scrittura.
Il testo lascia distinguere le sue unità pertinenti, lascia cogliere la sua articolazione in mosse
comunicative non imponendola, ma suggerendola con un invito a evincerla in una dinamica di interazione sia con il lettore, che con l’autore. Va in ogni caso ricordato che l’implicitezza del connettivo
è tendenziale e non assoluta. Talvolta chi scrive esplicita i connettivi, perché lo richiede la natura
del testo. La dosatura della loro esplicitezza è per lo più una strategia stilistica e comunicativa
dell’autore, con prese di posizione diverse, che possono andare dalla piena esplicitazione alla larga
omissione. La preferenza per quest’ultima dice della modalità con cui chi scrive “imposta l’interazione con il lettore, esigendo da lui un pedaggio particolare per l’accesso al senso del testo. La scoperta
del senso diventa compito del destinatario, quasi sfida dell’autore al suo lettore, più in generale del
mittente al suo destinatario” (Rigotti 20092: 439).
Passiamo ora al secondo momento del nostro percorso, in cui vogliamo evidenziare il modo con
cui la dinamica del connettivo guida chi scrive nell’organizzazione delle funzioni comunicative
all’interno delle singole mosse testuali, con particolare attenzione alla dinamica della ragione attivata nella costruzione del discorso.
Connettivo, organizzazione comunicativa del discorso e
dinamica della ragionevolezza
Per vedere più da vicino come avviene l’organizzazione del discorso nell’atto della scrittura, proviamo a simulare la costruzione di una mossa testuale, a partire dal seguente enunciato
(14) Luigi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni.
Esso si presenta come una combinazione di parole congrua, nella quale gli elementi selezionati
dal predicato comperare sono conformi alle proprietà richieste per ciascuno dei suoi posti argomentali: il primo e il quarto elemento devono essere soggetti umani, per cui sarebbe del tutto insensato
affermare che
(15) La gioia ha comperato per trentamila euro un’auto dal tavolo.
Il secondo e il terzo argomento devono invece individuare rispettivamente una somma di denaro
e un bene negoziabile.
Inseriamo ora l’enunciato (14) in una struttura enunciativa di rango superiore:
(16) Prima di sposarsi Luigi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni
e inscriviamo infine quest’ultima nella mossa testuale a essa sovraordinata
142
Parte terza. Scrittura
Figura 2
(17) Luigi ne ha di soldi. Prima di sposarsi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni.
Con un effetto di senso inatteso, l’enunciato precedente (16) Prima di sposarsi Luigi ha comperato
per seicentomila euro una casa da Giovanni viene ad assumere il ruolo di giustificazione di una tesi
in cui si fa una affermazione sulla ricchezza di Luigi (Rigotti 20092: 428-429). Esso viene infatti
agganciato da un connettivo argomentativo di giustificazione (Fig. 2), che lo incarica di presentare
un exemplum di disponibilità cospicua di denaro, a giustificazione di quanto è stato detto precedentemente relativamente a Luigi:
Per essere congruo con la funzione comunicativa assegnatagli dal connettivo, l’enunciato dovrà
apportare effettivamente un esempio di disponibilità cospicua di denaro, il che porterà a considerare
come insensata, perché non congrua con il compito imposto dal connettivo, una espressione del tipo
(18) Luigi ne ha di soldi. Prima di sposarsi ha comprato per poche centinaia di euro una bicicletta
da Giovanni.
Se ora prendiamo sempre l’enunciato (16) Prima di sposarsi Luigi ha comperato per seicentomila
euro una casa da Giovanni e lo inseriamo in una mossa testuale sovraordinata di tipo diverso, quale
ad esempio
(19) Luigi è avveduto. Prima di sposarsi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni
otterremo un effetto di senso diverso da quello precedente, anche se evidentemente non cambia
la funzione di giustificazione assegnata all’enunciato dal connettivo. Cambiando invece il contenuto
della tesi, che si riferisce non più alla ricchezza bensì all’avvedutezza di Luigi, per rispondere al compito impostogli dal connettivo, l’enunciato dovrà portare ora un exemplum di avvedutezza (Fig. 3):
143
Parte terza. Maria Cristina Gatti
Figura 3
È interessante notare che in entrambi i casi la costruzione della mossa testuale dipende
dalla presenza del connettivo argomentativo di giustificazione, che individua la funzione
dell’enunciato non in modo generico, ma tenendo conto dei contenuti specifici della tesi nel
cotesto che precede. Il cotesto viene pertanto agganciato dal connettivo tramite una presa
forica e deve comparire necessariamente fra i suoi argomenti.
Per potere poi rispondere al compito specifico di giustificazione della tesi di volta in volta
diversa, presente nel cotesto che precede, nel caso di
(17) Luigi ne ha di soldi. Prima di sposarsi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni
l’enunciato giustificherà la propria pretesa di fornire una prova di ricchezza, affidandosi in particolare a quelle parole che individuano la disponibilità cospicua di danaro, ossia per seicentomila
euro. Nel caso invece di
(19) Luigi è avveduto. Prima di sposarsi ha comperato per seicentomila euro una casa da Giovanni
l’enunciato giustificherà la propria pretesa di essere una prova di avvedutezza, affidandosi a tutte
le informazioni veicolate, che ci presentano un esempio di comportamento avveduto, caratterizzato
da una accorta gerarchizzazione teleologica delle mosse in prospettiva del matrimonio13.
In ciascuno dei due casi l’enunciato, per svolgere la funzione specifica di giustificazione della
tesi precedentemente asserita, si affida a remi diversi. I diversi effetti di senso ottenuti dalle mosse
testuali (17) e (19) dipendono quindi dalle diverse rematizzazioni attuate in ciascuno dei due casi.
È poi importante evidenziare il ruolo che il testo affida a un particolare momento della sua organizzazione interna, chiamato freccia rematica14. Essa interviene come chiave di accesso al rema,
incaricandosi di circoscrivere l’ambito entro il quale chi scrive attuerà la scelta del rema. La scelta
del rema viene effettuata nel primo caso nell’ambito dei modi di agire avveduti di Luigi, nel secondo
nell’ambito delle prove della sua ricchezza.
Le mosse testuali che abbiamo costruito per essere sensate dovranno poi tematizzare una entità, Luigi, che sia oggetto di interesse per entrambi gli interlocutori. Tematizzazioni non pertinenti
13 Sul rispetto della gerarchia teleologica nell’interazione argomentativa cfr. Rigotti e Greco 2005: 29-30.
14 Riprendiamo il termine freccia (arrow) dalla teoria delle categorie, che lo vede usato per indicare i morfismi di una
categoria, anche se “il nostro utilizzo del termine è più che altro suggestivo e non implica alcun serio e sostanziale
riferimento a questa particolare branca della matematica” (Rigotti e Rocci 2006: 39).
144
Parte terza. Scrittura
per entrambe le soggettività coinvolte darebbero luogo a insensatezze, originate dalla lesione delle
presupposizioni di interesse, che non sono legate a uno specifico connettivo ma più in generale a
ciascun atto comunicativo.
La pertinenza della tematizzazione mette bene in luce come il discorso si costituisce all’interno della dimensione dialogica e della dinamica dell’intersoggettività (Rocci, in questo volume). Il
connettivo infatti nell’assegnare a un segmento di discorso una funzione comunicativa specifica lo
connette, mediante prese foriche, con altri momenti del discorso, espliciti o impliciti, e lo mette nel
contempo in relazione con i soggetti da lui coinvolti.
Il tessuto del testo viene così a costituirsi in rapporto a una ragione, la ragione di colui che scrive,
la quale si apre alla ragione dell’altro, il destinatario, in una dinamica che vede intervenire la ragione
come sorgente di interessi e capacità di desiderare, perché ultimamente desiderio di compimento.
La costruzione di mosse testuali congrue e pertinenti, nel chiedere una attenzione alla totalità sia
dell’oggetto discorsivo che delle soggettività implicate, fa della scrittura una occasione particolare,
che impegna fortemente, quasi sfida la ragione di colui che scrive a una tenuta di ragionevolezza.
Scrittura e ragione in crescita
In questa tenuta di ragionevolezza a cui impegna la scrittura emerge la sua profonda significatività per il costituirsi del soggetto.
Attraverso la scrittura la ragione si fa pubblica, mette in pubblico le sue mosse e le sottopone
alla ragione dell’altro.. Poiché la ragione che si attua nel farsi del discorso di quei giovani scrittori
che sono i nostri allievi è una ragione in crescita, il compito che si apre all’adulto nel guidare alla
scrittura sarà quello di accompagnare chi scrive nel rischio della testualità, verificando la congruità
e quindi la sensatezza delle sue mosse discorsive.
Una nuova rilevanza vengono allora ad acquisire sfasature, opacità, lacune ed incertezze, i classici
blocchi del discorso, che a ben vedere sono blocchi di una ragione che necessita di essere aiutata
a essere se stessa. Se questa è in ultima analisi la destinazione di una guida alla scrittura che possa
dirsi autentica, una luce nuova può acquisire il lavoro con gli allievi sui blocchi del discorso. Il loro
essere blocchi di ragione è evidente, qualora se ne osservi l’origine, che si nasconde prevalentemente
in lesioni della congruità.
Osserviamo per esempio una sconnessione del discorso del tipo
(20) Il ragazzo è caduto dalla bicicletta perché si è fatto male.
Qui l’insensatezza si origina in una scelta errata del connettore, che comporta una non congruità
del secondo enunciato, di natura consequenziale, con la funzione assegnatagli dal connettivo manifestato dal connettore perché, il quale chiede invece di specificare la causa del fatto precedentemente introdotto e non una sua conseguenza.
Un errore quale
(21) Salvatore è molto piccolo, ma molto simpatico
trattato come problema di ripetizione (Serianni 2011; Serianni e Benedetti 2009) e corretto con la
cancellazione del secondo “molto” non è evidentemente un problema di tale natura. Si tratta piuttosto di una inconsistenza a livello logico, dal momento che non esiste alcun rapporto di implicazione
fra l’essere piccolo e l’essere antipatico, richiesto dal connettivo di avversatività manifestato dal
145
Parte terza. Maria Cristina Gatti
connettore ma. Sarebbe stata invece del tutto congrua l’espressione (22) Salvatore è molto piccolo,
ma molto coraggioso.
L’attenzione alla congruità a tutti i livelli del discorso è un orientamento sicuramente da perseguire, in quanto permette di individuare il corretto attuarsi della ragione nel discorso.
Far coincidere la correttezza e la proprietà del discorso con il raggiungimento del cosiddetto
livello stilistico di base, identificato spesso con il linguaggio giornalistico di maniera, per cui “fare
un compito” verrà corretto con “eseguire”, “fare un tema” con “svolgere”, “fare attenzione” con “prestare” e così via, induce a una proprietà lessicale pericolosa, che suggerisce “una sorta di bellezza
per automatismo, dimenticando che a volte “il verbo fare, con tutta la sua genericità, dice una immediatezza di esperienza che fa assaporare di più quello che avviene” (Rigotti 1991/1992: 142). Tale
orientamento non coglie il cuore dell’impegno alla scrittura, nel quale la ricchezza dell’esperienza è
di primaria importanza per la generazione dello strumento.
Nel perseguire la correttezza del discorso maggiore attenzione meriterebbero poi quei non-sensi
di diverso tipo, che emergono non di rado anche a livello lessicale, originati ora dalla incongruità
dell’argomento con le proprietà richieste dal predicato, (*Mario legge l’ipotenusa), ora dalla soppressione di un argomento, con la conseguente impossibilità di individuare lo stato di cose indicato dal
predicato (*Enrico ha venduto la casa, ma nessuno l’ha comprata), ora dalla lesione dell’impegno di
specificazione legato all’argomento (*Qualcuno vende beni, *Qualcuno mangia cibo). L’aggiunta di
una specificazione anche minima (Qualcuno vende beni immobili, Qualcuno mangia cibo ipocalorico)
renderebbe queste espressioni immediatamente congrue15.
La tipologia delle insensatezze ai vari livelli del discorso, di cui abbiamo visto solo qualche esemplificazione, potrebbe procedere ulteriormente e meriterebbe forse di essere approfondita.
Emerge in ogni caso già da questi accenni come l’invito a ritornare su quanto si è scritto possa diventare occasione particolare per la crescita di un atteggiamento stabile di verifica della sensatezza
e quindi della ragionevolezza di quanto si ha fra mano.
L’atto creativo della scrittura, proprio attraverso il rispetto della congruità del discorso e della sua
pertinenza per le soggettività implicate è senza dubbio un momento che provoca il soggetto all’esercizio dell’impegno critico. In questo invito alla criticità si situa in ultima analisi la destinazione di
una guida alla scrittura che voglia essere autentica.
La congruità del discorso nel suo impianto globale e in ciascuna delle sue mosse costitutive, resa
possibile dalla presenza nel suo tessuto del “filo” dei connettivi, ci ha portato a recuperare nel farsi
del discorso quella coessenzialità di ragione e linguaggio, ben adombrata nella ricca polisemia di
lógos.
15 Sulle diverse modalità di violazione del principio di congruità si vedano: Rigotti 2005: 80; Rigotti 20092: 422-425.
146
Progettazione e articolazione
del testo: le fasi di elaborazione
Sara Cigada
Questo contributo tocca fondamentalmente due aspetti, il primo relativo ad alcune implicazioni
che emergono guardando alla scrittura in quanto essa è azione comunicativa. Il secondo aspetto
riguarda le fasi di elaborazione del testo.
La scrittura come azione comunicativa
L’attività comunicativa svolta attraverso la scrittura presenta alcune caratteristiche proprie che
la distinguono dall’oralità, pur essendo il testo scritto, fondamentalmente, la rappresentazione di un
testo orale, di un discorso.
a) In particolare, la scrittura consente di prendere le distanze rispetto al compito (alla domanda
alla quale il testo deve rispondere: è diverso rispondere a un’interrogazione o a una domanda scritta) e consente pertanto di destinare una certa quantità di tempo a riflettere su come organizzare
il proprio testo, cioè a progettarlo. “Progettare” nel senso di riflettere su qualcosa che ancora non
c’è (il testo appunto), figurarselo, immaginarlo nella sua organizzazione complessa, per costruire un
insieme formato da parti, ciascuna con una precisa funzione rispetto all’insieme.
Il progetto deve essere complessivamente adeguato (congruo) rispetto al contenuto e rispetto al
destinatario, oltre, naturalmente, a essere congruo in se stesso perché formato da parti che sono
fatte per stare l’una accanto all’altra: questa dimensione riguarda sia il nesso tra le singole parole
sia, a un livello più strategico, il nesso tra le parti del testo. Oltre al confronto sistematico con i
contenuti specifici di una disciplina e con la propria esperienza, l’adeguatezza comunicativa (o congruità) coinvolge anche l’uso di varietà della lingua che sono meno abituali per lo studente giovane,
soprattutto se consideriamo le forme più consuete della sua attività quotidiana di scrittura (dal post
su Facebook a WhatsApp, al diario, agli schemi per studiare).
La possibilità di tornare sul proprio testo a distanza di tempo, per verificarlo e correggerlo, dovrà
essere riconquistata per lo studente – rispetto alla modalità attualmente imposta dalle “tre ore
ministeriali”, senza interruzioni: non può essere questo l’unico tempo pensato per educare alla
scrittura, perché è un tempo strutturato in modo non rispettoso del compito. Dal dialogo con alcuni insegnanti è emersa anche l’opportunità di dare un consiglio personale al singolo studente su
quanto tempo serve a lui per progettare il proprio testo: non c’è una regola valida per tutti, anzi
è opportuno tarare le diverse fasi sulle esigenze e sulle difficoltà individuali come dimensione del
soggetto “giovane scrittore”.
b) In quanto attività verbale, la scrittura è caratterizzata dalla dimensione lineare. Si pensi ad
esempio a una descrizione con funzione argomentativa, per esempio il passo ‘La madre di Cecilia’
nei Promessi Sposi (la descrizione, qui, argomenta il “ravvivarsi della pietà”): chi scrive, Manzoni,
ha davanti agli occhi una scena in cui compaiono elementi macroscopici e dettagli, sfondo e primo
piano. Il compito del testo – riprodurre nell’immaginazione del destinatario la medesima scena –
avviene attraverso parole, disposte lungo una linea scritta che rappresenta la linearità temporale del
discorso orale, e che è effettivamente fruita nel tempo. Per svolgere il compito, però, non è sufficiente che il testo “trasmetta” i singoli elementi che si presentano allo sguardo di chi scrive: occorre
147
Parte terza. Sara Cigada
che esso ne rappresenti in qualche modo anche la diposizione reciproca e la salienza. C’è un punto
di vista, che è quello di Renzo che assiste dall’altro lato della strada; c’è la donna, ancora giovane
ma sfatta dal dolore; la bambina; il monatto che è come un mimo (dialoga a gesti, non pronuncia
nemmeno una parola). Leggendo questo passo si vede letteralmente che l’autore dipinge un quadro
sotto i nostri occhi, disponendo nello spazio ogni elemento, ciascuno al suo posto – l’unica cosa che
non ci fa vedere è se la bambina sta sul braccio destro o sinistro della madre. Con modalità e funzioni diverse questo avviene anche nel testo argomentativo (si vedano i relativi contributi in questa
sezione del volume).
Il progetto del testo è dunque il progetto di un oggetto di natura precisa e decisamente particolare: è il progetto di una linea. Della linea occorre progettare e far emergere quella che chiamiamo
“articolazione”, perché la linea rappresenta qualcosa che non è lineare, bensì gerarchico (Gatti in
questo volume).
c) Ma c’è un altro aspetto ancora: la scrittura è condizionata dalla dimensione lineare, quasi costretta direi, in modo più forte rispetto all’oralità. Nel discorso orale c’è in effetti tutta la componente non-verbale che accompagna e commenta la produzione verbale: l’intonazione, le pause, l’enfasi,
ma anche la mimica, volontaria e involontaria. Tutti questi fattori costituiscono una parte molto
rilevante dell’evento comunicativo perché danno informazioni importanti su come va interpretato
quel che viene detto. Questa dimensione, nello scritto, va quasi completamente persa. “Quasi” perché la punteggiatura offre qualche spunto in questa direzione.
Emerge dunque che “progettare il testo” significa immaginare l’articolazione delle parti che lo
compongono (articolazione intesa come organizzazione interna di qualcosa che è un totum integrale, quasi un corpo vivo; vivo proprio perché sta insieme) ed emerge che l’articolazione è affidata
sia a elementi che appartengono alla linea stessa (connettori di vario tipo più o meno espliciti ed
estesi), sia a elementi metadiscorsivi cioè, all’incirca, l’interpunzione. L’articolazione deve puntare al
cuore del testo, cioè a quella sequenza gerarchicamente dominante in cui il testo “accade”, cioè quel
punto del testo in cui il destinatario trova depositato il compimento del senso testuale (o rema), che
percepiamo appunto sotto forma di esperienza di compimento (la perfecta sententia di Prisciano).
Dato il fatto della linearità, l’articolazione non si vede, essa è “appiattita” nella linea: va dunque
preannunciata ed eseguita attraverso parti del testo stesso (enunciazione della tesi e delle fasi,
connettori ecc.) che hanno la funzione di evidenziarne la struttura. La struttura assume la funzione
di promessa di compimento, di rispondenza complessiva di quel che si sta scrivendo alla ragione.
Emerge in diversi temi che l’assenza di tali parti compromette la testualità, cioè che la semplice
giustapposizione delle parti non è sufficiente per manifestare la funzione che le parti stesse svolgono rispetto all’insieme del discorso. Ho scelto alcuni esempi di cosiddette best practices, casi ben
riusciti (talvolta non del tutto bene, per la verità).
Esempio 1 (I scientifico):
“Stay hungry. Stay foolish”.
Questo augurio, rivolto agli studenti di Stanford dal fondatore di Apple16 è intenso e paradigmatico.
A questo proposito è necessario raccontare tre storie in cui, inconsciamente o quasi, i protagonisti
hanno avuto l’occasione di essere affamati e folli, giungendo a una realtà di grandezza inimmaginabile.
Michelangelo Buonarroti […]
La seconda storia che ho deciso di narrare vuole descrivere un altro personaggio a me assai caro
[…]
16 Jobs S., Commencement address, Standford, 12 June 2005.
148
Parte terza. Scrittura
Un’ultima storia riguarda la mia esperienza personale […]
Si potrebbe sostituire “necessario” con una formulazione argomentativa più rispondente, del tipo:
“Per mostrare la potenza del desiderio, ho deciso di raccontare tre storie […]” (Greco e Rigotti in
questo volume sulla funzione dell’exemplum). Manca la conclusione, ma l’insieme va abbastanza
bene lo stesso perché lo studente conclude, come richiesto nella traccia, con il riferimento all’esperienza personale, peraltro documentata anche nel riferire le altre due vicende.
Esempio 2 (I scientifico):
Solamente partendo dalla citazione si può intuire che Pirandello utilizza il verbo “scoprire” per
riferirsi non alla forma fisica ma all’essenza di ciò di cui si è a conoscenza. Quindi per me ha intitolato questa novella “Ciaula scopre la luna” perché il protagonista, che sapeva cosa fosse la luna,
non si era mai realmente accorto della sua esistenza fino a che la luna non (avesse) assunto per lui
una particolare importanza,…
Prima di leggere questo testo ero convinta che il verbo “scoprire” […]
Rimanendo in tema io stessa, l’estate scorsa, ho scoperto la luna […]
Questo vuol dire scoprire: quando si ha padronanza del significato di ciò che ci circonda […]
“Rimanendo in tema” è un connettore strano (perché mai dovresti uscire?), giustamente segnalato nella correzione. Il testo è organizzato intorno all’analisi del senso della parola “scoprire” nel
testo; in rapporto a un prima/poi della studentessa; in riferimento all’esperienza personale (io stessa
[…]). C’è anche una conclusione, in cui viene proposta un’ipotesi generale sul valore della parola
‘scoprire’ e sul modo in cui accade che scopriamo il senso delle cose.
Un altro esempio interessante riguarda il caso di uno studente (V ginnasio) che ha individuato una
metafora, che usa come frame per l’articolazione del testo. Quel che succede però è che la metafora
intrappola lo scrittore, che non riesce più a staccarsene (resta prigioniero del meccanismo formale).
È un modo interessante di organizzare il testo, ma pericoloso, perché la struttura prevale e pretende
di generare senso:
Perché il tempo è caro? Forse perché un individuo ha parecchi progetti da realizzare. Un progetto,
un incontro, un appuntamento, occupa tempo.
A mio giudizio il tempo, che coincide con la mia vita, è come un gran foglio di carta. Non sapendo
la sua grandezza […]
[…] voglio dipingere il foglio di colori corrispondenti a tutti i programmi futuri che ho in mente
[…]
[…] metaforicamente vorrei lasciare tra una macchia e l’altra un piccolo spazio bianco di riposo,
di ozio […]
[…] quando due o più colori del dipinto della mia vita si mischiano […]
[…] simmetria, dipinto perfetto […]
[…] lancette girano più o meno velocemente […]
Forse sono imprevedibili e piccole ma di colore oro […]
A un certo punto la metafora non tiene più e all’improvviso lo studente salta fuori dal ludus,
passando improvvisamente alla metafora delle lancette, per poi tornare ai momenti preziosi, che
sono quelli color oro. Ma poi la conclusione non tiene, lo studente esce di nuovo dalla metafora del
dipinto e conclude con un riferimento al carpe diem che è incongruo rispetto a tutto quel che ha
detto prima.
149
Parte terza. Sara Cigada
In altri casi, l’articolazione c’è, ma non è esplicitata verbalmente e quindi il testo si disarticola
nelle giunture (II artistico). Questo perché la giustapposizione delle parti è spesso sufficiente a garantire la congruità locale, come abbiamo visto negli esempi di congruità (Piove. Non esco), ma più
difficilmente basta per garantire la connessione tra parti già in sé gerarchizzate del testo:
Tante volte capita di sentire il proverbio “Chi si accontenta gode”. Ma che significato ha l’accontentarsi nella vita quotidiana…?
Godere invece vuol dire […]
“Chi si accontenta gode”. Credo che questa frase non sia del tutto vera […]
Qui il nesso c’è, il problema è che resta affidato al titolo e nel testo non è mai esplicitato. Il testo
non si fa carico della domanda che ne guida la formulazione, si limita a rispondere. Lo studente non
diventa autore, rimane nel ruolo di uno che risponde a un quesito che gli viene posto dal di fuori: in
effetti il testo non c’è. Nel dibattito è emerso che questo tipo di problema è una spia del fatto che lo
studente non ha fatto diventare una domanda propria la domanda dell’insegnante (Rocci in questo
volume). Si osservava tuttavia che forse non ha avuto tutti i torti […]
Altrimenti, la linea del testo esibisce “spunti bidimensionali”, che rappresentano il tono della voce
e la prosodia, tipici dell’orale: si tratta dell’interpunzione (dal lat. inter-pungo eguale a “articolare
pungendo” esattamente come distinguo, cf. Rigotti 1993: nota 34). La strumentazione grafica che
serve a manifestare l’articolazione del testo include vari tipi di segnale, che stanno in diverso rapporto con l’orale. Vediamone alcuni, per primo l’uso dello spazio stesso, che interrompe la linea (l’“a
capo”) segnalando il confine tra un’unità testuale e quella successiva. A volte si vede che nei temi
gli studenti addirittura saltano una riga: è un segnale un po’ forte di discontinuità, ma se è usato
sistematicamente si può accettare. Due segnali che si usano spesso nell’orale (!) sono la parentesi
e le virgolette. La parentesi può anche comparire, forse più elegantemente, in un connettore che
esprime il gesto testuale della parentesi senza usarla graficamente, per esempio quando si scrive:
“E qui apriamo una parentesi…” La parentesi consente di inserire nel testo un altro testo gerarchicamente subordinato, funzionale alla miglior comprensione o argomentazione di un punto preciso
della sequenza in cui si inserisce. Una funzione parzialmente analoga è svolta dall’inciso, indicato
da due trattini, che commenta quel che sto dicendo guardandolo contemporaneamente da un punto
di vista diverso da quello che si sta realizzando nella linea principale del testo. Anche l’inciso può
essere realizzato verbalmente: “Apriamo un inciso per ricordare che…”. Tipicamente l’inciso riguarda
la gestione del common ground, del mondo condiviso tra mittente e destinatario.
Un’altra funzione importante è quella delle virgolette, che nel testo orale si trasformano in “Cito
da… Fine della citazione”. Le virgolette sono argomentativamente interessanti perché attivano nel
destinatario un atteggiamento diverso rispetto a quello con cui sta seguendo il discorso principale:
la citazione introduce nel testo una voce autorevole. Per esempio in uno dei contributi è stato citato
Benedetto XVI: ecco allora che ciascun destinatario attiva, verso la parola del Papa, una benevolenza
magari maggiore rispetto a quella che ha per i locutori attuali, per quanto rispettabili, o comunque
di natura diversa. Alla fine della citazione si ripristina l’atteggiamento precedente. Dal punto di vista
argomentativo la voce d’altri inserita esplicitamente nel testo ha effetti emotivi e argomentativi
rilevanti su cui non mi soffermo. Un’altra funzione delle virgolette è quella di segnalare un uso metalinguistico, cioè di indicare che quel segno tra virgolette non va interpretato nel modo consueto,
perché assume in quel contesto un senso particolare, che va capito. È un segnale che invita a porre
una particolare attenzione all’accezione “originale” con cui quella parola è usata in quel contesto.
Le virgolette vanno dosate, perché lo sforzo d’interpretazione che richiediamo al nostro destinatario
150
Parte terza. Scrittura
non deve diventare sproporzionato: c’è un limite, dettato dal principio di pertinenza e di economia,
per cui l’impegno che il mittente richiede al destinatario per interpretare deve essere commisurato
all’impegno che dispiega il mittente per formulare un testo comprensibile. È a carico del mittente
farsi capire tanto quanto è a carico del destinatario capire. Ci sono anche locuzioni che fanno riferimento alla funzione dei segni di punteggiatura: tornando sull’a capo, quel che uno sta facendo
quando “fa punto e a capo” è, in effetti, un’interruzione definitiva e senza ritorno, un ricominciare
risituandosi in un punto diverso del tempo, dello spazio, o del pensiero. Ancora più forte, anche se
questo nel tema non càpita, il segnale del cambiare pagina: è addirittura un altro testo, connesso
con pagine o gruppi di pagine precedenti e successivi grazie a connettori recuperabili nell’indice,
nella struttura complessiva del volume, ecc.
La percezione fisica degli effetti ottenuti tramite la punteggiatura può essere accresciuta dal
ritorno all’interpretazione fonetica: leggere ad alta voce il testo che si è scritto, dando particolare
enfasi ai segni di punteggiatura che si sono usati, è utile per verificare se corrispondono all’intenzione espressiva che ne ha suggerito l’uso. Anche quest’ultimo aspetto, come è emerso nel dibattito,
richiede un ripensamento delle condizioni materiali in cui avvengono le prove scolastiche in cui si
scrive (se durante il tema non si può uscire di classe, come e quando si rilegge ad alta voce? Come
abituare i ragazzi a dare, o ridare, voce al testo scritto?)
Anche l’espressione “punto” ha una sua valenza precisa: contiene un invito imperioso, categorico,
ad abbandonare un tema e a parlare d’altro. Come abbiamo visto però il punto, pur manifestando
questa funzione, può anche coincidere con un connettore zero (come in Piove. Non esco. Qui in effetti i due fatti sono di per sé irrelati: è la giustapposizione entro il testo che “invita” a indovinare
il nesso di consequenzialità che li lega. Tale nesso sarebbe peraltro suggerito più esplicitamente
dall’uso dei due punti, Piove: non esco). Una parola sulla virgola e in particolare solo sulla virgola tra
soggetto e verbo: in rapporto alla congruità, siamo in grado di cogliere la profonda insensatezza di
una virgola che separi, per esempio, “l’uomo” da “impara”, cioè quei due elementi, nome e verbo, che
costituiscono il nucleo vitale dell’organismo che è il testo. Molto interessante la funzione del punto
interrogativo. Il punto interrogativo è il segno della frase interrogativa, rappresentata nell’oralità
dall’intonazione interrogativa, la cui funzione preferenziale è quella della domanda (funzione “preferenziale” perché la struttura interrogativa può avere anche altre funzioni, per esempio la domanda
retorica non è una vera domanda perché non sollecita una risposta: se dico “Ma ti sembra l’ora di
tornare a casa?”, la struttura sintattica è interrogativa, ma non si tratta di una domanda, in effetti
non c’è attesa di risposta). Ora la domanda, come abbiamo detto, costituisce la mossa comunicativa
che dà origine al testo. Dunque la domanda può essere usata in uno snodo del testo con lo scopo
di ravvivare nel destinatario l’interesse su un passaggio importante. Ponendo esplicitamente la domanda, si rende in effetti più immediatamente percepibile la rilevanza della risposta, perché si crea
un’attesa e così si rende la risposta comunicativamente necessaria. Ma quali sono concretamente
le fasi di stesura del testo?
Gli elementi del progetto (dalla “scaletta” alla scrittura vera e
propria)
Per quanto riguarda gli elementi costitutivi del progetto-testo, percorriamo le fasi dell’inventio,
della dispositio e dell’elocutio.
a) Per una riflessione sistematica sull’inventio, è utile tornare al fatto che ogni testo è generato
da una domanda, implicita o esplicita. Nel caso del tema, la domanda è contenuta nel titolo/traccia:
si tratta dunque di fare emergere tale domanda, in quanto essa indica la funzione complessiva del
151
Parte terza. Sara Cigada
testo da progettare. Da questo punto di vista ciascun tema risulta essere una tra le risposte possibili
alla domanda, la risposta che lo studente sa e vuole formulare: non c’è un’unica risposta esatta,
perché la domanda interpella un soggetto che prende posizione liberamente nel momento in cui si
assume il compito di rispondere. Quel che conta è che il tema sia una risposta alla domanda, e la domanda deve essere pertanto chiara: non necessariamente esplicita, ma individuabile, esplicitabile. Ci
sono per esempio tracce che all’insegnante paiono interessanti e che dagli studenti non vengono recepite come tali, mentre gli studenti sono interessati ad aspetti della realtà dei quali all’insegnante
sfugge la rilevanza: osserviamo che la capacità di interesse fa parte della competenza comunicativa,
come capacità di ascolto e di attenzione, come credito che faccio all’interlocutore. Se la competenza
comunicativa è una facoltà della ragione, è normale che i ragazzi debbano crescere proprio anche
in questo uso della ragione. È normale in effetti che a un ragazzo di 14 anni “interessi” il calcio e
poco più, ma è normale anche che nel dialogo con un adulto la sua capacità di interesse sia educata,
man mano che fa esperienza, a riconoscere come oggettivamente e soggettivamente rilevanti nuovi
aspetti della realtà. Forse a volte si tratta di formulare la traccia in modo tale da far intravedere
più chiaramente in che modo quel tema c’entra con l’io, con l’esperienza dell’uomo in quanto tale.
Di solito la traccia contiene anche indicazioni esplicite sul modo in cui il tema deve rispondere
alla domanda (“parla di questo facendo riferimento ai recenti fatti di attualità… alla tua esperienza
personale… alla lettura del libro x…”), nonché – spesso – suggerimenti non cogenti (“eventualmente
anche a…”). Per progettare un testo adeguato, occorre che lo studente distingua in modo chiaro tra
indicazioni e suggerimenti, per tenerne conto in modo appropriato.
Si tratta, a questo punto, di mettere in rapporto questi tre elementi (domanda fondamentale, indicazioni obbligatorie, suggerimenti accessori) con le fonti adeguate. Su aspetti specifici relativi alle
fonti o (documentazione) rimando agli interventi sui temi di discipline specifiche e all’intervento di
Paggi su titolo/traccia. Il lavoro di progettazione tuttavia appare ragionevolmente facilitato e reso
più consistente quando la traccia mette in gioco dati conoscitivi relativi allo studio della disciplina
(italiano) o allo studio di altre discipline (storia dell’arte, storia, scienze, matematica, astronomia…)
o ancora a dati acquisiti attraverso letture domestiche, attività culturali, hobbies ecc., riservando un
compito più preciso all’esperienza e alla cosiddetta “riflessione personale”. In effetti la “riflessione
sull’esperienza personale” svolge la sua funzione più rilevante – che è quella di connettere dati della
realtà (acquisiti attraverso un lavoro pregresso di documentazione) con quella realtà unica che è
il soggetto, lo studente – nel momento in cui opera su dati della realtà. Quando invece la traccia
sostituisce, alla conoscenza della realtà, il soggetto stesso (“l’esperienza personale”, appunto), la
documentazione diventa un compito oggettivamente molto complesso per lo studente e, in molti
casi, poco utile.
Per dare una struttura sistematica all’inventio si possono incrociare i tre livelli di domanda che
abbiamo individuato (la domanda fondamentale, le indicazioni, i suggerimenti), con le diverse tipologie di fonti (la disciplina, le altre discipline, altre conoscenze, altre esperienze). Non è una regola,
ma può essere utile dal punto di vista pratico per non lasciarsi sfuggire “parti” che il progetto complessivo deve contenere.
b) La dispositio consiste nel “fare la scaletta”, cioè nel selezionare il materiale così raccolto, eliminando decisamente il superfluo (rigore del discorso che elimina quel sentimentalismo per cui lo
studente si invaghisce dell’idea che gli è venuta ma che non c’entra niente e che finisce per portarlo
fuori tema) e disponendo in ordine quel che risulta pertinente. L’ordine deve tener conto degli elementi sopra enucleati (domanda, indicazioni, eventualmente suggerimenti) e dipende pertanto dalla
funzione complessiva del testo (descrivere, argomentare, esporre, narrare). Può aiutare tener presenti diversi modi di fare la scaletta (ragno, elenco a punti e sottopunti…). L’elenco a punti e sottopunti
è più utile perché permette di visualizzare l’articolazione linearizzata – può essere un passaggio im152
Parte terza. Scrittura
portante per prendere consapevolezza del proprio progetto e della sua articolazione, della quantità
di testo che occorre per svolgere ciascuna parte, quali saranno i paragrafi (gli “a capo”) e quindi in
quali punti sarà necessario inserire le parti di testo che annunciano o ricordano la struttura complessiva. È la struttura che va poi “tradotta” in parole. Emerge l’opportunità di non dare regole ma
consigli personali: la fase e il metodo di “visualizzazione” sono diversamente importanti a seconda
della sensibilità dello studente: fare un ragno per qualcuno è la liberazione della ragione, ma per
altri è una tortura che si può risparmiare.
c) La dimensione elocutiva (elocutio), infine, deve inserire nella linearità del testo gli elementi
selezionati, nell’ordine stabilito, annunciando esplicitamente la funzione di ciascuna parte entro
l’articolarsi complessivo del progetto, attraverso segnali di interpunzione, connettori e porzioni del
testo che si collocano all’inizio del testo stesso o nei punti in cui si deve inserire un’articolazione
tra una parte e l’altra, in modo tale da realizzare un insieme organico (la metafora dell’articolazione
rimanda proprio a questo) nel quale le parti non siano semplicemente poste l’una accanto all’altra,
ma connesse in vista di un senso compiuto. Uno strumento elocutivo può essere la metafora (Rigotti
e van Rees 2011).
Scrivere può essere un esercizio scolastico (lo è), ma alla fine la scrittura è un’azione, cioè qualcosa che viene o dall’io o altrimenti non c’è, dunque si può stimolare, esercitare ecc., ma alla fine
sgorga dal di dentro (è l’io che parla) – quindi non è insegnabile tramite tecniche, ma si dà solo
perché l’io si risveglia; forse per questo è inevitabile leggere per imparare a scrivere.
153
L’assegnazione del compito:
traccia o titolo?
di Raffaela Paggi
Un testo ha sempre origine in una domanda, consapevole o inconsapevole, e chi lo scrive ha il
compito di superare un’indefinitezza, di compiere un bisogno di conoscenza. Nella didattica della
scrittura il ruolo dell’assegnazione del compito, sotto forma di titolo o traccia, da considerarsi domanda esplicita anche se non necessariamente in forma interrogativa, è dunque fondamentale per
la felicità di un testo, in particolare del cosiddetto tema.
Ogni tipo di tema ha in sé una valenza educativa e un suo compito nel percorso didattico. Si pensi
al tema di descrizione, occasione per prendere coscienza della realtà in rapporto a sé attraverso l’impositio nominis, sottraendola alla scontatezza che impedisce la visione e la consapevolezza di essere
osservatori, cioè coscienti del rapporto che c’è tra l’oggetto osservato e la propria esperienza, la
propria storia. Favoriscono tale esperienza di scrittura le tracce17 che invitano a osservare gli oggetti,
i luoghi e le situazioni in ordine a uno scopo da perseguire e a un destinatario reale cui comunicare
le proprie scoperte, come le seguenti:
- Presenta a un tuo amico un oggetto a cui sei particolarmente affezionato per fargli capire le
ragioni del tuo interesse e del tuo attaccamento.
- Presenta la tua stanza ai tuoi genitori per convincerli che è ora di cambiare arredamento.
- Durante l’uscita a … abbiamo sperimentato un modo interessante di osservare. Presenta ai tuoi
compagni un luogo visitato mettendo in luce lo scopo della visita, il metodo seguito per conoscerlo,
le scoperte fatte.
Il tema di narrazione, il più frequentato nella scuola secondaria di I grado, sia come racconto di
esperienze effettuate, sia come testo di fantasia, ha il grande valore di favorire l’esperienza del narrativo, così come la definisce Flannery O’Connor (1993:45): “per lo scrittore di narrativa l’intera storia è il significato in quanto esperienza e non astrazione”. Per favorire questa esperienza di scrittura
sono ideali quelle tracce che invitano a rendere “il più alto grado possibile di giustizia all’universo
visibile” (J. Conrad), chiedendo di porsi in un particolare punto di vista, di organizzare il testo in
vista di una possibile conclusione che aiuti l’emergere del giudizio (non giustapposto agli eventi, ma
incarnato in essi), di dar spazio e tempo alla descrizione degli eventi e dei personaggi, che devono
risultare presenti alla visione del lettore. Due esempi:
- RACCONTO DI ESPERIENZA: Il lavoro teatrale svolto quest’anno su alcune novelle del Decameron
ti ha aiutato a conoscere meglio i testi del Boccaccio? Ripercorrendo con la memoria le fasi del lavoro
svolto, esprimi il tuo giudizio in proposito.
- RACCONTO DI FANTASIA: Immagina di essere il primo soldato dell’esercito troiano che, dopo la
scomparsa di Paride, intuisce ciò che Pandaro vuole fare. Sei uno di quei “fidi amici” che cerca di coprirlo con lo scudo. Racconta cosa vedi, quello che pensi, se hai paura o solo desiderio di finire questa
guerra.
17 Le tracce qui presentate sono state assegnate nell’a.s. 2010/2011 nelle classi terza media, prima e seconda liceo della
scuola paritaria Fondazione Sacro Cuore di Milano.
154
Parte terza. Scrittura
Particolare attenzione richiede la formulazione delle tracce del tema argomentativo, più complessa per ragioni inerenti tre aspetti problematici: lo scopo del tema; la scelta delle tematiche; gli
elementi costitutivi della domanda con cui il docente assegna il compito di scrittura.
Che scopo ha il tema, in particolare il tema argomentativo, nella scuola? Vi è chi prende le difese
e chi si scaglia contro tale attività di scrittura (Serianni – Benedetti 2009), la quale, però in ambito
scolastico continua a essere la principale modalità di verifica dell’incremento della capacità critica,
della crescita categoriale dello studente, della sua metànoia: quel processo per cui si riformulano le
categorie di lettura della realtà, gli strumenti concettuali con cui conosciamo la realtà, e che può
avvenire durante la produzione testuale per vari motivi. Ad esempio, perché la domanda che stava
all’origine è costretta a riformularsi dal manifestarsi di una contraddizione che nel progetto iniziale
non appariva, oppure perché la ricerca delle parole per descrivere concetti e situazioni ne rivela la
parzialità della comprensione che pareva inizialmente cristallina.
Il tema, descrittivo, narrativo o argomentativo che sia, può essere occasione di metànoia a condizione che non sia esercizio retorico o atto comunicativo fondato su un rapporto inautentico tra
studente e docente, ma “testo che risponda in modo autenticamente personale, ossia argomentando
con correttezza logica e adeguatezza espositiva sulla base della propria effettiva personale, a domande non banali” (Rigotti 20091: 150). La formulazione della traccia in tale prospettiva ha un’importanza capitale, in quanto deve essere in grado di invitare a mettere a fuoco un argomento, a dar
peso a un aspetto problematico, ragionando sul quale chi scrive è messo in condizione di passare da
una certa concezione della realtà a una categorialità più matura.
Se questo è lo scopo nobile del tema, sarà riduttivo concepirlo alla stregua di verifica degli apprendimenti, chiedendo l’esposizione di percorsi conoscitivi condotti e conclusi durante le lezioni.
Il tema verrebbe così a coincidere con una relazione, attività utilissima in ambito scolastico, ma
ancora lontana dall’idea di tema come occasione di metànoia.
Si prenda in considerazione il seguente titolo:
Nei libri dell’Eneide letti finora si è notato come alcune relazioni umane siano fondamentali e irrinunciabili per i protagonisti. Alcune di esse sono rapporti tra famigliari: spesso Enea ha bisogno di
loro o essi hanno bisogno di lui per districarsi nelle circostanze in cui si trovano o per procedere nella
loro esistenza. Prendi ad esempio la relazione tra Enea e un suo famigliare e, citando episodi e versi
dal testo, descrivilo e spiega quali sono i motivi dell’importanza di questo rapporto.
Il compito risulta essere la verifica di quanto conosciuto durante le lezioni dedicate all’Eneide
attraverso la rilettura di uno dei casi particolari già presi in esame per giungere alla scoperta di una
legge generale (l’importanza delle relazioni umane per i protagonisti dell’Eneide).
L’operazione che però ostacola maggiormente la messa in moto dell’argomentazione è quella di
fornire agli studenti una tesi già data, chiedendo loro di avvalorarla. In tal caso il tema risulta essere
un esercizio retorico (l’amplificatio di una sentenza), che non sfida il giovane scrittore a formulare
una propria tesi su un punto infuocato del percorso conoscitivo e a costruire un discorso che la
renda appetibile e degna di essere sottoposta al vaglio critico della ragione altrui.
Un esempio:
“Lo scopo di ogni mistero non è l’oscurità bensì la luce.” (G.K. Chesterton): avvalora tale affermazione facendo riferimento alla tue letture personali e domestiche.
È evidente in questo titolo che l’affermazione di Chesterton non viene sottoposta al vaglio della
ragione (anche perché non vengono offerti né i presupposti né gli argomenti dell’autore, ma solo
155
Parte terza. Raffaela Paggi
una sua affermazione, mentre l’argomentazione non è appena scambio di tesi, ma scambio di ragioni). Poco spazio è lasciato alla libertà dello studente, il quale dovrà semplicemente cercare nella sua
esperienza di lettore argomenti a favore della tesi per avvalorarla. Il titolo non suggerisce nemmeno
di mettere in crisi i termini dell’affermazione, ad esempio non invita esplicitamente a problematizzare la definizione del termine “mistero” o a uscir di metafora ricostruendo i significati possibili di
“oscurità” e “luce” e il loro nesso con il “mistero”.
Titoli siffatti sono da considerarsi validi solo se si è coscienti di essere nell’ambito delle esercitazioni retoriche propedeutiche all’argomentazione vera e propria (Rocci in questo volume a proposito
dei praeexercitamina).
Che tipo di consegna allora favorisce la crescita dell’autocoscienza dello studente nell’attività
della scrittura? Un titolo che sia rispettoso della sua natura di domanda.
La domanda, nella sua funzione semantica più profonda, è manifestazione del desiderio di incrementare il nostro sapere. Non nasce da una totale ignoranza, bensì da una carenza di sapere, una
carenza che causa appunto l’atto del domandare. “La domanda manifesta un sapere incompleto, e il
non sapere è limitato a ciò che viene chiesto. La domanda del mittente e la serie di conoscenze che
essa presuppone indicano poi al destinatario su che cosa verte la domanda stessa; l’interlocutore è
così orientato nella formulazione della risposta. […] Già Platone aveva messo in luce questo paradosso; esso compare nel Menone […] messo alle strette da Socrate, Menone si difende così: -Ma in
quale modo Socrate andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori
farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella
che cercavi, se non la conoscevi?” (Gobber 1987).
Non si conosce se non ciò che in parte si sa già: la verità delle cose è data, ma la si raggiunge
per approssimazione e il cammino della conoscenza assomiglia a una spirale, perché l’interesse per
un particolare oggetto indagato muove la ragione a cercare risposte a domande che spalancano la
prospettiva all’infinito.
Tale concezione della dinamica del sapere ci fornisce due indicazioni importanti sulla formulazione delle tracce del tema argomentativo, che tengono presenti gli altri due aspetti problematici
sopra esposti: la scelta delle tematiche e gli elementi costitutivi della domanda con cui il docente
assegna il compito di scrittura.
L’argomento di cui si chiede di trattare non può che essere noto, ma occorre che l’oggetto di conoscenza sia riconosciuto come problematico, almeno per quanto riguarda l’aspetto che si intende
mettere a tema.
Un esempio:
Il 17 marzo, giorno dell’anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, quest’anno è festa
nazionale. In classe abbiamo analizzato alcuni testi intorno all’opportunità di celebrare una storia per
molti aspetti discussa e la giornata di festa è stata un’occasione per riflettere su che cosa significhi
essere italiani e sul peso che questa identità ha nella nostra vita quotidiana.
Scrivi, allora, un testo in cui, dopo aver ricostruito il dibattito, provi a rispondere alle domande: che
cosa significa per te, oggi, essere italiano? In che forma sperimenti l’appartenenza al nostro popolo?
Parti dalle tue conoscenze e dalla tua esperienza, preoccupandoti di dare ragione delle affermazioni,
cercando di metterne in luce il valore.
Nell’esordio, introduci la tua trattazione partendo da una circostanza in cui hai avuto occasione di
porti il problema che affronti nel testo.
156
Parte terza. Scrittura
Il compito assegnato chiede di posizionarsi rispetto a un dibattito intorno all’obbligo di celebrare
la proclamazione del Regno d’Italia. Un dibattito ricostruito in classe e personalmente, che ha messo
in luce la problematicità della questione. Si chiede allo studente, tenendo conto di quanto già sa
sull’argomento, di ripercorrere il lavoro svolto collocando nella ricerca la sua particolare esperienza,
al fine di trovare il senso dell’essere italiani e il significato del termine appartenenza a un popolo.
Interessante anche l’indicazione circa l’esordio: esso deve contenere il riferimento al contesto, deve
mostrare un aggancio alla realtà in cui il problema si genera. Tale formulazione risulta migliore della
seguente, che, pur avendo sostanzialmente la stessa consegna, non pare nascere da, o almeno non fa
riferimento a “una trattazione previa, domestica o in classe (o mista), della situazione da cui nasce
il problema che permetta di dominare la issue stessa nei suoi aspetti essenziali, per poter formulare
una tesi plausibile e disporre di argomenti adeguati” (Rigotti, Preparando il tema argomentativo in
questo volume):
In occasione dell’anniversario della proclamazione del Regno d’Italia.
“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” (G. Gaber, Io non mi sento italiano,
2003). Tu ti senti italiano? Cosa significa, per te, oggi, essere italiano? Nel rispondere alle domande,
parti dalla tua esperienza, preoccupandoti però di dare ragione delle affermazioni che fai, cercando di
metterne in luce il valore e partendo da una circostanza in cui hai avuto occasione di porti il problema
che affronti nel testo.
Nella scelta degli argomenti non è da sottovalutare inoltre la categorialità con la quale si interrogano gli studenti: spesso si utilizzano termini che invitano allo stereotipo e non a una riflessione
autentica sull’esperienza, condizione per l’acquisizione di una categorialità più matura. Si leggano
le seguenti consegne, riportate nel già citato libro di Serianni-Benedetti, Scritti sui banchi:
Come una barca in mezzo al mare ha bisogno della bussola per orientarsi, così l’adolescenza necessita di punti di riferimento per la propria esistenza.
Riflessioni sul bullismo giovanile.
L’uomo e l’ambiente: un rapporto sempre più problematico.
… quale può essere il ruolo dei giovani nella lotta della società civile contro la criminalità organizzata?
I termini con cui vengono indicati i temi da trattare inducono a una lettura stereotipata della
realtà (adolescenza, bullismo, ambiente, giovani…), e lo stereotipo ha proprio il potere di eliminare la
problematicità, la drammaticità. “I giovani”, ad esempio, è un termine generico, che denomina una
categoria dai confini labili e di cui si suppone lo studente dovrebbe sentirsi parte, ma al contempo
gli si chiede di tirarsene fuori per formulare un giudizio sul ruolo di tale categoria nella lotta contro
la criminalità organizzata (tema peraltro che creerebbe qualche problema anche agli adulti!).
La formulazione della traccia soddisfa i requisiti della domanda vera e propria se da un parte
interroga un aspetto della realtà conosciuto per poterne sperimentare un nuovo possesso e incrementare la propria autocoscienza, e se dall’altra è in grado di fornire gli strumenti per la ricerca e
l’attestazione della risposta: tutto il contenuto in essa viene organizzato in vista dello scopo. Anche
la domanda più semplice infatti dà precise indicazioni per la sua soddisfazione: nella domanda “Chi
ha mangiato la marmellata?” - che nasce da una carenza di sapere: si sa che la marmellata è stata
mangiata da qualcuno - il pronome chi individua un paradigma: qualcuno di indefinito. Rispondere
alla domanda significherà sottrarre all’indefinitezza quel qualcuno, determinandone l’identità con
157
Parte terza. Raffaela Paggi
un sintagma definito (io, Piero, mio fratello…). La consegna di un tema è naturalmente una domanda
più complessa: a maggior ragione dovrà dunque esplicitare gli strumenti attraverso cui lo scrittore
potrà darle soddisfazione.
La seguente consegna è, ad esempio, carente in questo:
“La poesia nasce dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita nel suo significato. Anche la normalità diventa poesia quando si fa contemplazione, cioè cessa di essere normalità
e diventa prodigio”. (C. Pavese, Il mestiere di vivere). Ti è mai capitata un’esperienza del genere?
Rispondi alla domanda tenendo presente anche il lavoro svolto in classe sui testi di Betocchi e di
Caproni.
“Ti è mai capitata un’esperienza del genere?” appare come una domanda a risposta chiusa (sì/no),
necessita quindi di ulteriori indicazioni affinché sia possibile da essa generare un testo.
Quali elementi è allora auspicabile che una traccia di tema argomentativo contenga? Gli elementi sono suggeriti dai costituenti del testo argomentativo, elencati e illustrati nel contributo di
Eddo Rigotti, Preparando il tema argomentativo (in questo volume). La traccia deve cioè invitare a:
recuperare un aggancio al contesto in cui il tema ha catturato l’interesse dello scrittore; esporre o
narrare i fatti, descrivere la situazione che si è rivelata come problematica; ricostruire il dibattito
evidenziando quanto si condivide e quanto si contesta delle ragioni altrui; avanzare una propria
tesi; costruire una catena inferenziale che assumendo come premesse le proposizioni esplicitamente
o implicitamente condivise nel dibattito provi la tesi sostenuta e smonti le tesi avverse; concludere
evidenziando come gli esiti del proprio ragionamento coincidano con la propria tesi.
Ecco due esempi di tracce che favoriscono il costituirsi di un testo argomentativo, la prima tipica
del lavoro che nel biennio si fa a ridosso del testo letterario, la seconda che, prendendo spunto dalla
lettura di un testo letterario, invita a pervenire alla definizione di un concetto dalle forti implicazioni
esistenziali e civili:
“…Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma
l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse” (I promessi
sposi) .
È questo un giudizio che Manzoni esprime dopo aver raccontato la storia di Gertrude. L’autore
sembra lasciare intendere che la monaca non è solo vittima del padre ma ha una parte non secondaria
di responsabilità nella propria infelicità.
Confrontandoti con il giudizio di Manzoni, proponi un tuo giudizio argomentato al riguardo, che
comprenda precisi riferimenti ai due capitoli del romanzo in cui è raccontata la vicenda.
Poni particolare cura e attenzione nel comporre l’esordio del tuo testo, in cui, senza bisogno di riassumere tutta la vicenda, porti all’attenzione del lettore il problema su cui vuoi esporre il tuo giudizio.
La traccia suggerisce l’affermazione manzoniana che riassume la drammaticità del rapporto tra
felicità come realizzazione di sé e responsabilità rispetto alle circostanze, come aggancio al contesto
(il romanzo) in cui il tema ha destato interesse, invita a ripercorrere i fatti narrati nei capitoli dedicati alla storia di Gertrude, cogliendo la problematicità della situazione, chiede di porsi in dialogo
con le ragioni avanzate da Manzoni a sostegno della sua tesi per poi avanzare una propria tesi, suggerendo con l’aggettivo “argomentato” di costruire una catena inferenziale che, assumendo come
premesse le proposizioni esplicitamente o implicitamente condivise nel dibattito con l’autore, provi
la tesi sostenuta ed eventualmente smonti la tesi avversa. La seconda traccia:
158
Parte terza. Scrittura
La lettura dei Promessi Sposi ha portato alla nostra attenzione più volte il problema della giustizia
e dell’ingiustizia.
D’altra parte “giustizia” è una parola che frequentemente si sente in televisione (hanno fatto giustizia…, è stata chiesta giustizia…, giustizia è fatta …), ma anche nelle conversazioni quotidiane (non
è giusto!).
Prova a scrivere un testo in cui affronti il problema a partire dalla tua esperienza e dalle tue letture,
per giungere a una ipotesi di definizione di che cos’è la giustizia.
Poni particolare cura e attenzione nel comporre l’esordio del tuo testo, in cui devi limitare il campo
della riflessione facendo capire a chi legge come tu ti sei posto il problema che affronti.
Anche in questa traccia è offerta una serie di possibili agganci al problema della giustizia e si
suggerisce di scegliere quello che ha destato l’interesse sulla questione. È esplicito l’invito a cimentarsi nella formulazione di una propria tesi, mentre rimangono impliciti la richiesta di ricostruire il
dibattito intorno alla definizione del termine e l’invito a costruire una catena inferenziale.
Diversamente la seguente traccia sulla medesima tematica
Giustizia.
