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Io non mi considero escluso da una vita normale

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Io non mi considero escluso da una vita normale
“Io non mi considero escluso da
una vita normale, e non penso che
le persone che mi sono vicine
direbbero una cosa del genere. Non
mi sento un handicappato, ma
penso di essere affetto solo da certe
mal funzioni dei miei moto neuroni,
un po’ come se fossi daltonico.
Penso che sia difficile descrivere la
mia vita come normale, ma io mi
sento normale nello spirito”.
Stephen Hawking
Alla memoria
della mia cara mamma
che in me vive eterna.
“Uomo, fratello uomo,
credi davvero che si possa
distruggere tutto l’avvenire e
sopravvivere senza vergogna”
Lucien J. Engelmajer
PRESENTAZIONE
Ho conosciuto Pino Salemme nell’agosto del 1994 durante un soggiorno estivo organizzato
dall’UNITALSI 1 . Difficoltà non riferite solo alla disponibilità di tempo, mi hanno impedito, in
passato, incontri più assidui con gli amici disabili.
Ho voluto evitare di dare l’impressione d’eventuali strumentalizzazioni tendenti a provocare un
consenso emotivo, essendo allora attivamente impegnato in politica quale membro d’assemblee
elettive a livello regionale ed europeo.
Ho cercato, quindi, anche durante le fugaci visite, di apparire meno possibile. Ora liberato da
certi vincoli frequento un centro per disabili. Quel che ricevo è molto più di quel che dò. Mi
domando spesso se la vita frenetica che ho vissuto abbia avuto un senso, non esibisco saggezza,
dico il vero.
Il Piccolo Rifugio 2 nel territorio del comune di Fermentino in provincia di Frosinone è una
casa-famiglia che ospita una decina di disabili stabilmente ed altri, quotidianamente dal mattino alla
sera. Struttura bene organizzata, con personale d’elevato livello professionale e con una marcata
sensibilità umana che caratterizza i rapporti e completa la funzione d’assistenza e cura in un’agape
fraterna.
Pino vive qui. Quando mi ha chiesto, in occasione del primo incontro, di aiutarlo a scrivere
l’autobiografia, sono rimasto piuttosto perplesso: che cosa poteva raccontare della propria vita un
giovane di 27 anni?
Quali avvenimenti particolari, sia pur considerando la disabilità, avrebbero potuto rendere tanto
interessante la storia da proporla al lettore? Ho cercato di spiegare a Pino la ragione dei miei dubbi
senza remore senza escludere il non indifferente problema di riempire, non con blà-blà, un centinaio
di pagine.
Pino ha fatto ricorso a tutte le risorse di carattere diplomatico pregandomi di esaminare alcuni
appunti per poi decidere, con ampia libertà, se andare avanti o no.
Sono state necessarie diverse sedute per la narrazione di una drammatica vicenda umana che
non può non indurre a profonde riflessioni.
Mi sono chiesto: come ha fatto a resistere ed a sopravvivere? Il destino ha lavorato a cottimo
contro di lui, gli ha scaraventato addosso tutto quello che aveva a portata di mano. Gli ha dichiarato
guerra e lui ha accettato la sfida, ha combattuto e vinto trasformando la sedia a rotelle in una
pacifica arma per difendere il diritto alla vita non soltanto come assistito ma come protagonista del
proprio futuro.
Non appena messa fuori la testa per entrare nel mondo dei vivi due paralisi lo hanno accolto
battendo le mani. Lì per lì nessuno ci aveva fatto caso, tutto sembrava normale anche perché le due
ospiti non avevano presentato la carta d’identità.
Aveva poco più di sedici anni, quindi, anche se ragazzo, abbastanza maturo per vivere nella sua
drammaticità la tragedia di un tumore maligno che gli ha sottratto l’amore della mamma. Mentre in
un ospedale di Roma la madre veniva inutilmente curata, il padre si era fidanzato con un’altra
donna ed ha costretto Pino a trasferirsi nella casa della candidata matrigna per fare un certo
rodaggio in attesa della sistemazione definitiva dopo l’esalazione dell’ultimo respiro di chi l’aveva
messo al mondo.
Aveva tentato d’opporsi ma tutto era stato inutile, anche il tentativo di far prorogare la data del
trasferimento non aveva avuto successo. Prendere o lasciare, e come avrebbe potuto lasciare? Chi
l’avrebbe assistito?
Il cugino Giorgio è come un fratello, gli permette di vivere la vita fra i giovani di Anzio, lo
accompagna sul lungomare, lo presenta ai ragazzi ed alle ragazze che si fanno in quattro e lo
nominano Re della compagnia. Un giorno Giorgio è ucciso da un gruppo di balordi.
L’internamento, dopo la morte della madre, in un ospedale per lungo-degenti dove
l’indifferenza la fa da padrona, l’assenza di rapporti umani caratterizza l’ambiente, la freddezza dei
comportamenti ed il distacco è quotidiana mortificazione.
Il totale abbandono da parte del padre che accentua l’incolmabile vuoto lasciato dalla scomparsa
della madre. L’aver appreso del decesso per infarto del genitore, dopo parecchio tempo, per caso, da
un’infermiera che lo aveva assistito.
La crisi di depressione in una solitudine allucinante ed il fallito tentativo di farla finita. La
rabbia che diventa amica e lo aiuta ad uscire da una spirale infernale scatenando una salvifica
reazione.
La comparsa, quasi miracolosa, di un religioso ebbro di bontà che si fa carico dei suoi problemi
e lo aiuta proponendogli il trasferimento nella casa-famiglia Piccolo Rifugio di Fermentino dove
trova dedizione ed affetto come suggerito dalla fondatrice Lucia Schiavinato: “Se tu hai saputo
evitare tutti gli urti con il tuo infermo; se sai indovinare di quanto può avere bisogno; se hai
pazienza e bontà nel trattarlo e nel servirlo, nell’ascoltare e nel parlare, tu lo hai reo sereno…”
Pino ora ama la vita. Impazzisce per la musica punk-rock ha eletto a mito la rock-star Billy Idol.
Ammira Michele Placido per l’eccezionalità della recitazione e per il ruolo educativo cui assolve
nell’immedesimazione dei personaggi.
Legge, scrive con il computer, s’innamora. Ha una fitta corrispondenza con una moltitudine di
ragazze che costa un patrimonio di francobolli. Nella sua agenda i numeri telefonici dei maschi
sono una rarità.
L’amara esperienza con una spregiudicata ventiquattrenne, il cui matrimonio è saltato per la
mancanza di figli attribuito a lei dal consorte che ha reagito con tutti i mezzi anche facendo di Pino
una specie di cavia per sperimentare la propria fertilità, facendosi innamorata tanto da proporre il
matrimonio dopo espletate le pratiche per il divorzio, con lo scopo vero di dimostrare all’ex marito
che a non esser “bono” era lui tanto che lei era rimasta incinta, addirittura! con un disabile.
Il lavoro che sto presentando mi ha visto collaboratore nella narrazione riportando fedelmente i
fatti, aiutando l’autore a riprodurre lo spirito ironico che lo caratterizza anche su avvenimenti
dolorosi dei quali minimizza la drammaticità esorcizzandone la realtà.
Le considerazioni di Pino sull’etica, sulla fede, sul valore della vita miracolo della creazione,
testimoniano una maturità che ha la caratteristica della saggezza.
Troverete un riferimento ad Eraclito del quale Pino non conosceva né biografia né opere (dopo
la scuola dell’obbligo ha frequentato Istituti Professionali per segretarie d’azienda e per
elettrotecnici); nel corso di una conversazione sui problemi esistenziali, completamente estranea al
progetto di questa pubblicazione, ho accennato alla filosofia eraclitea del divenire, con particolare
riferimento al “tutto scorre” interpretato nella formula consolatoria “tutto passa”. Per quanto
considerasse bizzarre le idee del filosofo di Efeso, vi ha individuato elementi che si sarebbero potuti
attagliare ad alcuni aspetti della propria esistenza ed ha fatto considerazioni tanto logiche e brillanti
da consigliarne l’inserimento nel testo.
Mi ha pregato di effettuare una ricerca sull’origine del cognome Salemme e vi ha intessuto una
trama “fantastica” degna di una biografia romanzata trattata con l’ironia caratteristica dell’autore
che non si sa mai se sia stoicismo o disincanto. La vittoria di Davide su Golia è considerata un
colpo di fortuna dovuto alla certezza della superiorità da parte del gigante, indicando, così, l’errore
della sottovalutazione dell’avversario che non è “cosa saggia” poiché gli imprevisti non hanno mai
connotati certi.
Non riesce ancora a trovare una spiegazione logica al nome di battesimo del padre, Strato, la cui
radice incognita non trova un nesso neanche nella più fertile immaginazione. Inutilmente ha fatto
fare delle ricerche a Napoli dove Strato è nato, il nome risulta unico all’anagrafe. Un’inspiegabile
rarità.
Sull’origine del bene e del male non se l’è sentita di giudicare neanche Caino ritenendo che,
ferma restando l’enormità del delitto di fratricidio, inauguratore della storia del crimine, la ragione
non sta mai da una sola parte e gli effetti hanno sempre delle cause, con questo non assolvendo il
primogenito di Adamo, non volendo approfondire personalità e situazione ambientale.
Questa quinta edizione è arricchita dall’introduzione da parte dell’autore, non apparsa in quelle
precedenti per una sorta di scaramanzia che oggi, dato il successo della tiratura, non ha più ragion
d’essere e da tre nuovi capitoli: “Marano dei giusti”; “Dalla lupara alle stigmate”; “Senza lui non
c’è speranza”.
Il racconto, ad eccezione di una minima parte, è scritto in prima persona come si addice ad
un’autobiografia vera.
L’assenza del mio nome e cognome anche in questa presentazione non ha nulla a che vedere con
l’anonimato nell’accezione della parola. Ho voluto evitare anche il ricorso allo pseudonimo ad
evitare ogni tentazione di popolarità indotta.
Ritengo più che appagante l’aver concorso a far conoscere una vicenda umana che è utile
insegnamento: la storia di un disabile che avrebbe più che sufficienti motivi per gettarsi in braccio
alla disperazione ed ha scelto la speranza scolpendo per Dio creatore un monumento alla vita.
Un amico
1
Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e nei Santuari Internazionali – Organizzazione
cattolica di volontariato per il trasporto dei disabili in Italia ed all’estero che ha esteso la propria attività
all’organizzazione dei soggiorni per le vacanze ed a quella d’incontri culturali e di svago. Durante la guerra fratricida
nell’ex Jugoslavia, si è distinta per la raccolta ed il trasporto di aiuti nei campi profughi della Bosnia.
2
Piccolo Rifugio – Struttura per l’ospitalità, la formazione, la cura e la riabilitazione dei disabili organizzata in casefamiglia, nata per iniziativa della Serva di Dio Lucia Schiavinato per la quale è in via di definizione la causa di
canonizzazione. Nativa di Musile di Piave, quasi per caso si trovò a far fronte alle necessità vitali di un’anziana
paralitica in San Donà di Piave, sola e da tutti dimenticata. Ufficialmente il primo Piccolo Rifugio è nato il 23 dicembre
1935. Quello di Ferentino in provincia di Frosinone, inaugurato nel giugno del 1957 in uno stabile dai coniugi
Marsecano. Nel 1949 Lucia Schiavinato fonda il Pio Sodalizio che si trasformerà in Istituto Secolare Volontarie della
Carità, riconosciuto con decreto di erezione a firma del vescovo di Verona Mons. Giuseppe Carraio, del 18 febbraio
1968. La Fondazione di Culto e Religione Piccolo Rifugio è stata istituita nel 1957 ed approvata nel 1959 dal vescovo
di Vittorio Veneto Mons. Albino Lucani (Papa Giovanni Paolo I).
INTRODUZIONE
“Desidero parlare alla mia esistenza, è
vero! Ma è proprio tanto interessante
da essere oggetto di un’autobiografia?
Che ne penseranno i lettori? Con
questa siamo alla quinta edizione e non
mi pare poco. Forse sono presuntuoso,
ma perché non dovrei togliermi questa
soddisfazione confortato, tra l’altro, da
una collaborazione, tanto preziosa
quanto colma d’affetto, di amici, in
maggioranza giovani, studenti o neo
laureati, i quali anziché occupare il
tempo libero negli svaghi, caratteristici
dei tempi che corrono, si dedicano a me
e ad altri di qui, facendo di questo un
loro appagante svago? Sapete? Si
comportano come se non fossero loro
utili a noi ma noi a loro, addirittura ci
ringraziano perché, dicono che
abbiamo dato un senso alla loro vita”.
Con chi posso parlare di quel che succede a me ed intorno a me? Di amici ne ho tanti e sono
autentici. Non lo sono solo perché hanno a che fare con un disabile, niente pietismo o, peggio,
compassione, solo amicizia con il carico di valori che le appartengono.
A proposito di compassione, ne conoscevo il termine, diciamo così, per uso comune ma non
nell’essenza e nella pluralità del significato. E’ vero che si tratta di un sentimento di pietà per chi è
infelice, a causa dei propri dolori, le proprie disgrazie, i propri difetti; di partecipazione alle
sofferenze altrui, che, normalmente, è provocata dallo stato in cui uno si trova, ma altrettanto vero
che può esprimere anche un senso di sprezzante commiserazione verso cose biasimevoli e,
soprattutto, verso persone inette, buone a nulla, sciocche.
Come fai a sapere se quella a te destinata è bontà o commiserazione? E poi, parliamoci chiaro!
Non mi sento né infelice, né avvolto nelle disgrazie, né associato ai dolori più degli altri: amo la vita
e me la voglio godere, anche se tutta una serie di avvenimenti l’hanno piuttosto complicata.
Con gli amici converso volentieri sul mio passato e presente come avrei fatto se avessi avuto un
fratello, ma non mi basta, sento proprio la necessità di confidarlo anche al “nero su bianco”. In
questo mi aiutano diverse persone soprattutto per le consultazioni quando necessario.
Mi si potrebbe, giustamente, chiedere: “Perché lo fai? A che serve?” A me, credetemi,
soprattutto a me; però mi pongo anche uno scopo, non so se riuscirò a realizzarlo ma ci provo.
Sono convinto che la vita si afferma in Dio che ci ha creato, che è intimamente connessa con la
luce e l’amore che trovano la loro ispirazione nella fede e nella carità, che l’uomo è carnale,
ragionevole, spirituale, per questo è uomo.
Sono altrettanto convinto che all’anima è riservata l’eternità. Che di tutto dovremo rendere
conto più al di là che di qua, che di là non potremo fregare nessuno, gli alibi prefabbricati per
ingannare la giustizia terrena, non serviranno di là perché non ci sarà bisogno di provarli.
La vita è attività ma non riesce ad essere vera se non è vissuta anche come ricerca o
contemplazione della verità. Mi hanno detto alcuni amici studenti che, per Aristotele, la vita
teoretica è superiore a quella pratica, se non ho capito male, questo vuol dire che la vita spirituale è
superiore a quella materiale, anch’io ne sono convinto.
Un santo di queste parti, Tommaso d’Aquino, ha il merito di aver fuso gli elementi della
concezione cristiana della vita con la filosofia aristotelica, infatti il suo sistema filosofico è definito
una “riforma ed un rinnovamento dell’aristotelismo per adeguarlo al nuovo contesto culturale nel
quale egli opera e per accordarlo con la visione cristiana della realtà, specialmente con l’idea di
creazione”.
Tommaso respinge l’opposizione tra ragione e fede. Le verità di fede infatti, non sono prive di
ragione cioè irrazionali, ma soprarazionali. La ragione può dare la dimostrazione dei fondamenti
ragionevoli della fede. Non è il caso ora di inoltrarci in discussioni tanto profonde anche perché non
sarei in grado di farlo.
Non conoscevo questo grande ciociaro che ha dedicato l’intera esistenza allo studio ed
all’insegnamento e storicamente rappresenta il punto culminante del razionalismo cristiano tanto
che la sua filosofia è divenuta la dottrina ufficiale della Chiesa.
Gli amici, ce n’è uno laureato in teologia, mi hanno promesso che ne discuteremo, leggeremo
alcune opere, almeno quelle fondamentali, così potrò conoscerlo meglio.
Vi chiederete ma questi che discorsi sono? Indubbiamente profondi, forse anche troppo, ma ora
che c’entra con tutto il resto?
Desidero parlare della mia esistenza è vero! Ma è proprio tanto interessante da essere oggetto di
un’autobiografia? Che ne penseranno i lettori? Con questa siamo alla quinta edizione e non mi pare
poco.
Forse sono presuntuoso, ma perché non dovrei togliermi la soddisfazione confortato, tra l’altro,
da una collaborazione, tanto preziosa quanto colma di affetto, di persone, in maggioranza giovani,
studenti o neolaureati, i quali anziché occupare il tempo libero negli svaghi, caratteristici dei tempi
che corrono, si dedicano a me e ad altri di qui facendo di questo un loro appagante svago?
Sapete? Si comportano come se non fossero loro ad essere utili a noi ma noi a loro, addirittura ci
ringraziano perchè dicono che abbiamo dato un senso alla loro vita.
Per quanto riguarda la mia se non è importante è certamente singolare. Mi pare, comunque, che
non sia comune, anche se sento di viverla come tutti gli altri.
Però: è normale che appena nato, quando l' ostetrica era ancora a lavoro per annodare il cordone
ombelicale, due paralisi in successione mi abbiano abbracciato per non mollarmi più? E' vero che la
paralisi è femmina, ma insomma!
E' normale che avendo vissuto, nelle mie condizioni, fino al sedicesimo anno di età, in famiglia,
avvolto nell' amore di mia madre, un cancro me la porti via? Per me no era solo mamma, ma amica,
consigliera, compagna di giochi.
E' normale che , mentre mia madre è in ospedale in attesa di andarsene all' altro mondo, mio
padre conosca un' altra donna, si trasferisca nella sua casa e ci porti anche me?
E' normale che un cugino che mi sta vicino, mi accompagna con la carrozzina, mi fa vivere tra
la gente, mi fa partecipare ai giochi con gli altri ragazzi, mi fa fare le prime conoscenze femminili
con conseguenti innamoramenti, improvvisamente sia assassinato?
E' normale che, dopo aver sposato mio padre, la matrigna la quale, da "fidanzata", era piena di
attenzioni per me, non mi voglia più a casa e mi faccia ricoverare in un ospedale per lungo-degenti
dove grande assente è l' umanità?
E' normale che io sia venuto a conoscenza, per caso, dopo parecchio tempo, da un' infermiera,
della morte di mio padre in ospedale perche nessuno della nuova famiglia, compresa una sorellastra,
ha sentito il dovere di avvertirmi del suo ricovero, per non parlare della sua morte? Si potrebbe
osservare: "Ma non ti sei chiesto perchè non ti veniva a far visita? Anche tu avresti potuto fare una
telefonata per avere notizie". No, perché io ero un dimenticato, nessuno di loro veniva a trovarmi
mai quindi non aveva senso pormi certi interrogativi, la morte di mio padre, però, non è un' assenza
volontaria!
E' normale che una giovane donna, separata dal marito perche non in grado di mettere al mondo
figli, finga di innamorarsi di me, parli addirittura di matrimonio, voglia insistentemente rapporti
sessuali, nella sua casa, nel suo letto, conniventi i suoi genitori per poi tristemente accorgermi che si
è trattato solo di una finzione, una meschina strumentalizzazione finalizzata a consumare la
vendetta nei confronti del coniuge che l' ha lasciata per potergli dire: "Hai visto, non dipende da me,
sei tu a non essere <<buono>> tant' è vero che un disabile mi ha messo incinta"?
Ecco, è tutto questo che voglio narrare no solo per una mia personale soddisfazione ma perche
penso che possa essere interessante e perchè no? Utile, se non altro, per costatare come ho reagito e
quanto sia relativo il dolore, qualsiasi dolore, di fronte al dono della vita.
Dall' ultima edizione a questa si sono verificati fatti importanti: le autorità di Marano Equo in
provincia di Roma, paese di mia madre, hanno voluto dedicare a me una serata per la presentazione
del libro con lettura d' alcuni brani e commento musicale.
Ho attraverso momenti tremendi, immerso, per la prima volta, in una crisi esistenziale che ha
aperto una dolorosa ferita nella mia psiche ed ha coinvolto la fede. Mi sono isolato, per un certo
periodo, come se il mondo con le sue stagioni, la sua gente, i suoi paesaggi, non esistesse.
Ho cercato di distrarmi e può sembrare strano, ma ci sono riuscito, qualche volta, leggendo i
testi a corredo della serie di films sulla mafia, il traffico di droga, lo sfruttamento della
prostituzione, insomma quanto di male può fare l' uomo.
Ho rivisto le videocassette, ed ho potuto approfondire la conoscenza della personalità di
Michele Placido che, a parere mio, non può essere considerato solo un attore perchè è un maestro, l'
interpretazioni sono tali da far presupporre uno spessore culturale non comune.
La recitazione di Placido impone la conoscenza dei fenomeni non solo nella loro apparenza ma
nei contenuti più profondi, riguardanti la natura dell' uomo, la deformazione della società, i molti
interrogativi ai quali, mai sono date soddisfacenti risposte.
Durante un giorno estivo a Marina di Pietrasanta ho conosciuto i coniugi Giovanni e Roberta
Sorbello di Montemurlo in provincia di Bologna. Una coppia con tre bambini bellissimi, due
femmine gemelle (una Silvia, appare con me in copertina) ed un maschietto. C' incontravamo sulla
spiaggia dotata di una pista per disabili. Loro lasciavano il bagnasciuga per raggiungermi e
conversare con me; i bambini volevano salire sulle mie ginocchia per viaggiare in carrozzina e mi
coprivano di baci e carezze.
Adoro i bambini, se avessi potuto ne avrei messi al mondo un battaglione. L' insegnamento della
loro innocenza mi commuove. Se l' uomo rimanesse fanciullo non vi sarebbe tanta cattiveria. Con
Roberta e Giovanni ci sentiamo spesso per telefono e la giornata è più serena quando ascolto anche
la voce dei bimbi.
Ho detto, all' inizio di quest' introduzione, che con la narrazione della mia vita mi pongo uno
scopo ma non ho detto quale.
Ecco! Vorrei che i giovani leggessero questo libro il cui titolo è gia un "programma". Molti
considerano la vita una schifezza e si chiedono perchè mai dovrebbero viverla così come si
presenta? Insomma, perchè accettarla com' è?
Meglio darsi all'alcol o alla droga, costruirsi un mondo artificiale, tutto loro, fregandosene del
prossimo, delle regole, della società anch'essa una schifezza, convinti che viva meglio chi se ne
frega delle regole.
E non mi riferisco a ragazzi che, in qualche modo, potrebbero avere bisogno, come dire? Di
pericolose distrazioni per quanto la sorte ha riservato loro in povertà, miseria, emarginazione,
mancanza di lavoro, disastrose situazioni familiari.
A giovani senza il becco di un quattrino che vedono i loro coetanei vivere nel lusso, e se
vogliono ricorrere alla droga sono costretti a commetter crimini per procurarsi il denaro per la
"roba", rischiando, così, la morte per overdose o la galera per aver rubato.
Nooh amici miei! La maggior parte di coloro che si drogano provengono da famiglie "bene",
comunque, non povere, anzi! Benestanti! Senza problemi economici, con macchina personale,
magari decappottabile, vacanze assicurate in paesi esotici, in zone esclusive della montagna.
Abbigliamento di marca acquistato nella boutique. Quelli, insomma, che non hanno mai conosciuto
un "no" e si annoiano nello star bene proprio perchè non avendo problemi, percorrono la
carovaniera della deserto dei valori.
Hanno fatto vedere, alla televisione, un' attrice di successo la quale, per decenni, ha trionfato sui
palcoscenici, sul grande e il piccolo schermo, ammirata, invidiata, emulata,. Non solo star
hollywoodiana della cinepresa o della telecamera ma famosa cantante e ballerina, con un volto
particolare ed un cognome, chiaramente, d' origine italiana.
Ad un certo punto non ha accettato il normale percorso del calendario, ha rifiutato lo scorrere
degli anni, l' avvicinarsi della senilità, ha ritenuto di risolvere il problema con l' alcool e droga. Si è
ribellata alla cosiddetta decadenza nel modo peggiore: accentuandola!
Non ha cercato nuovi interessi, non ha messo in funzione la ragione, nooh! Ha fatto ricorso alla
bottiglia ed alla polverina bianca entrando, così, in una micidiale spirale.
Ogni tanto davanti allo specchio a guardare, terrorizzata, le rughe ricomparse dopo essere state
spianate dal bisturi, a confrontare l' immagine attuale con le fotografie del tempo dell' apoteosi e giù
sgomenta, a tracannare alcool, sniffate ed endovena, questa la sconvolgente storia di una donna che
non accetta il trascorrere del tempo a si stordisce pensando di risolvere qualcosa.
L' euforia temporanea provocata dai gradi alcolici a dalle narcodosi, l' accenno di un canto che,
anche se allegro, somiglia ad un lamento e di nuovo dinanzi allo specchio a provare, inutilmente, gli
abiti d' allora che si rifiutano di vestirla, movenze civettuole nell' inutile tentativo d' un revival
impossibile e poi lo stordimento le lunghe dormite tutt' altro che riposanti, il risveglio con emicranie
da sfasciacervello, l' immediato ricorso ad altre pasticche, questa volta di antidolorifici il whiskey
sempre a portata di mano, altre sniffate: fino a quando?
Esiste veramente la decadenza? Per esempio chi invecchia è decadente? Allora tutti siamo
destinati alla decadenza, e come lo risolviamo questo problema? Vogliamo evitare la vecchiaia ma
guai a pensare di non arrivarci. Vogliamo vivere il più a lungo possibile questo però non è possibile
senza percorrere anche la strada della vecchiaia. Però c' è chi pur volendo tenacemente, questo non
accetta la vecchiaia. E' inutile non accettarla c' è, per evitarla bisogna morire da giovani, chi vuole
questa "accorciatoia" si accomodi! Tenga presente, però, che, in questo caso, non accorcia la strada
ma la vita.
Mentre sto scrivendo è ancora viva la eco di quei due ragazzi che hanno fatto fuori, con quasi
cento coltellate, madre figlio, genitrice e fratello, si perchè uno dei due assassini (non mi sembra
che due minorenni che uccidono si possano chiamare diversamente) è la figlia dell' uccisa sorella
del dodicenne martoriato con la lama di un coltello da cucina aiutata, nell' "operazione", dal
fidanzato. Il padre, futuro suocero di lui, era incluso nel programma ma se l' è cavata perchè fuori
casa, tardava troppo a rientrare nel programma, però era incluso.
Ora mi rendo conto che si tratta di una sedicenne e di un diciassettenne ma il loro
comportamento dopo il duplice omicidio mi pare più da "adulti incalliti" che da "anime innocenti".
Ci andrei piano con l' eccesso di clemenza. Dalle cronache non emerge un pentimento: si accusano
reciprocamente, occultano la verità dei fatti. Specialmente la ragazza cambia versione di giorno in
giorno mettendo alla prova gli inquirenti.
Giustamente i giovani di Novi Ligure dove è avvenuto il delitto, amici e compagni di scuola dei
due, hanno chiesto pene severe. Leggo sul vocabolario della lingua italiana edito dall' Istituto dell'
Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, alla voce perdono: "(giur.) condono della pena
d infliggere al colpevole: perdono giudiziale, particolare beneficio che produce l' estinzione di reati
di lieve entità commessi da minori". Non mi pare che il massacro di due persone sia un reato di
lieve entità.
E poi! Parliamoci chiaro, c' è anche un problema di esemplarità, se tutto si risolve a tarallucci e
vino l' esempio che è dato non si può certamente definire edificante, infatti pochi giorni dopo si
sono verificati nuovi casi di genitoricidi o tentati genitoricidi.
Quando i cronisti parlano di quei due usano il termine “fidanzatini” quasi a tentar di far
tenerezza come se fossero due figurine di Peynét.
Fidanzatini un cavolo! Provate ad immaginarli con i coltelli in mano, sordi al grido di terrore
della madre e del fratello, al loro sguardo implorante, mentre conficcano in quei corpi ripetutamente
la lama, per niente impressionati dal sangue, ad infierire quasi con cento coltellate, per poi uscire
tranquillamente, andarsi a cambiare gli abiti, inventarsi la storia degli extracomunitari, con il
rischio, se gli inquirenti non avessero subito scoperto la verità, di scatenare una terribile reazione
popolare.
Cerchiamo di avere presente l’immagine dei carabinieri che perlustravano casolari e campagne
mentre i due si costruivano una terribile copertura accusando, con fredda premeditazione,
approfittando dell’esasperazione dell’opinione pubblica, innocenti di altri Paesi.
Immaginiamo il terrore di onesti lavoratori venuti da fuori per guadagnarsi un pezzo di pane
onestamente, rei solo di avere un diverso colore della pelle e comunque di parlare una lingua
diversa dalla nostra. Altro che fidanzatini!
Ecco per non farla troppo lunga vorrei consigliare ai ragazzi che si drogano di smetterla. Mi
rendo conto che non è facile, però va fatto perché nessuno ha il diritto di distruggere la propria vita.
Voglio dire a chi si droga: credi di risolvere qualcosa? Non ti rendi conto che stai più male che
bene? E non hai un cancro, non sei sottoposto alla debilitazione della chemioterapia. Nooh! Sei tu
che vuoi star male, sei tu che ti buchi. Tu pieno di salute e d’energia, potresti essere atleta, diventare
campione e invece ti arrendi alla roba.
Se ti fosse successo quel che è successo a me che cosa avresti fatto? Hai una famiglia, dei
genitori, dei fratelli, delle sorelle perché devi addolorare così la loro esistenza? Hai trasformato la
loro vita in un inferno. Se continuerai così vai dritto, dritto, verso l’ultima siringa.
Bravo fesso! Che successo!
Abbi un po’ di dignità, affronta le difficoltà quando ci sono, cerca di essere uomo o donna, fai
lavorare la ragione anziché l’istinto. Ripeto: e se ti fossi trovato nelle mie condizioni?
Tieni presente che io non sono solo disabile, non sono solo inchiodato su una carrozzina, al
mondo non ho più nessuno! Dico nessuno! Neanche un abbozzo di parente, solo degli amici. Il mio
patrimonio è l’amore del prossimo per me. Se vincessi cinquanta miliardi al superenalotto non avrei
neanche l’ombra di un erede.
Economicamente non me la passo male, i miei genitori non mi hanno lasciato con le tasche
vuote, il conto in banca c’è, qualche spinello me lo potrei permettere, potrei anche andare oltre, per
fare che? Per illudermi di stare bene? Sprofondare nell’assurdo? Vivere nell’angoscia
dell’astinenza? E me la chiami vita questa? Lo spinello mi permetterebbe di camminare? Mi
toglierebbe dalla carrozzella?
Amico mio, la puoi pensare come vuoi, ma non hai il diritto di distruggerti. Non sei stato tu a
crearti, ti assegni, presuntuosamente, un potere che non hai. Amo la vita e ti invito ad amarla.
Credimi! E’ molto meglio che distruggerla!
Pino Salemme
SALEMME
“Nelle mie vene scorre un liquido
antico. Forse troppo! Si deve essere un
po’ ossidato. Si dice che i nobili
abbiano il sangue blu. Mi sono
graffiato è uscito un liquido di colore
rosso-scuro quasi marrone…”.
Giuseppe proviene dal battesimo. Salemme dal diritto ereditario.
Giuseppe non è una rarità, a significato però c’è da levarsi tanto di cappello. In ebraico
“Jehoseph” vuol dire “Accresciuto da Dio”.
Con me Dio si deve essere un po’ distratto.
“Salemme” somiglia ad un saluto orientale: “sala’m” che in arabo vuol dire “salute, pace”.
Come pronuncerebbe “Salem” un napoletano? Sicuramente “Salemme” e mio padre è nato a
Napoli.
Insomma “Salemme” viene dal remoto. In ebraico vuol dire “settanta” ma non ha niente a che
vedere con il numero, è il nome di una città il cui re e sacerdote Melchisedech visse al tempo di
Abramo al quale andò incontro quando vinse i Re di Mesopotamia ed offrì pane e vino in sacrificio
per ringraziare Dio della vittoria conseguita dal patriarca. La tradizione cattolica vede in questo atto
un’anticipazione dell’ultima cena.
Gerusalemme prima si chiamava Salem: vi sono quindi probabilità di radici comuni. Capito?
Non è mica uno scherzo!
Re David ne fece la capitale del regno anche con lui probabilmente dovrebbe essere qualche
collegamento.
David a fama non scherza. Nella Bibbia, fatta eccezione per Gesù, di nessuno si parla tanto
quanto di lui.
Ha ucciso con la fionda il gigante Golia eroe filisteo, secondo me per un colpo di fortuna di
quelli che normalmente vengono rappresentati da una nota parte anatomica umana paragonata ad un
cappello da prete.
Come può essere diversamente? Golia era un gigante sul serio! Di statura impressionante: 6
braccia e 1 spanna di altezza (circa 2 metri e 90); armato d’elmo, corazza a scaglie (di circa 40
chilogrammi), schinieri, tutto di bronzo; brandiva una lancia con punta di ferro (di 5 chilogrammi),
portava nel fodero una gigantesca spada e appeso tra le spalle un giavellotto di bronzo. Lo
precedeva lo scudiero, coprendogli il corpo con il grande scudo.
David, ultimo dei dieci figli di Isai da Betlemme, ancora giovinetto, pallido, mingherlino, ciuco
[in dialetto ciociaro: piccolo, striminzito, misero] suonava l’arpa per calmare i nervi di re Saul.
Si era trovato per caso, in terra di Giudea al seguito del suo Re, il giorno in cui Golia, visto che
la guerra ristagnava perché gli eserciti non si muovevano l’uno in attesa che l’altro prendesse
l’iniziativa, propose di concludere il conflitto con una singola tenzone tra lui ed un eroe israelita.
David aveva chiesto ai suoi di accettare la sfida e di permettergli di affrontare il gigante. Lo
stato maggiore israelita, tenuto consiglio, aveva acconsentito, convinto che la ragazzata sarebbe
servita a prendere tempo e che il filisteo non avrebbe approfittato del bambino, anche se avesse
considerato la mossa una presa in giro.
Golia si era trovato di fronte il ragazzino e si era incazzato assai: “Che scherzi del cavolo sono
questi – disse – mandano a battersi con me un fanciullo fragile e indifeso.”
David aveva solo il bastone da pastore ma nascondeva nella bisaccia cinque sassi e nella mano
sinistra la fionda (evidentemente era mancino). Golia, liberatosi di armi e di scudiero, rimasto in
brache, andava incontro al ragazzo per invitarlo a tornare dalla mamma quando, giunto a tiro, fu
colpito in piena fronte da una frombolata che lo fece secco.
Il pastorello aveva lanciato il sasso senza prendere la mira, come la va la va e aveva fatto centro.
Ora io non discuto quanto è scritto nei sacri testi. Ne parlano bene anche i mussulmani che lo citano
diverse volte nel Corano, però bisogna riconoscere che ha avuto un bel culo!
A parte il c… mi inorgoglisce il fatto che anche con lui ho qualcosa a che vedere.
La mia stirpe è famosa. Non lo sapevo però me lo sentivo. Ho sempre pensato di non essere
“uno qualunque”. Sai? Il magnanimo lombo quando c’è c’è, altrimenti che senso avrebbe la nobiltà
ed il blasone? A proposito: ma Adamo ed Eva erano nobili o no? E se lo erano a quale livello di
blasonatura si collocavano? Perché se erano nobili loro lo sono anche i discendenti cioè tutti noi,
nessuno escluso.
Allora? Dove sta la differenza tra nobiltà e volgo? Mah! Meglio non approfondire. A me
conviene lasciare le cose come stanno.
Un fatto è certo: nelle mie vene scorre un liquido antico. Forse troppo! Si deve essere un po’
ossidato. Si dice che i nobili abbiano il sangue blu. Mi sono graffiato è uscito un liquido di colore
rosso-scuro quasi marrone, piuttosto distante da quello dei blasonati.
Sorpresa e delusione!
Eppure sulle mie origini non vi possono essere dubbi. Ho tutti gli “ingredienti” per sentirmi
nobile. La prima volta che incontro un duca gli chiedo di farsi un buchetto per verificare di che
colore è la “linfa” che ne esce.
Con il primo nome mi è andata abbastanza bene: avrebbero potuto chiamarmi “Peppe” invece
mi chiamano “Pino”, E’ meglio noh! Non mi sono mai sentito chiamare Giuseppe, nemmeno
Peppino.
Certo se il mio nome fosse stato Francesco “Franco” non sarebbe stato male ma avrei rischiato
2Checco” o “Checchino”, addirittura “Cesco”!
Sono nato il 21Novembre 1966 festa della presentazione di Maria Santissima al Tempio, non di
precetto ma importante. E poi è la vigilia della ricorrenza di Santa Cecilia patrona dei cantanti e
musicisti: per questo sono così sensibile e romantico, di facile innamoramento, con cotte da
suicidio.
Sono venuto al mondo a Roma in una stanza dell’ospedale S. Giacomo. Il parto era stato
normale, tutto era filato liscio con doglie telegrafiche: un bel maschietto sgambettante.
All’improvviso mi hanno preso sotto braccio due paralisi. Nella volata per raggiungermi la prima ha
tagliato l’aria alla seconda che stava a ruota. Una specie di tocco e ritocco, simile al terremoto: una
scossa agisce rovinosamente su quello che ha intorno, la successiva, definita di assestamento, butta
a terra quel poco che è rimasto e sigla il collaudo del disastro. Insomma: pelo e contropelo.
Naturalmente nessuno si è accorto di niente; ci sono stati, è vero, due tremolii un po’ convulsi, ma
questo è normale nei neonati.
Essendo una creatura eccezionale, lo svolgimento ordinario delle cose poco avrebbe avuto in
comune con la “rarità” della mia natura. Una sola paralisi sarebbe stata roba da comuni mortali!
Comunque ho fatto in tempo a mettermi d’accordo con la fortuna ed ho salvato la pelle. Si dice che
non c’è due senza tre, ho evitato la terza botta che poteva essere fatale: grosso successo! Mi
considero fortunato…vi pare poco?
Mia madre avrebbe voluto darmi due fratelli :uno è stato fatto fuori da un aborto spontaneo
causato dall’acqua fredda del mare mentre papà e mamma stavano giocando: un aborto idrico. Un
altro appena vista la luce si è messo paura e chiusi gli occhi non c’è stato modo di farglieli riaprire.
Sono figlio unico, tanto unico da essere rimasto completamente solo. Mio padre , muratore di prima
qualifica, un genietto del mattone, nel periodo estivo, di sabato e nei giorni festivi, arrotondava il
salario facendo il bagnino in uno stabilimento di Anzio frequentato dal bel mondo romano.
