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I suoi occhi, cinzia tiraboschi, 20, vimercate
Il mare al tramonto non era mai stato così bello. Guardarlo dentro i suoi occhi lo arricchiva di giochi di luci e colorazioni sorprendenti. Uno spettacolo a intermittenza. Quando abbassava le palpebre avevo quasi paura che sparisse per sempre. E invece poi riapriva gli occhi, ed era ancora là, più bello di prima. Lei continuava a guardarmi incuriosita, con un’espressione interrogativa ancora piena di tutta quell'ingenuità e quella purezza di cui solo i bambini sono custodi. Quanto avevo odiato quegli occhi. A volte, nella più cupa disperazione, avevo desiderato che non si riaprissero mai più. La prima volta che li aveva aperti, io li avevo guardati di sfuggita, già con un un nascente disprezzo, mentre cercavo di non crollare a terra. Mia moglie, l'amore della mia vita, stava morendo in sala parto. Lo sforzo immane aveva fatto scoppiare un aneurisma cerebrale di cui non sapevamo l'esistenza. Quando me la misero tra le braccia, non riuscivo a provare altro che odio per quella creaturina così fragile ma al tempo stesso così potente e meschina, da aver la forza di troncare una vita. Come avrei potuto amarla? Lei aveva posto fine anche alla mia vita. E me lo ricordava ogni giorno, con quel sorriso così ingenuo e puro e al tempo stesso impertinente. Cercavo tra le macerie un brandello di amore paterno, ma non riuscivo a trovarlo. Durante la giornata, mentre lavoravo, se ne prendeva cura mia suocera. Amava così tanto quella bambina! Non me ne capacitavo. Sentiva qualcosa che io non sentivo, vedeva qualcosa che io non vedevo, che mi ostinavo a non vedere. Era passata una settimana, ormai, e io ancora non riuscivo ad abbassare lo sguardo su di lei mentre la tenevo in braccio. Quel gesto suscitava in me sensazioni così contrastanti da farmi sentire spiazzato, inerme. La notte era l'unico momento in cui sentivo di potermi avvicinare a lei, cercando di chiamare alla luce quell'istinto naturale che tardava a manifestarsi. Dovevo esserle padre, ma non volevo: non riuscivo a perdonarla. Se solo avessi acceso una luce quando il suo pianto mi chiamava dalla culla, avrei potuto vedere fin da subito, avrei potuto sentire. Quella notte mi svegliai a causa di un silenzio, quello della piccola. Erano le otto di mattina e lei non piangeva come solito. La forza dell'abitudine infranse il sonno e mi spinse preoccupato verso la culla. Accesi la luce. Lei aprì gli occhi e mi guardò, e io vidi, e sentii. Erano gli occhi di sua madre, una perfetta e terrificante copia. La somiglianza mi si presentò talmente incredibile da farmi piangere. La mia vita era racchiusa tutta lì, in quegli occhi. La strinsi forte, bagnandole la fronte con le mie lacrime, mentre lei continuava a guardarmi, incuriosita, indagatrice. Quell'istinto che improvvisamente proruppe al di fuori col pianto era sempre stato lì, pronto a rivelarsi. E quel giorno sulla spiaggia, nella luce del tramonto, con gli occhi ben aperti quasi a volerla assorbire fino all'ultima molecola, tutti e tre insieme guardavamo il mare.