In quanto abbiamo finora letto sia ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni che nella Medea di
Euripide e nel romanzo Fontamara di Ignazio Silone emerge con urgenza il problema della giustizia.
Dopo aver presentato sinteticamente i termini della questione nelle opere citate, esponi in un testo
argomentativo che cos’è per te la giustizia. Non fare un discorso generale, ma parti dalla tua esperienza concreta e quotidiana, esponendo le riflessioni che da essa ti sorgono
chiede di ricostruire il percorso conoscitivo effettuato intorno alla definizione del termine (limitandosi all’ambito letterario), ma non suggerisce in che modo mettere in relazione la propria esperienza personale sul tema con le posizione espresse da altri, così che non favorisce il vaglio critico
delle ragioni altrui e induce invece a concepire l’argomentazione come un dire la propria posizione
accanto a quella di altri.
A tale proposito è interessante l’indicazione di metodo che Luigi Giussani (2010: 119-120) offre
per pervenire alla definizione dei nomi astratti: “Voglio infatti richiamare una questione di metodo,
perché se io chiedessi che cos’è la libertà la grande maggioranza risponderebbe secondo immagini,
definizioni o sensazioni determinate dalla mentalità comune. […] Come facciamo dunque a sapere
che cosa è la libertà? Le parole sono dei segni con cui l’uomo identifica una determinata esperienza:
la parola amore individua una determinata esperienza, la parola libertà individua una determinata
esperienza. L’esperienza è descritta innanzitutto dall’aggettivo corrispondente, perché l’aggettivo è
descrizione veloce e sommaria di una esperienza vissuta; il sostantivo poi sarà come una tentata
definizione che deriva dall’aggettivo. Così per capire che cos’è la libertà noi dobbiamo partire dalla
esperienza che abbiamo del sentirci liberi. Quando la nostra esperienza naturale, giudicata secondo
le evidenze ed esigenze elementari, ci fa sentire liberi?”.
Tener presente questo itinerario (dall’aggettivo al sostantivo) nella formulazione delle tracce che
richiedono la definizione di un termine, può essere un utile suggerimento per favorire che il tema sia
occasione di metànoia. Così come andrebbe tenuto in seria considerazione il ricorso alle domande
critiche, non solo in fase di preparazione al tema, ma anche nella formulazione stessa delle tracce:
“senza ovviamente pretendere di esaurire le modalità di intervento, che, in ogni caso, dovranno
sgorgare dalla situazione concreta, propongo a puro titolo di esempio alcune ‘messe in crisi’”:
(A) Se per te l’amicizia è trovarsi a proprio agio, allora i pubblicitari che sono i più abili in questo
159
Parte terza. Raffaela Paggi
sono i tuoi più grandi amici!
(B) Se una cosa è bella quando piace a te, allora a uno può piacere, a un altro no! In realtà non c’è
niente di bello.
(C) Secondo te uno che dice comunque cose vere non può ingannare, ma se la verità affermata è
parziale, si possono far credere cose molto sbagliate. Per esempio, se uno si limita a dire che Nerone
voleva bene a poeti e filosofi…
Il lavoro sul tema, nel contesto della classe, può diventare un’importante laboratorio di categorialità” (Rigotti 20091: 152).
160
Testi propedeutici alla scrittura
Daniela Notarbartolo
Il tessuto del testo e la scrittura
Il testo (textum) è come un arazzo il cui disegno finale comporta un intreccio dei fili piuttosto
complesso. Imparare a scrivere presuppone la capacità di dominare consapevolmente una tessitura
sintattica e logico-argomentativa. Se l’organizzazione del discorso è connaturale all’uomo e alla sua
razionalità, tuttavia è necessario dare occasioni allo studente tra i 10 e i 16 anni perché la osservi
e si eserciti a costruirla. È infatti soprattutto in questa età che l’esercizio della scrittura diventa
occasione di riordino del pensiero e di potenziamento della capacità logico-argomentativa: organizzare gerarchicamente i paragrafi e rapportare le idee a precisi fini comunicativi diventa un compito
estremamente formativo.
In questo senso la struttura logica del discorso, che è innata come fatto di ragione, va appresa come operationes: usando una immagine, anche la spada, la cui natura è recidere, per essere
effettivamente utilizzabile deve essere affilata. Così anche attraverso forme di scrittura che sono
state chiamate “ludiche” (o praeexercitamina) lo studente prende atto di alcuni “oggetti” specifici
sui quali si basa l’ordine del discorso e che come tutti gli oggetti richiedono di essere conosciuti
nelle loro potenzialità. Gli “oggetti” di cui lo studente diventa progressivamente consapevole sono
di duplice natura, in quanto si riferiscono a due livelli diversi dell’organizzazione del discorso: uno
di superficie, il livello sintattico - lo studente deve imparare, per esempio, a costruire una relativa
complessa o una subordinata al congiuntivo, a padroneggiare i connettori, ecc. (è un versante di cui
qui non ci occupiamo); e uno di livello più profondo, che riguarda la costruzione logica del discorso:
lo studente deve osservare e saper controllare le successioni tema-rema e le sequenze logiche che
creano mosse testuali coese.
Questi due versanti sono evidentemente aspetti di un medesimo atto comunicativo, anche se dal
punto di vista didattico giova imparare a padroneggiarli distintamente. Così nel Quadro di riferimento per la scrittura, redatto congiuntamente dall’Accademia della Crusca e dall’INVALSI (INVALSIAccademia della Crusca 2009), vengono presentate distintamente aree di competenza linguistiche
(morfosintattiche e lessicali-semantiche) e logico-argomentative (ideativa e testuale).
Tipologia testuale e implicazioni didattiche
Può essere utile, proprio per le sue ricadute sulla didattica, riandare alla distinzione, attuata
nell’ambito della riflessione tipologica, fra Textype, ossia tipi testuali – narrativo, descrittivo, argomentativo, regolativo e espositivo – e Textsorten, ossia testi “tipici” governati da precise regole
pragmatiche, come l’articolo di fondo e la cronaca, ma anche altri scritti come ad esempio un
verbale di polizia, il regolamento di condominio, il bugiardino dei medicinali, la voce enciclopedica.
Questo ha portato all’ampliamento dei tipi di scritto scolastico a tipologie quali, per esempio, la
recensione di uno spettacolo o di un film o la relazione su una uscita didattica.
Quanto alla caratterizzazione dei Textype, è molto diffuso nelle indicazioni ministeriali il modello
Werlich-Lavinio, che fonda la classificazione tipologica su una base cognitiva: il testo descrittivo
161
Parte terza. Daniela Notarbartolo
trarrebbe la sua origine dalla percezione di oggetti statici collocati nello spazio, di cui si colgono
somiglianze e differenze; la narrazione dalla percezione di oggetti in movimento collocati nel tempo, di cui si colgono le trasformazioni; l’esposizione dalla percezione di concetti per via analitica
e sintetica; l’argomentazione dalla percezione delle relazioni fra concetti e dalla loro selezione in
relazione agli scopi. Oltre alla matrice cognitiva, inciderebbe sulla tipologia del testo il criterio pragmatico del macro-atto linguistico dominante: i testi descrittivi vengono così caratterizzati come
quelli che “informano”, i narrativi come quelli che “intrattengono-raccontano”, gli esplicativi come
quelli che “spiegano”, gli argomentativi come quelli che “convincono/persuadono”.
La classificazione in tipologie, non priva di rigidità, ha investito anche il testo letterario, enfatizzando gli elementi “strutturali” invarianti rispetto al fluttuare delle realizzazioni individuali.
Da qui la costruzione di tassonomie di testi basate su “regole” che consentono di assegnare i testi
reali alle diverse categorie, salvo ammettere poi che non esiste una tipologia pura, ma che tutti i
testi hanno carattere misto.
La presenza invasiva delle tipologie testuali all’interno dei programmi della scuola secondaria di I
grado fa sì che l’insegnamento della scrittura si riduca spesso a imitazione di “modelli”. A ben vedere
le tipologie testuali non possono essere categorie precostituite da applicare alla realtà linguistica
dei testi, cosicché produrre un testo diventi la replica di un frame.
L’insistenza sul saggio breve, l’articolo di giornale e l’analisi del testo, specialmente nel triennio
delle superiori, ha avuto come effetto il mancato presidio didattico delle dimensioni connaturate
allo scritto, l’aspetto linguistico e quello logico-argomentativo. Una recente ricerca INVALSI a partire dalla ricorrezione di un campione di prove di italiano all’esame di Stato, basata sul citato Quadro
di riferimento, ha mostrato che risultano lacunose sia la dimensione semantico-lessicale sia quella
morfosintattica, ma che risultano addirittura paurosamente sguarniti il dominio della progressione
tematica attorno a un centro ideativo e l’architettura del testo, e questo a prescindere dalla tipologia testuale scelta (INVALSI 2012).
Scritti su consegne vincolate e propedeuticità alla scrittura
Anche se ancora lontane dall’obiettivo dell’impostazione problematica del tema, le scritture su
consegna che lavorano esplicitamente sulle strutture (o praeexercitamina) consentono di accostarsi
alla natura dell’oggetto-scritto.
Al fine di favorire la consapevolezza dell’organizzazione logica del testo, è utile che uno studente
della scuola superiore conosca i concetti di tema-rema (Rocci, in questo volume). Ricordiamo che
per tema si intende ciò da cui il parlante prende le mosse, e per rema ciò che nelle intenzioni del
parlante è meritevole di attenzione. A tema vien messo l’oggetto dell’interesse comune agli interlocutori, mentre il rema compie l’attesa suscitata dal tema. Negli enunciati:
Luigi arriva domani.
Domani arriva Luigi.
il dato meritevole di attenzione è nel primo esempio domani, nel secondo Luigi. La domanda a cui
ciascuno dei due enunciati risponde, e quindi il loro scopo, è rispettivamente:
Quando arriva Luigi?
Chi arriva domani?
162
Parte terza. Scrittura
In italiano nell’enunciato con ordine regolare (soggetto-verbo-oggetto) il tema coincide con il
soggetto e il rema con tutta la predicazione:
[Luigi] [arriva domani].
Quando invece si vuole rendere rema non la predicazione bensì un altro elemento dell’enunciato,
si può ricorrere a un enunciato con ordine marcato, oppure alla trasformazione passiva:
La fa la mamma, la spesa (qui il soggetto viene reso rema; cf. La mamma fa la spesa)
Il provvedimento è stato approvato dal consiglio comunale (qui il soggetto viene reso rema; cf. Il
consiglio comunale ha approvato il provvedimento).
Lo stesso principio vale per la successione degli enunciati nel testo: una parte di testo può produrre un rema che diventa a sua volta tema nell’enunciato successivo e così avviene la progressione
del discorso:
Domani arriva Luigi. Non lo vedo da un secolo (il rema Luigi ha continuità nel pronome lo).
Luigi arriva domani. Abbiamo tutto il tempo di preparargli la stanza. (il rema domani ha continuità
in tutto il tempo).
Sarebbero poco efficaci nello scritto le successioni (accettabili nel parlato):
Domani arriva Luigi. Abbiamo tutto il tempo di preparargli la stanza.
Luigi arriva domani. Non lo vedo da un secolo.
Spesso gli studenti ignorano del tutto il dinamismo comunicativo che sovrintende al rapporto fra
un enunciato e l’altro e non lo sanno governare, per cui lo scritto, pur pertinente e corretto, non
“progredisce” comunicativamente in modo adeguato. Possono inoltre essere osservate le progressioni tematiche. Ce ne sono di diversi tipi: quella in cui il tema resta costante (più elementare), quella
in cui il rema del primo enunciato diventa tema nel secondo:
Il cane è il miglior amico dell’uomo. Dal cane ci si può aspettare affetto e fedeltà…
Il primo antibiotico fu scoperto nel 1928 da sir Alexander Fleming. In quel periodo il grande scienziato stava compiendo alcune ricerche…
Un altro modo interessante di tessere l’architettura del testo è lo sdoppiamento del rema in due
temi:
Un mazzo di carte (tema) può essere usato in due modi differenti (rema).
Il primo modo (tema1) è il gioco di società (rema), …
Il secondo modo (tema2) è il solitario (rema), …
La scrittura su consegna può essere utilizzata anche per far acquisire consapevolezza della successione logica delle sequenze o “movimenti testuali” (Gatti, in questo volume). Alcune successioni
logiche si ripresentano sistematicamente nei testi, ad esempio causa-effetto, problema-soluzione,
processo-fasi, tutto-parti, generale-particolare (secondo l’esemplificazione fornita dal Rapporto
OCSE PISA 2009). La conoscenza delle relazioni logiche permette di riconoscere in un testo che cosa
163
Parte terza. Daniela Notarbartolo
una certa parte fa (non solo che cosa dice) rispetto a quanto precede o a quanto segue. Pertanto una
parte di testo può “fornire un esempio” di un concetto, oppure “dare la giustificazione” di qualcosa
che è stato detto ecc. Significativo in proposito un quesito OCSE PISA, nel quale fu chiesto di evidenziare il rapporto logico fra i due segmenti di testo:
“Per evitare danni minori ma dolorosi, come le vesciche o anche piccole lesioni o il piede d’atleta
(un’infezione da funghi), …”
“…la scarpa deve consentire l’evaporazione e la traspirazione e deve impedire la penetrazione
dell’umidità esterna.”
proponendo come corretta la seguente risposta, da scegliere fra quattro alternative: “la seconda
parte dà la soluzione (quindi “fa qualcosa”) del problema presentato nella prima”.
Anche nelle prove statunitensi SAT per l’ingresso all’università si possono trovare domande analoghe, come nell’esempio che segue. Dato un certo segmento di testo, viene formulata la seguente
richiesta:
“Lo scopo principale del testo 1 è:
(A) fare una comparazione
(B) discutere un’ipotesi
(C) risolvere una controversia
(D) giustificare una distinzione
(E) evidenziare una preoccupazione”.
In questa prospettiva anche le tipologie testuali, riconducibili a tipi particolari di successioni
logiche,
Descrittivo: tutto-parti o generale-particolare
Narrativo: processo-fasi, causa-effetto
Espositivo: concetto-esempio, generale-particolare, causa-effetto
Argomentativo: somiglianza-differenza, contrasto, problema-soluzione
possono diventare utili praeexercitamina propedeutici alla scrittura.
In qualunque tipo di scritto la costruzione consapevole dei nessi logici, esplicitati o meno da
connettivi, è cruciale. Per questo è utile imparare a osservare le successioni logiche, cioè a vedere
materialmente la coerenza e la coesione delle parti.
Secondo la mia esperienza di insegnamento, gli scritti su consegne vincolate (particolari successioni tema-rema, particolari sequenze logico-testuali, ma anche particolari vincoli linguistici)
favoriscono l’argomentazione autonoma.
Il rapporto fra esperienza e pagina scritta non è diretto, ma mediato da elementi strutturali, che
consentono di dare ordine al magma che urge dentro la coscienza. Ancora in non pochi temi di
maturità invece lo scritto è concepito come un torrente di emozioni senza argine, il che mostra la
mancata padronanza della forma scritta. L’obbedienza al vincolo dato comporta per lo studente il
passare dal flusso incontrollato alla consapevolezza dell’esperienza, cioè al giudizio. Scrivendo, un
ragazzo mette ordine sia perché linearizza un vissuto che non sempre è sequenziale, sia perché assegna a questa linearizzazione una struttura concettuale capace di rappresentare il senso. In questo
modo scrivere diventa un momento di ristrutturazione dell’esperienza e quindi di incremento della
conoscenza di sé.
164
L’argomentazione: procedimenti,
funzioni e ruolo educativo
Sara Greco Morasso
L’emergere dell’argomentazione
L’argomentazione nasce di fronte a un aspetto problematico, non neutro, della realtà. Nel rapporto con altre persone, spesso questa problematicità si manifesta come un contrapporsi di posizioni:
sorge quella che è stata definita, nella tradizione degli studi sull’argomentazione, una “differenza
di opinioni” o anche, con un termine più netto, un “conflitto di opinioni”, che è condizione indispensabile per il dibattito (van Eemeren e Grootendorst 2004). Argomentare è dare le ragioni della
propria posizione in una discussione caratterizzata dal tentativo di risolvere la differenza di opinioni
in modo ragionevole.
L’argomentazione nasce quindi dal rapportarsi del soggetto con la realtà, a livello conoscitivo e
pragmatico. Quando emerge un problema di conoscenza, l’argomentazione aiuta a capire, a giungere a una certa conclusione, inizialmente ignota, a partire da premesse note. Si tratta di un tipo
di situazione molto frequente e molto importante nella scuola, in discipline diverse. Ci sono affinità
con le discipline matematiche e la geometria; c’è argomentazione conoscitiva in storia e geografia,
dove consulto fonti diverse per conoscere eventi lontani nel tempo o nello spazio; quando interpreto
una poesia o un testo, cerco di capire cosa vuole dimostrare l’autore, seguendo il suo ragionamento.
Infine, noi ci aspettiamo argomentazione conoscitiva dai ragazzi quando chiediamo loro di scrivere
un testo, come un tema, spiegando perché un certo evento si è verificato.
L’argomentazione svolge poi un ruolo fondamentale a livello pragmatico, cioè a livello della
decisione e dell’azione. Questo avviene in moltissime delle nostre attività già a partire dalla prima
infanzia. C’è argomentazione pragmatica quando decidiamo cosa fare, o come farlo, o ancora ci
interroghiamo sul rapporto tra azione e scopo.
Il livello pragmatico e quello conoscitivo sono peraltro naturalmente connessi, perché l’azione si fonda sulla conoscenza. Per esempio, nel dibattito pubblico contemporaneo, si discute frequentemente sulla definizione di concetti come “essere umano” o “vita”; e questo tipo di dibattito,
di natura conoscitiva, è strettamente connesso a implicazioni pragmatiche, ad esempio a livello
giuridico.
Nel conflitto di opinioni, in rapporto al problema (ingl. issue) emerge una tesi; il termine equivalente in inglese, standpoint, suggerisce che la tesi è il punto in cui io mi pongo rispetto alla realtà.
Chi avanza una tesi è definito protagonista della discussione argomentativa, proprio per sottolineare
l’aspetto di presa di posizione (van Eemeren e Grootendorst 2004). Insieme al protagonista (A) si
pone un altro argomentante (B) che non si limita ad accettare la posizione di A in modo acritico
ma la mette in discussione. Spesso si usa, per identificarlo, il termine antagonista, che sottolinea
l’aspetto polemico dell’argomentazione; nel contesto dell’interazione a scuola, tuttavia, è più adeguato parlare di co-argomentante, perché i partecipanti a una discussione argomentativa non sono
parti coinvolte in un conflitto dialettico, ma compagni nell’avventura di approfondire la conoscenza
e di prendere decisioni ragionevoli. B può essersi formato un’opinione diversa, parzialmente o totalmente opposta a quella di A, oppure può semplicemente esprimere un’incertezza rispetto alla
posizione di A: “non sono convinto”. Entrambe le posizioni sono sufficienti per avere una differenza
165
Parte terza. Sara Greco Morasso
di opinioni e, quindi, per far scaturire, potenzialmente, una discussione argomentativa.
È importante ricordare qui che non ci può essere una presa di posizione se non c’è un soggetto
che abbia interesse e passione per la issue in questione e per la sua tesi, cioè che abbia una forte
relazione con l’oggetto (Muller Mirza et al. 2009). Non stupisce, a questo proposito, che le capacità
argomentative formali dell’uomo comincino a svilupparsi nella prima infanzia proprio a partire dal
momento in cui il bambino sente il desiderio di raggiungere un fine che ritiene importante (Stein
e Miller 1993). Vale la pena di soffermarsi questo tema perché, a volte, chi abbiamo di fronte non
coglie immediatamente l’interesse di quello che proponiamo; in questi casi, è possibile argomentare
anche sull’interesse, dare le ragioni per cui un certo tema è oggettivamente interessante, quando la
sua pertinenza non viene colta immediatamente.
Occorre fare due precisazioni a proposito della tesi, che è un tipo di giudizio, ovvero “l’atto assolutamente straordinario con cui l’essere umano prende posizione di fronte alla realtà e si impegna
di fronte a essa ad attestare questa sua posizione” (Rigotti 20091: 118).
Anzitutto, il giudizio che si assume proponendo una tesi di fronte ad altri deve già essere il frutto
di un ragionamento. La prima discussione argomentativa avviene in me; è in me che si confrontano
con libertà posizioni e argomenti diversi, come hanno riconosciuto alcuni psicologi sociali che hanno
riflettuto sul ragionamento individuale (Billig 1996). Il dibattito interiore è peraltro intessuto del
rapporto con gli altri, di quello che mi hanno detto le persone a me care.
È altrettanto importante considerare che, nel momento in cui la persona arriva a un giudizio e
assume pubblicamente una tesi, siamo solo alle porte dell’impegno argomentativo. Il giudizio, infatti, deve entrare nella discussione critica, essere paragonato con la posizione dei co-argomentanti,
essere sostenuto da ragioni anche pubblicamente. Questo naturalmente vale per i ragazzi e per gli
insegnanti: anche quando noi ci siamo dati le ragioni di una certa decisione, per esempio perché è
importante che i ragazzi conoscano questo o quell’autore, o ci siamo formati un giudizio di fronte a
un certo evento internazionale, le nostre posizioni devono entrare nel dialogo critico con i ragazzi,
con cui siamo co-argomentanti. Si tratta di una sfida difficile e bella, perché l’esito della discussione
non è mai scontato: l’insegnante diventa un co-argomentante e vive un dialogo che lo interroga, lo
può mettere in crisi e, spesso, lo fa crescere.
L’impegno argomentativo: la discussione critica
Fin qui si è parlato dell’origine dell’argomentazione: una differenza che emerge tra posizioni di
persone diverse, tra giudizi. Questo, tuttavia, non è ancora sufficiente: perché ci sia argomentazione,
le persone devono essere disposte a dare le ragioni dei propri giudizi, impegnandosi in quella che
idealmente si configura come una discussione critica (van Eemeren e Grootendorst 2004). “Critica”
non si intende qui nell’accezione polemica ma in quella positiva di “vagliare” e “verificare”, che
corrisponde al valore etimologico (il verbo greco kríno significa passare al setaccio, quindi vagliare).
La discussione argomentativa ideale, o discussione critica, è improntata alla ragionevolezza: idealmente, i co-argomentanti vogliono risolvere la loro differenza di opinioni, avvicinarsi al vero o alla
decisione più giusta. C’è un gusto dell’argomentare, del capire, del porsi delle domande finché non
siamo soddisfatti e anche del parlare insieme per aiutarsi in questo, che è tipico dell’argomentare.
In questo gusto, siamo vicini a chi affronta la matematica con passione: condividiamo la felicità di
vedere quello che prima non si vedeva, di dimostrare qualcosa di non evidente. La scrittura (il saggio
argomentativo, qualunque forma poi esso prenda) diventa qui un’occasione privilegiata in quanto si
tratta di un momento importante per la crescita dell’autocoscienza. Rileggendomi posso in qualche
166
Parte terza. Scrittura
modo prendere le distanze rispetto alla mia posizione, rivederla e approfondire la riflessione, in una
discussione critica con me stesso e con posizioni espresse da altri, ad esempio in famiglia, in classe,
in opere letterarie, nel dibattito pubblico, e così via.
Il tentativo di essere ragionevoli nella discussione argomentativa va al di là della coerenza logica
del ragionamento (razionalità), che è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’argomentazione. Essere ragionevoli significa anche tenere conto di tutti i fattori in gioco, inclusa la gerarchia
dei fini implicata, nel nostro caso, nel rapporto educativo. È importante ricordare la gerarchia dei
fini, per esempio, per modulare la frequenza e le modalità della correzione degli errori. Essere ragionevoli significa anche usare una categorialità adeguata nella descrizione della realtà, comprendendo ciò che accade nel contesto che ne rivela il significato profondo. Inoltre, una decisione ragionevole è concreta, cioè tiene conto della situazione particolare, non è semplicemente l’applicazione
di una regola. Infine, come abbiamo già visto, l’atteggiamento ultimo di ragionevolezza implica che
si accetti di essere co-argomentanti, di mettersi in discussione, rispettando la ragione e la libertà
dell’altro (Rigotti e Greco 2005 per una discussione più dettagliata).
Uno “spazio per argomentare”
Non è difficile, leggendo qualche tema delle medie o delle superiori, riscontrare che i ragazzi
ritengono preziosi i momenti di “scambio di opinioni”, in cui è possibile “esprimere la propria opinione”. Questo è certamente importante: è un’implicazione fondamentale del principio di ragionevolezza garantire a tutti la libertà di assumere una posizione e di difenderla. Tuttavia, il valore educativo
dell’argomentazione sta proprio nel fatto che ci si spinge oltre lo scambio di opinioni. Ci si chiede
il perché della propria opinione; si dà credito alla ragione dell’altro come interlocutore ragionevole,
che può apportare un suo contributo; che può farmi notare un fattore che ho trascurato, sfidando
la mia ragione. Argomentare non è semplicemente esprimersi, anche se esprimersi è un presupposto
importante, ma è imparare il gusto di andare a fondo nelle proprie ragioni.
Imparare questo non è scontato, soprattutto in un contesto culturale in cui l’affermazione “io la
penso diversamente” è spesso percepita come la fine e non l’inizio del dialogo. “Io la penso diversamente” allontana le persone invece che avvicinarle perché si vede l’altro come intoccabile, non
si riconosce in lui la stessa ragione, lo stesso desiderio di capire. L’atteggiamento autenticamente
argomentativo è l’opposto: una differenza di opinioni è l’inizio di un percorso di conoscenza, di
un’avventura comune. Sempre a partire dalla lettura di temi di ragazzi delle medie e del liceo, è
interessante veder emergere la domanda di un rapporto argomentativo con l’insegnante, quasi la
richiesta di uno “spazio per argomentare”, come quando un tema si conclude con una provocazione
esplicita: “E sfido qualsiasi persona a provare a rispondermi”.
Limiti dell’atteggiamento argomentativo
La discussione critica è caratterizzata, idealmente, dal tentativo di risolvere una differenza di
opinioni in modo ragionevole. Non sempre, tuttavia, questo ideale si ritrova nelle pratiche argomentative concrete. Può essere utile ricordare alcune categorie di errori frequenti:
I co-argomentanti presentano tesi a proposito di problemi (issues) diversi e, di conseguenza, non
si configura un vero e proprio conflitto di opinioni: risulta impossibile avviare una discussione argo167
Parte terza. Sara Greco Morasso
mentativa autentica. È il caso di certo dibattito politico mediatizzato, di bassa qualità argomentativa, in cui i discorsi procedono in parallelo, senza confrontarsi.
In alcuni casi, la dimensione affettiva dell’argomentazione (Muller Mirza et al. 2009) può diventare un ostacolo invece che un aiuto. Questo accade perché prendere posizione entro un dibattito
argomentativo significa anche mettersi in gioco personalmente, al limite rischiare di “perdere la
faccia”. La situazione di asimmetria, che è naturale nel rapporto educativo, può favorire questo tipo
di difficoltà; pensiamo per esempio a quando i ragazzi cercano di indovinare quale risposta l’insegnante si aspetti per “accontentarlo”. O quando una differenza di opinioni che potrebbe portare
all’approfondimento della conoscenza si risolve con una scorciatoia non argomentativa, del tipo
“non puoi darmi ragione, qualche volta?”.
Idealmente, la discussione argomentativa si conclude quando la differenza di opinioni è risolta:
in altre parole, uno degli argomentanti capisce di avere torto e accetta la tesi dell’altro; o, come
più spesso accade, emerge una soluzione nuova, diversa dalle posizioni iniziali. A volte, tuttavia, le
discussioni argomentative si concludono senza essere veramente risolte: perché manca il tempo,
perché ci accorgiamo che l’altra persona potrebbe offendersi, perché non abbiamo dati a sufficienza,
perché veniamo distratti da altro… e così via. È importante distinguere tra una discussione risolta e
una discussione semplicemente conclusa.
Il cuore dell’argomentazione: il rapporto tesi-argomento
Per comprendere i fattori fondamentali dell’argomentazione, dobbiamo ora mettere a fuoco la
struttura interna di una singola mossa argomentativa: il testo argomentativo si costruisce su buoni
argomenti, quindi è importante che la connessione tesi-argomento sia solida.
Nella tradizione della teoria dell’argomentazione, questo tema è trattato nella topica, ovvero
nell’analisi dei luoghi argomentativi (gr. tópoi, lat. loci). Si parla di luogo argomentativo, metaforicamente, come il posto fisico “unde argumenta ducuntur”, ovvero il posto da cui si traggono gli
argomenti. Nell’analisi e nella costruzione dell’argomentazione secondo la topica, si va a cercare
entro l’argomento il suo nucleo essenziale e si astrae dalla concretezza delle parole e dei riferimenti
il principio di supporto che fa sì che l’argomento sia un buon argomento per sostenere quella tesi.
Nel medioevo, si usava il termine habitudo (nel senso di se habere ad) per indicare la relazione o
connessione ontologica tra tesi e argomento: ad esempio la causa efficiente, o il risultato, o la causa
finale, o l’analogia. Se mi trovo a voler difendere una tesi, devo ricercare le connessioni ontologiche
dello stato di cose descritto nella tesi con possibili argomenti. Nella tradizione della retorica antica
e nella tradizione medievale si ritrovano diversi tentativi di classificazione dei luoghi argomentativi,
intese come supporto all’inventio, cioè alla creatività argomentativa. Queste tradizioni sono arrivate
alla modernità con percorsi diversi e sono attualmente in fase di rielaborazione; è tuttavia generalmente riconosciuta l’utilità delle classificazioni topiche sia come strumento per l’analisi che come
supporto euristico.
Procederemo con l’analisi dettagliata di un esempio di argomento per metterne in luce il principio
di supporto dei diversi tipi di premesse implicate. Il nostro esempio è tratto dal tema di una giovane
scrittrice della seconda classe del liceo e si fonda sul luogo della definizione, un luogo certamente
molto frequente nel dibattito contemporaneo, come abbiamo già accennato, per quanto riguarda
concetti come “vita”, “dignità della vita”, “essere umano”. L’argomento che prendiamo in esame è
stato elaborato in risposta a un tema la cui traccia riguarda il rapporto tra letteratura ed esperienza:
Il filosofo e saggista Tzvetan Todorov, nel suo ultimo libro intitolato La letteratura in pericolo,
168
Parte terza. Scrittura
scrive in premessa: “Quando mi chiedono perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere:
perché mi aiuta a vivere”. Quale è il tuo rapporto con la letteratura? Ritieni che costituisca solo una
evasione dalla realtà o che possa in qualche modo aiutare a viverla? Argomenta la tua tesi.
La nostra scrittrice assume una posizione netta che poi argomenterà anche sulla base di un esempio, tratto dalla sua esperienza personale, di come la letteratura l’abbia aiutata a capire un suo stato
d’animo che da sola non riusciva a comprendere – il fatto di essersi per la prima volta innamorata. Il
racconto della sua vicenda personale è preceduto da questa presa di posizione argomentata:
“Il rapporto che c’è tra il filosofo e saggista e la letteratura è quasi di amicizia, poiché, come una
vera amica, la letteratura lo aiuta a vivere”.
Questa posizione riprende correttamente le parole di Todorov ma dice anche qualcosa in più,
perché il concetto di amicizia non compare né nelle parole di Todorov né nella traccia del tema. Si
dice qui che il rapporto che c’è tra Todorov e la letteratura è (quasi) di amicizia. È piuttosto semplice,
in questo passaggio, rintracciare tesi e argomento, che riformuliamo senza modificare la struttura
argomentativa:
Tesi: La letteratura è amica di Todorov
Argomento: Perché lo aiuta a vivere
Occorre anzitutto chiedersi dove sia il conflitto di opinioni o, in altre parole, perché la giovane
scrittrice senta il bisogno di argomentare. La ragione fondamentale è che si applica qui il predicato
relazionale “amico” alla letteratura invece che all’entità che noi ci aspetteremmo: un essere umano. Come può la letteratura essere amica? Questo è il problema (issue), da cui sorge una possibile
critica alla tesi; critica che l’autrice intuisce e anticipa, argomentando “perché lo aiuta a vivere”.
Così facendo, la giovane scrittrice ridefinisce il concetto di amicizia, appoggiandosi sul luogo della
definizione.
Vediamo nel dettaglio come è costruito il principio di supporto di questo argomento e quali premesse implicite sono coinvolte. La rappresentazione proposta in Figura 1 riprende l’analisi proposta
dall’Argumentum Model of Topics (AMT, Rigotti e Greco Morasso 2010).
Qui sono necessarie diverse osservazioni. Prima di tutto, la definizione come relazione ontologica
(luogo argomentativo della definizione) si declina in una specifica connessione inferenziale, che
Endoxon
LUOGO DELLA DEFINIZIONE Il tratto definitorio della proprietà “essere amico” è « aiutare a vivere » Massima
Premessa Minore (Datum)
La letteratura aiuta a vivere Se una certa entità possiede il tratto definitorio di una proprietà x, allora ad essa si applica la proprietà x Prima conclusione
Premessa Minore
La letteratura possiede il tratto definitorio della proprietà « essere amico » (di Todorov) Conclusione finale
La letteratura è amica (di Todorov) Figura 1: Analisi di un argomento secondo l’AMT
169
Parte terza. Sara Greco Morasso
chiamiamo massima: “se una certa entità possiede il tratto definitorio di una proprietà x, allora a
essa si applica la proprietà x”. Vi sono altre massime possibili per il luogo della definizione (si veda
l’esempio in Greco Morasso 2009); a ogni luogo, infatti, corrispondono più massime, che si attivano
in argomentazioni diverse.
Il ragionamento prosegue secondo un procedimento sillogistico: “La letteratura possiede il tratto
definitorio della proprietà ‘essere amico’ (di Todorov)” quindi la letteratura è amica (di Todorov).
Ma come sappiamo che la letteratura possiede il tratto definitorio della proprietà “essere amico”? Si tratta di un’affermazione che richiede di essere a sua volta argomentata. Qui cominciamo
a riscontrare, nell’argomento stesso, la necessità di un componente (sulla sinistra dello schema in
Figura 1) che, a differenza della massima, non è di natura formale-procedurale ma di natura contestuale o culturale; un componente ancorato al condiviso degli interlocutori, a ciò che essi pensano,
alle premesse che condividono. Questo componente, che chiamiamo “materiale” (Rigotti e Greco
Morasso 2010), è fondamentale perché senza ancoraggio al condiviso l’argomentazione rimarrebbe
una pura formula logica, vuota anche se valida. L’intreccio tra componente materiale e componente
procedurale è rappresentato, nel modello AMT, dalla struttura che ricalca la forma di una Y (Figura
1), in cui la conclusione del componente materiale va a costituire la premessa minore del componente procedurale.
Di solito ritroviamo nelle argomentazioni due tipi di premesse materiali che, insieme con la parte
procedurale, vanno a costruire l’analisi completa di un argomento: endoxon e datum. L’endoxon,
termine aristotelico (letteralmente: ciò che è nell’opinione comune), indica una conoscenza o un
valore generalmente condiviso dagli argomentanti e, quindi, spesso implicito. Il datum riguarda un
dato di realtà pertinente rispetto all’endoxon. Nel nostro caso (si veda ancora la Figura 1), il datum
è “La letteratura aiuta a vivere”; l’endoxon “Il tratto definitorio della proprietà “essere amico” è
aiutare a vivere”. Questa definizione di amico non è forse la più immediata o, quantomeno, non è
l’unica possibile; per questo, la nostra scrittrice la rende esplicita, scrivendo “come un vero amico,
la letteratura aiuta a vivere”, stabilendo così il livello di condivisione necessario perché il suo argomento possa essere accettato. Il richiamo esplicito di un endoxon non è frequente; esso è usato
appunto nel caso di una ridefinizione, oppure per sottolineare il richiamo a valori condivisi in un
certo contesto culturale.
Per concludere la nostra analisi, occorre dire che la giovane scrittrice è interessata a mostrare che la
letteratura, in generale, può aiutare a vivere e usa la sua esperienza personale come esempio a sostegno
di questa tesi. L’esempio è un tipo di argomento che in molti casi si fonda sulla massima “ab esse ad
posse valet illatio”, ovvero, se una cosa è effettivamente avvenuta, essa è possibile. Poiché la letteratura
ha aiutato questa giovane scrittrice a interpretare e comprendere la sua esperienza – cioè l’ha aiutata
a vivere – è possibile che la letteratura svolga questo ruolo nella vita di chiunque si accosti a essa. Va
osservato, dal punto di vista valutativo, che l’esempio mostra la possibilità ma non la necessità di un
certo evento; nel nostro caso, non è detto che quanto è successo alla giovane scrittrice accada sempre
a tutti. Poiché l’esempio compare molto frequentemente nei temi, può essere utile lavorare sul suo
potenziale argomentativo, legato alla capacità di mettere in luce il possibile, sottolineandone tuttavia
i limiti di applicabilità, dovuti al non poter stabilire una connessione necessaria. Il controesempio ha
un potenziale diverso: come è noto, basta un solo controesempio per invalidare un principio generale. I
criteri e la metodologia utilizzati nell’analisi di questo argomento e dei due luoghi menzionati, definizione ed esempio, possono essere applicati ad altri luoghi che si ritengano importanti come strumenti
euristici per la scrittura. Suggeriamo in particolare, perché molto frequenti e importanti per diversi tipi
di ragionamento, i rapporti di specie e genere, le cause (che distinguiamo, seguendo Aristotele, in causa
materiale, formale, strumentale e finale; su quest’ultima si veda Rigotti 2008), l’analogia (Rigotti e
Greco Morasso 2010) e il luogo dell’autorevolezza.
170
Preparando il tema argomentativo
Eddo Rigotti
I benefici dell’argomentazione nella società e nella scuola
Come accompagnare i nostri studenti alla progettazione ed alla costruzione di un testo argomentativo? Argomentare, come Sara Greco Morasso ha mostrato, non è semplicemente affermare
o sostenere una tesi, per quanto lo si faccia in modo espressivo, efficace e, magari, sincero. Argomentare è sostenere che qualcosa è o deve essere in un certo modo dando le ragioni, cioè dicendo
perché la nostra tesi merita di essere ritenuta vera o giusta. Non tutti i testi sono argomentativi
nel loro insieme, anche se spesso l’argomentazione figura in testi che hanno complessivamente una
natura diversa e ci sono forme argomentative mascherate18, verbali e non verbali, rispetto alle quali
è importante sollecitare l’attenzione critica. C’è un’argomentatività del narrativo e del visuale in
quanto tali.
È ovvio che la dimensione argomentativa è rilevante tanto nella oralità quanto nella scrittura.
L’argomentazione orale e scritta innerva tutte le sfere della nostra cultura e determina il tasso della
sua ragionevolezza. La libertà è un costituente indispensabile, ma insufficiente. La libertà è fondamentale in rapporto all’argomentazione perché permette lo scambio, e dunque anche il paragone,
ma diventa garanzia di autentica qualità dell’interazione umana per la costruzione dei saperi e
per la prassi solo quando non scambiamo solo le tesi, informandoci rispettosamente sulle nostre
opinioni, ma scambiamo anche le ragioni. C’è un incremento del sapere e del saper fare che origina
dall’incontro. La scienza e la tecnica sono saperi comunitari. Comunicare non è mai semplicemente
trasmettere informazioni, ma scambio di “beni” (conoscitivi e relazionali) (Rigotti e Cigada, 2004,
cap. I). Nel caso dell’interazione argomentativa la comunicazione diventa un sottoporre le proprie
tesi e le proprie ragioni allo scrutinio di un’altra ragione, la ragione dell’altro (Rigotti e Greco 2005).
E quest’altra ragione non è semplicemente un dispositivo logico, è un’esperienza, una storia, un
destino, un cuore. La giusta fierezza della nostra cultura, moderna ed occidentale, per aver progettato e parzialmente realizzato forme democratiche di convivenza rischia di mascherare in molti casi
l’acquiescenza a regimi e a sistemi semantici irragionevoli. In effetti, il rispetto della manifestazione
dell’opinione di ciascuno e la giusta conta dei voti non garantiscono la qualità della decisione se
non è adeguato l’impegno alla validazione critica. Per altro il contributo dell’esperienza cristiana alla
democrazia è incomparabile proprio perché è l’esperienza di una fede costitutivamente impegnata
a dare le ragioni di sé19. Il volontarismo teologico che fa di Dio semplicemente un monarca assoluto
18 Ad esempio, le cosiddette domande retoriche rappresentano generalmente delle mosse argomentative mascherate. Se
a qualcuno che propone di mettere in piedi un’impresa l’interlocutore replica con la domanda: “Sì, ma dove troviamo il
capitale?” per dire che il capitale non è disponibile e dunque l’impresa è impossibile, la funzione “profonda” dell’enunciato interrogativo è di argomento “distruttivo”.
19 Richiamo anzitutto la prima lettera di san Pietro in cui (3,15) l’apostolo invita i cristiani a benedire Cristo nei loro
cuori sempre pronti a dar giustificazione (apologia) a chiunque chieda ragione della speranza che è in loro. Si noti che
chiedere ragione come dare ragione è un termine tipico dell’interazione argomentativa. È interessante che san Pietro
suggerisca uno stile argomentativo e non di contrapposizione eristica. L’intervento di san Paolo all’Areopago (Atti 17,1634) presenta un’argomentazione strordinariamente ricca e compatta, in cui riceve uno sviluppo particolare il cosiddetto
“stadio di apertura” (l’opening stage della Pragma-dialettica) con una forte valorizzazione del contributo dell’altro alla
verità. Tale contributo diventa una premessa rispetto alla quale l’accettazione dell’annuncio è ragionevole conseguenza.
I passaggi argomentativi nelle Sacre Scritture sono innumerevoli.
171
Parte terza. Eddo Rigotti
e onnipotente, come abbiamo appreso dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, riduce e deforma
la concezione del divino (si vedano a questo proposito le riflessioni in Rigotti 20091: 110-112). Però,
come spesso accade, la concezione teologica viene proiettata, nel bene e nel male, nella concezione
dell’umano: nella democrazia quantitativa alla Rousseau ciascun cittadino diventa detentore di un
suo pezzetto di potere, assoluto ma irragionevole (anzi ab-solutus – irrelato - e quindi irragionevole): questo tipo di democrazia sembra nascere dallo smembramento della monarchia assoluta.
L’educazione all’impegno argomentativo, tanto nell’oralità quanto nella scrittura, diventa quindi un compito, un nostro compito. Non si tratta di insegnare la teoria dell’argomentazione, ma di
favorire la maturazione di una competenza che i nostri studenti già inevitabilmente praticano e
devono consolidare diventandone consapevoli. Ora la scrittura offre opportunità particolari rispetto
al discorso argomentativo, proprio perché favorisce l’esercizio del controllo, una forma di autocoscienza della dimensione critica. Posso tornare sul testo non solo, come raccomanda Quintiliano, per
prendere la rincorsa (saepe repetere cursum), ma anche e soprattutto per accertarne la coerenza e la
congruità e quindi per garantire la struttura testuale complessiva. Del resto, la storia della redazione
di uno scritto è interessante proprio perché narra il laborioso processo del suo facimento e fa intuire
le ragioni, cioè le argomentazioni, che giustificano l’ultima, definitiva stesura (e, forse, non si dà
mai una stesura definitiva). Ma la scrittura potenzia la nostra presa sull’oggetto anche in un altro
senso: la scrittura si presta a essere non solo traccia di un discorso, ma anche mappa dell’oggetto,
in quanto il testo scritto, attraverso la propria articolazione, può rappresentare l’articolazione del
gesto comunicativo da cui la scrittura origina. In particolare quando il testo è argomentativo, l’articolazione del testo riproduce, quasi visualizzandole, le mosse argomentative e quindi ne fa prendere
coscienza: dalla tesi agli argomenti, agli argomenti degli argomenti. Interpunzione e articolazione
in sezioni e paragrafi (si veda il contributo di Sara Cigada in questo volume) aiutano a ritenere. Lo
scritto argomentativo permette di affrontare i problemi rispettandone la complessità. Dunque, la
scrittura argomentativa è un esercizio che va promosso.
Educare all’argomentazione scritta: lo sfondo concettuale e
valoriale
Nella preparazione dell’argomentazione scritta è utile distinguere nel lavoro con gli allievi uno
sfondo ed un primo piano.
Lo sfondo è costituito essenzialmente da due dimensioni: dalla condivisione di stima e interesse
per questa attività e dall’acquisizione degli strumenti linguistici e discorsivi indispensabili al costituirsi dell’interazione argomentativa. Si tratta di atteggiamenti e competenze che, in linea di massima,
non si acquisiscono mettendoli a tema, facendo su essi dei discorsi, ma sviluppando in classe attività
di analisi e valutazione di testi argomentativi e interazioni argomentative.
Va anzitutto trasmesso osmoticamente una sorta di gusto dell’argomentare che una volta di più è
strettamente condizionato dal rapporto fra l’insegnante, che è e rimane l’adulto, e gli allievi. L’atteggiamento dell’insegnante è ancora una volta decisivo e in questo caso va naturalmente improntato
a uno stile argomentativo, che è fatto di libertà e impegno critico, dove l’asimmetria fra docente e
allievi è in qualche modo sospesa: al docente non sono consentiti sconti assicurati dall’autoritarismo20. È un punto delicato: stile argomentativo significa impegno condiviso alla validazione critica
20 Non mi riferisco tanto all’autoritarismo proprio dell’impostazione pedagogica della scuola tradizionale, magari “sostenuto” da sanzioni di diverso tipo, ma all’autoritarismo, forse più dannoso per lo sviluppo della competenza argomentativa, della trasmissione di saperi che ostentano come unico sacrosanto autore La Scienza (cf. il caso descritto in Greco
Morasso e Morasso, i.c.s.).
172
Parte terza. Scrittura
che si traduce nella disponibilità a sottoporre il proprio punto di vista allo scrutinio critico della
ragione dell’altro. Ora questo vale per gli allievi, ma vale anche per il docente. Significa anzitutto
che l’insegnante sviluppa la capacità di smontare i propri saperi ed i propri valori (la propria conoscenza dell’essere e del dover essere) e di ricostruirli insieme agli allievi. Ciò gli è possibile in quanto
ha stima della propria ragione e delle ragioni degli allievi e sfida l’una e le altre. Un insegnante così
non può trasmettere contenuti preconfezionati, se ne deve riappropriare criticamente. Le cose che
insegna non sono più informazioni, ma risultati di un’esperienza viva, in dialogo. In questo clima gli
allievi sperimentano che la loro ragione è stimata ed è sfidata a potenziare la loro presa sulla realtà.
La capacità dell’adulto di metterli alla prova consolida in loro la fiducia nel docente e la sua autorevolezza: la specificità dei ruoli, cioè dei compiti, non è cancellata, ma si carica di significato, diventa
il risultato di un’esperienza di affidabilità e di crescita. Ne è prova la straordinaria gratitudine che
lega gli allievi ai loro maestri, veri, attraverso la vita. Questo stile argomentativo è inevitabilmente
coinvolgente perché è percepito il suo potenziale per la crescita dell’io, perché l’io fa esperienza
della sua crescita, cioè della sua autocoscienza. Fra l’altro, è in questo modo superata una volta per
tutte la percezione imbarazzante della convivenza in classe come fascio di relazioni interpersonali
duali (questo senza deresponsabilizzare il singolo e il suo impegno al contributo critico).
La classe può invece diventare un team di ricerca. Le implicazioni educative di questo stile non
sono state a mio avviso adeguatamente investigate né tantomeno valorizzate. Anzitutto in termini
di consapevolezza: il giovane vede via via costituirsi in sé un punto di giudizio che significa al tempo stesso coraggio di resistere alla manipolazione della cultura dominante ed allo stordimento del
chiacchiericcio mediatico e consapevolezza dei propri limiti (nessuno è più consapevole dei propri
limiti di chi è autenticamente critico).
Sappiamo dalla relazione di Sara Greco Morasso che il valore ultimo perseguito dall’argomentazione è la ragionevolezza e che un principio essenziale di questa è il rispetto della totalità dei fattori
(cf. Rigotti e Greco 2005). Questo principio ha conseguenze educative - conoscitive ed etiche – incalcolabili. Vediamo brevemente il potenziale conoscitivo di questo principio. Si tratta di quello che
Hegel chiamerebbe il concetto concreto, cioè la considerazione dell’oggetto nella totalità dei suoi
fattori rilevanti, cioè in relazione alla totalità cui esso appartiene. Si tratta in altri termini della consapevolezza che la realtà non ci sfugge solo perché in qualche punto ci contraddiciamo o falsifichiamo qualche dato, ma anche – e soprattutto! – perché trattiamo la parte come il tutto, spesso non
negando, ma ignorando il tutto a cui la parte appartiene. Posso in effetti parlare della parte come se
fosse il tutto senza dire che è il tutto, ma parlando solo di essa. Il rispetto di questo principio richiede
la capacità di sollevare lo sguardo e di accorgerci anche di quello che c’è intorno, liberandoci dell’ossessione del particolare. È anche una terapia per evitare l’imperialismo disciplinare e lo scientismo
(si pensi al possibile sfruttamento manipolatorio della diatesi passiva nelle scienze empiriche: dove,
cancellando l’agente, non sono più sollecitato a chiedermi da chi mi sono dati i dati).
Rispetto all’etica il principio si declina come rispetto della totalità del soggetto, ossia dell’integrità del synolon che lo costituisce: una molteplicità di livelli ontologici, di esperienze, di esigenze
e di desideri, di speranze e di paure che convergono perché sono ordinati a un destino. E il tutto,
in questo caso il suo destino, si impone a lui come una domanda rilevante. La ragione ragionevole
conquista la capacità di distinguere i fini dai mezzi, il bello dal brutto, il giusto dall’iniquo, di cogliere il valore del tempo riconoscendo la rilevanza del sempre rispetto all’attimo, del durevole e,
magari, dell’eterno rispetto all’effimero e di stabilire la gerarchia dei fini. La sfida della domanda
di senso ultimo, da cui scaturisce il senso religioso, è ineludibile proprio perché è un’implicazione,
l’implicazione decisiva, del principio di totalità: l’elusione di questa domanda è una forma estrema
di irragionevolezza perché è rinuncia alla sfida ultima della nostra ragione e, dunque, al compimento del nostro essere. Il principio di totalità costituisce insieme al principio di non contraddizione il
173
Parte terza. Eddo Rigotti
nucleo essenziale della ragione in atto. A ben vedere, l’ossessione per la coerenza locale può mascherare un’incoerenza a un livello più strategico della conoscenza e della prassi dovuta al fatto che
la ragione non compie il suo percorso. In effetti, le manipolazioni comunicative più insidiose ledono
tendenzialmente non il principio di coerenza, ma quello di totalità.
Passiamo ora, sempre restando sullo sfondo, alla strumentazione linguistica che è necessaria alla
costruzione del testo argomentativo ed è quindi indispensabile per la maturazione della competenza
argomentativa. Cominciamo dal lessico dell’argomentazione, iniziando a distinguere l’uso del termine argomento come tema (oggetto di discorso) e come procedimento argomentativo. Si tratta delle
parole e delle costruzioni che indicano le funzioni argomentative di questione o problema (issue), di
tesi, argomento, (giustificazione, prova, indizio, sintomo, traccia, movente, segno, testimone, conferma, confutazione, ecc.) premessa, conseguenza, contraddizione, conclusione ed alle relazioni fra
queste, soprattutto la relazione di inferenza, costruttiva e distruttiva, fra l’argomento e la tesi: x
dimostra (prova, fa vedere, esclude, contraddice) y; da x deriva (segue, consegue, si evince, è escluso)
y; y perché x; x dunque (perciò, quindi, allora) y. Ci sono costrutti ambigui (far vedere come) che
possono introdurre argomenti o far riferimento a procedimenti per ottenere un certo risultato; altri
che alternativamente dicono il rapporto fra l’argomento e la tesi (questa evidenza prova che ...) o fra
l’argomentante e la tesi (il difensore ha dimostrato al giudice attraverso questa prova che …). Molto
spesso la costruzione argomentativa, come ha ben mostrato Aristotele con il suo concetto di entimema (cf. Tardini 1997), non si manifesta con marche linguistiche. Spesso sono lasciate implicite
le connessioni, che vengono vagamente alluse con congiunzioni ed asindeti. Ma altrettanto spesso
sono lasciate implicite intere premesse. Un esercizio assai utile all’affinamento della competenza
argomentativa è l’esplicitazione delle premesse implicite: si scopre che l’implicito non è per nulla
assente dal testo e che spesso è proprio l’implicito che si vuole far passare.
Un esercizio molto utile per l’affinamento della competenza argomentativa è l’uso delle domande
critiche, tanto nell’analisi-valutazione dei testi quanto nello sviluppo del testo e nella sua correzione. Ecco alcuni esempi:
X è davvero la causa? Causa esclusiva o concomitante? Principale o secondaria? Necessaria e/o
sufficiente?
X è conseguenza possibile o inevitabile?
Ci sono effetti collaterali rilevanti (cioè più gravi del male cui si pensa di ovviare?)
X è l’unica alternativa di Y?
La parola X è la più appropriata per definire questo fatto?
Questa è davvero una dimostrazione?
Che vuol dire questa espressione ? (ad es. che il politico x ha bocciato il progetto di y?)
Questa fonte è affidabile? Perché?
X è un evento o un’azione?
Con i termini democrazia, libertà, diritto, progresso ecc. si intende sempre la stessa cosa e come
andrebbero propriamente definiti questi termini?
Come distinguere autorità, autorevolezza e autoritarismo?
Persuasione e manipolazione sono la stessa cosa?
È importante che gli allievi conoscano in linea di massima l’organizzazione del discorso e sappiano riconoscere e usare correttamente i segnali linguistici e discorsivi per rendere evidente tale organizzazione nei testi. Rimando per l’organizzazione del discorso in generale alle relazioni di Andrea
174
Parte terza. Scrittura
Rocci, Maria Cristina Gatti, Sara Cigada, Daniela Notarbartolo e Raffaela Paggi. Un adeguato uso dei
connettivi, dell’interpunzione e della paragrafatura è per altro possibile soltanto se si è consapevoli
della struttura generale del testo e della sua rispondenza teleologica alla finalità del testo stesso
(si consideri in particolare il contributo di Andrea Rocci). Per quanto riguarda più particolarmente
l’organizzazione del discorso argomentativo l’articolazione in partes orationis della retorica classica
(cf. Cancelli 1992; Mortara Garavelli 1997) rimane a mio avviso plausibile come “modello canonico”
di un intervento argomentativo monologico. In effetti questo modello sembra in certo modo implementare, direi ante litteram, l’articolazione in stadi della discussione critica (van Eemeren e Grootendorst 2004) e questo proprio perché è stato concepito come strumentazione appropriata a questa
tipologia testuale. Ho potuto verificare peraltro che diverse varianti di tale modello sono largamente
usate nella scuola e lo ripropongo, quasi nella sua forma originale, limitandomi a qualche ritocco
terminologico e a qualche adattamento richiesto dalla natura particolare del tema argomentativo:
(1) Esordio
(2) Esposizione del problema
(3) Ricostruzione del dibattito e avanzamento della tesi
(4) Argomentazione e confutazione
(5)Conclusione
Riprenderemo questo modello fra poco per specificare le funzioni di ciascuna pars orationis che
sono rilevanti in particolare per l’uso del modello nella progettazione e costruzione del testo argomentativo.
Nella maturazione della competenza argomentativa che abbiamo definito come la preparazione di
sfondo alla progettazione e costruzione di un testo argomentativo, è sicuramente utile anche una certa
familiarità con i luoghi argomentativi, ossia con le relazioni ontologiche (concetti di ordine superiore
che generano gli argomenti – unde argumenta ducuntur – appartenenti al livello delle intentiones secundae di Ockham, da intendersi come concetti che descrivono o caratterizzano concetti) con cui opera
il procedimento argomentativo. In una mossa argomentativa come Luigi è arrivato in ritardo. Il traffico
era intenso, il secondo enunciato è un argomento di giustificazione, quasi di apologia, del fatto indicato
dal primo perché figura come causa efficiente - non dipendente dall’interessato - di tale fatto. Oltre le
cause, la definizione, il tempo, il luogo, la concomitanza, l’alternatività, l’analogia, l’esempio, l’autorità
rappresentano luoghi argomentativi di frequentissimo uso.
Primo piano delle strategie di preparazione
Passiamo ora a considerare quello che ho chiamato il primo piano delle strategie di preparazione.