Avrebbe potuto arrotondare con un’attività più consona alla sua professione, eravamo in pieno
boom edilizio, ma il mare era la sua passione, specialmente quando c’erano le bagnanti: aveva una
particolare predilezione per i bikini, il due pezzi lo mandava in estasi.
Alto, occhi verde-celeste, baffetti ben curati, un torace così, adeguatamente villoso, delizia delle
villeggianti, qualcuna delle quali ogni tanto fingeva di affogare e quando arrivava il soccorritore
sveniva.
Mamma, giustamente gelosa, stava in guardia come una sentinella. Aveva ragione! Doveva
fronteggiare la concorrenza sleale. Quelle oltre ad essere “bone” erano anche piene di soldi, si
capiva dalle mance.
Non lo mollava un secondo. Mi portava spessi con lei perché per me stravedeva, ma anche per
richiamare costantemente alla realtà il coniuge.
Con tutte quelle donne in giro: era meglio prevenire che reprimere. L’eventualità di
sbandamenti era a portata di mano. La materia prima abbondava. Non so a quanto sia servito anche
se per fortuna tutto è passeggero.
Per me era l’occasione buona per prendere qualche lezione di nuoto. Ci mettevo tanta buona
volontà e facevo progressi. Mi aiutava la massa liquida del mare. Le gambe indisciplinate non
rispondevano ai comandi ma il resto funzionava abbastanza bene. A risolvere il problema delle
braccia ci pensava l’acqua: più annaspi e più ti tieni a galla. Come i gatti. Naturalmente facevo di
tutto per farle “annaspare” con un po’ d’ordine.
Mia madre teneva la famiglia unita. Il disabile ero io, mio padre per altre cause lo era più di me.
L’ho constatato quando il destino mi ha messo alla prova.
Si tratta di una cronaca piuttosto drammatica ma non voglio commuovere nessuno quindi
proverò a descriverla alla mia maniera, con un po’ d’ironia: è l’unico modo per sopravvivere. La
scalogna non va presa sul serio altrimenti ci prova gusto e no ti molla più. Spero di non lasciarmi
andare anche se alcune parti non potranno essere trattate con spirito goliardico.
La sera il mio genitore aveva normalmente la sbornia. Prediligeva il rosso anche se se il bianco
dei Castelli romani non era scomodo.
Non appena rientrato voleva fare l’amore, senza perdere tempo. Il suo “cupido” era parente
stretto di Bacco. Mamma ci doveva stare anche se stanca morto. Qualche volta tentava di opporsi
ma era inutile. Il talamo è talamo che scherziamo!
Io non vedevo, sentivo e faceva finta di niente. Da bambino pensavo che giocassero, poi con il
crescere, capito l’andamento delle cose, non ho avuto bisogno di approfondire.
La porta in camera, un breve silenzio e poi: il finimondo! Non ansimava, non sussurrava,
gridava a squarciagola! Sembrava ordinare la carica come nei films Western quando “arrivano i
nostri”. Mancavano gli squilli di tromba ma il resto c’era tutto, compreso il rumore dei cavalli al
galoppo magnificamente riprodotto dalle claudicanti zampe del letto. L’assenza della sparatoria non
mutilava l’effetto sonoro: non si può pretendere troppo. Qualche volta che lei si associava. Per
forza! Non era mica di sughero! Questo continuò fino a quando il cancro, innamoratosene, la
corteggiò e la fece sua.
Il rapporto con i miei genitori era bellissimo. Sia pure con le difficoltà dovute alla mia
condizione, dialogavamo molto. Le due paralisi avevano provocato guasti al fisico non alla mente
che aveva resistito e respinto ogni attacco. Per me era importante discutere, avevo davanti la vita e
volevo conoscerne il percorso.
Volevo impadronirmi della parola, esprimere i concetti e farlo con cognizione di causa. Anche
se la cultura di papà e mamma non era un granchè, si collocava ad un livello superiore a quello della
preparazione scolastica. Fin da bambino amavo il sapere, volevo apprendere.
Quando ho incominciato a leggere, ho scoperto un mondo nuovo. Poi la scuola: quella
dell’obbligo più due anni di professionale per segretario di azienda ed altri due di elettrotecnica.
L’ambiente scolastico, a parte le strutture che caratterizzano questa nostra Italia, è stato molto
ospitale. I compagni, sempre disponibili, facevano a gara per aiutarmi a superare le barriere
architettoniche: per il resto ero più che autosufficiente. Mi piaceva studiare non solo per compiere
un dovere ma perché lo trovavo esaltante. I primi libri, compresi quelli di fiabe, mi aprirono le porte
della conoscenza.
Man mano che andavo avanti mi ponevo nuovi interrogativi, volevo apprendere, esaminare
realtà nuove. La curiosità non aveva limiti, e la curiosità stimola il desiderio di scoprire. Il percorso
del sapere non termina mai.
Ero e sono consapevole della menomazione fisica. Cerco di viverla normalmente e,
possibilmente, con gioia. Proprio gli interessi, come la lettura, lo studio, l’ascolto della musica,
concorrono a determinare un certo stato di normalità. Non ho la mente sulla sedia a rotelle. La vita è
un dono di Dio e non può essere sprecato. L’uso appropriato dell’intelletto compensa il deficit
somatico. Mamma con la sua dolcezza mi era sempre vicina. Sentivo il suo calore. Bella, di statura
alta, proporzionata, viso ovale con occhi quasi parlanti, carnagione di velluto, niente trucco.
Originaria della zona delle modelle.
Conservo due foto in bianco e nero: in una mi tiene in braccio sulla riva del mare. Anche io ero
un bel bambino con “gambotte” che non mostrano i segni delle paralisi. Il sorriso di mamma
Maria, trasmetteva la gioia dell’animo, l’orgoglio di avere un figlio.
Io disabile non costituivo un problema, almeno così mi sembrava. Papà a casa ci stava poco. Era
lei che provvedeva a tutto.
Guardavamo la televisione e commentavamo programmi e fatti. Qualche volta le discussioni si
protraevano fino alle ore piccole. Non volevo mai andare a letto. Seguivo i documentari di Piero
Angela con un’attenzione particolare. Quelli di Quilici mi portavano in parti del mondo a me
sconosciute.
Ammiravo mio cugino Giorgio, sempre in movimento, indaffarato, rispettato dagli amici: un
capetto! Più che un parente era un amico. Abitava in un quartiere di Anzio chiamato “Bottaccio” o
“Anzio colonia”.
Il sabato e la domenica ci riunivamo lì dove mio nonno aveva una casa e siccome era un vero e
proprio lupo di mare, formidabile pescatore, le mangiate di pesce non erano una rarità. Con Giorgio
andavo d’accordo, il rapporto era solido. Lo seguivo ovunque, compatibilmente con le esigenze
della carrozzina che, quando c’erano lui ed i suoi amici, non conosceva ostacoli.
I miei genitori mi avevano messo in guardia: il cugino frequentava cattive compagnie. Ero
piuttosto incredulo perché quei ragazzi mi sembravano normali, bravi. Certo esuberanti, un po’
chiassosi, come tutti i giovani del resto. Probabilmente si trattava di altre compagnie a me
sconosciute.
Quando seppi che Giorgio era nel giro della droga il mondo mi crollò addosso. Non riuscivo a
crederci. Nulla me l’avrebbe fatto pensare. Proprio nulla: sempre lucido, allegro, di felice
conversazione, un equilibrio molto più vicino alla saggezza di quanto la giovane età avrebbe
normalmente consentito.
Una volta, premettendo la mia incredulità dovuta anche al suo comportamento, gli posi la
domanda con un certo tatto, sottolineando “che avevo sentito dire”.
Eravamo soli: un breve silenzio, un certo imbarazzo, e poi lo sfogo. Vuotò il sacco mi disse che
ci si era trovato involontariamente, quasi per gioco, mi ragguagliò sui minimi particolari, si trattava
di un giro esterno a quello dei ragazzi che mi aveva presentato.
Aveva iniziato in casa di amici durante una festa, non voleva fumare, temeva che gli facesse
male come la sigaretta di tabacco che aveva provato qualche tempo prima e gli aveva fatto vomitare
anche l’anima. Quando arrivò il suo turno, provò a rifiutarsi ma fu tanta l’insistenza che aspirò lo
spinello. Effettivamente non era come il tabacco.
Con il passare del tempo l’ashish fu sostituita da piccole dosi di cocaina, gli dicevano che quella
costava moltissimo, intanto stava entrando piano piano nella spirale. Le prime dosi di eroina gliele
davano gratuitamente, poi cominciarono a pretendere il pagamento, lui non poteva, non aveva i
soldi, aveva trafugato qualcosa alla mamma, non temeva tanto che se ne accorgesse, quanto che
gliene chiedesse la destinazione.
Gli fu proposto di spacciare in cambio della dose per uso personale. Cercava di evitare di
“allargarne la diffusione”. Si rendeva conto della nocività della “roba”, tagliata anche con sostanze
molto tossiche. Si limitava ai clienti abituali, compagni di siringa. I trafficanti lo sfruttavano.
Avevano iniziato a ridurgli la dose personale; esigevano che aumentasse il “fatturato”.
Lo ascoltavo con un’attenzione da auditorium.. Fu una conversazione liberatoria. Aveva gli
occhi lucidi. Era disperato. Mi raccomandò di non caderci mai, mi spiegò che quello che
inizialmente sembra un paradiso, si trasforma in una bolgia infernale dalla quale è difficile uscire.
Secondo lui non vi sono droghe buone e cattive: sono tutte cattive. Tutte, nessuna esclusa: leggere e
pesanti.”I problemi della vita vanno affrontati diversamente –mi disse- anche quando sempre che la
disperazione ti abbia sponsorizzato. Ero mortificato dalla disoccupazione, per andare al cinema
dovevo chiedere i soldi a mamma: Quello che forniva gli spacciatori navigava nell’abbondanza e
mi diceva che un giorno anche io sarei stato come lui. Intanto vivevo nella miseria e mi drogavo
per non pensare. Mi rendevo conto che era assurdo.
Bisogna reagire, pensare ad altro, magari sbattere la testa contro il muro, mai farsi prendere
dal buco. La siringa non può surrogare la felicità o il benessere, tanto meno allontanare i problemi
che sono propri dell’esistere. Anche quando subito dopo ti sembra di star bene, di non pensare più
a niente, di vivere nel paese dei balocchi, improvvisamente tutto crolla nel corpo e nell’anima, fino
alla devastazione, all’over dose, alla definitiva disgregazione”. Deciso ad uscirne lo aveva
comunicato a quelli del giro. Voleva smettere. Sapeva che sarebbe stata dura ma era determinato.
Se non avesse temuto il clamore ed i rilessi sulla famiglia, avrebbe fatto in modo di farsi
arrestare, convinto che dietro le sbarre avrebbe sofferto ma solo così, con la costrizione, avrebbe
potuto fare a meno di quella maledetta roba. Aveva saputo poi che nelle carceri lo spaccio avviene
come fuori.
Quello della droga nelle carceri è un fenomeno del quale si parla quasi con indifferenza , come
se fosse una cosa normale.
Chi la fa entrare? Ci devono essere per forza delle collaborazioni interne. Delle connivenze. Si
tratta di un’area limitata, controllata, vigilata. Non è possibile che sfugga alla vigilanza. Chi
spaccia? Chi la fornisca agli spacciatori interni? Insomma i giovani spacciatori vengono arrestati
perché trovati a vendere la roba, e chi arresta quelli che la introducono in carcere? Anche questo è
un problema irrisolvibile? Le armi per esempio, è molto improbabile, quasi impossibile che
riescano a passare, forse perché possono essere usate contro chi vigila mentre la droga no? Ma
questo è madornale!
Giorgio avrebbe chiesto ospitalità ad una delle comunità per tossicodipendenti. Pensava con
terrore alla crisi di astinenza, ma era convinto che se non avesse agito si sarebbe avviato verso la
totale distruzione fisica e mentale fino a porre la parola fine all’esistenza.
Quelli del giro lo avevano minacciato di morte se avesse mollato.
Ormai aveva deciso: non avrebbe più spacciato. Opponeva un rifiuto netto senza ipotesi di
ripensamenti.
Andarono a trovarlo a casa, travestiti da poliziotti, se ne accorse, tentò di fuggire dalla finestra,
lo freddarono crivellandolo di colpi.
Quando lo seppi caddi in una prostrazione profonda. Quel cugino per me era prezioso.
Insomma anche questa era andata… bene (!?): avevo un amico che ammiravo, al quale ero
affezionato, sempre disponibile, con il quale andavo per strade, piazze e prati e me lo avevano fatto
fuori.
Che fortuna ragazzi! Se mi metto a fabbricare cappelli spariscono le teste. Non mollo però!
Non…mo…llo! Quel vigliacco di fato mi deve fregare alle spalle perché se me lo trovo davanti
facciamo i conti: una scarica di cazzotti sul muso non gliela toglie nessuno ed anche se non posso
governare le gambe gli schiaccio le palle con la carrozzina.
In famiglia le cose non andavano male, a parte le sbornie di papà ed il loro suggestivo epilogo
erotico.
Un giorno il male, senza bussare, senza suonare il campanello, senza chiedere permesso, ha
aperto, è entrato ed ha violentato mia madre. Si è accanito su di lei con una ferocia da mastino.
Sono stati giorni e mesi terribili.
La vedevo soffrire e non potevo fare nulla, ero completamente inerme. Notavo l’immane sforzo
per apparire normale, per far finta di niente, non voleva impressionarmi. Quando la sofferenza non
ha sfogo nel lamento o in una lacrima sia pur silenziosa, la sua intensità si trasforma in tortura.
Mi comportavo come se nulla fosse, se non altro per far avere successo al suo sacrificio, poi con
qualche scusa cercavo un angolo nascosto per un pianto consolatore. Mamma non faceva neanche
questo: sempre sorridente anche se il dolore non riusciva completamente a camuffarsi. Tutti e due
recitavamo la parte preoccupati l’uno dell’altro. Lei con l’aggravante che oltre a soffrire
tremendamente viveva, tutto intero, il dramma di dovermi lasciare. Aveva capito che non c’era
scampo: se ne sarebbe dovuta andare. Stavo per perdere quanto avevo di più caro al mondo. L’unico
“punto di appoggio”. Mi domandavo come avrei fatto senza di lei.
Perdere la madre è sempre una tragedia a qualunque età ed in qualunque condizione, nel mio
caso lo era particolarmente perché amica, compagna, sostegno in tutto e per tutto. Il suo non era
l’amore materno che caratterizza generalmente le mamme, ma un indispensabile sussidio. Pregavo
Dio che me la conservasse.
La mia disabilità si trasformava in gioia con lei vicina. Anche la carrozzina era diversa.
Avevo pagato un pesante pedaggio all’inizio del percorso della vita, se mamma mi avesse
lasciato sarebbe stato il colpo di grazia. Doveva succedere? E perché? Era proprio inevitabile?
Religiosissima, cattolica praticante, si rivolgeva al suo Gesù ed alla sua Maria della quale
portava il nome, non solo ora che era malata ma da sempre, in qualunque occasione e per qualunque
problema: nel dolore e nella gioia.
Una volta, evidentemente esasperata da tutto quello che stava accadendo, si rivolse ad un’effigie
del Redentore e gridò con la poca voce che gli era rimasta: “Perché Gesù? Perché? Che vuoi da
me? Che ti ho fatto di male?”. La strappò, la fece a pezzi e subito si mise a pregare per chiedere
perdono.
Il 1° Febbraio 1984 se n’è andata. Anche se non ero al suo capezzale, l’ho pregata di farmi
compagnia da lassù. Avevo compiuto diciassette anni.
Me la sentivo vicina. Avvertivo il leggero spostamento d’aria di quando mi passava accanto.
Qualche volta il ricordo è così vivo che la vedo, come se si materializzasse, senza i segni del male,
con la bellezza integra. Sento il tepore delle sue carezze, le parole, i mormorii, il canto aiutato da
una voce armoniosa. Per dirla con Ungaretti: “m’illumino del suo sorriso” che per me è molto di più
dell’”immenso”.
Da quando mamma era stata ricoverata all’ospedale Regina Elena di Roma dopo che il male
aveva presentato le credenziali, mio padre era cambiato, completamente trasformato. Vestiva
elegante, usciva spesso, si profumava. Sempre ben rasato. Aveva quasi smesso di bere. Era
diventato un frequentatore assiduo della doccia.
A me riservava particolari cure, si faceva carico di tutte le necessità compresa l’alimentazione:
quando non riusciva a fare in tempo a cucinare mi portava gustose pietanze da un vicino ristorante.
Tanta trasformazione non mi persuadeva, ero convinto che avesse una donna. La supposizione
si rivelò azzeccata: papà si era fidanzato!
Un giorno mi parlò della “nuova passione” comunicandomi che data l’età (42 anni), non poteva
rimanere senza una compagna per tutta la vita e in previsione della ormai certa scomparsa di
mamma, aveva “provveduto” a rimpiazzarla.
Me lo disse senza tanti complimenti: papale papale, come se fosse la cosa più normale di questo
mondo.
Viva la faccia della sincerità!
Non solo, siccome ero rimasto solo in una casa vuota, senza alcun aiuto oltre al suo, che però
doveva conciliare con l’orario di lavoro, la fidanzata sarebbe stata felice di ospitarmi anche per fare
un po’ di “rodaggio”.
Avrei dovuto familiarizzare con la matrigna pur avendo ancora la mamma. Credo che sia un
caso più unico che raro.
Ragazzi questo è pragmatismo!
Rimasi interdetto, mi tastavo per verificare se ancora c’ero, lo ascoltavo sorpreso, incredulo,
allibito, sfuggiva al mio sguardo, continuava a parlare, quel che mi diceva mi sembrava irreale,
privo di contenuto, semplice vocalizzo, tanto lo ritenevo assurdo, inimmaginabile. Fra l’altro non
potevo neanche ipotizzare “attenuanti” dovute a condizioni particolari come per esempio l’effetto
dell’alcool.
A parte il fatto che si era allontanato dal bicchiere, era mattino e la sera precedente era rientrato
perfettamente in forma, dopo essersi intrattenuto a commentare una trasmissione televisiva mi
aveva aiutato a coricarmi e dato il bacio della buonanotte. Era nella piena facoltà d’intendere e di
volere! Soprattutto di volere.
Avevo pensato a qualche scappatella (d’altra parte l’uomo aveva la “U” maiuscola e la “M” di
maschio piuttosto accentuate) ma mai che la situazione fosse ad uno stadio così avanzato. Dopo
qualche insistenza mi fece chiaramente capire che “o mangiavo la minestra o saltavo la finestra”. Se
non avessi accettato la sconcertante proposta sarei rimasto solo perché al nuovo matrimonio non
avrebbe, per alcuna ragione, rinunciato. Dava tutto per scontato.
Che potevo fare? Ho cercato di spiegare che non era corretto, anzi era crudele, mamma ancora
viva poteva guarire, un miracolo si poteva sempre avverare, pregavo per questo.
Era in cura, poteva darsi che migliorasse, e poi se in qualche modo lo fosse venuta a sapere,
sarebbe stato molto più doloroso del male, ne avremmo accelerato la fine, me complice: una
pugnalata alla schiena, un matricidio!
Parlavo sperando di conseguire qualche risultato, mi rendevo conto però che era tutto inutile.
Non riuscivo a trattenere il pianto: lacrime di rabbia oltre che di dolore.
Non servì a nulla. Secondo me anche lui non si rendeva conto pienamente della gravità dell’atto.
Sembrava che tutto fosse così naturale.
Addirittura voleva dare ad intendere che lo faceva per il mio bene. Per non lasciarmi solo oggi
domani. Per garantirmi comunque un aiuto.
Se non fossi stato disabile, se qualcuno mi avesse dato una mano almeno a farmi da mangiare e
le pulizie, se fossi stato un po’ indipendente. Se avessi avuto i mezzi per compensare una
collaborazione domestica, se vi fosse stato un minimo di assistenza domiciliare, me ne sarei restato
solo in quella casa, papà avrebbe potuto propormi anche il paradiso terrestre ma non mi sarei
mosso.
Speravo che ci ripensasse, non m’importava delle sue “frequentazioni amorose” anche se
ovviamente mi davano noia (mamma stava soffrendo devastata dalla chemioterapia) bastava che mi
facesse rimanere nella casa dove avevo vissuto con la mia Maria.
Niente da fare, mi hanno trasferito. Ci sono dovuto stare. A nulla è servita la mia resistenza.
La signora aveva una figlia frutto di una altro amore. Con me, durante quel tristissimo periodo,
si è comportata bene, anche troppo! Una dedizione eccezionale, sorprendente, ovviamente sospetta.
Non c’era bisogno che chiedessi qualcosa, mi anticipava sempre.
Sembrava che leggesse nel pensiero. Pronta a servirmi.
Costantemente al mio fianco pur essendo evidente l’irritazione che non riuscivo a nascondere.
Avrei voluto fare lo sciopero della fame ma non ne ho avuto la forza. Piena di attenzioni, comprese
le carezze, quasi che avesse progettato di farmi dimenticare mia madre della quale,
intelligentemente, parlava spesso, elogiandone le qualità non solo estetiche.
Anche la cucina era stata adeguata ai miei gusti. Conosceva i piatti preferiti, evidentemente
informata dal fidanzato. Se non ci fosse stato in “non trascurabile” particolare che Maria Salemme
giaceva in un letto d’ospedale in compagnia del cancro, si sarebbe potuto parlare di una “pacchia”,
ma quelle moine mi davano noia e non riuscivo a nascondere il disappunto.
Non ce la facevo a rimuovere la tristezza, il risentimento per non dire l’odio. Ogni complimento,
ogni attenzione, era per me un’offesa. Non c’era bisogno di un intuito particolare per capire che si
trattava di un tentativo di surrogare l’insostituibile amore di mia madre. Questo solo pensiero mi
mortificava a sangue.
Intanto Maria peggiorava, sempre più erosa dal tumore. L’avevo vista una volta: sconvolta dalla
chemioterapia, senza capelli come una giovane deportata nel lager nazista di Auschwitz, scarnita,
con un colore cinereo, quasi grigio, immensi occhi contornati di giallo, sporgenti da caverne
scheletriche, ridotta a pelle ed ossa.
Quella non era, non poteva essere la mia Maria, mi riusciva difficile individuare qualche
connotato di quando era sana o alla prima apparizione del male.
Lei stessa sembrava non riconoscermi. Mi guardava con profonda tristezza. Non riusciva a
sorridere. Si era fatta trasportare ad Anzio. Voleva vedermi per l’ultima volta.
Fui preventivamente riportato alla casa materna con l’assurda raccomandazione di non far
minimamente cenno all’ “alloggio di prova”.
Come se ve ne fosse stato bisogno. Come se non fosse stata prima di tutti mia la preoccupazione
di evitare che mamma venisse a sapere qualcosa di quello che stava succedendo. Vivevo nel terrore
che qualche “comare” parlasse.
Non doveva accorgersi di niente. Sarebbe tornata a Roma convinta che il suo Pino stava bene.
Nelle poche ore che si è trattenuta molte amiche le hanno fatto visita. Non riuscivano a nascondere
la dolorosa sorpresa e questo, ritengo, abbia impedito ogni eventuale informazione sulla situazione
in atto. Si limitavano, con un certo imbarazzo, ad affermare quasi coralmente che la “trovavano
bene”.
Quando è tornata a Roma, sembra madornale, ho provato un certo sollievo. Per fortuna le
bocche sono rimaste cucite. Ha trovato tutto in ordine, è partita tranquilla, soddisfatta, riconoscente
a papà che mi curava bene, fra l’altro ero anche un po’ ingrassato. Mi ha salutato con un abbraccio
interminabile quasi volesse fondere il suo con il mio corpo, riportarmi nel grembo.
Ho saputo della sua morte dopo che è avvenuta. Non ho potuto neanche accompagnarla al
cimitero. Povera Maria mia! Certamente se ne è andata con Pino sulle labbra.
Traboccavo di amarezza. La crudeltà non deflette neanche di fronte alla tragedia. Non mi
riferisco tanto a mio padre che ormai aveva perso la testa, ma a tutto il resto.
Morta mia madre il clima è completamente cambiato, sono stato ricoverato o meglio (!?)
internato in un ospedale per lungo-degenti. Mio padre che prima ogni tanto telefonava, ora non si
faceva più vivo. Una sola volta è venuto a trovarmi per farmi firmare un foglio che sarebbe servito a
percepire la pensione.
Ho saputo dopo che si trattava di una delega a riscuotere per mio conto.
Mi ha fregato oltre quattordici milioni, fino a quando ne ho parlato ad un’assistente sociale che
mi ha giustamente fatto compilare la delega cercando di farmi recuperare qualcosa del maltolto. Mi
hanno detto che è stata durissima. Lo ha minacciato di denuncia.
Quella dell’ospedale è stata un’esperienza drammatica, dolorosa, tragica, in un ambiente ostile.
Ero desolatamente solo. Anche i nonni si erano trasferiti di là. Il resto del mondo sembrava
scomparso. Non sapevo a chi chiedere aiuto. Mi facevano sentire un peso. “nell’assistenza”
mancava l’umiltà.
Non mi rivolgevano mai la parola, discutevano dei loro affari, dello stipendio, degli straordinari,
della tredicesima, dell’indennità, degli eventuali aumenti, del rinnovo del contratto di lavoro, delle
loro avventure, di dove sarebbero andati in ferie.
Inutilmente tentavo di conversare. Era come se non ci fossi o fossi una sostanza inerte. Anche la
spinta alla carrozzina (non avevo ancora quella elettrica) era solo un atto meccanico, quasi che
trasportasse un pacco. Tutto avveniva come se si trattasse di stringere un bullone.
Prima di assumere certa gente dovrebbero sottoporla ad un esame attitudinale, dopo un corso di
umanità, ammesso che l’umanità possa essere materia d’insegnamento. Non mi riferisco solo ai
disabili ma a tutti quelli che sono costretti ad andare in ospedale.
Un ammalato si trova sempre in particolari condizioni d’animo a parte quelle fisiche: ha dovuto
lasciare la famiglia, è ora in una camera con sconosciuti, spaesato. E’ naturale che il suo
comportamento sia piuttosto anormale, qualche volta troppo esigente. Il cambiamento di ambiente è
radicale, shockizzante.
Ci vorrebbe personale sensibile, che con buone maniere facesse comprendere le difficoltà, per
esempio: “correre” quando si suona il campanello, soddisfare quello che veniva soddisfatto
nell’ambiente domestico, almeno in un primo tempo, per superare l’impatto e facilitare il processo
di ambientamento. Invece in molti casi, fatta qualche rara eccezione, le cattive maniere la fanno da
padrone.
Se non fosse paradossale sarebbe il caso di far ammalare periodicamente certe persone,
ricoverarle e farle assistere da chi, bene addestrato, dovrebbe comportarsi come si comportavano
loro quando stavano bene. Insomma far provare loro dal vivo che cosa vuol dire la mancanza di
umanità. Credo che potrebbe essere utile, anche salutare.
Non accettavo un tale stato di cose, dovevo reagire. Qualcosa dovevo fare. Ora era troppo! Non
poteva, non doveva continuare.
La dolcezza di mia madre era ormai lontana anni luce anche se viva nel ricordo, sostituita
dall’indifferenza e l’indifferenza fa male più dell’affronto. Qualche volta è più crudele della
malvagità.
No riuscivo a rassegnarmi. Non era possibile. Perché? Chi si accaniva tanto contro di me?
Perché Dio mi metteva così alla prova? Non erano sufficienti le mie condizioni? Il dipendere per
tutto o quasi? Come avrei potuto continuare così?
Non avevo scelta: o trovavo la forza di difendermi in qualche modo o mi lasciavo andare fino
al’auto-estinzione.
Mi venne a dare una mano la rabbia che mi armò di aggressività. Fino ad allora avevo ignorato
quella “risorsa”. Diventai violento. Scaricavo così la tensione. Non ce la facevo più.
Quello stato di cose doveva finire. Era l’unico modo per potermi un po’ difendere, per
richiamare l’attenzione di qualcuno su una situazione diventata intollerabile. Per non soccombere.
La mia integrità mentale non poteva essere messa in discussione. Non correvo rischi di
manicomio. Probabilmente un pensierino ce lo avevano fatto ma sarebbero state necessarie troppe
connivenze. Avevo constatato che la reazione agli sgarbi dava buoni risultati.
Non mi ero piegato alle minacce, neanche agli schiaffi che dovevo subire non potendo restituirli
a causa della dinamica del movimento.
Mi arrangiavo in qualche maniera, colpendo al corpo, anche se per loro era estremamente facile
schivare. Però non gliela facevo passare liscia: quando meno se l’aspettavano, prendevo la rincorsa
con la carrozzina , aiutandomi con i piedi e gli andavo addosso.
L’azione di rappresaglia non doveva mancare per nessuna ragione, anche a distanza di tempo.
Alla violenza reagivo con la violenza , alle buone maniere con le buone maniere: dovevano
capire.
Constatai il loro terrore quando minacciai di rendere nota la situazione a qualche giornale
tramite il telefono. Proprio in quei giorni le cronache registravano i maltrattamenti in uso in un
ospizio per vecchi. Un vero e proprio crimine. Vi furono parecchi arresti.
Fu scoperto anche un traffico di libretti di pensione sequestrati ai ricoverati che erano stati
obbligati a rilasciare delega di riscossione ai privati gestori i quali ai pensionati non facevano
vedere una lira.
Se avessi conosciuto Francesco d’Assisi gli avrei chiesto di chiamare anche la rabbia “Sorella”.
Si “Sorella rabbia”.
Dieci interminabili anni in quelle stanze. Dieci anni di dolorose umiliazioni.
Le uniche persone che hanno capito la mia tragedia sono state il fisiatra dottor Paolo Vinci e
l’infermiera professionale Claudia Gerardi.
Di Claudia parlo in un’altra parte del racconto. Hanno capito la lacerazione de mio animo che
sanguinava, giorno per giorno, aggredito dal ricordo dei tempi felici.
Avevo accettato la menomazione fisica, la vivevo con gioia, non con rassegnazione (la
rassegnazione non produce gioia) perché avevo a me vicina quella magnifica creatura che mi aveva
messo al mondo.
Prima il dolore mi ha piegato, poi mi sono incazzato con il destino, questo gran figlio di puttana,
che non so perché ce l’ha sempre avuta con me. Eppure non mi risulta di avergli fatto qualcosa di
male, non lo conosco, mai visto!
Almeno si fosse presentato, avesse assunto qualche forma, mi avesse affrontato a viso aperto.
Avesse avuto il coraggio di guardarmi negli occhi. No! Sempre a mia insaputa, da dietro l’angolo,
nel buio.
Vi assicuro che se lo avessi conosciuto lo avrei riempito di botte e se fosse stato possibile lo
avrei anche ucciso per legittima difesa. Ho cercato di reagire affidandomi all’aggressività, la sorte
aveva scaraventato tutta la sua furia contro di me ed io ero inerme. Lei colpiva ed io non potevo
difendermi. Bella forza!
Paolo fu subito amico, esercitava la professione di fisiatra con scrupolo, mosso da un profondo
amore per il prossimo. Era convinto che sarei riuscito a camminare se mi fossi sottoposto ad alcuni
interventi chirurgici. I colleghi non condividevano questa opinione anche perché prima di essere
ricoverato in quell’ospedale, avevo conosciuto il bisturi ma i risultati erano stati nulli.
Dopo aver discusso a lungo erano arrivati alla conclusione che avendo raggiunto la maggiore età
il diritto di decidere spettava solo a me. Paolo era comunque rimasto nella convinzione che
determinate operazioni mi avrebbero permesso di lasciare la sedia a rotelle, anche perché la
tecnologia aveva fatto passi da gigante e secondo lui valeva la pena rischiare: male che fosse andata
sarei rimasto nelle attuali condizioni. Certo che c’era da mettere in conto il dolore fisico, ma
sarebbe stato reso sopportabile dai farmaci dell’ultima generazione.
Poco tempo dopo il mio amico fisiatra fu trasferito, su personale richiesta, all’ospedale di
Ariccia. Prima di salutarlo mi chiese di avvertirlo nel caso in cui avessi deciso di farmi operare.
Affermava che una mente sana alloggia meglio in un corpo sano: “mens sana in corpore sano”.
Coglievo il significato nobile della citazione pur sapendo che per quanto avessi voluto impegnarmi,
il mio corpo non avrebbe mai potuto essere sano nel vero senso della parola. La mente si. Quella lo
era e ringraziando Dio lo è.
Però pensandoci bene arrivai alla conclusione che anche il mio corpo con le sue bizzarre
“varianti” poteva mantenersi sano. Seguivo alla lettera i suggerimenti di Paolo perché comunque
giovavano alla salute e fra l’altro non volevo deluderlo. Doveva aver successo, infatti i
miglioramenti erano evidenti. Consideravo Paolo e Claudia un dono di Dio.
Nessuno mi veniva a trovare. Tutti erano scomparsi. Tutti! Dai aprenti agli amici. Loro erano la
mia vita. Oltre che curare il corpo alimentavano lo spirito. Gesù non potrà non tenerne conto nel
giudizio. Sono certo che per il Creatore e per Suo Figlio vale molto più questo che mille preghiere.
In quei dieci anni sono cresciuto “tanto”, non solo per la naturale spinta del calendario, ma
dentro. Ho temprato il carattere. Il dolore mi ha maturato e mi ha aiutato ad amare la vita. A
considerare tutto sempre molto relativo. A convincermi che il definitivo non esiste.
Non ho fatto studi umanistici, ho frequentato scuole tecniche.
Un amico durante una conversazione sull’esistenza e sulla sorte riservata ad ogni vivente,
parlando dei momenti di gioia e di dolore, ha citato la teoria di un certo Eraclito, filosofo greco, il
quale ogni tanto si fermava, pensava, esclamava “panta rei” che vuol dire “tutto scorre” e
riprendeva via. Il tempo passa velocemente e le cose della vita sono destinate a finire. I napoletani
dicono “Ha da passà a nuttata!”
Fino a qui il conto torna: Eraclito però mi sembra un po’ bizzarro quando sostiene che a
originare l’universo è stato il fuoco, anche perché vorrei sapere chi lo ha acceso.
Personalmente potrebbe interessarmi quando afferma che tutto tende a trasformarsi nel suo
contrario: il freddo in caldo, il caldo in freddo, il giorno in notte, la notte in giorno, il bello in brutto,
il brutto in bello, il sano nell’insano,l’insano nel sano, il “disabile” in “abile”, “l’abile” in
“disabile”, la vita si fa morte , la morte si fa vita. Una specie di girotondo.
Per quanto mi riguarda oggi dovrei essere il contrario di quello che ero ieri e di quello che sarò
domani. O mi sbaglio? Questa domanda non può rimanere senza risposta.
A regola di bazzica la situazione attuale è il contrario di quella precedente e di quella che verrà,
quindi il futuro dovrebbe essere radioso.
Se oggi sono così ieri ero bello, atletico, fine dicitore, insomma un Adone. Il che vuol dire che è
questione di tempo ma tornerò ad esserlo. E poi? Al passaggio successivo? Un’altra volta sulla
carrozzina o barcollante? Eh noh eh!
Caro Eraclito qui ci dobbiamo mettere d’accordo. Così non può andare. Cerchiamo di operare
qualche variazione nei turni. Insomma se tu mi dici che una volta sarò bello ed una brutto ma sano,
ci posso anche stare, ma se una volta mi fai essere un Adone ed un’altra mi ancori ad una sedia a
rotelle, la differenza è troppa non ti pare?
Non si potrebbe giungere ad un accomodamento? Una soluzione da buoni amici? Non chiedo di
essere sempre un Adone, non pretendo troppo, ma almeno un “cicloamatore”. Come vedi la mia
proposta tutto sommato è modesta, si potrebbe arrivare ad un “gentlemen’s agreement” un accord
tra gentiluomini.
Tu che capisci che con una tale prospettiva anche l’attuale stato di cose sarebbe meno
complicato. Per esempio se Gabriella (non la conoscete ne parlerò un po’ più avanti) sapesse che un
giorno sarà brutta ed io bello pimpante, ora farebbe meno la furba perché oggi sono incudine ma
domani sarò martello. E poi le donne sono strane: quelle belle normalmente preferiscono i brutti
purchè abbiano tutti gli ingranaggi a poso. Del resto anche loro quando sono bruttine, con i mezzi
moderni diventano un “tipo”.
Allora d’accordo? Su questa base ci sto altrimenti preferisco i tuoi concorrenti che dicono che
avremo diverse vite con varie forme prima di raggiungere la perfezione. E’ vero che si rischia di
nascere cavallo, ma tutto sommato, se puro sangue e per giunta stallone, è un’esperienza da fare.
Conviene forse l’attuale pensiero religioso: se fai la persona per bene e ami il prossimo tuo come te
stesso ti ritrovi di ruolo in Paradiso.
Amo la vita, l’amo con tutte le forze, credetemi!
Paolo aveva molto sofferto e per capire uno che soffre bisogna conoscere dal vivo la sofferenza.
Non era un raccomandato. Aveva studiato a suon di sacrifici. L’aveva spuntata su raccomandati e
super raccomandati. Qualche volta questo succedeva, anche se raramente, se non altro perché
costituiva un alibi. E poi di fronte ad un’evidenza tanto plateale che contrapponeva l’intelligenza e
la capacità al vuoto, il pudore non poteva fare a meno di recitare la sua parte.
Il tempo è passato. Mi separa da Paolo la distanza chilometrica ma i nostri cuori sono legati ad
un filo sottile che mai si spezzerà. La bontà non conosce barriere, è un valore eterno.
Un ricordo è rimasto scolpito in me come la punta dello scalpello sul granito: quando andai per
la prima volta a Lourdes, accompagnato da Paolo.
Fu un viaggio lungo, faticoso ma meraviglioso, indimenticabile.
Era un vero amico. Mi conduceva dalla Madre delle genti in una grotta, per pregare ed
aspergermi con l’acqua della sorgente che Bernadette Soubirous aveva provocato scavando con le
mani nella grotta inferiore su suggerimento della Madonna. Vivevo, sia pur per poco tempo, in
mezzo a quella moltitudine di disabili avvolti nella speranza del miracolo.
Il miracolo non è solo quello di buttare alle ortiche la carrozzina, correre saltare, giocare a
pallone, ma anche e soprattutto quello di considerare la propria condizione con la gioia della vita
che Dio ci ha dato.