Per primo piano intendo le attività volte non a favorire le competenze generali, ma ad accompagnare gli allievi nella progettazione e costruzione di un certo testo argomentativo. Decisiva è la scelta
della tematica (si veda in proposito il contributo di Raffaela Paggi) che deve risultare, nella prospettiva degli allievi: (1) nota, perché il ragionamento possa fare presa sulla realtà; 2) problematica (res
dubia, come vuole Cicerone nella Topica), ossia effettivamente bisognosa di giustificazione; (3) interessante, perché il soggetto ragionevole investe solo su una cosa che lo tocca. Il primo punto chiede
una trattazione previa, domestica o in classe (o mista), della situazione da cui nasce il problema
che permetta di dominare la issue stessa nei suoi aspetti essenziali, per poter formulare una tesi
plausibile e disporre di argomenti adeguati; il punto (2) vuole escludere esercizi di argomentazione
su tesi evidenti (non chiedere di “sfondare porte aperte”) o tesi assegnate (tesi del docente) che
175
Parte terza. Eddo Rigotti
eserciterebbero competenze esclusivamente retoriche; il punto (3) fa riferimento a un corollario del
principio sottolineato da Carlo Wolfsgruber che fonda tutta la dinamica del soggetto: Omne agens,
agit propter finem: nessuno si muove senza una ragione, ossia se la problematica gli è indifferente.
Perciò la rilevanza va argomentata.
In relazione al punto (2), lo studente dovrà gradualmente imparare non solo a definire In modo
appropriato l’oggetto, ma anche ad allestire uno status quaestionis, ossia una rassegna del dibattito
sul problema (concisa, ma che non ignori i punti essenziali). Una ricostruzione ordinata ed essenziale del dibattito è così importante per far emergere adeguatamente il problema e situare la propria
posizione che può rappresentare in una certa fase del lavoro sul tema argomentativo un esercizio a
sé stante. Solo quando è consapevole dello status quaestionis lo studente può prendere ragionevolmente posizione e definire la propria tesi.
A questo punto comincia il compito più autonomo dell’allievo, che dovrà progettare ed elaborare
il proprio testo sviluppandone i costituenti fondamentali (le partes orationis) attraverso le tre fasi di
elaborazione essenziali a livello di contenuto e di strategia espressiva. Si tratta delle principali fasi
di elaborazione che già vengono considerate nella didattica del testo argomentativo: inventio, una
procedura di scoperta per la selezione delle mosse discorsive, in particolare, argomentative idonee;
dispositio, ossia la definizione dell’ordine fra i costituenti ed entro i costituenti del testo ai fini della
sua efficacia; elocutio, l’insieme delle tecniche di presentazione atte a potenziare, oltre all’efficacia,
la qualità comunicativa ed estetica.
Nell’inventio si tratta di scandagliare la tematica (usandola come protocollo d’informazione) e il
nostro “common ground”, per progettare a livello logico-semantico il discorso in relazione ai diversi
costituenti ed alle funzioni che questi svolgono. Vediamo dunque le funzioni dei costituenti:
(1) ESORDIO: Recupero di un aggancio al contesto e al destinatario (che sarebbe bene fosse la
classe), volto a creare interesse per il tema e simpatia per la tesi;
(2) ESPOSIZIONE DEL PROBLEMA: Esposizione (detta tradizionalmente narratio od expositio) dei
fatti e descrizione della situazione da cui il problema conoscitivo o pragmatico è emerso; deve essere oggettiva, ma non necessariamente neutrale – né tanto meno indifferente – per la possibilità,
anzi l’inevitabilità di una certa lettura dei fatti (insinuatio, framing) e perché non si devono cancellare, se ci sono, le valutazioni accertate dei fatti;
(3) RICOSTRUZIONE DEL DIBATTITO E AVANZAMENTO DELLA TESI: Ricostruzione del dibattito in
cui è specificato ciò che è condiviso e ciò che è contestato e presa di posizione con avanzamento
della tesi;
(4) ARGOMENTAZIONE E CONFUTAZIONE: Costruzione di catene inferenziali che assumendo
come premesse le proposizioni esplicitamente o implicitamente condivise nel dibattito provino la
tesi sostenuta e smontino le tesi avverse;
(5) CONCLUSIONE: Ricapitolazione dei costituenti in cui si evidenzia che la conclusione coincide
esattamente con la tesi.
L’impegno argomentativo non è semplicemente logico, non si limita a costruire prove, ma punta
alla loro persuasività. Se far vincere il discorso più debole è la sfida perversa della cattiva retorica
o sofistica, far vincere il discorso più forte, che, in quanto tale merita di vincere, è il compito della
buona retorica e quindi del buon argomentatore. Non è ragionevole consentire che il negativo prevalga e che il bene e il giusto soccombano. Di questo impegno “morale” di chi argomenta i nostri
studenti devono diventare consapevoli. Suggerisco perciò di lasciare un certo spazio nella costruzione di testi argomentativi anche al loro compimento retorico e di curare anche l’ordine (dispositio) e
le tecniche di presentazione (elocutio).
176
Parte terza. Scrittura
La scelta dell’ordine non riguarda solo l’ordine in cui si dispongono gli elementi entro un certo
costituente (tuttora utile in proposito Agricola (1557) che distingue ordo naturalis, ordo artificialis,
ordo arbitrarius) (come esporre i fatti in (2), in che ordine disporre argomentazione e confutazione
e quali argomenti far precedere in (4), ma l’ordine dei costituenti stessi. A questo proposito rispetto
alla disposizione delle partes orationis nel modello classico, Aristotele (Topica, l. VIII) suggerisce,
nel caso di interlocutori fortemente prevenuti, il ricorso a una strategia in cui la tesi sia accuratamente tenuta in disparte fino a che tutte le premesse necessarie alla sua prova non siano state
dichiaratamente “concesse”. Non credo che una tale situazione possa verificarsi nel contesto di un
tema argomentativo, ma potrebbe diventare importante in altre interazioni argomentative come
una discussione in classe.
Al complesso apparato delle tecniche di presentazione studiato dalla tradizione retorica come
elocutio dedichiamo solo qualche breve considerazione. Potremmo essere tentati di pensare che
l’elocutio abbia una funzione, se non cosmetica, di abbigliamento (dressing) e che quindi ai nostri
allievi potremmo chiedere la nuda essenzialità. Il fatto è che, almeno nella comunicazione, l’opzione
per la nudità è un modo di abbigliare il nostro messaggio, un modo fra i tanti che inevitabilmente
assume un valore. Le funzioni dell’elaborazione elocutiva, che riguardano tanto il livello lessicale
che quello morfo-sintattico, puntano all’efficacia espressiva (adeguatezza del testo alla cosa rappresentata) e comunicativa (capacità di raggiungere il destinatario, di “muoverlo”) ed alla letturainterpretazione-valutazione della cosa (framing). A livello lessicale la scelta delle parole nel loro uso
proprio o figurato può creare effetti retorici e finanche argomentativi sorprendenti. Già Aristotele
osservava che la scelta dei tratti nelle frasi denotative, indipendentemente dalla loro verità “materiale”, può modificare radicalmente la percezione della realtà considerata: è altrettanto vero che
Oreste uccise sua madre e che vendicò suo padre, ma è ben diverso riferirsi a lui come il matricida
o come il vendicatore del padre. Spesso le parole non descrivono, ma giudicano. Come mostra già
Charles Stevenson (1938), molte parole veicolano in effetti, accanto a un componente descrittivo,
un componente emotivo e quindi valutativo. Democrazia, cultura, progresso, diritti, innovazione e
infiniti altri sono carichi di positività, mentre conservazione, autorità, doveri, obblighi sono per lo
più emotivamente negativi. L’evoluzione dell’assetto ideologico sconvolge frequentemente la distribuzione delle cariche emotive: per esempio, nella fase attuale pare che il termine regola abbia
acquisito il sommo livello della positività emotiva.
A questo punto giungiamo a sfiorare la complessa e affascinante problematica del ruolo svolto
dall’affettività in tutte le forme del ragionare umano (Aristotele 1959; Pascal 1967; Plantin 1996;
Cigada 2008). Il fatto è che l’emozione, il desiderio, il sentimento, non possono dirsi razionali, ma
sono comunque ragionevoli o irragionevoli. È ragionevole che la madre vera rinunci a suo figlio
pur di salvargli la vita, perché è per questo che lei è la madre vera. Stiamo toccando quel livello
profondissimo della ragione che si chiama cuore ed è ragionevole, affinché la nostra riflessione non
sia troppo inferiore al compito, dedicare a questo livello della ragione lo spazio dovuto in un altro
momento del nostro lavoro. Fortunatamente, quod differtur non aufertur (ciò che viene rimandato
non è perduto).
177
Parte terza. Scrittura
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180
Parte III
Le quattro discipline
3.Storia
I contributi dell’area storica
a cura di P. Nanni
La nascita del genere storico
Alfredo Valvo
Le condizioni del vedere e dello scrivere. Una esemplificazione
Paolo Nanni
Tra passato e presente
Danilo Zardin
L’insegnamento della storia: aspetti e problemi
di Andrea Caspani
Società e Stato nell’Ottocento: forme di carità in Lombardia
Edoardo Bressan
Le città italiane al tempo di Dante. Il senso della “civitas”
Giovanni Cherubini
Riferimenti bibliografici
I contributi dell’area storica
a cura di P. Nanni
Nell’affrontare l’approfondimento disciplinare in
Storia, non può essere trascurata una considerazione circa il clima culturale che caratterizza
la nostra epoca. Diversamente da anni passati,
contraddistinti da contrapposizioni ideologiche,
oggi ci troviamo di fronte a un dominante scetticismo e relativismo, dove gli ideali sono abbandonati in nome di nessun ideale. Nel passato, come nel presente, è sufficiente osservare lo
scetticismo che domina nei confronti della politica, della giustizia o dell’intrapresa economica.
Al tempo stesso un diffuso relativismo, mentre
nella pratica afferma dogmaticamente concetti
o valori ritenuti ovvi, nella teoria afferma non
solo l’impossibilità di raggiungere una verità o
certezza in storia, ma la relatività di ogni conoscenza storica e addirittura delle stesse fonti
storiche. Sembra che, tramontata l’epoca delle
ideologie, sia rimasto invece ben radicato quel
modo di usare la ragione che mina la conoscenza, ovvero il ragionamento come dialettica in
funzione di un preconcetto. “Sembrerà un assurdo – affermava Giussani ne Il rischio educativo
– ma la scuola “neutra” pare che tragga queste
sole conclusioni dallo scetticismo che tende a
generare: il fanatismo o il bigottismo, fanatismi pro, bigottismi contro; oppure indifferenza
o qualunquismo”.
Il percorso proposto prende le mosse dalla
necessità di rispondere a una triplice sollecitazione: i fondamenti della disciplina storica e il
suo attuarsi; il recupero dell’interesse anche sul
piano didattico; il guadagno, sul piano personale e civile, di qualcosa che appartiene alla
propria identità.
182
Le origini del genere storico (Valvo), che già
in sé rappresentano un fatto storico, consentono di cogliere i fondamenti essenziali per impostare una adeguata comprensione della storia
e della conoscenza storica. Inoltre, attraverso i
risultati di una ricerca condotta su fonti documentarie tardo medievali, si è inteso mostrare
le condizioni del vedere e dello scrivere, l’inferenza della ragione all’opera (Nanni)
L’articolata trattazione tra presente e passato
(Zardin) propone poi il senso della genealogia,
del rapporto con la tradizione da riguadagnare
perché diventi personale avventura, unendo
l’esperienza esistenziale alla comprensione della
storia con le sue continuità e discontinuità; fino
a suggerire ipotesi di individuazione dei fattori
che costituiscono la complessa realtà storica.
Alcuni aspetti e problemi della didattica
(Caspani), affrontano inoltre specifici problemi
di insegnamento della storia e di progettazione
di percorsi didattici, che, al di là di bilanci o ricostruzioni indeterminate, siano in grado di far
incontrare la storia con il suo spessore umano.
Concludono la sezione due casi esemplari
proposti per mostrare aspetti specifici. Con le
forme di carità pubblica e privata nell’Ottocento lombardo, emergono aspetti di grande
interesse, e di piena attualità, per affrontare i
rapporti tra società e Stato in età contemporanea (Bressan). Un contributo che richiama alla
peculiarità della storia italiana, in particolare le
città centro settentrionali dell’età di Dante e il
senso della civitas (Cherubini), che rappresentano un elemento centrale nella riconquista della
propria identità civile.
La nascita del genere storico
Alfredo Valvo
La storia non è solo un genere letterario. Chi la considerasse tale in assoluto farebbe un passo indietro di molti secoli (circa 25!). Se ricorriamo al termine “storia” e intendiamo per “storia” la disciplina
che studia l’insieme delle vicende umane, dobbiamo rispettare certe condizioni per il suo impiego
poiché accade spesso, parlando di storia, che si usi il termine impropriamente.
Prima che la storia incominciasse a progredire e diventasse una scienza (siamo nell’ambito della
Grecia classica) esistevano racconti e testimonianze, in prevalenza orali, che raccoglievano quanto si
conosceva del passato; i racconti, in buona parte favolistici, conservavano confusamente la memoria
del passato, e scopo principale di coloro che mettevano per iscritto questo materiale (in Grecia si
chiamavano logografi) era quello di stupire (ricorrendo al thaumastón, il meraviglioso).
Questi materiali, tuttavia, non erano stati criticamente vagliati. La storia, invece, è l’esito di una
ricerca orientata a conoscere i fatti del passato come sono realmente accaduti: sua intrinseca motivazione è la ricerca della verità, perché non si cerca ciò che è falso, ma ciò che è vero. La ricerca
storica risponde perciò a una esigenza insita nella stessa natura umana: la ricerca del vero. Il punto
di partenza della ricerca storica è un fatto innato: accanto alla ricerca del vero c’è il bisogno avvertito di lasciare traccia di sé e di costituire così un ponte fra passato e futuro, poiché senza la
testimonianza del presente si interromperebbe la continuità del progresso umano.
Talvolta neppure noi comprendiamo la differenza che c’è fra un’opera d’arte e un’opera di storia
(possono coincidere). ‘Libri’ di storia sono letti come opere d’arte: un esempio è rappresentato dalla
“Grande roccia” di Naquane (Capodiponte, Valcamonica), sulla quale sono state incise più di 800
immagini, con una sequenza cronologica precisa.
Lasciare traccia di sé sotto varie forme rivela sempre una volontà di dialogo con chi viene dopo,
una continuità ideale ma concreta con l’umanità successiva; lasciare traccia della propria esistenza rappresenta un messaggio diacronico sul quale si innestano gli eventi successivi. Non si può
non ricordare che la ricerca della Verità – quella assoluta: la verità sull’uomo, che coincide con la
risposta alle sue domande sul senso della sua esistenza – ha alimentato lo sforzo di molte generazioni lungo molti secoli, e la filosofia greca ne è stata la protagonista: per Aristotele il concetto di
“filosofia prima” coincide con la teologia, la ricerca di Dio. Paolo, in At 17,16-34, che non può mai
essere dimenticato (anche se frequenti letture “ideologiche” passano sotto silenzio questo episodio)
ufficializza la fine di questa ricerca annunziando ai Greci, ai gentili, che l’attesa è finita, i tempi sono
maturi (Gal 4, 4): il Figlio di Dio si è fatto uomo. La ricerca condotta dal mondo greco era durata
quasi un millennio! Tutte le basi del ragionamento e gli strumenti della conoscenza erano stati posti
in essere, ma senza un intervento divino nella storia non sarebbe stato possibile giungere alla Verità,
come riconosce lo stesso Platone (Fedone, cap. 35), e ci si sarebbe dovuti accontentare di ciò che i
filosofi greci avevano pallidamente intuito.
La menzione di Paolo, figura culturalmente fra le più elevate di sempre e in particolare del suo
tempo, evoca un altro instancabile ricercatore della verità: il filosofo Seneca. La tradizione relativa
al carteggio fra Paolo e Seneca, le due personalità più eminenti del loro tempo, testimonia – pur
restandone impregiudicata l’autenticità – la riconosciuta grandezza dei due personaggi, uniti da
una uguale tensione verso la Verità e accomunati dal desiderio di ricerca del vero. Il desiderio di
183
Parte terza. Alfredo Valvo
conoscere era un mastice in grado di avvicinare persone di cultura diversa ma ugualmente protese
verso il compimento della loro umanità, che restava monca senza una risposta, senza la risposta.
Ciò avveniva nel mondo antico assai più spesso di oggi. A Seneca, la cui personalità è quasi un paradigma della inesausta sete di conoscenza, si può applicare la definizione di ‘cristiano anonimo’ (K.
Rahner): cioè il suo pensiero è coincidente con quello cristiano su questioni di fondo, ideali e morali.
Per essere concreto distinguerò le parti del seguito del mio discorso ricorrendo ad alcune citazioni e affermazioni che costituiscono momenti di passaggio verso la conoscenza storica, cioè verso
il riconoscimento del vero, e che attengono precisamente alla progressiva coscienza di ciò che noi
intendiamo per “storia”.
Prima di tutto cosa vuol dire e cosa è connesso col termine, col concetto di “storia”? Esso ha la
stessa etimologia di gr. ísto–r e ísto–ría (lt. historia è un calco dal greco) e l’evoluzione del suo significato ha come punto di arrivo quello di “giudizio critico” (non è un giudizio morale). Solo partendo
dal greco se ne comprende appieno il significato: “ho visto” (gr. oĩda, che ha la stessa radice di ísto–r
e ísto–ría: uid-) e quindi “so” (cfr. lt. novi). Il messaggio è questo: so perché ho visto; uno può dire di
^
sapere solo se ha visto. L’unica possibilità di una conoscenza certa è l’autopsia (autòs + op-).
I Romani non hanno mai considerato la storia come la intendiamo noi; per i Romani la storia era
soprattutto opus oratorium maxime (Cic. De legibus I 5), funzionale all’oratoria (peraltro la più nobile delle attività umane perché l’oratore sorregge col suo pensiero e la sua esortazione la civitas) e
quindi strumento della politica (che per i Romani coincide col “mestiere di cittadino”). Non c’è una
matrice critica, non c’è un giudizio su ciò che è vero e ciò che non è vero (almeno come preoccupazione prioritaria di stabilire la certezza degli avvenimenti). H. Bengtson afferma che la storia, come
la intendevano i Romani, era strumentale alla lotta politica: essi continuavano a tavolino la lotta
politica cominciata nel Foro.
Un giudizio critico non può essere un giudizio morale. La storia non è giudice degli avvenimenti
,ma ricostruisce gli avvenimenti (“la storia non è un tribunale: il suo compito è solo comprendere,
non nel senso di giustificare ma in quello di capire “dal di dentro” e “in profondo”” sentenzia F. Cardini). La ricostruzione non deve alterare ciò che si è accertato. Purtroppo, come asseriva Momigliano
(1987) relativamente alla storia antica, questo è un campo promettente per i ciarlatani, intendendo
la faciloneria di certe ricostruzioni storiche.
Quando e perché nasce la storia? La storia nasce come coscienza critica, cioè fondata sulla ragione, e come bisogno di conoscenza, quindi come tensione alla verità. (È il caso di rammentare
l’espressione di san Tommaso Ens et verum convertuntur: condizione per l’intelligibilità del reale).
Questa tensione è implicita, innata nell’animo umano come legge uguale per tutti gli uomini, iscritta
nella loro natura, con diversi livelli di coscienza e di comprensione, e soprattutto diverse capacità di
avvicinamento alla realtà umana. Per Dante la conoscenza e la virtù stanno sullo stesso piano, come
qualità proprie dell’uomo; virtute e canoscenza sono le due coordinate che distinguono l’uomo da
tutte le altre creature; non esiste virtù, cioè umanità, senza conoscenza: un termine non sostituisce
l’altro. È compiuto solo chi può giudicare perché conosce (la verità); non esiste l’uomo compiuto
senza conoscenza; il compimento di sé è fondato, condizionato, reso possibile dalla conoscenza.
Virtù: da vir, in sintesi il cittadino, colui che sostiene e si fa carico della civitas, struttura più elevata, luogo per l’esercizio della libertas, ambito privilegiato della solidarietà: civitas e libertas non si
possono disgiungere perché vivono una dell’altra (Cicerone, De re publica e pro Caecina, passim). Per
comprendere le virtù del civis: Cicerone, De officiis e De re publica, soprattutto il VI libro, il Somnium
Scipionis, che Dante conosceva molto bene.
Ecateo di Mileto (che scrive intorno al 500 a.C.) afferma per la prima volta decisamente (fr. 1 Jacoby): “Queste cose scrivo come a me sembra siano vere; poiché i racconti degli Elleni sono molti e, per
quello che a me sembrano, risibili”. Come spiega Erodoto (II 143-144), l’osservazione di Ecateo sorge
184
Parte terza. Storia
per il contrasto, evidente, fra le sedici generazioni che sarebbero intercorse, secondo la tradizione,
fra Ecateo e il primo degli antenati, un dio, che come gli altri capostipiti condivideva la sua presenza
con gli uomini (l’espressione “camminavano sulla terra” rende ciò pienamente comprensibile), e le
345 generazioni prima della sua quando gli dei regnavano sull’Egitto. Questa incongruenza abissale,
che avrebbe fatto trasalire chiunque avesse avuto un po’ di buon senso – diremmo noi – solo allora
divenne, applicata razionalmente alla evoluzione storica, motivo di riflessione sull’attendibilità delle
notizie delle quali Ecateo disponeva, mentre prima essa apparteneva a un “vero fantastico” (apparente), in assenza di un “vero storico” (reale), poiché la categoria / il concetto di storia non si era
ancora “stabilizzato”.
Il concetto di storia non era stato ancora definito nella sua accezione: in età omerica e anche
esiodea la storia semplicemente non esiste come tale, anche se l’Iliade è un misto di vero fantastico
e di vero storico. Il vero storico è stato distinto dal vero fantastico grazie all’archeologia: la scoperta
della città di Troia e di tutto ciò che venne rinvenuto dallo Schliemann a corredo delle rovine, ed
Esiodo conosce il fluire temporale della storia attraverso la successione degli imperi, in progressivo
decadimento (Accame 1979).
Il rapporto diretto degli dei con gli uomini, appartenente al vero fantastico, ha anch’esso una sua
più che naturale giustificazione nella nostalgia di questo passato, come espressione del senso religioso che c’è in ogni uomo. Il salto di qualità avviene quando si passa al giudizio, che è l’espressione
più alta della razionalità di cui l’uomo è capace.
Aggiungo due considerazioni. Nella ricerca della Verità come ricerca della conoscenza di Dio i
Greci davano il primato alla filosofia, tanto è vero che essi chiamavano filosofi tutti coloro che intraprendevano il cammino di pensiero verso la Verità, intesa come ricerca della conoscenza di Dio.
Anche gli Apostoli presso il mondo giudaico-ellenistico erano conosciuti come filosofi.
La vita, la morte e la resurrezione di Gesù sono fra gli eventi storici meglio documentati grazie ai
Vangeli, agli Atti, alle lettere di san Paolo. Per questa ragione una parte della critica storica intorno
a questi eventi parte (intenzionalmente?) da presupposti sbagliati, come la prevalenza del genere
letterario sul contenuto storico delle opere; così facendo si cerca di destituire di fondamento l’attendibilità degli scritti neotestamentari che, invece, sono databili a pochi anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo, precisamente agli anni della predicazione di Pietro e Paolo, di Giovanni, Matteo,
Marco e Luca (Vangeli e Atti degli Apostoli). Secondo questa critica non sarebbero da considerare
storici i Vangeli e gli altri testi canonici neotestamentari perché scritti molti anni dopo la predicazione di Cristo, la sua morte e la sua resurrezione (sarebbero stati conosciuti per sentito dire e non
per esperienza diretta o comunque contemporanea o vicinissima agli avvenimenti), tacciandoli di
partigianeria ed escludendoli in questo modo dalle fonti attendibili (si tratta invece, come in pochi
altri casi nella storia antica, di testimonianze primarie, autoptiche).
Erodoto, di qualche decennio più giovane di Ecateo, fa un ulteriore passo avanti. Nel suo racconto
delle guerre contro i Persiani egli si domanda: perché? Fondamento di ogni ricostruzione storica
è la ricerca delle cause (Storie, Prologo): “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turi,
perché le imprese umane col tempo non cadano in dimenticanza, né le gesta grandi e meravigliose
delle quali hanno dato prova sia i Greci sia i barbari rimangano senza gloria, e inoltre per mostrare
per quale causa vennero a guerra fra loro”. La riflessione sul passato si precisa: ogni evento, oltre al
contenuto della memoria e della fama, non accade per caso, ha sempre un “perché”.
Come si perviene alla verità? La storia nasce, come si è detto sopra, come coscienza critica e come
bisogno di conoscenza; ma la sua tensione alla verità deve essere sostenuta da regole, valide per tutti, che garantiscano la possibilità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Il metodo è l’insieme
di queste regole per pervenire alla verità, che è unica. Non si può alterare la verità: la verità è sempre
una sola; non si può alterare la verità tanto più se si tratta della Verità; il relativismo è contro la
185
Parte terza. Alfredo Valvo
ragione perché la verità non può essere che una. Questa tensione al vero e, in definitiva, alla Verità, è
richiamata in modo originale da Platone (nel passo del Fedone ricordato sopra), il quale afferma che
all’uomo non è possibile conoscere la Verità, e solo se la divinità getterà una zattera agli uomini per
attraversare il mare sarà a loro possibile conoscerla: Platone attende un o piuttosto il kerygma cristiano. Un’analoga tensione si ritrova in Euripide, il quale, distaccandosi dalla religiosità ‘passiva’ dei
tragici precedenti, mette in bocca ai protagonisti delle sue tragedie domande esistenziali destinate
a rimanere senza risposta, soprattutto l’attesa di una verità ancora sconosciuta che l’uomo aspetta
da sempre: è giusto parlare per entrambi di praeparatio evangelica: una anticipazione del kerygma
(Barsotti 1992; Ratzinger 2005). È “maturità dei tempi” anche questa attesa della cultura pagana,
sostenuta dalla certezza che sarebbe stata soddisfatta (altrimenti l’impresa della conoscenza non
valeva la candela: essa avrebbe prodotto ben presto frustrazione e scetticismo, e presto o tardi si
sarebbe interrotta… Ma poteva interrompersi la ricerca della Verità?).
Due Verità, cioè due verità assolute, non possono sussistere: con la sola ragione e i raffinati strumenti di conoscenza della filosofia greca si poteva arrivare ad affermare l’esistenza e l’unicità di Dio
(il filosofo Senofane di Colofone, vissuto nel VI secolo a.C., affermava che “uno solo è il dio, il più
grande fra tutti gli uomini e gli dei”; il Concilio Vaticano I commina la scomunica a chi afferma che
con la sola ragione non è possibile affermare l’esistenza di Dio).
Nella ricerca della verità – sia con la ‘v’ minuscola sia con la ‘V’ maiuscola – un capitolo a sé
stante è costituito dalle leggi non scritte, cioè dalla legge naturale (princìpi non negoziabili). Le
leggi non scritte costituiscono il piano oggettivo, perché valide per tutti, sulle quali si può fondare
ogni costruzione umana, e nessuna costruzione umana (legge positiva) può ignorarle, contraddirle o
mutarle. Esse vengono prima di ogni altro vincolo e rappresentano bene l’uguaglianza degli uomini
di fronte a Dio (vedi più avanti). A dimostrazione che le leggi non scritte costituiscono un costante
elemento di confronto del comportamento umano, esse sono un motivo dominante del pensiero
antico e lo sono anche del pensiero attuale. San Paolo Rm 2, 14-16: “se dei pagani che non hanno
la Legge, fanno, per natura, quello che prescrive la Legge, sono legge a se stessi, pur non avendo
la Legge; dimostrando così che i dettami della legge sono scritti nei loro cuori, come ne fa fede la
loro coscienza coi suoi giudizi, la quale, volta per volta li accusa o li difende”; poi Sofocle, Antigone;
Tucidide, II 37 (Epitaffio dei caduti pronunziato da Pericle nel 461 a.C., che descrive le caratteristiche
del sistema di governo ateniese, la democrazia): “Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente
i rapporti privati, e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza […] alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che,
pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta”; S. Agostino,
Confessioni 2, 4; Platone, Critone, Fedone, Apologia; Cicerone, De re publ. III 22, 3; J. Ratzinger
(2004: 67): “Che esistano valori che non sono modificabili da nessuno è la vera e propria garanzia
della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e
della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all’uomo”.
Nell’elaborazione del suo pensiero, alla ricerca del ‘metodo’ da applicare al buon governo e di
un criterio valido per tutti per giudicare se le leggi sono giuste oppure no, Cicerone dà uno spazio
rilevante al diritto naturale (De legibus I 12, 33; 16, 44). Le leggi non scritte, il diritto naturale, sono
l’elemento di congiunzione fra gli uomini perché l’uguaglianza del sentire e del giudicare li rende
uguali davanti a Dio; tutti possono comunicare col “sommo dio” (espressione di Cicerone) attraverso
la ratio, la ragione, ricevuta come dono straordinario, finalizzato a questo scopo. Nella ricerca della
verità abbiamo dei punti di appoggio stabili e comuni rappresentati dal diritto naturale. Esiste una
fraternità fra gli uomini che Cicerone mette in forte evidenza e le leggi sono giuste solo se rispettano il diritto naturale (cfr. ancora De legibus). Sulla questione della priorità e della immutabilità della
legge naturale si è soffermato nuovamente Benedetto XVI nel suo discorso al Bundestag, il 22 set186
Parte terza. Storia
tembre 2011. Benedetto XVI ha proposto di lanciare un dibattito sull’ipotesi che esista davvero o no
un ordine morale oggettivo nella natura e nell’uomo che possa considerarsi fondamento delle leggi.
La ragione, attraverso il metodo, guida gli uomini verso il riconoscimento di ciò che è veramente
accaduto (nozione di critica storica: cfr. Tucidide I 22, riportato più avanti) distinguendolo da ciò che
potrebbe essere accaduto (verosimile): la verosimiglianza non è un criterio per ricostruire la storia,
non fa parte del ‘vocabolario’ dello storico, e quindi non serve per conoscere con certezza la verità.
La storia non si ricostruisce attraverso ciò che è verosimile, altrimenti non c’è più spazio per ciò che
è inverosimile ma che può essere vero. La possibilità che un evento sia realmente accaduto non dipende dalla sua verosimiglianza: che Dio si facesse uomo non era verosimile (mentre per gli antichi
sarebbe stato verosimile il contrario, cioè che un uomo fosse assimilato agli dei, se essi lo avessero
voluto, perché dipendeva da loro decretare l’apoteosi). Il tentativo di ricostruire la storia – e quindi
di pervenire alla verità, parziale o totale – non può prescindere da un metodo corretto.
La scoperta del metodo storico è un fatto decisivo per la storia. Il metodo (storico) non è convenzionale ma è determinato dagli avvenimenti: è l’oggetto dell’indagine che determina il metodo
(Giussani 1997). Il metodo, se è corretto, è valido per tutti coloro che hanno lo stesso oggetto di
indagine, e quindi il metodo storico è uguale – non per convenzione ma, se si può dire così, ontologicamente – per tutti coloro che vogliono conoscere il passato e cercare di ricostruirne gli eventi.
La storia dunque ha una oggettività invincibile, non superabile dalle ideologie. Essa non può essere
‘dialettizzata’ ma ha una dimensione assoluta: quella della verità.
La ricostruzione storica è diversa dalla interpretazione della storia. La prima cerca fondamenti
sicuri perché tende alla verità, la seconda è costituita da un rapporto variabile soggetto-oggetto
condizionato in gran parte – e talvolta anche di più – dal soggetto.
Esempi emblematici di applicazione del metodo storico
1. Tucidide, I 22, 2, per primo afferma: “I fatti concreti degli avvenimenti di guerra non ho considerato opportuno raccontarli informandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho
raccontato quelli ai quali io stesso fui presente e sui quali mi informai dagli altri con la maggior
esattezza possibile”. Tucidide è animato prima di tutto dalla preoccupazione di non falsare la verità
storica. Ma è ancora più importante ciò che segue (22, 3): “Difficile era la ricerca, perché quelli che
avevano partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma parlavano
a seconda del loro ricordo o della loro simpatia per una delle due parti. (4) L’assenza del favoloso
[thaumastón] in questi fatti li farà apparire, forse, meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri… considereranno utile la mia
opera, tanto basta. Essa è un possesso che vale per l’eternità più che un pezzo di bravura, da essere
ascoltato momentaneamente”. Tucidide afferma, nella sostanza, che la storia ha un valore etico e
perciò esistenziale; apre la mente alla conoscenza della verità.
2. Werner Jaeger, autore di una monumentale opera sulla formazione dell’uomo greco (Paideia, in
3 volumi), sintetizza il suo pensiero in Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961), che raccoglie i
suoi ultimi contributi. Per Jaeger si può parlare di intelligenza cristiana della storia. Egli non applica
un metodo diverso ma: a) non esclude a priori una dimensione che è propria del sentire cristiano cioè
l’intervento di Dio nella storia; b) apre la ragione a comprendere oltre il dato. Il dato in se stesso va
sempre conosciuto in profondità e interpretato, ma alcuni dati, alcuni eventi non si spiegano “da
soli”, rimandano invece ad altro, ad agenti sconosciuti, a qualche cosa che sfugge all’umano e lo
trascende. Per questo il dato deve essere preso nella sua interezza e sottoposto a un vaglio critico
187
Parte terza. Alfredo Valvo
senza pregiudizi (di fronte a un miracolo evidente del quale era stato testimone, Emile Zola, per
“coerenza” con la sua posizione preconcetta – che Dio non esiste – rifiutò l’evidenza).
Jaeger, filologo e storico, si avvicina ai problemi con il rigore dello scienziato, ma considera la
storia ut si Deus daretur, e non disdegna di parlare di Dio in termini provvidenziali, attraverso un
percorso storico all’interno del pensiero greco.
3. Gaetano De Sanctis ribaltava l’affermazione di Cicerone (De oratore II 36) historia magistra
vitae in vita magistra historiae. La vita (il presente, che è / dovrebbe essere coscienza del passato)
insegna a comprendere la storia; la coscienza del presente permette di riconoscere la “storia”, cioè
tutto quello che sta dietro e prima e perciò le radici del presente (Pera, Ratzinger 2004). Da questa
considerazione discende il fatto che il “divenire”, “il fluire” della storia non intacca la sua “stabilità”
(gli eventi del passato). Può sembrare un’affermazione degna di Monsieur de la Palisse, invece è
essenziale. In conclusione non esiste per la storia una variabilità determinata da chi la ricostruisce
(non si parla qui di neutralità della ricostruzione storica, bensì della tensione verso la verità storica).
188
Le condizioni del vedere e dello
scrivere. Una esemplificazione
Paolo Nanni
Preliminare
Vorrei precisare, prima di entrare in argomento, i motivi che hanno portato alla formulazione di
questo titolo. Fin dalla introduzione di questo corso è stato sollevato uno dei punti più delicati della
conoscenza storica, ovvero l’incidenza del soggetto. Un dato inevitabile quanto problematico, poiché nessuna pagina di storia si sottrae a questo incontro: la storia è “autocoscienza” (Gurevic 1972);
“continuo processo di interazione tra lo storico e i fatti storici, un dialogo senza fine tra il presente
e il passato” (Carr 1966).
La critica alla histoire evénementielle a favore di una nouvelle histoire più attenta a una complessità di aspetti (compresi il clima o i paesaggi) o alle cosiddette strutture (mentalità, economia,
società) ha animato, ampliato e articolato gli orizzonti storiografici della seconda metà del Novecento, fino a suggerire percorsi di ricerca attraverso l’utilizzazione di fonti le più svariate: dalle rigorose perlustrazioni di ampie serie documentarie (pubbliche e private), fino all’archeologia, all’arte (o
architettura), alla letteratura, agli oggetti, ai fabbricati ecc. (Febvre 1992). Anche la stagione delle
correnti storiografiche di diversa matrice ideologica ha identificato schemi interpretativi intesi a
ricondurre a una lettura coerente i percorsi della storia, tra permanenza e cambiamento, fino alle
specializzazioni della storia economica e le contaminazioni con la sociologia.
Tali criteri di lettura e rappresentazione della realtà storica, sebbene fondati su precisi metodi
storico-critici, non hanno potuto tuttavia eliminare quella pratica un po’ artigianale che ha lasciato
la storia sempre in bilico tra scienza e arte. Quell’inevitabile laboratorio della conoscenza storica,
che esige una ricostruzione complessiva. Mi avvalgo, a questo proposito, dell’osservazione che Ernesto Sestan rivolgeva all’apprezzato studio di Braudel Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di
Filippo II, del quale ammirava “le parti dedicate alla storia strutturale, ai fenomeni di lunga durata”,
ma non taceva una certa delusione per la scarsa integrazione con gli avvenimenti storici, che formulava nella domanda “perché, per mezzo secolo, Filippo II è infaticabile nella lotta contro l’Islamismo?” (Sestan 1991: 86-87).
Negli ultimi anni pare che un nuovo contesto culturale si sia affermato. Lo definirei il regno del
concetto: temi e problemi introdotti come postulati, non sorpresi come problematiche che nascono
dalla realtà storica su cui gli studenti sarebbero chiamati a svolgere riflessioni. È questo presunto
sapere storico-filosofico il culmine della scuola cosiddetta “neutra”?
Considerando questo contesto e gli obiettivi di Accademia, abbiamo preferito scartare una trattazione dei fondamenti dell’interpretazione (o ermeneutica) storico-critica come percorso di verità.
Ciò che occorre ristabilire è piuttosto l’antefatto, ovvero il rapporto con la realtà, nel nostro caso
la realtà storica. Sono le condizioni del vedere e quindi dello scrivere il nodo problematico originale,
senza del quale il pensiero si sostituisce all’incontro (possibile?) con la realtà.
Il movente della ricerca
Fin dai primi mesi di lezioni universitarie, era insorta in me una domanda: in questi anni di stu189
Parte terza. Paolo Nanni
dio maturerà in me una capacità di conoscere, ricostruire e valutare un oggetto di studio, o saprò
soltanto riproporre ciò che apprenderò nei singoli corsi o in letture specifiche? Come trovare un
criterio capace di entrare in sintonia con la realtà e non proiettare proprie idee o altrui saperi? La
partecipazione a una conferenza di don Giussani su La coscienza religiosa nell’uomo moderno fu la
prima intuizione di una ipotesi di risposta sovversiva e sorprendente: la dimensione religiosa non
appartiene all’ambito soggettivo delle credenze di fede o dei comportamenti etici, ma costituisce
piuttosto quell’insondabile movente di ogni azione e di ogni progettualità, quell’originale attitudine
degli uomini a cercare il significato delle cose, a riflettere sull’esperienza seguendone le implicazioni
che permeano e pur travalicano gli ambiti in cui la vita e gli ideali degli uomini si dipanano. La cosa
mi apparve in tutta la sua portata in un serrato dialogo con un docente di filologia, Johann Drumbl,
che ci obiettava la correttezza della preposizione articolata: “coscienza religiosa dell’uomo moderno,
non nell’uomo moderno”. In quel frangente compresi che si trattava di qualcosa di immutabile (il
nel era giusto) che era all’origine della traduzione realizzata in ogni cultura e civiltà, ma, al tempo
stesso, si trattava della stessa cosa che agiva dentro di me.
La segreta domanda, confermata e rilanciata dall’ipotesi di risposta, divenne così il movente della
ricerca, ricercando un tema in cui verificarne la portata. È qui che ho imparato – ma lo dico alla luce
del lavoro della nostra Accademia – che la domanda è il rapporto tra la totalità del soggetto e la
totalità dell’oggetto. Quel quid nascosto, quel problema serio, senza del quale non c’è nemmeno la
storia. Occorre solo il coraggio di prenderlo sul serio.
Nell’ambito della storia medievale a cui mi ero accostato, avevo intuito il nodo decisivo della crisi
del Trecento, pienamente corrispondente a quella scansione storica della coscienza religiosa nel
passaggio tra Medioevo e Umanesimo. Le discussioni intorno alla periodizzazione, alle continuità
e discontinuità, alle peculiari caratteristiche delle città italiane (come, prima fra tutte, Firenze) ne
confermavano il valore epocale. L’interesse, tuttavia, era tutto racchiuso nel trovare corrispondenze
e analogia tra la mia esperienza personale e gli eventi e i quadri generali trattati. Arti figurative e
letterarie, politica e forme di governo, attività economiche e società documentavano realtà storiche
sul piano generale che avvertivo personalmente. Cos’era dunque il Medioevo e cosa rappresentava
nella storia europea (e universale)? Perché ciò che per i più rappresentava la sua massima espressione, il Rinascimento, era per altri il suo autunno (Huizinga 1919)? L’Europa occidentale cosa aveva
guadagnato e cosa tradiva? Quali legami tra Medioevo e antichità (Curtius 1992)?
La mia segreta domanda esigeva risposte, o, più precisamente, mi imponeva di cercare una verifica dell’ipotesi. Numerosi indizi mi conducevano ad affrontare il cambiamento di mentalità avvenuto
tra Medioevo e Rinascimento, come una sorta di venir meno dell’impegno con la problematica della
vita sul piano individuale e sociale, i cui riflessi potevano essere rintracciati e documentati storicamente. Il plurilingismo di Dante e il monolinguismo di Petrarca – per dirla con Gianfranco Contini
(1970) – rappresentavano la linea di confine. Sul piano storico dovevo – insisto su questo verbo,
perché è il segnale di un compito avvertito – rintracciare la possibilità di cogliere aspetti della mentalità del tardo Medioevo che potessero documentare tale fenomeno, e che potessero costituire un
banco di prova attendibile sul piano generale. La scelta fu inevitabile: l’ambito era quello dei mercanti medievali, considerati da molti studiosi (Le Goff, Renouard, Sapori) come i precursori dal basso
dell’Umanesimo; il soggetto era Francesco di Marco Datini, il mercante pratese che ha lasciato alla
storia il più consistente archivio privato (appartenente a un solo uomo) del mondo, e al tempo stesso
il personaggio più citato della storia economica medievale, al centro di una delle dispute storiografiche più accese. Il toro, mi sia passata l’espressione proverbiale, doveva essere preso per le corna.
190
Parte terza. Storia
Il caso Datini
Il mercante di Prato è stato al centro di opposte letture storiografiche. Federigo Melis, maestro
della storia economica italiana, ne ha tessuto le lodi come operatore economico di grande importanza e modernità, per ampiezza di attività economiche e mercantili e strumenti di ragioneria.
All’opposto, un altro grande storico italiano, Armando Sapori, ne ha invece fortemente ridimensionato la statura umana – avido, bigotto, esoso, vanaglorioso – sulla scorta anche del noto volume di
Iris Origo, in cui il Datini viene stigmatizzato in quel suo ultimo testamento in cui lascia i suoi averi
per la costituzione di un’opera di misericordia, letto come pentimento tardivo di una vita trascorsa
nella ricerca del guadagno. I copiosi materiali d’archivio avevano fornito ampia documentazione per
entrambe le chiavi di lettura: le carte economiche per l’uomo d’affari; quelle private per la statura
personale. In particolare le lettere a lui indirizzate dall’amico e notaio fiorentino Lapo Mazzei, uomo
pio e devoto, gettavano ombra sul mercante di Prato. Si trattava tuttavia di un carteggio impari,
poiché a fronte delle oltre 300 lettere del Mazzei, ne sono conservate solo venticinque del Datini. In
definitiva, comunque, la querelle era giunta al suo capolinea: si trattava ormai di una pura opzione
tra due registri, quello dell’etica economica e quello morale.
In questo ipotetico processo, tuttavia, mi aveva sorpreso la scarsa utilizzazione delle lettere scritte da Datini, benché molto numerose. Tra le oltre 160 mila conservate nell’archivio (tra lettere
commerciali e private), circa diecimila sono del mercante di Prato; e di queste mille appartengono al
carteggio privato, in media circa tre-quattro fogli fronte retro (dunque sei-otto mila pagine in scrittura mercantesca), destinate alla moglie, ai soci delle compagnie mercantili, a mercanti corrispondenti e amici. L’impresa di un esame completo era ardua: occorreva intuire un filone. La scelta non
fu difficile, partendo da una constatazione molto semplice: la corrispondenza più diretta, normale,
quasi quotidiano dialogo a distanza, erano le lettere ai soci. Da qui nacque la mia tesi di laurea su
cui sono tornato dopo molti anni, fino alla recente pubblicazione di un volume dal titolo Ragionare
tra mercanti (Nanni 2010).
Se l’originalità in storia può risiedere anche nell’individuare una nuova prospettiva con cui trattare temi pur già esplorati, il lavoro effettuato in questo studio è stato quello di documentare la mentalità (e suoi mutamenti) del tardo Trecento attraverso il linguaggio e le concezioni di un mercante
così come emergono dalle lettere private ai compagni; e al tempo stesso proporre una rilettura della
sua personalità considerandone la figura a tutto tondo: vicende biografiche, attività economiche,
coscienza professionale e personale, religiosità. Qui si è incentrato il lavoro storico-critico. Ma la
segreta domanda, il presentimento, risiede in quell’ipotesi di cui ho parlato circa la religiosità come
l’anelito o le aspirazioni che tramano la vita di ogni uomo in ogni suo aspetto.
Il punto di partenza è stato dunque prendere le distanze da quel dualismo consolidato che scinde economia ed etica, che non rappresenta altro che una proiezione nel passato di schemi che ci
portiamo addosso. Anzi direi di più: quelli che allora apparivano chiavi di lettura parziali, eppure
ancora cariche di un nobile impegno storiografico, sono oggi banalizzanti concetti sedimentati, se
non lattiginosi filtri che deformano la vista. Il vedere, appunto.
Dentro il Medioevo
Considerando le umili origini del Datini e la sua vicenda biografica – orfano all’età di 15 anni
per la Peste Nera, emigrò ad Avignone fino all’età di quasi 50 anni, quando tornò ricco a Prato per
costruire il suo piccolo impero di imprese mercantili facendo capo a Firenze –, non fu un “letterato”,
né scrisse memorie o libri di ricordanze per tramandare un patrimonio intellettuale a figli che non
ebbe. Nel suo linguaggio e nella sua scrittura emergono le concezioni che condivideva con il suo
191
Parte terza. Paolo Nanni
tempo: cresciuto in strada, conosceva la vita (il gioco, le donne, le arti del mestiere) e si era impossessato delle forme della lingua (il parlare per proverbi) dalla pratica più che dallo studio. Benché
figura dai tratti eccezionali, può tuttavia essere considerato una sorta di recettore e testimone della
cultura diffusa delle città italiane del tardo Trecento. È dalla sua viva lettera che emergono materiali di un certo interesse, se accostati alla ricerca delle sue aspirazioni che covano più chiaramente
nei suoi contrasti con i soci come avviene nella vita: “Ogni epoca […] agogna un mondo più bello”,
osservava Huizinga, anche se lascia “nella tradizione più tracce delle sue sofferenze che della sua
felicità” (Huizinga 1919: 37). È qui che l’impalcatura di concetti storiografici sul tema della figura
dei mercanti medievali mostra alcune crepe. Mi limiterò ad alcuni esempi.
Si è scritto ampiamente circa il razionalismo dei mercanti medievali, per i quali la “ragione umana […] può tutto comprendere, tutto spiegare, e dirigere qualsiasi azione” (Renouard 1973: 244).
Eppure, ciò che emerge dalle lettere del Datini è qualcosa di più articolato, come ho cercato di
mostrare nel mio recente studio, da cui estraggo le citazioni datiniane che seguono (Nanni 2010). Il
termine ragione risulta infatti usato come correlato a quello di natura e di volontà di Dio: “E questo
ci adiviene perché noi non ci achostiamo a la volontà di Dio, inperò ché se noi ci achostasomo a la
sua volontà noi viveremo sechondo ragione e naturalmente. Ma perché noi non ci achostiamo a Dio
né alla ragione, noi viviamo volontariamente e diànci a chredere che’l biancho sia nero” (ivi 274).
Un concezione della ragione come “dipendente da”, tutta inscritta nell’attività economica – perché di questo stava parlando –, ma che travalicava nella vita personale, [“vive bene cholui che ssi
achosta cholla ragione” (ivi 94)], come nel vivere sociale [“Le chose non vanno a dì d’ogi chome
l’ordinarono que’ valenti huomini che regievano in quello tenpo e che feciono le leggi” (ivi 96)]. Gli
accordi fra le parti, infatti, prevaricavano la ragione, chi aveva effettivamente ragione. Affermava
di aver “magiore bisongno di chontentamento che di danari” (ivi 209). Sorprende, anzi, l’idea che
la stessa costituzione di compagnie mercantili fosse considerata una dimostrazione di non aver
considerato solo la ricerca della ricchezza, quasi alludendo a una sorta di responsabilità sociale
dell’impresa: “S’io avesi mesa la speranza mia nell’avere del mondo non arei perduto il tenpo mio a
murare e a lasciarmi ghovernare né a te né agli altri [soci] ché mi fate pocho piacere. [...] Non m’era
bisogno fare la torre di Babello né abassare le montagne e farne piani [...] inperoché delle chose di
questo mondo non disidero troppo, se nno(n) della vita mia [...] E chon pena ben’ò disiderato di fare
bene a molti i(n) molti modi: a chui dare per Dio [elemosine] a chui dare guadagno [affari], a chui
per uno modo e a chui per un altro” (ivi 254-255)
Lo stesso rapporto con i compagni (soci) era pervaso da una sorta di pedagogia che, lungi da
teorie generali, non perdeva occasione di esercitare una continua correzione, pur con i suoi toni
burrascosi, cogliendo fatti o particolari significativi. Come nel caso di un carico di mandorle pagate
dal suo socio al fornitore prima di aver incassato la vendita, contrariamente ai modi dei mercanti:
“e piutosto vorei che fosse profondato una di choteste nave che viene di qua chon quanta merchatantia io v’ò su sanza sichurtà, che avere perduto queste novanta lire a questo modo, ché tropo n’ò
gran dispiacere” (ivi 108).
Relazioni d’affari con i soci, ma anche la considerazione di legami di amicizia su cui si fondava la
reciproca fiducia e conduzione delle aziende, perché “chi à chonpangnia, à singnoria” (ivi 135 sgg):
“Apreso foe chonto che l’uomo non puote esere buono per sé medesimo, e chonviene pure l’uomo
abia delgli amici. Inperò che, chome lo chorpo non puote istare sanza l’anima, chosì il chorpo, cioè
l’uomo, non puote istare sanza amicho” (ivi 173).
Non può non destare una certa sorpresa, inoltre, la cultura che caratterizzava questi uomini. Alle
citazioni dantesche con cui interpretavano le vicende della vita [“quello che già mi piaque ora mi
dispiace” (ivi 209 sgg.)] o con cui giudicavano i propri atteggiamenti [“e nno’ volgliamo pure giudichare queste chose a nostro modo, e volgliamo vedere a la lungi ciento milglia chol vedere che è più
192
Parte terza. Storia
corto che una ispanna, al modo che disse Dante” (ivi 274)] si aggiungevano poi gli scrittori antichi
(Aristotele, Platone, Virgilio, Tito Livio, Boezio, Seneca), le sacre scritture e le vite di santi, così come
le forme proverbiali dei savi mercanti: “Vengho dalla fossa e so chi è il morto”, “Tristo chi non è allo
inprengnare della molgl(i)e”; “A buono huomo d’arme non machò mai chavalli” (ivi 315 sgg).
Nel caso più specifico della religiosità del mercante, non può non sorprendere la reazione del Datini alle prediche di chi (nel caso, il notaio Mazzei) lo accusava di essere sempre “ne’ vilupi” [“Se tutto il mondo mi predichase io non perderò la speranza di Dio, chome che io no(n) la meriti” (ivi270)].
Manifestando la sua certezza sul paradiso [“s’io non potrò istare a sedere in paradiso, istarò ritto”
(ivi 275)], rendeva palese quel suo realismo che incideva nelle cose della terra così come nei suoi
“conti” col Padreterno: perché affermare “molte belle ragioni» era coincidente col riconoscimento
del vero: “vere chome il Patarnostro» (ivi 284). Considerava i beni che possedeva come donati [“questi beni tenporali che Idio m’àe prestati io gl(i)ele volgl(i)o rendere se io potrò» (ivi 249)]. E, sebbene
nutrisse più di un motivo di rabbia nei confronti dei suoi contemporanei [“io tengho che al dì d’ogi
sia la gente pegiore fosse mai, levatone il battesimo, ché mi pare che lla magiore parte di quella
aqua chadesse in mare” (ivi 248)] si preoccupava della cristianità [“piac(i)a a Dio mettere tutta
cristianità in buono istato, s’egl’è di suo piacere” (ivi 249)] e affermava che non avrebbe trattato
diversamente giudei, saracini o cristiani [“a uno g(i)udeo o saracino [...] quella choscienza farei di
loro che dello milgl(i)ore uomo dello mondo cristiano” (ibidem)].
Ed anche di fronte al suo testamento con cui lasciava erede di ogni suo bene il “Ceppo pe’ Poveri di Cristo” da lui istituito, qualcosa si deve aggiungere. Considerato come esempio di una falsa
devozione “dell’ultim’ora” come il boccaccesco ser Ciappelletto, questa ultima impresa acquista un
significato un po’ diverso se collocata nell’ambito della personalità del Datini. Lontano dalla sua
patria per oltre trent’anni, Francesco di Marco vi fece ritorno desiderando una “bella vita” assieme
alla moglie e, nella sua Prato – che al tempo non era una città divisa tra la diocesi di Pistoia e la
dominazione fiorentina – volle costruire il suo bel palazzo, contribuendo al decoro urbano; mentre
a Firenze pose il fulcro delle sue aziende. Non ebbe tuttavia figli (se non una illegittima che portò
fino all’altare), a cui consegnare il suo patrimonio e le sue memorie. Lui che era rimasto orfano
giovinetto. In quel suo ultimo gesto, a prescindere da valutazioni che oscillano tra gli stereotipi e le
condanne sommarie che non appartengono al compito della storia, sta invece una nota di umanità
che travalica e interroga le nostre conoscenze. Come un desiderio di unità che lega il cielo (ciò che lo
attendeva) e la terra (ciò che avrebbe lasciato); un desiderio di bene che lega aspirazioni (speranze)
e ambizioni (nella vita e dopo la morte).
Quasi come una sorta di luce fossile, le vite, le aspirazioni, le concezioni di uomini di seicento anni
fa giungono a noi con una immagine ben distinta. Come uno scorcio di Medioevo che ci raggiunge
con i suoi colori e le sue forme. A noi basta solo vederlo. Interrogarlo, per cogliere qualcosa che
appartiene alla nostra identità, alla nostra storia.
Note conclusive
Nel corso del lavoro più volte mi sono domandato, e ho domandato al mio maestro Cherubini,
come fosse possibile che nessuno degli eminenti studiosi del Datini avesse colto la portata di tali
materiali d’archivio. La risposta è stata disarmante: “Perché uno legge, ma non vede”. Si tratta della
stessa osservazione di Bloch (1969: 70): “I testi, o i documenti archeologici, sia pure quelli in apparenza più chiari e più compiacenti, parlano soltanto quando li si sappia interrogare”.
Cosa serve dunque per vedere? In controluce ho cercato di mostrare in atto le condizioni di quel
principio di analogia che può stabilire una sintonia con uomini, storie, eventi del passato. Come una
193
Parte terza. Paolo Nanni
possibilità di corrispondenza che fa risuonare in noi ciò che, fuor del presente, non sarebbe neanche
più passato. Impegnandosi, con rigore storico critico (le fonti come luogo della verifica, o autorità
nell’argomentazione), a mostrare la capacità di maggiore comprensione che tale mossa può offrire.
Un principio di analogia che si stabilisce in noi per qualcosa che agisce nel presente, che stabilisce
una appartenenza, che genera una memoria: “In quella parte ove sta memora / ivi prende suo stato”
scriveva Guido Cavalcanti (Donna me prega).
Mi preme precisare che parole come domanda di ricerca, autocoscienza, analogia, appartenenza,
memoria, non sono parole “partigiane”, bensì il contenuto di una consapevole presa di coscienza
dei fattori comunque in gioco nella conoscenza storica: l’uomo di oggi che incontra l’uomo di ieri.
Il problema centrale, dunque, è cosa influisce sullo studioso di oggi, cosa oscura o acuisce la sua
capacità di vedere, la sua intelligenza: la presunta autonomia che si rivela sudditanza da pregiudizi
comuni o una appartenenza che mobilita la ragione?
La scrittura è la grande educazione a percorrere passi di ragionevolezza, imparando a conoscere,
verificare innanzitutto, e perciò mostrare (condividere, narrare), ciò che per primi si è iniziato a vedere. Credo che questo possa aiutare anche a fornire un criterio con cui valutare i libri di storia: se
sanno far vedere, non spiegare. “Ogni libro di storia degno di questo nome [oltre alla lista dei fondi
d’archivio] dovrebbe contenere un capitolo o, se si preferisce, una serie di paragrafi, inseriti nei punti
chiave dello svolgimento, il cui titolo potrebbe essere all’incirca “come posso sapere ciò che sto per
dire?”. Sono persuaso che, a leggere queste confessioni, anche i lettori non specialisti troverebbero
un vero piacere intellettuale” (Bloch 1969: 70).
Termino con un’ultima osservazione. Joseph Ratzinger / Benedetto XVI nel secondo volume del
suo Gesù di Nazareth è sceso in campo personalmente affrontando nel campo dell’esegesi biblica
una simile problematica: il “Gesù reale” come “figura e messaggio”, non solo il “Gesù storico”. Pienamente inscritto nel contesto specifico di studio, anch’egli ha mostrato la necessità di qualcosa che
precede l’ermeneutica dell’esegesi storico-critica, ma che al tempo stesso può offrirle una possibilità
di maggiore completezza anche dal punto di vista scientifico.
194
Tra passato e presente
Danilo Zardin
L’interesse per la storia
Partiamo dalla domanda che dovrebbe stare all’inizio di tutto il nostro coinvolgimento con lo sguardo rivolto alla storia: che cosa mette in moto la sua conoscenza, quale è il fattore primario che la
genera? Dove si radica l’interesse, in senso forte, che giustifica la mossa della ragione in questo suo
particolare modo di entrare in azione?
1. La spinta decisiva che apre all’interesse per la storia non sta nella storia in quanto tale, nel puro
passato (nell’oggettività a sé stante della conoscenza del passato come realtà esterna a noi). Questo
può avere un valore “museale”. Può diventare materia di una erudizione specialistica anche raffinata;
ma è difficile pensare a un amore istintivo indirizzato verso ciò che per suo statuto ci appare, all’inizio, lontano ed estraneo. La regola vale a maggior ragione all’interno della comunicazione didattica
del sapere storico, rivolta a fruitori non esperti.
Al contrario, il fattore trainante può essere riconosciuto nell’io che vive nel presente, nella coscienza dell’uomo presente. L’interesse per la storia matura nel farsi dell’esperienza che si svolge nell’oggi,
nel momento in cui la coscienza dell’uomo è interrogata e costretta a reagire. Cioè quando la realtà
dell’io comincia a destarsi, si espande e il soggetto vuole comprendere la realtà in cui si scopre
innestato, chi è lui veramente, da dove viene, perché lui e il mondo sono così, come sono diventati
quello che sono, di che cosa siamo figli, quale è il compito, di quale responsabilità e di quali significati vogliamo farci portatori.
2. Come scatta questo lavoro della ragione che costringe a guardare all’indietro e ci proietta verso
la visione del passato? Non lo inventiamo da soli. Nasce dalla realtà stessa che ci interpella (è una
provocazione che scatta all’interno dell’avventura individuale del soggetto personale, ma vale allo
stesso modo per le realtà collettive più ampie di cui egli è parte: gruppo, comunità locale, popolo,
nazione…). La realtà del mondo che ci sta di fronte ci interpella venendoci incontro. Ci raggiunge e ci
parla con i suoi segni che non si spiegano da sé e rimandano ad altro, che recano impressa l’orma
del tempo che passa. Sono gli echi di un mondo che non c’è più, nella sua realtà totale, e che ci arrivano da un passato a volte remotissimo (le strutture di una forma religiosa, i quadri del diritto, gli
schemi della mentalità…), a volte ridotti a flebili voci, che resistono a una piena decifrazione (come
i messaggi enigmatici di una scrittura ignota), altre volte ancora conservando le tracce eloquenti
di sviluppi a noi molto più vicini (nel campo dell’economia, della politica, delle realtà sociali …). In
ogni caso questi segni agiscono come richiami che risvegliano la nostra attenzione. Esercitano un
fascino, una presa su di noi, e suscitano una domanda: cosa sono, nella loro realtà profonda, questi
materiali (idee, strutture, avvenimenti) che entrano a comporre l’ossatura del nostro presente? Cosa
sta dietro la realtà che appare e si lascia incontrare? Perché emerge subito all’evidenza che i “mattoni” di cui è fatta la realtà del mondo non ce li inventiamo noi. Ci sono dati. Ce li troviamo davanti
in gran parte già forgiati.
3. Vogliamo andare a fondo di questa relazione con il soggetto che fonda la dinamica dell’inte195
Parte terza. Danilo Zardin
resse per la storia. Si tratta di recuperare lo spessore della sua “utilità”, tutta l’implicazione anche
esistenziale di una forma tipica del movimento dell’esperienza umana. Davanti alla coscienza di un
uomo spinto a entrare in rapporto con la realtà che lo costituisce, la realtà cessa di essere uno schermo piatto. Diventa una grande domanda che ci coinvolge e ci ricongiunge con i passi di un tragitto
che è stato percorso nel tempo. Ci riporta alle origini. Possiamo dire che, al fondo, la storia esiste
in quanto è la ricostruzione di una consanguineità, che ci rende solidali con ciò che ha plasmato la
realtà del nostro io e del nostro mondo. Getta un ponte verso il passato che ci siamo lasciati alle
spalle. Lo fa rivivere per noi, dal nostro punto di vista attuale. Lo rende comprensibile, gli restituisce
una capacità di parlare, e facendo così ci rimette in dialogo con le ragioni e i significati che lo hanno
animato, ci consente in un certo senso di riappropriarcene.
Possiamo dire che la storia nasce e matura – per suo statuto, geneticamente, nell’esperienza del
singolo individuo così come nel suo evolvere in quanto patrimonio collettivo di conoscenze – come
affermazione e continua riconquista di un legame, di una continuità tra noi e ciò che è stato prima
di noi. La storia è la ragione che fa risorgere il tessuto di una continuità: ricostruisce l’unità con
la tradizione da cui proveniamo, è una tradizione in cui ci immedesimiamo, che diventa parte della
costruzione della nostra identità presente. Ricuce il filo della memoria portandoci a riabbracciare il
nostro passato, ma in funzione del presente che noi siamo, educandoci a vederlo in unità con noi,
come una cosa sola con noi. La storia è innanzitutto “genealogia”. Potremmo citare l’idea crociana
della storia come “autobiografia del presente”. Emerge, al fondo, l’idea della “contemporaneità” di
ogni storia, ossia il principio della “inevitabilità” del rapporto con il passato di ogni frammento del
tempo presente (esaltando ancora di più l’intuizione del legame tra passato e presente che in Marrou (2001) si configura piuttosto come l’accostamento di due realtà distinte che vanno semplicemente accordate e fatte lavorare all’unisono). Oppure potremmo citare Koselleck (1986), con la sua
idea del passato che è passato proprio in quanto è “passato-per-noi”, cioè un “passato-presente” (se
fosse solo “passato”, sarebbe estraneo al nostro orizzonte e in sé inafferrabile). Un esempio pratico
di genesi dello sguardo storico a partire dall’intensità dell’esperienza di un interesse o di una appartenenza vissuta nel presente potrebbe essere la genealogia di Cristo ricostruita nei capitoli iniziali
dei Vangeli.
4. Con i primi tre passaggi abbiamo semplicemente cercato di rileggere (dall’interno) la dinamica
del primo attrezzarsi dell’interesse nella conoscenza storica, il suo germe iniziale. Ma poi la ragione
di tipo storico (la ragione che afferra la dimensione ‘storica’ dei diversi aspetti costitutivi della realtà), una volta messa in movimento, tende a seguire una sua logica di sviluppo, che in un certo senso
è ineludibile, strutturale, svolgendo in modo sempre più aperto ciò che all’inizio è solo implicito,
potenziale.
Come cresce su di sé la percezione del senso storico? Più la conoscenza della storia ci fa inoltrare
nella familiarità con il passato reso contemporaneo a noi, più ci fa entrare nelle sue pieghe, ne esalta
i dettagli. Ma più il legame si salda, più ci rendiamo conto che noi oggi siamo diversi perché abbiamo
introdotto una distanza. Abbiamo custodito un lascito prezioso, costruendo sui mattoni che altri
hanno posto; ma nello stesso tempo, più siamo vivi, portatori di un’esperienza ricca e originale, più
ci siamo resi capaci di manipolare, di far crescere e di riconfigurare quanto abbiamo ricevuto in
consegna. Emerge il senso della differenza. Ci sono certamente le stabilità, le cose rimaste in piedi
e riusate. Ma si colgono anche gli scarti, le perdite, i rifiuti; e dall’altra parte le innovazioni creative,
le aggiunte, le rivoluzioni.
Maturando nella conoscenza del percorso, impadronendoci del paesaggio di una storia che dalla
nostra coscienza implicata nel presente si dilata all’indietro risalendo alle sue premesse, noi possiamo diventare capaci di percepire il salto di posizioni che è stato compiuto. Si profila la linea di una
196
Parte terza. Storia
evoluzione, la malleabilità di un processo. Si affaccia in tutta la sua imponenza la realtà del divenire.
Siamo sempre eredi, cioè figli (in un rapporto di analogia o di discendenza con i progenitori che ci
hanno dato vita, in debito con loro), e nello stesso tempo siamo anche altro, con una nostra autonomia, dentro una catena di rapporti ma capaci di sporgerci al di là di essi: un di più dentro il flusso
del tempo che ha fabbricato l’edificio di quello che è il nostro contesto o l’insieme delle circostanze
in cui ci muoviamo.
Arriviamo a sottolineare che il senso maturo della storia è la coscienza di una continuità che non è
bloccata, ma cresce e si modifica, necessariamente, che noi – per il fatto stesso di esistere – spingiamo sempre in avanti, un “avanti” che però non è sempre e automaticamente un “meglio”, in quanto
indica solo la vocazione a un irrinunciabile oltrepassamento. Vale sul piano della storia delle realtà
collettive come vale, per analogia, nella vicenda biografica personale. Tutto ciò che vive nello stesso
tempo si trasforma, cambia pelle. Pensiamo a come muta il volto delle città che abitiamo, all’organizzazione pratica e al significato del lavoro, ai rapporti sociali, alle regole del comportamento, al
modo di vestire e di esprimersi, agli schemi di cui ci serviamo per inquadrare i compiti delle istituzioni politiche. Ma riflettiamo: si cambia sempre e comunque? Con quali ritmi? Con esiti in partenza
garantiti? Riemerge il problema della non-necessità, il tema della “libertà” o della drammaticità
come sfondo decisivo dell’avventura umana nel tempo).
Una postilla su questo quarto punto cruciale: dobbiamo tenerci molto a difendere il ruolo fondamentale del rapporto con l’alterità, quindi la dimensione della “diversità”, del divenire e del “cambiamento”, che determinano una metamorfosi e introducono una distanza nel gioco della storia. Il
mutamento è la parola chiave della storia: la ragione del suo stesso imporsi alla coscienza dell’uomo. Si rimanda a qualcosa che è avvenuto nel tempo, che è accaduto “ieri” e adesso è finito, o ha
cambiato aspetto (per questo ne possiamo stilare la cronaca e comunicarla ad altri). Ma ancora, di
nuovo: è tutto cambiato? No di sicuro: ci sono anche le cose che restano, le forze di stabilità. Ci
sono le grandi eredità.
In storia, la scommessa centrale è riuscire a tenere insieme le due dimensioni tra loro intrecciate:
la continuità e la discontinuità, l’unità con il passato che sta dentro di noi e con cui dialoghiamo e
nello stesso tempo la nostra costitutiva differenza rispetto a ciò che ci ha preceduto e ci ha generato, come le due parti di un unico intero.
5. Ci introduciamo così per naturale sviluppo nel quinto passaggio. L’esito a cui si approda è quello di una “sintesi”, che vuole salvare l’unità di tutto il percorso dall’oggi del presente verso lo ieri
del passato che è parte di noi, entrando a costituire il senso della nostra tradizione, e viceversa, dal
rapporto con il passato alla nostra identità nel presente. Puntiamo all’esito di uno sguardo spalancato alla totalità, che però non rinunci alla freschezza e alla vitalità della sua infanzia più libera e
germinale, perché le due distinte dimensioni della conoscenza storica che abbiamo evidenziato sono
in se stesse unite da un intreccio che è ultimamente dialettico.
Lo scambio elastico e la possibilità di un arricchimento reciproco sono quelli che legano tra loro il
movimento della dilatazione della coscienza, che si protende verso il suo passato, lo riassorbe in sé
e crea l’abbraccio accogliente della memoria (con tutto quello che abbiamo sottolineato sulla logica
della parentela, dell’appartenenza, dell’identità), da una parte, e dall’altra la progressiva scoperta
dell’alterità del passato: man mano che lo facciamo “nostro”, il passato recupera davanti a noi la sua
indipendenza, svela gradualmente la sua ricchezza, una densità che noi abbiamo interpretato, fatto
evolvere in certe direzioni e non altre, prendendo la nostra specifica strada. Il passato, costituendosi
come tale nel rapporto che con esso stabiliamo, si distanzia da noi e crea il senso di una “prospettiva”: lo possiamo guardare anche da fuori e in un certo senso “da lontano”. Nella dinamica della
conoscenza che avanza, si mostra sempre più largo, più profondo e più vasto di ciò che noi siamo,
197
Parte terza. Danilo Zardin
nel punto da cui cerchiamo di rappresentarcelo. L’elemento che si introduce, come abbiamo detto,
è quello della presa di distanza: tra il passato e, di fronte a lui, il presente che è diventato un’altra
cosa. È cambiato. Cambia a volte nel suo stesso codice genetico, nella sua organizzazione portante,
che fissa l’ordine del mondo e definisce la logica dei ruoli e dei significati che noi attribuiamo ai
diversi elementi della realtà (economia, politica, istituzioni, forme della mentalità), in rapporto con
i quali noi aderiamo a un destino ed esprimiamo il senso di una identità traducendoli in cultura.
6. Una sentenza memorabile di Huizinga (1974) racchiude la precisa evocazione simbolica della
dinamica che abbiamo fatto emergere, con il nesso organico che ne tiene uniti i due distinti modi
di espressione qui sopra individuati. Si oscilla da una all’altra delle due sponde del fare storia e si
conclude riconducendo tutto al legame inscindibile del loro integrarsi dialettico, come approdo al
vertice massimo di lucidità di una vera comprensione sintetica.
“Alla storia premono il distacco, il contrasto, le prospettive [è il secondo polo del movimento della
ragione storica, per ‘differenza’]. Nel passato non ricerchiamo soltanto ciò che è affine e corrispondente alle nostre attuali condizioni [si risale per antitesi alla mossa del riconoscimento nell’identico,
alla memoria per analogia, fondata sull’annessione del simile con il simile], ma anche ciò che è
opposto, completamente estraneo [di nuovo ributtati sull’altro versante della distanziazione, dell’apertura al cambiamento che separa e fa maturare]. La comprensione storica nasce proprio da questo
spaziare fra due poli molto distanti” (Huizinga 1974: 109).
Dove sta il punto di forza di questo modo di guardare al movimento della conoscenza storica,
stando sempre all’interno dell’ultimo nodo problematico del nostro percorso (quello relativo all’unità
di fondo della ragione storica)? Mi pare che il guadagno stia nel legame di coincidenza che viene
stabilito: la storia come uno “spaziare” (una oscillazione aperta, un continuo andirivieni pendolare)
tra due “poli” di riferimento che però si rimandano a vicenda, si cercano e si influenzano in un rapporto di simbiosi, come i due poli opposti di un unico campo di forze, che respingendosi attirano su
direzioni diverse, ma nello stesso tempo sono legati (sono parte della stessa coppia di forze). Tenere
insieme e far interagire in modo produttivo il rispetto totale per l’alterità del passato e l’amore per
l’identità di sé immersi nella realtà vitale del presente ci fa diventare capaci di riconoscerci tributari,
di elaborare tutta la ricchezza positiva del sapersi collocati su un cammino tracciato, e nello stesso
ci dispone a vincere il rischio di diventare noi padroni di ciò che ci ha generato, piegandolo a nostro
uso e consumo. Possiamo così aprirci a una esperienza tutta da vivere in una contemporaneità che
non sia però imperialista, tale da soffocare sotto il proprio punto di vista tutto ciò che scavalca ed
eccede i suoi schemi attuali, e neanche narcisistica, tesa a ritrovare nello specchio di sé solo la conferma delle certezze dominanti nella cultura dell’oggi.
Ma dobbiamo chiederci: può esistere una memoria che non sia fagocitante e cannibale, tale da
divorare in se stessa il passato? Esiste una memoria veramente dialogica, aperta? O all’opposto, si
può concepire l’attaccamento al passato, l’amore per una tradizione che sia veramente “ecumenica”,
capace di accettare in se stessa la legge inesorabile del cambiamento? Si può pensare a una tradizione che non sia schiacciata sul culto del passato reificato, a una tradizione non tradizionalista ma
vivente, che sia una vera tradizione?
Formulo queste domande perché l’unità circolare dei due movimenti o dei due poli del rapporto
tra presente e passato è anche da curare, va coltivata. È una maturità da alimentare attraverso la
pratica della ricerca e della trasmissione del sapere restituite alla loro etica costitutiva. È la storia
riportata alla sua norma più autentica e in un certo senso moralizzata, guarita dalle sue potenziali
patologie e dai suoi rischi di chiusura o di semplificazione unilaterale. Se si spezza il legame che
abbiamo cercato di mettere a tema, si scade in una ragione storica impoverita e deformante. Se
viene meno, infatti: 1) il rispetto della diversità del passato, tutto viene riassorbito nell’eterno pre198
Parte terza. Storia
sente. Si scade nell’anacronismo di pensare a ciò che è stato ieri come la pura ombra, o la semplice
anticipazione abbozzata di uno sviluppo che porta alla realtà che siamo diventati nel nostro presente (pensiamo a un certo evoluzionismo ingenuamente schematico, fondato sull’ottimismo della
ragione moderna …).
Sul lato opposto 2), se si dimentica il nesso del passato con l’oggi (l’utilità concreta della dimensione storica per noi contemporanei, per capire tutti i diversi aspetti della cultura, della tradizione e
della realtà sociale che definisce il contesto della nostra situazione attuale), si sprofonda nel culto
nostalgico del passato slegato dalla nostra esperienza nel presente. La storia diventa necrofilia: una
evasione dall’impegno nella realtà, un sapere separato dal coinvolgimento globale dell’io nell’esperienza che viviamo per amore del nostro destino. La filologia pura, la pura tecnica della ricostruzione
del passato fondata su prove criticate e accertate cessano di essere strumenti al servizio del dialogo
con la globalità delle esperienze più significative prodotte dall’avventura degli uomini nel tempo
che passa.
L’unità vivente del senso storico è un compito per il lavoro che ci attende.
I fattori della realtà storica
Tentiamo ora di mettere a fuoco, in termini il più possibile generali, l’oggetto che è al crocevia
di tutti i discorsi che possiamo sviluppare sulla dimensione storica del rapporto della ragione con
la realtà. Cosa è la storia che vogliamo cercare di abbracciare? Quali sono i centri intorno a cui si
organizza e prende forma? Cosa ci preme cercare di capire? L’opzione di metodo decisiva mi sembra
qui l’ambizione di aprirsi a una visione che, più si svela comprensiva e sintetica, più diventa capace
di includere l’intero. È il grado di apertura alla totalità, come tensione ideale, il metro implacabile
di verifica per ogni approccio dell’intelligenza alla complessità del molteplice. Ne segue che non
bisogna lasciarsi disorientare dall’apparente tasso di “teoricità” del modello che cercheremo di delineare: abbozziamo una linea di metodo, proviamo a disegnare un “paradigma” o meglio ancora una
specie di “architettura” generale della complessità storica, perché con una ipotesi da mettere alla
prova possiamo orientare meglio lo sguardo e studiare le strategie più opportune di avvicinamento.
Con due corollari:
a. Si propende qui per una considerazione altamente positiva dell’apporto della “teoria” nella formulazione di una conoscenza che tenda alla globalità. Senza una chiave unitaria di lettura, è forse
impossibile tenere insieme i frammenti e si rischia di rimanere prigionieri di un particolarismo autoreferenziale, svincolato dal contesto dell’insieme. Il “micro” dipende dal “macro”, anche se è vero che
il “micro” può essere, in certe condizioni e certi ambiti, la via più produttiva per l’accesso al generale.
b. Però le “categorie” non sono materia diretta della trasmissione didattica della conoscenza
storica. Sono uno strumento per la sua organizzazione e il suo sviluppo, che poi deve travasarsi nei
metodi più adeguati per la comunicazione, come racconto e come mappa concettuale per l’apprendimento.
1. Il punto di vista essenziale che adottiamo è questo: la realtà eminentemente umana che è l’oggetto dello sguardo storico (Bloch 1969) va vista come una realtà che tende inesorabilmente a darsi
un ordine (ma in termini concreti, nella realtà dei fatti, non come assunzione di una sovrastruttura
regolativa applicata dall’esterno). La società che vive nella storia è una realtà che tende a organizzarsi come un corpo strutturato, che si dà un impianto, si articola in forme codificate, si inquadra in
istituzioni, in apparati; una realtà che definisce le sue regole, le sue norme e quindi, molto presto,
elabora al suo interno dei poteri, delle funzioni di autorità (le quali poi, come tutto il resto, evolvono,
199
Parte terza. Danilo Zardin
si trasformano, vanno in crisi, cambiano i loro modi di funzionamento). È necessario tener presente
che questa opera di strutturazione della complessità umana è di per sé un’opera corale, incessante,
non alimentata solo dall’alto, ma trasversale a tutti i campi della realtà storica, capace di coinvolgere tutti gli attori in gioco nel suo farsi mutevole. La società, in sintesi, esiste in quanto è una
struttura vivente, un “ordinamento” complesso: una “costituzione” (nel senso più largo e generale,
non solo formalmente giuridico, del termine). Non c’è società, nella storia, senza una “costituzione”
che ne sia la struttura portante, il tessuto connettivo d’insieme.
2. Tutte le parole suggerite come termini identificativi dello specifico della realtà storica sono
prelevate da una tradizione storiografica di alto prestigio, alla quale conviene ancora oggi attingere:
quella della storia socio-costituzionale di matrice tedesca. Si deve al suo maestro, Brunner (1970), in
particolare, l’idea della simbiosi tra la società e la politica, cioè tra la ricchezza dell’esperienza umana che prolifera dal basso (economia, demografia, rapporti sociali, mentalità, cultura …) e la forza
plasmatrice delle nervature che essa deve darsi per stare in piedi. Da qui scaturisce l’immagine della
società come un tutto ordinato, che costruisce e modella senza sosta il suo scheletro; uno scheletro
che dà ordine alla molteplicità della vita, la incanala e la governa.
Dentro questa ossatura ci stanno certamente le leggi (fino alle leggi fondamentali che sono le
costituzioni degli Stati moderni), ma non solo (quando si attivano) le leggi scritte dell’autorità pubblica superiore. Ci stanno le consuetudini, i patti autodeterminati nei corpi e nelle associazioni degli
individui, i codici etici, gli schemi e le regole dei rapporti sociali (pensiamo, in primis, alla famiglia),
i modelli di identità personale. Si comprende come mai il concetto di “costituzione” di una società
sia stato spesso tradotto da quanti ne hanno fatto uso nella formula di “costituzione materiale”.
3. Il discorso sulla “costituzione” non è però riassumibile nelle prospettive esclusive di un approccio giuridico o solo politico. Rimanda a qualcosa di molto più ampio: vuole tentare di abbracciare le
radici del fenomeno sociale come tale. Per questo può essere utile fare un passo ulteriore, e provare
a contaminare il concetto brunneriano di “costituzione” con quello antropologico d’uso più comune
(ma raramente tematizzato nella sua densità di implicazioni) che è il concetto di “civiltà”. Possiamo
affermare che la storia è il cammino con cui l’uomo tende a fare del suo contesto di vita una civiltà:
l’uomo è chiamato per sua natura a modellare la realtà dei dati, li assimila e li rielabora per fonderli
in un ordine coerente (che aspira, imperfettamente, alla coerenza).
Civiltà, per Bloch (1969), è “questo complesso” nel cui seno “si riuniscono tutti gli elementi della
vita di un popolo, tutte le forze della sua esistenza”: “in una società, quale che essa sia, tutto si
connette e si condiziona vicendevolmente: la struttura politica e sociale, l’economia, le credenze,
le manifestazioni più elementari come le più sottili della mentalità”. Ritorna in primo piano, come
si vede, la centralità di una grande visione organica, l’idea-guida della società come architettura
vivente, come Ordnung.
4. Ma appunto perché si tratta di “ordine vivente”, ogni costituzione, ogni civiltà, non è un tutto
immobile e congelato. Le “costituzioni sociali” hanno una storia; sono architetture, sì, ma mobili.
Evolvono. Si sviluppano. Possono deperire, entrare in crisi, implodere su se stesse, essere attaccate
da fattori esterni. Si intrecciano tra di loro e si rimescolano. Generano influenze e discendenze,
acquistano nuove fisionomie. Non c’è un unico percorso obbligato. Nessuna necessità e nessuna
linearità unidirezionale. Tanto meno un progresso a tappe concatenate (o una involuzione predeterminata, una successione stabile di cicli…). Lo sviluppo non è automatico, ma aperto a esiti molteplici. Ha un andamento sinuoso, a ritmi mutevoli, diversificati per di più al loro interno in rapporto
ai singoli aspetti della totalità storica, segnato da spinte, rallentamenti, cadute. Questa ‘plasticità’
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Parte terza. Storia
è cruciale. Si impianta proprio qui il senso pieno del “divenire”, che è il cardine della storia che si
svolge nel tempo. Non c’è storia immobile ed è giusto diffidare delle lunghe durate, che per altro (si
potrebbero moltiplicare gli esempi) esistono anch’esse. Vogliamo allora scavare più a fondo su questa costitutiva dimensione dinamica all’interno della realtà storica, che interagisce con tutte le altre.
5. Molto schematicamente, per ricondurre a pochi elementi essenziali: proponiamo di vedere
come fattore dinamico centrale della capacità di trasformazione radicata nella storia la forza creativa della ‘cultura’, nel senso più allargato e generale del termine. Intendiamo la cultura come il
fattore umano in azione: ha a che fare con l’uomo come soggetto all’opera, innestato in una rete
di relazioni, che sviluppa una responsabilità e un lavoro; che tende a dare un ordine alla sua vita e
al mondo, attribuendo un significato alle cose, elaborando la sua mentalità, le sue credenze, i suoi
valori, le sue pratiche di comportamento, i suoi progetti di governo. La cultura, quindi, come capacità di investimento dell’energia umana, come desiderio e bisogno che si aprono una strada dentro
la realtà (manipolazione dell’esistente, fabbricazione del nuovo). Le strutture materiali, le ossature
sociali, lo scheletro delle istituzioni, le tradizioni culturali esistono in funzione del capitale fondamentale che è il capitale umano (il soggetto dell’io), mentre d’altro canto il soggetto stesso è un
soggetto incarnato e storicamente posizionato (non esiste nel vuoto pneumatico, fuori dalla storia).
6. La forza creativa dei soggetti umani in azione, venendo implicata nella realtà della struttura
storica, è sollecitata, nutrita, incanalata; ma può anche esplodere – in alcune circostanze privilegiate – nell’energia trascinante di quelli che possiamo chiamare gli “avvenimenti”, nell’accezione forte
del termine: gli avvenimenti di qualità e intensità particolare, dotati di forza incisiva speciale, capaci
di lasciare traccia durevole (che sono, quindi, qualcosa di molto di più rispetto ai fatti ordinari e
ripetitivi su cui si fonda il trend delle esistenze private degli attori anonimi della storia).
Gli avvenimenti non sono gli unici fattori generatori di cui si deve tenere conto per capire la storia globale della società. Gli avvenimenti sono “un di più”. Portano con sé il nuovo, l’accrescimento.
Possono diventare snodi, punti di svolta anche epocali. Certamente hanno un ruolo fondamentale e
rivestono un interesse di grado eminente all’interno della dinamica storica. Ma sarebbero compresi
in modo amputato e unilaterale se fossero visti senza radici, senza nessi con il contesto che li vede
fiorire e li alimenta, in rapporto con i dati preesistenti della realtà.
Vogliamo sottolineare che gli avvenimenti storici indubbiamente possono tendere a forzare il
contesto, ne fuoriescono, hanno in sé elementi di critica o di superamento. Ma nascondono anche
un fascio di collegamenti che si diramano (sempre e necessariamente?) in una duplice direzione. Da
una parte (1), gli avvenimenti sono il frutto innestato in una storia che li precede e ne sono segnati.
Portano su di sé l’impronta di quanti hanno concorso a determinarli o ne sono coinvolti. Sono la
voce del loro tempo. Si articolano adottando i pensieri, le parole, i modi di agire dell’universo che
li ospita (pensiamo, come unico esempio emblematico, al cristianesimo delle origini, che comincia
a ragionare in greco, si “ellenizza”, e facendo così porta a pieno sviluppo le implicazioni del suo
nucleo sorgivo). Ma poi, ed è altrettanto importante sul piano storico (2), ogni avvenimento degno
di questo nome, se vuole prolungarsi nel tempo e lasciare una eredità, se vuole rimanere accessibile
nei suoi effetti e diventare elemento costitutivo di un nuovo corso dell’esistenza, deve tendere per
forza di cose a stabilizzarsi, a trasformarsi in una risorsa permanente dell’esperienza, cioè a diventare
“storia”, a generare dal suo stesso seno un nuovo assetto, una forma che lo tramandi. La dinamica
fondatrice degli avvenimenti è quella di essere spinti a tradursi in un ordine o in una tradizione
rimodellata, nella correzione dell’impianto complessivo di una “costituzione” che li riabbraccia in
sé e li fa propri. Alla fine, alimentano una nuova continuità e una nuova stabilità. Reinventano le
tradizioni. Non si può vivere (una società non può vivere) senza continuità e senza tradizioni.
201
Parte terza. Danilo Zardin
7. Le ultime precisazioni sui contenuti del fatto storico possono tranquillamente coesistere con
il riconoscimento della centralità degli avvenimenti come via di approccio alla totalità della storia,
quindi come finestra privilegiata per introdursi nella sua comunicazione attraverso il lavoro didattico, agganciato agli snodi significativi del percorso del tempo. Ma la totalità della storia è, appunto,
un insieme organico più complesso, dove ci sono anche le forze di resistenza, le grandi continuità,
i sistemi, le strutture e i processi di sviluppo, a fianco dei salti di rottura. Il problema, alla fine, è
tenere insieme il tutto. Se lo si vuole capire fino in fondo, non si può frammentarlo, riducendolo ad
aspetti unilaterali separati dal resto. Sarebbe sbagliato fissarsi solo sulla stabilità dei sistemi immaginati come corpi statici (però in storia ci sono anche gli elementi di rigidità!), oppure lasciarsi totalmente riassorbire dalla freschezza esuberante degli apporti di novità, delle forze di cambiamento e
delle aperture, fermandosi alla superficie delle realtà che essi contribuiscono a far nascere, e dunque
privandoli della loro capacità di solidificazione storica, che li trasforma in guadagno incorporato
nella tenuta di una civiltà dove si innestano come agenti positivi di mutamento.
202
L’insegnamento della storia:
aspetti e problemi
Andrea Caspani
Problemi di insegnamento della storia
Oggi chiunque è attento alla dimensione educativa della scuola italiana è consapevole di una
caduta di interesse e di sensibilità storica nelle giovani generazioni, anzi molti studiosi ed osservatori del mondo giovanile individuano proprio in questa carenza una delle radici della scarsa consapevolezza e capacità di scelta matura e responsabile di fronte alle problematiche socioculturali
del presente di tanti giovani. Che la “disaffezione” alla storia, il sapere sul passato, sia all’origine
della difficoltà a vivere responsabilmente il presente è solo il primo dei paradossi di questa nostra
riflessione.
In primo luogo vorremmo sottolineare come, proprio in un contesto di società “satura di storia”
nei riferimenti politici, culturali, letterari, ecc. come la nostra, il “disinteresse” per la dimensione
storica in quanto tale sia favorito da alcuni fattori tipici della società occidentale contemporanea.
In questa sede ci limitiamo a segnalare in particolare:
a) il ruolo dell’orizzonte culturale del ‘nichilismo positivo’ caratterizzante l’Europa della nostra
epoca postmoderna in quanto il successo di questa concezione secolarizzata della vita, che riduce
radicalmente l’influenza della tradizione cristiana, ridimensiona il ruolo di una visione della vita che
riconosce un valore decisivo alla dimensione storica (allo stesso modo la crisi attuale del marxismoleninismo che individuava nella scoperta delle “oggettive” leggi della storia la verifica della validità
della propria visione del mondo rende sempre meno significativo il riferimento al senso della storia
come criterio di verità di una visione del mondo). Il nichilismo post-moderno, in quanto coincide,
secondo la nota formula di F. Lyotard, con la caduta dei “grandi racconti” e la proposta di forme
culturali senza “archetipi”, conduce di fatto a una visione della realtà e del rapporto dell’uomo con
il suo passato radicalmente antistorica,
b) la crisi del ruolo sociale della famiglia, che è stata nei secoli precedenti generalmente la “via”
naturale di introduzione alla dimensione storica (Bevilacqua 2000).
c) la pervasività della civiltà dell’immagine che, paradossalmente, amplifica le possibilità di duplicazione della memoria ma favorisce l’emozionalizzazione e la frammentazione della conoscenza
e sfavorisce l’immaginazione e la capacità di contestualizzazione, fattori fondamentali per la maturazione della dimensione storica. “La ricchezza e la potenzialità riproduttiva dei mezzi di comunicazione, per cui l’informazione diventa immediatamente informazione tecnologicamente fruibile di
per sé non costituisce un incentivo a fare memoria” (Perone 1987: 132)
Un ragazzo normalmente curioso e critico, che all’inizio delle superiori già mostra di possedere
una concezione della storia in cui la domanda sul significato della storia è ridotta alla sua utilità
vitalistica e socio-politica può essere talvolta il miglior esempio della capacità della scuola attuale
di “smorzare” progressivamente nei giovani l’interesse per la globalità della dimensione storica. Non
è d’altra parte una risposta adeguata alla crisi della didattica della storia il ricorso (almeno secondo
le concezioni pedagogico-didattiche prevalenti nel dibattito sulla riforma scolastica italiana degli
ultimi anni) all’“inventio” di nuove modalità “più attive” di tecnica didattica per superare la “difficoltà di apprendimento” di quegli elementi strutturali della disciplina (avvenimenti, nomi, date,
203
Parte terza. Andrea Caspani
luoghi) verso i quali non sembra che sia possibile altro che una acquisizione più o meno ”passiva”
(si tratta di studiare e ripetere), oppure di individuazione di una metodologia didattica capace di
rendere “creativo” lo studio dei suddetti elementi fissi della disciplina (come ad es. con i laboratori
di storia) subordinandoli all’acquisizione di finalità valoriali o attualizzanti (per una revisione critica
della problematica sulla “nuova didattica della storia” cfr. Caspani 2001: 11-37).
Occorre riscoprire che la dimensione storica è una dimensione strutturale dell’uomo, fondamentale per il compimento di sé, insegnante o studente che sia. Questa dimensione ha un oggetto specifico irriducibile alle altre scienze umane, ben delineato da Marc Bloch, nella celebre Apologia della
storia: “La storia vuol cogliere gli uomini al di là delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o
delle macchine, degli scritti in apparenza più freddi e delle istituzioni in apparenza più completamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi riesce non sarà, nel migliore dei casi, che
un manovale dell’erudizione. Il buon storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana,
là sa che è la sua preda” (Bloch 1969).
È importante soffermarci sul significato che assume definire la storia come l’avventura umana
lungo la linea del tempo: questo significa riconoscere che gli uomini in azione sono costitutivamente caratterizzati dall’esigenza di trovare il significato della vita ed insieme impegnati a organizzare
rapporti sociali e strutture istituzionali funzionali allo stabilirsi di rapporti umani sempre più positivi
in modo da poter governare ed utilizzare al meglio la realtà naturale in cui sono inseriti secondo le
coordinate dell’ideale riconosciuto. Ci ricorda questo “principio della storia” il grande Dostoevskji
(I demoni), con espressioni che vanno collocate nel loro contesto storico culturale: “Nessun popolo
fino a ora si è organizzato secondo i principi della scienza e della ragione; non c’è mai stato un simile
esempio, se non per un attimo o per stoltezza. […] I popoli si formano e si muovono con un’altra
forza che comanda e domina, ma la cui origine è sconosciuta e inesplicabile. Questa forza è la forza
del desiderio inestinguibile di raggiungere la fine e allo stesso tempo di negarla. È la forza della continua e incessante affermazione della propria esistenza e della negazione della morte, lo spirito della
vita, come dice la Scrittura, “i fiumi di acqua viva” del cui inaridimento tanto minaccia l’Apocalisse.
Principio estetico come dicono i filosofi, principio morale, secondo la loro stessa identificazione. “La
ricerca di Dio”, come la chiamo io più semplicemente”.
L’ambito della storia è un “intreccio” di più elementi della realtà, uno dei quali è sempre il fattore
umano, con tutta la sua carica di intenzionalità libera e creativa. Come dice Veyne (1982), l’evento
storico è l’intreccio di strutture, di azioni libere e di casualità. Questo è vero proprio perché l’uomo è
sociale ed è uomo che lavora, che trasforma e quindi dà luogo a delle strutture nel suo fare. Quindi
c’è una inestricabilità dell’agire umano libero con le strutture, che sono come delle proiezioni che
l’uomo getta davanti a sé, al di là di quello che intenzionalmente fa. L’elemento di imprevedibilità
degli eventi indica poi l’impossibilità di riconoscere come scientifico il tentativo di costruire una
visione deterministica dello svolgimento storico. Tutto questo significa che non ci potrà mai essere
uno sguardo unico sufficiente a conoscere tutte le dimensioni dell’evento e che occorre “assediare”
l’evento da molti punti di vista per raggiungere una certezza “prospettica” su di esso, anche se,
utilizzando bene il metodo storico, si può giungere a certezze non solo sui dati, ma anche sulle dinamiche degli eventi e sulle loro conseguenze socio-culturali.
Il nostro compito come insegnanti è quello di aprire il giovane a uno sguardo globale sulla temporalità e di educarlo a incontrare lo “spessore umano“ del periodo che si sta studiando in modo
da saper incontrare “l’altro in quanto altro”, in quanto diverso da noi ed insieme, nella sua natura
umana, così “vicino” a noi.
Due notazioni per affrontare in modo adeguatamente critico questo difficile ed affascinante
compito.
La prima è la discontinuità tra la memoria personale e la memoria storica. Schematizzando, possiamo
204
Parte terza. Storia
dire che ci sono due interessi profondamente diversi che sostengono l’attenzione rispettivamente per
la memoria personale e per la memoria storica: nella memoria personale l’interesse è la mia identità;
nell’interesse che l’uomo vede nella ricostruzione storica sono al centro le possibilità (in senso astratto
ed in senso concreto) di noi uomini e di noi uomini di questa società, in questo tempo. Parliamo qui di
possibilità in senso astratto, facendo riferimento alla presa di coscienza della capacita che l’uomo ha
di plasmare, in senso lato, il proprio ambiente e al desiderio di rapportare tutto al significato globale
riconosciuto. Parliamo poi di possibilità in senso concreto, riferendoci alle possibilità di noi uomini di
questo tempo che abbiamo alle spalle un ben determinato passato, un determinato tipo di socialità, di
cultura, di trasformazione dell’ambiente ecc. e che quindi siamo condizionati da tutto ciò. Naturalmente poi anche l’identità, mia e degli uomini del passato, è parte della storia umana.
La seconda notazione è sullo spessore umano della storia, che si può far incontrare ai propri studenti attraverso un impegno paziente a introdurli alla ‘contemporaneità’ della storia. Insegna veramente la storia chi riesce a rendere contemporanea anche la storia più remota, colui che comunica
come anche nella storia degli egiziani o dei medievali ‘passi’ il tentativo di vivere quell’avventura
umana alla ricerca del vero e della felicità che è caratteristica di ogni uomo, in ogni epoca. È questa
la vera contemporaneità della storia. Introdurre i giovani alla ‘contemporaneità’ della storia implica
far maturare una ‘polarità’ di atteggiamenti: una capacità di immedesimazione simpatetica verso
l’altro ed insieme una capacità di distanziamento critico. In primo luogo si tratta di sviluppare la
capacità di immedesimazione comprensiva con gli uomini del passato, educando i giovani a superare il pregiudizio dell’anacronismo. Immedesimarsi immaginativamente con l’altro non è facile, è un
lavoro: un atteggiamento di fondamentale simpatia verso l’altro, incommensurabilmente distante.
Come già ricordava S. Agostino “nihil cognoscitur nisi per amicitiam”.
Il tema è centrale, poiché dobbiamo considerare la grande difficoltà esistenziale per aprire lo
sguardo dello studente alla dimensione storica e all’interesse esistenziale della storia: è la lotta
contro l’individualismo, inteso come la divaricazione tra il privato, l’individuale (considerato generalmente come positivo, carico di attese e di ricerca di identità e appartenenza) e il pubblico (il
sociale, il politico, il globale, che sono visti spesso come distanti, oscuri e “pericolosi” quando non
aprioristicamente fonte di inquinamento dell’umano). Una divaricazione che rende difficile per un
giovane d’oggi comprendere la positività della dimensione comunitaria che è fondamentale per
acquisire il “senso storico”.
Vorrei terminare questa prima parte con una indicazione sul metodo di insegnamento: la dimensione narrativa è insostituibile nell’insegnamento della storia. Criticamente un metodo è adeguato
quando è conforme all’oggetto che studia; il metodo dovrà allora essere adeguato a evidenziare tutto lo spessore umano implicato nell’intreccio con le strutture e le istituzioni in cui è inserito. Quanto
detto naturalmente non vuole criticare l’importanza del continuo aggiornamento nella ricerca di
tecniche, strumenti o supporti tecnologici utili a migliorare la didattica, ma soltanto sottolineare la
fondamentalità di una “regia narrativa” del metodo d’insegnamento.
Progettare percorsi didattici
Il problema di come progettare percorsi didattici in storia si riconduce al problema della assunzione consapevole della prospettiva educativa delineata: o comprendiamo che la storia è l’avventura
umana lungo la linea del tempo, ovvero quel movimento verso la realtà messo in atto alla ricerca
del compimento di sé in nome dell’intrinseca positività dell’essere e per il quale vale la pena di vivere l’avventura della vita (e allora riconosciamo che va sviluppata in primo luogo la fondamentale
affinità antropologica e di desiderio tra il docente e lo studente) oppure riduciamo il problema a
una questione di tecniche e strumenti (e tutti noi sappiamo che le tecniche, anche le migliori, sono
205
Parte terza. Andrea Caspani
inefficaci per incidere sulle motivazioni fondamentali degli studenti e generare un autentico impegno culturale).
La prima riflessione è quindi sulle condizioni antropologiche per un insegnamento della storia
“umanistico” e in particolare sulla dinamica antropologica dell’impatto umano con la realtà, che
richiede ragione, affettività e libertà. Di fatto chi insegna storia deve essere consapevole delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza storica, che è centrata sulla libertà. Niebuhr affermava che
chi scrive di storia trova in essa “il frutto e la prova della libertà dell’individuo”. Koselleck ci aiuta
a comprendere come la nostra capacità di adesione alla realtà (e quindi di iniziativa nella storia) è
connotata dalle categorie di esperienza e aspettativa. Egli infatti afferma che “le condizioni di possibilità della storia reale sono, insieme, le condizioni della sua conoscenza” (Koselleck 1986: 303).
La seconda riflessione è sui contenuti dell’insegnamento. Il fatto che il rapporto con il passato è
parte integrante del nostro presente e che ignorarlo significherebbe condannarsi a una vita personale e comunitaria “nevrotica”, impossibilitata a sviluppare l’autocoscienza in forma criticamente
matura, comporta la necessità che il passato sia studiato tutto (cioè che venga presentato il “continuum” della storia umana), perché tutto il passato in quanto umano è “nostro”. Questo naturalmente
non significa, dato che il sistema scolastico determina per le diverse discipline tempi specifici (per la
storia decisamente limitati), che non si debbano fare delle “scelte”, che però vanno “proporzionate”
in riferimento comunque a un “continuum” della storia umana, almeno a “maglie larghe” che deve
sempre restare sullo sfondo, mentre le “storie scelte” vanno commisurate al riferimento prioritario
alla tradizione della nostra civiltà di provenienza. Sull’importanza del riferimento alla tradizione da
cui si proviene, ci limitiamo a osservare che non è un’esigenza di tradizionalismo a motivarci, ma
è proprio dall’esigenza di una formazione scolastica che apra alla realtà in tutti i suoi fattori che
scaturisce la necessità di prendere in considerazione come prima risorsa il riferimento alla tradizione
e alla conseguente memoria storica della stessa in cui si è inseriti. L’interrogazione della tradizione
costituisce infatti una fondamentale esigenza di ordine educativo e un momento di sviluppo delle
capacità di riflessione ed orientamento dello studente.
Per realizzare “storie scelte” secondo un’ “ipotesi” di percorso storico in primis occorre distinguere
il tempo storico dal tempo cronologico. Questo significa comprendere che è storico “quel tempo
passato che è sentito come tale nel presente, il presente di chi legge il passato” cioè che occorre
considerare un periodo come concluso, come racchiudibile tra un punto di partenza (terminus a quo)
ed un punto di arrivo (terminus ad quem). La prima operazione da svolgere è quindi un’attenta periodizzazione. Il periodizzare è un atto che appartiene all’ordine delle operazioni culturali complesse,
(anche per questo comporta un necessario richiamo alla storia della storiografia), e non costituisce
mai un momento formale ed estrinseco nella ricerca e nell’insegnamento storico, bensì il modo
stesso di porsi il problema. Il punto di partenza si individua cogliendo la specificità del problema o
dei problemi (sociale, economico, politico, culturale, ecc.) che il periodo in questione è chiamato ad
affrontare. Lo spunto del lavoro storico è sempre, dunque, una domanda o un problema. Elaborata
un’ipotesi di lavoro che presiede alla interpretazione del significato delle tracce che si incontrano
l’insegnante determina poi il “taglio” (socioculturale, politico-militare, socio-economico, “annalistico”, biografico, ecc.) con cui intende esaminare il periodo in questione, consapevole che ogni scelta
è prospettica. Si individuano i diversi soggetti storici presenti nel contesto (sono tali tutti quei
gruppi umani consapevolmente portatori di una prospettiva ideale o ideologica globale sulla realtà)
nella dinamica delle loro esperienze ed aspettative. Si individua l’avvenimento (o gli avvenimenti)
fondanti del periodo esaminato e si evidenziano quindi le principali svolte di quel periodo secondo i
principi di rilevanza, ordinamento e intelligibilità ricavabili dalle modalità di “sviluppo” dell’oggetto
studiato. Si mostrano le principali novità sul piano istituzionale e strutturale che “maturano” nel
contesto in connessione con le svolte del periodo. Il punto di arrivo del percorso viene infine deter206
Parte terza. Storia
minato da un giudizio sui “progetti di vita associata” che si sono individuati come fondamentali nel
periodo, giudizio che permette l’elaborazione di quell’ipotesi sintetica, frutto della sensibilità e del
“rischio culturale” del singolo insegnante, che individua il legame “profondo” che connette i diversi
avvenimenti tra loro (Pomian parla di “trovare l’invisibile nel visibile”).
Sviluppiamo ora brevi osservazioni sui punti più problematici dello schema di progettazione sopra
delineato.
La pluralità dei soggetti storici. È da osservare che il soggetto storico è sempre un “noi” perché
la caratteristica specifica della natura umana, l’aspirazione alla felicità, ovvero alla piena realizzazione della propria umanità, mostra l’impossibilità della soddisfazione del desiderio della propria
realizzazione individuale senza l’affermazione della relazione con l’altro. In questo senso soggetti
storici possono essere realtà le più diverse: popoli, ceti, classi sociali, comunità religiose, movimenti
politici, ecc.
Il problema dell’avvenimento fondante. È importante stabilire in primo luogo una precisa differenziazione tra i diversi tipi di eventi, infatti se per evento possiamo intendere ogni accadimento
umano, c’è una profonda differenza tra gli eventi routinari della vita e quelli eccezionali. In ogni
periodo storico comunque l’intreccio tra fatti ed eventi si coagula intorno ad alcuni grandi “nodi”,
che sono gli avvenimenti, che costituiscono quell’irruzione del “nuovo”, che “costringe” gli uomini
a prendere posizione, a reagire, ad aderire al reale in modo nuovo e diventa sorgente di iniziativa
storica. Decisivo è quindi raccogliere la trama degli eventi di un periodo intorno a uno (o più) avvenimenti fondanti.
Il rapporto avvenimenti-strutture. Una struttura è una costellazione di rapporti stabili tra esperienze storiche che sfuggono alla osservazione immediata: è fondamentale riconoscere che esiste
un nesso intrinseco (anche se talvolta dialettico) tra l’avvenimento e la struttura. La prassi umana
infatti non esaurisce il suo effetto in una puntuale modificazione dello stato del mondo, ma, incrementata in ciò anche dalla sua intrinseca socialità, produce sempre anche istituzioni e strutture,
ossia dei sistemi di rapporti costanti e solidali tra elementi definiti dalle loro differenze. Decisivo
è comprendere l’ “eccedenza” delle strutture prodotte dagli uomini rispetto alla loro consapevole
intenzionalità.
Il problema dell’interpretazione storica. Interpretare, ovvero dare un “senso” agli avvenimenti
oggetto del nostro insegnamento non è un’operazione aggiuntiva rispetto alla progettazione di
percorsi storici, ma è uno dei fattori costitutivi e inevitabili di ogni seria e rigorosa programmazione
didattica, che voglia essere globale e criticamente fondata. Certamente interpretare non è facile,
d’altra parte è necessario, non esiste infatti ricerca (o insegnamento) storica che non presenti certezze acquisite ed essere consapevoli dell’interpretazione offerta su un periodo permette di ricostruire la trama di relazioni tra gli stessi secondo un ordine “significativo”, strutturato cioè secondo una
selezione tra gli avvenimenti esaminati basata sul principio di rilevanza. In questa sede ci limitiamo
a indicare la condizione fondamentale a cui deve sottostare qualunque tentativo di interpretazione
storica che si possa considerare tale: una interpretazione storica è tale quando mira a utilizzare il
principio di rilevanza in senso oggettivo, cioè situando gli eventi analizzati nel contesto universalizzante dello svolgimento dell’avventura umana nel tempo.
Per concludere, il vero e decisivo lavoro dell’insegnante di storia è aiutare i propri studenti a
guardare agli avvenimenti del passato come segni dell’umanità degli uomini del passato. È l’incontro
con lo “spessore umano” dell’avvenimento infatti che educativamente “risveglia” il ragazzo, che lo
stupisce, che lo aiuta a confrontarsi col suo desiderio di appartenenza, identità e verità, che in un
uso consapevole della propria libertà lo porta a fare passi in avanti nella propria autocoscienza, nella
sua ricerca della felicità.
207
Società e Stato nell’Ottocento:
forme di carità in Lombardia
Edoardo Bressan
Il periodo di maggiore cambiamento nella storia europea è certo rappresentato da quel lungo Ottocento che va dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, segnando la fine dell’antico
regime e la nascita di una moderna società di massa. L’affermazione dei diritti dell’uomo fondata
sul principio dell’uguaglianza civile elimina, da una parte, distinzioni di ceto non più sostenibili ma,
dall’altra, fa dello Stato il garante di quegli stessi diritti e l’unico riferimento della società, perché
è il solo che può legittimare i diversi soggetti operanti al suo interno e non può quindi ammettere
lealtà e riferimenti politici differenti. L’individualismo, legato alla definizione del diritto di proprietà
caratteristica del Codice napoleonico e alla crisi dei beni collettivi, si accompagna a un’affermazione
della statualità che investe ogni ambito della vita pubblica, all’interno di quel mutamento che Cesare Mozzarelli (1996) ha descritto come il tramonto di una forma di convivenza basata sul pluralismo
giuridico e istituzionale. Giunge così alla conclusione un lungo dibattito, mentre l’approdo napoleonico si configura come un punto di non ritorno, con gli aspetti più significativi dell’organizzazione
sociale che vengono appunto ricondotti alla sfera della statualità. Si possono fare alcuni esempi:
- l’organizzazione politica, con le istituzioni di governo e, là dove esistono, quelle rappresentative;
- l’amministrazione della giustizia sulla base di un diritto codificato;
- il governo del territorio, diviso in circoscrizioni omogenee controllate dal centro politico, e le
istituzioni locali;
- le istituzioni ecclesiastiche, sia pure in un contesto che può prevedere – attraverso varie modalità, compresa quella concordataria – una posizione di favore per una confessione religiosa;
- il sistema d’istruzione, nelle sue varie articolazioni;
- le istituzioni sociali, sanitarie e assistenziali, con l’intervento dei governi in un settore precedentemente affidato alla società nella sua ricca articolazione corporativa e alla Chiesa.
Ci si soffermerà qui su quest’ultimo aspetto, in relazione alla realtà lombarda e in particolare milanese, da quando si registra, accanto a un innegabile processo di razionalizzazione, la fine
di una rete di solidarietà diffusa, che poteva contare su una molteplicità di interventi capillari e
sull’apporto di confraternite e ordini religiosi, poi colpiti dalle soppressioni. La pubblicizzazione del
sistema assistenziale lombardo – posto sotto il controllo dello Stato con le riforme settecentesche e
la legislazione rivoluzionaria e napoleonica, con una scelta non contraddetta dal restaurato governo
asburgico dopo il 1814, quando si sarebbe raggiunto dopo diversi secoli un quadro regionale unitario
– è per molti aspetti un “caso esemplare” non solo di questo irreversibile cambiamento, ma anche
dei suoi esiti non previsti, giungendo a influenzare la stessa evoluzione costituzionale e liberale del
secolo XIX. Se infatti un inedito rapporto fra il cittadino, non più suddito, e lo Stato prende il posto
della dinamica di corpi organizzati – “corpi, fraternità, mestieri”, secondo la felice definizione di
Danilo Zardin (1998) – che aveva contrassegnato l’ordinamento precedente, esso non può esaurire
la complessità delle relazioni sociali: all’azione dello Stato fa subito riscontro una risposta della società civile e religiosa, cha va dall’associazionismo religioso e caritativo alla filantropia di ispirazione
liberale e democratica.
La pubblicizzazione avvenuta fra Sette e Ottocento non rappresenta soltanto, com’è appena il
caso di ricordare, una risposta alla crisi degli equilibri dell’antico “sistema di carità”, cetuale e cor208
Parte terza. Storia
porativo, e della sua organizzazione solidaristica, ma riflette una visione della politica di natura al
medesimo tempo individualistica e statualistica. Emerge tuttavia fin dalla fase teresiano-giuseppina
delle riforme la preoccupazione di trovare un equilibrio fra accentramento burocratico e coinvolgimento dei notabilati locali, principale obiettivo della creazione dei Direttorî elemosinieri e successivamente delle Congregazioni di carità napoleoniche, con in più il grave problema del reperimento
delle risorse necessarie a sostenere un intervento garantito, ma solo parzialmente e indirettamente,
dallo Stato stesso.