Perché la vita, qualunque vita, è un dono di Dio. e Mettere a profitto la nostra sensibilità,
utilizzare bene l’intelletto, fare buon uso del nostro animo, paghiamo oggi questo prezzo che
almeno io considero un investimento per l’eternità, altrimenti dovrei pensare ad un Dio ingiusto. Se
così non fosse la disperazione la farebbe da padrona e alla disperazione non c’è rimedio perché è
l’opposto della speranza e senza la speranza la vita è un inferno per tutti.
Gesù ha detto, lo testimonia il Vangelo di Luca:
-“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio”.
-“Beati voi che avete fame perché sarete saziati”.
-“Beati voi che ora piangete perché riderete”.
E Gesù mantiene la parola. Non dà fregature. Non è un politico.
Attualmente risiedo in una piccola casa-famiglia nel comune di Fermentino, provincia di
Frosinone. Oltre a me ci sono altri nove amici. Da quando mi sono trasferito qui “vivo”. Tutto è
diverso. Vi è nei comportamenti l’umanità della fratellanza.
Il personale è preparato, affabile, rispettoso delle nostre personalità, non considera diversità il
nostro stato. Per me è anche difficile definirlo personale tanta è la familiarità dei nostri rapporti. Lo
posso affermare senza adulazione avendo come comparazione l’esperienza passata.
Alcuni giovani volontari dedicano a noi il tempo libero, ci fanno compagnia, giocano con noi a
carte, scrivono quello che dettiamo, ci aiutano a telefonare. Qualche obiettore di coscienza non ha
scelto solo il rifiuto delle armi ma un’alternativa tanto impegnativa che, se non sostenuta da una
forte carica ideale, diventa qualche volta prova insostenibile!
Qui si deve fare tutto: dal soffiare il naso a chi ne ha bisogno ad “altro”. Un “altro” che non
pone limiti all’immaginazione, non per tutti s’intende! Di questa gioventù, dell’opera che svolge,
della bontà che profonde, nessuno parla mai. Solo il male, le azioni criminose fanno “audience”,
mandano a ruba i giornali.
Il bene non gode della “par condicio” sugli organi di informazione.
E’ difficile essere considerati normali da chi non ci conosce bene, anche nelle più genuine
espressioni di affetto. Mi spiego meglio: noi abbiamo bisogno di molto aiuto, su questo non ci sono
dubbi. Una parte del nostro corpo se ne va a briglia sciolta a fare i propri comodi anche quando
quella non lesa del cervello dà precisi ordini alla centrale operativa del movimento. Questo impone
a chi ci assiste un tipo particolare di rapporto ma la nostra invalidità fisica non si estende alla mente.
Normalmente è inversamente proporzionale a sensibilità ed intelligenza. Non potrebbe essere
che così se non altro per la legge di compensazione che mette in moto un processo psichico,
prevalentemente inconscio, rivolto a compensare stati d’inferiorità fisica o psichica ristabilendo una
condizione di equilibrio.
La difficoltà ad esprimerci con la parola è provocata da un difetto di movimento labiale non
cerebrale. E’ un fatto meccanico non di volontà. Infatti il ragionamento nel suo contenuto non si
diversifica da chi non ha il nostro inconveniente, se non per l’aspetto fonetico e se qualche
differenza concettuale c’è, è in meglio nella maggior parte dei casi. Fra l’altro la concisione
s’impone. Purtroppo però come afferma lo scienziato inglese Stephen Hawking inchiodato ad una
carrozzina, condannato all’immobilità da una grave malattia nervosa: “se hai un difetto che
t’impedisce di pronunciare distintamente le parole, la gente tende a trattarti come un deficiente”.
Proprio per l’accentuata sensibilità cui ho fatto cenno, le nostre espressioni di gioia, la risata per
esempio, non è intervallata da quelle brevissime pause convulse che la caratterizzano nella
normalità. La voce esce uniforme, prolungata, a bocca spalancata. Descrive allegria e soddisfazione
con eccezionale enfasi. E’ una risata provocata da particolari sensazioni come per tutti, esternata
con un maggio clamore.
Spesso ci si comporta con noi come se fossimo bambini. Sappiamo che tutto questo è suggerito
dall’amore e dalla dedizione, negarlo sarebbe ingeneroso ma non siamo più bambini, siamo come
voi: bambini, adolescenti, giovanotti, maturi e così via fino ad essere anziani e vecchi se Dio ce lo
consente.
Se dico una cazzata non mi si deve dare ragione solo perché sono disabile, mi si deve dire:
“Pino mi hai detto una cavolata” e discutere, dimostrare che non è soltanto una personale opinione
ma è vero. Così, normalmente, alla pari.
Quando chiediamo qualcosa che risponde più alla soddisfazione di un capriccio che ad una reale
esigenza, si deve dire “no”. Non ci si deve dare vinta comunque.
Spesso l’assenso fa più male del dissenso quando è promosso solo dalla particolare condizione
in cui ti trovi, perché mette in discussione in buon senso, il corretto uso della ragione. Mostra tutti i
lati della sua superficialità.
Invece di alleviare aggrava, ti rendi conto che è effetto della condizione stessa. Insomma è più
pietà che amore e la pietà può mortificare la dignità.
NON SI GIOCA CON I SENTIMENTI
“Avevo fatto di tutto per evitare quel
che
avevo
temuto:
confondere
l’amicizia con l’amore, la pietà con
l’amicizia e questa appunto con
l’amore. Il suo comportamento mi
aveva dato la certezza di un sentimento
con caratteristiche, diciamo così,
tutt’altro
che
di
ordinaria
amministrazione”.
Sono piuttosto “cottarolo”. Prendo delle “sbandate” furibonde. Mi innamoro a tutto tondo con
una intensità che supera l’orizzonte dell’immaginazione.
In queste condizioni la linea di demarcazione tra la gioia ed il dolore è inavvertibile. Come
quando prendi in mano un pezzo di ghiaccio secco, quello che fuma: non sai se gela o brucia.
Spesso nei rapporti con l’altro sesso i miei sentimenti non vengono valutati nella loro reale
dimensione. Si pensa che siano più fragili perché sono fatto “così”. Invece ne sono completamente
pervaso anche se responsabilmente consapevole, fino allo stare in guardia con una certa diffidenza.
Ho, ripeto, inconvenienti fisici ma le facoltà mentali sono integre, normali, il mio cuore batte ,
non solo anatomicamente, come quello di tutte le creature ragionevoli.
Lo stesso stimolo sessuale non si differenzia in nulla da quello della normale virilità con suoi
“iper” ed “ipo”. Per quanto riguarda me personalmente credo che si tratti proprio di “iper”.
Il mio aspetto esteriore che comunque non è male ha poco a che fare con quello interiore.
Amo leggere e scrivere. Mi piacciono le donne, anche molto: perché no? Purchè siano belle e
bone!
Durante una vacanza ho conosciuto Alessia, creatura dolce, bella come una madonna, almeno
per me. Il giudizio estetico è sempre molto soggettivo: lei è come la vede lui non com
effettivamente è.
Tutto è iniziato con una semplice amicizia nata spontaneamente in una delle quotidiane
occasioni che caratterizzano le nostre giornate, soprattutto durante il soggiorno estivo, quando molti
giovani vengono a farci visita: lei ad esaminare la mia personalità, a parlare delle cose normali della
vita, a scoprire aspetti che le hanno provocato sorpresa immaginandomi chissà come.
Nella nostra particolarità c’è sempre qualcosa di incognito, di misterioso e spesso sorprendente
che improvvisamente emerge e meraviglia l’interlocutore.
Un po’ è vero però molto dipende dal fatto che in partenza veniamo considerati diversi.
Ci siamo accorti di avere molte affinità elettive: dagli interessi culturali, alla visione
dell’esistenza, alla considerazione dei valori. Il tempo non ha preteso molto per trasformare un
rapporto diciamo così “asettico”, in qualcosa di diverso, piuttosto impegnativo. Ha assunto sempre
più le caratteristiche ed i connotati dell’innamoramento, con quello che comporta.
Tutto è avvenuto quasi per una intesa silenziosa, affidata ai simboli interiori dell’espressione.
Poi come ad un segnale convenuto, ci siamo dichiarati con l’imbarazzo e la difficoltà insita nel
dare la parola all’animo.
Mi sono chiesto se mai una persona nelle mie condizioni avrebbe potuto essere felice con una
donna, soprattutto se l’avrebbe potuta fare felice. In quei momenti ho raggiunto la felicità, esaltata
da una reciprocità che ha messo in fuga ogni ipotesi egoistica. Alessia ricambiava l’amore con
comportamenti che non potevano non essere veri, espressi non solo con la parola.
Uso il verbo “ricambiava” per una sorta di maschilismo ma era lei a prendere l’iniziativa.
Proprio questo mi ha fatto pensare all’autenticità del rapporto. Non poteva essere diversamente.
L’ho creduto fino a quando ho capito che si trattava di una finzione. Io ero sincero. Lei aveva
giocato con i sentimenti e con i sentimenti non si può giocare: ci si fa male.
Non penso però che lo abbia progettato per mortificarmi. Non ci sarebbe stato motivo almeno
che non si fosse trattato di sadismo, ma lo escludo: sarebbe bestiale!
Secondo me si comportava così per una “giusta causa”: quella del mio bene. Ha agito
ingenuamente per farmi vivere un’esperienza che riteneva più che inimmaginabile, irrealizzabile.
Nella certezza di fare un’opera di bene superava tutto ed arrivava all’estasi. Era un piacere vero,
genuino, intenso, non recitato. Si era così trasformata in uno strumento di piacere non considerando
lontanamente quanto mi avrebbe ferito. Insomma sono certo che lo ha fatto per una sorta di
solidarietà, il che aggrava la situazione anche se assolve l’intenzione.
Dopo una prima fase governata dall’amicizia, gli abbracci, i baci, le carezze, gli sguardi intensi
forieri di significativi messaggi. Vivevo nel nirvana. Tutto si era trasformato in un eden. La gioia
esplodeva con vigore insolito.
Un’energia vitale illuminava lo spirito. Ero nuovo. Completamente nuovo. Ogni inconveniente
aveva abbandonato l’esistenza. La carrozzina era ora una biga d’oro trainata da stupendi destrieri.
Una sera d’estate mi pregò di fare una passeggiata.
Era l’ora che precede il tramonto quando il sole se ne va dopo un giorno di ossessiva presenza e
fa spazio ad un pò di refrigerio. Stava al mio fianco, mi abbracciava, mi sussurrava parole che
avvolgevano dolcemente l’animo. Mi baciava con un calore inimmaginabile. Non poteva non essere
vero!
Dio come era bello!
Mi abbandonavo a lei e nello stesso tempo avevo paura, mi ponevo laceranti interrogativi.
Cercavo di fugare la razionalità che avrebbe rovinato il gioco e di godere il momento come
un’eternità.
Incontrammo delle persone. Mi fermai. Smise di baciarmi, si staccò per poi ricominciare appena
rimasti nuovamente soli. Non avevo più dubbi. All’inizio ero stato prudente, rendendomi conto
degli obiettivi ostacoli che avrebbero potuto rendere difficile anche il percorso del sentimento, ma
ora tutto mi appariva chiaro, in una dimensione possibile, reale, resa concreta dalla forza dell’amore
che tutto riesce a superare (Victor Hugo in “Notre-Dame de Paris” fa di Quasimodo ed Esmeralda il
simbolo di quanto la forza dell’amore riesce a tradurre tutto in bellezza).
Il nostro sarebbe stato un normale incontro tra amici, se lei non si fosse spinta oltre un certo
limite. Quando prese le mie mani e vi poggiò la gota con una dolcezza struggente, reagii e cercai di
sottrarmi. Volevo, come dire, evitare la tentazione?
Passavo notti insonni ad esaminare con distacco la situazione che si era venuta a determinare.
Temevo che l’emotività finisse per trasformare un amore fraterno, ispirato dalla dedizione per un
disabile, in qualcosa di diverso che si sarebbe poi rivelato non vero, molto doloroso. Avevo paura!
Reagivo da scorbutico comportandomi qualche volta che maleducatamente. Mi chiese spiegazioni.
Le risposi con gli occhi lucidi: “Basta non ne posso più, non è possibile”. Rimase sorpresa,
mortificata. Mi implorò di amarla come lei amava me. Mi prese ancora le mani e come se le
appartenessero le portò al cuore.
Oggi mi chiedo ancora con amarezza: “Perché non ha voluto capire che sono un uomo? Che i
miei sentimenti non hanno nulla a che vedere con tutto il resto?”
Terminata la vacanza dovevo tornare al Piccolo Rifugio di Ferentino. Alessia mi accompagnò al
pullman.
Sembrava che non volesse lasciarmi andare. Mi tenne strette le mani fino a quando ci
separammo. Mi abbracciò senza preoccuparsi dei presenti, mi dette un bacio sulle labbra,
prolungato, da film, provocando le esclamazioni dei compagni. Lacrime pure in un volto reso più
bello che mai da uno sguardo intenso, pieno di apprensione. Ero perplesso, stupefatto,
piacevolmente imbarazzato, rosso in faccia. Mi vergognavo un po’. Continuò a salutarmi fino a
quando l’automezzo scomparve dietro una curva.
Ora mi mancava tanto, morivo dal desiderio di sentirne la voce, almeno la voce! Ne mormoravo
il nome in un’invocazione, quasi preghiera. Le scrivevo ogni giorno, solo una volta ha risposto in
forma piuttosto protocollare.
Ogni sera le telefonavo. Rispondeva a monosillabi, anche alle espressioni di amore reagiva con
una certa freddezza.
Finalmente è venuta a trovarmi. Forse sarebbe stato meglio se malgrado la mia ossessiva
insistenza non lo avesse fatto. Mi sarei illuso e l’illusione fino a quando non gli dà il cambio la
delusione aiuto molto.
Mi disse che per lei ero solo un grande amico, niente di più. Osservai che se era vero fin da
principio si sarebbe dovuta comportare diversamente perché ogni suo gesto mi aveva fatto pensare
all’amore con la “A” maiuscola.
Avevo fatto di tutto per evitare quel che avevo temuto: confondere l’amicizia con l’amore, la
pietà con l’amicizia e questa appunto con l’amore. Il suo comportamento mi aveva dato la certezza
di un sentimento con caratteristiche, diciamo così, tutt’altro che di ordinaria amministrazione. Lei
mi aveva detto “ti amo”. Lei mi aveva baciato. Lei mi aveva stretto nel suo abbraccio
mormorandomi parole sublimi, da innamorata.
L’amicizia è un nobile sentimento ma non si affida mai a certe espressioni che hanno un
significato diverso. Ero stato prudente, mi rendevo conto dei rischi che correvo e quando all’inizio
avevo assunto un atteggiamento di rifiuto lei amareggiata aveva implorato, quasi disperata, che le
corrispondessi.
Perché? Non avrebbe potuto evitarlo? Non sarebbe stato bello lo stesso?
Prima di andarsene mi disse che mi capiva e che con il tempo tutto sarebbe passato.
Certo! Certo! La solita storia: il tempo sana tutto, ma io l’amarezza la provavo ora, non ho mai
pensato di assegnare al tempo la funzione di analgesico. Provai a richiamarla al telefono. La sua
freddezza mi fece capire che non c’era più niente da fare.
Ho analizzato bene la situazione: se ad insistere fossi stato io vi sarebbe stata una giustificazione
originata da un altruismo tanto nobile da superare anche le barriere architettoniche del sentimento
per manifestare un amore inesistente ma profondamente desiderato da una creatura particolare.
Indubbiamente sarebbe stato mortificante ma non crudele. E’ il caso di dire che “me la sarei
voluta”, ma così no, avevo fatto di tutto per evitare quel che poi è avvenuto. Continuo ad amarla ed
è una sofferenza.
Ci ho riprovato; sotto Natale le ho scritto: “Mia dolcissima Alessia, sebbene sia trascorso un
lunghissimo anno di silenzio tra noi, ti devo confessare sinceramente che sei rimasta dentro di me.
Purtroppo non sono riuscito a dimenticarti, e come potrei se non faccio che pensarti? Perdona la
mia sincerità. Più passa il tempo e più mi accorgo ancora che stare senza di te è come essere privo
di qualunque scopo, pensiero, respiro. Ma chi è stato il folle che ha detto che il tempo cancella
tutto? E cosa dovrebbe cancellare, forse l’amore?
Le tue carezze, il tuo sorriso sono indelebili dentro di me, nella mia anima, sulla mia pelle,
posso sentire ancora su di me il tuo profumo ed il tuo respiro. Non voglio dimenticarti anche se il
mio orgoglio e la mia ragione mi dicono il contrario.
Ormai mi sei entrata dentro l’anima come neanche io riesco a capire e ad esprimere. Temo la
tua reazione o forse questa lettera ti sarà indifferente. Ad ogni modo non potevo continuare a
tacere i miei sentimenti. Spero che metterai fine al tuo silenzio anche solo con una lettera o con una
semplice telefonata. Non m’illudo circa i tuoi sentimenti ma chissà…?
Ti abbraccio quasi da toglierti il respiro con l’amore che tu sai. Tuo Pino”.
Speriamo bene! Sono nervoso. Non riesco a convincermi. Ho bisogno di amore. Faccio di tutto
per dimenticarla ma la mente ed il cuore non intendono seguirmi. Si ribellano.
Ripeto: sono una creatura come le altre. Voglio una donna bella come un mattino d’estate
illuminato dalla luce di un sole abbagliante, che capisca gli sguardi, le parole ed i silenzi. Che mi
sappia ascoltare. Che ogni notte s’inventi l’amore. Che cucini come mia madre.
Voglio una donna che mi dia dolcezza e passione, che comprenda le mie particolari espressioni
e ne sappia fare tesoro. Con un sorriso che esploda improvviso ed illumini il cuore. Insomma una
creatura mia nella quale sciogliere l’anima.
FRATEL DINO E “I DONATORI DI TEMPO”
“Ogni giorno può essere pieno di
luminoso sole o di noiosa nebbia, e sole
e nebbia non si differenziano se sono
generati dalla monotonia. Ma se
riusciamo a trovare la ragione vera
della nostra esistenza ed a convincerci
che non è soltanto nostra, la nebbia
stessa può riempirsi di luce”.
Durante una festa ad Anzio ho conosciuto fratel Dino: un religioso dinamico, affabile,
intraprendente, sempre in attività, dedito alle opere di bene, soprattutto alla formazione dei giovani.
Siamo diventati amici. Ha capito i miei interessi, la mia sete di conoscenza e mi ha messo nella
condizione di fare esperienze nuove. Ho frequentato campi scuola da lui organizzati.
E’ stata l’occasione per incontrare altri ragazzi, in condizioni diverse dalle mie, della mia età,
comunque da essa poco distante.
I campi-scuola sono bene strutturati e molto interessanti: si discute su temi di attualità, su
problemi culturali e di ascetica. Mentre sto scrivendo siamo alla fine di agosto 1995.
Dal 16 al 22 ne ho frequentato uno a Scifelli frazione di Veroli in provincia di Frosinone, nei
pressi dell’abbazia cistercense di Casamari, la cui origine risale al 1005 ad opera di quattro preti che
lì si ritirarono a vita di penitenza. L’attuale monumentale basilica, in stile gotico cistercense, è stata
fatta costruire nel 1203 dal Cardinal Cencio Savelli e dal medesimo e dal medesimo personalmente
consacrata quando fu eletto Papa con il nome Onorio III.
Durante il corso abbiamo trattato diversi temi. Ne ho conservato le dispense. Leggo nel capitolo
intitolato “La libertà dell’obbedienza”: “Più che «colui che crea», l’uomo è nel mondo «colui che
interpreta» o, con il ricorso ad un’immagine, «colui che esplora». L’esploratore non inventa,
semplicemente «scopre». Ma non per questo le sue «scoperte» sono meno «creative».
La scoperta della sua «obbedienzialità» non limita la libertà e la gioia dell’uomo ma le fonda
ulteriormente e radicalmente. Per questo essa (l’obbedienzialità) è il segreto dell’autonomia e della
vitalità.
Forse il termine che definisce meglio il significato positivo di questa obbedienzialità è la
ricettività. L’uomo è dotato di sensi che non creano l’universo dei suoni e delle orme, ma soltanto lo
scoprono e lo assecondano. Non solo nei suoi sensi l’uomo è ricettivo, ma nella radice stessa della
coscienza che, non senza significato, la tradizione ha qualificato come luogo della «voce di Dio».
Una simile espressione non è né ingenua né infantile. Essa rivela e definisce l’uomo come spazio
ricettivo capace di aprire allo stesso mistero di Dio ( «voce» ).
E’ questa ricettività il segreto dell’esistenza umana, che apre e chiude la casa del senso”.
Molto profondo non vi pare? Sempre nelle dispense una poesia dal titolo “Dippold l’ottico”
dello statunitense Edgard Lee Masters, poeta noto per la raccolta “Antologia di Spoonriver” (1915)
e “Nuova antologia di Spoonriver”, composte con una serie di epitaffi del cimitero di un paese di
campagna per mezzo dei quali i morti raccontavano le loro storie.
“Che cosa vedi adesso? / Globi di rosso, giallo, viola. / Un momento! E adesso? / Mio padre,
mia madre e le mie sorelle. / Si! E adesso? / Cavalieri in armi, donne bellissime, volti gentili. /
Prova questa / Un campo di grano – una città. / Molto bene!E adesso? / Una giovane donna con gli
occhi luminosi e le labbra aperte. / Prova questa. / Solo una coppa sul tavolo. / Oh capisco! Prova
questa lente! / Solo uno spazio aperto – non vedo niente in particolare. / Bene! Adesso? / Pini, un
lago, un cielo d’estate. / Così va meglio. E adesso? / Un libro. / Leggine una pagina. / Non posso. I
miei occhi sono trascinati oltre la pagina. / Prova questa lente / Profondità d’aria. / Ottimo! E
adesso? / Luce, solo luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo. / Molto bene, faremo gli
occhiali così”.
Sul testo abbiamo discusso molto: se tutti gli uomini lavorassero per trasformare il mondo in un
giocattolo anziché sfidarsi e fare guerre, staremo sempre a giocare! E il gioco, quando si fa con i
giocattoli buoni, è sano.
Queste sono esperienze che arricchiscono. Scompare la disabilità. Rimane l’intelletto e
l’intelletto non ha fisico, non ha forma. Non lo vedrete mai appoggiarsi a stampelle o sulla sedia a
rotelle. Quando c’è funziona tutto intero. Qualche volta gli argomenti possono essere ostici ma ci
sarà sempre qualcuno pronto a darti una mano per comprenderli e discuterne. Quel che è difficile
non è mai impossibile. Non si deve temere di apparire ignoranti cioè di ignorare. Chiedere aiuto non
è una “diminutio” E’ peggio far finta di conoscere quel che non si sa.
Tutti ignorano prima di apprendere. Tutti sono ignoranti prima di diventare dotti. Tutti non
conoscono prima di conoscere. Nessuno nasce “insegnato”.
Ogni giorno può essere pieno di luminoso sole o di noiosa nebbia, e sole e nebbia non si
differenziano se sono generati dalla monotonia. Ma se riusciamo a trovare la ragione vera della
nostra esistenza ed a convincerci che non è soltanto nostra, la nebbia stessa può riempirsi di luce.
La conoscenza non deve mai essere considerata un’esclusiva proprietà personale né
boriosamente ostentata. E’ un patrimonio che non si danneggia se correttamente distribuito. E’ un
bene comune al quale tutti, se vogliono, posso attingere. Non impara chi non vuole imparare. Non
sa chi non vuole sapere. E per sapere bisogna chiedere a chi sa. E’ un atto di umiltà che vale la pena
di compiere.
Il sapere ha validità universale.
L’uomo ne sente il bisogno anche quando sembra non considerarlo: “bisogno di amare e di essere
amato; bisogno di avere e percepire la propria identità in relazione al proprio presente e avvenire;
bisogno di realizzare la propria affettività in un rapporto interpersonale promovente; bisogno di
ricevere e di dare tenerezza, vivendo in un ambiente che, almeno in una certa misura, sia
incondizionatamente accettante; bisogno di essere competente di fronte ai compiti da affrontare
nella vita e di essere riconosciuti come tali; bisogno di dare un senso valido alla propria vita e di
percepirlo nelle varie situazioni; bisogno di auto trascendenza, cioè di continuare oltre il tempo per
trovare una risposta adeguata al desiderio di pienezza che la vita terrena suscita e delude ad un
tempo, almeno in parte; bisogno di appartenere ad un gruppo umano come una parte viva e
significativa, potendo contare su tale gruppo per la propria conservazione ed espansione; bisogno di
conoscere e vivere conformemente alla propria missione della vita, percepita come la personale
partecipazione alla costruzione del bene comune. In ogni persona questo fascio di bisogni,
specificato da vari elementi, è presente e qualificato dall’emergenza di questo o quel bisogno che fa
da fattore trainante.
L’esasperazione di uno o dell’altro, come anche l’atrofia, avviene a scapito dello sviluppo armonico
ed integrale della persona.
Ogni autentico progetto di vita prende avvio dall’incontro della persona con i valori capaci di
promuoverne lo sviluppo. Ma questo avvio dove si radica? Che cosa lo sostiene? Entro ognuno di
noi è presente un fascio di bisogni vitali che ricercano una soddisfazione adeguata così da
consentire la crescita. Si tratta di bisogni di base costitutivi dell’organismo umano” (dal testo delle
dispense del corso nel campo scuola – Scifelli 16-22 agosto 1995).
A Bologna è stata costituita un’ Associazione di volontariato denominata “Donatori di tempo”.
Sapevo dei donatori di sangue e di organi ma dei donatori di tempo non avevo mai sentito parlare.
Non è uno scherzo: donano il tempo.
Dopo una giornata di lavoro, durante le feste, o le ferie non conoscono svago, né riposo, né mare, né
monti, crociere o viaggi perché quel tempo lo donano a coloro che hanno bisogno di compagnia, di
fratellanza di assistenza. Lo fanno con gioia, trasformando il sacrificio in diletto per poi godersi il
premio di essere stato utili.
Dio non ci ha creati soli, siamo stati noi a chiuderci negli egoismi, a ritenerci proprietari assoluti di
ciò che ci è stato donato anziché farne tesoro per attuare, concretamente, il comandamento “Ama il
prossimo tuo come te stesso”che è l’essenza della solidarietà pratica, non solo predicata. Le
prediche senza le opere lasciano il tempo che trovano.
Lui non ha detto al Padre: “Rimetti a noi i nostri debiti”punto e basta ma ha aggiunto:” Come noi li
rimettiamo ai nostri debitori”! Cioè ha condizionato il perdono da ricevere a quello concesso.
Donare il proprio tempo libero ad un fratello chiunque egli sia, ovunque egli stia, anche se
sconosciuto, soprattutto quando è solo.
Dio ci ha creato singoli, non soli, per questo ci ha fatto fratelli. La solitudine è il prodotto
dell’insensibilità, dell’egoismo, del “mio mondo sono io” il resto per me non conta non esiste.
Il domani è imprevedibile. Non vi è alcuna certezza neanche per chi crede di avere in mano il
mondo, di poter governare gli eventi, di impartire ordini al destino.
Afeermava Giorgio Derassab (Ceaibg 1015 – ivi 1090): “Progettare il futuro è un dovere anche se
si dovranno, sempre, fare i conti con certezze incognite che non consentono condizioni”.
Non sappiamo quando arriverà “il telegramma di chiamata”. È certo, comunque, che ad essa è
impossibile sottrarsi. Non sono riusciti a saperlo neanche i possessori di fortune immense. Hanno
fatto di tutto per impedire che arrivasse il postino.
Oro, diamanti, ricchezze immense, con le quali avrebbero potuto comperare l’universo non sono
servite a nulla. Il postino ha, regolarmente, bussato alla porta e se qualcuno si è rifiutato di aprire
non ha riportato l’ordine al mittente, ha infilato il precetto nella fessura sotto l’uscio. La
meditazione sul forziere stracolmo si trasforma in preoccupazione, angoscia, paura ma paura di
che?la paura ha ragione di essere per fatti seri, non troverà mai giustificazioninell’assillante
protezione del forziere.
L’amore è sempre donazione, mai oggetto di transazione. Quello con l’A maiuscola, ha l’energia
dell’infinito, supera ogni limite dell’immaginazione.
La solitudine è la peggiore delle maledizioni a meno che non sia una scelta ascetica, nel qual caso
non si può definire solitudine perché la compagnia dello spirito rappresenta quella moltitudine dei
fratelli.
Vorrei dare un consiglio a chi mi legge, se ve ne fosse bisogno: formate gruppi di comunione per
conoscervi e volervi bene, un giorno non vi troverete soli. Mettiamoci in competizione per le opere
buone anziché per fregarci l’uno con l’altro.
Dino è persona impegnata in molte attività giovanili nelle parrocchie di : Anzio, Aprilia, Castel
Gandolfo, le Mole, S. Maria delle Mole, Pomezia, Nettuno. Diverse volte mi ha voluto ospitare,
durante le feste, nell’Istituto dove risiede. Sempre a fianco del prossimo, praticamente non ha mai
disposto del tempo per se stesso. Dice di non averne bisogno.
A lui descrissi la mia particolare situazione. Mi parlò del Piccolo Rifugio e mi portò a visitarlo.
Dopo l’esperienza fatta ero diffidente. Ho voluto provare per dieci giorni prima di prendere una
decisione. Sapevo quello che avrei lasciato ma non quello che avrei trovato.
Certo in quello che poi ho deciso di lasciare c’era ben poco da rimpiangere se non Paolo e Claudia
sui quali potevo fare affidamento. Valutato tutto, mi sono fatto dimettere dall’ospedale per lungodegenti. Fratel Dino aveva ragione: in questa piccola casa chiamata rifugio “l’umanità” è diversa ed
il bene non è una rarità. Qui siamo una famiglia.
UNA DOLCE PASSIONE
“Se la dovessi paragonare ad un
animale amico penserei ad un cucciolo
di gatto siamese, affettuoso al punto di
essere geloso, tuttavia indipendente”.
Durante un soggiorno estivo ho conosciuto Gabriella.
Medio-alta, ventisei anni, occhi scuri, capelli neri lisci, seno prosperoso, fianchi robusti. Insomma
un bel pezzo di ragazza, di quelle che ti fanno voltare.
Apprezzabile preparazione, livello culturale discreto. Le piace fare dolci.
Memore della disavventura con Alessia, stavo sul “chi va là”. Non volevo provare altri
dispiaceri, ma giorno per giorno, mi si “attaccava” sempre di più. Finito il soggiorno mantenemmo
un rapporto di corrispondenza normale, da buoni amici.
Si parlava della nostra attività, di come trascorrevamo il tempo, dei films visti in televisione, dei
libri letti, dei compact ascoltati, insomma un rapporto di compagnia, con discorsi che qualche volta
rischiavano la banalità.
Mi scriveva con inchiostro verde, sempre verde, anche quando il vermiglio sarebbe stato più
adatto alla passionalità dell’espressione.
Un giorno mi giunse una lettera di tono diverso, come dire? Piuttosto impegnativa, audace. Non
era però molto esplicita. Non sapevo cosa pensare. Forse il desiderio di amore finiva per giocarmi
brutti scherzi, per deformare la corretta interpretazione degli atteggiamenti. Leggevo e rileggevo
quelle parole che mi sembravano a doppio senso, non capivo bene che cosa volessero dire, dove
volesse arrivare.
D’altra parte l’amore non può essere oggetto di un “quiz”. Forse facevo lavorare troppo la
fantasia per giungere naturalmente a conclusioni a me convenienti.
Voi come avreste interpretato “Ti ho mai detto quanto bene ti voglio? Credo di si ma mi fa
sempre piacere ripeterlo” - “ti voglio un oceano di bene” (si fosse limitata al Mediterraneo!) e poi
citando il testo di una canzone di Bono e Mingardi: “Cosa c’è che non va / ti si legge negli occhi /
anche io alla tua età / mi appoggiavo agli amici più vecchi / per avere qualche diritto / sugli affari
di cuore / e per non uscire a pezzi / da un amore”.
Parafrasando le parole della canzone “Mari” del cantautore Amedeo Minghi, e sostituendo il
titolo “Mari” con “Gabry” mi chiedevo: “Non sai Gabry, Gabry, Gabry, non sai Gabry… / Sai che
tutto non sai, tu non sai / Dove va l’amore, amore mio multicolore dov’è?”
Veniva frequentemente a farmi visita e parlavamo di diversi argomenti. Quando era certa che
nessuno potesse ascoltarci mi diceva: “Siamo una persona sola”. “Siamo un cuore solo”. “Amore
mio infinito”, “Fai parte della mia vita, sei la mia vita”. Ed io adottavo ancora Minghi: “Dove
vanno le bellezze tue, / una per ogni stagione? / Dove vanno le chiacchiere, / i toni dolci e le
spensieratezze buone?”
Insomma la cosa mi sembrava piuttosto impegnativa. Non sapevo però e non so ancora quale
potesse essere l’obiettivo delle sue effusioni: “Dove vanno gli anni miei / e dove vanno i tuoi? /
Sono cose che volano / E dove va il piacere di scaldarsi insieme”.
In una delle ultime lettere, sempre in verde, inizia con “Mio carissimo Pino”e fino a qui
possiamo starci anche se quel “Mio” mi sembra un po’ troppo possessivo. Per un rapporto semplice
amicizia sarebbe andato bene anche il solo carissimo, potrebbe trattarsi, però, di un “affetto”
fraterno; ma quando mi dice: “Mi è piaciuta molto una frase che mi hai scritto: <<il cuore non sta
dove batte ma dove ama>>. È una frase che mi ha fatto commuovere molto perché il mio bene per
te non è un bene che si può descrivere con le parole o descrivere con una lettera: lo può capire solo
chi lo prova e so, anzi spero, che tu lo provi per me”.
Beh, ditemi la verità: vi sembra amore solo fraterno questo?
È vero che la missiva conclude con un TVTB che vuole dire “ti voglio tanto bene” e non con TAT
che vorrebbe dire “ti amo tanto”, ma ogni precedente ritengo che abbia le caratteristiche
dell’interpretazione da me data.
Tenuto conto della “documentazione”, nel corso di una delle visite, le ho chiesto se voleva essere la
mia ragazza: si è trasformata in gelo. Ha balbettato qualcosa che non ho capito bene, mi ha dato un
serafico bacio in fronte ed ha tagliato la corda.
Le ho scritto e non ho avuto risposta. Ho riprovato senza risultato: “dove andrà quello che perdo di
te / e quel che perdi di me”. È tornata a trovarmi, era particolarmente sexi, aveva i capelli spettinati,
sbarazzini, con quel tocco di trasandatezza, anche nel vestire, che esalta le forme.
Pensavo che fosse la volta buona, che ci avesse ripensato, invece niente di più di una normale visita.
Ma allora, perché quelle parole? Fra l’altro scritte oltre che mormorate con dolcezza. Valle a capire
le donne! Ricordo un testo di Billy Idol: “passo molto tempo credendo a tutte le tue bugie,
mantenere i sogni vivi ora mi rende triste, mi rende pazzo”.
Gabriella è per me un’ossessione. Una costante dei miei sogni in condizioni particolari, perché no?
da me inutilmente sperate: facciamo, in una realtà onirica tridimensionale, l’amore fino ad un
orgasmo dolcissimo. Mi sveglio e non riesco più a dormire. Questo mi fa maledettamente incazzare:
“quante notti ho perso per te, / soltanto il cielo lo sa, / questo cielo che anche lui se ne va, / fa
giorno senza di me”.
Se fossi un pittore, per ritrarla userei, prevalentemente, due colori: il rosso della passione ed il
celeste della serenità, con un pennello dalle setole d’oro.
Se la dovessi paragonare ad un animale amico penserei ad un cucciolo di gatto siamese, affettuoso
al punto di essere geloso del suo padrone, tuttavia indipendente.
MARIA E STRATO
“Forse” pensava “Dio vuole che
preghi meglio: servono a poco tante
«ave marie», «padrenostri» e «rosari»
se pronunciati quasi meccanicamente”.
Mia madre è un ricordo eterno. Purtroppo un ricordo! È vero che prima o poi le madri ed i padri
diventano ricordi, salvo precedenze dei figli. La sua scomparsa però e stata troppo anticipata.
Ci dicevamo tutto, il dialogo caratterizzava il nostro rapporto.
Parlavamo del futuro, facevamo progetti, leggevamo insieme poesie, ascoltavo incantato le sue
narrazioni. Una creatura sublime.
Nel 1983 si accorse di avere il male che non perdona. Nonostante tutto sembrava essere felice,
non aveva perso vitalità ed entusiasmo. L’aiutava la forza interiore: Aveva quel figlio “bello ed
intelligente” ma bisognoso della sua presenza.
Il Signore non avrebbe assolutamente permesso che rimanesse solo.
Probabilmente l’aveva sottoposta alla prova solo per un’ipotesi, per mettere in conto anche
questa eventualità, ma poi tutto si sarebbe risolto.
“Forse” pensava “Dio vuole che preghi meglio: servono a poco tante «ave marie»,
«padrenostri» e «rosari» se pronunciati quasi meccanicamente. Bisogna sentirle, farle uscire da
dentro, mormorarle senza ostentazione affinché arrivino a Lui, genuine e pulite”
Non voleva impressionarmi. Anche quando il diagramma della sofferenza registrava un picco
insopportabile riusciva ad apparire normale.
In un momento di cedimento mi disse sempre con il sorriso: “Chissà come te la caverai senza di
me”, non diedi peso a quelle parole poiché dal comportamento mi sembrava che la cosa non fosse
così grave. Invece lo era. Lo era tremendamente anche se il male non aveva ancora presentato
ufficialmente le credenziali.
Aveva sempre una bella carnagione, un volto come si dice? Bianco e rosso come una rosa.
Con il passare del tempo sembrava coprirsi di un cerone, prima pallido, poi sempre più cinereo,
invecchiava ad una velocità impressionante, come la ragazza che lascia il parifico di “Shangri-La”.
Continuava a fare progetti per il nostro futuro, senza mai tradirsi.
Non dovevo capire, avevo già un certo volume di problemi, non se ne potevano aggiungere altri.
Inutilmente tentava di sorridere: le labbra sottili, si sforzavano, gli occhi tentavano di esprimersi,
ma non riuscivano a non tradire la sofferenza. La preoccupazione per il figlio unico che stava per
lasciare in un mondo di desolazione, su una sedia a rotelle, in un mare di guai, superava ogni altra
cosa. Credo che questo pensiero fosse molto più lancinante dell’implacabile artiglio del cancro.
Fino a quando siamo stati insieme, prima che andasse al “Regina Elena”, ha recitato la parte da
eccezionale attrice.