Da parte sua la società accetta la sfida del cambiamento istituzionale e i suoi esponenti entrano
fin dall’inizio nei rinnovati organismi di gestione, mediando – in una sorta di negoziato continuo
con l’autorità statale – l’intervento pubblico e riproponendo un modello di welfare civico che continua nel tempo e che lega come un filo rosso la storia della solidarietà lombarda tra età moderna
e contemporanea, lungo un percorso di cui la storiografia ha sottolineato l’importanza (Bressan
1998; Colombo 2010). I cambiamenti legislativi non riducono infatti il coinvolgimento dell’élite, che
continua a essere presente nelle principali amministrazioni: degli ospedali; degli istituti di ricovero
e degli orfanotrofi; degli istituti elemosinieri, eredi degli antichi “luoghi pii”, e delle loro strutture di
soccorso. La società lombarda promuove anche iniziative che portano la regione all’avanguardia in
campo medico, sociale, pedagogico, con moderni centri di cura, patronati per gli indigenti, iniziative
pionieristiche nei settori della disabilità dai ciechi ai sordomuti, dove si raggiungono risultati riconosciuti a livello europeo, “asili di carità” infantili sulla scia dell’opera di Ferrante Aporti e Giuseppe
Sacchi, in una prospettiva ampiamente ricostruita da Franco Della Peruta (1987). Carlo Cattaneo
può non a caso affermare che in Lombardia i poveri ricevono “una più generosa parte di soccorsi che
altrove” (Cattaneo 1844, 109), in sintonia con l’idea di un cristianesimo civile, sentimento spontaneo
capace di accomunare, fin dalla rinascita medievale, il complesso delle città, dei borghi, dei contadi
della terra lombarda. La regione è davvero segnata da una varietà di iniziative, che non a caso chiedono e ottengono a loro volta un riconoscimento istituzionale, mentre continua a essere negato
quell’approdo alle libertà costituzionali in grado di offrire un riscontro politico a questa grande
vivacità sociale. Un dato, questo, che rappresenta un motivo non secondario di un’adesione sempre
più larga, nell’intera Lombardia, alla causa della libertà e dell’indipendenza nazionale.
Nel contesto ecclesiale, dove almeno fino alle lacerazioni risorgimentali è evidente l’influenza
di Rosmini e del suo ideale caritativo, appare di grande significato la nascita di un “volontariato”
dedito, come le antiche confraternite, all’assistenza ospedaliera e sociale (Bressan 2008). Fin dagli
anni della Restaurazione sorgono altresì nuove congregazioni religiose – maschili e anche, in misura
ancora maggiore, femminili, all’interno di un fenomeno che assume dimensioni di grande rilevanza
in tutta l’area lombarda, ben documentata dalle ricerche coordinate da Luciano Pazzaglia (1994) e
Roberto Sani (1996), – impegnate nel campo scolastico, rieducativo, sanitario e ospedaliero, nonché
in quello della formazione professionale e dell’inserimento nel mondo del lavoro. Anche in questo
caso, tuttavia, si avverte come un grave limite l’impossibilità di una libera partecipazione politica,
innanzitutto sul piano locale, aggravata da un perdurante giurisdizionalismo che la Chiesa e il mondo cattolico devono continuamente combattere, come hanno messo in evidenza gli studi di Giorgio
Rumi (1988) e di Pietro Lorenzetti (1992).
È solo il raggiungimento dell’Unità, pur con tutte le lacerazioni che comporta, a offrire un quadro
di riferimento rispondente alle esigenze della società lombarda, garantendo con i diritti politici il
principio elettivo. L’assistenza pubblica, fra l’altro, più che all’autorità statale resta soprattutto legata a una dimensione municipale, in ciò largamente favorita dalla legge sulle opere pie del 1862 che
estende al Regno d’Italia il modello piemontese, rispettoso dell’autonomia dei diversi istituti anche
a costo di sacrificare una pur necessaria programmazione degli interventi. Accanto alle riorganizzate amministrazioni degli enti ospedalieri e di ricovero, le nuove Congregazioni di carità previste
209
Parte terza. Edoardo Bressan
dalla legge assumono la gestione della beneficenza elemosiniera e si impegnano in progetti di largo
respiro. Le nomine dei consigli amministrativi sono ora affidate ai poteri locali, comunali e in parte
provinciali, venendo incontro a quell’istanza di partecipazione che il governo asburgico aveva sempre disatteso e al tempo stesso dando spazio all’iniziativa privata.
Alla guida delle istituzioni vi sono amministratori di orientamento liberale e assai sensibili alle
tematiche sociali, come dimostrano la “Rivista della beneficenza pubblica” promossa dalla Congregazione di carità di Milano – che ospita gli studiosi più autorevoli, da Pasquale Villari a Cesare Correnti, che poi presiede la stessa inchiesta sulle opere pie degli anni Ottanta, premessa della riforma
crispina e tangibile riscontro del patrimonio che in modo particolare la generosità lombarda aveva
accumulato nel corso del tempo – e il Congresso internazionale di beneficenza tenutosi a Milano nel
1880. La prospettiva di questo liberalismo sociale, in modo così significativo radicato in Lombardia,
è quella di una riforma legislativa in grado di salvaguardare, pur in un quadro pubblicistico, l’autonomia degli “istituti civili” e favorire l’apertura ai temi del mutuo soccorso e della previdenza, come
ha sottolineato Rumi (1983).
La riforma delle opere pie voluta da Crispi nel 1890 non va tuttavia nel senso auspicato da queste
figure di studiosi e di operatori, che vi si oppongono tenacemente insieme a un cattolicesimo assai
battagliero. Il problema è comunque più ampio: la legge apre la strada alla “carità legale”, anche
se non ancora a un diritto soggettivo all’assistenza, ma non di meno limita fortemente l’autonomia
delle opere pie che divengono “istituzioni pubbliche di beneficenza”. Il progresso economico, del
resto, rende palese l’insufficienza di un intervento che non faccia appello al contributo di tutti gli
attori in gioco, mentre la legislazione sociale in campo infortunistico, previdenziale e di malattia
muove appena i primi passi.
La società nel suo complesso è tuttavia in prima linea nel rispondere al disagio sociale fra Otto e
Novecento, consolidando le risposte esistenti, inventando soluzioni originali e accettando un’altra
volta la sfida della legislazione, senza far mancare una qualificata presenza all’interno dei consigli
amministrativi. Un dato di notevole interesse è rappresentato dalle numerose iniziative di matrice
laica, socialista e femminista, fra le quali occorre ricordare almeno la Società Umanitaria, destinata
ai “diseredati”, ai quali si offre una possibile “redenzione” attraverso la formazione in campo industriale e agrario, con il contributo di grandi figure della politica e della cultura. L’azione religiosa
conosce dal canto suo, nel passaggio fra Otto e Novecento, un’ulteriore fioritura di opere a carattere
sociale, con il potenziamento degli istituti di ricovero – per anziani, minori in difficoltà, disabili – e
la creazione di centri formazione professionale e colonie agricole, secondo l’ampia ricostruzione di
Maria Luisa Betri (1995).
Questa rete di istituzioni accompagna la modernizzazione economica tra vecchie e nuove povertà, riuscendo a dare risposte non solo ai bisogni di sempre, ma anche a quelli provocati dalla crescita
o dalle crisi cicliche, che fanno sentire a lungo i loro effetti nelle campagne e nelle città colpendo
in particolare le famiglie. Il tessuto sociale regge non a caso alle sollecitazioni dello sviluppo, mentre cattolici, democratici, socialisti promuovono una diffusione del mutuo soccorso e dell’associazionismo sindacale di grandi proporzioni. Anime diverse possono coesistere in Lombardia e anche
scontrarsi sulle impostazioni, ricomponendosi però sempre in un quadro di dedizione alla civitas,
che rimane un elemento unificante e un fattore di solidarietà, come emerge in un recente volume
curato da Danilo Zardin (2012).
La costruzione di una cittadinanza condivisa passa dunque attraverso le varie forme dell’assistenza e al tempo stesso il legame con le istituzioni. L’intervento dello Stato sollecita sempre più
la società a fare al meglio la propria parte in una prospettiva di sussidiarietà, che funziona spontaneamente in una libera assunzione di responsabilità da parte dei singoli e dei gruppi dirigenti,
riflettendosi anche nella continuità delle donazioni e nel coinvolgimento personale. Ma soprattutto,
210
Parte terza. Storia
dopo l’allargamento del suffragio e il conseguente e notevole ampliamento delle rappresentanze
amministrative, fra Otto e Novecento possono entrare in gioco nuovi soggetti politici, aprendo lo
spazio pubblico a una più vasta partecipazione popolare. Nelle amministrazioni locali, da cui appunto dipendono gli istituti assistenziali e le Congregazioni di carità, si afferma una classe dirigente
meno dipendente dagli interessi della precedente élite ed espressione delle diverse forze politiche
emergenti nel Paese, in grado fra l’altro di superare la gravissima crisi di fine secolo.
L’Esposizione internazionale tenutasi a Milano nel 1906 celebra con legittimo orgoglio l’eccellenza milanese e lombarda nel campo della solidarietà, come dimostrano lo straordinario padiglione
dedicato alla previdenza e le pagine di Leone Emilio Rossi (1906) con la documentazione dell’attività
di centinaia di istituzioni, pubbliche e private, laiche ed ecclesiastiche. La pluralità degli interventi
e il rapporto fra istituzioni e territorio configurano un modello di welfare a sua volta condiviso e un
non effimero equilibrio fra Stato e società.
211
Le città italiane al tempo di Dante.
Il senso della “civitas”
Giovanni Cherubini
Le città italiane dell’età di Dante a cui si intitola questa lezione è un piccolo libro senza note, con
una bibliografia finale essenziale, che fu pubblicato nel 1991 dall’editore Pacini di Pisa. Gli resto
particolarmente affezionato, ma non è detto, naturalmente, che l’affetto dell’autore corrisponda
al suo valore. Esso significa soltanto che lo pensai abbastanza a lungo, che lo scrissi con impegno
e che soprattutto lo dedicai mentalmente al mondo degli studenti universitari. Comincia con una
Premessa di tre paragrafi dedicati rispettivamente a “cos’era una città”, alle “ragioni della scelta
cronologica” entro la quale viene contenuto il libro, infine al rapporto tra Dante e il mondo cittadino.
Rapporto molto stretto perché Dante visse la partecipazione alla vita politica come uomo di comune,
senza sottrarsi a quelle che egli credette sue responsabilità e pagando pesantemente di persona, con
un lungo esilio e la morte lontana dalla sua Firenze, questa sua coerenza. Dopo la Premessa seguono,
nel libro, sei capitoli, il primo dei quali dedicato all’Italia delle città e le città dei regni meridionali,
cioè alla parte centro-settentrionale della penisola e alle città contenute invece nei regni dell’Italia
meridionale e insulare, vale a dire al problema dei problemi nella storia del nostro paese già in quella
età lontana.
Centralissima è la tematica affrontata nel secondo capitolo, che tratta della Personalità politica
delle città, vale a dire di una specificità unicamente italiana nel complesso del continente europeo
e della stessa storia universale, vale a dire del fatto che le città italiane, dopo avere sconfitto il Barbarossa nella seconda metà del XII secolo, divennero anche formalmente delle città-stato completamente autonome da altri poteri (eccettuate quelle comprese nello Stato della Chiesa). Facevano
quindi guerra e pace, si amministravano, e amministravano la giustizia, decidevano le imposizioni
fiscali per tutto il territorio a esse sottoposto, oscillavano talvolta tra il governo collettivo e la sottomissione a qualche signore, esaltavano le caratteristiche locali pur collocandosi su un terreno di
comune cultura giuridica, di cui ci resta splendida documentazione in molti loro Statuti. I capitoli
terzo e quarto trattano della Struttura sociale [delle città] e [dei loro] conflitti interni, di Le attività
economiche e i successi della mercatura, cioè di temi che anche a coloro che un po’ tralasciano il
problema centrale dell’autogoverno politico non possono apparire tuttavia indifferenti per gli straordinari successi conseguiti in quei settori dalle nostre città comunali. “Qualche cifra significativa”
non fu infatti da me tralasciata in quella descrizione, così come intitolai due paragrafi agli “italiani
mercanti per antonomasia” e al “fascino del viaggio”. Tra le cifre ricordo quelle, ben note, relative
a Firenze, nella quale il reddito della gabelle superava, verso il 1338, la somma dei redditi delle tre
corone di Napoli, Sicilia e Aragona, mentre il valore della produzione di panni di lana raggiungeva
la cifra, realmente sbalorditiva, di 1.200.000 fiorini d’oro (pari a un peso di circa 41 quintali d’oro
puro), al quale possiamo aggiungere i 300.000 fiorini per il valore dei panni di lana importati e rifiniti a Firenze.
Per gli italiani mercanti e per il fascino che aveva per loro il viaggio elencai molti nomi di famiglia e
i luoghi dagli italiani toccati nei loro affari, aggiungendo che nel folclore popolare di tinta razzista
e di tono prevalentemente vituperativo delle nascenti nazioni occidentali emerge con chiarezza che
essi apparivano i mercanti e gli usurai per antonomasia. Essi venivano definiti tortuosi, calcolatori,
pavidi, poco amanti della guerra, inadatti alla “cavalleria”. Vivevano, in definitiva per accumulare
212
Parte terza. Storia
denari. Ma si può forse restituire ai nostri lontani progenitori una parte almeno della loro dignità e
dei loro meriti accennando al fatto che essi erano soltanto un po’ più avanti degli altri nello sviluppo
economico rispetto a quell’Europa largamente feudale e politicamente dominata dai re.
Il capitolo quinto del mio volume fu dedicato a Cultura e ideali ed intese dare di quella straordinaria Italia delle città forse la descrizione più rilevante e ammirevole che ne risulta anche a tanti
secoli di distanza, vale a dire la “diffusa alfabetizzazione”, cioè la scelta diffusa per l’educazione alla
scrittura, alla lettura, al fare di conto, che rispondevano, in primo luogo, ai bisogni di tutti coloro
che dovevano gestire aziende o mandare avanti botteghe di svariata natura. Ma in questo contesto
politico, culturale e sociale venne fuori anche una nuova cultura, ormai in larga misura laica ed
anche caratterizzata dal fitto numero di università, fra le quali primeggiava Bologna. Il capitolo si
intrattiene poi sugli “orientamenti urbanistici e le arti”, suggerendo che la ricchezza portò, tra l’altro, a città più belle. Tutto questo si accompagnò a un “diffuso ottimismo”, che era cosa nuova nella
società medievale, né poté durare a lungo dopo le crisi e sciagure che sopravvennero dopo pochi
anni, ed anche alla nascita di un vero e proprio “patriottismo comunale”, alla comparsa di “spunti”
rilevanti di “pensiero politico”.
A fornire la “controprova” di questi straordinari successi fu descritta quale fosse la situazione
delle città del Mezzogiorno monarchico, soltanto in qualche caso accostabili a quelle del centronord, con sovrani poco favorevoli alle borghesie locali e nei fatti favorevoli invece alla penetrazione
mercantile nei loro regni degli uomini d’affari delle città comunali. Per una ulteriore valutazione di
quelle città allargai nel sesto capitolo il quadro alle città europee, prendendo a confronto con la
popolazione delle città italiane, alle quali avevo dedicato una cartina all’inizio del volume che ne
enumerava 66 con popolazione massima di almeno 100.000 o più di centomila abitanti a Milano, a
Venezia, a Firenze, di più di cinquantamila a Genova, poi di quaranta-cinquantamila a Pisa, a Siena,
a Lucca, a Cremona, e giù giù sino a giungere a molte città che pare ne contassero almeno diecimila.
Per quanto sembri che Parigi fosse la maggiore città d’Europa, secondo la valutazione massima,
ma non sicurissima, di 200.000 abitanti, e Bisanzio, pur decaduta dopo il sacco delle truppe cristiano-occidentali del 1204, fosse ancora una città ragguardevole, non c’è dubbio che l’Italia comunale
costituisse il territorio europeo più urbanizzato. Continuai il paragone con le città europee anche
sul terreno dell’economia e della società, sul ruolo culturale dei centri urbani e sulla loro posizione
politica. Naturalmente incontrai anche in Europa molti fenomeni importanti (si pensi, per tutti, alla
rilevanza dell’università di Parigi oppure ai successi economici delle città delle Fiandre), ma il ruolo
complessivo delle città italiane rimaneva di primissimo livello. Chiusi il volume con una Conclusione
che paragonò le città europee con quelle italiane, parlò di successi e fragilità, e chiuse le mie considerazioni sul rapporto tra “città e storia italiana”.
Pur alternando le mie ricerche urbane ad altre curiosità ed interessi, devo precisare che dal 1991
a oggi ho dedicato in tutto o in parte alla storia delle città altri tre volumi e a un quarto, il più impegnativo, ho pensato da molto tempo e qualcosa ne ho già scritto. Si tratta, in quest’ultimo caso
di una storia delle città europee, dall’Atlantico agli Urali, tra la caduta dell’impero romano e la fine
del Medioevo. Dei volumi che ho invece scritto il primo è intitolato Città comunali di Toscana (2003).
Esso riunisce cinque saggi già pubblicati, dedicati a Firenze nell’età di Dante. Coscienza e immagine
della città, a Pistoia comune libero. Dall’inizio del XII alla metà del XIV secolo, ad Ascesa e declino di
Prato tra l’XI e il XV secolo, a Le attività economiche ad Arezzo tra XIII e XIV secolo, a I mercanti e il
potere a Siena. I saggi editi nel volume per la prima volta sono invece La vita marinara e portuale di
Pisa fino al disastro della Meloria e Lucca nello statuto del 1308. Fra questi saggi quello su Prato costituisce un interessante motivo a sé, dal momento che il considerevole e attivissimo centro urbano
non poteva dirsi in Italia una vera città perché privo di un vescovo. Esso veniva infatti indicato non
con il termine di città o di civitas, ma con quello di terra, che era tuttavia più di un castrum. Questo
213
Parte terza. Giovanni Cherubini
volume sulle città toscane è racchiuso tra una mia Premessa, che ne caratterizza sommariamente il
contenuto, ed un mio molto più ampio Orientamento bibliografico finale che intende fornire le coordinate di una bibliografia non esaustiva, ma tuttavia significativa sulla regione. La quale, sia detto
per inciso, fu la regione dell’Italia comunale che più lentamente scivolò sotto la signoria, quella dei
Medici, eccettuata soltanto Venezia che rimase repubblicana, sia pure sotto un potere oligarchico,
sino alla fine.
Grazie alla intelligente fatica di un mio caro alunno e collaboratore come Paolo Nanni è stata
messa insieme e pubblicata quest’anno dalla fiorentina Accademia dei Georgofili la mia raccolta
di Scritti meridionali (2011), costituita dalle mie numerose relazioni o conclusioni alle “giornate”
del Centro Normanno-Svevo di Bari e in varie altre sedi e occasioni nel corso degli anni. Vi sono
compresi anche quattro studi dedicati alle città, fra i quali ricordo soprattutto, per la rilevanza del
tema, Federico II e le città del Regno di Sicilia. Ma da tutto il volume si possono ricavare anche quei
caratteri ambientali, quelle varietà territoriali, più rilevanti di quanto non si pensi, quei continuati
arrivi di popoli diversi e di invasori che ci aiutano a meglio comprendere il mezzogiorno, non escluse
le sue città.
Elenco infine il quarto volume fra quelli cui ho accennato. Si tratta di Le città europee del Medioevo, edito nel 2009 da Bruno Mondadori, che costituisce un po’ la premessa logica per il mio volume,
di cui ho già detto, diversissimo e più ampio sulle città europee. Quello di cui parlo fa invece parte
della collana “Il Medioevo attraverso i documenti”, diretta da una studiosa geniale come Gabriella
Piccinni ed in primo luogo destinato ai giovani dell’Università o a insegnanti desiderosi di farsi delle
opinioni nel modo più critico possibile. Il volume si apre con una Premessa dell’autore, alla quale
segue una parte intitolata La parola agli storici, di più di cinquanta pagine, divisa in tre paragrafi,
1. Le città del territorio dell’antico impero romano d’Occidente, 2. L’impero bizantino e le due Europe
(vale a dire l’Europa contenuta nell’impero romano e l’Europa che alla fine del V secolo non conosceva ancora le città), 3. La trama di una storia comune e diversa. Il libro si chiude con un Lessico
dedicato a un elenco e alla spiegazione dei termini con cui i popoli europei hanno battezzato nel
corso dei secoli in modo diverso i luoghi che designavano le città (civitas, città, cité, city, cidade,
ciudad, ma anche gorod, polis, Stadt, town, urbs, ville), e con una bibliografia che si sforza di tener
conto di studi provenienti da storiografie e lingue differenziate. La parte centrale e più ampia del
volume, intitolata La parola alle fonti, è invece occupata da trenta ampie testimonianze, italiane e
non, ma tutte offerte in lingua italiana, oppure in immagini pittoriche e foto, suddivise in nove parti,
che forniscono descrizioni di città diverse, non soltanto europee, da Mosca alla Germania, all’Italia,
all’Inghilterra, alla Fiandra, alla Francia, alla Spagna, ma anche appartenenti all’Africa o alla Cina,
ed offrono al lettore la possibilità di leggere e di farsi idee personali.
Mi sembra agevole comprendere come questi miei lavori abbiano confermato ed insieme meglio
articolato le mie idee esposte nel volume su Le città italiane dell’età di Dante. Ho intanto appreso
come di fronte all’Italia, che rimase fedele al fenomeno della compenetrazione tra civitas dell’impero romano e sede diocesana verificatosi tra tardo impero e primo medioevo, ai poteri vari, non
necessariamente formalizzati, passati nel corso dei secoli ai vescovi dell’alto Medioevo e scivolati
poi alle oligarchie cittadine all’inizio dell’età comunale, di fronte all’Italia si possano poi osservare
fenomeni molto particolari nei paesi della parte occidentale dell’impero. Questo avviene al nord,
cioè nell’Inghilterra, per la precoce invasione degli anglo-sassoni, avviene nella penisola iberica
per la lunga dominazione musulmana, avviene in Francia con l’immissione, piuttosto strana, del
termine ville, che richiama la campagna, a fianco o al di sopra del termine cité, che rimase tuttavia
nella tradizionale espressione latina di civitas alla suddivisione diocesana della chiesa. Ma sono
rimasto invece sorpreso della resistenza, nei fatti, di quelle antiche civitates romane. Non posso qui
riferire i dati, perché si tratta di molte decine. In Francia il senso profondo dell’urbanità del paese è
214
Parte terza. Storia
ancora segnato, in primissimo luogo, dalla presenza delle antiche città romane, Parigi in testa, cui
possiamo aggiungerne almeno una quarantina. In Spagna, dove Madrid come città capitale nacque
all’inizio del XVI secolo, avvenne la stessa cosa, così come in Portogallo, ed il fatto è ancora di più
sorprendente se si pensa che neppure la dominazione musulmana distrusse quella memoria o perché sopravvissuta o perché rafforzata con la riconquista, o per entrambe le cose insieme. Anche in
Inghilterra, pur in mezzo a città di nuovo conio, Londra per prima e poi York, Lincoln, Canterbury e
varie altre sulla ventina di civitates romane si mantennero vive e vitali. Diverso, ma non contraddittorio il caso della Germania, per la quale gli studiosi elencano verso la fine del Medioevo alcune
migliaia di città, ma nella quale sappiamo anche che alcune avevano il particolare carattere di città
con vescovo, in certi casi nate lungo il Reno già al tempo dell’impero (ricordo soltanto Colonia).
Del resto entro il XIII secolo le diocesi raggiunsero il numero di 43, ma su una superficie territoriale
particolarmente ampia, spartita in sei province ecclesiastiche.
L’Italia annoverava invece sul suo suolo alla fine del XV secolo, secondo quanto ci dice Flavio
Biondo nella sua Italia illustrata, 264 città, cioè molte di meno di quelle che abbiamo ora ricordato
per la Germania, ma molto più numerose di quelle della Penisola Iberica e di quelle della stessa
Francia, entrambe assai più ampie del nostro paese. Si può aggiungere che nel Mezzogiorno, cioè
nel regno normanno-svevo, erano compresi, nel XII-XIII secolo, 146 vescovi su 100.000 chilometri
quadrati (ma questa fittezza escludeva in realtà la Sicilia perché i normanni che ne cacciarono i
musulmani vi stabilirono diocesi molto estese, ed anche l’Abruzzo, dove si era fatto sentire l’ordine
carolingio. Tutto questo faceva sì che le diocesi si infittissero nella parte continentale del regno).
Si deve invece aggiungere che se venissero conteggiati, in Italia – e il discorso vale soprattutto per
il Centro-Nord del paese – tutti gli abitati di una certa consistenza demografica insieme alle città,
come fanno spesso, fuori d’Italia, anche studiosi rispettabilissimi mossi da un evidente desiderio di
“concretezza”, la proporzione della popolazione “urbana” crescerebbe sensibilmente, ma a danno
della comprensione, che mi sembra primaria, tra la condizione del centro cittadino che godeva di
potere politico anche su centri cospicui del suo territorio e i centri dipendenti che, bene o male, ne
subivano le scelte politiche. Questo non significa che nel centro-nord tutte le città erano grandi
città.
Mi basta anche in questa sede, come ho fatto altre volte, portare ad esempio il caso di Sarsina,
l’antica patria di Plauto, nel cuore dell’Appennino Romagnolo, che era poco più di un villaggio. Ma
voglio anche ricordare che in aree diverse della Toscana, tra varie città morte o decadute come
Chiusi, o modestissime come Fiesole, si incontravano, come abbiamo visto, la grandissima “terra”
di Prato, e poi San Sepolcro, che divenne città all’inizio dell’età moderna, San Gimignano e le altre
terre della Valdelsa Poggibonsi e Colle, Montepulciano, Piombino, e poi tanti altri popolosi castelli
come Empoli, Fucecchio, Figline, tutti abitati da almeno uno o anche da qualche migliaio di abitanti.
Soltanto Cortona era stata elevata a diocesi, quindi al rango di città, in un momento in cui questo
politicamente ancora contava e non era soltanto, come avvenne più tardi in Toscana, un modo per
accontentare qualche benemerita comunità. Privilegiando Cortona il pontefice volle invece pesantemente punire Arezzo e il vescovo Guido Tarlati, partigiano di Ludovico il Bavaro.
Ci si può chiedere a questo punto – e la risposta sarebbe, sul piano generale, affermativa – se ed
in qual misura gli interessi della chiesa di Roma condizionassero la vita delle città. Ma tutto questo,
va subito aggiunto, non in misura assoluta e non con il medesimo successo nei riguardi di tutte le
città. Soprattutto le maggiori e più forti, fossero queste Milano o Venezia, la prima ormai diventata
una signoria e poi un principato, ed entrambe padrone di ampi spazi territoriali, Venezia sul mare
poi, sempre più, anche sulla terraferma, sapevano resistere a lungo ed in mille modi, con le armi se si
rivelava necessario, con la diplomazia di continuo. Ma anche una città meno potente come Firenze,
nel corso della guerra contro il Pontefice, battezzata degli “otto santi” (tali furono dichiarati dai
215
Parte terza. Giovanni Cherubini
fiorentini i loro governanti) trovò modo, abilmente e polemicamente, di respingere sia l’interdetto
che l’accusa di ghibellinismo, pericolosissima se fosse stata creduta da una larga parte della cittadinanza. “Ghibellini noi? Ma se nessuno ha saputo dare una prova più alta di guelfismo e di fedeltà
alla chiesa come noi, che siamo stati combattenti di prima fila e decisivi nel grande scontro contro
gli Svevi!”. A Firenze, in effetti, l’abilità retorica poteva contare ormai su maestri dello scrivere come
il grande cancelliere Coluccio Salutati (De Rosa 1980).
Ma vorrei a questo punto farvi conoscere – se già non lo conoscete – ciò che scrissero, molti anni
fa, in un loro prezioso volumetto, una notissima studiosa di storia urbana come Gina Fasoli, e la sua
alunna e mia carissima amica Francesca Bocchi che ne ha continuato, in modo originale, questo
indirizzo, farvi conoscere quanta parte della nostra civiltà sta racchiusa nelle antiche definizioni
classiche della città civitas e polis. “Il senso etimologico che unisce la parola civis da un lato a civitas
e dall’altro a civilis, civilitas; il fatto che in varie lingue si usino vocaboli come cittadino, citoyen,
ciudadano, citizen […] per qualificare coloro che godono dei diritti politici; il fatto che a loro volta
i termini politico, politica, polizia derivino da polis, che in greco significa città: tutto questo rivela
l’importanza determinante della città, della convivenza cittadina, nella formazione della civiltà europea e nell’evoluzione della vita associata” (Fasoli-Bocchi 1973: 3).
E non deve invece neppure meravigliare, dato il rilievo storico della città, che si siano nel corso
del tempo aperte molte discussioni tra i geografi, gli storici, i filosofi, i sociologi, gli economisti, gli
urbanisti intorno alla definizione di città, sia o soprattutto come tipo universale, sia in contesti specifici e cronologicamente definiti. Tutto questo avviene anche perché la città è un oggetto per larga
parte ambiguo e sfuggente a ogni definizione, ma tanto più intuitivamente certo e chiaro, quanto
più refrattario ai molti criteri di definizione proposti e sperimentati. E la certezza e la chiarezza si
affermano ed emergono con facilità quanto più risulta chiaro ciò che si cerca.
Come ho già nella sostanza premesso lo scopo della trattazione di questo “caso esemplare” è
quello di far risaltare la complessità del problema e la molteplicità delle prospettive richiamate dal
concetto di città nell’Italia medievale e tanto più nell’Italia dei comuni, che mantenne e sviluppò
la stretta unione tra città e vescovo che caratterizzava, tra la fine del mondo antico e il Medioevo,
le città dell’intero mondo romano. Intorno alla città si fissò un territorio relativamente ampio, o
“contado”, al quale la diocesi finiva per dare una propria vitalità spirituale, che lo legava al centro
urbano sul terreno della fede e della devozione.
216
Parte terza. Storia
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Parte terza. Storia
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219
Parte III
Le quattro discipline
4.Dante
I contributi dell’area di Dante
a cura di L. Montecchi
Il “Parlar materno”: lingua e cultura
Elena Landoni
Una poesia che ragiona: Purgatorio XVI, Paradiso VII
Luca Montecchi
All’origine di una tradizione: san Francesco e san Domenico
Andrea Mazzucchi
Dante poeta civile
Sergio Cristaldi
De Sanctis su Dante: c’è del vero
Stefano Bertani
T.S. Eliot: l’audacia di tornare a Dante
Francesco Valenti
Riferimenti bibliografici
I contributi dell’area di Dante
a cura di L. Montecchi
I contributi che presentiamo sono opera di
studiosi che, prima ancora di essere specialisti
dell’arte e delle opere di Dante, ne sono – significato originario di studiosus – anzitutto e
soprattutto amanti. Già, perché all’intelligenza
di un poeta come Dante non basta la filologia
né la competenza letteraria e l’assidua frequentazione (già indice di amicizia), non basta
nemmeno la sensibilità estetica (preziosa, ma
spesso incapace di accertarsi): occorre seguirne
passo passo il cammino guidati dalle tracce
“fisiche” e intellettuali che Dante stesso, a
nostro beneficio, ha impresse nel suo itinerarium in Deum. Questo vuol essere il suo poema:
itinerario di conquista del vero, di compimento
e, quindi, di salvezza e di felicità.
Gli studi che seguono sono ispirati e attraversati da un simile affetto al poeta, immessi come
sono nel solco di quell’ordo amoris restituito dal
poeta dopo il gioioso quanto periglioso cimento,
e perciò avvicinano l’opera dantesca equilibrando una lettura incentrata sul Dante protagonista
esemplare del viaggio e una visione più larga
che giunge ad apprezzare le misure dell’argomentare filosofico, dell’allegoria, della politica,
della fortuna critica. Il filo conduttore che unisce i testi vuol essere un ragionato percorso in
una estensione dei livelli d’indagine, dal linguistico al filologico, allo storico-filosofico fino alla
contemporaneità e alla rilettura della tradizione.
Circa il “parlar materno”, Elena Landoni mette
l’accento sulla capacità del poeta, indubbiamente straordinaria se si considera che siamo ancora
alle origini della lingua letteraria italiana, di
usare “la lingua come una materia non solo
gestita dal significato, ma in grado a sua volta
di gestire il significato”. Una lingua che piglia da
tutti i gerghi e da tutti i possibili gradi del significato per raccontare e argomentare l’esperienza
del viaggio e della visio beatifica, a un tempo
unica e rappresentativa, che è provata esperienza del senso. E se il senso cresce in complessità
e difficoltà – fino a dover dare una parvenza
222
percepibile delle sfere celesti (e dopo le sbalorditive fotografie dell’universo inviate dal satellite
Planck, oggi meglio cogliamo a che grado fosse
pervenuta “l’alta fantasia”) – l’arte retorica non
si fa ricercata, squisita, come per magnificare
se stessa, bensì persegue l’efficacia comunicativa valendosi del paragone e della perifrasi: via
inclusiva, articolata, che punta al recupero di
tutto ciò che è propriamente estraneo al dettato
del poema: “una tensione al dire, al nominare,
all’esprimere, che include porzioni sempre più
vaste del reale e che rientra in una strategia
di significato: nulla resta escluso dal cammino
verso la salvezza”. Per Dante, la lingua non è né
può diventare mero codice di trasmissione del
messaggio, è sì invece la forma conoscitiva a lui
congeniale per indagare ciò che esiste, e saperlo
con certezza.
Il saggio di chi scrive indaga poi il modo del
ragionare in poesia già attestato nel Convivio
e che si svolge compiutamente nella Commedia. Due i canti esaminati, il XVI del Purgatorio
e il VII del Paradiso, in quanto emblematici
di un’opzione che la tradizione lirica fino al
Leopardi ha semplicemente eluso: che la poesia
non è, in verità, arte ornamentale, né può ridursi
a conforto delle anime delicate. Il bello non si
ottiene in primis da un’anima introspettiva o patetica: il bello è veritatis splendor, è il dispiegarsi
visibile dell’idea nella cosa, che la poesia, con
Dante, non rinuncia a mostrare, a tradurre in
immagini che soccorrono alla ragione, rendendo
affettuosa e drammatica la capacità logica che
costituisce l’umano nella sua essenza. Qui si
vede bene come il dipanarsi del ragionamento
e la sua corrispondenza al vedere e all’agire del
poeta viator (dunque, virtualmente di ciascuno,
di everyman, direbbe Pound) trovi il suo pieno
sostegno in quanto si diceva a proposito della
riflessione di Elena Landoni sul linguaggio, che è
sempre volto a documentare l’essere e a muovere motivatamente al bene.
Andrea Mazzucchi, nel suo saggio denso e
Parte terza. Le quattro discipline
innovativo, bene illustra il ruolo sì parallelo ma
armonico dei due “campioni” della Chiesa, Francesco e Domenico, i fondatori dei due maggiori
movimenti-ordini conventuali. Francesco, in particolare, è collocato in quel cielo degli spiriti sapienti illuminato dal Sole, che è Cristo e insieme,
con sorprendente audacia, il santo di Assisi alter
Christus. Un titolo, questo – Mazzucchi lo dimostra –, che va non di meno attribuito al santo
di Calaroga per sostanziale identità, più che per
analogia: basti riflettere che è nel canto XII che
per la prima volta assoluta il nome di Cristo è in
triplice rima. Il saggio riesce assai convincente
nel mostrare come nell’impianto stesso in cui è
concepita la sequela dei canti X-XIII non si dia il
puro e semplice elogio retrospettivo di due modelli inarrivabili. A Dante preme legare l’agiografia al miserevole stato presente in cui versano i
due ordini conventuali, ordinati da Dio al bene
della Chiesa tutta, per questo usando toni di
aspro rimprovero che giungono dall’alto, dai
santi teologi Tommaso e Bonaventura. In gioco,
oltre la provata complementarità dei due campioni, è la continuità della sapientia dall’eterno
celeste al temporale terreno o, per converso, il
modo di affrontare i mali presenti, la decadenza
(la “crisi”), guardando dritto all’origine del vero
e del bene, e tornando a seguire le impronte dei
maestri e padri fondatori. Soprattutto, quella
sapientia – conclude Mazzucchi – accomuna
Domenico e Francesco nell’imitazione di Gesù
perché è appunto il sole di Cristo che accende
e illumina i cuori d’intelligenza. Su una linea
consimile si svolge il profondo saggio di Sergio
Cristaldi dedicato a Dante poeta civile. Terreno
accidentato, quello del pensiero politico dantesco, che negli ultimi decenni è stato lasciato
ai margini della dantologia. Cristaldi, invece, lo
tratta per esteso, connettendo il tema del destino individuale al ruolo, distinto e pur coordinato, delle due maggiori istituzioni, l’Impero e la
Chiesa, per consentire agli uomini il loro compimento, o felicità. Dall’idea dantesca di sacralità
dell’autorità politica, l’indagine si appunta sul
dibattito sulla salvezza interno ai teologi francescani, Spirituali inclusi, per finire sulla pretesa
adesione del Poeta alla dottrina spiritualistica
di Gioacchino da Fiore. Il profetismo dell’aba-
te calabrese è stato ritenuto ispirare l’idea di
profezia propria di Dante. Ora, è nota la severità
dei rimproveri che egli muove alle Curie papale e
vescovili a causa della corruzione temporalistica
del mandato, ricevuto dalla persona di Cristo, di
guida spirituale propria della Chiesa. Ma, testi
alla mano, le pur dure invettive non s’iscrivono
in una coerente o affine teologia della storia
gioachimita: la veduta profetica di Dante, imperniata sulla Roma dell’Imperatore e di Pietro,
non assume le tinte apocalittiche dell’“età (o
status) dello Spirito”, ché semmai è incardinata
nell’ambivalente processo della storia, nel quale
Dio provvidenzialmente opera per il bene della
città degli uomini. Gli ultimi due scritti, di Bertani sul De Sanctis lettore della Commedia e di
Valenti su Eliot poeta novecentesco alla sequela
di Dante, completano la sezione proiettando
sulla modernità recente l’influenza di Dante
carsicamente risorta in età romantica dopo un
plurisecolare dominio del petrarchismo nella poesia italiana ed europea. Lungi dall’attenuare o
dal rinnegare i limiti deformanti dello storicismo
del critico napoletano, Bertani segnala tuttavia
l’incidenza della Commedia entro la Storia della
letteratura italiana, fino a rovesciare i clichés
della vulgata manualistica. È la terza cantica e
non la prima a occupare il maggior numero di
pagine; è Beatrice e non Francesca la donna che
emerge trionfatrice.
Last not least, il ritratto di Eliot fornito da
Valenti è una ricognizione puntuale dei luoghi
testuali del grande poeta anglo-americano che
muovono dall’opera dantesca: testi poetici non
meno che critici fino all’autobiografia letteraria
(What Dante Means to Me). Il saggio si configura quasi come inno al senso della tradizione,
intesa non affatto come il riflesso (a volta a
volta deprecato o celebrato) di un passato
esangue, piuttosto come contemporaneità del
passato e possibilità, nell’oggi, di consegna al
futuro di un’eredità inestimabile, di permanent
things. Il nome di Eliot, il più dantesco fra gli
autori moderni, ha infine titolo per figurare nel
folto gruppo di poeti, spesso grandi, che tra fine
Ottocento e Novecento, in Italia e in Europa e
oltre oceano, si son messi in ascolto della voce
di Dante e ne hanno rinnovata l’eco.
223
Il “Parlar materno”: lingua
e cultura
Elena Landoni
In un libro recente (Bruni 2010) si sostiene una tesi interessante, e cioè che Dante avrebbe letteralmente inventato la categoria della letteratura italiana. Più precisamente, sarebbe stato il primo a
parlare della dimensione italiana della letteratura, venendo così a integrare un concetto geografico,
quello appunto di Italia, a quel tempo piuttosto ambiguo, con un principio culturale.
Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia certamente non successiva al 79 d.C., sostiene che
l’Italia si estende dalle Alpi al mare e nomina ben 15 regioni (Lazio, Campania, Apulia, Calabria, Lucania, Bruzio, Sannio, Piceno, Umbria, Etruria, Emilia, Liguria, Venezia, Istria, Transpadana).
Isidoro di Siviglia, 570-636, nei suoi Etymologiarum libri, in particolare al liber XIV, De terra et
partibus, al cap.18, De Europa, fissa come confini dell’Italia il mar Tirreno, l’ Adriatico e le Alpi. Poi
però la categoria in qualche modo si perde.
Nell’VIII sec. le glosse di Reichnau, compilate in Francia e conservate in un monastero benedettino dell’isola di Reichnau sul lago di Costanza, registrano il nome Italia come ormai antiquato e lo
sostituiscono con quello moderno di Lombardia: la Longobardia andrebbe però dalle Alpi al Ducato
di Benevento, con esclusione di Venezia. Del resto, che il nome Italia sia stato usato con qualche
interruzione è testimoniato dalla sua stessa forma fonologica: Italia e non Itaglia, come sarebbe nel
caso di una tradizione ininterrotta (basta pensare ai casi di famiglia, soglia, figlia, ecc.)
Nel X secolo il vescovo di Cremona Liutprando distingue l’Italia dalla Tuscia: quindi Italia si sarebbe ridotta a quel tempo a designare la sola parte settentrionale.
Più o meno come la intendiamo oggi, l’Italia ricompare proprio verso il tempo di Dante. Per esempio nello Speculum Naturale di Vincenzo di Beauvais, al liber XXXII cap. 12, la descrizione corrisponde a quella fatta a suo tempo da Isidoro di Siviglia, da cui Vincentius dipende talvolta letteralmente.
Ma quello che più risulta interessante ai nostri fini è che di Italia parla anche Brunetto Latini
nel suo Tresor, libro I, cap. XXV. Dante non sembra però ricalcare Brunetto, perché nomina località
non citate nel Tresor (Friuli, Torino, Alessandria, Trento) e viceversa (Abruzzo Campania e Calabria).
Bisogna tuttavia considerare che i due procedevano con criteri diversi: linguistico, Dante; geografico, Brunetto.
La teoria linguistica di Dante
Con questa idea di Italia piuttosto precisa e non storicamente scontata, Dante è il primo a occuparsi in modo teorico e sistematico del parlar materno. Vanno però tenuti presenti alcuni limiti della
teoria linguistica dantesca.
Dante si basa su codici che riteneva recassero il testo autentico, mentre erano stati copiati e linguisticamente manomessi dai toscani. Le citazioni dai poeti Siciliani nel De vulgari eloquentia sono
tutte toscanizzate:
Guido delle Colonne: Anchor che l’aigua per lo foco lassi ; Amor che lungiamente m’hai menato
Iacopo da Lentini: Madonna dir vo voglio
Rinaldo d’Aquino: Per fino amore vo sì letamente
La lirica siciliana ci è pervenuta in codici trascritti da copisti toscani, che tendevano appunto
224
Parte terza. Dante
a toscanizzare i luoghi linguisticamente più stridenti alle loro orecchie. La sconfitta degli Svevi e
l’avvento degli Angioini aveva tra l’altro causato la distruzione di molti codici in versione originale.
Dante aveva perciò a disposizione manoscritti dall’aspetto linguistico italiano (cioè toscano) prima dello sviluppo della lirica toscana: ecco perché nel D.V.E. dice che i poeti siciliani hanno scritto
in una lingua depurata dai tratti caratteristici siciliani. Ma non era così: nel Cinquecento Giovanni
Maria Barbieri aveva avuto tra le mani il “libro siciliano”, con poesie del Duecento in veste originale.
Il libro si è perduto, ma Barbieri ne aveva trascritto alcuni brani, rimasti inediti sino al Settecento.
Per esempio:
S’eo trovasse pietanza di Re Enzo:
La virtuti ch’ill’avi
d’alcirm’e guariri
a lingua dir nu l’ausu,
per gran timanza ch’azu nu ll’isdegni
Questo equivoco ha creato l’erronea convinzione che i Siciliani reputassero lecite le rime imperfette, dette appunto “siciliane”. In realtà, era avvenuto che, per esempio, il copista avesse toscanizzato priso in preso, ma non avesse poi avuto il coraggio di trasformare miso in messo. I codici si
trovavano così a far rimare preso con miso, e i lettori pensarono che i primi poeti adottassero questo
tipo di rime approssimative. I manoscritti hanno quindi tramandato rime imprecise che nella lingua
originale erano precisissime: ura / pintura > ora / pintura; aviri / muriri > avere / morire, ecc.
Dante fa iniziare la nostra letteratura dai Siciliani. Ma sono stati scoperti recentemente dei versi
di fine XII sec. o poco oltre, scritti sul verso di una pergamena, il cui recto contiene un contratto di
vendita in latino del 1127.
Si tratta di una canzone di decasillabi: “Quando eu stava in le tu catene”; e di un testo di 5 endecasillabi: “Fra tuti qui ke fece lu Creature”. L’aspetto linguistico è settentrionale: sarà originale o
del copista? Il ritrovamento mette comunque in discussione la geografia e la cronologia dei nostri
esordi letterari.
In ogni caso alcuni indizi suggeriscono di retrodatare anche l’inizio poetico degli stessi Siciliani.
Già mai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino alluderebbe alla crociata del 1228-29. Resplendiente
stella d’albore di Giacomino Pugliese è ospitata in un codice settentrionale del 1234-35, precoce e
lontano dalla sede di genesi della lirica.
Quindi la grandezza di Dante teorico non sta tanto nell’esattezza del suo disegno, quanto nella
genialità della sua impostazione: assegnazione ai volgari della dignità di lingue; unitarietà e italianità della tradizione letteraria; elaborazione di una categoria virtuale: in mancanza di un’aula e di
una curia, c’è la letteratura come fatto esistente e coagulante l’italianità; centralità della letteratura
nell’universo culturale.
Questo fortissimo senso dell’identità linguistica e letteraria è “testato”, se così si può dire, nel
suo confronto con l’alterità. Un’alterità “interna”, rappresentata dalle parlate locali che già Dante
poteva riconoscere per tali (non è superfluo ricordare che si può parlare di dialetti solo dopo l’esistenza condivisa di una lingua nazionale): lombardismi (“barba” per zio), voci di Lucca e Pisa (“Issa”
per adesso, “ponno, terminonno, dienno” per possono, terminarono, diedero) ed esterna: il latino “O
sanguis meus, o superinfusa / gratia Dei, sicut tibi cui / bis unquam celi ianua reclusa”? Par. XV; il
Provenzale di Arnaut Daniel; la lingua inventata da Pluto: “Pape Satan, pape satan aleppe”(Inf. VII,1),
o dal gigante Nembrot: “Raphel mai amecche zabì almi” (Inf. XXXI,67).
Ma in che modo Dante utilizza questo parlar materno come materia della poesia?
Uno degli aspetti più straordinari, e meno notati, consiste nel fatto che Dante usa la lingua come
225
Parte terza. Elena Landoni
una materia non solo gestita dal significato, ma in grado a sua volta di gestire il significato, sprigionandolo già solo al livello linguistico e grammaticale.
Si consideri l’utilizzo della proposizione comparativa nella Commedia, legata alla figura retorica
della similitudine che nel poema allarga sempre di più il proprio raggio d’influenza. È stato calcolato
che il numero delle similitudini cresce (192 nell’Inferno, 202 nel Purgatorio e 236 nel Paradiso) e che
la disposizione a congregarsi tra loro aumenta nella terza cantica, insieme alla complessità sintattica del nucleo coinvolto (es. XIII,1-24; XIV,51-60 e 97-102; XXIII,1-12,25-33 e 40-63; XXVIII,79-93;
XXX,82-87; ecc.).
La similitudine risulta particolarmente congeniale al poetare dantesco per la sua tendenza inclusiva, a recuperare cioè, all’interno del testo, quanto di per sé si presenterebbe estraneo all’argomento in oggetto; fungendo da richiamo memoriale a esperienze, miti, contenuti culturali altrimenti
estranei alle tematiche del poema. È una tensione al dire, al nominare, all’esprimere, che include
porzioni sempre più vaste del reale e che rientra in una strategia di significato: nulla resta escluso
dal cammino verso la salvezza.
Proprio la similitudine segna i passaggi di maggiore complessità sintattica della lingua di Dante,
“simulando” la complessità e la gerarchizzazione della vita stessa.
In Inf. XV, 4-12 la proposizione principale è preceduta da due gruppi paralleli di frasi, entrambi
con un costrutto piuttosto complicato: sub. I gr. comparativa, interrotta da una sub. III gr. causale e
da una sub. IV gr. relativa, e seguita poi da una sub. II g. finale; sub. I gr. comp. con verbo sottinteso,
interrotta da una sub. II gr. finale e da una sub. III gr. temporale. La principale è poi seguita da un
altro gruppo ugualmente franto, costituito da una sub. I gr. concessiva, interrotta da una sub. II gr.
relativa.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo’l fiotto che ‘nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta;
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro felli.
Un’altra complicata struttura di tipo ascendente si ha con Par. XXIII, che dilata la s.I comp. prolettica in un nucleo appositivo formato da s.II temp.+ s.III rel., tanto da dover poi riprendere il soggetto
della comparativa mediante il pronome relativo, a sua volta reggente una doppia fin.II + rel.III+ rel.
IV, prima di condurre a termine la stessa prolettica rel.-comp. A queste si affianca una coordinata,
reggente il gruppo s.II mod.+ s.III ogg., sempre precedenti la principale:
Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca; (1-9)
226
Parte terza. Dante
L’itinerario tra due perifrasi
A essere decisiva, infatti, non è solo l’entità del ricorso a simili procedimenti, ma anche il loro
porsi come fattori strutturanti, che raccordano il singolo episodio lirico con l’intero macrotesto,
favorendo l’attitudine all’apertura verso il tutto e al significato del tutto che caratterizza la poetica
dell’Alighieri.
Facciamo un altro esempio prendendo in considerazione un tipo di proposizione meno caratterizzante: la relativa.
Le relative di tipo limitativo sono di gran lunga più numerose di quelle di tipo esplicativo. Come
è noto, le prime attuano un rapporto strettissimo con l’antecedente, di cui costituiscono una sorta
di amplificazione perifrastica necessaria al pieno svolgimento del senso (es.: “de la donna gentil che
l’altre onora”, Rime 32,2); mentre le seconde caratterizzano l’antecedente aggiungendo dei particolari, che non sono indispensabili alla comprensione dell’assunto (es.: “per la volontade d’Amore,
lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione”, Vita nova, IV). Questa sproporzione tra
i due tipi di relative non è casuale, perché sul versante retorico proprio la perifrasi, caratterizzante
le relative limitative, ha un’importanza enorme all’interno della Commedia, ponendosi come vero e
proprio fattore strutturante.
La perifrasi si differenzia infatti da figure analoghe quali la similitudine e la metafora in quanto
l’autore non interviene nel messaggio in sé, ma su un elemento nominale; in modo tale che l’informativa di base non viene alterata, e la perifrasi che sostituisce il nome permette di introdurre
ulteriori informazioni. Se infatti la metafora, sottintendendo l’oggetto (o fatto, azione, ecc) alluso,
ce lo presenta solo attraverso la caratterizzazione scelta dall’autore; e se il paragone precisa le varie
accezioni disponibili del fatto da descrivere nell’unico senso selezionato dalla similitudine; la perifrasi non consente un intervento diretto del soggetto sul messaggio, ma l’istituzione di una nuova,
imprevedibile relazione fra enti tra loro distanti.
La perifrasi trova una ragione evidente della sua frequenza nella struttura narrativa stessa della
Commedia, che è, appunto, una struttura fondamentalmente perifrastica. Il pellegrino non ascende
dall’Inferno al Paradiso con movimento lineare, ma girando circolarmente nei tre regni; visualizzando nell’itinerario del viandante e nella molteplicità di incontri, conversazioni e visioni quella
moltiplicazione di citazioni e nozioni che ritroviamo appunto nella perifrasi.
E infatti la Commedia è tutta compresa tra due perifrasi, quella iniziale che esprime l’età media
dell’uomo:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, e quella finale, che indica Dio come “l’Amor che move il
sole e l’altre stelle”.
I due versi riassumono rispettivamente la situazione iniziale del viaggio: il momento centrale
della vita umana, e l’approdo finale: Dio, implicando dunque idealmente tutte le peripezie che danno
corpo al poema.
Ed è ancora grazie alla forma perifrastica dei due versi che delimitano l’intero poema che l’intero
poema viene svelato nelle sue ragioni di fondo: il momento biograficamente determinato dell’inizio
del viaggio non si riferisce solo alla vicenda personale di Dante, ma a quella di tutti gli uomini (“nostra vita”); che per tutti non è un vagabondare incongruo, ma, appunto, un cammino, che parte dalla
concretezza di una situazione storica e giunge a una meta.
La perifrasi finale della Commedia, “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, riassume ciò che Dante
sperimenta su di sé: è l’amore che muove l’uomo ad agire, che lo pone in azione. Ma riassume anche
quanto Dante ha imparato intellettualmente: se l’amore muove tutto, è anche all’origine dell’errore,
della deviazione, del peccato. E infatti il pellegrino ha appreso questa verità nel suo cammino intorno alla montagna del Purgatorio: cammino gremito di incontri e di parole, perì-frasis, appunto.
Consideriamo più da vicino l’episodio a cui si allude.
227
Parte terza. Elena Landoni
Quando Dante giunge al IV girone del Purgatorio, insieme a Virgilio, è stanchissimo per la fatica
della salita, divenuta quasi intollerabile ora che sta incombendo la notte. La guida lo aveva spronato
a compiere l’ultimo sforzo prima che “s’abbuiasse” interamente, perché prima del ritorno del sole
non si potrebbe muovere nemmeno un passo in ascesa.
La dimora forzata non si risolve però in una pausa del “cammino”, perché se la non-presenza del
sole inibisce ogni tentativo di salire, il tempo non deve passare improduttivamente. Lo ha capito
bene Dante, che, talvolta timido nel domandare, in questo caso è sicuro della richiesta: “Dolce mio
padre, dì, quale offensione / si purga qui nel giro dove semo? / Se i piè si stanno, non stea tuo sermone” (Purg. XVII, 82-84).
La risposta di Virgilio eccede la domanda del discepolo. La sana curiositas di Dante diviene la via
attraverso cui la sovrabbondanza di Verità si offre al desiderio di sapere. Dante viene così a scoprire
non solo che il girone su cui si trova ospita le anime di chi è stato mosso da un amore debole verso
il bene, ma anche che, paradossalmente, l’amore è all’origine di ogni azione virtuosa o peccaminosa:
“Quinci comprender puoi ch’esser convene / amor sementa in voi d’ogne virtute / e d’ogne operazion
che merta pene” (ivi, 103-105).
L’insegnamento ricevuto alimenta in Dante la sete di sapere, ma il timore di risultare inopportuno
frena la libertà di domandare. Come sempre Virgilio, accortosi “del timido voler che non s’apriva”
(XVIII, 18), incoraggia il discepolo a parlare. La domanda che urge è cruciale: “…ti prego, dolce padre
caro, / che mi dimostri amore, a cui reduci / ogne buono operare e ‘l suo contraro” (ivi, 13-15). In
altre parole: che cos’è l’amore?
Nella risposta di Virgilio c’è tutto. È una risposta comprensibile all’intelligenza prima ancora che
alla fede: “Drizza”, disse, “ver’ me l’agute luci / de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto / l’error de’ ciechi
che si fanno duci” (ivi, 16-18). Leggiamola.
L’animo, ch’è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
Tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l’animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’è natura
che per piacer di novo in voi si lega (ivi, 19-27).
A dispetto di ogni moralismo, nella definizione dell’amore Virgilio coinvolge immediatamente il
piacere. Qui dobbiamo comprendere bene il significato. L’apprensiva è la capacità di apprendere.
Secondo la Scolastica, come spiega bene Alessandro Vellutello nel suo commento alla Commedia
del 1544, essa è la cogitativa, cioè quella facoltà in grado di considerare l’obietto ne la imaginativa.
Occorre cioè “fermare” l’immagine dell’oggetto per poterlo “considerare”, valutare.
Questa apprensiva “da esser verace tragge intentione”. Qui ci sono due cose notevoli: 1, l’apprensiva
trae “intenzione”. San Tommaso, nella Summa contra Gentiles, IV, 11, afferma: “dico autem intentionem
intellectam id quod intellectus in se ipso concepit de re intellecta”. Nella Summa Theologiae, Ia q. 22
a. 2, precisa che l’intenzione è l’immagine della cosa che passando attraverso gli occhi si ferma nella
mente, come spiega letteralmente Dante in Convivio III, 9,7. Bisogna dire che i commentatori hanno
recuperato pienamente il significato filosofico di “intenzione” solo nel ‘500, soprattutto attraverso
l’Hercolano di Benedetto Varchi: “Nella virtù fantastica si serbano le imagini, ovvero similitudini delle
cose (esterne, dell’esser verace), le quali i filosofi chiamano ora spezie ora intenzioni”.
228
Parte terza. Dante
I lettori del tempo di Dante hanno invece colto soprattutto l’altro significato concomitante, quello dell’intenzionalità. Per esempio Iacopo della Lana, nel 1324-28: l’apprensiva “hae intenzione di
compiacere a quelle cose che hanno a esser veraci”; oppure Pietro di Dante, che qui citiamo dalla
sua terza redazione del commento: “nostra virtus apprehensiva intentionaliter ad id quod extimat
bonum, subito animum volvere facit”.
Amore e giudizio
Da che cosa trae intenzione l’apprensiva? Da un “esser verace”, da una cosa vera, esistente. Sentiamo Benvenuto da Imola: “…da esser verace, idest, a re vera extra existente; quia nihil est intellectu quod non prius fuerit in sensu, et intrat in animam per visum vel auditum etc…”. L’amore nasce
da qualcosa di esistente effettivamente, fuori di noi.
Per Dante, l’amore è qualcosa che lega, che provoca un’adesione. A che cosa? A un oggetto reale,
non costruito dalla nostra mente, che va prima di tutto conosciuto, e riconosciuto. L’amore è un
problema di conoscenza. La capacità di apprendere, una volta rappresentata (spiegata) l’immagine
dell’oggetto, fa volgere l’animo a esso. A questo punto, dopo essersi rivolto all’oggetto, l’animo può
piegarsi verso di lui: è la dinamica del giudizio, come coglie benissimo Cristoforo Landino nel suo
commento del 1481: “Questa apprensiva, che giudica quello, che si debbe eleggere, tira a sé l’appetito da quello che è veramente bene. Et quello ama…”.
C’è un passaggio del Purgatorio in cui Dante chiarisce bene la posizione del giudizio nei confronti
del piacere. È il momento in cui Virgilio si accommiata da Dante, rivolgendogli queste parole:
…Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
[…]
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio (Purg. XXVII, 127-42).
Nelle parole di Virgilio non c’è nessun accenno al dovere, ma solo al piacere. La salvezza non si
conquista, in primo luogo, osservando dei precetti, ma riconoscendo qual è il piacere: il piacere per
me, quello che mi conviene. La funzione della guida autorevole è far diventare il discepolo capace
di questo. Più oltre la guida non può andare: c’è la libertà dell’individuo. Ma il riconoscimento del
piacere non può essere lasciato allo stadio istintivo, altrimenti l’uomo si appiattisce a pura reattività.
Per questo Virgilio ha accompagnato il suo protetto attraverso il fuoco (il dolore), sino al sommo
della salita (la fatica), attraverso vie erte (difficili) e arte (strette). L’educazione al riconoscimento
del proprio bene non risparmia né dolore né fatica. Ma l’esito è il poter perseguire la propria felicità.
Il metodo di Virgilio è stato condurlo sino a quel punto di libertà “con ingegno e con arte”, cioè
mobilitando la sua intelligenza e la sua capacità; ma una volta riconosciuto il piacere, il punto d’arrivo è la libertà (“libero, dritto e sano”) e il poter fare a proprio arbitrio. La moralità non è descritta
come capacità di sacrificio o di privazione, ma come capacità di lavorare per la propria pienezza. La
229
Parte terza. Elena Landoni
moralità è, letteralmente, un problema di conoscenza.
C’è poi un altro passaggio interessante. Siamo ai canti XXX e XXXI del Purgatorio. Beatrice è appena apparsa a Dante e gli rivolge la parola in modo spietato: “Come degnasti d’accedere al monte?
/non sapei tu che qui è l’uom felice” (Purg. XXX, 74-75)? È un rimprovero paradossale, perché sembra prendere di mira proprio il cammino faticoso compiuto per guadagnarsi la felicità riconosciuta
come tale. La requisitoria prosegue con toni sempre più severi, finché Dante confessa apertamente
la colpa in cui è caduto dopo la morte di Beatrice: “...”Le presenti cose / col falso lor piacer volser
miei passi, / tosto che ‘l vostro viso si nascose” (Purg. XXXI, 34-36). Ora che Dante ha riconosciuto il
proprio peccato, esattamente come nel sacramento della Confessione, Beatrice può approfondirne
la consapevolezza e correggere, indicando la via. Le sue parole sono di una chiarezza sconvolgente:
Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ‘n terra sparte;
e se ‘l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual caso mortale
dovea poi trarre te nel suo disio? (Purg. XXXI, 49-54).
Beatrice rimprovera Dante per non essere stato fedele a ciò che lui stesso liberamente aveva
scelto. C’è dentro un principio straordinario, nel senso letterale di “fuori dalla banale concezione ordinaria delle cose”: la fedeltà (perché di fedeltà si tratta in questi sei versi) non è letta come un’imposizione, un dovere morale, un atto di giustizia, ma è considerata in tutt’alti termini. È la richiesta
di lealtà verso la propria libertà. Qui si parla di piacere carnale, di belle membra: ti sono piaciute le
mie membra più di quelle di tutte le altre: rispetta la tua libertà.
È una formulazione di libertà e di fedeltà sconvolgente.
Così come sconvolgente è la dichiarazione d’amore che Dante farà a Beatrice nel XXXI del Paradiso, vv. 85 e segg.:
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.
Tu mi hai fatto diventare un uomo libero, secondo quel significato che abbiamo più volte letto
nelle citazioni precedenti, e che arrivati a questo punto del testo il lettore ha imparato a capire. È
una libertà dal peccato, dall’ambiguità, ma anche dalla provvisorietà e dall’istintività inintelligente.
Una libertà che, forse paradossalmente secondo i confusi parametri della nostra mentalità contemporanea, affonda le sue radici nell’amore e nella fedeltà, fioriti sul giudizio.
230
Una poesia che ragiona:
Purgatorio XVI, Paradiso VII
Luca Montecchi
Il filosofare dell’Alighieri è veramente un agostiniano studium sapientiae, un tendere l’arco della
mente (o del cuore, che è lo stesso21) a cogliere e, più ancora, a gustare il vero; è un tendere e un
mirare dritto alla felicità attivando e mobilitando tutte le potenze dell’anima, ratio atque voluntas
su tutte, sicché la freccia scoccata dall’arco dell’intelligenza giunga con tutta la forza motoria del
corpo al suo luogo naturale, il “ben dell’intelletto” (Inf. III, 18). Non sarà male ricordare che la sapientia è maggiore della scientia, cioè del sapere accertato ottenuto per sola forza d’indagine: la
include, ma la supera in quanto è in grado di salvare ed esaltare l’intera esperienza amorosa – di eros
e di agape – dell’uomo dirigendola al doppio vantaggio morale di trattenerlo dal male e di guidarlo
al compimento della sua beatitudine. Ascoltiamo quel che il Dante maturo e prossimo a licenziare la
terza cantica della Commedia (e a lasciare la vita terrena) scrive a Can Grande: “Spiritum Sanctum
audiat, amicitie sue participes quosdam homines profitentem; nam in Sapientia de sapientia legitur
‘quoniam infinitus thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitie Dei’”
(Epistola XIII, 6). Saggio – e non, al contrario, “folle”, o irragionevole – è usare del tesoro infinito
del reale squadernato all’ammirazione e all’intelligenza degli uomini, che, facendone uso, vengono
a partecipare dell’amicizia di Dio. Così intesa, la sapienza soprattutto è maggiore perché prevede un
apprendistato condiviso, un lasciarsi insegnare da chi più sa il valore dei segni, da maestri che sappiano comunicare, per così dire, una grammatica dell’esperienza: richiede libero desiderio, apertura
di cuore, docilità al maestro, e una certa suavitas – dolcezza e bonomia che non guastano, anzi,
col sorriso invogliano a una disposizione ragionativa –, talché al termine del tragitto l’apprendista,
ormai cresciuto o, meglio, fatto crescere grazie alla fedele paternità del magister, è reso perciò intelligente, capace di meglio intendere i segni e argomentarli in vista del loro telos. Di notevole presa
cognitiva è l’osservazione del poeta Osip E. Mandel’štam: “In Dante, filosofia e poesia sono sempre
in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma
per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi da alpinista. Il piede metrico è inspirazione,
ed espirazione è il passo. Un passo che deduce, vigila, sillogizza. […] Dal punto di vista dantesco, il
maestro è più giovane del discepolo, perché ‘corre più veloce’” (Mandel’štàm 1994: 51).22
Questa citazione ci rammenta che nella Commedia non si fa della filosofia, o della teologia, sotto
forma di poesia, che la poesia non è pretesto per alti ragionamenti, ma che il canto, il verso, è piuttosto
la forma, estetica dunque, atta a comprendere e conoscere tutto, ossia a radunare e rilegare le
molteplici, e disperse, “carte” dei molti saperi “in un volume”23, in definitiva per adorare “la gloria di
Colui che tutto move”, fino all’ineffabile rivelazione “de la nostra effige” (Par. XXXIII, 131) impressa nel
21 Ricordiamo il celebre passo scritturale di i Reg. 3, 9-12 in cui, all’atto di essere unto re d’Israele, Salomone, richiesto
da Dio di quale dono desideri esser fornito, risponde: “Da ergo servo tuo cor docile, ut iudicare possit populum tuum
et discernere inter bonum et malum”; un dono che Dio esaudisce ribadendolo nella formula di conferma: “dedi tibi cor
sapiens et intellegens”. E sappiamo quale importanza rivesta nel poema tanto la figura di Salomone (cfr. Par. x, 109-114:
ben due terzine allusive e perifrastiche che culminano nel sibillino “a veder tanto non surse il secondo”) quanto la virtù
stessa della sapienza, che domina la lunga catena dei canti x-xiv.
22 La stesura del saggio (Razgovor o Dante) risale all’estate del 1933, durante un soggiorno in Crimea, pochi mesi prima
di essere condannato a esilio triennale da un tribunale staliniano. Vi si legga, inoltre, il c. iv, quasi per intero dedicato a
Inf. xvii, il canto di Gerione.
23 Si veda Par. xxxiii, 85-87: “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”. Si veda inoltre Par. xvii, 37-39.
231
Parte terza. Luca Montecchi
volto di Cristo che si offre a suggello del tragitto dantesco. E l’avventura dell’autore-protagonista, non
meno penitenziale che beatifica, si dipana lungo le migliaia di terzine endecasillabe, farcite di logica
stringente e di retorica opportuna, che in virtù del loro stesso andamento ternario incatenato sospingono il passo e il volo del poeta continuamente in avanti fino alla meta della sua “salute”. Uno stralcio
dalla magistrale opera critica di Charles Singleton merita la menzione: “Noi cerchiamo di vivere dentro
il poema e di esperirlo in tutta la sua meravigliosa ricchezza […]. In verità, se non fosse così, se non ci
accostassimo al poema con questo proponimento, con la speranza di un’esperienza vivificante, perché
mai occuparsi di poesia? Perché non leggere invece le Summae e le cronache, quelle per i concetti,
queste per i fatti? […] ciò a cui miriamo è la piena attuazione di una forma. Il poema che Dante ci ha
lasciato è una grande esperienza potenziale, aperta a ogni nuova generazione di lettori: è la nostra eredità […]. Ma è un’eredità su cui possiamo far valere i nostri diritti solo attuandola: vale a dire nell’atto
di leggere e di farne esperienza” (Singleton 1978: 465-466).
L’eredità dantesca
Nella prospettiva delineata, vogliamo considerare un paio di canti nei quali il modo di ragionare dell’Alighieri risulta ben lucido e, insieme, scenicamente vivido, anzi, tanto più convincente in
quanto agito e conversato. I due ampi brani su cui ci soffermiamo – dal c. xvi del Purgatorio e dal
canto VII del Paradiso –, tralasciando la contiguità narrativa dei contesti relativi, sono solidalmente
connessi. Essi, infatti, condividono in primis l’esigenza logica di dar ragione, nell’uno, della bontà
della creazione divina dell’anima originariamente libera e, nell’altro, della provvidenziale deliberazione di Dio d’incarnarsi nel Figlio Gesù per restituire il genere umano, decaduto per il fallo d’Adamo,
alla dignità cui era stato costituito nel giardino dell’Eden. Il primo è il celebre canto mediano24 del
poema, nel quale il gentiluomo di corte Marco Lombardo espone al poeta, pellegrino per le balze
della “montagna santa”, la dottrina del libero arbitrio. L’altro è il canto in cui Beatrice argomenta la
giustizia che Dio volle fare incarnandosi in Cristo e poi morendo e risorgendo, al fine di risollevare
l’uomo decaduto o, meglio, “dannato” dal peccato dei progenitori.
L’avvio del c. XVI – “Buio d’inferno e di notte… di nuvol tenebrata”, vv. 1-3 – sembra ripiombare il
lettore dentro l’orrore della soffocante voragine infernale, per giunta con quelle rime chiocce – dar
di cozzo, amaro e sozzo, non sia mozzo – degne di Malebolge, che si protraggono fino al v. 14, e che
paiono spaesare dalla condizione purgatoriale, certo penosa ma alimentata dalla speranza della “salute”. Parole e rime, dunque, stonate? Vediamo. Se teniamo presente che mai Dante prescinde o devìa
dalla concreta condizione esistenziale, sua propria non meno che universale, che qui si esprime nella
cecità prodotta dal “fummo” denso25, poi puntualmente ripresa ai vv. 25 e soprattutto 65: “lo mondo
è cieco, e tu vien ben da lui”; se poi consideriamo che il poeta viator è, qui e ovunque, nei panni del
ragazzino sprovveduto (e non dell’ultra-trentacinquenne “del mondo esperto”26) che necessita delle
rassicurazioni di Virgilio, la “scorta [sua] saputa e fida” (Purg. xvi, 8), e non tanto per mancanza di
fegato, quanto per non fallire l’approdo dell’opus magnum del poema cui attende; se dunque tali
premesse valgono, allora si spiega il perché di tanto stridore: ci troviamo a uno snodo decisivo delle
ragioni di fondo del viaggio oltremondano, che debbono determinare la metànoia dello scrittoreviaggiatore e, in lui, di chi lo legge.
24 Per la precisione, il canto centrale di tutta intera la Commedia è il xvii (di 139 vv.) del Purgatorio, pernio intorno al
quale stanno, in perfetta specularità aritmetica, rispettivamente il xvi e il xviii (di 145 vv.), il xv e il xix (pure di 145
vv.), il xiv e il xx (di 151 vv.). La scoperta di questa successione, non meramente numerologica, si deve all’occhio acuto
di quel grande lettore americano che fu Charles S. Singleton: si legga Il numero del poeta al centro, in 1978: 451-462.
25 Il termine è impiegato tre volte nello spazio di una trentina di versi, 5-34, cui si aggiunge la similitudine iniziale del
“buio”, della “notte… di nuvol tenebrata”, del “grosso velo” e l’equivalente “aere amaro e sozzo” entro la stessa pericope.
26 È il noto canto di Ulisse, Inf. xxvi, 98-99: “i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”.
232
Parte terza. Dante
Con ingresso improvviso che ricorda nei toni e nello stile quello di Farinata, irrompe al v. 25 la
voce di un’anima (di lì a poco si rivelerà per quella di Marco Lombardo) che, avendo udito il suono,
ma non scorto la sagoma, dell’inopinato forestiero, lo apostrofa per aver notizia di lui. E qui, offuscata com’è la visione, veniamo proiettati su una scena surreale e tutta acustica, in cui è Virgilio a
incoraggiare il discepolo: “Rispondi, / e domanda…”. Dante ha inteso di che rango sia l’interlocutore
e perciò replica a Marco nei toni cortesi (squisita la lunga perifrasi vocativa ai vv. 39-40) e con
sintassi elaborata – sermo sublimis – che gli si convengono, dapprima presentandosi (ancora una
perifrasi, vv. 37-42, con cui dichiara origine e compito del pellegrinaggio27), quindi chiedendo a
sua volta all’altro di presentarsi (vv. 43-45), infine assicurando le sue preghiere per quell’anima del
Purgatorio e avanzando il quesito decisivo (vv. 53-63). Di più, nei confronti del misterioso aristocratico usa lo stesso aggettivo – “scorte”, v. 45 – usato per il suo “dolce padre”28, come a certificare la
fiduciosa attesa di risposta29.
Dinanzi alla malizia che pervade il mondo, erompe in Dante la domanda (“io scoppio / dentro a un
dubbio”) circa la causa: “ma priego che m’addite la cagione, / sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
/ ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”, vv. 61-63. Marco Lombardo non si sottrae alla richiesta,
che segue poco appresso puntuale e articolata. Ma essa è preceduta e già tutta, in fondo, contenuta
in quell’“uhi!”, interiezione tanto più efficace in quanto occupa l’ultima sede del verso. Il grido di
lamento è indice di quella circolazione dialogica e affettiva, di un modo tutto dantesco di ragionare
in scena, a tu per tu, nutrito infatti di analoghi tratti colloquiali30, specie conativi (“frate”, “e tu”,
“voi”, “in voi”...), in cui il ragionare si fa cogente, fino all’accusa31, al cuore del destinatario.
La prima sezione del discorso, dal v. 67 al 76, è una expositio doctrinalis bipartita: c’è una pars
destruens (vv. 67-72) che esclude la “necessità” quale facile spiegazione degli accadimenti perché
così verrebbe negata la dote fondamentale degli esseri umani, il “libero arbitrio”, cioè il giudizio, il
discernimento del bene dal male, e il conseguente merito morale. Vi è poi la pars construens, che ribadisce la realtà della facoltà critica concessa, col permanente impulso celeste alla bontà degli atti,
ma che accentua la pienezza del ruolo degli uomini nelle loro azioni con l’esercizio del “libero voler”:
non si può sorvolare sulla conforme fattura e collocazione anaforica dei sintagmi “libero arbitrio”
e “libero voler”, ambedue conclusivi di frase e con l’inarcatura dell’endecasillabo, che avvalorano la
coerenza argomentativa delle due parti. Addirittura, alla medesima distanza di cinque versi, sempre
in anafora e in enjambement, quel sintagma si ripresenta come paradosso: “liberi soggiacete”, ma
questa volta ha il tono dell’incitamento a snebbiare l’anima (“la mente”) di Dante, a dilatarne la visuale e ad allargarne il cuore. È importante osservare che non si tratta di locuzione contraddittoria,
ciò che darebbe luogo alla dispositio animi dello sconcerto, dello scetticismo o della rassegnazione.
Al contrario, la sequenza dei vv. 79-81, bipartita, si compone di due iperbati – “a maggior forza…
soggiacete” e “quella cria (= grida)… voi” – ambedue dominati da quella che direi la forza creatrice
del destino, sulla cui traccia Dio lo invita a tornare e su cui Dante è esortato a puntare l’occhio per
esser finalmente libero, per liberare le sue energie potenziali. Detto in altre parole, solo che l’uomo
abbandoni gli sche(r)mi con cui si vieta di riconoscere lo spettacolo dell’opera del Creatore, e sùbito
capirà che la libertà gli è donata per aderire a Lui e così migliorare, potenziare, già in questa vita il
proprio stato fino all’esperienza, data per Grazia, di “trasumanar” (Par. I, 70).
27 Si allude all’inaudito – se non per Enea e san Paolo – incarico ricevuto, ancora presso la selva, d’inoltrarsi nei regni
dell’aldilà, cfr. Inf. i, 32.
28 Cfr., fra gli altri, i luoghi prossimi di Purg. XV, 25.124 e XVII, 82.
29 La fiducia risiede nell’autorevolezza del nome che porta e, più ancora, nella fedeltà dimostrata in vita al compito di
perseguire il bene: “quel valore amai / al quale ha or ciascun disteso l’arco”, vv. 47-48.
30 “Frate… tu… Voi che vivete… vostri”, vv. 65, 66, 67, 70. E si noti, più avanti, il triplice “in voi” (vv. 81, 83), che suona
richiamo alla responsabilità diretta col quale Marco Lombardo incalza l’orecchio di Dante.
31 Cfr. l’anafora interna al v. 83 che divide in due l’endecasillabo e in cui “in voi” suona rimprovero severo.
233
Parte terza. Luca Montecchi
È per questo che Marco s’incarica di suggellare il ragionamento testé concluso narrando32, non
già la favola, bensì la vicenda eterna della creazione dell’anima, fatta da un Dio che non veste la
maschera arcigna e scura di un Onnipotente giudice ab aeterno implacabile, inesorabile nelle sue
sentenze, che l’Europa e il Nuovo Mondo conosceranno con Lutero e, soprattutto, con Calvino. No, il
Dio cui si accenna con delicata perifrasi (“lui che la vagheggia, / prima che sia”) è un padre già innamorato di ogni singola essenza33 creaturale, prima che sia, mentre è ancora in mente Dei, e cui è già
destinato un volto unico e irreperibile improntato al volto del Figlio. Per lei, per “l’anima semplicetta
che sa nulla”, quel Dio è un “lieto Fattore” al quale la “fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia… volontier torna [come] a ciò che la trastulla”34. “Volontier”: il racconto, fitto di vezzeggiativi
– espresso nel lessico famigliare, elementare, humilis, del “pappo e ’l dindi”35 –, dell’anima infante
e ingenua – cioè, alla latina, “nata libera” – ruota intorno all’originaria circolazione del desiderium,
di un invito e un richiamo perpetui e reciproci all’amore, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ma
l’ingenuitas della eliotiana “simple soul” (Eliot 1929) scade in pericolosa ingenuità allorché l’anima,
lasciata correre per le strade del mondo col fascino che ne promana, si confonde e prende a scambiare piaceri e beni secondarii (“quivi s’inganna”) per il bene maggiore da cui è germinata e di cui ha
smarrito la memoria credendosi adulta lontano da “la fiamma d’amor”36.
Per tanto – alla consequenzialità subentra qui l’inferenza –, legge e governo della città non si
danno quali meri strumenti di forza, in un’arena di beluae e lupi, a corredo del “principe” e della sua
potenza – l’arte di governare non si equipara, de jure, all’arte della guerra, come vogliono Machiavelli e Clausewitz. Piuttosto, esistono per la necessità di “trattenere” il Maligno dall’aggredire e dal
demolire il tentativo umano di costruire la città giusta37; meglio ancora, per l’esigenza di scongiurare il divorzio tra cielo e terra, anzi, di assicurarne la congruità e l’armonia, di far sì che la vita terrena,
la vicenda del mondo non passi nell’obliterare l’origine e il destino parimenti divini dell’anima, cioè
il senso della fragile ma grandiosa, consistente, verità degli esseri umani.
Circa il complesso tema del “fren”, del “rege”, della “torre”, Dante – è noto –, condivide la visione
organica medievale del continuum (pur nella netta distinzione) esistente tra divino e umano, tra
cielo e terra, tra ordine celeste e azione politica, tra potere spirituale e potere temporale38, e la sola
idea dell’insanabilità della frattura del rapporto edenico, originale, stabilito da Dio con Adamo e la
sua stirpe, gli è insopportabile. Di più: se quella frattura fosse irreparabile, si smentirebbe l’intera historia salutis, la storia dell’alleanza incessantemente rinnovata da Dio col Suo popolo, dai Patriarchi
ai Profeti agli Apostoli: ne uscirebbe falsificato nientemeno che il Dio uno e trino.
Proprio l’insofferenza al “freno” voluto dal Creatore, si legge nel c. VII del Paradiso ai vv. 25-27,
fu il movente del peccato di “quell’uom che non nacque” e causa del lungo “errore” in cui giacque
inferma per secoli “l’umana specie”, finché “al Verbo di Dio… piacque” assumere la natura umana
per opera dello Spirito Santo, il “foco” d’Amore “che quinci e quindi igualmente si spiri” (Par. XXXIII,
120). Eccoci così all’argomento della natura mortale, meglio: “inferma”, bisognosa di essere, più che
32 Ai vv. 85-93 (96).
33 È illuminante l’indagine filosofica del dinamismo relazionale della creatura col suo Creatore quale è offerta dal
gesuita polacco, amico e collega di Romano Guardini a Monaco tra le due guerre, Erich Przywara (1889-1972), in virtù
dell’idea di “trascendente immanenza” di Dio al centro del suo Analogia entis. Metafisica, la struttura originaria e il ritmo
cosmico (1995).
34 La stupefacente visione dell’Empireo non farà che confermare, in misura esponenziale e perciò indicibile, ciò che
qui si narra; a mo’ d’esempio cfr. Par. xxx, 40-42: “luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; /
letizia che trascende ogne dolzore”.
35 Cfr. Purg. xi, 103-105.
36 Cfr. Par . VII, 60.
37 Cfr. la dottrina paolina del katéchon (lett. “colui che trattiene” scl. il maligno, ii Thess. 2, 7: “Nam mysterium iam
operatur iniquitatis; tantum qui tenet nunc, donec de medio fiat”) che si salda con quella agostiniana della civitas Dei.
38 È questo il tema, svolto nel séguito del canto, della reprimenda contro l’alta gerarchia ecclesiastica usurpatrice del
ruolo dell’Imperatore.
234
Parte terza. Dante
restaurata nell’eden, innalzata in Paradiso a beneficiare del destino di coeredità del Figlio di Dio. È
Beatrice, dacché lo ha preso in consegna da Virgilio presso al paradiso terrestre39, che sta istruendo
il suo cantore fedifrago secondo una pedagogia che da teologica si fa esistenziale e che ha nei cc.
VI-VII uno dei vertici. Non può, secondo logica, darsi amore senza giustizia: anche amore, che per
Dante infine non è quella forza cupa e conturbante che cantò Guido Cavalcanti, è intriso di logos,
anzi, è il Logos, è ragione al suo grado massimo, mistero amabile, palpitante (e in ciò anche sofferto)
di conoscenza senza fine. È perciò bello contemplare devoti l’incommensurabile dono del nostro Salvatore; ma il punto vero è comprendere che esiste una giustizia di quel dono gratuito, e che, di tale
giustizia intrinseca all’incarnazione e alla morte di croce quale prezzo di riscatto del genere umano,
urge indagare rationem e modum.
Versi 40-51. Si tratta di spiegare “come giusta vendetta giustamente / punita fosse” (vv. 20-21),
circuito retorico e semantico che mette Dante “in pensier”. Un dubbio grave, cui l’amata magistra (“e
tu ascolta… or drizza il viso”, gli fa lei) dà presto soluzione “secondo suo infallibile avviso”, tenendo
fisso lo sguardo nella luce di Dio, in cui non c’è fallo né impurità. La risposta procede sulla falsariga dell’anselmiano Cur Deus homo40, sia nell’argomentare sia nella forma dialogica responsoria ai
quesiti sollevati. Gesù Cristo, persona teandrica, offrendo sé stesso vittima di espiazione, subì una
pena giusta come non mai uomo meritò; e però, se si pensa che era Dio, mai pena fu tanto iniqua.
Giacché, come attestato dal vangelo di Giovanni, la stessa morte del Messia fu ritenuta buona da
Dio e dal Sinedrio41, ancorché per ragioni diametralmente opposte.
Versi 64-84.
Ma è il modo scelto da Dio per salvare l’uomo a stringere Dante in “un nodo” che Beatrice, avvedutasene, s’affretta a sciogliere. A penetrare il mistero, più del giovanile “intelletto d’amore”, serve
una consuetudine alimentata “ardenti amore caritatis” (Benvenuto da Imola 1887).42, che affettuosamente è segnalata dal vocativo “frate”, riservato al pellegrino penitente, lo stesso adoperato da
Marco Lombardo e poi da Bonagiunta43. A questo punto, si dispiega la risposta che, sull’esempio
di Leibniz, titoleremmo de Dei bonitate more rationabili demonstrata, visto l’ordine ragionato con
cui i concetti sono concatenati nelle terzine. È esuberanza d’amore, una fontana di carità che di
continuo e diretta (“sanza mezzo”) zampilla, ché la bontà divina non ha da chiedere permesso ad
alcuno, è essa, semmai, che volontariamente fa essere tutte le cose, e le fa bene. Come l’aver creato
l’uomo libero, facendolo così partecipe della propria natura divina, così che l’opzione a favore del
bene (e del premio della vita eternamente beata) o del male (e della dannazione parimenti eterna)
fosse a lui solo imputabile, e non al suo Creatore. Commenta Benvenuto: “sicut enim ipse erat sui
juris et suae ipsius voluntatis non necessitatis erat quod bonus erat, ita homo quasi sui juris nonnisi
sua voluntate facere mala et juste damnaretur, aut bona et merito salvaretur. Nemo enim salvatur
invitus”44. Per questa ragione la pena della croce fu adeguata, in quanto via più conveniente alla
natura umana partecipe della “imprenta” di cui è sigillata. Per converso, basta che manchi una sola
delle “dote” – immortalità e libero arbitrio – effuse dalla bontà divina, e l’uomo decade “di sua nobilità”, dalla somiglianza con Dio, immancabilmente. Come posson venir meno simili doni di cui è
fatto privilegio alla sola creatura umana? Col peccato e nient’altro, sicché perdendo la libertà con39 Cfr. Purg. xxx.
40 Anselmo di Canterbury, Cur Deus homo libri duo, PL clviii cc. 359-432.
41 Gv 11, 49-50: “Unus autem ex ipsis, Caiphas, cum esset pontifex anni illius, dixit eis: ‘Vos nescitis quidquam nec cogitatis quia expedit vobis, ut unus moriatur homo pro populo, et non tota gens pereat!’”. Cfr. anche Gv. 18, 14.
42 Cui appresso aggiunge: “Et sic vide quod tacite arguit autorem qui ab initio visus est amare Beatricem, postea eam
deseruit propter scientias saeculares, sed tandem revocatus est, sicut totiens est ostensum in fine Purgatorii”.
43 Nei celebri versi di Purg. xxiv, 52-57 (“E io a lui: ‘I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo /
ch’e’ ditta dentro vo significando’. / ‘O frate, issa vegg’io’, diss’elli, ‘il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di
qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”) sono in gioco le medesime parole rima di Par. vii. Un caso?
44 Si risente l’eco dell’agostiniano “Qui [scl. Deus] ergo fecit te sine te, non te iustificat sine te. Ergo fecit nescientem,
iustificat volentem”, cfr. Sermones 169, 11 (PL xxxviii, c. 923).
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Parte terza. Luca Montecchi
genita (col disfrancarsi) la creatura perde la similitudo Deo, perde il proprio volto45, si riduce a serva
meschina e diviene incapace di rialzare il capo, di risorgere. Il peccato, in ultima istanza, è restare
separati dal “sommo bene”, rifiutarne la Grazia.
Versi 85-102; 103-120.
Siamo giunti al discrimine ultimo. Col peccato radicale commesso dai primi parentes l’umanità
perse il paradiso, la pienezza delle “dignitadi”. Per ricuperarla, due sole erano le vie: o che Dio, in sovrana liberalità (“cortesia”) scevra da qualsivoglia obbligazione, condonasse il peccato, o che l’uomo
per sé solo rimediasse “a sua follia”: tertium non datur. Beatrice ricorre quindi all’argumentum ab
impossibili: la creatura era strutturalmente incapace di risollevarsi altrettanto quanto si degradò.
Chiosa Pietro di Dante (2002): “homo in suis terminis, idest in sua pura humanitate, […] non poterat
se tantum infimare, ut ascendere praesumpsit; ergo insatisfacibilis erat”.
Ed ecco l’inesorabile conclusione del ragionamento. Era conforme (“convenia”) alla natura di Dio
“riparar l’uomo a sua intera vita”, restituirlo alla sua perduta condizione felice. E a Dio piacque riportarlo in alto usando di tutte le “vie sue”46, vale a dire di giustizia e misericordia, perché – qui Dante
ricorre all’argumentum ab experientia – chi compie un’azione o realizza un’opera desidera farlo con
amore, facendo vedere (al v. 107 è adoperato il raro verbo “appresenta”) la bontà del cuore da cui è
sgorgata. Se ciò è vero per una creatura umana, tanto più vale per la “divina bontà” che ha creato e
informa il mondo e, con l’umiliazione (incarnatus est) e l’immolazione (passus et mortuus est) del “figliuol di Dio”, l’ha ricreato. Atto più grande, più immenso, più eccezionale della Redenzione mai non
si vide né vi sarà dall’alba della Creazione alla notte del Giudizio, dal momento che, non potendo la
creatura riparare al danno, la mera dismissione della colpa da parte del Creatore per via di misericordia non avrebbe soddisfatto alla giustizia violata, e l’opera di salvazione sarebbe rimasta incompleta
e irrispettosa della libertà della stessa creatura. Tommaso, nel punto della Summa Theologiae (IIIa q.
46 a. 1) dedicato alla libera volontà divina contro la presunta necessità di salvare l’uomo dalla colpa
di Adamo, risponde: “[…] hominem liberari per passionem Christi, conveniens fuit et misericordiae
et iustitiae eius. Iustitiae quidem, quia per passionem suam Christus satisfecit pro peccato humani
generis, et ita homo per iustitiam Christi liberatus est. Misericordiae vero, quia, cum homo per se
satisfacere non posset pro peccato totius humanae naturae…, Deus ei satisfactorem dedit filium
suum”. E ancora, all’art. 3, citando Agostino: “Fuit etiam hoc conveniens ad vincendam superbiam
Diaboli, qui est desertor iustitiae et amator potentiae, ut Christus Diabolum vinceret et hominem
liberaret, non per solam potentiam divinitatis, sed etiam per iustitiam et humilitatem passionis”.
Al c. V del Cur Deus homo, all’obiezione che definiremmo “buonista” di tal Boso preoccupato di
attenuare la violenza insopportabile del sacrificio di Cristo, Anselmo, lo stesso indagatore della fides
quaerens intellectum, letteralmente ‘sbotta’: “Ma non ti rendi conto che qualunque altro essere,
uomo o angelo che fosse, riscattasse l’uomo dalla morte eterna, questi sarebbe giudicato per forza
schiavo di quello? […] giacché l’uomo, destinato a essere in eterno servo di nessun altro che di Dio e
pari agli angeli buoni, sarebbe il servo di chi non è Dio e di cui gli angeli non sono i servi”.
Il rigore sillogistico di Tommaso, la dialettica di Anselmo, l’aderenza alle Scritture: tutt’e tre
abitano il canto VII e molti altri della Commedia, impastati col pensare ardente e magnanimo di
Agostino; ma tutto ciò arriva al lettore mediante l’amabile movimento delle rime e il ritmo del verso,
che modulano il ragionare stringente in un dialogato pensiero musicale, che tocca il cuore di chi
legge e riconosce di aver la veduta angusta, e che lo dispone a convertirsi, a riconoscere il vero, a
gustare il bene.
45 Quando comunemente si dice “perder la faccia”, il senso vero della formula è questo: è la tragedia dell’annichilimento umano, della perditio, e non il crollo della pur importante onorabilità: cfr. Inf. v, 131: “scolorocci il viso”.
46 Cfr. Isaiae 55, 7-8: “Derelinquat impius viam suam, et vir iniquus cogitationes suas; et revertatur ad Dominum, et miserebitur eius, et ad Deum nostrum, quoniam multus est ad ignoscendum. Non enim cogitationes meae cogitationes vestrae,
neque viae vestrae viae meae, dicit Dominus”.
236
All’origine di una tradizione:
san Francesco e san Domenico
Andrea Mazzucchi
Il canto XI del Paradiso è il secondo di un blocco di quattro canti e mezzo, dal X al XIV, dedicati al
cielo del sole, al cielo degli spiriti sapienti, che di fatto costituisce, come ha scritto Terracini, “la più
ampia incatenatura di canti che si abbia in Paradiso”. Canti legati da forti connessioni diegetiche,
da richiami e parallelismi, da evidenti simmetrie compositive, particolarmente insistite come è noto
tra i canti XI e XII, che non consentono, se si vogliono evitare fraintendimenti e banalizzazioni,
analisi limitate a un singolo pezzo. L’XI canto insomma non può essere letto perdendo di vista i
canti contigui e soprattutto il XII. Un tale complesso impianto strutturale si complica se, come è
opportuno, si valutino anche, per rimanere a Par. XI, i rapporti speculari e, per così dire antifrastici, che lo collegano, con non trascurabili ricadute di senso, al suo corrispondente numerico nella
seconda cantica, quell’XI canto del Purgatorio, dedicato all’espiazione dei superbi, che, come mi è
già capitato di osservare, allude ripetutamente, sia pure in maniera velata, alla vicenda biografica
dell’umile Francesco.
È ovvio che una tale complessità di rapporti, oltre che l’indiscutibile rilevanza dei personaggi e dei
temi affrontati in questi canti, e l’accumularsi di un imponente messe di voci bibliografiche, spesso
tutt’altro che trascurabili, esigerebbero una quantità praticamente interminabile di rilievi, tutti indispensabili a segnalare e correttamente decrittare la complessità dall’operazione messa in atto da
Dante. E sono rilievi che dovrebbero riguardare:
1. l’inchiesta sulle fonti utilizzate per la costruzione della biografia di Francesco;
2. le conseguenti valutazioni sugli scarti tra ciò che è noto e tramandato del Francesco storico
e il ritratto fornitoci da Dante, ritratto che troppo spesso è stato bollato come schematico, con
persistenti severe riserve sulla scelta di trascurare tutte le declinazioni, per così dire, aneddotiche e
miracolistiche della vita e della leggenda Sancti Francisci;
3. il ruolo assolutamente decisivo affidato nel sistema ideologico dantesco alla condanna della
cupidigia e gli eventuali legami di Dante con il francescanesimo pauperista più radicale;
4. il corretto accertamento e la precisa definizione di genere della biografia di Francesco;
5. la particolare struttura formale del canto, intessuto di preziosi procedimenti retorici e discorsivi
in funzione non solo elativa.
A queste e ad altre questioni sollevate dalla complessa densità concettuale del messaggio dantesco e dai sorprendenti meccanismi dei suoi ingranaggi verbali si potrà qui far riferimento solo in
misura inevitabilmente parziale.
Modalità di costruzione della biografia di Francesco e di
Domenico
Partirei dunque da alcuni dati strutturali di immediata evidenza, ma di cui è indispensabile cogliere le motivazioni. Come osservava già nel Cinquecento Gelli la cifra stilistica peculiare del poema
dantesco è la drammaticità, l’ampio ricorso al discorso diretto, alla giustapposizione rapida di inserti dialogici, la connotazione fortemente mimetica del discorso dei personaggi incontrati. Benché,
237
Parte terza. Andrea Mazzucchi
come è noto, nel Paradiso si assista a un’evidente smaterializzazione delle fisionomie individuali, la
narrazione delle due vite di san Francesco e di san Domenico acquista uno statuto del tutto particolare, determinato dal fatto che i due santi non sono, come tutti gli altri individui che compaiono
nella Commedia, personaggi della storia che in esso si narra, bensì i soggetti di due biografie presentate da un altro personaggio della storia. Di Francesco e Domenico insomma si parla solo in loro
absentia. Da questa scelta, definita da Auerbach in un saggio capitale “sorprendente”, dipendono il
particolare taglio del racconto che, nel caso di Francesco, trascura, come si è detto, l’aneddotica e
l’immagine un po’ oleografica trasmessaci dalla letteratura religiosa e dalla tradizione pittorica, con
impoverimento dei dati referenziali e amplificazione e accentuazione invece della funzione storicosimbolica ed esemplare del personaggio. Ma soprattutto l’aver affidato a Tommaso e a Bonaventura
i due panegirici consente di realizzare il particolare dispositivo strutturale che prevede la divisione
di ciascun discorso in una premessa elogiativa e in una conclusione reprensoria. Una bipartizione
impostata insomma sul contrasto tra un modello di santità realizzata nel passato e a cui bisogna
conformarsi e su cui bisogna modellare le proprie esistenze e una degenerazione del presente, determinata invece dall’allontanamento e dalla discontinuità con l’insegnamento dei fondatori, allontanamento e discontinuità che impediscono il conseguimento di un’autentica ricchezza, che rendono
cioè impossibile “impinguarsi”.
Sapienti e isotopia del fondamento
Ma la di là di una tale particolare procedura espositiva, bisognerà forse interrogarsi più a fondo
sulle motivazioni per quali Dante ha assegnato il rilievo indubbiamente più marcato nel cielo degli
spiriti sapienti a due santi, indiscutibilmente illustri, ma non collocati nel cielo del sole. È lecito
insomma chiedersi perché per parlare dei sapienti e dunque definire sia pure implicitamente la
autentica natura della sapienza era necessario parlare così distesamente (due canti) e con quella
particolare strategia narrativa di cui si è detto di san Francesco e di san Domenico. Perché non
rinviare, ad esempio, i racconti sui due santi a un luogo diverso e successivo della cantica, magari
in loro presenza, ricorrendo e funzionalizzando così le consuete, ben rodate ed efficaci tecniche di
mimesi drammatica.
Dante che nei canti dal X al XIV non si preoccupa mai di definire esplicitamente la sapienza né di
dichiararne distesamente la funzione, rende però omaggio ai grandi auctores della tradizione cristiana,
citando in modo più o meno cursorio, ma sempre con notazioni fortemente ellittiche, 12 spiriti sapienti
nei vv. 94-138 di Par. X e altri 12 nei vv. 127-141 di Par. XII, quasi a dichiarare la propria “ideale biblioteca” cristiana. Sono così offerti ai lettori, come ha acutamente scritto Piero Boitani, veri e propri
alberi genealogici della sapienza e della filosofia medievale con accostamenti originali e arditi (si pensi
a Sigieri di Brabante accanto al rivale Tommaso e a Gioacchino da Fiore posto accanto a Bonaventura
da Bagnoregio) che aspirano a proporre una superiore conciliazione dei diversi indirizzi epistemologici
della cultura cristiana-medievale, suggerendo così, neppure troppo implicitamente, la sostanziale unità
della cultura che non può e non deve conoscere ostracismi e tensioni. La ricostruzione di un albero
genealogico della sapienza dà vita dunque – ed è quel che più conta – a un paradigma culturale in cui
è evidente una prepotente inclinazione a risalire ai principii, ai fondamenti, ai fondatori, a stabilire un
legame di forte continuità con essi. Sottesa infatti alla tessitura poetico-narrativa di questi canti, alla
loro struttura per così dire sintagmatica, si scorge un complesso dinamismo di linee isotopiche che
rinviano appunto al tema dell’origine, dell’inizio, del fondamento, cui evidentemente cooperano non
solo l’insistito richiamo al motivo della creazione trinitaria (si pensi almeno allo straordinario incipit
di Par. X), ma pure il costante riferimento ai fondatori dei due ordini, il richiamo esibito alla fedeltà e
conformità alle regole da loro fissate, la necessità di possedere nella ricerca del vero un vettore chia238
Parte terza. Dante
ramente orientato. Sintomatica in tale direzione è l’autopresentazione di Tommaso d’Aquino in Par. X
94-96 come un agnello del gregge che “Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si
vaneggia”. Tommaso è dunque il sapiente, la cui sapienza ha dato frutti solo perché si è incardinata in
una sequenza, ha assunto una direzione teleologicamente orientata, è rimasta fedele alla tradizione del
suo fondatore, di Domenico. E non sarà casuale, in questa ricerca di genealogie, che Tommaso subito
prima di nominare se stesso presenti (Par. X 97-99) Alberto Magno, suo maestro e diretto superiore
nell’Ordine domenicano. In tal senso mi pare che si comprenda meglio anche il duro richiamo alla fedeltà ai fondatori fatto dallo stesso Tommaso e da Bonaventura, degni e fedeli prosecutori degli ideali
che avevano animato i loro precursori e fondatori dei due ordini monastici, cui essi appartengono. Solo
risalendo alle origini, dunque, e indicando come modelli le vite perfette dei fondatori dei due ordini si
potranno chiarire il significato profondo e l’altezza della funzione sapienziale.
L’associazione dei due fondatori
Ora per l’idea di una provvidenziale associazione di Francesco e Domenico, come è noto, Dante
poteva contare su autorevoli precedenti, che non sarà qui il caso di richiamare, poiché spesso citati
nella pregressa bibliografia, precedenti che certamente avranno influito sulla realizzazione di quello
stretto gioco di parallelismi e di corrispondenze tra il canto XI dedicato a Francesco e il XII dedicato
a Domenico, corrispondenze che, pur nella variazione di caratteri strutturali, narrativi e retorici,
marcano la perfetta armonia tra i due santi e ne suggeriscono ripetutamente l’unicità del fine al
quale furono ordinati dalla Provvidenza. Vorrei solo ricordare che accanto ai testi dell’agiografia
francescana e domenicana non mi pare trascurabile l’associazione l’una di seguito all’altra nel ms.
Laur. Red. 9, autentico liber guittoniano, delle due ballate Meraviglioso beato in onore di San Domenico e Beato Franscesco, in onore del santo di Assisi di Guittone appunto.
Ma, a mio avviso, non è solo l’ossequio a possibili precedenti e fonti a motivare il doppio panegirico. Esistono forse, come spero di provare, ragioni più radicali e profonde, tanto più che la convergenza che Dante vuole sottolineare non si limita a Francesco e Domenico, ma investe pure, in forme
fortemente connotate, e certo meno convenzionali, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, nella proposta cioè di una conciliazione tra il primato aristotelico e domenicano dell’intelletto
e quello agostiniano e francescano della volontà, di un superamento della frattura tra le epistemologie razionalistiche dell’aristotelismo cristiano e quelle simbolico-volontaristiche dell’agostinismo
francescano. Una conciliazione resa possibile dall’enfasi posta sul richiamo al comune fondamento
del sapere, fondamento capace di attenuare e stemperare una tale dicotomia.
E nonostante recenti autorevoli proposte puntino a valorizzare piuttosto le differenze che le convergenze tra i due santi fondatori, la lettera del testo dantesco, che in più punti insiste chiaramente
sull’unità dei fini perseguiti e sulla omogeneità, pur nell’individualità e distinzione dei due carismi,
delle due figure dei fondatori, suggerì già agli antichi commentatori di riconoscere la complementarità di Francesco e Domenico, al punto che commentando Par. XXXII 35, in cui si ricorda che a
occupare gli scranni della candida rosa nell’Empireo, immediatamente sotto Giovanni Battista ci
sono i fondatori degli ordini, “Francesco, Benedetto e Augustino”, Buti spiega così l’assenza, su cui
molti moderni si sono interrogati, della menzione di Domenico: “per lui [ Francesco] s’intende anco
santo Domenico: imperò che, come fu detto di sopra nel XII [il riferimento è a Par. XII 34: “Degno è
che, dov’è l’un, l’altro s’induca], quello che si dice dell’uno, s’intende anco dell’altro”. E il legame, per
così dire metonimico (citando uno si indica anche l’altro), tra i due santi è colto anche dal tardotrecentesco miniatore del ms. 514 di Holkham Hall, che a c. 145r illustrando tutti i beati nominati a Par.
xxxii da Dante, aggiunge, in maniera apparentemente arbitraria, davanti a San Francesco l’immagine
di san Domenico.
239
Parte terza. Andrea Mazzucchi
Carattere cristomimetico di Domenico e di Francesco
Ma dunque se la convergenza tra i due fondatori è certificata dalla lettera di Dante e dall’atteggiamento dei suoi primi lettori, resta ancora da chiedersi quale sia l’autentico elemento unificante
capace di accomunare le due biografie. La risposta è fornita, come sempre, dallo stesso Dante, che
costruisce le due biografie dei fondatori come riproposizioni dell’esistenza di Cristo. Francesco e
Domenico ripropongono, almeno secondo il racconto di Dante, il modello esperienziale, paradossale e scandaloso, di Gesù. In quell’ideale albero genealogico della sapienza, dietro i due fondatori,
Francesco e Domenico, si intravede dunque un comune fondamento, cioè Cristo. Essi sono imitatori
di Cristo, ne reinverano il modello, muovendosi entro i binari tracciati dalla sua esistenza. La loro
funzione ideale e normativa, ribadita da Tommaso e da Bonaventura nella condanna delle degenerazioni di domenicani e francescani, si fonda e trova ragione proprio nel loro configurarsi come
riproposte del modello cristologico. Ed è proprio questa cristo-mimesi che Dante intende valorizzare
scrivendo i loro panegirici, selezionando e pertinentizzando a tal fine le notizie storiche che aveva
a disposizione.
Per Domenico mi limiterò, come è inevitabile in questa sede, a segnalare solo le emergenze che
più evidentemente ne fanno un alter Christus:
l’immagine nuziale di Domenico sposo della Fede;
il suo essere agricola di Cristo;
il suo amore verso il “primo consiglio che diè Cristo”, cioè la povertà;
la precoce consapevolezza della propria missione nella predicazione: emblematico in tal senso il
v. 78: “come dicesse: ‘Io sono venuto a questo’; parole che replicano quelle pronunciate da Cristo
all’inizio della sua predicazione: “Eamus alibi in proximos vicos, ut et ibi praedicem: ad hoc enim
veni” (Mc 1 38), e alla fine al cospetto di Pilato: “Ad hoc veni in mundum” (Gv 18 37)
infine a ribadire tutti questi elementi di conformità a Cristo, posta al centro esatto, geometrico
e concettuale, del canto XII, la triplice rima identica su Cristo, spettacolare effetto formale, finora
inedito nel poema e ovviamente non privo di pregnante valenza simbolica.
Per la valorizzazione del motivo cristomimetico in Francesco, Dante poteva invece contare su
documentazioni ancora più ampie, ché anzi il motivo di Francesco come alter Christus risulta già
fortemente presente, con diverse accentuazioni, in tutta l’agiografia francescana. Ed è proprio enfatizzando alcune di queste indicazioni che Francesco diviene, nella costruzione dantesca, paradigma esistenziale dell’antica allegoria del Dio-Uomo, replicando, come secondo Cristo, quel modello,
costituendosi così per dirla con Auerbach come figura capovolta, istituendo cioè una connessione
figurale, ribadita sintomaticamente ancora nel “contenutissimo incontro” con il vero Francesco in
Par. XXXII, dove il santo di Assisi, perfetto imitatore di Cristo è collocato di fronte alla Vergine e,
nella linea ascendente verso il mistero della Redenzione, secondo al solo Giovanni Battista, perfetto
annunciatore e precursore di Cristo. Basti qui richiamare alcuni elementi macroscopici a sostegno
di tale ipotesi. Sin dall’inizio del discorso elogiativo di Tommaso l’equazione metaforica Francesco –
sole (v. 50: “nacque al mondo un sole”) con la conseguente rinominazione di Assisi come “oriente” (v.
52-54: “Però chi d’esto loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Oriente se proprio
dir vuole”) costituisce una lampante allusione simbolica a Cristo sulla scorta di ben noti testi biblici
(basti ricordare qui Lc 1,78 “Oriens ex alto” e l’insistenza del vangelo giovanneo sul simbolismo della
Luce), ma anche di pertinenti tessere intratestuali: nella Commedia infatti il sole è sostituto simbolico di Dio e/o di Cristo (in Par. XXIII 29 Cristo è “un sol che tutte quante l’accendea”) e in Conv. III
12 7 è detto espressamente che: “nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi esempio di
Dio che ’l sole”; né si potrà qui tacere che proprio Francesco nelle Laudes creaturarum aveva scritto
a proposito del sole che “ […] ellu è bello e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta
240
Parte terza. Dante
significatione”. All’imitatio Christi rinvia poi esplicitamente, come non ha mancato di sottolineare
Auerbach, il motivo conduttore della biografia disegnata da Dante, lo scandaloso, almeno secondo
i codici dell’etica comportamentale laica, amore di Francesco con la disprezzata e reietta Povertà,
amore che replica quello consumato poco più di mille e cento anni prima tra la stessa donna e Cristo
e che, attraversando i secoli, unisce e conguaglia, le due analoghe paradossali scelte esistenziali.
Per Dante infatti è proprio la povertà il tratto più caratteristico e individualizzante della storia di
Francesco, ma è una povertà che si coniuga ossimoricamente con cifre a essa antitetiche, ripetendo
anche in ciò l’esperienza di Cristo. Come Cristo, Dio crocefisso, re umiliatosi fino alla morte in croce, è per dirla con sant’Agostino, “victor et victima et ideo victor quia victima”, così Francesco può
essere per Dante il povero per eccellenza e al contempo in qualche modo re: povero e re, anzi re
proprio perché volontariamente, evangelicamente povero. Emblematica in tal senso l’ultima terzina
del panegirico (vv. 115-117), dedicata alla morte di Francesco, in cui tornano strettamente intrecciati i due temi centrali di questa biografia: povertà e regalità. Per volare al cielo l’anima preclara di
Francesco, il cui nudo corpo è posto nella nuda terra, si stacca dal grembo della povertà per tornare
al suo regno: il povero Francesco è dunque, paradossalmente, di fatto un re. E il motivo della conformità a Cristo, al paradossale vissuto del Dio che si fa uomo, carne, è ribadito dalla precisa allusione
al vangelo di Luca 23, 42-43, dove chi morendo “torna al suo regno - Domine memento mei cum
veneris in regnum tuum, dice il buon ladrone a Cristo - è proprio Cristo. Francesco del resto vive la
realtà paradossale e ossimorica del Cristo, ripetendone in corpore, nella propria carne, come ancora
ricorda Dante, attraverso le stimmate, “ultimo sigillo” (v. 107), le sofferenze della passione e quindi
l’esemplarità di vita e di parola.
Cristo fondatore – Cristo sapienza
La costruzione in chiave fortemente cristomimetica delle due biografie di Francesco e di Domenico, se da un lato conferma, a livello più profondo la comunione dei due santi fondatori, dall’altro
consente di individuare, proprio in Cristo, l’autentico fondamento di quella genealogia della sapienza cui si è fatto ripetutamente cenno. Dietro i fondatori dei due ordini c’è dunque per Dante un
comune fondamento, che è Cristo. La sequenza entro cui si incardinano le esperienze di Tommaso
e di Bonaventura rinvia dunque solo in prima istanza ai fondatori Domenico e Francesco, le cui
biografie impongono però il riconoscimento di un ulteriore archetipo, quello di Cristo. Nella prima
epistola di San Paolo ai Corinzi, testo certo ben noto all’autore della Commedia, si afferma del resto
esplicitamente che “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è
Gesù Cristo: Fundamentum enim aliud nemo potest ponere praeter id, quod positum est, quod est
Christus Iesus”. È dunque solo assumendo quell’archetipico fondamento, riproponendone cioè gli
insegnamenti, che si è autorizzati, nel senso medievale del termine, a nuove costruzioni.
Non è dunque inverosimile né azzardato, mi pare, ipotizzare che le forti implicazioni cristologiche presenti nel cielo dei sapienti (implicazioni che vanno ben al di là del cristomimetismo di
Francesco e Domenico) fossero per Dante studiatamente funzionali a suggerire l’ovvia equazione
(sorprendentemente, per quanto ne so, mai valorizzata nelle molteplici interpretazioni di questo
canto) tra la seconda persona della Trinità, tra l’immagine luminosa del Cristo-Verbo e la sapienza.
Una lunga tradizione associava infatti l’immagine muliebre della Sapienza veterotestamentaria alla
figura del Cristo-Logos e riconosceva il nome proprio del Figlio nella sapienza (basti qui la citazione
di Tommaso, Summa Theologiae Ia q. 39 a. 8 co.: “Sapientia vero [...] nihil aliud est quam conceptus
sapientiae”); e sin dai tempi del Convivio Dante aveva tentato un’eclettica simbiosi tra la sophia
di matrice classica, la visione giovannea del Cristo-Verbo e l’immagine biblica e salomonica della
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Parte terza. Andrea Mazzucchi
Sapienza. L’insistenza dunque, a prima vista sorprendente nel cielo dei sapienti, sulle biografie dei
fondatori, Francesco e Domenico, ha consentito all’autore della Commedia, di definire, in forme non
grettamente didascalico-espositive, la natura della sapienza e di mostrare che – si perdoni la tautologia solo apparente – archetipo e fonte della sapienza in terra è Cristo-sapienza. Nel De Trinitate
(XIII 19 24) infatti già Agostino aveva riconosciuto: “Scientia ergo nostra Christus est, sapientia
quoque nostra idem Christus est. […] Per ipsum pergimus ad ipsum, tendimus per scientiam ad sapientiam: ab uno tamen eodemque Christo non recedimus, in quo sunt omnes thesauri sapientiae et
scientiae absconditi”. Né si tratta dunque per Dante di opporre scienza laica a sapienza cristiana, né
di enfatizzare fratture e disparità ontologiche tra la sapientia divina e la scientia humana, ché anzi
nel rivendicare il comune fondamento evangelico dell’intellettualismo domenicano-tomistico e del
volontarismo francescano-bonaventuriano si realizza un automatico superamento della dicotomia,
a mio avviso troppo enfatizzata in alcuni recenti studi, tra le epistemologie razionalistiche domenicano-tomistiche e quelle biblico-esegetico-simboliche della tradizione agostiniana e francescana,
entro cui esclusivamente, secondo alcuni si inscriverebbe il pensiero di Dante.