_ _ _
Non riesco ancora a trovare una spiegazione sul nome di mio padre: “Strato”, si proprio così:
“Strato”. Avrei voluto avere informazioni da mio nonno ma non ho fatto in tempo. Il solito amico
ha effettuato una ricerca per scoprirne le origini ma il risultato è stato deludente.
Di provenienza latina (“stratum” neutro sostantivo di “stratus”, participio passato di “sternere”
distendere): spessore uniforme, quantità omogenea di materiale posta su una superficie: Niente di
eccezionale. Piuttosto ordinario! Non mi sembra, da quel che ricordo, che il mio genitore avesse un
particolare spessore, fra l’altro uniforme.
Nella Grecia continentale, presso la riva destra dell’Acheloo, il fiume più lungo dell’Ellade, si
trova una città di nome Stratos. Anche il riferimento geografico non dice un granché.
Ho pensato che il nonno avesse avuto qualche lieto ricordo della Grecia dove sembra che gli
italiani, durante la seconda guerra mondiale, si siano trasformati da guerrieri in armata dell’amore,
ma ha guerreggiato solo tra le dune infuocate dell’Africa settentrionale.
Non credo che il padre e la madre di mio padre siano stati ispirati da particolari etimologie, ci
deve essere stato qualche altro motivo casereccio.
Aveva 54 anni quando se ne è andato nel sonno. Domenica 7 Maggio 1995, dopo aver mangiato
con appetito, bevuto un bicchiere di rosso, si era addormentato nella stanza dell’ospedale dove era
stato ricoverato per problemi cardiocircolatori. Un infarto molto discreto, senza fare rumore, se l’è
portato via. Praticamente ha continuato a dormire. Si è trovato di là alla zitta alla zitta.
Il destino ha voluto che fosse presente Claudia, la quale nel frattempo aveva cambiato luogo di
lavoro. Non sapeva che si trattasse di mio padre anche se quel cognome le ricordava me. Non lo
aveva mai visto venire a farmi visita durante la permanenza al “lungo-degenti”.
_ _ _
Dalla morte di mia madre sono trascorsi undici anni. Quando mi abbandono al ricordo dei
luoghi dove ho trascorso la prima parte della vita, le immagini scorrono come il susseguirsi di
fotogrammi sulla moviola ed alimentano un’inutile nostalgia.
Marano Equo, ridente paese in provincia di Roma, dove mamma è nata e cresciuta, appollaiato
su un colle isolato nella valle dell’Aniene, con le strutture medievali fra le quali la rocca, purtroppo
molto alterata. Le donne fuori dell’uscio di casa nelle giornate di sole, in inverno, interrompevano i
chiacchiericci per salutare mamma Maria e farmi i complimenti.
La rivedo sempre preoccupata per me. Mi è a fianco quotidianamente. Non mi abbandona. Non
sono mai solo. Mi tiene la mano come allora quando ero bambino anche se ora ho quasi trent’anni.
Quando un giorno Dio deciderà di chiamarmi le andrò incontro senza carrozzina e lei sarà lì ad
aspettarmi con il sorriso, allora nessuno potrà più separarci.
Questa speranza è l’essenza della mia esistenza, altrimenti la vita non avrebbe ragione di essere.
So che se me ne andassi volontariamente la addolorerei.
Per questo amo la vita!
CHE IDOLO QUEL “BILLY”!
“Quando nella vita non ti vogliono
ascoltare, non dico dare retta, ma
almeno ascoltare, devi sbattere
nell’orecchio di chi non ti ascolta quel
che vuoi dire senza tanti complimenti,
se condivide le tue proposte meglio,
altrimenti è valsa la pena comunque di
far intendere che nessuno può
permettersi di non ascoltare. Nessuno!
Nemmeno il più potente degli uomini.”
Ho avuto momenti tremendi, dopo la morte di mia madre. Ho pensato che l’unica soluzione per
me sarebbe potuta essere quella definitiva, senza ritorno. Ci ho anche provato ma sono ancora qui e
voglio vivere, amo la vita, i suoi attimi fuggenti, il suo presente senza tante complicazioni per il
futuro. Ripeto: amo la vita, la vita vitale!
Il genere di musica che preferisco è il Rock che mi esalta, mi carica, mi distende, mi concilia
con i pensieri, mi fa sentire incazzato, ribelle per quello che è ingiusto, ipocrita, perbenista. Rock
and Roll “dondolare e arrotolarsi”! “Hard Rock” con base ritmica e sonorità violente; “Punk Rock”
che aggiunge all’«Hard» provocazioni spettacolari.
Sarebbe bello ascoltarla dal vivo nei concerti in mezzo alla variopinta folla di coetanei o quasi,
comunque giovani a prescindere dall’età. Seguirla sugli “short video programs” che dal 1980
appaiono sul piccolo schermo.
Non capisco perché di debba considerare il movimento punk come qualcosa di super negativo.
Non sopporto gli intolleranti, soprattutto chi emette giudizi su tutto e tutti senza mai guardarsi
intorno, senza aver esaminato ed approfondito l’essenza dei fenomeni, ignorando la storia della
società della quale fanno parte.
Il movimento, nato in Gran Bretagna alla fine degli anni Settanta (1976-1978), è caratterizzato
da una profonda insofferenza nei confronti del sistema politico-economico occidentale, non a caso è
fortemente radicato nelle aree urbane dove maggiore è la disoccupazione giovanile dopo
l’esperienza del ’68. La stessa espressione artistica (punk-rock) nacque per contrapporsi alla
musica progressiva, super arrangiata, fatta di trucchi tecnologici, adatta al mercato, solo business.
Il rock era cosa diversa, rivoluzionaria, con ripetuti accordi spesso suonati in modo
approssimativo, registrata in presa diretta, con testi di profondo significato critico, autobiografici,
riferiti alla vita di strada, venati di critica sociale e politica.
Il tanto aborrito abbigliamento: catene, spille, lamette; l’acconciatura dei capelli a cresta con
colori impensabili, indubbiamente bizzarri. Tutto questo non era e non è “una moda” ma una
provocazione.
Si può anche parlare di corrente di pensiero tanto è vero che dal 1979 il fenomeno si è articolato
in varie direzioni, anche contrastanti tra di loro: da un lato – come succede spesso quando le idee
hanno una forte presa – con il recupero in ambito commerciale (new wave: nuova onda), dall’altro
con un atteggiamento più radicale, teso ad estremizzare le tendenze originali, a difendere il valore
delle radici (“hard core”: ostinato, intransigente; “dark”: scuro, buio, tenebroso) che incidono
notevolmente con effetti di portata non trascurabile sulla cultura giovanile. La mia rock-star
preferita è Billy Idol per il quale stravedo. Eccolo lì in copertina, grintoso, con il viso cattivo, lo
sguardo turbolento, il ghigno! Capelli irti pettinati ad antenna, orecchi ornati di anelli, mano con
guanto chiodato a dita libere per costruire una musica che fa scoppiare le stelle. Al collo una serie di
catene con simboli celtici. Tatuata sul braccio sinistro una procace ragazza dal seno esplosivo,
anche lei burbera, chioma al vento, stella rossa dipinta in fronte.
Sono anni che leggo e rileggo un’intervista rilasciata da Billy a Leg McNeil sul mensile “Rock
Star” del Novembre 1990. E’ uno sbraco! Non invecchia, sempre attuale, come del resto la sua
filosofia che manda “affanculo il futuro” perché “quello che conta è questo istante qui” quando ti
senti pieno di energia perché fai qualcosa di veramente tuo, comunque vada.
Incominciò pigramente affidandosi al fato indolente, ma poi si convinse che “ciascuno ha diritto
ad essere Re” e lo fu tanto che si mise in testa di imporre la sua musica: “Mi è sempre piaciuta
l’idea di costringere la gente a fare qualcosa. Il punk rock era proprio questo, se loro non
ascoltano tu glielo sbatti nelle orecchie lo stesso”. Non aveva considerato che quelli ai quali andava
a “sbattere nelle orecchie” il punk rock, erano giovani come lui, incazzati come lui e così non ci fu
bisogno di “sbattere” un bel niente perché si trovò subito al centro della loro attenzione.
Quando nella vita non ti vogliono ascoltare, non dico dare retta, ma almeno ascoltare, devi
sbattere nell’orecchio di chi non ti ascolta quel che vuoi dire senza tanti complimenti, se condivide
le tue proposte meglio, altrimenti è valsa la pena comunque di far intendere che nessuno può
permettersi di non ascoltare. Nessuno! Nemmeno il più potente degli uomini.
Nel 1990 ha rischiato la vita con una potentissima Harley-Davidson piena zeppa di cromature,
con il manubrio largo, il motore rombante, il tutto per un peso di tre quintali, che se cade devi
sollevare e “se non ce la fai sei un coglione”.
Si è andato a sfracellare contro una macchina. Quando gli hanno chiesto perché era passato con
il rosso ha risposto che con il verde passano tutti. Descrive l’incidente come se pronunciasse delle
massime : “Mi sono ritrovato steso per terra e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: sono
ancora in grado di pensare. Non portavo il casco. Quando mi hanno investito ho sentito un fragore
tremendo. Tutti dicono che se senti il fragore è buon segno” e lui nel fragore c’è nato.
Gli volevano amputare una gamba, ha fatto capire ai medici che non era il caso. Respinta la
proposta, affrontati cinque interventi, gli ha dato sotto con la ginnastica, tenacemente, senza mai
abbattersi, fino a riattivare i muscoli dell’arto che gli avrebbero dovuto segare. La gamba è rimasta
lì e funziona, anche la moto, nuova più potente di quella distrutta, è lì e l’ha ripresa perché adora la
sensazione di pericolo e di “imprevisto che ti dà il guidare una motocicletta”.
Mai farsi condizionare dal destino avverso. Deve capire che ci sei anche tu, che non può
permettersi di fare quel che gli pare, che qualche conto lo deve fare anche con te. Se si vuole, sono
convinto, con il destino si può venire a patti, l’importante è non accettare passivamente la sua
volontà, affrontandolo e facendogli capire che ci sei anche tu e che il rispetto deve essere reciproco.
“Io non credo – dice Billy – che uno debba sentirsi obbligato a crescere, a mettere la testa a
posto. Piuttosto devi crescere dentro di te…Sono nove anni che vivo con una donna. La cosa
straordinaria che ha cementato il rapporto con lei è stata la nascita di mio figlio Willy Wolf.
Sappiamo che ci amiamo sia quando stiamo insieme sia quando stiamo lontani…Ma mi piace
pensare che abbiamo creato qualcosa insieme, qualcosa di grande. Mio figlio è come un bellissimo
“post-scriptum”.
“Postscriptum”! Come se avesse composto una lettera d’amore e per rafforzare il sentimento si
fosse affidato alla palpabile testimonianza non solo dell’amplesso, ma della più grande facoltà
concessa da Dio alle Sue creature.
E ora qualcuno mi venga a dire che punk è sinonimo di marcio, fradicio, teppistello da due
soldi. Per me Billy è veramente un Idolo. Ascolto la sua musica con la cuffia così posso metterla a
tutto volume senza disturbare nessuno e mi faccio sparare il rock nelle orecchie provando il gusto
dell’incazzatura.
EL JOVEN DE SEMBLANTE, DE CORAZON, DE MENTE Y DE SANGRE CALIENTE
“Sai una di quelle che ti fanno
immaginare
paradisi
e,
mentre
l’accarezzi con intenso sentimento,
rompono l’incantesimo per chiederti:
«hai fatto?» dandoti così un colpo alla
nuca con un pezzo di ghiaccio!”
Qualcuno potrebbe chiedermi: “ma pensi solo ad una cosa?”.
A parte il fatto che non si tratta di una “cosa”, a me le ragazze piacciono e… sottolineo: quasi
tutte.
Sia ben chiaro! Debbono avere quel minimo di requisito di gradevolezza senza il quale il
rapporto diventa eroico.
Ma io non sono un eroe, sono un uomo normale che non fa eccezione, un giovane segnato anche
dall’acne e chi di queste cose se ne intende sa che l’acne certifica una mascolinità con la
temperatura da solleone. Insomma i miei connotati caratterizzano “el joven de semblante, de
corazón, de mente y de sangre caliente”.
L’inconveniente che non è di poco conto, è costituito da quattro ruote o meglio “rotelle” che
sostituiscono le gambe.
D’altra parte in molti di noi gambe e braccia hanno scelto la libertà con irremovibile decisione,
senza ripensamenti, rivendicando un diritto che inutilmente abbiamo tentato di contestare.
Non è un’assurdità: una verità più vera di questa non esiste. Se non ci credete affari vostri! Non
posso consigliarvi di provare perché sarebbe cattiveria: in questo caso la prova non consente
ripensamenti, diventa condizione definitiva.
Se poi qualcuno vuol farla si accomodi!
Mi spigo meglio facendo riferimento alla mia esperienza: ordino alla gamba destra di fare un
movimento in avanti e quella se ne frega, fa tutto il contrario e quando sembra che obbedisca non è
vero perché è lei e solo lei che così ha deciso.
Analogo comportamento è quello della sinistra.
Mai come in questo caso sinistra e destra vanno tanto d’accordo.
Mai un consociativismo tra diversi e contrari ha raggiunto tanta perfezione.
Mai un’autorità come la mia legittima volontà è stata tanto disattesa.
Le braccia e le mani sono un po’ più obbedienti ma anche loro fanno le bizze, vorrebbero
seguire l’esempio degli arti inferiori.
Una volta incazzatissimo mi sono rivolto loro: “Non vi pare di esagerare? Ritenete di
comportarvi correttamente? Non potreste darmi retta qualche volta? Vi rendete conto di che figura
mi fate fare specialmente quando sono con qualche ragazza?”.
Torniamo alle donne: dunque mi piacciono alla condizione di cui sopra con qualche eccezione.
Per esempio se una ragazza non è proprio una bellezza di viso ma ha un bel personale, l’indice
di gradimento rimane piuttosto elevato.
In questi casi si dice “è un tipo”, perché?
Perché al non proprio gradevole aspetto del volto suppliscono belle gambe, un apprezzabile
seno, fianchi dal futuro certo.
Anche la bellezza in assoluto per quanto mi riguarda non è tutto: una bella figliola, diciamo così
“uno schianto” con le caratteristiche cerebrali dell’oca non fa al caso mio.
La ragazza deve avere quella dose d’intelligenza che ne completa l’estetica senza eccessi di
cerebralità, reggere la conversazione, non mortificare il ragionamento, insomma tutto meno che una
“slot machine”.
Una volta ne ho conosciuta una che avrebbe mosso le montagne per quanto era bella e bona,
ancheggiava con armonioso incedere fasciata da una minigonna che non lasciava spazio alla
scoperta, gambe lunghe dalle caviglie sottili in quasi precario equilibrio su tacchi a spillo, labbra
carnose colme di voluttà, quando apriva bocca però era una frana.
Faceva certi discorsi a ruota libera che erano più scomposti vocalizzi che parole. Una voce
piatta quasi metallica, veicolo inutile di tentativi verbali privi di un barlume di logica.
Sai una di quelle che ti fanno immaginare paradisi e mentre la accarezzi con intenso sentimento,
rompe l’incantesimo per chiederti: “Hai fatto?” dandoti così un colpo alla nuca con un pezzo di
ghiaccio. Roba da forca!
Non è ovviante il caso di Federica che ho conosciuto durante un campo scuola. Il fatto stesso
che frequentasse una scuola, sia pur definita campo, lo dimostra.
Geometra, ha frequentato diversi cori integrativi fra i quali uno nel Corpo Volontari della Croce
Rossa Italiana.
Le crocerossine normalmente sono graziose, hanno un certo fascino. Dipenderà dall’uniforme
che le rende piuttosto, come dire? Misteriose. Tutto quel bianco e la cuffia incorniciata di blu!
Una sintesi tra il misticismo monastico ed il romanticismo da romanzo rosa.
L’approccio ebbe inizio con una “erudita” discussione sul senso della vita. Sul bene e sul male.
Sul fatto che per avere la misura del bene bisogna anche conoscere quella del male (mi pare ovvio:
il segno “più” ha un valore se il suo contrario è il “meno” altrimenti non avrebbe ragione di
esistere), sulla felicità. Discorsi abbastanza profondi, senza inutili esibizioni accademiche.
Indubbiamente Federica dimostrava una preparazione ed una sensibilità non comuni. Io
partecipavo alla discussione e cercavo di esserne all’altezza, consapevole della delicatezza e
complessità degli argomenti.
Non nego però che mentre cercavo di dimostrare il mio impegno culturale, qualche volta
affidandomi a pause più o meno lunghe, alla ricerca di termini appropriati, polarizzavo l’attenzione
sulla sua bellezza; volto dai lineamenti graziosi, capelli castani, occhi neri, seno attraente, fianchi
robusti, coscia lunga.
A proposito di quest’ultima, si potrebbe osservare: “Come fai a saperlo?”, semplice! Basta
calcolare quel che rimane dal ginocchio in giù. Non consideratemi prosaico: anche l’occhio vuole la
sua parte!
Insomma l’impegno dell’intelletto va bene ma non immaginate quanto ha lavorato
l’immaginazione su quella bellezza.
Ho detto che ci siamo incontrati in un campo scuola cioè nel periodo delle vacanze, quando il
clima consente di stare all’aperto, di fare passeggiate, di godere della natura.
Di armonizzare la bellezza di chi ti accompagna con quella dei fiori, la sua voce con il canto
degli uccelli, le sue frasi con la poesia che ti avvolge.
Una sera di luna piena quando il paesaggio è esaltato dal chiarore di Selene ed ogni creatura
sembra essere particolarmente viva pur rispettosa della notte, abbiamo dato sfogo all’animo
affidando a parole ed espressioni il messaggio del sentimento. Quanto è dolce in queste circostanze
lo smarrimento!
Quanto diventa breve il tempo che vorresti eterno e con la sua tirannia ti richiama alla ragione!
E quanto nemica è la ragione!
Si era stabilito un rapporto che sarebbe riduttivo definire solo di amicizia anche se non ne ha
mai varcato i confini.
Come si dice? “Facevamo coppia” e questo dava noia a qualcuno che ha operato per creare
dissapori.
C’è stato un momento di screzio doloroso, affidato al silenzio ed all’interruzione del rapporto,
all’avarizia del saluto, allo sguardo pieno di rancore, ma il male per quanto subdolo, trova difficoltà
a prevalere quando il bene lo affronta a muso duro e ne scopre le macchinazioni.
Tutto è stato chiarito. La verità ha fatto giustizia. Ora ci scriviamo, siamo amici, qualche volta ci
incontriamo.
Il telefono “ruffiano” mi aiuta ad ascoltare la sua voce che anche a distanza riesce ad essere
armoniosa superando i limiti imposti dalla tecnologia.
Non definitemi un “saltimbanco” dell’amore. Il tempo è fatto di momenti ed i momenti possono
essere eternità, tutto dipende dall’intensità con la quale li vivi.
Veronica per esempio mi fa morire di desiderio. Con quei capelli nero-corvino raccolti sulla
nuca a coda di cavallo ed una ciocca accuratamente abbandonata, sbarazzina, dalla fronte verso la
gota sinistra, quasi a congiungersi con il sopracciglio.
Quando mi strizza l’occhio lo fa per amicizia con la purezza dell’ingenuità lo so, ma io divento
una polveriera e lei non può accorgersi di quanto riesce ad essere propellente della velocità del mio
sangue che raggiunge livelli ultrasonici.
Per fortuna arterie e vene sono capienti ed i capillari robusti.
Veronica è piena di gioia, sprizza vitalità da ogni poro, un lievito di allegria che tradurrebbe in
festa anche un funerale. Credo che sorrida anche nel dolore.
Quando qualcuno dice di non credere in Dio m’incazzo, mica per niente! Come si fa a negare
l’evidenza?
Non sono un bigotto, ho la grazia della fede che non è beghina, non impedisce la tolleranza.
Credo in Gesù figlio di Dio e nel Suo tremendo sacrificio per l’umanità. Non condanno chi
crede in Maometto o Buddha anche perché fanno comunque riferimento all’unico Dio.
Spero che un giorno capiscano che la salvezza è venuta da Gesù anche per loro. Che la Croce
non è un monile ma un esempio da seguire affinché giorno per giorno si compia la redenzione.
Non definitemi blasfemo ma quando vedo uno schianto di figliola di quelle che ti trasformano la
testa in una pala d’elicottero mi domando: “Come si fa a non pensare a chi l’ ha creata?Deve
essere grande, grandissimo! Solo un Dio può fare certe cose, nohoh!”.
HA creato il sole, la luna , il firmamento, il mare ei picchi nevosi, i fiumi e l’irruenza maestosa
delle cascate, le policromie fantastiche dei fiori, gli uccelli con piume bizzarre e melodici canti.
Ha popolato il mondo di creature, ognuna con la propria funzione.
Ha riempito le valli di foreste e fatto crescere ogni sorta di frutta.
Ha dato ad ogni uomo un verbo e ad ogni verbo una poesia.
Il Suo capolavoro però è la bellezza della donna: incomparabile!
Non è una prova sufficiente per immaginare la grandezza di Chi l’ ha creata cioè Dio?
A LOURDES CON L’ORIENT EXPRESS
“Normalmente dopo il temporale il sole
illumina il paesaggio: il verde si fa più
verde, il cielo è più pulito. Il temporale
è brutto ma il sole è bello e quando ci si
trova in mezzo alla tempesta non si
deve disperare perché è certo che il
sole verrà”.
L’Oriente Express è il nome di battesimo che abbiamo dato al convoglio ferroviario che ci
trasporta nei santuari. Non vi è però alcuna probabilità di trovarvi un bullone in comune con il
famoso, elegante e lussuoso treno che ha ispirato scrittori di gialli e registi cinematografici. Il nostro
è denominato treno bianco. Il colore è certamente riferito alle accompagnatrici, tutte volontarie, con
niveo abbigliamento dal copricapo alle calze.
Terminate le operazioni d’imbarco alle 11.30, sostiamo su un tratto di strada ferrata
tecnicamente definito “binario morto”, fino alle 13.30, quando finalmente ci mettiamo in moto,
lentamente, accompagnati dal classico cigolio delle ruote. Destinazione: santuario di Lourdes sul
Gave del Pau alle falde dei Pirenei in Francia. Ci sono stato altre volte ma ci torno volentieri. E’ un
bagno di fede indimenticabile.
Un viaggio tutt’altro che tranquillo. A parte le frequenti soste che hanno reso appropriato il
nostro appellativo (su noi hanno la precedenza non solo i superlenti accelerati ma i treni merci),
questa volta un’imprevista fermata ad Alassio, causato dallo sciopero dei ferrovieri, in piena notte,
aggiunge una nota di mistero al nostro itinere.
Lo stridio in frenata fa più rumore di una sveglia con suoneria a tutto volume. Il rinculo seguito
da un silenzio pieno d’interrogativi. L’inutile attesa di notizie. Le varie supposizioni, fino a quando
qualcuno delle ferrovie dello Stato sente il dovere d’informarci. Arrivati alle 24.00 siamo rimasti in
sosta per sei ore nella stazione della ridente cittadina ligure.
Almeno fossimo potuti andare a vedere il famoso muretto, sede vespertina dell’ozio di
generazioni di giovani! Avessi potuto ascoltare non in sordina “Mony, Mony” di Billy Idol!
Alle 4.00 un gruppo di giovani chiassosi usciti alticci da una discoteca le cui insegne al neon
sono visibili dal treno, ha dato l’assalto al silenzio. A parte qualche improperio di chi è stato
sottratto al sonno, le voci dell’allegra comitiva hanno rotto la monotonia dell’attesa e fornito un
valido argomento per discutere sulle discoteche e sugli incidenti del sabato sera.
Se potessi vorrei scatenarmi in una sala, eccitato dalla musica assordante, tra lampi di luci
multicolori, in mezzo a tutti, fino allo sfinimento! Eppure sono convinto che anche con la
carrozzina mi consegnerei al ritmo in un felice connubio. Quando ascolto un compact faccio leva
sul poggiapiedi e sollevo il busto ruotando a destra e a sinistra con le mani alzate a tempo di musica.
Ogni tanto mi lancio ma il Piccolo Rifugio non è la discoteca.
Alle 6.00 è ripresa la lunga marcia. Il convoglio si è mosso lemme lemme. Se è vero che “chi va
piano va sano e va lontano”, per noi anche l’infinito diventa una meta raggiungibile.
Poco prima di arrivare a Lourdes, Nazzarena, compagna di viaggio e di carrozzina, a causa di
uno scossone è caduta dalla cuccetta e si è fratturata un femore. Un elicottero l’ ha portata al
Policlinico Gemelli di Roma.
Certo l’occasione non è stata felice, però sia pure col femore rotto un volo se l’è fatto. Può dire
di essere stata in elicottero. Per Nazzarena quello è stato il giorno dei voli: prima dalla cuccetta sul
pavimento, poi con l’aeromobile fino alla capitale d’Italia. Meglio che niente!
Per quanto mi riguarda ho avuto problemi intestinali dovuti alle caratteristiche logistiche del
mezzo di trasporto e soprattutto al quasi raddoppiato tempo di percorso. Gli scompartimenti sono
tanti, i viaggiatori pure (ovviamente tutto esaurito), a “bagni”, se così si possono definire, siamo
messi piuttosto male: massimo due per ogni vagone.
C’è da fare la fila ed è un problema. Si sa che l’intestino ha i suoi ritmi regolati normalmente da
scadenze più o meno costanti e non concede alternative al wc, salvo l’aperta campagna con i dovuti
appoggi che non è difficile realizzare, lì per lì con il sistema del Boy Scout, alla condizione che ci
sia un albero. Se salti il turno sono guai: a parte il malessere, per riprendere via ci vuole la mano di
Dio, a meno che non si faccia ricorso al lassativo che preferisco evitare. Gli orari non sono tassativi,
bisogna però non approfittarne eccessivamente: ritardo non deve voler dire cambiamento totale
dell’ora.
Per fortuna la città di Lourdes è molto bene attrezzata sia all’interno che all’esterno degli
alberghi, oltre che nello stesso Santuario. Le toilettes, prive di barriere architettoniche, con le
strutture adatte alla nostra condizione, sempre in ordine e pulitissime.
Appena arrivato, ho “risolto” con un po’ di fatica e molta concentrazione. D’altra parte se non ti
concentri ogni sforzo è vano. Questa volta però concentrazione e sforzo sono stati particolari.
Quando ce l’ ho fatta ho gridato alla vittoria.
Il resto della settimana l’ ho passato in preghiera ad ammirare la bellezza del paesaggio
pirenaico e perché no? Qualche bella figliola per soddisfare l’altra faccia dello spirito. Parliamoci
chiaro: le donne sono creature di Dio e se il Padre Eterno le ha fatte belle, qualche motivo lo avrà
avuto no? I fiori li ha creati per farli ammirare ed odorare e perché così non dovrebbe essere per le
belle donne?
A Lourdes si va per pregare ed io ho pregato, ho chiesto alla Vergine di fare anche a me la
Grazia, non pretendo troppo, va bene anche così, l’importante è che il mio animo riesca ad essere
sereno, a provare sempre la gioia della vita in qualunque circostanza. L’invalidità non deve
alimentare il pessimismo, altrimenti guai! E questa non è una Grazia da poco.
Normalmente dopo il temporale il sole illumina il paesaggio: il verde si fa più verde, il cielo più
pulito.
Il temporale è brutto ma il sole è bello e quando ci si trova in mezzo alla tempesta non si deve
disperare perché è certo che il sole verrà. Allora pensiamo al sole ed anche il temporale sarà più
sopportabile, farà meno paura.
Consiglio di partecipare almeno una volta ad una pellegrinaggio in un Santuario, dove la fede è
comune denominatore di una moltitudine che trova comunque e sempre spirituale conforto.
Non mi riferisco solo a chi come noi è in particolari condizioni, ma anche a quelli che ritengono
di non aver bisogno dell’aiuto divino, perché privi d’inconvenienti fisici, sani come pesci (sembra
però che anche i pesci si ammalino).
La grazia della fede riguarda tutti, nessuno escluso: validi ed invalidi, credenti e non credenti.
Non può esistere un uomo senza fede anche se il destinatario della stessa non è Dio.
Ritengo che anche un ateo rimarrebbe impressionato. Non voglio fare il missionario, non ne ho i
connotati né la vocazione, però ho pensato a questa eventualità: come reagirebbe l’ateo di fronte ad
una manifestazione come quella di Lourdes?
A prescindere da improbabili conversioni, non potrebbe non rimanerne colpito. Del resto un
ateo vero, non uno snob salottiero che si dichiara tale per non apparire un comune mortale, non
bestemmia perché se lo facesse non sarebbe più ateo: è stupido maledire uno che non esiste.
Un po’ come l’anarchico che non crede nello Stato e nelle sue leggi poiché le considera
comunque e sempre oppressive.
La legge principale è quella morale che nasce dal tuo Io ed esalta il libero arbitrio: non rubo non
perché me l’impone il codice, ma perché rubare non è corretto. Rispetto il mio prossimo non perché
se non lo faccio commetto peccato, ma perché lo ritengo doveroso. Anarchia, si legge nel
vocabolario è termine composto, proveniente dal greco “an” cioè “no” e “arcò” cioè “comandare”.
Niente comando esterno poiché i principi, la coscienza, devono guidare i comportamenti.
Obbedire a leggi o ordini vuol dire “essere soggetti a”, cioè non essere liberi. L’anarchico
quindi dovrebbe essere l’uomo modello, quello che immagina tutte le porte senza chiavi e se non
fosse per un problema climatologico farebbe a meno anche delle porte. L’ateo che vive nella fede di
valori propri, nulla condannando di quelli altrui riguardanti il trascendente, non potrebbe non
rimanere scosso da tanta speranza. Il martirio esalta sempre la santità, tanto è vero che non può
essere, essa santità, riferita solo agli uomini di religione ma anche ad altri. Chi affronta la tortura e
la morte per il proprio ideale è un eroe. Che cos’è l’eroismo se non l’estremo sacrificio per la
propria fede, cioè la santità laica?
Quante volte mi sono chiesto: “Perché proprio a me?”.
Quando però mi sono trovato in mezzo al popolo dei disabili ho constatato di non essere né solo
né raro, il che vuol dire poco per quanto riguarda il mio inconveniente, dà però una risposta seppur
insufficiente alla domanda. Sia ben chiaro: il fatto di essere in molti sulla carrozzina cambia poco o
niente, ma in un mondo in cui il numero sembra essere forza, assume un aspetto se non altro
garbatamente intimidatorio. Per il resto considero il proverbio “Male comune mezzo gaudio” una
stupidaggine. Mi si deve dimostrare che se non sono solo ad avere il mal di testa ma
contemporaneamente lo hanno altre 49 persone, il mio dolore si riduce ad un cinquantesimo o
quanto meno si dimezza. Da Lourdes ho scritto una cartolina ad Angela, splendida ragazza
conosciuta in un giorno di primavera. Il misticismo non annulla la bellezza dei rapporti, anzi la
rafforza. Avrei voluto telefonarle ma non avevo il numero. Al ritorno per caso ho incontrato
un’amica che mi ha portato i suoi saluti. Le ho telefonato. Ci sentiamo spesso. E’ nato un rapporto
di amicizia sincera senza complicazioni. Comunicare per telefono costa un po’ troppo in questa
nostra Italia. Mi dicono che abbiamo le tariffe fra le più alte d’Europa e del mondo. Certo è che
specialmente nelle ore del mattino quell’aggeggio di colore arancione appeso al muro si trasforma
in una vorace macchinetta mangia soldi. Le tessere telefoniche si esauriscono quasi alla velocità
della luce. Sembra che finalmente arrivi la concorrenza. Speriamo! Le cose dovrebbero migliorare. I
monopoli si preoccupano solo d’incassare. La competizione per conquistare e mantenere il mercato
è sempre utile al consumatore, il quale è così messo nella condizione di scegliere qualità e prezzo.
Per noi il telefono è sempre amico e lo sarebbe di più se costasse di meno.
Nostre acerrime nemiche sono le tariffe, quasi più delle barriere architettoniche. Il telefono non
richiede movimenti particolari e poi, qualcuno che se necessario ti forma il numero e regge la
cornetta, è difficile che manchi. Possiamo così comunicare con parenti ed amici anche se molto
lontani. Per me che non ho più nessuno è l’unico modo per sentire qualcuno.
CLAUDIA E DON CARAMELLO
LA FANTASIA DI UN TENTATO SUICIDIO
“Il problema vero è proprio quello di
considerare la «necessità» come
l’ultima spiaggia, senza alternative,
ignorando
completamente
la
provvidenza, che c’è ed è concreta,
basta affidarvisi con fiducia”.
Nell’ospedale per lungo-degenti dove ero ricoverato prima di trasferirmi al Piccolo Rifugio,
lavorava Claudia, infermiera professionale. Ne ho parlato, citandone solo il nome, all’inizio di
questo lavoro. E’ stata di vitale aiuto in un periodo di forte depressione.
Direi che mi ha salvato la vita. La sua presenza e quella di Paolo hanno evitato che ritentassi il
suicidio.
Dopo la morte di mia madre avevo provato a farla finita ma nessuno se n’è accorto.
Letteralmente immerso in una depressione senza confini ho chiesto a Gesù di concedermi il perdono
per l’atto che stavo per compiere. Avevo considerato tutto. Niente sangue. Nessuno scritto, se non
altro per mancanza di destinatari. Mio padre praticamente era come se non ci fosse.
Solo i miei due cari amici avrebbero pianto, ma avevano le loro famiglie e sarei diventato presto
un ricordo. Il problema era: come fare? Pensare alla corda sarebbe stato assurdo, avrei dovuto
operare da solo e sarebbe stato impossibile: come avrei potuto raggiungere l’altezza giusta per
fissarla? Non potevo farmi aiutare, come avrei formulato la richiesta: “Ehi fammi il piacere, lega
questa corda a quella trave che mi devo impiccare?”
Pistola o fucile nemmeno a pensarci e poi: esplosione e sangue! Il gas poteva essere una
soluzione, ma mi sarei dovuto servire delle cucine situate due piani sotto il mio. A parte il dislivello
che avrei potuto superare usando l’ascensore, sperando di passare inosservato, i locali quando non
erano in attività venivano chiusi e la chiave consegnata alla direzione.
I tranquillanti mi venivano somministrati secondo posologia, niente flacone e non potevo
neanche non ingoiarli per accumularne un certo numero, poiché con la pasticca o la capsula mi
portavano il bicchiere d’acqua che dovevo bere in loro presenza per restituire il vuoto, quindi
sfumava anche la possibilità di qualche nascondiglio in bocca, tra la gengiva e la parete interna
della gota o sotto la lingua.
Varechina o acido muriatico non erano a portata di mano. Avrei potuto provare a fregarli alla
donna delle pulizie quando passava con il carrello, ma se ne sarebbe accorta subito e rischiavo di far
saltare il piano anche con altri eventuali mezzi. E poi: terribile noh!
Allora? La cuffia! Si la cuffia con la quale ascoltavo la musica dal walkman. Se avessi tolto gli
auricolari e messo a nudo il sostegno metallico si sarebbe trasformata in un casco da sedia elettrica.
Oddio! Un vero e proprio casco no, diciamo un ferma capelli. Certo come potenza elettrica non
c’eravamo, in America usano una scarica da ventimila Volt ed io ne avevo a disposizione solo
duecentoventi, avrei però potuto aumentarne l’effetto mettendo i piedi a bagno.
Si trattava ora di sostituire con una spina il jack di collegamento del walk. La spina non ce
l’avevo, potevo mettere a nudo le due estremità dei fili ed inserirli nei buchi della presa. Troppo
complicato, con il rischio oltretutto che se l’aggeggio avesse funzionato anziché prendere il volo per
l’aldilà sarei rimasto tramortito per la fuoriuscita del collegamento. Pregai Claudia di acquistarmi la
spina, inventandomi di dover sostituire quella della lampada del comodino.
Tutto il lavoro lo avevo fatto nel segreto del bagno, giustificando l’insolita permanenza con una
stitichezza particolarmente tenace. Predisposto l’apparato ho deciso di riflettere ancora prima di
passare all’azione. Mi rendevo conto della gravità del peccato che stavo per commettere.
Fermamente convinto che solo Dio avrebbe potuto togliermi la vita che mi aveva dato, io stavo per
sostituirLo.
Passò un po’ di tempo, una nuova crisi che mi sembrava insuperabile mi spinse a riprendere la
cuffia per porre in atto il letale programma. Mi chiusi nel singolare laboratorio dotato di una presa
di corrente ad altezza di disabile per il rasoio elettrico. Avevo cominciato a recitare le ultime
preghiere raccomandandomi a Gesù di chiudere un occhio. Prima volli sperimentare l’apparecchio
per evitare fallimenti.. Arrotolai un asciugamano approssimandolo alla circonferenza di una testa, vi
applicai la cuffia, se si fosse riscaldata voleva dire che funzionava. Ora dovevo solo inserire la spina
nella presa.
Non lo avessi mai fatto! Una fiammata e porca miseria saltò tutto dappertutto. Il filo si fuse e
sprigionò fumo ed il caratteristico odore della plastica bruciata. Mi misi una paura matta. Riuscii
dopo vari tentativi ad aprire la finestra per cambiare aria. Gettai il “dispositivo” nel sottostante
prato. Una provvidenziale scarica intestinale che lasciai operare senza premere lo sciacquone coprì
l’odore acre della resina. Rinviai la partenza per l’aldilà a data da destinarsi.
Tutta la responsabilità fu attribuita dai “tecnici” ad un corto circuito la cui localizzazione è
rimasta un mistero. Nessuno ha notato che non ascoltavo più la musica. Solo Claudia piuttosto
preoccupata mi ha chiesto se era successo qualcosa di particolare. Le avevo risposto che mi si era
rotta la cuffia. Il giorno dopo me ne ha regalata una nuova. Claudia mi è stata fraternamente vicina e
questo ha provocato la reazione e la gelosia dei colleghi e degli altri pazienti che vedevano nel suo
comportamento una scelta preferenziale. Non era vero! Si comportava così con tutti.
Conoscendo la mia tragedia familiare e la totale solitudine nella quale vivevo, non si limitava
alla sola assistenza ma cercava di consolarmi sforzandosi di rendere meno duro il vuoto lasciato
dalla morte di mia madre. Non immaginate quanto sia mortificante assistere all’arrivo di amici e
parenti di altri durante l’orario di visita e rimanere solo come un cane perché nessuno ormai si
ricorda più di te.
Aveva scelto di fare l’infermiera non solo per guadagnarsi il pane, ma per amore verso il
prossimo.
Quando ho deciso di lasciare l’ospedale su consiglio di fratel Dino, mi ha implorato di restare.
Vedendomi risoluto e conoscendo il mio carattere mi ha chiesto: “Se proprio te ne devi andare non
farlo quando sono di turno. E’ meno duro”. Per lei ormai ero un fratello al quale si era
profondamente affezionata. Il destino ha voluto che partissi proprio il giorno in cui era in servizio.
Non ha saputo trattenere le lacrime. E’ stato doloroso anche per me. Molto doloroso! Avrei voluto
evitare quella data ma non dipendeva da me. Le ho fatto presente che la mia decisione non sarebbe
stata definitiva perché se non fossi rimasto bene impressionato dal nuovo ambiente sarei tornato.
Ho vivo il ricordo di quell’indimenticabile affetto.
Con lei parlavo spesso di mia madre. Mi ascoltava e si commuoveva. Voleva che le raccontassi
come era, che faceva, e che descrivessi episodi particolari della nostra vita.
Sicuramente per curiosità, ma credo nella prevalente convinzione che mi avrebbe fatto bene.
Non si spiegherebbe altrimenti l’attenzione per narrazioni ripetute ed ogni volta ascoltate come se
fossero nuove. Questo particolare ha maggiormente sottolineato la sua carica di umanità.
Claudia è successivamente andata a lavorare in un altro nosocomio, il medesimo nel quale è
morto mio padre.
Era di turno quando Strato Salemme se n’è andato. Mi ha scritto una lunga lettera per
raccontarmi nei particolari com’è successo. Aveva letto sulla cartella clinica il cognome Salemme,
aveva ritenuto che si trattasse di un parente, mai di mio padre!
Al telefono della casa di quel signore rispondeva una ragazza qualificandosi figlia del paziente.
Claudia sapeva che ero figlio unico, su questo non aveva dubbi, non era possibile quindi che
fosse mio padre. Non potevo avere una sorella.
Non le avevo mai parlato del “soggiorno-rodaggio” nella casa della futura matrigna. Mi ero
vergognato di raccontarlo pur avendo rapporti tanto confidenziali da dirle tutto.
Non mi sento innocente. Non riesco neanche ad immaginarmi vittima. Ho un senso di colpa che
mi morde, mi segue ovunque, mi ossessiona. Dove oppormi alla proposta-ordine di trasferirmi
dall’altra donna di mio padre. Non ho fatto buon uso della volontà della quale Dio mi ha dotato e
non ho saputo scegliere, secondo il libero arbitrio.
Mamma mi perdonerà, non ho dubbi, ma questo non cancella l’azione.
Vedete amici miei, l’onestà impone coerenza. La “necessità” quando viene considerata in
termini assoluti non ti dà scampo. Di fronte alla “necessità” viene sacrificata anche l’etica.
Quando la “necessità” assume le caratteristiche dell’indispensabilità sembra non offrire vie
d’uscita, può spingerti anche al delitto ed il delitto non può avere giustificazione alcuna.
Il problema vero è proprio quello di considerare la “necessità” come l’ultima spiaggia, senza
alternative, ignorando completamente la provvidenza che c’è ed è concreta, basta affidarvisi con
fiducia. Basta riflettere sul fatto che tutto è sempre relativo, nulla è definitivamente “definitivo”.
Perché Caino uccise Abele? Era più ricco Abele? Aveva fatto carriera? Era contro il fratello
Caino? Si direbbe in termini moderni: era un concorrente sleale? Allora non c’era mercato. No!
Abele veniva considerato più buono di Caino, tanto buono da abbandonare gli strumenti di lavoro
per meditare e pregare, mente Caino lavorava senza soste.
Parliamoci chiaro: chi faticava era Caino. Chi produceva per il sostentamento della famiglia era
Caino. Quando tornava nella caverna dopo il lavoro l’unico desiderio era sdraiarsi sulle foglie e
riposare, non aveva né il tempo né la forza di fare complimenti ai genitori, appena il “buona sera”
d’obbligo.
Sentiva però che l’affetto di Adamo ed Eva diventava sempre più un’indispensabile, vitale
“necessità”. Che altro compenso poteva desiderare se non quello? Non aveva un datore di lavoro.
Mancavano molti millenni all’entrata in uso del denaro.
Sentirsi dire bravo. Constatare che anche lui era considerato dai genitori era quello che
ardentemente desiderava. Indubbiamente non era espansivo come Abele: era più facile levargli un
dente sano che fargli uscire dalla bocca: “Mamma ti voglio bene”.
Abele bello, raffinato, ammirato dalle donne –che poi erano e non poteva essere diversamente le
sorelle– (a pensarci bene l’umanità ha avuto origine da una serie considerevole d’incesti), arrivava
tutt’altro che affaticato anche se faceva finta di esserlo e anziché andare a riposare, tesseva elogi ad
Adamo ed Eva e aveva per loro particolari attenzioni. Quasi si squagliava nei complimenti alla
madre alla quale non dimenticava mai di portare un fiore di campo ed un ramoscello di lavanda. Ad
Eva questo faceva un gran piacere. Caino invece era piuttosto “ruspante”.
Introverso, silenzioso, sempre nel cantuccio. “Abele qua Abele là, Abele caro, Abele grazie.
Abele sei un tesoro”, mai che dicessero: “Sei stanco Caino?”. Il primogenito sembrava non esistere,
l’ultima volta che i genitori ne pronunciarono il nome fu quando venne al mondo. Aveva capito che
quel dritto di Abele, diplomatico fino, aveva l’esclusiva dell’affetto dei genitori.
Non solo, ma tutto quello che faceva andava bene: aveva sacrificato al Padreterno qualche
agnello e Questi non la smetteva più di ringraziarlo; quando Caino si era dato all’agricoltura aveva
offerto all’Altissimo i frutti di tante fatiche 8allora si doveva fare tutto a mano), il Creatore si era
incazzato e li aveva rifiutati perché non presentati nei dovuti modi, con le dovute cerimonie, infatti
Caino li aveva messi sull’ara e aveva detto: “Dio questi sono per te” senza tante moine.
Non sopportava più un tale stato di cose. Come avrebbe potuto risolvere il problema? Parlarne
al padre e alla madre sarebbe stato tempo perso. Chiedere che avrebbero qualche attenzione anche
per lui sarebbe stato fiato sprecato. L’unica soluzione appariva quella di eliminare fisicamente il
concorrente, magari fingendo un incidente, allora non esistevano detectives.
Rimasto solo i genitori si sarebbero dovuti rivolgere a lui, prima magari con rabbia, ma poi,
piano piano, con affetto, scoprendone la nobiltà d’animo occultata dal carattere chiuso.
Lo fece con ferma determinazione, esagerando un pò, mai pensando che la storia ne avrebbe
fatto il simbolo dell’ignominia.
Ancora non erano stati resi noti i Comandamenti, cioè non c’era la legge.
Qualcuno potrebbe chiedermi: “Ma che cavolo c’entra questo con la tua storia personale?”.
Apparentemente niente, ma non è così.
Se Caino non avesse considerato indispensabile l’apprezzamento dei genitori non sarebbe
arrivato a tanto.
Il discorso è riferito quindi all’indispensabilità. Se non avessi ritenuto indispensabile quello che
prima era una necessità, non mi sarei trasferito dalla futura matrigna. Non avrei commesso quel
delitto nei confronti di mia madre. Quello di Caino è il primo crimine nella storia dell’uomo.
Consideravo la mia permanenza nella casa della donna di mio padre quando mamma era ancora
viva, un fatto grave, vergognoso, appunto delittuoso.
Non avevo la forza di descriverlo. Mi sentivo colpevole. Avrei dovuto resistere. Ripensandoci
se mi fossi affidato alla Provvidenza qualcuno sarebbe venuto a farmi compagnia, a darmi una
mano. Il bene non è scomparso completamente.
Mi sembrava utile non parlarne perché ritenevo il fatto troppo madornale. Non solo. Mi
chiedevo oltretutto che cosa si sarebbe pensato di me, visto e considerato che non sono figlio di
“NN” ed un’esperienza tanto amara non mi era stata imposta da un estraneo. Per questo non avevo
raccontato nulla a Claudia.
Un medico le aveva comunicato che “il deceduto aveva il figlio disabile ospite di una casafamiglia in comune di Ferentino provincia di Frosinone”. Questo le ha fatto capire che si trattava di
mio padre.
Nella lettera si rimproverava di non aver accostato la somiglianza di quel signore a me dal
colore degli occhi verde-celeste, inconfondibile caratteristica di famiglia.
___
Una delle persone che non possono non colpirti è Don Carlo, parroco della Chiesa di S. Antonio
a Frosinone. Sacerdote di una certa età, veramente pio, espressione viva della bontà. Sorridente con
le gote a buffetto, anche quando è solo con se stesso, come se vivesse in compagnia di gente come
lui, dove il male non ha diritto di domicilio.
Se lo incontri e lo osservi quando cammina per andare chissà dove, sembra che abbia delle
visioni, non guarda mai per terra, vorrei sapere come fa ad evitare le buche. Deve avere il radar
come i pipistrelli. Paso pesante e svelto, scarpe antiche ed abbondanti, tonaca d’epoca piuttosto
corta con i pantaloni senza piega ben visibili.
Raramente il clargyman. Mai visto con il classico cappello da prete, niente borsalino, un
semplice basco nero.
Ha celebrato il cinquantesimo anniversario di sacerdozio negli ultimi giorni di settembre 1995.
Una bella festa! Eravamo presenti: disabili, abili, barellieri, dame e cavalieri, oltre ad una
moltitudine di fedeli, elevatissima la presenza di giovani. La chiesa letteralmente zeppa. Don Carloè
la personificazione della bontà, non può non essere ben voluto.
E’ difficile trovare qualcuno che si lamenti se non per le omelie un po’ troppo lunghe: inizia
bene poi fa il riassunto; prosegue con il riassunto del riassunto, quando sembra che stia per
concludere riprende il via in mezzo allo sgomento generale.
Quando gli è stato fatto presente ha risposto che si va a Messa una volta alla settimana e se è
richiesto il sacrificio di dieci minuti in più, da buoni cristiani, bisogna farlo. Come dire che si rende
conto di essere lungo e ripetitivo ma se questo fa punteggio per la vita eterna è comunque un affare!
Un’esauriente documentazione fotografica esposta nella chiesa, ripercorre l’iter del sacerdozio,
dal seminario all’ordinazione, al succedersi delle parrocchie fino a quella di S. Antonio della quale
è responsabile dal 1959. Fra le foto una lo ritrae ovviamente sorridente, con la mano sulla spalla di
un giovanotto in carrozzina, fotogenico, anello all’orecchio sinistro alla bucaniera: quello sono io e
ne sono orgoglioso.
Nei discorsi usa frequentemente l’intercalare “è vero” tutto attaccato, senza intermittenza tra “è”
e “vero”. Ci incolla le frasi, ci compensa gli incisi, ci sostituisce punti e virgole. Ad ogni “è vero”,
noi perfidi disabili ribattiamo sommessamente: “è falso”, non per contestare quel che dice ma per
calcolare quante volte lo ha ripetuto.
Dal numero degli “è falso” verifichiamo quello degli “è vero”. Si potrebbe giustamente
osservare contando direttamente gli “è vero” senza complicare il calcolo con gli “è falso” sarebbe
tutto più facile. Non fa una grinza, ma allora che gusto ci sarebbe? Per questo ho utilizzato il
termine “perfidi”! E poi è l’unico modo per mantenere in piedi l’attenzione.
Gli abbiamo appioppato l’appellativo di “Don Caramello” e questa non è una cattiveria, non ha
niente a che vedere con il carattere dolce, l’eterno sorriso e la bontà che sarebbe riduttivo descrivere
con uno zuccherino. Ha sempre a portata di mano la borsa stracolma di quei piccoli dolciumi
avvolti in carta dai colori vivaci, con tutti i sapori del mondo. Li distribuisce ai quattro punti
cardinali per la gioia di chi li gusta e dei dentisti.
Semplice, affidabile. Parlacon il cuore che è grande così. Non voglio esagerare ma vedo in lui
Gesù in mezzo ai poveri, agli afflitti, ai lebbrosi, a tutti quelli che hanno bisogno di una buona
parola. Quando gli hanno riferito di questa mia considerazione si è rivolto al Redentore ed ha
esclamato: “Gesù mio, io non c’entro niente. Per l’amor di Dio! Non me lo sono lontanamente
sognato. Hanno fatto tutto loro”.
Frequenta gli ospedali, le case dei poveri, i vecchi che non possono uscire, gli ammalati a
domicilio, tutti quelli che sono soli perché la solitudine non conosce differenze sociali. E’ da tutti
bene accetto, anche da quelli che dicono di non credere. Molto discreto, rispettoso delle idee altrui.
Mai, anche ai tempi delle passioni politiche, dei forti contrasti ideologici si è lasciato andare a
dichiarazioni che potessero rappresentare prese di posizione pro o contro questa o quella
formazione politica.
Chi soffre ed ha bisogno di aiuto, chi allunga la mano e chiede soccorso è sempre un fratello.
Fare del bene non è un merito ma un dovere. Non gli importa di come la pensa il destinatario,
può essere ateo, ferocemente anticlericale, mangiapreti, bestemmiatore. Lo farebbe anche al diavolo
se lo vedesse in difficoltà.
E’ noto che non ha saputo dire no ad un giovane tossicodipendente in crisi di astinenza quando
si è rivolo a lui, disperato, alla ricerca di qualche soldo. Don Carlo ha guardato il cielo, ha recitato
sommessamente una preghiera per implorare il perdono ed ha messo la mano in tasca.
Per le caramelle e la carità deve spendere un mucchio di soldi e non ne ha, anche questo è un
miracolo della provvidenza! Ha rotto le scatole anche alle formiche per gli aiuti ai bambini della
Bosnia. Diversi carichi hanno raggiunto i campi profughi. Ad alcuni ha partecipato personalmente.
Non ha mai posseduto un’automobile, un motorino, una bicicletta, un monopattino, un paio di
pattini a rotelle: tutto a piedi o con l’autostop. Anche chi lo incontra per la prima volta senza
conoscerlo, su una strada deserta all’imbrunire, si ferma per ospitarlo. Si fida.
Non può essere un travestimento. Quello è un prete vero, uno di quelli “giù”, come una volta i
frati da cerca, per questo chiede il passaggio.
Non può fare del male e quando scende non la smette più di ringraziare, naturalmente dopo
avere regalato al guidatore l’immancabile caramella, accettata con commossa gratitudine da chi
odia i dolci.
___
Durante il soggiorno estivo a Frosinone, quindici giorni tra luglio ed agosto, ci incontriamo un
po’ tutti noi disabili della provincia con carrozzina o senza. E’ bello!
Ci salutiamo pieni di gioia. Un altro anno è trascorso e siamo qui. Se qualcuno manca
chiediamo con ansia informazioni sperando sempre che nulla di grave sia successo, soprattutto di
definitivo.
Molti amici vengono a trovarci e fanno a gara per renderci gradevole la vacanza.
Sono i nostri “donatori di tempo” che organizzano feste e spettacoli ai quali partecipiamo non
solo da spettatori. Il quartiere si anima in piena estate quando la gente è fuori e la città vive in un
insolito silenzio.
Un pomeriggio non sapevo che fare andavo avanti e indietro come un leone in gabbia.
La sede del soggiorno estivo ha un ampio spazio esterno nel quale ci si può muovere
agevolmente anche quando è pieno di gente: giovani e non giovani volontari, parenti ed amici con
variopinti abiti caratteristici della stagione calda, tra i quali si distinguono i candidi svolazzanti
abbigliamenti delle dame. Un’aria di festa, qualche volta rumorosa, comunque gradita agli abitanti
rimasti a casa.
Con l’elettro-carrozzina mi divertivo a fare la gimcana tra le persone inseguito da qualche
imprecazione. Sono un ottimo pilota. L’amico che mi dà una mano per questo lavoro si chiama
Schumacher e a me non dispiace, però vorrei sentirmi anche Billy Idol sulla potente HarleyDavidson.
Ho pensato di comperare un nuovo mezzo elettronico con le medesime caratteristiche
“logistiche”, migliore comodità ed aggiornamento tecnologico, come dire? Una fuori serie da
“Formula Uno”. I soldi per l’acquisto me li fornisce mia madre. Non pensate che sia diventato
matto: che è morta undici anni fa non l’ho dimenticato.
Ovviamente non può farlo personalmente, però proprio in questi giorni mi è stato comunicato
che essendo l’unico erede ho diritto a ricevere una certa somma che avrebbe dovuto riscuotere
quando era viva e sana.
Mi ero proposto di rinnovare il parco macchine anche se costituito da un solo automezzo ma in
questi casi l’idea non basta, ci vogliono i soldi. Si può ricorrere all’intervento pubblico solo dopo tre
anni dall’ultimo acquisto.
Quello delle elettro-carrozzine non dovrebbe essere un problema, invece lo è, non tanto per il
riconoscimento del diritto che è previsto dalle norme, quanto per la farraginosità delle procedure
che costituiscono veri e propri labirinti burocratici non giustificati da alcuna logica, data la evidente,
facilmente controllabile condizione dei destinatari che non dovrebbe giustificare tanta
preoccupazione per chi ha il dovere di erogare i fondi.
Si tratta fra l’altro di garantire, ove le condizioni personali lo consentano, quel minimo di
autonomia di movimento che rende meno dipendente chi si trova nel nostro stato.
Purtroppo i mezzi di trasporto singoli o collettivi dei disabili costituiscono una barriera
architettonica che si aggiunge a quelle delle opere murarie. La nostra Comunità ha un piccolo
mezzo acquistato con i soldi raccolti da un nostro benefattore e “adattato” alle nostre esigenze, ma
non è sufficiente.
Se ci si potesse dotare di un pulmino adeguatamente attrezzato, con un montacarichi adatto a
qualunque tipo di carrozzina, con alloggiamento ed ancoraggio automatico e stabile, potremmo
periodicamente visitare importanti luoghi della nostra Italia, dotati di beni culturali e paesaggistici
che potremmo ammirare, arricchendo così la nostra conoscenza.
Si tratta oltre tutto di un problema di civiltà, o meglio di cultura, risolto in altri Paesi d’Europa,
per non parlare degli Stati Uniti d’America dove musei, pinacoteche, zone archeologiche, sono
facilmente accessibili per i disabili, come lo sono supermercati, centri commerciali, mezzi pubblici
di trasporto.
Torniamo al soggiorno estivo: normalmente la sera dopo cena si fa un giretto nei dintorni e si va
a gustare un gelato prima di andare a dormire. Proprio in una di quelle occasioni sono uscito con
quattro amici visitatori, siamo andati in un bar ed abbiamo cominciato a brindare con più di qualche
“braghetto” che essendo leggero e gradevolmente dolce, va giù che è una bellezza, quando si fa
sentire però è troppo tardi per rimediare e ti trovi in “KO”.
Il proprietario ha offerto una bottiglia di buon rosso del Piglio (Fr) e quei corolli glassati di
zucchero che con il vino legano magnificamente. Gli ho dato sotto. Non la smettevo più di fare la
“zappetta”- Braghetto, Cesanese e zucchero: un vero proprio propellente. Al rientro il mio
locomotore andava da solo. C’era meno gente, più facili e spericolate le evoluzioni. Lo stato di
euforia incoraggiava l’azzardo. Il mezzo elettronico rispondeva a meraviglia. Sembrava aliementato
a kerosene. I barcollanti amici correvano per starmi dietro e controllare che tutto procedesse bene,
consapevoli della responsabilità che si erano assunti. Anche loro avevano alzato il gomito, mi
chiamavano preoccupati e ridevano. Sudavano come grondaie!
Con sadica ferocia ho allungato il percorso. Quando finalmente siamo rientrati mi hanno
accompagnato a letto e mi hanno aiutato a coricarmi cercando inutilmente di non dar nell’occhio. I
compagni di bisboccia, con il fiatone, inesperti, hanno fatto quel che hanno potuto per spogliarmi e
mettermi il pigiama.
Si sono però parecchio incasinati: un po’ per le difficoltà del “bisognoso”, un po’ perché con
tutto quello che avevano bevuto, governavano male i movimenti, probabilmente anche loro
dovevano essere aiutati a tenere la strada e trovare la via di casa.
Crollato mi sono addormentato di schianto ed ho continuato ininterrottamente, senza fare una
mossa, per quasi quarantotto ore!
Ho sognato tutte le Alessie e le Gabrielle di questo mondo. Mi hanno detto che ogni tanto
venivano a controllare se respiravo. Si avvicinavano per scrupolo poiché il colore rubicondo del
volto certificava il perfetto stato di salute. Non vi potevano essere dubbi: ero vivo!
Dopo la lunga dormita, il rimbambimento mi ha fatto compagnia e l’acqua è diventa la migliore
amica.
A proposito anche l’acqua è femmina ma ha un difetto grave: non fa girare la testa!
SE QUELLE PARETI POTESSERO PARLARE
“Non eravamo benestanti ma stavamo
bene anche borsa vuota. Vivevamo
dignitosamente del poco che l’onestà ci
permetteva e provavamo il gusto della
vita…Non ce ne fregava proprio niente
di quel che avevano gli altri, alle loro
ricchezze ed alle loro ostentazioni
restavamo completamente indifferenti”.
Non ho dubbi: per quanto s’impegni e s’illuda l’uomo non può essere il progettista esclusivo del
proprio futuro e quando lo è non è detto che il suo progetto venga realizzato anche se ha la ferma
intenzione di iniziare e completare l’opera.
E’ sbagliato il fatalismo, che spesso serve da alibi per attribuire al “tutto è scritto” azioni
censurabili oltre ad annullare ogni barlume di libero arbitrio, ma è errato anche il suo contrario:
“tutto può essere fatto purché se ne abbia la volontà”.
Non sono completamente d’accordo con il detto “Volere è potere” perché se così fosse la
“malasorte” non avrebbe ragion d’essere.
Sono convinto che nessun essere munito di ragione rifiuterebbe la felicità se avesse la possibilità
di farla propria.
Raramente è effetto del benessere, certamente è esasperatamente soggettiva, impalpabile,
indefinibile, misteriosa, non edificabile, incostante, qualche volta subdola. Eppure c’è.
Io con i miei genitori ero felice e ringraziavo Dio di avermeli dati. Lo ringraziavo anche, e
questo potrebbe sembrare madornale, di avermi fatto nascere disabile nella convinzione che il mio
handicap fosse il principale promotore dell’attenzione costante che avevano per me.
Credo che anche oggi, alla vigilia del trentesimo anno di età, la felicità mi sarebbe amica se
fossero qui.
La loro presenza ed il loro amore surrogavano la condizione d’infermità. Trasformavano la
carrozzina in un “vantaggio”, quasi in un “privilegio”.
Non eravamo benestanti ma stavamo bene anche a borsa vuota. Vivevamo dignitosamente del
poco che l’onestà ci permetteva e provavamo il gusto della vita. Mio padre e mia madre avevano un
lavoro. Le retribuzioni non erano un granché ma “l’unione fa la forza” e le due buste paga unite
permettevano di sbarcare il lunario con una certa soddisfazione.
Non ce ne fregava proprio niente di quel che avevano gli altri, alle loro ricchezze ed alle loro
ostentazioni restavamo completamente indifferenti.
Avevamo un mondo nostro, creato per noi, quello degli altri c’interessava relativamente, lo
stretto necessario ad essere membri della società. Nel nostro vocabolario la parola “invidia” era
irreperibile.
Come dimenticare il ristorante sul mare dove, date le favorevoli condizioni praticate dal
proprietario amico dei miei genitori, andavamo periodicamente?
Non si trattava di grandi mangiate, fatta eccezione per il giorno di paga nel quale la corda del
borsello si allentava di più.
Erano buoni gli spaghetti alle vongole gustati con il sottofondo sommesso della musica delle
onde che accarezzavano gli scogli.
Era gustoso ed ottimo compagno di mensa il Bianco dei Castelli al quale facevano onore papà e
mamma estendendo a me qualche sorso prudentemente somministrato in considerazione dell’età.
Era armonioso il canto di papà, nativo della zona Vesuviana, in un repertorio appassionato di
canzoni napoletane, con una voce vicina a quella si Sergio Bruni, allora migliore interprete del
canto partenopeo.
I suoi pezzi forti erano: “Partono i bastimenti pé terre assai luntane”, “Catarì” e “Munastero e’
Santa Chiara”. Mamma lo guardava ed ascoltava estasiata accompagnandolo con l’espressione del
volto ed il ritmico tentennio della testa.
Ma era soprattutto bello, infinitamente bello! Vivere nell’unità della famiglia, che trasformava
tutto, anche le avversità, in un coro d’amore.
La mia gratitudine per quell’uomo e quella donna che un giorno si erano congiunti per darmi la
vita non conosceva confini.
Quanto è profonda e dolorosa la nostalgia di quei momenti e quanto dolce il ricordo “eterno” di
loro!
Chissà se esiste ancora quell’osteria con il tetto di canna da dove ogni tanto faceva capolino una
prudente salamandra che poi si ritirava spaventata anche dagli schiaffi sulla cute all’atterraggio
delle zanzare?
Chissà se vive ancora quell’oste amico che non risparmiava complimenti al figlio di strato e
Maria e lo serviva per primo perché “fra tutti gli ospiti suoi era il più importante”?
Chissà se esistono ancora quelle pareti bianche così ospitali, testimoni e partecipi dei nostri
chiassi, cassa armonica delle nostre risate?
Con quella calce candida vorrei conversare per ascoltare il racconto di quei tempi , su quella
famiglia che riempiva gli spazi di allegria.
Sono certo che hanno inciso le nostre voci nell’immaginario impasto di salsedine e felicità di un
fantastico “long play”.
Un LP che mi sarebbe compagno con la dolcezza del ricordo, rendendo meno inutile la
rievocazione minata dalla tirannia del tempo, che non cancella ma sostituisce purtroppo, la gioia di
quei momenti con il vuoto colmato di tristezza.
E’ vero che tutto passa, il bene ed il male, ma se rimane qualche protagonista con il quale
dialogare e ricostruire il racconto, la consolazione attenua l’effetto negativo del rovescio degli
eventi.
E quando parlo di protagonisti non mi riferisco solo ai miei genitori, ma a quelli che c’erano
allora, parenti ed amici che facevano parte del nostro “clan” ed oggi sono scomparsi.
Nella mia vita nulla c’è più.
Nulla!
Non si sono spente solo l luci, non sono scomparsi solo gli attori, le tavole stesse del proscenio
sono sparite.
Non vi è rimedio! Ogni ricerca è inutile. Solo l’immaginazione può essermi d’aiuto.
Quando l’estate ruba il posto alla primavera il mare di Anzio mi appare come se fosse qui.
Il più bel mare del mondo!
Ecco papà che m’imbarca su un motoscafo con il quale vigila la spiaggia e parte come un matto
facendo fare allo scafo evoluzioni folli che mi fanno urlare di gioia.
Grido con il vento che rende vive le chiome e le trasforma in criniera.
Grido con gli spruzzi che annaffiano il volto e riempiono la bocca di sale.
Grido eccitato dalla voce vigorosa del motore e lo accompagno e lo incito: “Dai! Forte, più
forte ancora, sempre più forte!”.
Godo nel vedere le onde violentate dalla prua che le affronta e le squarcia rendendo inutile la
loro rabbia.
Grido alla vita!
E’ quasi convulsa la risata di mio padre che asseconda ogni mio gioioso furore.
Improvvisamente ferma lo scafo ancorandolo al sabbioso fondale e mi butta a mare seguendomi
con un tuffo da atleta. Nuotiamo e leviamo al cielo appelli di frenesia, giochiamo schiaffeggiando
l’acqua per provocarne getti l’uno sull’altro.
Tutto è scomparso, anche la primavera, l’estate, le altre stagioni che inutilmente si avvicendano
nel calendario diventato monotono.
Non cedo però alla desolazione perché sento di non avere diritto di star male, sarebbe
ingeneroso: Loro mi seguono e di ogni mio dolore sono partecipi, quindi non posso lasciarmi
andare.
Reagisco aiutato dalla carica interiore che mi ha sempre soccorso nei momenti difficili
facendomi superare ostacoli inimmaginabili.
E’ l’animo che diventa un gigante in certe condizioni!
Sono certo che Loro lo plasmano, giorno per giorno e ne fanno scudo alla fragilità come allora
quando se mi vedevano triste s’inventavano battute e mosse per farmi ridere e se avevano successo
partecipavano alla mia gioia così come l’artista che guarda la tela sente il profumo dei colori,
accarezza la dolcezza delle forme, osserva il lavoro da ogni angolazione per constatarne la
completezza e si sente grande unito all’opera che è per lui, sempre, un capolavoro.
Sono stato qualche giorno fa ad Anzio, accompagnato da un generoso amico, avevo ordinato ad
un bravo marmista la tomba per mia madre.
Questo libro, ora alla seconda edizione, mi ha permesso di affrontare la spesa.
L’artigiano ha fatto un buon lavoro. Prima del ritorno al Piccolo Rifugio guardo la foto di mia
madre incorniciata sul marmo, bella, sorridente, quasi viva.
Sono talmente concentrato ed è così intenso il pensiero che mi aspetto, da un momento all’altro,
di vederla resuscitare per un attimo, solo un attimo, per un abbraccio dolce come il Paradiso.
L’ho salutata senza versare lacrime, con un sorriso.
Ho pregato il guardiano del cimitero di non farle mai mancare i fiori rassicurandolo sul
compenso. Vorrei essere direttamente io a farlo ma è impossibile: troppo distante da Fermentino.
Se avessi una macchina e potessi guidare!
Ogni mese costi quel che costi invierò la somma a quel guardiano che mi è sembrato una
persona per bene.
A mamma i fiori piacevano tanto! Ne riempiva sempre la casa perché la rendevano viva e
gioiosa.
In questa descrizione ho gettato all’ortica l’ironia con la quale esorcizzo le contrarietà, mi sono
fatto prendere dalla tristezza. Confido nella vostra comprensione. Il tempo normalmente attenua
anche i ricordi più cari, in me avviene il contrario: li rende sempre più vivi perché anche i ricordi
hanno la qualità che li rende indelebili e ne sottolinea il diritto di priorità. Per me ogni occasione è
lievito di memorie: ascolto una canzone napoletana? Mio padre rivive come allora non solo nella
mente! Lo sento vicino come se fosse presente, somaticamente attivo.
La risata di una donna o il mormorio melodico di una voce femminile materializzano la figura di
mia madre.
Anche i fiori di campo, i rossi, caduchi petali di papavero che rendono vivo il giallo del grano
maturo mi presentano la mia Maria, come allora quando fermava la carrozzina al bordo della strada
per entrare nel mare di spighe e cogliere quelle macchie scarlatte da portare a casa e conservare, per
quanto possibile, in recipienti con un po’ d’acqua, culla e nutrimento per quelle splendide creature.
Non voglio essere prosaico ma l’odore degli spaghetti ai frutti di mare, solo l’odore, rievoca i
tempi in cui il mangiare oltre che gustoso era un pretesto per vivere insieme momenti di gioia.
Indimenticabili momenti che, anche nella preghiera, mi distraggono dalla concentrazione.
Non riesco infatti a rivolgermi al Signore ed alla Sua Vergine Madre, senza pensare a Loro.
IL DOLORE DELL’ANIMA
“Le piacevo per come esprimevo le idee
superando gli ostacoli della parola e
per tutto un complesso di fattori che,
secondo lei, non potevano non dare
origine, non all’infatuazione che è
sempre un fuoco di paglia, ma
all’innamoramento vero, cioè alla
sintesi fra razionale ed irrazionale nella
quale la “sublime” verità è espressa
dall’impronta divina nell’uomo. Dio è
innamorato delle Sue creature ed ha
donato loro la bellezza dell’amore”.
Sto male e non so perché. Impazzisco, m’incazzo ma non serve a niente. Eppure tutto è a posto
ben mangiato, ben bevuto, ben digerito, ben dormito, ben sognato, con il resto tutto è andato bene e
sono ridotto ad uno straccio.
Non riesco ad individuare nulla che possa giustificare questo malessere. Uno dei rarissimi casi
di effetto senza causa.
Non è possibile! Non ho un cavolo e non è vero.
Il mondo mi rompe, è irritante la luce del sole, presuntuoso il suo calore, anche l’amata musica
mi dà fastidio.
Mi dà noia la gente, gli amici, le cose, insomma: la vita.
Vorrei mettermi a gridare, scagliare qualcosa contro il muro, litigare, fare a botte. Verificare se
ho ancora sangue nelle vene, magari facendone uscire un po’ dal naso.
Passo dal forte desiderio di violenza ad una moscia da mollusco.
Sono in un vicolo cieco, non so che faccio, dove vado, perché cammino, perché continuo ad
esistere!
Tutto mi appare così superficiale, inconsistente, assurdo, inutile: “Che si vive a fare?”.
Fisicamente sono a posto, nessuna parte del corpo mi fa male eppure sento dolore, un’edizione
diversa, nuova che non è quella classica, normale di tutte le persone.
Non mi chiedete dove e perché, non lo so non lo sento in nessun organo.
Forse è nell’anima, ora che ci penso deve essere proprio lì questo figlio di buona donna!
Nascosto chissà dove a rendermi la vita impossibile ma l’anima non ha angoli né pieghe, come
ha fatto a nascondersi?
Quando fa male è un casino, non se ne può parlare, come fanno a crederti? Anche un medico
non saprebbe che pesci prendere:
“Come ti senti?”
“Male”
“Dove?”
“E che ne soo!”
“Come che ne sai?”
“Non lo so dottore, se lo sapessi glielo direi. Perché non dovrei dirglielo? Ho interesse, no, a
farmi passare questo malessere, mi creda sto proprio male”.
Il dolore dell’anima non si può descrivere, se ti fa male un dente sai dov’è, lo puoi indicare, al
massimo puoi sbagliare localizzazione quando il dolore è diffuso, ci penserà il dentista ad
individuarlo battendo sulle corone fino a quando trova quello bacato e ti fa fare un salto sulla sedia.
Insomma è lì in bocca, davanti o dietro, a destra o a sinistra, di sopra o di sotto e così se ti fa male
una gamba: la destra o la sinistra, il ginocchio o la caviglia.
Il mal di testa è inconfondibile, quello al fegato un po’più problematico, se ti tasti però, lo senti
ma nell’anima come fai a dire come è il male? Si può tastare l’anima? Non ha denti, non ha testa,
non ha fegato, non ha gambe né braccia, non ha forma, non si può raffigurare, neanche radiografare.
Si può fotografare l’anima?
Quando qualcuno ti chiede come stai che rispondi: “ Mi fa male l’anima?”. Però! La frase “mi
fa male l’anima” ha un che di poetico, potrebbe colpire la sensibilità dell’interlocutore. Ma il
difficile è proprio la sensibilità sempre più rara in questo mondo pragmatico.
Meglio evitare per non correre il rischio che quello ti guardi perplesso e pensi a qualcosa di più
serio, per esempio all’equilibrio mentale, se tutto va bene ad un esaurimento nervoso, può arrivare
anche alla conclusione che sei matto o che stai per diventarlo e, data la situazione, non gli si
possono dare tutti i torti.
Il male dell’anima devi tenerlo per te, non puoi farti curare né con le medicine né con le parole,
ne và del tuo buon nome, della tua reputazione, ti trasformi da disabile di gambe a disabile di mente
e la differenza non è uno scherzo!
In certi momenti sento il desiderio di parlare con qualcuno della mia famiglia per dire cose che
non si possono confessare al migliore degli amici, neanche al sacerdote, fra l’altro, non essendo un
peccato, gli faresti perdere solo tempo.
Alla madre per esempio si può dire tutto, ti ha avuto in grembo, ti ha sentito crescere, ti ha
accarezzato da fuori, fino a quando ti ha consegnato alla luce, sa che Dio ha aggiunto alla sua la tua
anima e le ha fatto da compagna man mano che hai assunto la forma del bambino.
Prima di nascere, quando ti sviluppavi dentro di lei, il tuo angelo custode era l’anima sua.
Ma io non ho famiglia,non ho più nessuno. Cammino tra le dune di un deserto di parentele,
senza nemmeno un’oasi. Uno dei pochi casi, credo, di un essere umano solo al mondo. Qualche
volta mi chiedo: “ se vincessi una lotteria e diventassi miliardario, quando un giorno mi arriverà il
telegramma del Padreterno e dovrò partire a chi andrà l’eredità?”.
Eppure anche in questa particolare situazione, che non mi pare esagerato definire triste, vi può
essere un aspetto positivo: non proverò mai l’amarezza di essere abbandonato.
Non rimarrò deluso se il sabato o la domenica, durante la settimana, il mese o l’anno mio padre,
mia madre, mio fratello, mio cugino, uno straccio di parente qualsiasi non è venuto a trovarmi e
pian piano non si son fatti più vivi per telefono.
Sapeste quanti disabili sono stati abbandonati dai loro “cari” e quanto sono più soli di me!
Oggi questo malessere deve avere aggredito anche il cervello: qualche minuto fa ho tirato fuori
dal borsello, sempre a portata di mano, la tessera telefonica e mi sono detto: “Ora vado a parlare con
mamma, mi sfogo con lei, mi aiuterà” dimenticando che è morta tanti anni fa.
Sono proprio nel pallone! Intronato come un pugile al tappeto.
Ho tentato di scuotermi, ho provato anche a pregare e non lo faccio frequentemente: sono un
credente, non un bigotto. Credo tanto in Dio che spesso ci litigo. Qualche volta con il Suo permesso
e con le dovute maniere Lo mando anche a quel paese. Così si fa tra amici!
Dico le mie preghiere prima di addormentarmi ( l’uomo prega più in prossimità della notte che
del giorno. Quando si sveglia si sente più sicuro, come se la luce gli facesse avere bisogno della
protezione dell’Altissimo).
Ricordo i miei defunti. Vado a Messa, canto durante il rito liturgico pur essendo stonato come
una cornacchia, normalmente assumo l’Eucarestia, ma tutto qui, difficilmente mi succede di
rivolgermi al Signore al di fuori dell’orario stabilito. Sia ben chiaro però: “Guai a chi me Lo
tocca!”. Con Gesù ho un patto preciso: Lo disturbo solo quando c’è proprio bisogno. Per
ringraziarlo è inutile scomodarlo troppo.
Ora credo proprio di essere in una depressione da suicidio!
Un amico è venuto a trovarmi, l‘ho salutato con indifferenza abbozzando un sorriso. Mi ha
chiesto se mi sentivo poco bene. Ho risposto con un no secco, irritato, si è reso conto che non era
aria e se n’è andato.
Ho manovrato la carrozzina verso la camera da letto nella speranza di versare qualche lacrima,
tanto più che ero solo ( le nostre non sono camere singole, neanche doppie sono multiple). Niente
da fare!
Anche gli occhi hanno rifiutato di collaborare: secchi come la terra dopo mesi di siccità.