L’unica vera fonte di tutta l’erudizione tanto per Tommaso quanto per Bonaventura va riconosciuta in Cristo e la più alta e redditizia forma di sapienza consiste per entrambi nella riproposizione del
modello evangelico reinverato dai rispettivi fondatori. Del resto già nella tradizione biblica è chiaramente riconosciuto ed affermato che “omnis sapientia a Deo Domino est” (la citazione è dall’Ecclesiastico, 1 1). La sapienza, dunque, già nel testo biblico, non è ritenuta il frutto esclusivo di mere
speculazioni umane, ma è piuttosto una grazia che si ottiene implorando. Per dirla con le parole
di un autorevole biblista francese Pierre Emile Bonnard: “L’uomo […] non sarà mai il padrone della
Sapienza, ma ne rimane sempre l’umile discepolo”. Su questo punto non c’è disaccordo tra Tommaso
e Bonaventura: per entrambi, come già per Domenico e per Francesco, la ricerca intellettuale non
ha senso da sola e non può raggiungere specifici obiettivi conoscitivi se non è accompagnata e
completata da una serie di atteggiamenti che rinviano ad altre dimensioni esistenziali e collegano
saldamente la ricerca teorica ad aspetti extrateoretici. Emblematici in tale direzione due passaggi,
che possono costituire l’utile abbrivio per una lettura puntuale del canto dantesco. Il primo dallo
Summa Teologiae (IIIª q. 3 a. 8 co) di Tommaso: “il Verbo è il concetto della Sapienza eterna, da cui
deriva tutta la sapienza umana. E perciò l’uomo avanza in sapienza, che è la sua propria perfezione,
in quanto essere razionale, poiché partecipa del Verbo di Dio; il secondo dal prologo dell’Itinerarium
mentis in Deum di Bonaventura: “ne forte credat, quod sibi sufficiat […], speculatio sine devotione,
[…] industria sine pietate, scientia sine caritate, intelligentia sine humilitate, studium absque divina
gratia” (Itin., Prologo, 4).
Una programmatica allusività biblica: l’Epistola ai Galati
Rinviando inevitabilmente ad altra sede per una puntuale lettura del canto, ci si limiterà qui ad
analizzare i decisivi versi proemiali di Par., XI, che evocano, con raffinata strategia intertestuale, un
modello archetipico di perverso allontanamento da una verità già conseguita, confermando così
l’ipotesi che il discorso su Francesco e Domenico sia un’icona funzionale al recupero dell’autentico
fondamento sapienziale.
Il canto si apre dunque con una violenta apostrofe (vv. 1-3) contro il vano, sciocco affannarsi terreno degli uomini, che seguendo ragionamenti difettosi sono inevitabilmente gravati verso il basso:
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
242
Parte terza. Dante
E il concetto dell’exclamatio iniziale “si prismatizza” nella particolareggiata e retoricamente efficace enumerazione dei vv. 4-9:
Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio
enumerazione, in cui l’insistito effetto anaforico del sapiente polisindeto, la forte varietas sintattica, riconosciuta dal compianto Baldelli, i grumi allitterativi, le rime uniche nella Commedia in
–ismi e in –ozio, la particolare struttura ritmica degli endecasillabi, il complessivo effetto di accumulo drammatico si configurano tutti quali efficaci correlativi formali del vario affannoso anelito
degli uomini verso le carriere più remunerative (studi giuridici e di medicina, carriere ecclesiastiche,
esercizio del potere politico illegittimamente ottenuto, pratiche economiche e finanziare non limpide, esercizio della pubblica amministrazione) e verso scelte volte esclusivamente ai piaceri fisici
e mondani o all’ozio. E a tale drammatico e avviluppante vano accumulo si contrappone invece, ai
vv. 10-12, con forza la condizione di Dante che, ormai liberato, sciolto (in emblematica rima antinomica con involto del v. 8) è, insieme con Beatrice, accolto gloriosamente in cielo, dove l’avverbio
dieretico collocato al centro dell’endecasillabo e portatore degli accenti primari di 6 e di 8, dunque
linguisticamente bipartito, contribuisce fortemente all’effetto di dilatazione perseguito dall’autore.
Le prime quattro terzine del canto, dunque, lungi dal costituirsi, come è parso ad alcuni, un inutile digressivo proemio, nella condanna delle vane occupazioni mondane, sintomaticamente invece
preludono, come ben vide Serravalle, all’esaltazione di Francesco. Infatti “auctor volens ostendere
curam mortalium occupatam circa mundanas res fore occupatam vane, […], nititur ponendo unum
hominem, scilicet Beatum Franciscum, in exemplum omnium, qui ex toto despexit omnes res mundanas”. Il disprezzo dei beni terreni è infatti motivo diffusissimo nella tradizione francescana, ritenuto condizione imprescindibile per accedere al cielo. Il proemio infatti suggerisce un intrigante gioco
di rispecchiamento e di allusivi rinvii tra Dante, sciolto dalle cure terrene e accolto gloriosamente
in cielo, e Francesco che, secondo la Legenda secunda di Tommaso da Celano, “liberato dalla nebbia
delle cose terrene e non più soggetto alle lusinghe della carne, saliva leggero alle altezze celesti”. E si
aggiunga che la condanna dell’attività intellettuale legata alla ricompensa campeggia come monito
in una della ammonizioni del Testamentum di Francesco, forse non priva di riscontri intertestuali
con i versi di Dante: “Qui nesciunt discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris, sed
propter exemplum et ad repellendam otiositatem”. E accanto a una tale tessera francescana, e non
solo in ossequio al tradizionale principio dello spiegar Dante con Dante, si dovrà ricordare a proposito di questi versi il passo parallelo di Conv., III 11 10: “Né si dee chiamare vero filosofo colui che
è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, medici e quasi tutti religiosi, che non per
sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade”. Il rinvio intratestuale tuttavia non annulla la
pregnanza, non ancora, a mio avviso, del tutto opportunamente e adeguatamente valutata dai numerosi lettori e commentatori del canto, delle numerose tessere intertestuali con le quali Dante ha
costruito questi versi. Se infatti l’acris iunctura del v. 1 “O insensata cura dei mortali” può essere con
qualche probabilità ricondotta all’incipit della prima satira di Persio “O curas hominum! O quantum
est in rebus inane!...”, a patto però di sottrargli il carattere di erudita reminiscenza classicistica, di
“eco di un modulo classico” (Sapegno) e di considerarne invece il valore apoftegmatico, di massima
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Parte terza. Andrea Mazzucchi
morale, di detto sentenzioso, con cui, isolato dal suo contesto circolò ampiamente nella cultura
medievale, non si potrà però tacere che è irriducibile alla tradizione classica l’aggettivo di forte
connotazione biblica insensata, per il quale assai più pertinenti mi paiono i rinvii addotti nell’ancora
inedita redazione dell’Ash. 841 del commento di Pietro Alighieri, il quale, dopo aver ricordato che
“Autor in sua persona hic nunc […] despicit negotia huius mundi et homines implicantes se in eis,
vocando eos insensatos” riconosce nell’aggettivo in questione un’allusione “verbis Apostoli dicentis
ad Galatas III° capitulo: ‘O insensati Galate, quis vos festinavit veritati non obbedire?’, idest ipsi Deo,
cui militantes non implicant se negotiis secularibus, ut ait idem Apostolus ad Timoteum II° capitulo”.
Oltre alla pertinente agnizione della filigrana della II Ep. Tim., 2 4: “negotiis secularibus” dietro il
sintagma civil negozio di v. 7, notevole soprattutto il rinvio, dotato a me pare di valenza programmatica, all’Epistola ai Galati, in cui Paolo, come è noto, rivendica la bontà della propria predicazione
fondata sull’autentica dottrina di Gesù, contro le accuse rivoltegli da alcuni rivali che avevano sviato
e allontanato da lui i Galati da lui convertiti: uno schema, in cui evidentemente numerose sono le
coordinate equiparabili ai discorsi di Dante in Par. XI e XII. Tanto più che nella lussureggiante tradizione esegetica biblica medievale i Galati venivano interpretati come metonimia dell’intera umanità
e che, ad esempio, nel suo commento sull’Epistola ai Galati, san Tommaso non solo rileva che Paolo
“confutavit vanitatem et mutabilitatem Galatarum per auctoritatem evangelicae doctrinae”, ma
osserva pure che l’insensatezza dei Galati deriva dall’essersi allontanati da un verità che avevano
già conseguito: “quia veritatem propositam et acceptam deserit, a via veritatis recedens; et tales
erant isti Galatae, qui veritatem fidei quam acceperant deserentes, veritatem propositam renuerunt”.
244
Dante poeta civile
Sergio Cristaldi
Impero e Chiesa
Fedele a una strategica indicazione della Scolastica, Dante è convinto che l’ordine della grazia
compia l’ordine della natura senza azzerarlo. Da parte sua, egli sottolinea con forza l’autonomia
della sfera terrena, ipostatizzando un fine di questa vita – la conoscenza accessibile alla ragione
umana – e una perfetta felicità che, in questa vita, ne scaturisce; quanto al fine della vita eterna – la
visione di Dio faccia a faccia –, esso non orienta ancora il desiderio hic et nunc. Questa, almeno, la
dottrina difesa dal Convivio e dalla Monarchia (è controverso se il poema sacro la riproponga con la
stessa radicalità). Entro siffatta cornice, si innesta una rivendicazione dell’indipendenza dell’Impero
dalla Chiesa; si può anzi presumere che a sollecitare Dante sia stata proprio l’esigenza di fondare
teoreticamente l’emancipazione del potere civile; sostenibile, lo ha notato Gilson, solo a condizione
di scindere fine terreno e fine ultraterreno e di professare l’autonomia del primo rispetto al secondo.
Vero è che ambedue le autorità, quella politica e quella religiosa, discendono dal volere divino: già
il Convivio inserisce arditamente la storia profana entro l’economia della salvezza. L’instaurazione
dell’ordine della natura ha comportato un graduale affinamento del sapere filosofico, giunto con
Aristotele a una misura, entro i propri termini, sostanzialmente compiuta. Da sola, tuttavia, l’autorità filosofica non era in grado di condurre il genere umano alla felicità di questa vita; rischiava anzi
di restare, per i più, lettera morta, a causa del disturbo della cupidigia. Alla lezione del maestro di
color che sanno dovevano unirsi la legislazione e il governo del monarca universale, in un’alleanza
necessaria tra autorità filosofica e autorità politica. Così, nella vicissitudine storica, è maturato
l’Impero. Giova sottolinearlo: Dante non concepisce l’Impero come un dato che si coestende alla
storia accompagnandola sin dalle sue ere più remote, secondo quella concezione assai diffusa che
postulava una translatio del potere imperiale da un popolo all’altro. Per Dante, un solo popolo è il
depositario della monarchia universale, il popolo romano; l’Impero ha dunque conosciuto una lunga
incubazione prima di affermarsi. Per converso, esso durerà sino alla fine dei tempi, come istituzione
perennemente affidata al popolo di Roma. Ponendosi sulla scia di Virgilio, Dante individua con puntualità le tappe fondamentali di un’evoluzione: il fondatore è stato Enea; dall’eroe troiano, glorioso
capostipite, una ininterrotta trafila di eventi ha condotto fino al primo imperatore, Augusto. Con
costui, primo dominatore incontrastato del mondo, in grado di stabilire la pace universale, serrando
il delubro di Giano, l’istituzione politica ecumenica ha finalmente preso forma, una forma che non
verrà mai meno. L’Impero è stato, infatti, pensato e voluto dalla provvidenza divina, la quale ha assecondato le vittorie militari dei Romani. Con un medesimo decreto, Dio ha preordinato la monarchia
universale e ha indissolubilmente eletto il solo popolo portatore dell’Aquila.
Inevitabile cogliere l’intento dantesco di sacralizzazione. L’idea, da molti teologi favorita, di una
translatio Imperii, poteva implicare, e non di rado effettivamente implicava, una nozione non sacrale del potere politico, attribuendo al dominio di un determinato popolo un carattere contingente
ed effimero. Agostino, in particolare, aveva manifestato forti obiezioni nei confronti dell’ascesa di
Roma, costellata di violenze e di sangue; una critica che sarebbe fermentata nel guelfismo bassomedievale. All’epoca di Dante, il re di Napoli Roberto d’Angiò dichiarerà scaduta l’autorità dell’Impero,
non senza legittimare in punta di diritto le rivolte contro quel giogo: in fondo, argomenta Roberto,
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Parte terza. Sergio Cristaldi
i Romani devono la loro grandezza a ripetute usurpazioni, per cui i popoli adesso ribelli contro il
trono supremo non fanno che riappropriarsi di ciò che era stato loro ingiustamente sottratto. Con
questa tesi guelfa, Dante entra in rotta di collisione: il popolo romano è a suoi occhi una sorta di
equivalente, sul piano naturale, del popolo ebraico, insomma è segnato a sua volta da un’elezione
divina; anzi, se gli Ebrei hanno a un certo punto esaurito il loro ruolo, i Romani devono proseguire la
propria missione, che resta indispensabile anche all’indomani della Redenzione e perdura sino allo
sbocco ultimo della storia.
Con l’ascesa di Augusto e l’instaurazione della pace mondiale, l’ordine della natura era giunto
al suo apice ed erano mature le condizioni perché su quella base sorgesse l’ordine soprannaturale:
non per caso, l’Incarnazione è avvenuta proprio sotto il regno del primo imperatore. Il Figlio di Dio
poteva fare il suo ingresso solo in un mondo perfettamente disposto e questa disposizione ottimale
si era appunto verificata grazie all’instaurazione dell’Impero. Nella Monarchia, Dante si spingerà a
connettere con l’istituto imperiale la stessa morte di Cristo. La portata redentiva del sacrificio della
croce doveva essere universale – Cristo era chiamato a espiare per tutti –, ma allora era necessario
che la sentenza di condanna fosse pronunziata da un giudice con giurisdizione a sua volta universale, Pilato appunto, funzionario di Tiberio “Si ergo sub ordinario iudice Cristus passus non fuisset,
illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus
iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Cristi portantis dolores notros, ut
ait Propheta, puniretur” (II, xi, 5). Tesi che suona scandalosa alla sensibilità del domenicano Guido
Vernani, il quale, nell’opuscolo De reprobatione Monarchiae, eccepisce che la croce è salvezza del
mondo intero per la sola obbedienza di Cristo al Padre.
Grazie alla diarchia di Impero e Chiesa, l’economia della salvezza, che per Dante abbraccia tanto
l’istituto politico che quello religioso, si è dunque definitivamente assestata. Se non che, la donazione di Costantino ha trasmesso alla Chiesa il potere temporale, in flagrante violazione delle parole
di Gesù che, inviando i discepoli a predicare, aveva imposto un fermo divieto, “Nolite possidere
aurum neque pecuniam in zonis vestris, non peram in via, neque duas tunicas neque calceamenta
neque virgam”, come consta da Matth., X, 9-10, che Dante cita e commenta in Monarchia, III, X, 14.
L’esegesi dantesca di questo passo evangelico è ben consapevole di un conflitto di interpretazioni
che all’epoca aveva coinvolto figure di spicco del pensiero cristiano. Notava Tommaso d’Aquino che
quel precetto era stato impartito da Cristo prima della sua Passione redentrice, quando ancora vigeva l’antica legge, poi interamente soppiantata dalla nuova legge di carità e libertà scaturita dalla
Redenzione (Summa Theologiae, I-IIae, 108, 2, ad 3um); non per caso, in Luc., XXII, 35, lo stesso
Figlio di Dio aveva revocato la sua precedente ingiunzione (“Sed nunc qui habet sacculum tollat,
similiter et peram”). Diversamente da Tommaso, il francescano Bonaventura da Bagnoregio, nell’Apologia pauperum, riteneva l’ingiunzione di Gesù ancora valida, scorgendo nell’episodio attestato
dal vangelo di Luca solo una provvisoria sospensione, giustificata dall’arduo frangente della Passione. Bonaventura, a ogni modo, non intendeva spingersi troppo oltre: a suo avviso, il Nolite possidere
rappresentava una direttiva solo per l’ordine dei Minori e non per l’intera Chiesa.
Dante è più oltranzista: la revoca riscontrabile nel vangelo di Luca non toglie la proibizione
dell’oro, che resta dunque in vigore e che riguarda la Chiesa tutta, inibita a possedere ricchezze e
a gestire come cosa propria il potere temporale. Una lettura molto simile di Matth., X, 9-10 aveva
offerto Pietro di Giovanni Olivi, leader di quei francescani estremisti, fautori di un rigido pauperismo, noti con il nome di Spirituali. Riconoscere una convergenza non significa comunque appiattire
Dante su posizioni altrui. Rispetto a Olivi che, monitorando l’epoca post-costantiniana, registrava la
decadenza della Chiesa, ma non si preoccupava delle sorti del potere politico, Dante si distingue per
la sua coscienza di una crisi diffusa, che investe e logora anche la società civile. La messa a fuoco
del decadimento socio-politico è già avviata nel Convivio. Un quadro più ampio e articolato, in cui
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Parte terza. Dante
entra la polemica contro la Donazione di Costantino ed entra anche lo scandalo per la corruzione
ecclesiastica, si avrà nel poema sacro.
Lettera e allegoria di un itinerario
Secondo il senso letterale, la Commedia è la narrazione di un viaggio nell’oltretomba; verte dunque, nel suo risvolto oggettivo, sui tre regni escatologici e, nel complementare risvolto soggettivo,
sul percorso effettuato dal protagonista, il quale attraversa e contempla quelle contrade. Questo
percorso si carica di una stratificazione semantica imprescindibile come ha sottolineato la critica
nordamericana, in primis Charles S. Singleton, promotore di un indirizzo interpretativo ancor oggi
stimolante. Per Singleton, l’escursione oltremondana di Dante va guardata in controluce: il viaggio
nell’oltretomba è sostanzialmente in funzione di altro, costituisce una lettera rivolta verso un senso
riposto, una semantica di superficie veicolante un contenuto profondo. Con una mossa strategica
che decide di tutta la sua interpretazione, Singleton individua il quid sotterraneo e qualificante nell’itinerarium in Deum che ha luogo sulla terra: l’attraversamento dei tre regni equivale alla
progressiva conversione del credente, l’eccezionale escursione concessa a un privilegiato traduce
la dinamica cui è chiamato qui e ora ogni fedele, tanto che il lettore della Commedia può e deve
compiere il tragitto anche lui. Val quanto dire che l’aldilà è un correlativo dell’aldiquà, il cammino
nell’altra vita un’immagine del cammino di questa vita, con il pellegrino dell’oltretomba ricondotto
al profilo dell’homo viator e le sue guide equiparate senz’altro ai mezzi con cui è dato, su questa
terra, approssimare la perfezione.
La fecondità di questa lettura è indubbia; non tutti i conti, però, tornano facilmente. Una prima considerazione si impone subito: se la Commedia sceneggia il processo della conversione, ne
propone una versione quanto meno singolare e non facilmente reperibile negli itinerari spirituali
compilati dai teologi del tempo. La meta qui è duplice, si articola nel Paradiso Terrestre, posto in
cima alla montagna purgatoriale, e nel Paradiso vero e proprio, allocato nell’Empireo; e non è certo
l’unico elemento sorprendente, perché bisogna aggiungere subito che al Paradiso Terrestre conduce
un pagano, Virgilio, il quale non gode nemmeno della salvezza eterna, confinato com’è nel Limbo,
tra coloro che sono eternamente sospesi. In verità, Dante ha delineato un diagramma che non può
combaciare con quelli dei mistici, perché si è basato sull’articolazione, per lui strategica, di ambito
naturale e ambito soprannaturale. Così ha immaginato una conversione che punta prima al fine
terreno e successivamente a quello ultraterreno, secondo l’impostazione già attiva nel Convivio; in
questa luce, appare chiaro come la prima guida debba essere appunto un pagano, il quale incarna
il lume naturale dell’intelletto, la filosofia di Aristotele (abbondanti, in bocca al Virgilio dantesco,
le citazioni esplicite dal corpus aristotelico), nonché la monarchia universale (in Inferno I, il poeta
latino è immediatamente presentato come artefice dell’Eneide e cantore dell’eroe troiano fondatore dell’Impero). Solo quando Dante giunge sulla cima della montagna purgatoriale, si schiude la
prospettiva del fine più alto e subentra Beatrice, che richiama anzitutto Cristo e la Chiesa (il nesso
tradizionale tra Beatrice e la teologia può esser mantenuto all’interno di questa fondamentale connessione della donna all’evento di Cristo).
Rispetto all’impostazione di Singleton va poi osservato che leggere il viaggio oltremondano come
il cammino di ogni credente è solo una fra le possibilità interpretative, sicuramente idonea a svelare
alcune dimensioni del poema, meno adatta a valorizzarne altre, di non minore importanza in ordine
a una comprensione complessiva. Il fatto è che il protagonista della Commedia non corrisponde
semplicemente al fedele di ogni tempo e di ogni luogo, è poi un personaggio individuato, appartenente a un certo contesto storico, con problemi assolutamente specifici. Questo pellegrino è un
uomo che vive a cavallo fra Due e Trecento, si fregia di una nascita in quel di Firenze, appartiene
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Parte terza. Sergio Cristaldi
alla sfortunata fazione dei Bianchi, sconta un esilio voluto dal partito avverso: tutti questi tratti
biografici, propri dell’autore empirico, sono riversati nel personaggio, attribuiti all’io messo in scena. E se lo smarrimento iniziale nella selva oscura può essere riportato all’esperienza del peccato
propria di ogni cristiano, l’impossibilità di ascendere il colle che si staglia dirimpetto alla selva, ma
è vietato dall’interdizione della lupa, è tipica di un frangente particolarissimo della storia, come si
evince anche dal fatto che nemmeno Virgilio è in grado superare lo sbarramento della terza fiera.
Tant’è: la guida invita Dante a seguire un cammino diverso: ““A te convien tenere altro viaggio”, /
rispuose, poi che lagrimar mi vide, / “se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; // ché questa bestia, per
la quale tu gride, / non lascia altrui passar per la sua via, / ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide […]”“
(Inf., I, 91-96). L’”altro viaggio” è la discesa per l’imbuto infernale, la risalita lungo il Purgatorio fino
al giardino dell’Eden. La parentela tra il colle di Inferno I e la montagna purgatoriale è evidente, in
entrambi i casi è simboleggiato il fine terreno; solo che il cammino, nel primo caso, è breve, mentre
nel secondo caso è assai più lungo e insidioso. Giova alla comprensione un passo della Monarchia,
dove si osserva che l’approdo terreno, e cioè la felicità di questa vita, diviene assai arduo quando
dilaga la cupidigia, sicuramente proibitivo per la maggior parte degli uomini, forse disponibile a
pochi. Un’avvertenza che nel trattato latino era destinata al monarca universale: “Et cum ad hunc
portum vel nulli vel pauci, et hii cum difficultate nimia, pervenire possint, nisi sedatis fluctibus
blande cupiditatis genus humanum liberum in pacis tranquillitate quiescat, hoc est illud signum ad
quod maxime debet intendere curator orbis, qui dicitur romanus Princeps” (III, xvi, 11). La scena di
apertura della Commedia, con lo spadroneggiare incontrastato della lupa, si riferisce insomma a una
crisi esplosa nella cristianità. In assenza del romanus Princeps, sono venute meno le condizioni normali per giungere al porto; quell’obiettivo adesso è ben più arduo, esige una fatica molto maggiore,
la fatica – per stare alla metafora portante del poema – di un viaggio che si snoda lungo l’Inferno e
il Purgatorio; pochi sono in grado di compierlo, “et hii cum difficultate nimia”.
Dante poeta e profeta
I termini della crisi sono successivamente chiariti fuori da incertezze e ambiguità. Secondo il quadro
restituito, con ricchezza di dettagli, dalla seconda cantica, l’indebita ingerenza della Chiesa nella sfera
temporale, iniziata con papa Silvestro, reo di aver accettato la Donazione di Costantino, ha corrotto la
Sposa di Cristo e al tempo stesso ha indebolito gravemente l’Impero, non senza il concorso dei regni
ribelli all’autorità imperiale e dei municipi italiani a vocazione anarchica. La situazione è precipitata
dopo la morte di Federico II di Svevia; da quel momento, l’Impero ha conosciuto una preoccupante
eclissi, dagli effetti funesti soprattutto nella penisola italiana, che i tre imperatori seguiti a Federico
hanno indegnamente trascurato, al punto di non mettervi piede nemmeno per la cerimonia dell’incoronazione, di norma in programma a Roma. La Chiesa, così, è andata incontro a una mostruosa metamorfosi, tramutandosi da Sposa di Cristo in invereconda prostituta, la grande meretrice di nome Babilonia
effigiata dall’Apocalisse: “Di voi pastor s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque
/ puttaneggiar coi regi a lui fu vista” (Inf., XIX, 106-108). Quanto alla sfera politica, la rivendicazione
della sua assoluta necessità va con il rammarico per il suo dissolvimento: “Onde convenne legge per
fren porre; / convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre. // Le leggi son, ma
chi pon mano ad esse? / Nullo […]” (Purg. XVI, 94-98). Il parallelismo fra l’una e l’altra catastrofe non è
perfettamente simmetrico. Dante può spingersi a dire che il trono di Pietro è vacante, ma si sente obbligato ad aggiungere che questa vacatio è tale “ne la presenza del Figliuol di Dio” (Par. XXVII, 24), dunque
non rispetto agli uomini, che continuano a usufruire della grazia ancora trasmessa, nonostante tutto,
dal canale dell’istituzione ecclesiastica. È l’istituzione politica a risultare del tutto spenta e inefficiente.
Ciò non toglie che il vulnus sia gravissimo anche sul primo fronte.
248
Parte terza. Dante
Una situazione che non può durare: Inferno I annuncia, infatti, l’avvento di un liberatore, il misterioso Veltro, che stanerà la lupa e la farà morire. Ribadisce la profezia con altra immagine, non
meno enigmatica, il canto XXXIII del Purgatorio, preconizzando un Cinquecento diece e cinque sterminatore della puttana (la Curia pontificia nei suoi eccessi temporalistici) e del gigante che delinque
con lei (la casa reale di Francia, responsabile dell’oltraggio di Anagni e della cattività avignonese del
Papato). Su Veltro e Cinquecento diece e cinque si è innescata, fin dagli esordi dell’esegesi dantesca,
una temibile controversia; a giudizio di chi scrive, si tratta di allusioni a un imperatore o comunque a
un fautore della causa imperiale. Il Veltro sarà salvezza di quell’”umile Italia” per cui “morì la vergine
Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Inf., I, 106-108): riferimento che colloca il misterioso
cane da caccia nell’orizzonte di Enea, fondatore dell’Impero romano attraverso un sanguinoso ma
necessario conflitto, premessa di una stabile pacificazione. Quanto al Cinquecento diece e cinque,
esso è invocato al termine di una dichiarazione di fiducia nel principio imperiale, in quell’Aquila che
non potrà a lungo rimanere senza il debito erede (“Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia […]”,
Purg. XXXIII, 37-38). Il liberatore non è però identificabile con questo o quel personaggio storico:
tutti i tentativi effettuati in tal senso, a pro di Arrigo VII di Lussemburgo, di Federico da Montefeltro,
di Cangrande della Scala, rimangono inaffidabili. Dante non ha voluto suggerire delle generalità,
bensì un ruolo e un compito: la restaurazione della monarchia universale e la purificazione della
Chiesa che, sciolta da ogni responsabilità politica, potrà tornare al suo ufficio religioso.
Ci si può domandare se l’accesso di Dante al profetismo perpetri una contaminazione con l’utopia.
Di norma, il Medioevo non conosce utopia e non per caso ignora anche il termine: l’atteggiamento
utopico risulta estraneo alla mentalità medievale. A partire dal XII secolo, tuttavia, è riscontrabile un
filone che in senso lato si può ascrivere all’utopismo, anche se presenta formulazioni ancora appoggiate al dato biblico, com’era inevitabile. Alludiamo alla teologia della storia formulata dall’abate
calabrese Gioacchino da Fiore e successivamente adottata, con l’immissione di alcune varianti, dai
francescani rigoristi Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale. Muovendo dalla classica dialettica
tra Vecchio e Nuovo Testamento, Antica Alleanza e Nuovo Patto, Gioacchino ravvisava un’insufficienza dell’economia inaugurata da Cristo e postulava un ulteriore salto di qualità storico, una terza
età da attribuirsi allo Spirito Santo, così come la prima età si era svolta sotto l’egida del Padre e la
seconda nel segno del Figlio. Caratteri della veniente e finale epoca dello Spirito – la storia ha in
tutto tre aetates o status, risultando in perfetto appiombo con l’articolazione della Trinità divina
– sarebbero stati la contemplazione faccia a faccia della verità, l’eclissi del magistero ecclesiastico, la trasformazione della Chiesa in una comunità esclusivamente contemplativa, la scomparsa
dell’Impero e in genere delle istituzioni politiche. Un progresso incalcolabile rispetto alla fase inaugurata da Cristo. Non per nulla Gioacchino asserisce che lo scarto fra il tempo di Cristo e quello
dello Spirito è analogo allo scarto tra le prime due età. Sintomatico un passo del suo Enchiridion
super Apocalypsim: “et ideo simplex relatio est novi Testamenti ad vetus, et aequa secundi status
ad primum, et tertii ad secundum”. Adottando questo quadro, Olivi e Ubertino vi avevano aggiunto
alcuni elementi tipici del radicalismo francescano-spirituale: la terza età avrebbe anche comportato
l’instaurazione della più rigida povertà, non solo nell’Ordine di Francesco, finalmente all’altezza delle
intenzioni del fondatore, ma nella Chiesa tutta, resa conforme alla vita povera di Cristo e al suo veto
rispetto a proprietà e ricchezze. Ebbene, alcuni studiosi hanno accreditato una vicinanza di Dante a
questo plesso di convinzioni. Coglievano effettivamente nel segno?
La denuncia dantesca del temporalismo dei pastori, l’appello con cui la Commedia chiede una
Chiesa integralmente povera, e cioè non detentrice di proprietà e contenta dello stretto indispensabile, risultano in assonanza con la polemica e l’attesa di Olivi e Ubertino. In certi passaggi, i
rispettivi testi sembrano sovrapponibili. Abbiamo già citato l’esegesi che Olivi espleta di Matth., X,
9-10; potremmo anche addurre la polemica dello stesso maestro francescano contro una Chiesa
249
Parte terza. Sergio Cristaldi
ormai simile alla meretrice apocalittica che ha nome Babilonia. L’accusa scatta nella Lectura super
Apocalipsim: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta, confusa et quasi nova
Babilon effecta”. Ubertino è anche più esplicito di Olivi: redigendo l’Arbor vitae, chiama in causa
Bonifacio VIII e riconosce proprio lui nel simbolismo disforico dell’Apocalisse. La cornice in cui il
rinnovamento della Chiesa deve attuarsi è tuttavia in Dante completamente diversa. La terza età è
irreperibile nel poema sacro, che non ha mai annunciato un’epoca in cui l’umanità non avrebbe più
avuto bisogno delle due guide, come già vide con lucidità Michele Barbi. Il discorso si fa più complesso se da Gioacchino e dal gioachimismo si estraggono alcuni orientamenti di fondo, liberandoli
dalle loro originarie, specifiche formulazioni, per ricondurli a un alto grado di astrazione. Si potrebbe
allora osservare che questa posizione si caratterizza per due vettori, fra loro strettamente connessi,
anzitutto il rifiuto del presente, visto come decadimento e corruzione, e quindi la proiezione verso
il futuro, cornice di una perfezione quasi paradisiaca. Ora, sia la critica del frangente attuale, sia
l’attesa di una liberazione futura sono riscontrabili nella Commedia, almeno per quanto riguarda la
sua disamina delle istituzioni ecclesiastiche e politiche. E tuttavia, Dante si rivela anche a questo
livello di analisi sostanzialmente estraneo all’ottica gioachimita.
La corruzione dell’ora presente, per Gioacchino e ancor più per i suoi seguaci, è in certo modo un
fenomeno inevitabile, inserito in una dinamica storica che procede fatalmente, svolgendo a tempo
debito conseguenze da premesse. A veder bene, questa dinamica, considerata nella sua interezza,
esprime tutt’altro che un declino, è invece inesorabilmente progressiva. Come giustificare, allora, il
punto di difficoltà? I gioachimiti offrono una risposta concorde: la crisi è la transizione indispensabile per l’accesso al nuovo. Affinché un’età nuova cominci, è necessario che la precedente tramonti
e si consumi, così come un’alba può sorgere solo se la giornata che la prepara tramonta e si inabissa
nella notte. Da notare che questo sviluppo storico è sostanzialmente endogeno, convinzione che
ovviamente non può giungere nell’abate calabrese o in Olivi e Ubertino a un consapevole e integrale
immanentismo, eppure si contraddistingue per meditate saldature fra epoca ed epoca, circostanza
e circostanza, per cui lo stesso Cristo – basti qui l’esempio più clamoroso – è la fioritura di un seme
già annidato in solchi remoti del continuum temporale. Dante, invece, coglie la crisi come evento,
dunque come rottura contingente, non necessaria, frutto di scelte che non erano affatto fatali e si
devono ricondurre alla libertà del volere, secondo attesta il fondamentale canto XVI del Purgatorio,
teso a rivendicare il libero arbitrio proprio nella sua meditata premessa alla diagnosi del decadimento del mondo. Analogamente, la liberazione non giunge al termine di una faticosa gestazione storica, ma irrompe in maniera fulminea, troncando le trame in corso di espansione e consolidamento,
ribaltando le tendenze via via maturate, gli esiti cresciuti gli uni sugli altri. Non ci sono premesse
inesorabili di cui il Veltro (o il Cinquecento diece e cinque) profitta, anzi la piega assunta dai tempi
volge in direzione completamente opposta, per cui l’avversario della lupa produce un rovesciamento
inaudito. Sintomatica la riformulazione dell’immagine che poneva il rinnovamento come fioritura.
Questa immagine, di per sé disponibile a suggerire un gradualismo, viene incorniciata entro l’evocazione di un’improvvisa tempesta, di un brusco fortunale in grado di invertire una rotta: “raggeran sì
questi cerchi superni, // che la fortuna che tanto s’aspetta, / le poppe volgerà u’ son le prore, / sì che
la classe correrà diretta; // e vero frutto verrà dopo ’l fiore” (Par. XXVII, 144-148). Si capisce bene
che un fenomeno del genere sia inconcepibile al di fuori di un gesto divino, di una felice ingerenza
del trascendente nella deriva del mondo: “raggeran sì questi cerchi superni”. Quando si osserva che
Dante promette la reintegrazione di un assetto del passato (distinguendosi perciò dal gioachimismo)
si fa un’osservazione esatta, ma occorre allora sottolineare che il ritorno al buon mondo rischiarato
dai due soli realizza un’inopinata inversione di tendenza, da ascriversi a un fattore eccedente rispetto alla temporalità.
L’iscrizione, nel futuro atteso e invocato, del sistema tradizionale delle due guide, risorto dal suo
250
Parte terza. Dante
sfaldamento e di nuovo attivo e incisivo, rivela inoltre la convinzione dantesca di una costituiva
ambivalenza della storia, ambivalenza mai interamente superabile. Se l’Impero e la Chiesa appaiono
necessari è perché il tempo è intessuto di luce e ombra, bene e male, e necessita pertanto sino alla
fine – non potendo mai conquistare in se stesso una perfezione totalmente dispiegata, al netto di
smagliature e lacune – l’ausilio di istituzioni atte a rischiarare la coscienza e a sostenere la volontà.
Dante rinvia decisamente all’aldilà l’avvento della perfezione senza ruga e senza macchia. Giova, a
riguardo, restituire il suo giusto peso al senso letterale della Commedia, insomma al viaggio nell’oltretomba. È stato detto che il gioachimismo rappresenta una rivincita del futuro sull’aldilà; se è
così, la Commedia ripropone la vita eterna come il luogo del compimento totale e definitivo, dove
il desiderio è portato al suo acme e insieme interamente colmato. Una contrapposizione di istanze
sarebbe peraltro indebita e soprattutto non rispettosa della ricchezza del poema. Dante è insieme
profeta del futuro e annunciatore dell’eterno, convinto com’è che il secondo orizzonte valga anche
come garanzia del primo.
251
De Sanctis su Dante: c’è del vero
Stefano Bertani
Tralasciando, o solo sinteticamente accennando ai noti limiti della interpretazione storicistica del
De Sanctis, la relazione vorrebbe avere un carattere epidittico, vorrebbe essere indirizzata cioè a
rilevare i punti di forza e di interesse che la lettura desanctisiana ancora riveste nel contesto contemporaneo, così poco incline a considerare i linguaggi di finzione, ossia dell’arte, come i luoghi
autentici della manifestazione del vero.
Rileggere il Dante di De Sanctis credo aiuti, inoltre, a ribadire l’urgenza di una rivalutazione critica del suo immenso lavoro, soprattutto in relazione al metodo della com-prensione critica del testo,
che sembra essersi dimostrata capace di andare spesso ben oltre le forzature filosofiche o addirittura
ideologiche del suo secolo. Davanti alla bellezza del testo, anche i più radicati ed esaustivi sistemi
interpretativi in De Sanctis pare si siano arresi alle ben diverse e più persuasive ragioni dell’opera
d’arte. Ciò non significa, si badi bene, rinnovare il gentiliano o gramsciano “ritorno al De Sanctis”,
ossia allo storicismo; e neppure derogare alla ricerca e all’apprezzamento della dimensione estetica:
anzi, come ha mostrato proprio De Sanctis con l’intenso lavoro di riflessione teorica intorno alla
Commedia, la storicità della conoscenza letteraria consente, come aveva intuito Vico, di pervenire
a una concezione della poesia più pertinente alla sua specifica natura (si pensi soltanto al concetto
degli universali fantastici vichiani, sintesi mirabile di visione e ragione). In altre parole, solo la precisa distanza storica si rivelerebbe in grado di mettere in luce ciò che in un’opera d’arte storico non
è, ma è eterno, e quindi consentire un autentico dialogo tra uomini che, in tempi e con linguaggi
diversi, vollero però comunicare gli stessi eterni significati. L’alternativa storicistica, lo sappiamo, è
invece la collocazione progressiva di testi isolati nei loro isolati contesti: una museificata galleria
di capolavori, sì, ma ormai estinti. E non saranno certo i metodi diffusi delle analisi del testo, così
impersonali nel loro meccanico cartesianismo, a restituirci di quei capolavori la bellezza e la vitalità.
Tuttavia, sembra che negli ultimi quarant’anni sia prevalsa una sorta di messa in liquidazione del De
Sanctis, unita a una sostanziale indifferenza verso la sua lezione, quasi a lasciar intendere implicitamente che con lui finalmente ci si potesse liberare nello stesso tempo anche dell’ingombrante fardello della dimensione storica nell’interpretazione dei fatti letterari, evidentemente ritenuta ormai
priva di un adeguato status epistemologico, che Vico invece aveva così bene stabilito.
Attraverso tutta la Storia di De Sanctis, per cominciare, si muovono due poli dialettici fondamentali, vale a dire la “scienza”, lo studio colto, elitario, cortese, sistematico e astratto, la rosa; e la
“vita”, l’immersione nel popolare, naturale e concreto, la bonvesiniana vìola: in altre parole, le due
culture, le due letterature, come egli dirà. Ma esiste un solo punto di sintesi lungo tutto il processo
storico, ed egli lo individua proprio all’origine, con la Commedia di Dante, che è riuscita subito, restando insuperata, a fonderli in un’organica unità:
“Nel Convito la sostanza è l’etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl’illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari
rannodate intorno al mistero dell’anima, il concetto di tutt’i misteri e di tutte le leggende, ed è in
questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando
a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature” (De Sanctis 1958).
Entro tale dialettica fra il polo della scienza, incarnato poi sempre nella figura di Beatrice, e quello
252
Parte terza. Dante
della vita, rappresentato dalla faustiana Margherita, nell’opera dantesca De Sanctis individua insomma un punto di sintesi totale della cultura medievale, ottenuta proprio grazie al linguaggio letterario; ma tale sintesi resterà poi estranea alla tradizione letteraria italiana, e tutte le pagine delle
Storia, nel clima post risorgimentale, sembrano perciò ricercare nostalgicamente la sua moderna, e
finalmente anche politica, riattualizzazione.
De Sanctis lettore di Dante
Non c’è dubbio, in ogni caso, che sull’odierno oblio del De Sanctis lettore di Dante pesino diverse
e tutte ben giustificate ragioni. Ne considererò sinteticamente solo un paio. La prima, che chiamerei con il rovescio della celebre formula manzoniana, come una sorta di sfortunata fortuna (o
improvvida ventura), è legata al successo dei Saggi dedicati a singole figure notevoli dell’Inferno: la
celeberrima Francesca da Rimini, il Pier delle Vigne, il Farinata, e il Conte Ugolino. Si capisce anche
da tale fortuna che poi l’idea di una lettura ottocentesca tutta sbilanciata sul fronte infernale della
Commedia sembrava trovasse conferma, senza che ci si avvedesse non dico del “saggio” interamente
dedicato a Beatrice che uscì postumo, nel lontanissimo 1914; ma neppure di alcune altre piccole
ma significative evidenze, che vanno in una direzione interpretativa piuttosto diversa da questa
vulgata. Intanto, ad esempio, nel meno lontano 1955 Sergio Romagnoli, presentando finalmente
l’edizione Einaudi delle lezioni torinesi e zurighesi, osservava assai giustamente “come sia errato
voler considerare i saggi sulle figure infernali al di fuori di una sistematica e unitaria visione della
poesia dantesca, e come sia errato trascurare le nervature che quei saggi collegano a tutta la restante esegesi”. A De Sanctis, insomma, la singola figura interessa sempre come parte di un ‘tutto’,
cui in effetti, e basterebbe davvero scorrere gli indici e i titoli delle lezioni, egli dedica energie e
spazi straordinari quanto per lo più sconosciuti. Ma Romagnoli suggeriva già allora un altro prezioso itinerario interpretativo, rimasto inascoltato, e cioè che “il capitolo sulla Commedia non fu un
semplice riassunto o una rielaborazione delle lezioni torinesi e zurighesi e dei Saggi editi e inediti,
ma una ricreazione”. Vale a dire che la tanto attesa e promessa monografia su Dante, che non ebbe
mai luce in un volume autonomo, quando poi comparve entro la struttura complessiva della Storia,
era divenuta ben altra cosa.
Proviamo allora a vedere, ad esempio, che cosa resta della Francesca da Rimini nella Storia della
letteratura: poche righe, con 13 occorrenze. “La donna non è più Beatrice” scriverà De Sanctis “il tipo
realizzato de’ trovatori, fluttuante ancora tra l’idea e la realtà; qui acquista carattere, storia, passioni,
una ricca e vivace personalità, è Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno”. Senonché,
nel contesto della scrittura della Storia, non ritengo che ciò significhi soltanto che Francesca venga assunta quale archetipico modello di donna moderna e passionale secondo il gusto romantico e realistico
dell’ottocentesco De Sanctis, come per lo più si intende; ritengo invece che significhi innanzitutto che
la Francesca della Commedia è certamente la prima raffigurazione moderna (cioè medievale, in volgare) in virtù di un realismo che perfeziona l’astratto tipo dei trovatori e quindi vada anche oltre la figura
di Beatrice così come appare nella lirica dello stilnovo. Tuttavia, Francesca non va oltre la Beatrice della
Commedia, che infatti mostra ben altro spessore di ‘realtà’ letteraria, come vedremo, tanto da assurgere
a vera protagonista del complessivo commento desanctisiano. Se poi pensiamo a quale fosse il dibattito
contemporaneo al De Sanctis, tutto volto a favore della passionaria Francesca (Hegel escluso, si capisce), l’operazione desanctisiana assume contorni davvero rilevannti. Anche la Beatrice del De Sanctis
è insomma, proprio come la Beatrice della Commedia, una figura in divenire. E dunque, quante pagine
della Storia sono dedicate a Beatrice? Decine, con 118 occorrenze. Tra Francesca e Beatrice, almeno
stando al peso, agli spazi, all’economia delle parti nel tutto, non v’è confronto.
A suffragare ulteriormente il forte interesse del De Sanctis per la figura di Beatrice, e quindi per
253
Parte terza. Stefano Bertani
la dimensione del purgatorio e del paradiso, non sarà inutile osservare però che le citazioni dirette
assunte dalla Commedia nel corpo della Storia sono rispettivamente di 65 versi circa, nel paragrafo
dedicato all’Inferno, per lo più con endecasillabi o terzine isolati; 153 in quello dedicato al Purgatorio, con blocchi di terzine; e infine ben 223 dal Paradiso, con assunzione di pagine intere di testo
che interrompono il commento del De Sanctis, proprio per la dichiarata impossibilità a rendere
altrimenti che col verso dantesco l’immagine straordinaria di una donna ancora amante in pieno
paradiso. E sono dunque terzine quasi tutte dedicate all’”apoteosi” di Beatrice. Dunque, anche solo
da tali rilievi, si può facilmente concludere che la fortunata serie dei saggi critici ha trasmesso una
lettura desanctisiana di Dante che potremo definire per lo meno deformata o sproporzionata.
Resta poi, senza alcun dubbio, il limite dell’impostazione storicistica. Vediamone alcune celebri
tracce dai capitoli danteschi:
“Sublime ignorante, non sapea dov’era la sua grandezza; Così Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva; Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato, come arte,
malgrado l’autore e malgrado i contemporanei; E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo
cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione; Dante stesso è un
barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo: libera ed energica natura”
(De Sanctis 1958).
Sappiamo, è vero, che De Sanctis si serve di questi paradossi - del poeta ‘barbaro’ e grande suo
malgrado - per mostrare meglio la grandezza stessa del poeta (del genio) sulle altre forme di cultura
coeve (basterà leggere quel che dice al proposito nella Giovinezza). Ma, certo, l’idea suggerita di
un poeta ingenuo e senza ragione, che attende solo il filosofo (come sarà quello crociano) che gli
dia senso e coscienza, è un limite interpretativo tanto grave quanto ancora diffusissimo. Lascerei,
nell’economia di questo discorso, la risposta al giovane Auerbach di Dante poeta del mondo terreno
(1929) che, di fronte all’aporia di Vico da lui appena tradotto, si chiedeva quanto fosse “sorprendente che il Vico […] non si accorgeva affatto, o piuttosto non voleva vedere, che aveva davanti un’opera di alta scolastica, di “humana ragione tutta spiegata”, e che il barbaro Dante era molto superiore
a lui, Vico [...] per “sottigliezza d’intelletto”, cioè per esattezza e nettezza di pensiero” (Auerbach
1963). Vorrei tuttavia anche qui precisare meglio la natura delle considerazioni del De Sanctis: fatta
salva l’adesione a quella, potremmo dire, filosofia della storia (ma la storicità vichiana è altra cosa
dal progressismo storicistico), il critico De Sanctis però non è alla ricerca di un superamento idealistico delle categorie dello spirito: ancora una volta, da letterato, quel che gli preme è di mostrare
la specificità del linguaggio dell’arte, cui il filosofico è subordinato. La sua domanda infatti era: “La
materia è comune a tutto un secolo, a ogni specie di scrittore: perché di tanti che trattano la stessa materia uno solo sopravvive? (Saggio sulla versione del Lamennais, in De Sanctis 1955). Perché,
insomma, tutti pensavano con Tommaso e Agostino, con Aristotele e Averroè, con le Leggende e i
Misteri e la Bibbia, ma solo Dante permane e perdura? È davvero il problema del realismo, che trova
il suo vertice non nei linguaggi della scienza ma in quelli di finzione, e che finalmente egli pone in
tutta la sua necessità: “La poesia non si fa a priori”.
Come oggetto l’agire eterno...
Assai poco noto, ma illuminante, è tuttavia il giudizio che l’Auerbach diede sul De Sanctis studioso di Dante, e che consegnò a un suo precoce studio su La scoperta di Dante nel Romanticismo
(1929), per poi, a quanto mi sia dato di sapere, non ritornarvi più. Nella ricostruzione della riscoperta
romantica di Dante, il punto decisivo per Auerbach fu una delle pagine finali dell’Estetica hegelia254
Parte terza. Dante
na, dalla quale egli trasse lo spunto critico decisivo per sviluppare l’idea del suo Dante come poeta
che canta il mondo terreno sullo sfondo dell’eterno. Il passo di Hegel citato nel 1929, e poi assai
ampiamente ripreso e commentato nel saggio su Inferno X di Mimesis, in sintesi è questo: “Invece
di un avvenimento particolare essa [la Divina Commedia] ha a oggetto l’agire eterno, il fine ultimo
assoluto, l’amore divino nel suo intramontabile accadere e nelle sue sfere inalterabili, e come luogo
del suo svolgimento prende l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso ed in questa esistenza immutabile
immette il mondo vivente dell’agire e del patire umano, anzi delle gesta e dei destini individuali”
(Hegel, Lezioni di Estetica). Commenta Auerbach: “Con questa pagina di Hegel si chiude la storia
della riscoperta di Dante nel romanticismo. Quella che seguì fu diligente ricerca pratica dei particolari, interpretazione e traduzione del poema, studio delle vicende del suo creatore”. Senonché,
uscendo dall’orizzonte francese e tedesco, e dopo aver accennato al Foscolo, Auerbach osserva che
“più tardi il pensiero di Hegel trovò in Italia un fertile terreno, e influì soprattutto sul più importante
critico italiano dell’Ottocento, Francesco De Sanctis, che nella sua interpretazione della Commedia,
quanto a conoscenza del testo e capacità di comprendere i singoli particolari, superò di gran lunga tutti i romantici tedeschi, pur rimanendo, nel complesso, estraneo alla concezione hegeliana”
(Auerbach 1970). Un riconoscimento, non vi è alcun dubbio, di notevole spessore, se non fosse che
quei complementi di limitazione (quanto a), la visione miope dei “singoli particolari”, e quella concessiva, circoscrivendo alquanto l’eccellenza di De Sanctis, non preludessero a una conclusione che
va nella direzione dell’affermazione del proprio primato: “A quanto mi risulta, la grande concezione
schellinghiana e hegeliana della Commedia come di una oggettiva e interna motivazione del mondo
terreno cadde, dopo d’allora, in dimenticanza, ed è risorta solo in tempi molto recenti”. Affermazione
il cui senso consiste nel ribadire la diretta assunzione dell’eredità della lettura hegeliana di Dante
alla propria, senza che possano riconoscersi ulteriori mediatori o precursori (senza De Sanctis, insomma); e che dunque l’intuizione di Hegel non sarebbe stata mai più recepita, tanto meno in Italia
(e si avverte chiara sullo sfondo la polemica diretta col Croce), se non solo, e assai più tardi, con il
suo Dante, poeta del modo terreno, che uscirà quasi ottant’anni dopo le lezioni di De Sanctis. Ora,
messa fuori discussione la straordinaria importanza degli studi di Auerbach, che non ha certo bisogno di questo intervento per essere ribadita, mi pare di poter trarre però proprio da essa un qualche
argomento a favore del nostro assunto, ossia la restituzione al De Sanctis lettore di Dante di alcuni
pregi forse troppo disconosciuti, soprattutto in patria. Per esempio, è proprio vero che De Sanctis
non coglierebbe l’“oggettiva e interna motivazione” hegeliana di un Dante che fa della commistione
di terra e cielo la sua cifra unica e irripetibile di “poeta del mondo terreno”? Lascio alla sola lettura
alcuni passi, solo alcuni, dalle lezioni torinesi del ‘54, le più interessanti perché dedicate proprio
all’affinamento del metodo di lettura critico della Commedia, preliminare indispensabile per avviare,
ma solo l’anno successivo, le letture di singoli canti. Sentiamo De Sanctis (1967):
“La porta del futuro è chiusa: l’azione è cessata; ogni vincolo umano e civile, che collega gli uomini sulla terra, è sciolto; [...] Ma [...] il poeta spettatore è come un ponte gittato tra il presente e
l’avvenire. E porta seco tutte le sue passioni di uomo e di cittadino, e fa risonare di terreni gemiti fino
le serene volte del cielo: così ritorna il dramma, e nell’eterno ricomparisce il tempo” (Lezione prima).
Oppure, nella Lezione terza, dove De Sanctis addirittura coglie il guadagno poetico che ottiene
Dante nella rappresentazione del dettaglio realistico proprio a partire dalla collocazione del ‘mondo
terreno’ entro la vastità dell’orizzonte totale. Una considerazione, questa del diretto rapporto fra
ampiezza dell’orizzonte di riferimento, del totale, e precisione nella rappresentazione del particolare, che suggerirebbe almeno di rivedere la semplificata concezione del naturalismo e del realismo
ottocentesco più diffusa. Ecco il passo:
255
Parte terza. Stefano Bertani
“Il dramma di questa vita rappresentato nell’altro mondo, senza scapitare di realtà e guadagnando in altezza, è tanto singolare concezione che, non potuta intendere dalla più parte degli interpreti,
è stata chiamata una mescolanza e qualificata di strana e di barbara; né si è saputo difendere l’unità
della poesia che facendo dell’un mondo il principale, e l’accessorio l’altro. Così Schlegel, ponendo
a fondamento l’altra vita, s’indegna del ghibellismo del poeta, ed Edgardo Quinet rimane choqué,
vedendo che le passioni terrene del cantore si serbano vive fino in Paradiso” (Lezione terza).
Senza voler insistere, ma notandolo però, in quella mescolanza c’è in nuce la teoria mimetica di
Auerbach, oltre che il chiaro giudizio che De Sanctis possedeva sui gravi limiti della critica classicista e romantica, tedesca e francese, coeva. Dunque, nella lezione successiva poteva giungere a
sostenere che
“la concezione dantesca è ancora più vasta. Con Dante vi entra l’accidente ed il tempo e la storia
e la società in tutta la sua vita interna ed esteriore, religiosa, morale, politica, civile: onde nel seno
dell’epopea divina germoglia l’epopea umana [...]” (Lezione quarta).
Il riconoscimento della vincente invenzione dantesca, ossia di un “personaggio” Dante, storico e
vivo, che consente tecnicamente alla finzione letteraria il compenentrarsi di finito ed infinito, e che
sarà così importante per lo sviluppo delle successive interpretazioni, è qui, dopo Hegel e prima di
Auerbach, pienamente acquisito nelle sue decisive conseguenze estetiche.
La figura di Beatrice nella narrazione
L’astratta allegoria diviene quindi insostenibile, per il letterato De Sanctis, che percepisce invece
la concretezza sensibile delle immagini del ragionare dantesco. Il “legame tra mondo divino e mondo
umano” da cui eravamo partiti con i riferimenti allo Hegel, è infatti per De Sanctis “dato da uomini
divenuti santi, da Beatrice, che non è quel simbolo che si suol dire, perché nello stesso paradiso si
sente la donna che Dante appassionatamente amò” (Teoria e storia della letteratura, in De Sanctis
1955). Saranno pure “Dante simbolo dell’uomo, Virgilio della Ragione, Beatrice della Teologia, ecc. E
sta bene. Ma non istà qui il punto. Dante, Beatrice, Virgilio, Matilde, san Bernardo, Lucia, ecc.” non
sono “puri segni del concetto, spogliati di ogni qualità che non risponda a quello”. Con essi, infatti,
“l’allegoria è calata nella lettera, ha negato se stessa e si è fatta lettera” (Lezione settima). “Siccome
l’uomo diviene qui individuo, così la Ragione e la Fede non sono né idee astratte né personificazioni,
ma vere persone” (Lezione ottava).
Sintesi suprema di tutte le invenzioni di Dante, pertanto, ecco giungere la “vera persona” di Beatrice, la “realtà innalzata a verità”. Nella Lezione nona, a Beatrice tutta dedicata, così infatti esordisce e prosegue De Sanctis, proponendo non la figura che sarà di Auerbach, ma la sua categoria di
tras-figurazione, che nella letteratura trova appunto compimento:
- Ma cosa vuol dire Beatrice viva? Forse l’esistere materiale, il reale, lo storico? Il reale è il vero?
È tutto il vero? È il vero poetico? Volgarmente reale e vero è tutt’uno: dicono vero un fatto reale;
falso ciò che è foggiato, l’esistere materiale o il reale è solo la verità; e perciò menzogna la poesia,
bugiardi i poeti.