Improvvisamente qualcuno mi ha chiamato: “Pinoo al telefonoo!”.non attendevo alcuna
telefonata.
“Chi poteva essere ?”. non avrei voluto rispondere ipotizzando che si trattasse del solito saluto,
del solito amico che non lascia passare giorno senza chiedermi come sto e : “Cosa fai oggi?”.
Un vero fratello, con il quale sto bene insieme e mi piace conversare! Ma: “Che volete da uno
che è irritato da tutto anche dalla luce del sole e dalla vita?”.
Neanche una bella ragazza riuscirebbe a scuotermi oggi, il che è tutto dire!
Comunque la curiosità ha avuto la meglio: ho preso in mano la cornetta, l’ho appoggiata
all’orecchio ed ho detto in tono secco: “Chi parla?”.
Una voce di donna calda, misteriosa, mai udita prima ha chiesto se ero “il signor Pino
Salemme”.
Ho insistito:
“Scusi ma con chi parlo? Non la conosco è la prima volta che la sento, da dove chiama?”
“Il mio nome è…… telefono da Patrica, conosce Patrica? È un bel paesino qui in provincia di
Frosinone, non molto distante da Fermentino, sui monti oltre la valle del Sacco, fra i castagni, con
le case coperte da tetti, arrampicate sulla roccia; tetti veri, di quelli antichi con le tegole color
mattone leggermente ammantate di muschio, sembra proprio un presepe!”.
Ho cercato di assumere un tono conciliante meno duro più adatto ad una conversazione che
prometteva cose buone. Messa da parte la depressione ho risposto:
“Che bella descrizione! Lei ha una capacità narrativa non comune, se avessi la possibilità di
decidere di me stesso in questo momento correrei a… come ha detto ?”
“Patrica”
“Appunto a Patrica per ammirare il paesaggio i suoi tetti e, se permette, lei”.
A questo punto mi ha interrotto e con una certa commozione tradita dal tremore della voce , ha
proseguito:
“Sono una sua ammiratrice, ho letto “Che fortuna ragazzi!” mi è piaciuto tanto, è scritto
magnificamente, mi creda sono stata talmente coinvolta che iniziatolo non ho smesso fino all’ultima
riga”.
“Non esageri” ho replicato “Si tratta solo della cronaca di una vita vissuta. Un po’movimentata
ma nulla di eccezionale. Certo non mancano vicende e personaggi, soprattutto femminili anche se
fra di essi è assente la signorina Fortuna che si rifiuta di essermi amica, la cui avversione ho voluto
esorcizzare proprio con il titolo.
Mi sono avvalso dell’aiuto di un amico che ha lavorato con me nella stesura del testo”.
Altra interruzione:
“Questo vuol dire che non è vero? Che è tutta una recita? Che invece di una realtà quella da lei
descritta è una romanzata invenzione? Per favore noo! Non mi deluda eh!”
“Senta signorina, forse mi sono spiegato male, mi creda: è tutto vero, tutto tremendamente vero,
molto più di quanto emerge dalla descrizione. Nulla è affidato alla fantasia. Per questo ho parlato di
cronaca cioè di descrizione dei fatti e, perché no, dei sentimenti.
Sentimenti profondi, lontana da ogni tentazione superficiale anche quando il racconto sembra
piuttosto scanzonato. È la realtà drammatica della mia vita, una realtà inconfutabile”.
E lei:
“Vede signor Pino”
“Mi chiami Pino, lasci stare quel “signor”, non serve! Anzi guardi già che ci siamo completiamo
l’opera e diamoci del tu, è d’accordo?”
“D’accordo” ha risposto “Vedi Pino, il tuo libro mi ha colpito.
Non ti conosco ma ti immagino e sono certa che quando ti incontrerò dovrò rendere omaggio
all’immaginazione.
Mi ha colpito a pagina quarantuno, il capitolo «Non si scherza con i sentimenti», devi avere una
profonda nobiltà d’animo una particolare sensibilità “.
Non sapevo che dire, come rispondere. Avere ricevuto elogi durante la presentazione ufficiale
del volume, nessuno però si era espresso così. Si è dilungata sull’argomento facendo osservazioni
molto sensate che denotano una certa maturità, evidentemente frutto di una notevole esperienza.
Ho immaginato doversi trattare di persona, probabilmente, provata da avvenimenti
traumatizzanti che trovava in me una specie di clonazione del dolore tanto da immedesimarsi
nell’interlocutore e viverne la realtà come se fosse la sua.
Oppure di una ragazza talmente buona che, anche se godeva del benessere, con una buona dose
di felicità, s’immedesimava nel prossimo e ne viveva i problemi.
Non poteva non essere a conoscenza della mia condizione fisica, certamente gliene aveva
parlato chi le aveva dato il libro (non in vendita in libreria) o lo aveva letto nella nota biografica
pubblicata sull’aletta della copertina dov’è riprodotta una mia fotografia in riva al mare che non è
quella di un baldo giovane a dorso nudo, con bicipiti così, i muscoli lucidati dalla crema solare , in
una posa da rambo o da latin lover, ma di un ragazzo sulla carrozzina , piuttosto gracile,con un
sorriso sardonico, un volto da “vaffa” tipo Beppe Grillo ed una gamba volutamente sbracata sul
bracciolo della “fuoriserie”elettrica. Insomma non una posa provocante ma provocatoria.
Ci siamo salutai, prima di riattaccare sono rimasto con il telefono in mano per qualche secondo
a pensare, imbambolato come un allocco.
Ho poi considerato che la disperazione non ha senso, pochi istanti prima ero sprofondato in una
tristezza indescrivibile, una telefonata imprevista di una sconosciuta ha ribaltato la situazione. Ora
la curiosità polarizza i miei pensieri.
Sono tornato fra i compagni sollevato, ad interrogarmi sulla conversazione e ad immaginare
l’aspetto della titolare di quella voce dolce, flessuosa, accattivante come una sirena.
Erano trascorsi poco più di trenta minuti quando è comparsa una giovane sconosciuta, mai vista
da queste parti, in tuta blu, scarpe da ginnastica di quelle moderne, di una nota marca, con
ammortizzatori ad aria, capelli neri cinti da una leggera fascia spugnosa come quella di giocatori di
tennis a incorniciare un volto dalla pelle di velluto, senza fossette, paffutella ma ben proporzionata,
sguardo penetrante sprigionato da occhi nerissimi, non proprio in erba, un corpo immaginato sotto il
giubbotto e gli ariosi pantaloni: più che un’atleta, un’odalisca.
Mi ha riconosciuto subito (la fotografia ha funzionato) si è fermata a qualche passo da me a
guardarmi intensamente, negli occhi, senza pronunciare parola, immobile, con un sorriso abbozzato
tipo Monna Lisa.
Scena muta, espressione interrogativa, piuttosto comica.
Qualcuno doveva prendere l’iniziativa, come dire? Rompere il ghiaccio. Sono partito io, le ho
chiesto:
“Che succede? È rimasta incantata dal colore dei miei occhi?” (Una signora anziana, durante la
cerimonia ufficiale di presentazione del mio libro, guardandomi, dopo avermi affettuosamente
accarezzato il volto aveva esclamato: «i tuoi occhi sono pezzi di cielo! » la vanità era quindi
giustificata”).
Niente da fare, non ha risposto, ancora lì, ferma come un palo, senza allungare la mano per un
saluto, senza mormorare almeno “ciao”, senza fare un centimetro né avanti né indietro.
Quando ho cercato di avvicinarmi mi ha sorriso, aveva gli occhi lucidi, il volto sorpreso,
radioso, un’espressione di meraviglia, come se fosse stata colpita da una visione. Poi si è allontanata
precipitosamente verso la sua utilitaria ed è partita in uno stridore di gomme tipo polizia di Los
Angeles. Però: che strana!
Sono rimasto a bocca aperta per un po’ di tempo, ho scosso la testa e sono rientrato fra la
sorpresa dei compagni che avevano assistito alla scena non meno meravigliati di me.
Quando ci siamo rivisti mi ha detto che durante il viaggio di ritorno non riusciva a levarsi dalla
mente il mio volto, e questo è durato tutta la giornata e l’intera nottata tanto che in famiglia erano
piuttosto preoccupati, sembrava che vivesse in un altro mondo.
All’incontro successivo la conversazione è stata lunga e piacevole. Si è piuttosto spinta senza
tentennamenti. A proposito della mia esperienza con Alessia, quella che ha ispirato “Non si gioca
con i sentimenti” ha sottolineato che avrebbe voluto essere lei al posto di Alessia, le cose sarebbero
andate diversamente in tutti i sensi!
Si è dichiarata seguendo la tradizione, con un rituale della parola che sembrava fuori uso da
tempo e con la genuinità degli animi nobili: le piacevo non solo per il volto, per gli occhi, per tutto
il resto, ma per il mio carattere, per come sapevo affrontare, beffare, combattere e vincere il male. E
per come avevo saputo descrivere tutto questo coinvolgendo il lettore.
È iniziata così una conversazione nel corso della quale ho cercato di impegnarla in riflessioni
che avrebbero dovuto farle analizzare, con distacco, la mia particolare situazione e considerare la
mia serenità un prodotto dell’avversione al male di qualunque genere fermamente convinto che,
combattendolo, si vince.
Il male non può prevalere sul bene, se così fosse avrebbe il medesimo valore del bene. Non è
possibile! Il bene è l’espressione unica di Dio come Dio è unico ed assoluto anche nella Trinità, il
bene ha bisogno di essere creduto, di gente disposta a combattere per lui, non con sanguinose
battaglie, con eserciti, con armi, l’unico armamento che chiede il bene è l’amore per il prossimo, per
la giustizia, la volontà di affermarla, a tutti i costi, al prezzo delle più cocenti umiliazioni perché i
sacrifici fatti per il bene, anche i più impegnativi e dolorosi, si sentono di meno, come ha detto Lui:
“ La mia croce sarà leggera”. Il male sarà sempre sconfitto dal perdono divino.
Le piacevo per come esprimevo le idee superando gli ostacoli della parola e per tutto un
complesso di fattori che, secondo lei, non potevano non dare origine, non all’infatuazione che è
sempre un fuoco di paglia, ma all’innamoramento vero, cioè tra la sintesi tra razionale ed
irrazionale nella quale la “sublime verità” è espressa dall’impronta divina nell’uomo.
Dio è innamorato delle sue creature ed ha donato loro la bellezza dell’amore.
La osservavo preoccupato; memore di altre esperienze non volevo lasciarmi andare, dovevo
rendermi conto di quel che stavo facendo.
Questa volta, prima di innamorarmi, avrei fatto di tutto per frenare l’impulso ad evitare dolorose
delusioni, a costo di apparire brutale.
Avrei cercato di mantenere tutto nei confini di un piacevole flirt. Niente di impegnativo.
Tentavo di essere piuttosto scostante, di mostrare la mia parete più ostica, friabile, difficile da
scalare, tanto rischiosa da mettere in bilancio una rovinosa caduta. A nulla è valso tutto questo. La
valanga del suo ardore mi ha travolto.
L’implacabile dispositivo del sentimento si era messo in moto e non si fermava, anzi accelerava
il ritmo.
Le nostre telefonate oceaniche provocavano la protesta dei compagni che, inutilmente,
attendevano il loro turno rivendicando il diritto ad usufruire, anche loro, dell’invenzione di Antonio
Meucci.
Avevo monopolizzato la cornetta. Chi veniva, dopo una lunga attesa, la trovava rovente.
Lei non sentiva storie, non mi permetteva di chiudere, voleva parlare, parlare, diceva che la mia
voce era la sua vita. Non ne poteva fare a meno. La voleva ascoltare tanto da farne buon
rifornimento per quando sarebbe rimasta sola, fino al nuovo incontro.
Fuori della porta a vetri coloro che attendevano per chiamare casa o qualche amico, facevano
gesti di minaccia con gli occhi sbarrati. Non mi scomponevo facevo finta di niente, lei valeva tutti i
rischi di questo mondo.
Ero letteralmente stordito. Quella non era una donna ma un turbine che mi avvolgeva e mi
trascinava in una spirale di sentimenti che non poteva non essere amore. E quando il vortice ti
prende e ti fa ruotare come una trottola, è difficile poi ritrovare l’orientamento.
Non si limitava alle espressioni aveva iniziato a fare progetti e questo mi colpiva
particolarmente. Nell’esperienze del passato tutto era stato circoscritto alle effusioni amorose.
Ormai per me le notti erano insonni. Ero esaltato e contemporaneamente terrorizzato. Mi
ponevo tutta una serie di domande: “Poteva essere tutto così vero? Non si trattava forse di una
infatuazione?era possibile che, avendo avuto esperienze negative da un matrimonio naufragato,
cercasse in me un rimedio che apparentemente sembrava amore ma nella realtà affondava le radici
in un complesse freudiano di difficile interpretazione?”.
Spesso, in questi casi, i protagonisti di storie conclusesi in tragiche delusioni, vanno
inconsapevolmente alla ricerca di soluzioni radicali che non si possono definire proprio normali.
Cercano di scaricare la loro tensione su scelte che potrebbero avere anche del paradossale ma,
proprio perché tali, sembrano costituire una garanzia, rappresentare un’ancora di salvataggio non
importa di quale forma e peso. Poiché senza l’una l’altra non si salverebbe e senza l’altra l’una non
avrebbe valore.
Ma l’amore, quello vero non può essere un’ancora di salvataggio, altrimenti diventa soccorso,
convenienza, una specie di stordimento per oscurare un ingrato passato, una sfida alla sorte per
dimostrare che quel che non è stato possibile prima nella normalità, si avvera in una condizione di
eccezionalità. L’ancora infatti è solo uno strumento.
Altre considerazioni allagavano d’interrogativi i miei pensieri: “Non si trattava, come spesso
avviene, di un qualcosa di certamente nobile, ma riferito prevalentemente alla mia disabilità?”.
“ Avendo letto il mio libro, quindi la mia autobiografia, conoscendo cioè le vicende della mia
vita: la mia nascita, l’immediato connubio con le paralisi, la morte di mia madre, quella di mio
padre, il rapporto con la matrigna, l’uccisione di mio cugino, la tragica esperienza in un ospedale
per lungo degenti dove il rapporto umano era una rarità, il tentativo di suicidio, era tutto questo
forse un efficace fertilizzante per il germoglio di un amore crocerossino?”.
In questi casi la linea di demarcazione tra l’affetto fraterno e l’innamoramento è difficilmente
avvertibile e noi disabili ne siamo frequentemente destinatari ed ignari protagonisti.
Però quando veniva a trovarmi e ci appartavamo e mi parlava con parole profonde derivanti
anche da una personale ricchezza di vocabolario oltre che dal sentimento, ero quasi narcotizzato.
Ascoltandola nutrivo lo spirito. Sentivo che stavo cedendo.
Piano piano il suo animo si trasferiva nel mio per fondersi con esso in un’unica entità. Una
simbiosi esaltante!
È vero che ogni volta in queste esperienze tutto sembra essere nuovo, eccezionale, unico, mai
vissuto prima, ora però c’era qualche componente in più che è difficile definire sensazione.
Comunque, riuscivo ancora a stare in guardia, mi sforzavo di rispondere alle sue espressioni
quasi per un dovere protocollare e facevo in modo che fosse evidente anche se tutto si stava
trasformando in un sentimento responsabile.
Non si trattava solo di due ragazzi innamorati, il nostro amore assumeva un aspetto particolare,
lei non parlava solo di quel che provava per me ma anche dei suoi problemi, della sua famiglia,
della comunità paesana nella quale viveva. Mi rendeva partecipe della sua vita privata.
Nelle edizioni precedenti di questa autobiografia non compare il capitolo che sto scrivendo
perché i fatti non si erano verificati.
Qui si nota un umore diverso, non brillante, scanzonato,quasi che avessi rinunciato allo spirito
goliardico che mi caratterizza per affidarmi ad una serietà anche eccessiva tanto da apparire in
contraddizione con l’intera impostazione del libro.
Questa volta tutto è stato inciso nell’animo con caratteri tanto marcati da non poter essere
cancellati o riscritti.
Credo proprio che non sia possibile: come si possono correggere parole scolpite fino a quasi
perforare la base di una lastra di granito? L’unico modo sarebbe quello di distruggere la lastra, ma
l’animo non si può distruggere, non è una pietra!
Era espansiva dolcemente irruente, non si limitava alle alte espressioni del cuore, formulava
progetti per il futuro con la razionalità di chi non è ispirato solo dal “due cuori e una capanna”.
Voleva che ci sposassimo perché sentiva di amarmi profondamente, ma non era solo questo ad
orientarla verso una decisione così importante, riteneva di aver trovato la chiave di lettura della
propria esistenza e dichiarava di essere consapevole di tutto ciò che questo avrebbe comportato ma
era anche certa che proprio la complessità dei problemi avrebbe dato una ragione alla sua vita ed un
legame così saldo avrebbe colmato per sempre i vuoti del proprio essere.
Avrei dovuto riflettere sulla eccessiva soggettività di questa considerazioni quasi che si trattasse
solo di risolvere un suo problema, ma a caldo, è difficile essere razionali.
Aveva voluto che conoscessi i suoi genitori nella loro casa, che sedessi con loro al medesimo
tavolo come se fossi uno di famiglia. Si erano interessati della mia condizione economica con
domande, qualche volta anche invadenti, ma a parer mio normali per chi avrebbe dovuto
preoccuparsi del futuro della propria figlia.
Quindi “l’indagine” non era solo riferita al trattamento economico a me riservato dallo Stato,
ma anche ai miei averi, all’eredità lasciatami dai miei genitori, particolarmente da mia madre.
Insomma un vero e proprio accertamento patrimoniale.
Ogni tanto chiedevano scusa per il loro “incalzare” sottolineando che si trattava di un dovere
preciso in previsione del nostro matrimonio. Questo mi convinceva che facevano le cose sul serio.
Fra l’altro rispondeva anche all’uso e consuetudine di queste parti.
Era trascorso un certo periodo di tempo dal naufragio del primo “si” ed ora calcolavano quello
necessario per ottenere il divorzio.
Dell’esperienza matrimoniale mi parlava pochissimo, quasi a monosillabi, a parer mio non per
nascondere qualcosa ma perché quella rievocazione apriva una piaga e le faceva male.
Avrei voluto conoscere le cause che avevano determinato la rottura, mi ero accorto però che
quando accennavo al suo passato era piuttosto reticente e cercava di cambiare discorso. Non
riusciva a nascondere una certa sofferenza.
Questo naturalmente mi faceva entrare in un labirinto di interrogativi del quale era difficile
trovare l’uscita.
Il suo stato d’animo, il suo improvviso fissare un punto nel vuoto, non mi sembrava solo
l’effetto di un cattivo ricordo ma il prodotto di una grande amarezza.
Se la causa fosse stata la violenza dell’ex marito non avrebbe dovuto provocare reticenza anzi,
essendone stata vittima avrebbe dovuto spingerla a parlarne se non altro per motivare la buona
ragione della rottura; ci doveva essere stato qualcosa di più traumatizzante, forse la negazione di un
valore, insomma più un fatto morale che materiale e, soprattutto, doveva essere stata lei
l’abbandonata.
Era stata colpita così profondamente dalla disavventura che andava ora alla ricerca di una
soluzione scioccante che avesse, comunque, le caratteristiche del successo e contemporaneamente
della rivalsa.
Mi spiego meglio: essendo ancora giovane, bella, istruita, perché non aveva pensato ad una
soluzione diversa con un giovane fisicamente normale?
Non poteva essere sufficiente l’attrazione provocata dalla lettura del libro, oltre che inverosimile
mi sembrava ridicolo.
Temeva forse che proprio la normalità avrebbe potuto riprodurre i dispiaceri del passato?
Probabilmente cercava un rimedio eclatante con i connotati di una vendetta esistenziale: uno
come me, mentalmente sano, amante della letture, della musica, delle cose belle, esteticamente
apprezzabile per le parti in piena funzione, anche se inchiodato per tutta la vita su una sedia a
rotelle. Meditando su questo vivevo, lo confesso, nel terrore.
I fine settimana, quando per me non vi erano problemi di fisioterapia, andavamo al cinema, al
ristorante, sotto lo sguardo incuriosito della gente che sembrava ammirare quei due giovani così
diversi e tanto apertamente innamorati.
Amavamo il mare sulla riva del quale, spiaggia o scogli, trascorrevamo intere giornate.
Ascoltavo estasiato la melodia della sua voce in armonia con quella delle onde.
Mormorando canzoni non pronunciava parole, solo motivi sussurrati con una dolcezza che
sembrava suggerita dalle stelle. Nel plenilunio assumeva le sembianze di una creatura irreale
generata dal mito.
Ero ormai al giusto punto di cottura sul barbecue dell’innamoramento.
Non si trattava però della solita “sbandata”. Non era il furore improvviso che fa divinizzare la
donna, l’avvolge in un’aureola di perfezione e copre gli spazi della vita di giorno e di notte, senza
tregua, togliendo al sonno la prerogativa di costruire sogni o incubi.
Non aveva cioè la caratteristica della folgore che sembra voler sconvolgere tutto
accompagnando il temporale e poi se ne va con gli ultimi mormorii, sconfitto dal “sereno” che con
ironia lo allontana.
La sua gelosia m’inorgogliva. Se per caso parlavo con un ragazza o la guardavo con un certa
insistenza, la sua reazione era immediata, scatenata, senza inibizioni verbali oppure affidata al
mutismo.
Il silenzio, che in altre occasioni era il veicolo di reciproca ammirazione in una contemplazione
quasi soprannaturale, si trasformava ora in un atto punitivo accentuato dal broncio che la rendeva
ancor più attraente e desiderabile.
Mi sentivo inebriato da un’esperienza che è poco definire insolita, sapevo che non si trattava di
una infatuazione, la serietà del rapporto travalicava ogni suggestione e sembrava aver posto radici
profonde e solide.
La dolcezza dell’amplesso preceduto da poetiche effusioni, esulava dai canoni ricorrenti spesso
esclusivamente anatomici, per assumere il carattere di un sublime suggello difficile da descrivere
con la parole perché nel suo stupendo epilogo, raggiungeva la grandezza della trascendenza. Non
era, per me, la prima esperienza in termini temporali, lo diventava per una sensazione mai provata
prima, che abbatteva i confini della dolcezza per renderla senza limiti.
Poi, all’apparire del “ciclo”, l’attesa e la delusione nel constatare amaramente di “non
attendere”. Non si rassegnava. Inutilmente tentavo di farle capire che non doveva disperare, che
doveva affidarsi ad un buon ginecologo. Finalmente la convinsi a farsi visitare e, volentieri, con
imprevista soddisfazione, provvidi diverse volte a consegnarle quanto necessario per il pagamento
dell’onorario. Voleva da me un figlio per sigillare la irrevocabilità di un rapporto che esulava dalla
rigidità dello sterile calendario burocratico al quale sarebbe stato vincolato il rito civile del
connubio legale.
Mi parlava di matrimonio, di bambini, di famiglia con una convinzione che non poteva non
essere certezza, l’ascoltavo con attenzione, ammirato ma anche preoccupato: il passo che proponeva
non era uno scherzo!
Con una lettera mi inviò una foto ed un messaggio:”Ti mando la foto dei miei genitori che,
come sai, fai conto che siano i tuoi…” (si trattava di una immagine nella quale apparivano il padre e
la madre accanto a me con le mani appoggiate sulle mie spalle scattata durante la mia visita, su loro
pressante invito). Questo per me assumeva un particolare significato, avrei potuto ancora chiamare
due persone “papà” e “mamma”, quasi una rinascita anche se non avrebbero mai potuto sostituire
quelli che Dio aveva unito perché mi mettessero al mondo.
Pur incontrandoci quotidianamente, anche più volte nella stessa giornata, mi scriveva come se
fossimo lontani. Ritagliava a forma di cuore fogli quadrettati sui quali poneva il sigillo delle labbra.
Li riempiva di frasi stupende che non mi stancavo di leggere. In uno l’espressione “Ti amo Pino”
era scritta in diverse lingue: “I love you Pino”, “Je t’aime Pino”, “Te quero mucho Pino”,
“Sagaiescitu Pino” quasi che avesse voluto non solo rivolgerlo a me ma gridarlo al mondo.
Facevamo ipotesi sul ménage familiare, sulle risorse necessarie per una vita normale senza
sprechi né restrizioni, vissuta in dignità.
Calcolavamo la portata delle necessità e la sopportabilità dei redditi.
Quando descriveva le mie entrate ascoltava e spesso mi diceva: “perché non consideri mai i
diritti d’autore? Vedrai avrai successo! Comunque anche senza, vivremo con una certa serenità, io
mi cercherò un lavoro e con i due redditi andremo avanti bene”.
È difficile spiegare quel che provavo, non avevo mai pensato all’eventualità di moglie, figli, una
famiglia mia. Come era tutto eccezionale!
Madonna mia! Sembrava impossibile! Che stava succedendo?
Consideravo che, tutto sommato, la sorte a me riservata fin dalla nascita finiva per accentuare il
valore del bene, che era così più incisivo, con colori vivi e rari.
Quel che stava avvenendo, che per altri poteva essere normale evento per me era grande,
eccezionalmente grande!
Finché si trattava di flirtare con una ragazza, di innamorarmi “perdutamente”, di dedicarmi a lei
con l’animo e le forze, non era solo un’ipotesi ma un tenace desiderio, ma al matrimonio
francamente non avevo mai pensato.
E poi, parliamoci chiaro, con me una moglie non avrebbe potuto essere come le altre: buona
parte del suo tempo l’avrebbe dovuto dedicare alle mie necessità che sono esigenze vitali.
È vero che con l’indennità di accompagnamento avremmo potuto assumere qualcuno, almeno
per le operazioni indispensabili e delicate, ma questo avrebbe sottratto, sia pur parzialmente, un
cespite alla famiglia.
Quando parlo di “operazioni indispensabili” non mi riferisco alle manovre con la carrozzina, per
le quali sono completamente autonomo, barriere architettoniche permettendo.
Il mio “automezzo” è elettrico e so condurlo come un provetto pilota.
Su tutto questo la invitavo a riflettere, per chiarezza ma anche per verificare quanto vero e
solido vi fosse nel nostro rapporto e quanto lei avesse valutato tutti gli aspetti di questo poliedrico
problema.
Qualche volta rincaravo la dose, anche esagerando su alcuni effetti della mia disabilità, ma lei
era graniticamente ferma nelle sue decisioni, quanto meno nella sua convinzione.
Poi pensavo ad altri casi simili al nostro, di unioni matrimoniali consolidate. Mi avevano parlato
di un libro “ Dal big ben ai buchi neri” scritto da Stephen Hawking, il massimo fisico teorico
vivente, il quale non è solo ospite perenne della carrozzina ma è praticamente immobilizzato e tutto
il suo lavoro, comprese le pubblicazioni, lo effettua dettando formule e testi alla moglie che gli fa
da segretaria, per mezzo di un complicatissimo apparato di trasmissione della voce utilizzando non
le corde vocali, ormai inutili perché spacciate, ma faticosissime contrazioni della trachea.
Ebbene è regolarmente sposato con una bella donna dalla quale ha avuto magnifici figli.
L’unione dura da decenni in un’armonia che ha del miracoloso.
Perché non avrebbe potuto essere possibile anche per me che, pur non avendo la fama dello
scienziato, mi trovo in una condizione di gran lunga più favorevole per quanto riguarda l’impedenza
fisica?
Ora tutto era a posto, non restava che attendere il disbrigo delle pratiche per lo scioglimento del
primo matrimonio: dovevano trascorrere un paio d’anni per essere in regola con i tempi previsti
dalla legge sul divorzio. Non vi sarebbero stati problemi, l’ex marito era d’accordo.
Certo! Avrei preferito sposare in Chiesa con una bella cerimonia, tanti fiori, il suono
dell’organo, l’adagio di Albinoni, il canto dell’Ave Maria di Gounod eseguiti da un quartetto del
conservatorio di Frosinone composto da nostri amici.
La Messa celebrata dal mio caro amico don Carlo di Sant’Antonio, quello che chiamiamo”don
Caramello”, come paggetti Paolo e Valentina, stupendi figli gemelli della nostra assistente sociale.
Le persone care abili e disabili, i collaboratori del Piccolo Rifugio.
Insomma: una gran festa!
Immagino quanto sarebbe stata contenta mia madre che dal Paradiso ci avrebbe benedetto.
Perché tutto questo si fosse potuto realizzare, cioè per svolgere la cerimonia con rito religioso,si
sarebbe dovuto far ricorso alla “Sacra Rota” ma sarebbe stato troppo costoso e non vi sarebbe stata
garanzia di un buon risultato.
Discutendo su tale ipotesi emerse che a provocare il naufragio della prima unione era stata la
mancanza di figli malgrado ogni tentativo,questo però non sarebbe stato sufficiente a d orientare il
tribunale ecclesiastico verso lo scioglimento.
Un amico avvocato, che di queste cose se ne intende, ha osservato che se tutto fosse stato
circoscritto alla sola impossibilità di procreare, sarebbe stato necessario accertarne la responsabilità
la quale nel caso specifico, essendo assente, non avrebbe costituito motivo di colpa, cioè non
sarebbe stata una manifestazione di volontà.
Il tentativo di concepire infatti si era ripetuto. Il risultato negativo si doveva attribuire solo a
causa di forza maggiore del tutto indipendente dalla volontà dei coniugi.
La prova provata stava nel fatto che proprio la mancanza di figli aveva provocato la rottura.
Per ottenere una sentenza favorevole si sarebbe dovuto dimostrare che prima del matrimonio
l’unione era stata condizionata dal fermo proposito di entrambi di non concepire anche se la
condizione fosse stata dettata da uno solo dei coniugi in quanto dall’altro accettata.
Esclusivamente su questi elementi la Sacra Rota avrebbe potuto decidere la nullità del “si”
pronunciato in Chiesa.
Una via di uscita vi sarebbe stata: esibire un documento sottoscritto dagli, allora, futuri coniugi,
con firme regolarmente autenticate a dimostrazione che si erano recati all’altare per il “Sacramento”
del matrimonio con l’impegno categorico ed irrinunciabile di non mettere al mondo figli.
Conoscendo come vanno le cose in questo Paese, non sarebbe stato difficile ottenere l’autentica
delle firme.
La data retroattiva non avrebbe costituito un problema: il timbro non è rigido. La pluralità di chi
in questi casi può svolgere la funzione di pubblico ufficiale avrebbe solo comportato l’imbarazzo
della scelta.
Fatto tutto questo, essendo riusciti cioè a mettere le “carte in regola”, avremmo dovuto decidere
almeno per quanto mi riguarda se credere o meno nel Sacramento che è “un segno efficace della
Grazia” – “ciascuno dei sette segni tangibili ed efficaci produttivi della grazia divina istituiti da
Cristo per la salvezza dell’uomo e amministrati dai sacerdoti: il battesimo, la cresima o
confermazione, l’eucarestia, la penitenza, l’unzione degli infermi o estrema unzione, l’ordine sacro
ed il matrimonio”.
Con quale animo saremmo andati in Chiesa sapendo che la documentazione presentata per lo
scioglimento certificava tutt’altro che la verità? Certo non avrebbe danneggiato nessuno, ma questo
non sarebbe stato sufficiente a giustificare un comportamento che avrebbe pregiudicato il mio
credo, la mia fede. Con i Sacramenti non si gioca a palla! L’etica non ha bisogno di notai.
Due sarebbero state le colpe gravi: quella appunto di affidarci ad una testimonianza falsa (la
falsa testimonianza è iscritta nei dieci comandamenti come peccato grave)per soddisfare
un’ambizione in questo caso solo estetica e, quella ancor più grave di ricevere l’Eucarestia senza
aver confessato un così “mortale” peccato.
In caso di confessione della colpa al sacerdote, come avrebbe potuto concedere l’assoluzione?
Sulla promessa del pentimento?
Ma proprio il pentimento se autentico avrebbe dovuto impedire la cerimonia in Chiesa. La
contrizione infatti, deve avere come conseguenza la non ripetizione del peccato altrimenti
l’assoluzione anziché concessa dal sacerdote in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo
viene estorta come una promessa non mantenuta fin dal momento della sua formulazione.
Insomma diversamente dall’uso e consuetudine ( quante volte in confessionale, recitando l’atto
di dolore ho affermato “non voglio più commettere in avvenire e mi propongo di fuggire le
occasioni” e in quel momento ero fermamente convinto di mantenere la promessa tanto è vero che
per un po’ di tempo facevo di tutto per non peccare. Poi arrivava la tentazione e con la sua
insistenza finivo per ricadere) in questo caso sarebbe stato diverso: la promessa si sarebbe
trasformata in beffa perché la confessione stessa era finalizzata alla celebrazione di un rito al quale
non avevo diritto. Sarei stato quindi colpevole di impegnarmi a non compiere un peccato con il
fermo proposito di compierlo.
E come avremmo potuto assumere la Particola sapendo che il Suo valore sarebbe stato annullato
dalla menzogna? Per la gente? Per rendere verosimile la scena?
È vero che molti lo fanno, i ricchi o i nobili, i borghesi facoltosi, ma…Dio non si lascia
prendere in giro! Avrebbe certamente apprezzato di più l’onestà di un rito civile non scelto ma
obbligato dalle circostanze.
Non eravamo noi a rifiutare la Chiesa, ce lo imponeva lo stato delle cose e per me, credetemi, al
solo pensarci era doloroso m meglio così, potevo guardare in faccia il Signore che non vuole
ipocrisie ed è sempre generoso con i propri figli. Non era dunque un innamoramento da ragazzi ma
un’intesa ispirata da sentimenti tanto solidi da prevederne la durata per l’intera vita con un vincolo,
almeno per me, comunque sacramentale, anche senza il rito religioso.
Tutto era diverso ora, pensavo a quando avrei vissuto in una casa mia, con mia moglie e con dei
bambini. Se si fosse confermato che la difficoltà di rimanere in stato interessante dipendeva da
cause anatomiche della mia sposa, con i miracoli che fa oggi la scienza, il problema sarebbe stato
certamente risolto. Altrimenti un’adozione ci avrebbe comunque eletti a padre e madre per volontà
di Dio.
Sentivo la responsabilità di tutto questo e mi preparavo all’evento, pregando il Signore affinché
ci aiutasse e ringraziandoLo per quel che mi aveva riservato.
Avevamo con serenità e gioia conversato sui nostri programmi in un bel pomeriggio di maggio
per poi salutarci e lasciarci, a malincuore come sempre, con un interminabile bacio.
Il giorno dopo… venne al Piccolo Rifugio piuttosto presto. Rimasi sorpreso, pensai che fosse
successo qualcosa di grave. Era particolarmente turbata, con il volto teso e gli occhi cerchiati. Mi
aveva spesso parlato delle discussioni in famiglia.
D’altra parte che padre e madre si ponessero degli interrogativi era più che normale e, secondo
me, rispondeva al responsabile dovere di invitare la figlia alla riflessione sulla decisione che stava
per prendere.
Non si trattava di un baldo futuro genero garante di un radioso avvenire. Consideravo la loro
preoccupazione legittima, non più di tanto però! Il diritto non doveva trasformarsi in un
inammissibile diritto di veto poiché lei e lei sola avrebbe dovuto decidere, tanto più che il
diciottesimo compleanno lo aveva festeggiato da oltre settantadue mesi.
Rimasi sorpreso quando mi disse che la sua agitazione e la tristezza che ne derivava erano
dovuti al fatto che: “la gente mi condanna perché dice che ti sto usando”.
“Usare me?” Osservai “E come potresti farlo , con quale scopo? Mi sembra proprio una
madornale assurdità. Non ha senso. È una colossale stupidaggine, perché te ne preoccupi?”.
Non rispose, era imbarazzata, con le gote infuocate ed il volto congestionato, la test abbassata
come una scolara rimproverata dalla maestra.
Cercai di consolarla e le consiglia di fregarsene di quel che diceva la gente poiché quel che
contava era il nostro rapporto, il nostro amore. Assentiva muovendo il capo,senza fiatare,
guardando in terra.
Si riprese e cambiò argomento: in famiglia la vita era diventata impossibile, la madre l’aveva
supplicata piangendo di non lasciarsi andare, di considerare che si trattava di un’infatuazione, che
forse quel che provava per me era dovuto più alla solidarietà per un ragazzo disabile che ad un vero
amore.
Il che non poteva non sorprendermi poiché quando ero a casa loro dopo aver pranzato in
famiglia, i genitori andavano a riposare e noi…anche!
L’ascoltavo in silenzio guardandola nel volto, insistentemente ed inutilmente evitava infatti il
mio sguardo con il capo chino, assente, senza fare una mossa.
Improvvisamente con uno scatto mi accarezzò fugacemente dicendomi: “Ti voglio tanto bene
sai!” e se ne andò. Notai che questa volta non aveva usato la voce del verbo amare e che
allontanandosi non si voltò per inviarmi ripetutamente un bacio come di solito faceva.
Era stato tutto così repentino, inspiegabile, misterioso che non ebbi la forza di reagire.
Rimasi di pietra. Attesi una telefonata. Normalmente quando ci lasciavamo non appena arrivava
a casa mi chiamava, il telefono ora era muto, inutile la mia attesa. Ogni tanto mi avvicinavo
all’apparecchio in attesa che desse un segno di vita. Niente, silenzio assoluto!
Ho provato ripetutamente a chiamare, mi hanno sempre risposto che era fuori. Ho pregato la
madre (era lei che rispondeva) di avvisarla che avevo telefonato e di farmi richiamare.
Sarò esasperato, vedrò il male in tutto, credo però che non fosse del tutto casuale l’insistenza
con la quale la madre , ogni volta che chiamavo, sosteneva di non capire quasi a sottolineare
l’inconveniente della difficoltà ad esprimermi come se non ci fossimo mai conosciuti.
Era chiara l’assurdità di un tale comportamento, si trattava ormai di una formula più volte
ripetuta cioè abbondantemente sperimentata, anche perché il mio inconveniente non è così grave,
basta un minimo di attenzione per comprendere tutto, e non è costante, vi sono giorni nei quali
vocali e consonanti marciano che è una bellezza. Potrei fare l’oratore.
“Pronto sono Pino c’è…?”.
“Eeh, chi parla?”.
“Sono Pino signora c’è…”.
“Non capisco, non comprendo le parole”.
“Sono Pino signora, Pinoo ho telefonato anche stamani, anche ieri!”.
Finalmente:
“Ah, senti non c’è, è fuori, è uscita con un’amica, non so se stasera rientra”.
“Ma glie l’ha detto che ho telefonato diverse volte?”
“Si gli l’ho detto ma in questi giorni ha tanto da fare va sempre di corsa”.