- Il reale è l’esistere materiale preso per sé, di sua natura accidentale ed arbitrario. Ciascuna
realtà ha la sua poesia soverchiata, oscurata, annullata dagli accidenti: l’ideale è per rispetto al suo
esistere materiale sempre un di là non raggiunto mai; e perciò non può avere nell’esistere la sua
compiuta espressione, tutta la sua verità. E perché la realtà ha in sé questo lato negativo, sorge la
256
Parte terza. Dante
divina necessità dell’arte: e che bisogno avremo altrimenti di lei? Quale sarebbe la ragione del suo
essere? [...]
Non solo dunque il reale non è il vero, ma è il falso, cioè il manchevole e l’imperfetto, non potendo la materia per ciò che ha in sé d’indocile, d’inflessibile e di accidentale esprimere pienamente il
concetto in tutta la sua limpidezza: e la poesia, che il volgo chiama menzogna, la sola poesia è vera.
- Che cos’è dunque la Beatrice della Divina Commedia? È Beatrice donna santificata e idealizzata; è l’antica Beatrice arricchita di tutto ciò di che si è fatta ricca l’anima dell’amante. [...] Così la
nuova Beatrice contiene in sé l’antica, ed è ancora qualcosa di più: è il primo e il secondo amore, la
donna, la santa e l’idea, il passato e il presente di Dante, non figura l’uno dell’altro, ma fusi insieme,
il fantasma del passato trasformato dal tempo e trasfigurato dalla poesia.
- Voi vedete quanta serietà, quanta verità è nel fondo della poesia. Una volta si dicea: la poesia è
finzione. Oggi diremo: la poesia è trasfigurazione, è la realtà innalzata a verità.
Un lettore sui generis della Commedia come è stato Jorge Luis Borges, ebbe modo di cogliere
con precisione l’importanza di questo momento testuale e narrativo, dedicandovi appositamente
un saggio, che aveva intitolato all’Ultimo sorriso di Beatrice, nel quale, tra l’altro, si trova scritto
che “Ozanam (Dante et la philosophie catholique, 1895) ritiene che l’apoteosi di Beatrice sia stato il
tema originario della Commedia; Guido Vitali si domanda se Dante, nel creare il suo paradiso, non
sia stato spinto soprattutto dal proposito di fondare un regno per la sua dama. [...] Io mi spingerei
oltre. Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri
con l’irrecuperabile Beatrice” (Borges 2001). Come anche Borges sembra suggerire, l’“apoteosi” di
Beatrice coincide insomma con l’“apoteosi” della letteratura, che diviene non il linguaggio del “realismo”, ma proprio del “vero”. Il linguaggio letterario, lo afferma con chiarezza teoretica in queste
pagine De Sanctis, è infatti il linguaggio della “verità”, poiché consiste nella “trasfigurazione”, che “è
la realtà innalzata a verità”. La letteratura permetterebbe in altre parole di far vedere non il realistico
o l’ideale, che sarebbero appunto entrambe visioni parziali, ma la loro relazione, il loro rapporto, nel
quale solamente starebbe la verità di tutta la realtà. La Beatrice della Commedia porterà quindi a
compimento la realtà della Beatrice storica, come essa sarebbe dovuta essere, compiendo davvero la
profezia di Dante, e senza bisogno di attendere l’al di là, poiché la letteratura consegna alla storia
una sorta di “centuplo”, una sorta di riparazione delle ingiustizie, delle incompiutezze dell’esistenza,
mettendo in relazione, come direbbe Seamus Heaney, l’infinito “ottativo” della poesia con il finito
“indicativo” della storia. Compendio di tutta la cantica, e insieme di tutto il percorso artistico di
Dante, sintesi di tutti i generi sperimentati, saranno infine le terzine dedicate a Beatrice:
“Il vero significato del paradiso – afferma De Sanctis nelle pagine conclusive del capitolo – è
nell’inno di Dante a Beatrice e nell’inno di san Bernardo alla Vergine, ne’ quali è il paradiso guardato
dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo” (De Sanctis 1958).
Così sulla pagina letteraria noi potremo accedere infine alla visione concreta della effettiva totalità dell’esperienza, cui la letteratura di ogni tempo nei suoi diversi modi anela. Essa è infatti
composta, come l’ultima Beatrice di Dante, da quell’inestricabile intrecciarsi di corpo e di anima, di
accadimenti particolari e desideri universali, che fanno il vero tessuto della vita dell’uomo e che solo
la lingua dell’arte è abilitata dalle muse a riconoscere e a rappresentare. Se Francesca è “la prima
donna del mondo moderno”, Beatrice ne sarà, in virtù della sua figurazione e finzione letteraria, la
prima e più “vera”.
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T.S. Eliot: l’audacia di tornare a Dante
Francesco Valenti
T.S. Eliot, Dante e il mondo moderno
Per quanto sembri paradossale, un poeta come Thomas Stearns Eliot, che nel 1928 osò definirsi
“cattolico, monarchico e classico”, è uno degli scrittori più conosciuti, letti e amati di questa nostra
epoca di “atei dignitosi”, il cui unico monumento sarà “la strada asfaltata / e un migliaio di palline
da golf perdute” (Choruses from “The Rock”, 1934, III). I suoi ammiratori modernisti ne sono spesso
spiazzati, ma tutta la sua poesia è ancora viva, riuscendo nel miracolo di immettere il linguaggio
della poesia nelle cose che contano nel mondo e riallacciare i fili e l’interesse verso altri
poeti del passato. Attraverso di lui il Novecento si è legato al più grande poeta del mondo medioevale; a questo approdo fu accompagnato dalla cultura americana innamorata di Dante (Praz 1970):
dall’amico Pound (1910), risalendo al Longfellow e al Dante Club, sino a Ralph Waldo Emerson, che
tradusse la Vita Nova.
L’attenzione e l’affinità che Eliot ebbe per Dante furono costanti lungo tutto l’arco della sua vita,
sviluppandosi anche in tre saggi critici, dedicati al poeta fiorentino e pubblicati nel 1920 (Dante, in
The Sacred Wood), nel 1929 (Dante, libretto suddiviso in tre sezioni, dedicate all’Inferno, a Purgatorio e Paradiso e alla Vita Nuova) e nel 1950 (What Dante Means to Me, in To Criticize the Critic). In
tutte le poesie di Eliot, poi, è presente una mole di letture e di citazioni, allusioni, imitazioni dell’opera di Dante. Eliot apre e significa la sua prima raccolta poetica e la prima poesia ivi inserita, il Love
Song of J. Alfred Prufrock, 1917, con un’epigrafe che riprende le parole di Guido da Montefeltro da
Inferno XXVII, 61 – 66: “S’i’ credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, /
questa fiamma staria sanza più scosse; / ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun,
s’i’ odo il vero, / sanza tema d’infamia ti rispondo”. Analogamente a Guido, che si danna a causa
della propria incertezza, il personaggio perplesso di Prufrock vive nel “tempo di cento indecisioni”,
muovendosi su “strade che si succedono come un tedioso argomento / con l’insidioso proposito /
di condurti a domande che opprimono”, incapace di rischiare personalmente, di compiere un balzo
che lo innalzi sopra un mondo le cui caratteristiche richiamano l’inferno. Incompreso e timoroso,
come Guido in Dante egli accetta di discendere nell’inferno di chi offre il suo accordo al male (Kirk
1988: 58).
In The Waste Land, 1922, Eliot prende da Dante la dedica a Ezra Pound, indicato come il “miglior
fabbro” (Purg. XXVI, 117), con evidente allusione alla storia compositiva della poesia, che, com’è
noto, è una delle delizie dei filologi del ‘900. Anche se il poeta, interpellato sulla questione, si celò
dietro alla difficoltà di ricordare la cosa con precisione, il titolo stesso del poema eliotiano richiama
Inferno XIV, 94-96 e i versi “‘In mezzo mar siede un paese guasto’, / diss’elli [Virgilio] allora, ‘che
s’appella Creta, / sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto’, che il Longfellow aveva tradotto con “‘In the
mid-sea there sits a wasted land’/ said he thereafterward, ‘whose name is Crete, / under whose king
the world of old was chaste’” (Mazzoni et al. 2002). L’intero poema eliotiano presenta allusioni e richiami all’opera dantesca, che Eliot svelò anche nelle celebri note accluse alle edizioni di The Waste
Land, cui si rimanda. Ancora in The Hollow Men, 1925, la descrizione prende spunto dagli occhi che,
“nel regno di sogno della morte / .. non appaiono”. Il tema degli occhi incontrabili che salvano, quali
258
Parte terza. Dante
quelli di Beatrice o di Maria, “occhi da Dio diletti e venerati”, ricorre nella poesia come premonizione
di una speranza reale (Sanesi 2001):
Privati della vista, a meno che
gli occhi non ricompaiano
come la stella perpetua
rosa di molte foglie
del regno di tramonto della morte
la sola speranza
degli uomini vuoti.
Quando comincia a uscire dalla ricognizione dell’abisso, e si incammina sulla strada della speranza, Eliot prende a guardare a Dante come al poeta capace di descrivere simboli che il mondo già
contiene e di dare parola a ogni stato della beatitudine, non solo nei termini di vaga soddisfazione
umana, ma come possibilità di ampiezza della felicità. Negli Ariel Poems, e in particolare in Animula,
1929, che approfondiamo più oltre, Eliot prova a confrontarsi con uno dei passi più carichi di quella
ch’egli stesso definisce “filosofia percepita” di Dante, riprendendo i primi balbettii e la maldestra
riuscita dell’“anima semplicetta”, che Dante aveva descritto in Purgatorio XVI, 85 ss.
In Ash – Wednesday, 1930, oltre a quella dell’amico-nemico Guido Cavalcanti, l’eco dantesca è
presente nel richiamo all’aquila, alla rosa, ad Arnaut Daniel e al trionfo dei canti finali del Purgatorio. Qui, nella sezione IV - dopo il cammino ascensionale della III sezione, con allusioni, in termini
danteschi, alla scala della visione di Giacobbe -, appare il tema del tempo redento che, come si
vedrà, è emblema dell’incontro tra Eliot e Dante:
Ecco gli anni che passano in mezzo, portando
lontano i violini e i flauti, ravvivando
una che muove nel tempo fra il sonno e la veglia, che indossa
luce bianca ravvolta, di cui si riveste, ravvolta.
Passano gli anni nuovi, ravvivano,
con una splendida nube di lacrime, gli anni, ravvivano
la rima antica con un verso nuovo. Redimi
il tempo. Redimi
la visione non letta nel sogno più alto
mentre unicorni ingioiellati traggono il catafalco d’oro.
Un’opera eliotiana particolare è quella del dramma sacro The Rock, 1934, il cui testo è scritto a
più mani ed è finalizzato ad alcuni spettacoli per raccogliere fondi in favore delle chiese dei nuovi,
immensi sobborghi di Londra, destinate principalmente alle famiglie degli operai che lì andavano a
vivere. La Chiesa di Inghilterra, che era stata descritta come “il partito dei Conservatori inginocchiato”, una chiesa di gente della buona società, con gentleman come parroci, avrebbe potuto ancora
parlare agli inquilini della Greater London che cresceva attraverso dei monotoni complessi di alloggi
popolari? (Kirk 1988: 221). La sfida è per Eliot particolarmente stimolante, perché, da un lato, gli
permette di rendere concreta la sua idea di tradizione come continuità nel presente e, dall’altro,
gli offre l’opportunità di precisare la voce morale e sociale della poesia, che nasce in lui proprio
dall’esperienza di The Rock e si sviluppa nei cinque testi teatrali che mette in scena dal 1935 al
1958. Negli anni dei totalitarismi di Mussolini, Stalin e Hitler, in cui “la scelta che abbiamo davanti
[è] fra la costruzione di una nuova cultura cristiana e l’accettazione di una cultura pagana” (The
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Parte terza. Francesco Valenti
Idea of a Christian Society, 1939), negli anni in cui si vanno “distruggendo i nostri antichi edifici,
per predisporre il terreno sul quale i barbari nomadi del futuro accamperanno le proprie carovane
motorizzate” (Notes Towards the Definition of Culture, 1948), Eliot persegue, dantescamente, la linea
della tradizione non aristocratica della poesia europea.
Il tema della redenzione del tempo è presente con continuità nei Choruses from “The Rock” - che è
la parte poetica del dramma sacro che Eliot ha scritto da solo e, da allora, pubblicato nelle sue opere.
Ed è un tema-chiave, come si è visto, della poesia eliotiana. L’aquila dantesca che “si leva a volo alla
sommità del Cielo” nel primo verso dei Choruses lascia spazio alla storia dell’umanità per la quale, a
un certo punto del proprio cammino, accade qualcosa di straordinario:
un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,
un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando,
bisecando il mondo del tempo, un momento del tempo ma non come momento di tempo,
un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato
non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato.
Per alcuni aspetti non diversamente dalla visione beatifica di Dante, in Eliot lo sguardo del mondo e del suo significato si precisa, perciò, come accettazione o rinnegamento di quel momento di
redenzione del tempo che è l’incarnazione.
L’anno successivo, Eliot mette in scena Murder in the Cathedral, la cui ambientazione medioevale
è già notevolmente dantesca per la storica narrazione di una vita alla luce del destino. Guardare
l’esistenza come espressione dell’ordine voluto da Dio, leggere anche la morte come segno della
Sua volontà, precisare le parole nei diversi livelli e contesti di significazione: ecco il dramma sacro
che Eliot propone, quasi un diffuso commento a Piccarda in Paradiso III, 85, “E ‘n la sua volontate è
nostra pace”.
Tra i numerosi riferimenti dei Four Quartets, 1936 – 1942, Dante è meditato nel continuo richiamo a una poesia filosofica e esplicitamente imitato nella parte II di Little Gidding, in alcune terzine
nelle quali Eliot si rifà all’incontro con Brunetto Latini di Inferno XV, riconoscendo “lo sguardo di un
maestro morto / conosciuto, obliato, in parte ricordato, / e uno e molti; il cotto aspetto bruno / gli
occhi aveva d’uno spettro famigliare”. Questi gli ricorda la saggezza che non è sapienza e che non
salva, perché “l’esasperato spirito procede di sbaglio in sbaglio / se non lo emenda il fuoco purificatore / nel quale devi muovere in cadenza, come in danza”. Il tema dominante dei Four Quartets, che
ruota attorno al motto di Maria Stuarda, “en ma fin est mon commencement”, è ancora quello del
cammino della vita nel mezzo del tempo, che giunge a legare la fine all’inizio, per quanto esprimono
il senso nel destino. Riprendendo, spesso esplicitamente, i Choruses from “The Rock”, Eliot scrive in
The Dry Salvages, V:
La curiosità degli uomini indaga il passato e il futuro
e s’attiene a quella dimensione. Ma comprendere
il punto di intersezione del senza tempo
col tempo, è un’occupazione da santi e nemmeno un’occupazione, ma qualcosa ch’è dato
e tolto, in un annientamento di tutta la vita nell’amore,
nell’ardore, altruismo e dedizione.
A questo comprendere, “ch’è dato e tolto”, ognuno può giungere attraverso le cose, che risvegliano la consapevolezza del tempo:
260
Parte terza. Dante
Per la maggior parte di noi non c’è che il momento
a cui non si bada, il momento dentro e fuori del tempo,
l’attimo di distrazione, perso in un raggio di sole,
il timo selvatico non visto, o il lampo d’inverno
o la cascata, o una musica sentita così intimamente
da non sentirla affatto, ma finché essa dura
voi stessi siete la musica.
La visione del tempo redento si manifesta nell’apparente semplicità dell’unione con la misura e la
bellezza della musica e, come si è visto sopra, della danza, come nelle carole del Paradiso dantesco.
Non lo sforzo della visione ultraterrena, dunque, ma l’accettazione del legame tra il temporale e
l’eterno, in Cristo, è la rappresentazione eliotiana della beatitudine (The Dry Salvages, V):
L’accenno mezzo indovinato, il dono mezzo capito, è l’Incarnazione.
Qui è l’impossibile unione di sfere dell’essere, in atto.
Qui sono il passato e il futuro
conquistati e riconciliati.
Come altri poeti del Novecento, Eliot si rifà a Dante anche perché ritrova in lui un aspetto non
intellettualistico della poesia. Un caso particolare di questa semplicità poetica si ritrova anche in un
libretto pubblicato da Eliot nel 1939, Old Possum’s Book of Practical Cats, che il destino ha voluto
diventasse uno dei musical più visti della storia, con 7485 rappresentazioni dal 1981 al 2000. La
voce della poesia nei gatti diviene la ricerca del nome:
Quando tu noti un gatto meditare profondamente,
la ragione, ti dico, è sempre uguale:
fitta ha la mente, rapìto in contemplazione
dell’idea, dell’idea, dell’idea del suo nome:
il suo ineffabile effabile
effineffabile
alto e inscrutabile unico Nome.
Come ricorda Eliot nel suo ultimo rilevante saggio - elaborazione di una conferenza tenuta all’Università di Leeds nel luglio 1961, dove prende in esame gli scrittori che hanno esercitato un’influenza sulla sua opera: “c’è tuttavia un poeta che mi ha vivamente impressionato quando avevo ventidue
anni e che avvicinai solo con una rudimentale conoscenza della sua lingua per districarne i versi, un
poeta che è ancora conforto e meraviglia [comfort and amazement] della mia età attuale…Il poeta
di cui parlo è Dante”.
Il percorso complessivo dell’opera eliotiana, dall’inferno di Prufrock alla redenzione del tempo
in un punto dei Choruses from “The Rock” al paradiso dell’Incarnazione dei Four Quartets, appare
segnato dal confronto con Dante.
Quanto segue intende dunque approfondire, anche se per punti sommari, alcune caratteristiche
proprie e specifiche dell’opera eliotiana e, in essa, della consapevole ripresa nel mondo attuale del
cammino e dell’influsso dantesco.
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Parte terza. Francesco Valenti
Dante e l’idea di tradizione
In che senso, a 73 anni, Eliot può considerare Dante “ancora conforto e meraviglia” del tempo
che sta vivendo? La risposta a questa domanda apre alla considerazione del linguaggio della poesia
nell’epoca che definiamo moderna e sviluppa la possibilità di un legame sempre vivo con il passato.
La lettura e l’ammirazione per Dante, infatti, impongono, in qualche modo, l’esperienza del valore
conoscitivo della poesia nel mondo di oggi, nel quale si dà per scontato l’imprecisione dei suoi riferimenti, preannunciata dalla morte storicistica dell’arte, combattuta dalla serietà dei linguaggi pratici
e, infine, depauperata dall’inconsistenza attribuita oggi alla natura fondamentale della realtà. Ed
invece, per Eliot, la carica significativa del linguaggio, la percezione delle cose nel loro ordine costitutivo, la densità reale e non caotica dell’immaginazione – della visione delle cose future –: tutto
questo, e molto altro, la lettura di Dante rende possibile e permanente.
Non è, pertanto, un semplice caso che Eliot riprenda e sviluppi sin dagli anni della sua prima raccolta
di saggi critici, The Sacred Wood, 1920, l’idea di tradizione, intendendola non come un’eredità scontata, ma una vicendevole influenza del passato e del presente in direzione del futuro. Non per un gusto
accademico ci si rivolge ad un passato tanto importante quanto, però, immobile. Per Eliot la tradizione
non ha un valore storicistico, ma esprime la necessità che chi scrive ora tenga presente tutto il passato
e sia da esso modificato, così come il passato è modificato da chi scrive ora. “Quando nasce una poesia
è accaduta una cosa nuova che non può essere interamente spiegata da qualsivoglia cosa avvenuta prima” (The Frontiers of Criticism, 1956). Perciò “i monumenti esistenti formano fra loro un ordine ideale
che viene modificato con l’introduzione fra loro di una nuova – veramente nuova - opera d’arte. Prima
che la nuova opera arrivi, l’ordine esistente è completo; perché l’ordine si mantenga dopo l’inserimento
della novità, l’intero ordine esistente dev’essere, seppure di poco, alterato” (Tradition and the Individual
Talent, 1919). Vi è anche un aspetto interessante della tradizione poetica, quella della profezia, che
Eliot approfondisce nel suo saggio su Virgilio (quel Virgilio cristiano così ben compreso da Dante) e che
fa sì che il poeta possa parlare di virtualità non ancora compiutamente espresse.
Per Eliot, dunque, la tradizione è certamente un fatto del passato da giudicare, ma, a sua volta,
obbliga a un giudizio sul presente che dev’essere attentamente considerato. Perciò, in definitiva, non
si tratta di rendere eterne alcune opere canoniche, ma di “guardare alla letteratura attentamente e
guardarla nella sua interezza; e ciò significa soprattutto guardarla non come consacrata dal tempo,
ma guardarla al di là del tempo” (Introduzione a The Sacred Wood, 1920). Come afferma in Four
Quartets. East Coker, 1940, V, 15-18:
C’è solo la lotta per recuperare ciò che è stato perduto.
E trovato e perduto, ancora e ancora: e ora in circostanze
che sembrano non favorevoli. Ma forse non c’è guadagno o perdita,
per noi, c’è solo da tentare. Il resto non ci riguarda.
Allegoria e poesia: parlare d’altro che le cose stesse fanno di sé
Il medioevo esprimeva in termini allegorici le proprie convinzioni a riguardo della storia umana
dalla creazione all’ultimo giorno, della ricerca del vero nelle artes liberales, dei vizi e delle virtù,
come è possibile ammirare sulle facciate delle cattedrali gotiche francesi, o sui capitelli del Palazzo
Ducale di Venezia, o nella Cappella Scrovegni di Padova. Nell’esposizione della bellezza e della verità,
si potrebbe affermare che l’uso dell’allegoria è analogo a quello della storia antica, del mito, della
storia e della parola sacra, e rappresenta per il medioevo una educazione complessiva cui difficilmente avrebbe rinunciato (Mâle 1986).
262
Parte terza. Dante
L’idea fondamentale di tradizione come permanenza che Eliot ha sviluppato, lo ha portato anche
a ritrovare, muovendo proprio dalla poesia di Dante, il valore allegorico della poesia come possibilità
per il poeta di dare senso all’immagine e immagine alla verità. “Dobbiamo considerare quel tipo di
intelletto che, attraverso la natura e l’esperienza, cercò di esprimersi in termini allegorici: e, per un
poeta capace, allegoria significa chiare immagini visive. E un’immagine visiva chiara sarà tanto più
intensa se dotata di significato” (Dante [II], 1929). Tale significato non è creato intellettualmente
dallo scrittore, ma riposa nelle cose stesse, in un mondo già dotato di senso perché creato da Dio
e che l’arte dell’uomo ha il compito di tentare di svelare. Perciò, la capacità allegorica del poeta,
come quella di Dante che “riesce con tanta maestria a tradurre l’inapprendibile in immagini visive”
(id.), è quella di sviluppare una sensibilità credibile, che noi accettiamo e attraverso la quale ci affidiamo alle parole e alle immagini che tale sensibilità propone, come sicura navigazione non solo
nel piccolo orizzonte del già conosciuto, ma nel grande mare dell’essere. La lotta con le parole di
Dante “consiste nel far vedere a noi ciò che egli ha visto”, poiché “mai in poesia un’esperienza tanto
remota da quella quotidiana è stata espressa in modo così concreto, attraverso l’impiego accorto di
quella poetica della luce che è la forma di certi tipi di esperienza mistica”(id.). Affermare e accettare
l’allegoria, perciò, significa rendere conto dell’oggettività del reale e del suo ordine: “essa consiste
in una scala ordinata dei sentimenti umani”. E “quella di Dante è la più esauriente, e la più ordinata
presentazione di sentimenti che sia mai stata fatta” (Dante [I], in The Sacred Wood).
Filosofia e poesia: la metafisica poetica (le idee si vedono)
Nel saggio The Perfect Critic pubblicato in The Sacred Wood, 1920, Eliot afferma che “la distinzione confusa che esiste in molte teste tra ‘astratto’ e ‘concreto’ non dipende tanto dal fatto manifesto dell’esistenza di due tipi di mentalità, l’una astratta e l’altra concreta, quanto all’esistenza di
un terzo tipo, la mentalità verbale, o filosofica”. Tale mentalità si è introdotta in tempi recenti e si
è sviluppata, soprattutto, come irresponsabilità verso il linguaggio, disancorato dal mondo vero. È
vero che nel lungo percorso della filosofia, secondo Eliot, “il filosofo, per buona parte della storia, si
è sforzato di occuparsi di oggetti che per lui avevano la stessa esattezza di quelli del matematico”;
così Aristotele, “in qualsiasi sfera di interessi si trovasse a operare, guardava unicamente e fermamente l’oggetto che gli stava davanti”, la qual cosa gli permette di compiere “rapidamente l’analisi
della sensazione fino a ricavarne il principio e la definizione”. La confusione si è fatta strada quando
si è rinunciato al linguaggio dell’oggetto e si è proceduto verso il verbalismo: “alla fine venne Hegel,
e se non fu il primo, forse, fu certo il più prodigioso esponente della sistemazione dei sentimenti, in
quanto trattò i propri sentimenti come se fossero la stessa cosa degli oggetti definiti che gli avevano suscitati. I suoi discepoli, di regola, hanno preso come scontato il fatto che le parole abbiano
dei significati precisi, trascurando di osservare che le parole tendono invece a diventare sentimenti
indefiniti”.
A tale pervertimento linguistico, Eliot contrappone la qualità anche filosofica del linguaggio poetico, così come egli ritrova particolarmente in Dante. Nel saggio Dante, pubblicato nel medesimo The
Sacred Wood, 1920, contrapponendosi ad alcune osservazioni di Paul Valéry, Eliot prende in esame
la poesia filosofica di Lucrezio e poi quella di Dante, affermando che il compito del poeta è quello di
rendere le idee che esprime come parte accettabile dalla nostra esperienza. “Lo naturale è sempre
sanza errore, / ma l’ altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore (Purg. XVII,
94-96). Qui non stiamo studiando la filosofia, la vediamo, come parte del mondo carico di ordine”.
La verità è in relazione con il linguaggio e l’esperienza, perché questi non possono mentire, almeno
continuativamente. “Dante, più ancora di ogni altro poeta, è riuscito a trattare la sua filosofia non
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Parte terza. Francesco Valenti
come teoria (nel senso moderno e non greco della parola) o come suo commento o riflessione, ma
in termini di cosa percepita”.
Ragione e poesia: significar per verba (moral imagination)
Quale ragione ha dunque ancora la poesia nel nostro mondo? Se il poeta interpella la realtà con
la totalità della propria domanda su di essa, quale credibilità può dunque esprimere? L’intera opera di Eliot è lì a dimostrarlo, ed essa ha avuto proprio da Dante la sua consapevolezza. Nel saggio
What Dante Means to Me, 1950, Eliot afferma che “il lavoro del poeta, per rendere comprensibile
alla gente ciò che è incomprensibile, richiede immense risorse linguistiche; egli, sviluppando il linguaggio, arricchendo il significato delle parole e mostrando di che cosa sono capaci, fa sì che altri
uomini dispongano di una gamma molto più vasta di emozioni e percezioni perché fornisce loro
lo strumento con il quale possono essere meglio espresse”. È il metodo specifico della poesia come
immaginazione morale (Kirk 1988), che consiste nell’esprimere la comprensione propria dell’uomo
attraverso il coinvolgimento dell’affetto nell’emozione. L’arte ci aiuta a pensare il mondo reale anche nel suo ordine, perché ce lo fa vedere. Nel tempo di privazione che caratterizza la nostra epoca,
la qualità dell’espressione poetica permette la plausibilità percettiva della totalità del reale, fonte
inesauribile di scoperte e di idee. Scopriamo, così, che anche studiando Dante “ciò che ci serve non
è informazione ma conoscenza” (Dante [II], 1929).
Eliot al seguito di Dante: “Animula”, 1929
Nel 1929 Eliot scrive la poesia Animula, che egli pubblica nel medesimo anno nella serie Ariel
Poems e di cui Eugenio Montale, attento commentatore della poesia eliotiana, compie una celebre traduzione. Lo spunto del titolo proviene dalla poesia dell’imperatore Publio Adriano, riportata
nell’Historia Augusta: “Animula, vagula, blandula / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in
loca / pallidula, rigida, nudula, / nec, ut soles, dabis iocos...”. La poesia eliotiana riprende, con esplicita citazione nel primo verso, la descrizione poetica e filosofica dell’anima semplicetta che Marco
Lombardo compie nei memorabili versi di Purgatorio, XVI, 85 – 96. In questa poesia, che nasce come
esplicito paragone con il testo dantesco, Eliot, dunque, descrive l’anima semplicetta dell’uomo che,
uscita dalle mani di Dio, così si conduce:
volge a un mondo piatto di mutevoli luci e di rumore,
alla luce e alla tenebra, alla secchezza o all’umido, al gelo o al calore;
si muove fra le zampe di tavole e sedie,
alzandosi o cadendo, afferrandosi a baci e balocchi,
avanza ardita, all’improvviso allarma, si rifugia
nell’angolo di un braccio o di un ginocchio, pronta a farsi
rassicurare, prendendo diletto
del fragrante brillìo dell’albero di Natale,
e diletto del vento, della luce del sole e del mare.
E mentre in Dante l’inganno consiste nel correre dietro al piccolo bene di cui ha sentito il sapore,
in Eliot, e nell’uomo di oggi, questa è la condizione:
il pesante fardello dell’anima che cresce
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Parte terza. Dante
rende perplessi e offende sempre più, di giorno in giorno;
di settimana in settimana offende e sempre più
rende perplessi con gli imperativi dell’essere e apparire
e del si può e non si può, del desiderio come del ritegno.
E così, “il dolore del vivere e la droga dei sogni / piegano l’anima piccola che siede / accanto alla
finestra dietro l’Encyclopaedia Britannica”. La ridicola sostituzione del tempo di Dio, così colmo di
senso, con l’enciclopedismo alfabetico che non può donare alcuna direzione, rende l’anima sempre
più in balìa del tempo insensato:
Esce di mano al tempo l’anima semplicetta
irresoluta e egoista, deforme, zoppicante,
incapace di spingersi in avanti come di retrocedere,
timorosa della calda realtà, del bene offerto,
negando il sangue come un importuno,
ombra delle sue stesse ombre, spettro della sua tenebra,
lasciando carte in disordine in una stanza polverosa;
vivendo per la prima volta nel silenzio che segue al viatico.
L’anima così confusa è accompagnata dalla preghiera, che riesca a legare l’origine, presente nella
nascita, alla vita dell’uomo:
Prega per Guiterriez, avido di successo e di potere,
per Boudin saltato in pezzi,
per chi ha fatto una grande fortuna,
e per chi seguì la sua strada.
Prega per Floret, sbranato dai segugi fra gli alberi di tasso,
prega per noi ora e nell’ora della nostra nascita.
Con l’immagine della redenzione del tempo, che riprende insieme la semplicità della preghiera
cattolica a Maria e il motto di Maria Stuarda (“nel mio principio sta la mia fine”), si chiude la parabola delle anime dantesche, morte di quella morte violenta che è uno dei simboli drammatici della
nostra epoca.
265
Parte terza. Dante
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“L’Alighieri”. Rivista di accurata selezione dei materiali e diffusa nelle biblioteche.
http://dante.dartmouth.edu/. È un repertorio eccezionale, progettato e sviluppato tra il 1982 e il
1988 dallo stesso Hollander: contiene il testo integrale di oltre 70 commenti alla Commedia (verso
per verso), dai più antichi fino ad alcuni recentissimi.
http://etcweb.princeton.edu/dante/index.html. Inaugurato il 18 maggio 1999. Analogo al precedente ma di più agile consultazione, contiene fra l’altro la versione inglese del poema e letture audio
del testo in italiano, di Lino Pertile, docente alla Harvard University, e in inglese.
http://www.princeton.edu/~dante/ebdsa/. Si tratta dell’ormai celebre “Electronic Bulletin of the
Dante Society of America” fondato nel 1995 da Robert Hollander, emerito della Princeton University
(Princeton, New Jersey), e il cui attuale editor è Richard Lansing della Brandeis University (presso
Boston, Massachussets).
http://dante.it.columbia.edu/. Altro sito americano ufficialmente titolato Digital Dante Project ILT, di agile consultazione, soprattutto utile sia per la varietà delle risorse testuali e iconografiche
sia per la classica traduzione inglese interstrofica del poema fornita nel 1867 dal poeta statunitense
Henry W. Longfellow.
www.danteonline.it/italiano/home_ita.asp. Il sito della Società Dantesca Italiana, con testo completo interrogabile di tutte le opere di Dante, l’elenco di tutti i manoscritti della Commedia (molti
dei quali visionabili), una bibliografia vastissima ripartita per argomenti.
269
Conclusioni.
A chi ha il coraggio di fare scuola
Il dialogo critico come forma ideale dell’educazione
Eddo Rigotti
La scuola come opera comunitaria
Carlo Wolfsgruber
271
Il dialogo critico come forma
ideale dell’educazione
Eddo Rigotti
“Dialogo critico” è un sintagma nominale formato da due parole, ciascuna con un ampio e incerto
spettro semantico. Ne nasce una percezione di vaghezza di cui spesso si abusa e così ambedue le
parole possono diventare delle trappole manipolatorie.
Pare che per esercitare la virtuosa pratica del dialogo l’ideale sia non avere una propria posizione.
L’assenza di posizione, ossia di giudizio è sentita, anzi spesso è imposta, come garanzia di apertura,
di lealtà al gioco dialogico. La purezza del gioco dialogico – soprattutto in una prospettiva consensualistica – pare rappresentare l’unica strada per la costruzione di un giudizio affidabile. Così, se pur
si ha un giudizio, l’entrata in dialogo pare impegnarci a sospenderlo, a disattivarlo. E, peraltro, la
caccia a pretesi pregiudizi e preconcetti diventa un gioco di potere1.
L’abuso manipolatorio della parola critico pare addirittura più esteso. Voci lessicali imparentate,
di largo uso nel linguaggio quotidiano, come criticare, critica, criticone, legano il termine critico a
una sorta di piacere della negazione, del diniego, di gusto della messa in primo piano del limite, di
sottolineatura del trionfo del male. L’aggancio alla sfera del negativo è ribadito dall’uso della parola
critico come aggettivo di crisi intesa per lo più non come momento decisivo, ma come momento
rischioso. È una stranezza, quasi una perversione: chi, per principio, rifiuta, chi privilegia nella sua
visione il limite e il male, in qualche modo rassicura perché è al tempo stesso astuto (“A sospettare
si fa peccato, ma si indovina”) e serio, anzi severo. Il critico non si lascia “far su” dall’euforia, evita
che il negativo ci sorprenda, applica nei suoi assessment alti standard di qualità, è esigente, anzi
intransigente, depositario esclusivo di una moralità rigorosa.
C’è un uso diverso, ma non meno pretensioso della parola critico che non attiene al rigore morale,
ma al rigore della concezione, del giudizio, della Weltanschauung, che insomma riguarda la sfera
delle conoscenze e delle opinioni. Qui la pretesa criticità, altrettanto intransigente e superciliosa,
punta a sradicare l’interlocutore, a screditare ogni appartenenza, a scartare subito ogni tràdito,
1 È interessante in proposito la fallacia “Poisoning the well” che è stata rilevata da J.H. Newman e poi analizzata da D.
Walton (Walton 2006). Riporto le interessanti considerazioni di Copi I.M. e Cohen C. (1998: 169) riportate da D. Walton
(2006):
One argument of this kind, called “poisoning the well,” is particularly perverse. The incident that gave rise to the name
illustrates the argument forcefully. The British novelist and clergyman Charles Kingsley, attacking the famous Catholic intellectual John Henry Cardinal Newman, argued thus: Cardinal Newman’s claims were not be trusted because, as a Roman
Catholic Priest, (Kingsley alleged) Newman’s first loyalty was not to the truth. Newman countered that this ad hominem
attack made it impossible for him and indeed for all Catholics to advance their arguments, since anything that they might
say to defend themselves would then be undermined by others’ alleging that, after all, truth was not their first concern.
Kingsley, said Cardinal Newman, had poisoned the well of discourse –. Continua Walton:
Newman was so upset by Kingsley’s attack that he wrote a whole book, Apologia pro vita sua (1864), directed to refuting what he felt was the argument against him. He felt that Kingsley’s argument was unfair, because it was based on a
misinterpretation of what he (Newman) had written. But even worse, he felt that Kingsley’s argument threw such an aura
of suspicion on anything he might write, or any argument he might put forward in the future that the well would be poisoned. Any such argument would always be tainted with the suspicion that Newman’s views were based on putting group
interest before a concern for the truth. Not only would such an attack make it impossible for Newman to have a say on any
intellectual or political issues. It would make it impossible for any Catholic to do so with any credibility. Newman was right
to be upset, and to take great care to reply to Kingsley’s attack, because this type of poisoning the well argument can be
extremely powerful as an unfair method of attacking an opponent. The attack could be highly effective even if it was only
an implicit argument against Newman, or anything he had written, by claiming that Roman Catholics generally have no
regard for truth.
272
Conclusioni
ogni eredità culturale. Osservava ironicamente, e persuasivamente, don Giorgio Pontiggia davanti a
questo atteggiamento: “È come se uno dicesse: mi hanno insegnato a mangiare, ma non so perché
io devo mangiare e perciò smetto di farlo.” Se vogliamo essere veramente rigorosi, ricordiamoci
che l’assenza di argomento non basta a confutare la tesi; anzi, di regola, neppure la confutazione
dell’argomento basta a confutare la tesi.2
Effettivamente i due termini, considerati separatamente, rappresentano nel sistema semantico
dominante due formidabili dispositivi di manipolazione. Uniti nel sintagma nominale, sembrano
suggerire il contemperamento di due istanze contrapposte, quasi con la pretesa di creare un cocktail
concettuale raffinato: l’apertura e l’incontro combinati con il controllo e il sospetto. Francamente,
se a questo si riduce il dialogo critico, esso non ci interessa e tanto meno possiamo considerarlo la
forma ideale dell’educare.
Inveramento delle categorie
Per affrontare positivamente la sfida lanciata dalla nostra ipotesi non possiamo partire da una semantica depotenziata, ideologicamente compromessa, dei termini in gioco: è necessario un recupero
della loro semantica autentica. Dobbiamo riguadagnare tutto lo spessore della categorialità con cui
affrontiamo la realtà e ne facciamo esperienza. Chiamerei tutto questo il compito di inveramento
delle categorie. Per esempio, se affronto il problema dei diritti e non mi limito a proclamazioni ideologiche, non posso ignorare che un diritto esiste per qualcuno soltanto se per qualcun altro esiste
il dovere di assicurarlo. Questo inveramento delle categorie è particolarmente decisivo per superare
l’utilizzo manipolatorio dei concetti con cui definiamo l’umano e il suo destino. L’inveramento permette di arrivare alla cosa oltrepassando la sua apparenza (Aristotele, De sophisticis elenchis, cap.
I: non basta che una cosa sembri oro, deve essere oro). Se non c’è un corrispettivo dovere il diritto
diventa una chimera. Persino i valori morali si riducono a flatus vocis senza la loro controparte ontologica. Lo sottolinea Carlo Wolfsgruber nella sua introduzione ai lavori di Accademia3 ricordando
l’orazion picciola dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per…”. È l’esser noi
fatti per qualcosa che fa di questa cosa un valore per noi. L’inveramento categoriale restituisce al
concetto la sua presa sulla realtà.
Vediamo dunque di recuperare nella loro portata ontologica autentica le nostre due categorie,
cominciando dalla criticità. È, ben lo sappiamo, la capacità di vagliare (greco κρίνω), di distinguere,
di trascegliere il buono e trattenerlo. Lo strumento è metaforicamente il setaccio (cribrum), più
propriamente il criterio, lo strumento, il principio per discernere (dis-cerno), giudicare. Non si scarta
senza vagliare, non è critico! Πάντα δέ δοκιμάζετε, τό καλόν κατέxετε (San Paolo, I Tess.) Dunque la
vera criticità è alla ricerca del positivo, vaglia per cogliere il positivo, non è appassionata al negativo.
“La critica non è ostilità alle cose, ma amore ad esse” (Giussani et al. 1998: 158).4 Nulla può essere
accettato senza vagliare. Neppure la tradizione.
“Insisto: usare criticamente questo fattore nella vita [scilicet la tradizione] non significa collocare
dubbi sui suoi valori – anche se così viene suggerito dalla mentalità corrente -, ma significa utilizzare quella ricchissima ipotesi di lavoro attraverso il vaglio di un principio critico che sta dentro di noi:
l’esperienza elementare”; “[…] omettendo quel vaglio critico il soggetto o è alienato o fossilizzato
nella tradizione” (Giussani 2010: 51).
Cerchiamo ora di restituire nella sua pienezza la categoria del dialogo specificandola rispetto a
2 Un approfondimento dei diversi tipi di confutazione è proposto da Rigotti e Rocci (in corso di pubblicazione), A particular type of refutation. When the destruction of the argument immediately entails the destructon of the standpoint.
3 Vedi Wolfsgruber C., Conoscenza e compimento di sé, nel presente volume.
4 “Un critico è chi mobilita e fa venire alla luce il valore che c’è, cioè la creatività della cosa” (Giussani 2007: 248).
273
Conclusioni
concetti più o meno strettamente imparentati. Un dialogo è certamente una specie di interazione
(cioè un’azione congiunta in cui ciascun agente raggiunge il proprio scopo realizzando lo scopo
dell’altro agente). Tuttavia ogni comunicazione è un’interazione, anche un monologo, ossia il discorso di un parlante a uno o più destinatari. C’è in effetti un’interattività che spesso sfugge: l’attività
dell’ascolto non è meno impegnativa né meno importante dell’attività del parlante e non si dà né
l’una né l’altra senza condivisione di interesse per la cosa. Il monologo non è tuttavia un dialogo
perché i ruoli comunicativi rimangono fissi. Non basta tuttavia, l’alternarsi, magari disciplinato da
regole, dei ruoli comunicativi per realizzare un dialogo. Una successione ordinata di interventi (si
pensi a un congresso o pur anche a una conversazione5 educata) non sono un dialogo.
Nel dialogo gli interlocutori sono all’opera per uno scopo condiviso ed è soprattutto questo scopo
condiviso che caratterizza un dialogo. Douglas Walton ed Erik Krabbe (1995: 66) distinguono in
rapporto al fine perseguito numerosi tipi di dialogo: dialogo per persuadere o discussione critica,
dialogo per fare ricerca, e sviluppare sapere, negoziazione, trattative per comporre un conflitto di
interessi, dialogo per deliberare, dialogo per ottenere informazioni e, infine, dialogo eristico (un dialogo in cui tutti gli interlocutori sono impegnati a polemizzare con gli altri per danneggiarne l’immagine). Il dialogo educativo fa plausibilmente sintesi delle due prime forme dialogiche elencate.
Dobbiamo ora porci una domanda fondamentale: quale forma discorsiva è adeguata all’insegnare
educando? Anzitutto per comunicare non basta che qualcuno parli, bisogna che qualcuno lo ascolti.
Il soliloquio in quanto tale non comunica anche se può essere intrinsecamente caratterizzato da una
dialogicità bachtiniana6. Il rischio di esibirsi in soliloqui è tuttavia grande. La forma comunicativa del
monologo è spesso inevitabile e non è drammatica se l’allievo è coinvolto, cioè se è fatta per lui e lui
lo percepisce. I rispetti da avere sono due: l’intercettazione della sua domanda e la connessione con
il suo sistema categoriale (questa si verifica se in definitiva egli sa riportare le mie parole alla sua
esperienza). Il monologo del docente è tuttavia una forma discorsiva che fa perdere molte, troppe,
opportunità, anzi rischia di far perdere l’essenziale. Anche nel caso, voi mi direte non frequente, in
cui il vostro allievo nella solitudine del suo posto di ascolto sapesse elaborare criticamente - verificandone la coerenza intrinseca e la compatibilità con altre fonti di informazione e, soprattutto,
la rispondenza alle domande che costituiscono la sua umanità e alla sua profonda elementare
esperienza – tutto quanto gli vado dicendo, egli non parteciperebbe effettivamente a un’esperienza
educativa. Egli sarebbe uno dei terminali cui è diretta una comunicazione con intenti educativi. In
effetti si tratterebbe di una comunicazione monologica a destinatario multiplo, insomma di una
forma tecnologicamente povera di comunicazione mass-mediatica.
Ma l’essenziale che manca in questo tipo di comunicazione didattica è l’esperienza di un dialogo critico volto a uno scopo condiviso. Ora lo scopo condiviso di un dialogo critico-educativo è la
costruzione condivisa del sapere inteso, come rapporto comunicativo e pratico con la realtà, autocoscienza dell’esserci. Notiamo che Dante, parlando di virtute e canoscenza, non è, al solito, cumulativo, non enumera valori a caso, ma struttura ed edifica la concettualità relativa all’ideale della
vita: virtute equivale a compimento di sé, e dunque fa riferimento alla sfera morale o pratica, mentre
canoscenza copre la sfera conoscitiva). Certo, educare è un compito immenso! Apre alla realtà e al
suo significato. Però non lasciamoci sopraffare dallo sbigottimento, e, soprattutto, non cediamo alla
tentazione di considerarci demiurghi delle coscienze.
È importante mettere a fuoco la nozione di conoscenza. “Che cos’è la conoscenza?” – mi sono
chiesto rendendomi conto che spesso ne parliamo, ne parlo, senza vera consapevolezza. Ho tentato
5 La conversazione assicura per un certo aspetto maggiore coesione della giustapposizione di interventi che ha luogo in
un congresso perché garantisce la continuità referenziale. Ad esempio: A: “Per il viaggio di nozze i nostri amici vanno alle
Canarie”. B : “Sono stata alle Canarie qualche anno fa con Giuseppe”; C: “A proposito, ho saputo che Giuseppe si è laureato
in chimica”; D: “Anche mia sorella si è laureata, in lettere però…”
6 L’altro è presente in quanto la sua posizione è considerata e opera nel testo.
274
Conclusioni
una risposta: è quella familiarità con l’essere, quella percezione della sua presenza generata dall’esperienza, che mi rende capace di attestarlo.
Prima ho parlato di “costruzione condivisa del sapere”. Devo chiarire il termine costruzione che
può far venire in mente il costruttivismo, una visione epistemologica in cui il sapere è concepito
come insieme organizzato di discorsi considerati scientifici in quanto garantiti da procedure accettate di formazione del consenso, non considerati scientifici in quanto appoggiati sulla realtà (epistamai) ]. La costruzione condivisa del sapere è l’impresa condivisa da maestro e allievo di edificazione
argomentativa del rapporto con la realtà. Passo dopo passo, dalla ipotesi alla sua giustificazione
all’ipotesi ulteriore. L’allievo è sfidato ad avanzare ipotesi, a prendere posizione e a saggiarne la
ragionevolezza, è coprotagonista del suo sapere, fa esperienza della propria responsabilità critica e
del bisogno dell’altro (auctoritas), mette in gioco le sue categorie e la sua esperienza, fa esperienza
della sua ragione all’opera nel rischiare l’ipotesi e nel definire metodi, cioè percorsi, domande adeguate all’oggetto. Nel dialogo critico ogni partecipante è un portatore di esperienza, è un punto
di aggancio di tutti i dialoganti alla realtà: il risultato conoscitivo ed etico del dialogo va oltre la
somma degli apporti dei singoli. L’incontro delle diverse esperienze nel dialogo critico rende possibili
inferenze e verifiche che generano un vero e proprio incremento del sapere.
Non c’è caricamento di dati e nozioni e non c’è indottrinamento. Il docente non è un modello da
scimmiottare, è un compagno di viaggio più grande che quella gita l’ha già fatta. E nemmeno c’è per
lui ripetizione: la novità della realtà, la sua creatività non si esaurisce quando ne facciamo esperienza. Il tedio nasce dal ripeter da soli un percorso di cui, a ben vedere, non si coglie più il significato.
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La scuola come opera comunitaria
Carlo Wolfsgruber
Dalla nostra esperienza di Accademia, a partire dall’inizio fino a oggi, ricavo due ordini di impressioni, che mi preme comunicarvi per iniziare a dare il mio contributo a un ulteriore sviluppo del
percorso:
Accademia si dimostra essere la proposta di una scuola nuova in atto; nuova, in quanto pretende
di essere una vera scuola. Un esempio di scuola, quindi, che non si sottrae al suo compito educativo
e che perciò non si sottrae alla sfida (e al giudizio) in esso implicati. Realmente, la scuola che nell’esperienza di Accademia si delinea è una impresa coraggiosa.
In tutti i team che abbiamo accostato in questi mesi, in particolare durante il lavoro per l’elaborazione del macrotema, abbiamo sorpreso accenti di contentezza e di gioia per un’amicizia nata
dall’impegno comune, anche tra persone a volte molto diverse tra loro sia come temperamento sia
come impostazione didattica. Questo fattore è parte essenziale della novità che vuole essere Accademia.
I fattori che qui di seguito considero rappresentano altrettanti punti fermi della consapevolezza
fin qui maturata, che Accademia cerca, nella sua proposta, di declinare in metodo.
Una scuola deve avere una sua cultura
L’alternativa inevitabile sarebbe l’assunzione della cultura dominante, la quale vuole i docenti
trasmettitori, più o meno efficaci, di programmi elaborati altrove.
In simile temperie, diventa impossibile (forse, ancor prima, inutile) stabilire nessi sia sincronici tra
discipline diverse nello stesso livello di scolarità sia diacronici con la stessa disciplina lungo tutto
il percorso formativo. E così la scuola diventa un’esperienza disgregante, anche perché lo studente
stesso finisce per essere percepito e trattato come puro ricettore di pacchetti di conoscenze irrelate
fra loro ed estranee allo studente.
Ma una cultura è qualcosa che ci si può costruire da soli?
E, ancora, i saperi sono qualcosa che si può costituire e comunicare da soli?
Più radicalmente, la conoscenza è un’avventura che si intraprende da soli?
L’”allargamento della ragione” oltre i confini positivistici è realizzabile da soli?
Anche il dialogo critico, ma lo stesso star davanti ai giovani, è un’esperienza che si può realizzare
da soli?
L’uomo solo è barbaro, cioè senza un vero linguaggio, è incompiuto rispetto alla propria natura - a
ciò per cui è fatto – e, quindi, rispetto a qualsiasi percorso di civiltà.
L’individualismo segna il trionfo della cultura dominante, la
quale è nichilista, prima ancora che statalista
Non può che essere nichilista, perché l’io nell’individualismo non esiste: la concezione antropologica dell’individualismo borghese è incongruente con la reale struttura dell’io. Quindi la via d’uscita
non è una qualche forma di unità operata da singoli la cui autocoscienza rimanga per conto suo
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Conclusioni
individualista. In altre parole, un soggetto di cultura e, quindi, di educazione non può essere frutto
di una convergenza estrinseca: la convergenza fa un gruppo (che – in quanto tale – è una forma di
potere); solo un’autocoscienza pienamente adulta fa essere un soggetto unitario, solo nell’adulto il
noi è riconosciuto come dimensione strutturale dell’io.
Cultura ed educazione esigono “una comunione di destino, dunque una comunione di umanità
secondo la totalità delle aspirazioni e delle esigenze” (Giussani 2005), la quale è “fattore necessario
alla conoscenza, fattore che la rende possibile” (Giussani 1979).
Ed è questa comunione di destino e di umanità ciò che ultimamente libera tanto gli insegnanti
quanto gli studenti da ogni forma di personalismo e/o autoritarismo psicologico, affettivo, didattico.
Un gruppo nasce e pianifica; da un adulto autocosciente nasce
un progetto
“Il significato originario del termine proiectus è quello di “lanciare avanti” e “buttare avanti”,
ma anche di “far sporgere” e “sporgersi”, di “far avanzare sporgendo”… come quando si lancia la
nuova campata di un ponte. Metaforicamente, il progetto è un lanciarsi, con determinazione quasi
inconsulta, in un’impresa. Il nostro termine “progetto” cancella dall’antica metafora proprio l’assenza della premeditazione e della ponderazione; anzi, questa componente è incorporata e messa a
fuoco, anche se possiamo trattenere, dall’etimologia, il coraggio e l’audacia che pongono l’accento
sulla rischiosità dell’impresa nel futuro. Ma ciò che soprattutto si sottolinea è che nel progetto si
persegue un proposito con consapevolezza di fini e senso di responsabilità rispetto alle implicazioni.
Il piano gestisce e organizza l’esistente; il progetto è aperto al futuro e dà vita a una realtà nuova:
si può pianificare l’orario delle lezioni, una nuova scuola si progetta” (Rigotti 2009: 60-61).
Il progetto si caratterizza per il fatto di non essere statico: non è una tradizione da citare e
assimilare come necessaria (non vogliamo essere scuola islamica) o da citare e commentare (non
vogliamo essere scuola talmudica), ma è ipotesi di senso offerta e scoperta, la quale si mantiene
vitale e credibile perché verificata e arricchita nell’impatto con l’alterità del reale. Vogliamo che
nella scuola docente e discente realizzino la figura descritta in Mt 13, 52: “Per questo ogni scriba
divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche”.
Una scuola può nascere solo da un progetto
In altre parole, una scuola non nasce né dura, nel senso bergsoniano del termine (per Bergson durare è generare), semplicemente perché gli insegnanti di quella scuola formano un gruppo, ancorché
guidato e accomunato da un logo e da una organizzazione adeguata.
Occorre che gli insegnanti condividano ed elaborino un progetto. Perciò occorre che identifichino,
riconoscendolo, un “punto” responsabile che si faccia carico “di una proposta sintetica, ma i docenti
devono riviverla, riappropriarsene, farla loro, ridiscuterla profondamente. Altrimenti non si realizza”
(Rigotti 2009: 59).
Veramente questo è il tempo dell’io e dei maestri.
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Conclusioni
Riferimenti bibliografici
Giussani L., 1979, Da quale vita nasce Comunione e Liberazione, intervista a cura di Sarco G., supplemento a “CL-Litterae Communionis”, 7/8, Milano.
Giussani L., 2005, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano.
Rigotti E., 2009, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, a cura di Mazzeo R.,
Mondadori, Milano.
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GLI AUTORI
Stefano Bertani è docente di letteratura italiana e latina nei licei e docente a contratto presso
la Scuola di Dottorato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano per la storia culturale.
Marco Bramanti è professore associato di Analisi matematica al Politecnico di Milano.
Edoardo Bressan è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di
Macerata.
Andrea Caspani è docente di Storia e filosofia nei licei, docente di Storia contemporanea presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore della rivista culturale LineaTempo.
Giovanni Cherubini è professore emerito di Storia medievale all’Università degli Studi di Firenze.
Sara Cigada è professore straordinario di Linguistica francese presso l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano.
Sergio Cristaldi è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Catania.
Renato Del Monte è docente di Matematica e vicepreside presso il Liceo classico Alexis Carrel
della Fondazione Grossman di Milano.
Maria Cristina Gatti è professore straordinario di Slavistica presso l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano.
Claudio Giorgi è professore ordinario di Meccanica razionale all’Università degli Studi di Brescia.
Elena Landoni è professore aggregato di Letteratura italiana moderna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Andrea Maggi è docente di Matematica presso il Liceo scientifico Alexis Carrel della Fondazione
Grossman di Milano.
Enrico Malato è professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Napoli Federico II.
Raffaella Manara è docente di matematica nei licei.
Andrea Mazzucchi è professore straordinario di Filologia della letteratura italiana all’Università
di Napoli Federico II.
Luca Montecchi è docente di Lettere nei licei e responsabile dell’Ufficio di relazioni internazionali presso la Fondazione Sacro Cuore di Milano.
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Sara Greco Morasso è dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e docente e ricercatrice
presso l’Istituto di Argomentazione, Linguistica e Semiotica dell’Università della Svizzera italiana
di Lugano.
Giovanni Naldi è professore ordinario di Analisi numerica all’Università degli Studi di Milano.
Paolo Nanni è docente di storia dell’agricoltura e ricercatore presso l’Università degli Studi di
Firenze.
Daniela Notarbartolo è docente di Letteratura italiana e latina nei licei e formatore e membro
del gruppo di lavoro INVALSI.
Raffaela Paggi è preside della Scuola Secondaria di I grado presso la Fondazione Sacro Cuore di
Milano.
Eddo Rigotti è professore ordinario di Comunicazione verbale e teoria dell’argomentazione presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano.
Andrea Rocci è professore straordinario di Scienze del linguaggio presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano.
Francesco Valenti è rettore del Collegio Guastalla di Monza.
Alfredo Valvo è professore ordinario di Storia romana presso l’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano.
Carlo Wolfsgruber è rettore della Fondazione Grossman di Milano.
Danilo Zardin è professore ordinario di Storia moderna presso l’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano.
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