Non ci voleva molto per capire che sarebbe stato inutile insistere, la scusa era così meschina che
bisognava solo prenderne atto. Non mi risultava che avesse tanti impegni.
Non c’era bisogno di mortificarmi così. A parte il fatto che lei avrebbe dovuto dirmi che
considerava finito il nostro rapporto, ma se proprio non voleva compiere un atto così normale, forse
troppo eroico per la sua personalità, chi rispondeva per lei avrebbe potuto prendere l’iniziativa:
“Senti Pino, parliamoci chiaro, è inutile che insisti per… è finita, mettiti l’animo in pace. Sono
cose che succedono, del resto ti sarà capitato altre volte. È doloroso lo so ma non è una
madornalità”. Per poi concludere con il solito “Passerà”.
È vero non si doveva considerare una madornalità ma neanche era normale un comportamento
per il quale era difficile trovare un aggettivo appropriato.
Sparire così, improvvisamente. Ad esser generoso mi sembra proprio una stranezza; se poi si
pensa ad una certa dose di crudeltà non mi pare proprio di infierire. La fulmineità dei fatti non
consentiva equivoci: o squilibrio psichico o cattiveria, non vi poteva essere altra via di uscita.
Un amore può nascere e morire ma sempre in maniera civile.
Qui tutto è stato così improvviso, cruento, inspiegabile! Solo qualche ora prima le sue effusioni
raggiungevano livelli altissimi. Al telefono le sue parole fondevano l’anima rievocando quel che era
avvenuto, come era avvenuto, la dolcezza che lo aveva accompagnato.
Improvvisamente tutto è crollato, come distrutto da un terremoto catastrofico al massimo livello
della scala Richter, con me ridotto in una maceria dimenticata anche dalla Protezione Civile.
Ora sono qui e le parlo come se fosse presente, accanto a me. Mi metto da una parte all’aperto
sotto un grosso pino, distante da tutti gli altri compagni affinché non possano udirmi, rileggo alcune
sue lettere: “L’amore se è vero,lo sai sconfigge ogni cosa,ti prego Pino, ti supplico, decidi e presto
cosa fare , la mia vita e nelle tue mani… tua oggi e nei secoli” le rivolgo la parola non solo
mentalmente ma proprio con la voce, guardando da qualche parte.
Si dice che quando uno parla da solo gli ha dato di volta il cervello, ma io non sono solo. Parlo
con lei, la mia immaginazione riesce a materializzarla. Anche perché non è giusto che se la cavi
così a buon mercato, scomparendo come se nulla fosse avvenuto.
Adotto solo la cautela di non farmi sentire da nessuno proprio per evitare che si pensi ad uno
sviamento della ragione.
Guardo la sua foto, quella che mi ha inviato con un biglietto: “Falla ingrandire e ti prego di
metterla al capezzale del tuo letto, così sembrerà che ristia vicino anche quando sei a letto, e
magari si materializzasse in alcuni momenti!”.
Non è la prima volta che mi innamoro. In questo caso però è stato diverso, mi ha fregato proprio
bene, scientificamente, perché? Non si rende conto che questo si chiama sadismo? Lo affermo nella
consapevolezza di assolverla in un certo qual modo, poiché il sadismo è un’anomalia psicosessuale.
Tutto sembrava avviarsi a conclusioni alle quali non avevo mai pensato: il matrimonio, i
bambini, la famiglia hanno reso il rapporto, come dire? Più credibile, perché no? Più responsabile.
Poi improvvisamente, senza preavviso, la rottura repentina, anzi fulminea, come se nulla fosse
accaduto, come se non ci fossimo mai conosciuti.
Non si può neanche dire dall’oggi al domani, perché è stato un attimo, fino al quale tutto
sembrava normale a parte il suo turbamento per ciò che diceva la gente, fra l’altro mal simulato,una
banalità priva di un minimo senso logico, inventata per una mortificazione inesistente che avrebbe
dovuto giustificare un comportamento vile. Oppure vera, ma vera in tutto e per tutto, allora sarebbe
stato davvero bestiale! Lo vedremo.
Come avrebbe potuto usarmi?
Sono forse il rampolli di una ricca famiglia beneficiario di una favolosa eredità? Sono un regista
cinematografico o un produttore, una personalità dello spettacolo che può lanciare una ragazza bella
o quando non proprio tale, con caratteristiche da utilizzare per il grande schermo? Sono una
celebrità?
Niente di tutto questo! Perché allora un pretesto così meschino?
Ascolto l’eco delle sue parole quando faceva progetti per il futuro, i suoi pensieri così bene
esposti, con la dolcezza caratteristica di chi parla con il cuore. Con il cuore?
Era categorica nell’affermare che mi amava tanto e profondamente: “ho bisogno di te come la
terra della pioggia, come un germoglio ha bisogno del sole” e sosteneva che mai nessuno avrebbe
potuto separarci, neanche la volontà del destino!
Al cinema dal posto in poltrona in platea, accanto al corridoio dove era posteggiata la mia
carrozzina, mi abbracciava sussurrando parole belle incurante della sorpresa della gente rispettosa
del nostro idillio e per niente disturbata, anzi! Ammirata dal suo comportamento che buttava alle
ortiche ogni formalità.
Voleva trascorrere con me le vacanze al mare, il mio mare, il nostro mare. Mi disse una volta:
“ci sono giorni fatti per l’amore e notti bianche, al chiaro della luna che si rispecchia nel tremolio
dell’acqua complice di una magnifica poesia”.
Perché ha mascherato così a lungo le sue incertezze? Erano veramente incertezze?
Perché quando ho manifestato certe perplessità sulle sue indecisioni ha pianto dirottamente? Era
tutta una scena? Non è possibile, per quale scopo?
Forse la sua vita è fatta di momenti ed ogni momento è vero per lei, il resto non conta anche
quando il resto è una persona che fa soffrire. Un momento trascorso il quale passa ad un altro
momento che è un’altra realtà spesso in contrasto con quella precedente.
Mi sono domandato e mi domando se, per caso, non sono stato all’altezza del mio compito. Mai
però ha manifestato insoddisfazione, anzi!
Mi rendo conto che è stata provata dalla sorte ma non deve lasciarsi distruggere
dall’autocommiserazione, deve reagire con fermezza, il male non è imbattibile.
E poi! Non le pare che sia crudele rendere vittima delle sue angosce chi con esse non ha niente a
che vedere?
Ogni tanto, con un suo caratteristico atteggiamento di improvvisa stasi, lo sguardo fisso nel
vuoto provocato da un pensiero fugace, diceva: “Ora basta soffrire!” e riprendeva il discorso sul
nostro amore.
La sofferenza ora è mia perché l’ha trasferita a me, in questo il successo è stato totale.
In passato, quando si chiudeva il rapporto con una ragazza, non importa per iniziativa di chi,
potevo star male un giorno, due al massimo, ma mai ho proprio sofferto tanto.
Vi è una ragione profonda: lei ha trasformato la mia vita, le ha dato una prospettiva, mi ha fatto
pensare che la carrozzina non fosse un impedimento senza confini e si può vivere in una normalità
di rapporti ancor più significativi ed esaltanti proprio per le difficoltà che comportano.
Mi ha fatto sentire un uomo proprio nel vero senso della parola, con la testa sul collo, in grado
di assumere le responsabilità di capofamiglia ed assolverne il ruolo con la saggezza che deve
sempre ispirare chi si appresta a guidare il nucleo fondamentale della società.
Ora vivo nella vera solitudine, inutilmente mimetizzata dalla spavalderia. Tento di fingere di
non capire, ma voglio capire. Nulla in esperienze simili mi ha mai tanto mortificato.
Se ci fosse stato un minimo di spiegazione franca, senza infingimenti, senza la meschinità delle
bugie, tutto sarebbe stato diverso.
Certo! Non meno amaro ma chiaro, con la conoscenza delle cause qualunque esse fossero, così
invece tutto sembra avvolto nell’anonimato, ed ogni ricordo anche il più bello è stato annullato dalla
crudeltà dell’ultimo atto, proprio perché finalizzato ad esso.
L’obbrobrio della lettera anonima non sta tanto nel suo contenuto quanto nel non sapere chi l’ha
composta e spedita. Si comincia per pensare a questo, a quello e si finisce per dubitare di tutti, per
considerare anche gli amici ipotetici colpevoli.
Penso a tutto, vado alla ricerca di risposte come un cercatore d’oro sul greto del fiume,
setacciando ogni eventuale ipotesi, sempre costretto a rigettare la sabbia nell’acqua senza aver
trovato nulla, neanche una micropepita di verità.
Una volta stavamo discutendo con un amico anziano, ricco di tanta esperienza da averne da
vendere, uno che ha girato il mondo ed ha conosciuto popoli ed usanze nei vari continenti.
Si parlava della nostra condizione di disabili, dell’assurdità di chi spesso ci considera ancora dei
bambini e si comporta, senza dubbio ispirato dall’amore,tenendo eccessivamente presente il nostro
stato.
Del nostro rapporto con le donne e come esso, nella “sostanza”, non si differenzi da quello degli
altri giovani autonomi, perché l’amore non ha forma, non accetta condizioni. Si dice che è cieco, ma
sono convinto che vede anche se non segue i normali canoni dell’osservazione tanto da beneficiare
degli aspetti positivi dell’irrazionalità.
Quell’amico sottolineava la nostra normalità sotto questo profilo, e lo faceva con convinzione,
sena convenzioni o preoccupazioni consolatorie.
Ho spesso pensato che il cuore non ha razza. Mi spiego meglio: chiesi ad un giovane medico
che viene spesso a trovarci non per ragioni professionali, se il cuore di un nero è uguale a quello di
un bianco. Mi rispose di si, perché dentro tutti siamo fatti uguali, solo il colore della pelle e la
costituzione ossea variano, il cuore dunque, a parte i difetti cardiaci, fra l’altro molto rari in noi
disabili, non conosce differenze così è anche per il sentimento e l’amore.
Tra noi c’è un compagno di carrozzina con una maturità impressionante, un’intelligenza
notevolmente al di sopra della norma, pieno di saggezza.
Purtroppo ha molta difficoltà a pronunciar parole e deve fare sforzi al limite dell’impossibile per
farsi comprendere.
Entrò nella conversazione e riuscì a dire: “Bisogna stare con i piedi per terra, non è vero che
siamo come gli altri, di questo dobbiamo essere consapevoli e comportarci di conseguenza, anche
questa è normalità, anzi proprio questa deve essere la nostra normalità”.
Ho molto riflettuto su quell’osservazione, pensando a lei: può essere questa la causa
inconfessabile per un comportamento così scioccante? Può essere? Ma lei sapeva che ero così,
aveva tutto il tempo per riflettere. La nostra esperienza non è stata uno scherzo. Nostro compagno di
viaggio non è stato il signor Platone. Lo hanno testimoniato non solo i suo piacere ma la sua
sorpresa, la meraviglia per qualcosa di mai pensato e mai provato così intensamente da lasciarla
letteralmente stordita.
Agli inizi, rispondendo alle esigenze di cautelaci ho fatto riferimento ad evitare facili
infatuazioni, ho aperto io il discorso sulla mia condizione, soprattutto considerando che la nostra
conoscenza ed il nostro rapporto erano stati originati dalla lettura di un libro e, particolarmente, da
un capitoli riferito al sentimento.
Parliamo pure di normalità: vedete amici miei io non ho mai camminato quindi non so che cosa
vuol dire camminare. Per me non camminare ed elettro-carrozzina sono la normalità. Diverso
sarebbe, se come il campione di formula uno Ragazzoni, dopo gare e vittorie avessi dovuto
trascorrere sulla carrozzina il resto della vita, o come Fogar il navigatore solitario, dopo anni di
avventurosi viaggi fossi ora completamente immobilizzato. Eppure i due campioni non si possono
definire anormali tantomeno “handicappati” , sono semmai dei “sinistrati”.
Noi rifiutiamo il termine “handicappato” , vediamo un po’ perché: prendiamo il recentissimo
Vocabolario della Lingua Italiana della Treccani alla voce “handicappato” agg.e sost. maschile:
“che o chi per le condizioni fisiche o psichiche (in particolare spastici, distrofici, paraplegici,
mutilati, minorati psichici ecc.) ha difficoltà anche gravi ad adattarsi all’ambiente circostante…”.
Ed ora diamo uno sguardo al Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia edito
dalla UTET: “(part. pass. di handicappare) agg. Sport. “posto per particolari disposizioni di gara in
condizioni di inferiorità o di svantaggio rispetto ad altri concorrenti in una competizione. In senso
generico: svantaggiato, impedito. – Al fig.: “danneggiato impedito”.
Si noti intanto la diversità fra il riferimento allo sport e quello al figurato, il medesimo termine
sembra essere in contraddizione con se stesso quando da una parte (Treccani fig.)sottolinea: “ha
difficoltà anche gravi ad adattarsi all’ambiente circostante” dall’altra (Battaglia sport.): “posto in
condizioni di inferiorità”. È opportuno richiamare l’attenzione, sempre sul testo del Battaglia,al
riferimento al L.Ugolini 123: “handicappare”, “handicappato”. Brutti e non necessari barbarismi
per denotare stato di inferiorità…in italiano dirai aggravato, danneggiato ecc.
Queste riflessioni non vogliono essere un cerotto per me, non mi sto leccando le piaghe. Certo
ho provato dolore, come si dice? Sono rimasto scottato soprattutto dal comportamento, ad esser
generoso, inspiegabile.
Io ed i miei compagni meno uno che riesce, in qualche modo, a camminare anche se ha
difficoltà a governare le mani, non abbiamo l’uso delle gambe ma tutti gli altri “usi” , tutti nessuno
escluso, ci sono e funzionano bene ringraziando Dio!
Per esempio il computer è nostro amico, trascorriamo in sua compagnia molte ore, lo
utilizziamo con capacità, uno di noi è particolarmente esperto, un vero e proprio informatico.
Sostituisce le dita con il casco munito di un’asticella in alluminio ed opera senza difficoltà.
Ha lasciato all’ultima parte di questo racconto che è, ripeto, cronaca, la considerazione su un
dubbio che se si rivelasse attendibile, ed è molto probabile, farebbe emergere un aspetto della
vicenda dai connotati di una tale ferocia che non potrebbero non far profondamente riflettere, ed
assegnerebbero a questo capitolo il valore di un documento sulla imprevedibile natura umana.
Dunque: ritorniamo alla frase pronunciata durante l’ultimo incontro: “La gente al paese mi
condanna perché dice che ti sto usando”. Sembrerebbe assurda per l’assenza totale di ogni
immaginabile fondamento ma, pensandoci bene, non è così, vediamo perché: è stata sposata e non
ha avuto figli, un dramma che ha provocato il naufragio del matrimonio, evidentemente, ad
iniziativa del marito rimasto deluso dalla impossibilità di avere eredi e non rassegnato a non
accettare lo stato di fatto: una moglie che non sarà mai madre. Una tragica conclusione che ha
portato a clamorosi atti di rotture anche tra le famiglie, tanto cruenti da far parlare le cronache.
Normalmente in questi casi, la responsabilità, se tale può essere definita, viene “caricata” sulla
donna.
Lei,…non si rassegna, non solo per la fine dell’unione che lascia, comunque, ferite insanabili,
ma soprattutto, perché non accetta l’onta di “non essere buona a mettere ala mondo dei figli”.
Questo pensiero la ossessiona, la deprime, la fa impazzire. Vive in un paesino. Tutti la
conoscono. Si vergogna. Ogni giovane sposa con bambini è per lei uno schiaffo morale. Pian piano
odia tanto la sorte da trasferire il risentimento su tutta l’umanità. Suo principale nemico è diventato
Dio.
Non accetta la sentenza a senso unico, emessa da una delle parti interessate, il marito
ovviamente interessato a tirarsi fuori. Deve dimostrare il contrario. A tutti i costi deve rimanere
incinta e lo deve fare in modo eclatante tanto da essere esemplare.
Deve provare cioè che è l’ex coniuge, il “maschio”, a non essere buono, non lei e lo deve
sbattere in faccia a tutti quelli del paese che fanno del mormorio l’antidoto alla monotonia di ogni
giorno.
Come? Non sarebbe difficile con i tempi che corrono, trovare un giovane disposto ad una
prestazione occasionale ma efficace: sano, robusto, di famiglia numerosa, quindi con indubbi
requisiti genetici per quanto riguarda la certezza del risultato non solo sotto il profilo del
concepimento, ma anche di quello genetico per l’eventuale concepito. Così però sarebbe troppo
normale, quasi di “routine”.
Certo riuscirebbe a dimostrare che l’ex marito non è buono, ma l’esperimento non
provocherebbe il risultato punitivo che è invece necessario.
Ci vuole qualcosa di più incisivo, che provochi clamore ed assuma le caratteristiche di una
risposta emblematica. Una vera e propria lezione.
Ha letto, per caso, il libro di un giovane disabile, ospite di una struttura non molto distante,
un’autobiografia che a donne non scherza, ne sono piene le pagine, sembra avere tutti i requisiti di
un buon “riproduttore”. Lo deve incontrare, lo deve far innamorare, deve avere con lui rapporti
completi con l’obiettivo di rimanere in “stato interessante”.
Sarebbe la prova provata che ad essere fasullo è l’ex marito e non lei. Tanto fasullo da essere
battuto da un disabile. Che vergogna! Pensate che smacco! Con uno che sta dalla mattina alla sera
sulla carrozzina!
Con lui, quello del “si” in Chiesa, bello, maschio, robusto, prestante, niente da fare: sempre
cilecca! Tutto fumo e niente arrosto. L’abile messo KO alla prima ripresa dal disabile! Che botta!
Questo il progetto. Tutto funziona alla perfezione, l’incontro,l’innamoramento, il rapporto
sessuale. Fatta più di una “prova” però, il risultato non cambia, è quello di prima,di quando stava
con il marito. Eppure quel giovane con l’acne ha dimostrato di essere letteralmente un furore, di
avere tutte le carte in regola, tanto che lei mai si era sentita al settimo cielo.
L’”esperimento” c’è stato, il risultato è mancato. La vendetta sullo sposo non può essere
consumata. L’uso del disabile non è servito. Deve prendere atto che il maschio non ha
responsabilità. Inutile continuare. È bene troncare e alla svelta. Prima che sia troppo tardi, senza
tante storie, senza fare di me un usa e getta. Se così dovessero essere andate le cose e , credetemi,
più che probabile è certo, c’era bisogno di tutta la messa in scena dell’innamoramento? Della
presentazione in famiglia? Dell’ipotesi di matrimonio? Della fotografia sul davanzale del letto con
riferimenti facilmente intuibili? Delle frasi romantiche in riva al mare? Delle interminabili
telefonate? Di lettere così impegnative e compromettenti? Di scene di gelosia? Permettete la
brutalità: “Bastava chiedere!”. Anche se mi avesse reso noto l’obiettivo che voleva raggiungere ci
sarei stato. Perché no? Che cosa ci sarebbe stato di male? E poi… non capita tutti i giorni: per me
sarebbe stato piacevole, per lei utile. Che cosa vi può essere di più bello del sentirsi utile al
prossimo anche in questi casi?
So di dire un qualcosa di crudo ma nel repertorio dell’essere umano la fantasia della ferocia non
conosce limiti. D’altra parte, per quante ipotesi abbia esplorato non riesco a trovare una risposta
plausibile alla eccezionalità degli avvenimenti.
Scusate, forse mi affido troppo alla fantasia: la prima volta viene, mi guarda o meglio mi
osserva, gira sui tacchi e se ne va (come dire: “Va bene mi sembra adatto all’uso” cioè come se
avesse preso le misure).
Completato il programma, constatato il risultato, medesima scena: poche parole di circostanza,
una scusa apparentemente banale, e nuovamente, sparisce.
Per concludere credetemi: in noi la mente ed il cuore nulla hanno di diverso da chi ha la
possibilità di procedere con le proprie gambe.
Male è per chi sullo speciale mezzo di trasporto ha il cuore, l’animo, il senso della ragione e
della giustizia, la mente, l’intelletto, questa si che è una mutilazione in tutti i sensi, tanto più grave
quanto più voluta.
Quanti cosiddetti normali sono “handicappati” e fanno finta di niente?
È SUCCESSO
“Naturalmente i vocabolari ignorano
l’uso ricorrente di questo termine in
senso dispregiativo anche nei confronti
di persone cosiddette normali. Si dice:
“E’ un handicappato”anche per dare
dello scemo a qualcuno, per
sottolinearne le caratteristiche negative
sul piano estetico ed intellettivo, per
dire ottuso, ipodotato. Insomma
sarebbe meglio non usare questo
termine visto e considerato che
abbiamo a portata di mano “disabile”
che, fra l’altro, si pronuncia più
facilmente, senza correre il rischio di
sbagliare pronuncia”.
In questa parte voglio osservarmi da fuori, parlare di me in terza persona, come se si trattasse di
un altro.
Pino attraversava un buon periodo: ascoltava la musica dalle canzoni napoletane di Murolo al
fracasso tanto assordante quanto esaltante degli ultimi successi rock.
Il cuore riposava, palpitava, senza sussulti sentimentali. Buone letture, lavoro al computer per
non perdere l’allenamento e mantenere in esercizio dita e cervello, qualche telefonata ad amici ed
amiche, insomma in serenità ora che l’inverno stava per finire, marzo se ne stava andando, la
primavera stava per arrivare, i rami dei mandorli si erano da tempo adornati di fiori.
Niente innamoramenti, niente tensioni, agitazioni, palpitazioni, stress da spasmodiche attese,
sussulti ad ogni trillo del telefono.
Ogni tanto, quando il clima lo permetteva, usciva per divertirsi negli spazi del giardino, con
spericolate evoluzioni della carrozzina pilotata come un bolide di formula uno.
Anche con i colleghi tutto filava liscio, frequenti e piacevoli le discussioni, rare quelle accese,
spesso ai confini della litigata, su argomenti vari anche banali.
Le visite di amici maschi e femmine, giovani e anziani, soprattutto nel pomeriggio, rendevano
pieni di calore umano i rapporti fra quelli di fuori e quelli di dentro nella casa-famiglia chiamata
Piccolo Rifugio.
Ogni tanto qualche ragazza gli si avvicinava per complimentarsi sullo stato di saluto, conversare
e , puntualmente, manifestare ammirazione per i begli occhi color del mare o del cielo (scegliete
voi) che facevano di Pino quasi una rarità.
A notare questo particolare erano le donne giovani o anziane, mai gli uomini, chissà perché?
Oddio! Si rendeva conto che se gli si fosse avvicinato un ragazzo e gli avesse detto: “Pino, quanto
sei bello, che begli occhi hai, sono del colore del mare quando il cielo non ha nubi” qualche
perplessità l’avrebbe creata.
Entra in scena improvvisamente una certa Silvia la quale, al Piccolo Rifugio, vuol dare una
mano insieme ad altre e ad altri.
Non si poteva definire una bella ragazza però era, come si dice,un ‘tipo’: colta, simpatica,
disinvolta, di piacevole compagnia, loquace, sempre pronta alla battuta, estrosa nell’abbigliamento.
Quando si presentò a Pino con il classico: “Piacere Silvia” lui rispose oltre che con il
tradizionale: “Il piacere è mio”, recitando l’inizio della nota poesia di Giacomo Leopardi: “Silvia,
rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale / Quando beltà splendea / Negli occhi tuoi
ridenti e fuggitivi, / E tu, lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi?”.
Sorpresa la ragazza guardò Pino, si compiacque ma non mancò di nascondere una mano dietro
la schiena per fare il classico scongiuro con l’indice e il mignolo, memore della precoce morte della
giovane che aveva ispirato Leopardi.
La superstizione aveva avuto la meglio sulla cultura.
Silvia, diciannovenne, studentessa particolarmente preparata, dedita all’arte figurativa ( stava
lavorando per una mostra) replicò a Pino sempre con la mediazione del Leopardi: “Tornami a
mente il dì che la battaglia d’amor sentii la prima volta, e dissi: / Oimé, se questo è amor, com’ei
travaglia!” che apre il canto “Il primo amore”dell’infelice recanatese.
Pino, perplesso, la guardò interrogativamente: che significato volevano avere quelle parole con
tanto trasporto recitate? Dove sarebbe voluta arrivare Silvia?
Nei giorni precedenti aveva notato, sia pur di sfuggita, che la ragazza lo aveva guardato con una
certa insistenza ma non aveva dato importanza alla cosa.
Aveva pensato alla solita attenzione che i visitatori hanno per i disabili, particolarmente attenti
ai loro comportamenti quasi che si trattasse di creature singolari, perché no? rare, comunque non
normali secondo la ricorrente definizione: “portatore di handicap”.
Pino aveva voluto conoscere, con la collaborazione di un amico, la traduzione letterale della
parola inglese “handicap”: che nel gergo sportivo vuol dire “abbuono, corsa a ragguagli”;
figurativamente assume il significato di svantaggio, intralcio, ostacolo. Questo nel vocabolario,
parte Inglese-Italiano, edito da Macmilla Publishing Company di New York compilato da Piero
Rebora professore di inglese nell’università Statale di Milano e di italiane nell’ Università di
Manchester con la collaborazione di Francis M. Quercio professore di italiano presso l’Università di
Londra.
Nel “Vocabolario della Lingua Italiana” edito dall’Istituto dell’ Enciclopedia Italiana fondata da
Giovanni Treccani, pubblicato nel 1987, questa la spiegazione. “in origine nome di un gioco
d’azzardo con monete che si estraevano a sorte da un cappello, alterazione di hand in cap «la mano
nel cappello».
Nel linguaggio sportivo, gara, corsa con handicap competizione nella quale il valore dei singoli
partecipanti (uomini, cavalli, cani) vengono sia pure parzialmente, pareggiati mediante opportune
disposizioni di gara (abbuoni di distanza o aumenti di peso) o di punteggio, allo scopo di consentire
qualche probabilità di aggiudicarsi un premio anche ai concorrenti che sono manifestatamene
inferiori. Nelle corse al galoppo si distinguono un handicap ascendente in cui si fissa il peso che
dovrà portare il cavallo di doti inferiori e si aumenta via via quello degli altri cavalli in proporzione
del loro valore e, un handicap discendente, in cui il peso viene fissato al contrario; nelle gare da
trotto si aumenta analogamente la distanza da percorrere. Per estensione, il vantaggio stesso che
viene concesso o lo svantaggio che viene imposto ai partecipanti in tali gare. In senso figurativo,
fatto o situazione che mette una persona in condizione di inferiorità, e anche la condizione stessa di
inferiorità…; con significato più recente e più specifico, svantaggio rappresentato da minorazioni o
difetti, più o meno gravi, di tipo intellettivo, motorio (spasticità, paraplegie ecc.) o sensoriale
(minorazione della vista, dell’udito ecc.) che rendono difficile ad una persona il normale
inserimento nella vita sociale in alcune o in tutte le sue manifestazioni (familiari, scolastiche,
professionali ecc.); portatore di handicap, handicappato”.
Insomma: c’è da scegliere! Naturalmente i vocabolari ignorano l’uso ricorrente di questo
termine in senso dispregiativo anche nei confronti di persone cosiddette normali.
Si dice: “È un handicappato” anche per dare dello scemo a qualcuno, e sottolinearne le
caratteristiche negative sul piano estetico e intellettivo, per dire ottuso, ipodotato.
Soprattutto nel linguaggio dei giovani: “Ma guarda quello ha preferito a me “tizio” ma “tizio”
è un “handicappato”, non sa far niente, guida la macchina come uno zappaterra” – “Caio mi fa
una corte spietata, me lo trovo sempre intorno, da quando si è fatto la macerati si crede chissà chi;
l’altro giorno mi si è fermato accanto e mi ha invitato a salire nel suo “bolide”, seh io vado i
macchina con lui, e chi si fida di un handicappato come quello!”.
Insomma sarebbe meglio fare a meno di questo termine visto e considerato che abbiamo a
portata di mano “disabile” che, fra l’altro, si pronuncia più facilmente senza correre il rischio di
sbagliare pronuncia.
Torniamo a Pino e Silvia: tutto accadde quasi all’improvviso, fu lei a prendere l’iniziativa a,
come si dice? Dichiararsi e lo fece con un trasporto eccezionale, coinvolgente, guardandolo in
faccia, emozionata, con gli occhi lucidi quasi ad implorarlo.
Non vi potevano essere dubbi, non si trattava di un semplice “ti voglio bene”; era qualcosa di
più, i connotati della “dichiarazione” erano quelli caratteristici dell’innamoramento che in questo
caso si stava trasformando in passione.
Pino registrava il fatto evitando di farsi coinvolgere, con quella dose di razionalità
indispensabile ad un giudizio distaccato.
Naturalmente la reazione non ha tardato molto, la ragazza era piacevole , intelligente, perché
no? Bona! Si è sì interrogato ma sai quando il ciclone ti avvolge è difficile sfuggire al suo
abbraccio!
Quella notte fece a meno anche delle consuetudinarie poche ore di sonno, il pensiero su lei
faceva da caffè, una veglia dolce, un sogno ad occhi aperti.
La primavera si sa aiuta i sentimenti ed alimenta l’animo di poesia, risveglia i sensi. Silvia era di
una dolcezza paradisiaca. Pino aveva avuto diverse esperienze e non avrebbe potuto non accorgersi
di eventuali involontarie deviazioni o errori di interpretazione.
Avrebbe capito subito se si fosse trattato di un semplice rapporto umano, come dire? di
solidarietà, frequentissimo nel loro ambiente; Pino trascorreva le ore al telefono, tanto più che
poteva permetterselo perché aveva acquistato il telefonino e poteva chiamare da dove voleva, anche
da sotto un abete, o da un angolo nascosto, immaginando di essere con lei in un’ oasi circondata dal
deserto, abitata solo da loro due.
Lo avevano avvertito della pericolosità di quell’aggeggio che, sempre premuto sull’orecchio
quasi a contatto con il cervello, emette un notevole numero di onde elettromagnetiche che non sono
un piacevole massaggio, l’amore però non conosce pericoli e la voce di Silvia superava ogni
ostacolo, faceva da frangiflutti e, soprattutto, rendeva la vita meritevole di essere vissuta nella
pienezza della gioia.
Pino aveva bisogno di parlare con Silvia, non poteva farne a meno,doveva farlo a tutti i costi
altrimenti stava male.
Certo! Il problema del costo c’era. Le telefonate, soprattutto quelle delle ore antimeridiane,
erano vere e proprie mazzate: salatissime! Difficilmente sopportabili da un bilancio normale.
Aveva deciso di risparmiare su tutto: niente più magliette con le rock-stars, niente ninnoli da
mettere alle dita o all’orecchio, niente costosi compact discs ed altri ammennicoli dai quali
rimaneva affascinato, si sarebbe limitato all’indispensabile.
Se fosse stato necessario avrebbe venduto la catena d’oro che sorregge l’effige di papà e
mamma sostituendole con lo spago o con una stringa di cuoio; avrebbe fatto a meno anche di alcuni
viaggi pur di comunicare con la sua Silvia.
Si rendeva conto che la ragazza doveva adempiere ad alcuni doveri ai quali non poteva sottrarsi:
studiare, dare una mano in casa specialmente ora che i genitori erano quasi sempre assenti per
assistere la nonna ricoverata all’Ospedale Regina Elena di Roma, lavorare per presentare i dipinti
alla prossima mostra d’arte; non poteva stare sempre attaccata alla cornetta o al cellulare.
Lui, però, doveva telefonare, doveva sentirla e lo faceva con una frequenza esasperante, di
questo era consapevole, ma solo pensare di stare una mezza giornata senza ascoltarne la voce
sarebbe stato più doloroso di una tortura.
Insomma sapeva di esagerare, probabilmente avrebbe raggiunto un punto di equilibrio ma
questa non poteva avvenire all’improvviso, aveva bisogno di una certa gradualità, se non si fosse
trattato di amore si sarebbe potuto dire che era un problema di tempi tecnici.
La lettera con “Caro dolce micetto mio” è del primo luglio poi ne arriva una che reca la data del
quattro luglio. Quando Pino la legge rischia letteralmente l’infarto, si strofina gli occhi, la vista gli
deve aver fatto qualche brutto scherzo, l’avrà riletta una cinquantina di volte.
La carta è la medesima: fogli quadrettati grafia in stampatello, bene inquadrata con tutti i punti e
le virgole al loro posto, non breve, anzi! piuttosto lunga e tutt’altro che carente di chiarezza.
Scomparso il “micetto” rimpiazzato da un freddo “Caro Pino”: “Ciao, sono sempre io, Silvia,
come ad ogni lettera che si rispetti ho l’obbligo di chiederti come stai…” (avete capito bene? “ho
l’obbligo”…!).
Pino afferra il cellulare e chiama, nessuno risponde, il telefono di Silvia è sordo, è chiaro che lo
ha staccato.
Ogni tanto Pino riprende quel foglio : “…i miei non accettano i miei principi, tu hai ragione la
vita è mia, ma ho solo diciannove anni, non sono pronta alla ribellione…un altro limite è la mia
assenza, lo so ma per evitare altri problemi è meglio così…ora mi starai aspettando ma io sono qui
con il telefonino spento...non rinfacciarmi che stai male, non essere egoista, io anche non sto bene
e se riconoscerai questo significa che qualcosa hai capito e che stai sulla buona strada, ho fiducia
nelle tue capacità…per farti capire, per aiutarti a fare ciò che ti ho proposto se sarà il caso farò
del tutto, anche dicendo bugie, ferendoti, lo farò anche sapendo di poterti perdere. Ti avviso prima,
così potrai renderti conto quando lo farò e come lo farò”.
Torno ad esprimermi in prima persona: la botta è stata grossa, tanto grossa che ancora non
riesco a rimettermi.
Quello che mi fa impazzire è il cambiamento repentino. Dall’esaltazione di tre giorni prima alla
freddezza burocratica di tre giorni dopo. Ma com’è possibile? Perché?
Non sono di sughero, con nessun essere umano è consentito giocare come se fosse una palla.
Le considerazioni che faccio non si limitano al rapporto amoroso, questo libro è pieno di
“fidanzamenti” e “allontanamenti”.
Qui voglio andare oltre, voglio adagiare sul tavolo anatomico la mia parola e sottoporla ad una
autovivisezione come in un’aula universitaria con attorno coloro che osservano per apprendere e far
tesoro non solo dell’insegnamento ma di realtà sconosciute. Non a caso ho parlato di vivisezione:
l’anima non muore mai.
Molti non si rendono conto di quanto siamo consapevoli della nostra condizione, non riescono
a considerare che l’aspetto esteriore è una parte di noi, è l’involucro, per usare un termine edilizio: è
solo l’intonaco. Quello che abbiamo dentro è diverso, tutto lì è abile. La nostra sensibilità compensa
le deficienze anatomiche.
Vediamo se riesco a spiegarmi meglio con qualche esempio: il cieco non vede i colori ma li
immagina di una bellezza così sublime da raggiungere la trascendenza.
Probabilmente sono proprio quelli dell’origine del creato quando Dio, con il paradiso terrestre,
preparò l’ambiente per la Sua creatura più importante: l’uomo.
Il non vedente che si innamora, immagina la sua donna come una bellezza assoluta eppure non
ne conosce i lineamenti, ne avverte però il comportamento, ne sente la dedizione, coglie gli aspetti
anche reconditi del suo amore, insomma si inebria della sua anima che collabora alla descrizione
della figura, è attraverso la sensibilità che riesce a comprendere se l’amore è vero o apparente e
magari finalizzato per esempio ad obiettivi economici.
L’amico che mi aiuta a scrivere questo libro mi ha letto il brano di un saggio che parla della
«Psicologia della forma e della totalità»: “il sentimento è considerato come un atteggiamento
globale in quanto nei sentimenti noi viviamo immediatamente l’esistenza delle situazioni mutevoli
dell’io in noi e negli altri e in questo senso i sentimenti sono chiamati qualità formali della
coscienza totale”.
Mi dicono che Ludwig van Beethoven aveva tredici anni quando avvertì i primi sintomi della
malattia che lo avrebbe portato alla totale sordità.
Da sordo, ha scritto composizioni così belle da farlo considerare, nella storia della musica, uno
dei maggiori geni di tutti i tempi.
Chi guidava quella mano sulla tastiera del pianoforte? Chi gli suggeriva le note da trascrivere
sul pentagramma se non l’anima?
Un caro amico mi ha fatto ascoltare alcune composizioni di Beethoven: che grandezza! Quanta
magnificenza. Quale miracolo di armonie ha generato il silenzio assoluto che ha avvolto quel
grande guidato dallo spirito!
Nulla sentiva Beethoven intorno a se, solo la sua musica. Dal 1815 è completamente sordo: dal
1822 al 1824 compone la “Nona Sinfonia” e la “Missa Solemnis”, definita meravigliosa per
bellezze musicali in tutte le sue parti.
Ecco ho voluto sottolineare la particolare sensibilità che caratterizza i disabili fisici. Mi scuso
per aver portato l’esempio di Beethoven che potrebbe apparire come una similitudine
eccessivamente presuntuosa, ma doveva “servire” a dimostrare che, normalmente, la carenza di
abilità fisica, quella che si vede, cioè quella esteriore, è compensata da un rafforzamento della
facoltà psichica, quella che non si vede e che denomino sentimento, patrimonio dell’animo.
Allora chi ci avvicina, chi ci copre di attenzioni, si deve rendere conto di questo. Lo so che tutto
intorno a noi è fatto a fin di bene ma questo deve rientrare nella normalità dei comportamenti.
Noi abbiamo bisogno, come tutte le persone per bene, di amicizia non di pietà.
Se commetto atti non corretti mi si deve dire come avviene nei rapporti tra persone serie
soprattutto fra quelle che si stimano. La risposta ad una ragazza che mi dichiara il suo amore, attenti
non un amore fraterno, non un affetto, ma un amore con i connotati classici dell’innamoramento, da
me corrisposto, è diversa da quella di un comune mortale, proprio perché maggiore è la sensibilità.
Tutto il mio essere, il mio esistere si dedica a lei, nulla assolutamente può interessarmi più di lei,
nessuna regola può impedirmi di esserle vicino, il mondo per me non esiste perché lei è non solo il
mondo ma tutto l’universo prima del big-bang (mi ha spiegato un amico che spesso viene a trovarci
che si tratta di una parola inglese che vuol dire grande esplosione : l’universo si sarebbe formato
circa quindici milioni di anni fa da una specie di biglia di elevatissima temperatura e densità che,
esplodendo improvvisamente, si sarebbe sparsa per poi lentamente raffreddarsi e dare origine a
particelle che costituiscono la materia dei corpi celesti esistenti ed in formazione poiché sembra che
l’azione del big-bang sia ancora in atto).
Uno dei più famosi sostenitori della teoria del big-bang è il professor Stephen Williams
Hawking fisico teorico e matematico britannico appartenete alla “gloriosa” categoria dei disabili
tanto da fare della carrozzina una cattedra di prestigio nell’università di Cambridge.
Tutto questo è tanto vero ed incontestabile quanto è vera l’amarezza nella quale sprofondo, fino
a rasentare la disperazione, a sfiorare i confini della follia, a desiderare intensamente la fine della
vita quando avvengono fatti come quello che ho qui descritto.
Sia ben chiaro, un amore nasce e muore, e le responsabilità di una fine non sono mai
normalmente di uno solo, ma questo non può avvenire come una scossa di terremoto che arriva
improvvisa distruggendo tutto in un attimo, magari durante una bella giornata di sole il cui tepore
riscalda non solo il fisico.
Il distacco cruento è troppo doloroso! Sempre il solito amico mi ha spiegato che cruento “ha
origine nel latino cruentus derivato di cruor che vuol dire sangue, che provoca sangue, ed è proprio
così, fa sanguinare l’anima e nessun dolore, credetemi, riesce a superare quello di un’anima ferita.
Per qualche mese sono stato a tappeto come un pugile preso in pieno dal destro di un peso
massimo.
Letteralmente intontito parlavo da solo, incazzato con tutti come se fossero stati loro,
maltrattavo anche la pianta di rosmarino contro la quale mi scaraventavo con il mio locomotore
elettrico.
Non parliamo poi dei colleghi che per me non esistevano più e se tentavano di dirmi qualche
parola, prima che aprissero bocca li mandavo a quel paese con posta celere.
L’assistente sociale, poveretta, ce la metteva tutta per farmi uscire dalla depressione ma io
reagivo come una fiamma che riceve benzina.
A tavola mangiavo per uso e consuetudine; appena finito, si fa per dire, uscivo di volata e
andavo a “rimettere”: credo di aver concimato degli arbusti vicino al muro di cinta del nostro
giardino.
Anche le giovani visitatrici in ardite minigonne non riuscivano a stimolarmi, rispondevo ai loro
saluti con quanto necessario per non essere maleducato ed appena potevo troncavo il discorso e mi
allontanavo.
Nell’era di Silvia un’altra ragazza cercava di battere la rivale e di “conquistare il mio cuore”, si
chiamava Alessandra.
Diverse volte mi aveva fatto capire che con lei sarei stato meglio che “con quella” ma io ero
troppo preso. Ale (così vuole che la si chiami) si era messa da parte, ogni tanto usciva da dietro le
quinte per vedere come procedevano le cose sperando che la “recita” finisse.
Un giorno, stufo dello stato in cui mi trovavo, le ho telefonato e, senza farla tanto lunga, le ho
chiesto se era ancora innamorata di me, mi ha risposto di si ma che non intendeva allacciare rapporti
poiché, ritenendomi ancora molto attaccato a Silvia, temeva di essere usata per provocarne la
gelosia o di essere considerata solo un rimedio e questo l’avrebbe fatta soffrire troppo.
Ho attaccato il telefono, incazzatissimo, dopo averle detto: “Perfetto! Quando avrai cambiato
idea sai dove trovarmi!”. Diverse volte mi ha cercato per telefono, mi sono sempre fatto negare. Poi
è venuta a farmi visita, ho assunto un’aria piuttosto sufficiente fino a quando sono crollato e mi
sono abbandonato nelle sue braccia.
Oggi ci amiamo. Io mi sto sempre più innamorando, l’altra ormai è completamente dimenticata,
non so neanche il quale galassia stia orbitando.
Ale è un amore grande. Quante volte mi avete sentito pronunciare queste parole? Ripeto: “Amo
Ale perdutamente e sono felice con lei, è vero! Credetemi: è proprio vero!”.
E poi, sapete che c’è, il solito amico del quale spesso vi parlo e non vuole essere nominato, mi
ha detto che i latini quando una cosa andava bene e poteva essere motivo di godimento, non
pensavano a quanto sarebbe durata e pronunciavano le parole :”carpe diem” che vuol dire “cogli il
giorno”, “acchiappa quel che c’è”. Un certo Orazio Flacco Quinto grande poeta nato
sessantacinque anni prima di Nostro signore, sempre secondo il mio informatore, aveva usato
queste parole per invitare a godere dei beni che la vita ci offre giorno per giorno.
Le aveva scritte nella prima “Ode romana” un libro nel quale parlava delle gioie dell’amore e
del vino, della tranquillità della campagna e del godimento a tavola quando tutto è buono.
Non mi considerate un saltapicchio. Sapete che cos’è il saltapicchio? È un gioco. Da ragazzo,
malgrado la difficoltà della carrozzina, ogni tanto ci giocavo anch’io.
Si tratta di un pezzo di legno tondo, non molto lungo, appuntito alle estremità, da colpire con un
bastone per farlo saltare. Vince chi riesce a mandarlo più lontano con un certo numero di colpi.
L’abilità sta nel colpire bene il “picchio” (così si chiama il piccolo pezzo di legno) in punta
perché più è percosso all’estremità della punta, più il salto è alto e lungo, è chiaro che se lo colpisci
in mezzo, fra le due punte, al massimo può fare un sussulto ma non si sposta.
Ogni tanto il picchio fa qualche brutto scherzo: va a colpire la testa di un gareggiante, allora il
sangue anziché dall’anima esce dalla capoccia.
PORCA MISERIA QUANTO E’ PRESTO!
“Potremmo anche fondare un partito,
ce ne sono così tanti che uno più uno
meno quasi non si avverte. Per il
simbolo non c’è bisogno di lambiccarci
il cervello, va benissimo il disegno della
carrozzina alla condizione che non sia
troppo seriosa, con bei colori vivaci,
psichedelici, il modo da attrarre il
consenso del maggior numero di
elettori. A proposito di psichedelico non
sapevo volesse dire “rivelatore
dell’anima”…il nostro sarebbe,così,
non solo il partito della carrozzina ma
di quelli che manifestano l’anima. Ve lo
immaginate lo slogan “Vota per chi
rivela l’anima”; eccezionale nooh?
Sarebbe una vera novità, una bomba!...
Però la carrozzina non dovrebbe esser
sola
bisognerebbe
farci
sedere
qualcuno. Io ci metterei Pinocchio, si
proprio lui il burattino di Collodi in
versione legno. Sorridente, allegro, con
il naso non troppo lungo, con quella
forma ma di normale dimensione. Del
resto anche Pinocchio ha avuto
problemi con le gambe quando si è
addormentato vicino al braciere e se
Geppetto non avesse provveduto a
costruirgliene un paio nuove sarebbero
stati dolori, la carrozzina non
gliel’avrebbe tolta nessuno ”.
Mi sono svegliato che era ancora notte fonda, per fortuna ha l’orologio con le sfere fluorescenti
e se ne frega del buio, l’ho guardato: “Porca miseria” ho esclamato a bassa voce “sono appena le
due e ora che cavolo fo?”.
Risono messo a pensare avrei voluto accendere la luce per prendere qualche appunto sul piccolo
block notes che tengo sempre a portata di mano sul comodino, come si fa con il diario, ma ho
temuto di dar noia ai compagni che dormivano alla grande.
Ce n’è uno che quando russa sembra eseguire un concerto del compositore tedesco Karleinz
Stockhausen il quale ha sempre avuto una visione del ritmo totalmente svicolata dal concetto di
misura.
R.B., che sta per “rompi balle”, così lo ha ribattezzato un nostro amico, modula le note della
russata con leggere variazioni sul tema, lontane anni luce dalla melodia, un misto di tam-tam,
cutufù, marimba, metallofono, ritmiche strisciate di raspa con una conclusiva eruzione gutturale che
si affievolisce piano piano , in un lungo sibilo con tonalità a scendere per poi riprendere dalla nota
più alta.
Ora ci siamo abituati ma nei primi tempi erano dolori, hai voglia a tossire, fare psi psi, come con
i bambini avari di pipì, lanciare oggetti vari non contundenti: un sobbalzo, una breve pausa, una
giravolta sul materasso e poi nuovamente con il “russamento” a briglia sciolta.
Fra l’altro R.B. le sue otto-nove ore di sonno se le fa tutte, e appena si sdraia parte.
Dormiamo in più di uno in comode stanze, con letti ben distanziati, dotate tutte di un televisore
con monoscopio abbastanza ampio, a portata di telespettatore.
Se l’avessi accesa mi avrebbe aiutato a trascorrere il tempo ma, per quanto tenuta al minimo
dell’audio, avrebbe sicuramente dato noia a qualche collega, in ogni modo avrei avuto problemi a
raggiungere, da solo, la mensola del telecomando, ci avrei dovuto pensare la sera prima.
Ci sono in commercio telecomandi che funzionano con tutti i modelli di televisori, avrei potuto
comprarne uno, mi sarei potuto dotare di una cuffia ad infrarossi o elettronica con pile ricaricabili,
sarebbe stato, così, risolto il problema del rumore, rimaneva quello del chiarore, ma loro quando
dormono abbassano le tende e chi s’è visto, s’è visto.
Rimaneva ora un interrogativo: se la stessa mia idea l’avessero avuta tutti? Ho chiesto ad un
tecnico amico il quale mi ha informato che vi è la possibilità di collegare più cuffie. E con le
preferenze come la mettiamo? È difficile averle tutti uguali e scegliere lo stesso canale.
Quest’ostacolo sarebbe stato superato dal sonno: a dormire poco infatti sono solo io, gli altri fanno
tutta una tirata.
L’insonnia non è sempre un male, in alcuni casi è sbagliato anche definirla tale. Ad esempio:
serve a fare progetti se hai la mente operativa. Se qualcuno, a quest’ora mi aiutasse a sedere sulla
carrozzina, raggiungerei il mio computer e mi metterei a lavorare. Di tanto in tanto andrei ad
ascoltare un po’ di musica con le cuffie.
Così, invece, me ne devo stare qui ad occhi aperti (tenerli chiusi sarebbe inutile) ad attendere il
passare delle ore che, di notte sembrano avere qualche minuto in più dei tradizionali sessanta.
Dicono che contando immaginarie pecore Morfeo si rifà vivo e, Morfeo, come è noto, è il figlio
favoloso del Sonno e della Notte; dicono anche che gira con un mazzo di papaveri con i quali sfiora
le palpebre dei dormienti e fa fare loro sogni stupendi.
Mah! Io ho contato tante pecore da superrare quelle della Nuova Zelanda, ma il sonno ha fatto il
latitante. Mi sbaglierò, ma è tutta una cazzata. Di Morfeo nemmeno l’ombra, si vede che nei
confronti miei è il figlio della veglia!
La mia è un’insonnia per modo di dire: dormo poco, è vero, mi sveglio però riposato e fresco
come una rosa. Sostengono quelli che se ne intendono che nel dormire il problema non è tanto la
quantità quanto la qualità del sonno. Sembra che i grandi della storia pur dormendo pochissimo,
proprio nella notte hanno creato molto. Se le cose stanno così anch’io dovrei essere un grande.
Chissà? Non poniamo limiti alla provvidenza! Che dormo poco è certo, in quanto al creare, chissà?
Nel nostro Piccolo Rifugio non siamo in tanti disabili, una decina, ognuno con idee diverse,
gusti diversi e questo a parer mio, è un bene.
Il problema della diversità dei piatti è, intelligentemente, risolto da chi sta in cucina che,
conoscendoci ormai da anni, sa come conciliare gli orientamenti, soddisfacendo con una certa
mediazione le esigenze del palato.
D’altra parte se tutti avessimo le medesime idee ed i medesimo gusti, la monotonia la farebbe da
padrona.
Siamo creature di Dio il Quale non ha fatto risparmi nel popolare la terra con uno
sbizzarrimento che è difficile descrivere per quanto è vario. Il nostro Creatore ci ha fatto alti e bassi,
belli e brutti, intelligenti e scemi, simpatici ed antipatici, atletici e rachitici, abili e disabili, bianchi e
neri, rossi e gialli, pallidi e rubicondi. A proposito di quest’ultimi, come si fa a vederlo in uno che è
nero? A pensarci bene è proprio così: un fratello nero non credo che si possa vedere quando è
pallido e nemmeno quando è roseo o rubicondo.
Ho letto, da qualche parte, che sembra che tutti i popoli provengano dal ceppo nero, se questo è
vero immagino una spiegazione proprio nella mancanza di variazione della tonalità della cute che
evita la denuncia del male (pallore), dello stato non normale (rubicondo magari per aver alzato
troppo il gomito), di un accentuato benessere che a volte provoca invidia (roseo). Insomma i neri, a
parte la diversità dei caratteri somatici, sono veramente tutti eguali nel colore della pelle e nelle
variazioni cromatiche della medesima che non esistono.
Con noi disabili poi, è stato particolarmente estroso, direi anche troppo, soprattutto per quanto
riguarda gli arti di giù: ce ne ha dati regolarmente due, che però servono a poco; forse lo ha fatto per
ragioni estetiche, comunque due gambe ci sono e ad occultarne la distrofia ci pensano i pantaloni:
meglio così che senza nooh? Anche l’occhio vuole la sua parte!
Siamo comunque accessoriati di quattro gambe artificiali che non hanno articolazioni, se le
avessero saremmo come ragni, ma hanno le rotelle! Questo oltre ad essere un discreto surrogato ci
dà “una mano a chiedere una mano”. Chiedere una mano, soprattutto per chi non è dotato di un
elettroveicolo, è una costante.
Anche qui tutti i mali non vengono per nuocere: chi non ha la carrozzina elettrica, è perché non
può governare le mani e si deve affidare alle gambe che, per quanto sbilenche, possono essere
utilizzate per spingere la carrozzina in avanti, in dietro ed ai due lati, con molta fatica certo! Ma
funziona e mantiene in movimento quel poco di massa (si fa per dire) muscolare che è rimata negli
arti inferiori.
Tutto sommato, a pensarci bene, domandare è utile non solo per l’aiuto che si può ricevere ma
anche per stabilire rapporti umani. A chi si può chiedere un piacere? Ad un amico, un conoscente,
una persona mai vista prima disposta a venirti incontro, insomma al prossimo tuo che ti è veramente
“prossimo”.
Possono collaborare coloro che si odiano? No, perché non si guardano, non si annusano,non si
salutano, si evitano, se possono si fanno del male.
Perciò vedete quanto è costruttivo chiedere. Stavo facendo queste considerazioni con un amico
il quale mi ha guardato in volto ed ha osservato: “è vero che chiedete ma non vi rendete conto di
quanto date”.
Sono rimasto piuttosto sbigottito non riuscendo a capire a che cosa si volesse riferire, non mi
risultava di aver fatto qualcosa per lui, nemmeno un caffè o una bibita, quando qualche volta ci ho
provato, non lo ha permesso facilitato anche dal suo più facile avvicinamento alla cassa. L’ho
pregato di spiegarsi e lui: “Vedi Pino, credo che l’uomo non riesca a raggiungere livelli alti se non
nel donarsi, nell’amare il prossimo come se stesso, nel godere il piacere di sentirsi utile. Che senso
ha vivere se non si è utili a nessuno? Una vita chiusa nel proprio egoismo, nel considerare solo se
stesso o, al massimo, la propria famiglia. Un’esistenza finalizzata esclusivamente
all’accumulazione dei beni materiali ti fa vedere il mondo come un nemico, come uno nascosto
dietro l’angolo sempre pronto a saltarti addosso. Come si fa a vivere in un mondo che si considera
nemico? Quando mi chiedete qualcosa ed io riesco a soddisfarvi, mi fate sentire utile, quello che
riesco a dare è nulla se confrontato con il bene che ho ricevuto.
Quando torno a casa dopo essere stato con voi, credimi, è per me anche più facile pregare”.
Non ho saputo che dire, nessun commento, un significativo silenzio ha accolto le sue parole.
Normalmente non c’è bisogno di chiedere, le persone si offrono spontaneamente e fanno di tutto per
non farlo pesare, sempre con il sorriso.
Ho chiesto ad un amico di accompagnarmi a Napoli, volevo vedere la città dove era nato mio
padre. Siamo arrivati ed abbiamo parcheggiato la macchina (golf ultimo tipo turbodiesel
metallizzata centodieci cavalli, una vera e propria tentazione) sul lungomare in prossimità di Castel
dell’Ovo.
Era una giornata splendide della fine di gennaio. Quando il mio amico ha tirato fuori la
carrozzina dal portabagagli un gruppo di ragazzi si è avvicinato, un giovane l’ha aiutato
spontaneamente, a tenerla ferma per facilitare “l’operazione di imbarco” quando prendendomi sotto
le ascelle mi ha messo a sedere. Non era quella elettrica, non sarebbe entrata in macchina e poi
sarebbe stata troppo pesante.
Dovevamo attraversare la via affollata di auto in movimento, due ragazzi hanno fermato il
traffico. Raggiunto il marciapiede il mio amico si è fermato un momento a dare un’occhiata alla
macchina, uno dei giovani fra i più grandicelli lo ha guardato e gli ha detto a voce alta: “Andate
tranquillo, quella macchina nessuno la può toccare” e rivoltosi agli altri “Capitooo!”.
Avevo tanto sentito parlare del ristorante “Zi Teresa”, ogni tanto papà ne parlava, quando era
ragazzo lo forniva di ricci di mare. Abbiamo chiesto ad una guardia comunale se ce lo poteva
indicare, era lì vicino proprio davanti al Castello.
C’era il problema di come arrivarci con la carrozzina in mancanza di scivoli, il codazzo di
giovani non ci aveva abbandonato. A questo punto una scena commovente: giovani e anziani hanno
formato una specie di ponte, la carrozzina sollevata all’unisono, è stata poggiata a terra senza scosse
sotto la regia della guardia.
Uno di ragazzi è andato a parlare con qualcuno nel ristorante, sono accorsi gentilissimi
camerieri, ci hanno servito di tutto punto, spaghetti alle vongole, abbondante grigliata di mare, vino
bianco da settemeraviglie, gelato, frutta, conto chiaramente di favore. Assolutamente niente mancia
nonostante le insistenza del mio amico.
Intanto sopra un muretto i ragazzi stavano ad aspettare, quando abbiamo finito uno è corso a
chiamare la guardia. Nuovo ponte umano per la carrozzina. Bisognava rientrare. D’inverno fa buio
presto. Arrivati alla macchina mi hanno preso loro, mi hanno messo in macchina, hanno sistemato
la carrozzina nel portabagagli. Durante tutto il tempo del pranzo due ragazzini erano rimasti a far la
guardia al nostro autoveicolo. Il mio compagno di viaggio voleva compensare qualcuno: “Per
l’amor di Dio! Che volete scherzà, signurì? Per noi è un onore!”.
Ci siamo avviati verso casa, per un bel po’ di tempo il silenzio ci ha fatto compagnia, ci siamo
guardati per un attimo, avevamo gli occhi rossi.
Si dice che il mondo sia cattivo, non sono d’accordo. Certo i cattivi abbondano ma ci sono
anche i buoni e sono tanti, forse più dei cattivi, però non appaiono perché nessuno ne parla.
Sembra che la bontà non interessi gli “organi d’informazione” scritti o parlati e visti. Chissà
perché? Quando proprio non ne possono fare a meno se la cavano con poche righe in fondo ad una
pagina interna. Nei telegiornali poco prima della pubblicità nelle ore di minore ascolto.
Ho letto su un quotidiano che la bambina di una borgata romana di una famiglia di immigrati
interni venuti dal sud, da un po’ di tempo arrivava a scuola la mattina e non riusciva a tenere gli
occhi aperti. Si era distinta per la volontà di ferro e per la dedizione allo studio, intelligentissime le
bastava seguire attentamente le lezioni. Da un po’ di tempo era completamente cambiata. Ogni tanto
si addormentava sul banco. L’insegnante ha voluto capire che cosa stesse succedendo, è andata a
trovarla nell’abitazione ( si fa per dire perché si trovava sotto l’arco di un acquedotto dell’antica
Roma): la bambina stava lavorando, doveva accudire cinque fratellini l’ultimo dei quali aveva poco
più di un anno, la mamma inchiodata a letto da una glomerulonefrite. Il padre disoccupato cercava
di consolarsi con l’alcool.
Come poteva dedicarsi allo studio quella povera creatura? Tornava da scuola e doveva preparare
un boccone per tutti, lavare i panni, sistemare i fratellini, preparare la cena quando era possibile.
Quando tutti erano a letto tentava di dedicarsi ai compiti ma crollava. Si alzava presto per lasciar
qualcosa di pronto ai bambini e alla madre la quale non voleva ricoverarsi per evitare che i piccoli
rimanessero soli, opponendosi tenacemente all’abbandono della scuola da parte della più grande.
Scoperta, finalmente, quella tragica situazione, le compagne di scuola e l’insegnante si sono
organizzate per aiutarla. Hanno cercato un posto per il padre bussando a tute le porte, e l’hanno
trovato. Hanno messo in croce il presidente dell’Istituto Autonomo Case Popolari per un alloggio.
Hanno fatto ricoverare la madre. Hanno organizzato i turni per dare un aiuto. Durante le ore della
mattina qualcuno delle famiglie delle compagne hanno badato ai bambini. Sono riusciti a rendere
noto il caso con l’aiuto di una televisione locale.
Anche i vicini, quelli dei palazzi, quelli che avevano sempre guardato con sospetto la gente
delle baracche, venuti a conoscenza della situazione, hanno fatto a gara per dare una mano non solo
con alimenti ma con quanto era necessario. Un’eccezionale dimostrazione di solidarietà.
Ecco, della bimba alla quale la miseria aveva tolto la fanciullezza, di quel che è stato fatto per
aiutarla, nessun telegiornale ha parlato, tutto si è ridotto ad una sterile notizia di poche righe nelle
ultime pagine di un giornale.
Ho chiesto ad un giornalista amico che viene a trovarci quando ha il giorno di riposo: “perché
della bontà non scrivete mai? Solo alla cattiveria date spazio? Furti, scippi, stupri, rapimenti,
pedofilia, massacri anche domestici come quello di Novi Ligure. Ogni telegiornale ci propina
ammazzamenti da tutte le parti e di ogni genere. Corpi stesi per terra in una pozza di sangue
ipocritamente coperti con un lenzuolo sul quale i globuli rossi la fanno da padroni, dal quale
fuoriescono ben visibili piedi con scarpe o senza, qualche volta uno con e l’altro senza, fori di
proiettili dappertutto. Cerchietti tracciati con il gessetto bianco sull’asfalto ed in prossimità cartelli
con lettere maiuscole o numeri che non ho mai capito cosa vogliono dire.
Eppure ci sono tante persone per bene, tanti giovani che preferiscono per esempio il Piccolo
Rifugio alla strada, alle discoteche, ai pub.
Gli adulti che conducono una vita onesta sono molto più numerosi di quelli che delinquono.
L’onestà non dovrebbe essere illustrata come un eccezione ma come una regola. Mi pare normale
che uno sia onesto, l’anormalità semmai consiste nel non esserlo”.
Mi ha risposto con franchezza: “Pino hai ragione, però i giornali vengono stampati per essere
venduti e la bontà fa poco mercato, la cattiveria tira che è una bellezza. Quando succede qualcosa
di grosso, di sanguinoso o di vergognoso, i quotidiani vanno a ruba. La cronaca della bontà ha
successo solo se accompagnata della cattiveria. Per esempio se un titolo dice «Salva il padre
proteggendolo» a comprare il giornale non saranno molti, se invece si esprime così «Sparatoria in
un negozio, salva il padre facendogli da scudo – ventenne raggiunto da un proiettile al torace versa
in gravissime condizioni – ricoverato in ospedale in sala di rianimazione – nessuna traccia dei
criminali» davanti all’edicola si forma la fila”. Non ha tutti i torti, la gente è fatta così, vuole le
grandi emozioni anche se ovviamente condanna il delitto.
Qualcuno sostiene che è attratta più dalla cattiveria che dalla bontà. Credo, invece, che la bontà
venga considerata la normalità, le opere di bene un atto dovuto, mentre la cattiveria è l’eccezione e
bisogna conoscerne i connotati per individuarla e combatterla. Insomma come per l’onestà, la bontà
è la regola,la cattiveria è l’eccezione; all’eccezione bisogna stare attenti per prevenirla e,
possibilmente, evitarla.
Percorrendo la strada in macchina avete mai visto un cartello con scritto “Curva facile”? mai!
Sempre “Curva pericolosa” o “Caduta massi”. Avete mai letto “Nessun pericolo per la vita” Nooh!
Sempre “Pericolo di morte”.
Sulla confezione di un medicinale avete mai letto: “State tranquilli, non ha effetti collaterali, va
perfettamente d’accordo con il fegato e con i reni, non fa mele a niente, fa solo bene, le dosi
giornaliere sono prescritte solo per rendere costante l’efficacia. Non crea assolutamente
assuefazione, potete continuare a prenderlo fino a quando volete”?
Le case farmaceutiche indorano la pillola con un avviso a caratteri microscopici sulla
confezione: “Si tratta di un medicinale, leggere attentamente l’istruzione nel foglietto interno” che
equivale a “State attenti, non vi fidate troppo” e nel foglietto, sempre con caratteri da lente:
“Composizione – Categoria terapeutica – Indicazioni – Controindicazioni (queste descritte con
tutta una serie di termini tecnici inaccessibili ad un povero mortale N.d.A.) – Precauzioni d’impiego
– Interazioni – Avvertenze speciali – Dose, modo e tempo di somministrazione – Sovradosaggio –
effetti indesiderati – Modalità di conservazione e scadenza – Data dell’ultima revisione del
foglietto illustrativo – I medicinali non vanno tenuti a portata di mano dei bambini” . Se ce la fate a
leggerlo tutto,previo indispensabile uso, a prescindere dall’età, di una lente o, meglio, di un
microscopio, arrivate alla conclusione che conviene tenersi il male.
Voglio dire che conoscere il male non vuol dire condividerlo ma sapere come è fatto per
affrontarlo, combatterlo e vincerlo. Spero proprio che sia così, posso anche sbagliarmi, ma sono
convinto che sia così. La gente non preferisce il male, non ho mai visto qualcuno gioire di fronte ad
immagini cruente o mentre legge la cronaca di fatti di sangue. L’ho visto invece rabbrividire,
condannare, chiedere pene severe fino a quella capitale particolarmente quando si tratta di delitti
efferati nei confronti di persone indifese come bambini e vecchi.
C’è anche chi fa il bene per sentirsi dir “Bravo” e non si rende conto che, trasformando in
esibizione un atto di bontà finisce per danneggiare se stesso e per sottrarre valore a quanto ha
compiuto.
Lui ci ha detto che il bene non può far pretendere una risposta terrena. Il bene quando si fa si
deve subito dimenticare.
Chi esige la riconoscenza in questo mondo sbaglia tutto. Del resto, Lui non lo ha solo detto, lo
ha praticamente dimostrato: dopo aver fatto del bene a tutti con le parole ed i fatti hanno preferito
Barabba.
Quando ha “distribuito” la redenzione non ha fatto distinzioni, l’ha concessa all’umanità intera
compresi quelli che gridavano “Crocifiggilo”.
Ci ha anche detto: “guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per
essere da loro ammirati altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli”. Ci
ha dettato la formula dell’amore ricordandoci che siamo tutti fratelli perché figli di Dio. Boia della
miseria! A che serve pregare se poi ci rintaniamo nei nostri egoismi ritenendo che il mondo sia
circoscritto alla nostra persona?
Riferendomi al mio “inconveniente” qualche volta mi sono chiesto: “Perché?”.
Mi pare legittimo no! Voi che avreste fatto? Mi rendo conto però che la domanda è stupida e
non ha senso se analizzato bene lo stato delle cose.
E allora? Lui come è stato trattato? C’era proprio bisogno che facesse quella fine non solo
dolorosa e lenta ma vergognosa? Non avrebbe potuto escogitare un altro mezzo per salvarci? Se
proprio doveva morire per la nostra salvezza poteva scegliere un altro mezzo, per esempio
l’impiccagione, celere, quasi indolore.
Ci ha insegnato, fra l’altro, che dal dolore nasce a gioia, come il sole dalla notte, il sereno dalla
tempesta.
Se ci pensiamo bene noi siamo creature privilegiate, apparteniamo ad una specie diversa dalle
altre. Io, ad esempio, sono diverso non solo dai miei simili (non mi riferisco alla disabilità) ma dai
bovini, dagli scoiattoli, dai cavalli, dalle lepri, dagli uccelli, dai pesci, dalle lumache, dai topi, dai
rettili ecc.ecc., anche loro sono stati creati ma noi siamo il Suo capolavoro.
Ecco mi trovo qui in questa stanza mentre i miei amici dormono, qualcuno sussurra parole
incomprensibili: chissà che cavolo di sogno sta facendo.
Qualche altro, ogni tanto, produce rumori, per fortuna non molto frequenti, la cui qualità e
provenienza non richiede indagini.
Non mi sento solo eppure lo sono. Di tutti noi nessuno è più solo di me. Ve l’ho detto, lo ripeto:
“non ho parenti stretti o lontani, non ho proprio nessuno”. Sia ben chiaro, mi riferisco allo stato di
famiglia, cioè all’anagrafe perché gli amici non mancano. Certo! Il sabato e la domenica sono
l’unico a non attendere visite di cari, anche se per qualcuno di noi l’attesa si rivela vana perché i
“cari” lo hanno dimenticato.
A Natale ed a Pasqua i colleghi vanno alle case dei parenti che li ricordano ancora, io le grandi
festività non le ho mai trascorse da solo nel Piccolo Rifugio, è venuto sempre qualcuno a prendermi
e che accoglienze, che pranzi! Il 25 dicembre non è mai mancato il dono per Pino sotto un albero di
Natale, neanche l’uovo con la sorpresa a Pasqua. Sto riflettendo: e se questa gente buona, tutti
questi amici fossero “i miei cari”?
Ogni tanto prego pensando a mamma e papà con gioia però, non con tristezza. La preghiera è
importante purché però non si soltanto un rituale vocalizzo, una fiera di parole, una esibizione.
Lui ha detto: “Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti
nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno
già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando preghi, entra nella tua camera e chiusa la porta,
prega il Padre tuo in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà”.
Non ho una stanza mia ma questo vuol dire poco perché me la costruisco con la mente mi isolo
dentro quattro mura immaginarie e dico quel che devo dire a Lui che oltre ad essere il mio Signore è
un amico.
Di giorno, quando il tempo è buono, vado fuori nel nostro prato, mi fermo da una parte e Gli
parlo, senza tante cerimonie, come si dice? Alla pari. Poche parole non c’è bisogno di farla tanto
lunga, del resto Lui stesso ce lo ha raccomandato: “Pregando poi non sprecate parole come i
pagani i quali credono di venir ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il
Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che glie le chiediate”.
A proposito delle preghiere, sento la necessità di fare considerazioni che potranno sorprendere i
bigotti, è parecchio tempo che penso di esternarle, non mi sono mai deciso eppure ritengo che non
ci sia niente di male, ho la grazia della fede, sono un cattolico praticante, alcuni conti però non mi
tornano: per esempio quando il sacerdote durante la Messa si rivolge a Lui così: “ricordati dei tuoi
fedeli, della tua Chiesa, ricordati..ricordati..ricordati”. come se Gesù dovesse fare il nodo al
fazzoletto per non dimenticare, come se fosse in tutt’altre faccende affaccendato, sbadato, distratto
chissà da che.
Mi rendo conto che si tratta di un modo di dire ma noon ci si rivolge ad uno qualunque che ha
bisogno che gli si rinfreschi la memoria! Qui si tratta del figlio di Dio! Sinceramente se fossi Gesù
m’incavolerei. E che sono tutti questi svegliarini! L’ho detta grossa? Non lo so. Mi pare però che
sia proprio così.
La prossima settimana andremo a Lourdes; saremo in tanti su un treno generoso non solo perché
ospita noi ma, molto educatamente, dà la precedenza a tutti quelli con passeggeri di giornata non
esclusi i “merci”. Il viaggio è lungo ma , obiettivamente, il tempo passa che è una bellezza.
Nella cittadina che fu il villaggio di Bernadette (Marie Bernarde Suobirous) ci incontriamo un
po’ tutti delle diverse parti d’Italia, d’Europa, del mondo con appuntamento alla grotta di
Massabielle dove la Madonna è apparsa diciotto volte alla fanciulla.
Ogni viaggio mi sembra il primo. Siamo numerosi più di quel che si possa immaginare. In Italia
il popolo dei disabili è in notevole aumento, non so come stiano le cose negli altri Paesi, da noi
l’aumento del numero dei disabili non è dovuto soltanto a “difetti di nascita” come una volta.
Quando alla televisione danno la notizia di gravi incidenti stradali, i morti , va beh, non ci sono più,
ma dei feriti una buona parte è destinata alla carrozzina per il resto della vita, ed entrano a far parte
della nostra famiglia. Ancora non è stato trovato un rimedio per le lesioni alla spina dorsale.
Potrmmo anche fondare un partito, ce ne sono così tanti che uno più uno meno quasi non si
avverte. Per il simbolo non c’è bisogno di lambiccarci il cervello, va benissimo il disegno della
carrozzina alla condizione che non sia troppo serioso, con bei colori vivaci, psichedelici in modo da
attrarre il maggior numero di elettori.
A proposito di psichedelico non sapevo che vuol dire “rivelatore dell’anima”. Il temine è satto
coniato dallo psichiatra canadese Humphry Osmond nel 1957 traendolo dal greco antico. È infatti
composto da “psiché” che vuol dire anima e “deloo” che vuol dire manifestare, rivelare. Il nostro
sarebbe così non solo il partito della carrozzina, ma di quelli che manifestano l’anima. Ve lo
immaginate lo slogan “Vota per chi rivela l’anima” ; eccezionale nooh? Sarebbe una vera novità,
una bomba!
Però la carrozzina non dovrebbe esser sola bisognerebbe farci sedere qualcuno. Io ci metterei
Pinocchio, si proprio lui, il burattino di Collodi in versione legno. Sorridente, allegro, con il naso
non troppo lungo, con quella forma ma di normale dimensione.
Del resto anche Pinocchio ha avuto problemi con le gambe quando si è addormentato vicino al
braciere e se Geppetto non avesse provveduto a costruirgliene un paio nuove sarebbero stati dolori,
la carrozzina non gliel’avrebbe tolta nessuno.
Oltre tutto sarebbe anche di buon auspicio chissà che, con il passare del tempo ed il progresso
tecnologico non venga fuori qualche Geppetto che inventi qualche aggeggio per farci camminare
bene?
Quindi lista di Pinocchio e carrozzina o carrozzina con Pinocchio per i rivelatori dell’anima. In
quanto a serietà nulla da rimproverarci, alcuni hanno scelto l’asinello, altri l’elefante, ci sono poi i
garofani, le rose, la quercia, l’edera, la margherita, il girasole, la vela, il tricolore, lo scudo
crociato,più o meno accennato, eredità della frantumazione di un partito fatto scomparire un po’
dagli eventi ma anche da colore che vi stavano dentro e che da anni manovravano per alleanza
spurie pur di gestire il potere.
Vi è stata anche la proposta del trifoglio, ci stiamo così avvicinando all’erba medica, d’altra
parte bisogna pur provvedere ad alimentare il bestiame, specialmente dopo che hanno fatto
impazzire la mucca trasformandola da erbivora in carnivora.
Noi con Pinocchio nel simbolo saremmo i più seri, a Pinocchio nessuno potrà dire bugiardo,
sarebbe un assurdo, se dice qualche bugia ci pensa il naso a denunciarla. Gli altri a bugie abbondano
ma non hanno i nasi che si allungano, possono sparare grosse balle tanto nessuno se ne accorge. Le
diconop con una tale disinvoltura che finiscono per crederci anche loro.
Mentre sto scrivendo “infuria” la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento. Oddio! Sul
termine rinnovo ho qualche dubbio, qualche riserva: vi pare che sia in corso qualche rinnovamento?
Non ritenete che tornino alla ribalta troppe cariatidi? Infuria, invece è appropriato perché è tutta una
leticata!
I teleschermi ci riempiono di chiacchiere: insulti, offese, minacce, querele, dichiarazioni,
smentite: “Tu hai detto questo”, “No io non l’ho detto siete voi che me lo fate dire, che travisate
tutto per ragioni elettorali. È vero quella frase l’ho pronunciata ma il suo significato era un altro”
e giù a dare spiegazioni, giorno dopo giorno rompendo le palle alla gente per bene all’ora di pranzo
o di cena.
“dovete smetterla di avercela con i giudici, chi compie il proprio dovere non può essere oggetto
delle vostre insinuazioni”, “ noi non ce l’abbiamo con i giudici seri, ce l’abbiamo con i pubblici
ministeri che usano la toga per fare politica, con quelli che scoprono i reati solo in alcuni partiti,
che usano la giustizia come una gomma americana, allungandola e accorciandola a proprio
piacimento”.
E questo tutti i giorni dall’alba al tramonto, soprattutto a pranzo o a cena. Per la verità
incominciano dalla prima colazione a rompere i ciglioni.
Dice, ma perché non spegni il televisore? Eh no perché qualche notizia che riguarda la gente
dovranno pur darla anche se , specialmente quelle relative alle nostre tasche si differenziano con la
diversità d’orientamento politico delle emittenti.
Prendiamo, ad esempio, l’inflazione. La Rai ti dice: “Ad aprile l’inflazione è aumentata ma a
maggio calerà nuovamente e tornerà nella norma. L’aumento è dovuto, soprattutto, alle spese
pasquali (come se l’anno scorso la Pasqua non ci fosse stata), all’aumento dei carburanti ed
all’imprevisto, eccessivo aumento delle polizze d’assicurazione auto (ma, gran figli di puttana, , la
benzina e le polizze d’assicurazione siamo stati , forse, noi ad aumentarle)”.
E Mediaset: “preoccupante aumento dell’inflazione che ha superato quella programmata dal
governo, i sindacati si apprestano a chiedere adeguamenti salariali, il potere di acquisto delle
famiglie sempre più basso”. Il tutto documentato da dichiarazioni di economisti, da interviste alla
gente per strada, dalle incazzate risposte delle massaie nei mercati rionali, particolarmente fiorite
quelle delle donne e degli uomini romani che ad “a li mortacci vostri” non risparmiano niente.
Ogni politico, nei discorsi davanti alle telecamere, parla della difesa della famiglia. Messo così
il soliloquio non fa una grinza, a parlarne però sono anche quelli che con la famiglia non hanno le
carte in regola: separati, divorziati, concubini, concubine.
Lo fanno senza minimamente preoccuparsi della loro posizione come dire? Irregolare. Con una
faccia tosta da premio Nobel per la spudorataggine. È vero che la difesa della famiglia fa voti, ma la
gente non è mica allocca!
Tutti sono d’accordo con il Papa. Non ci sono più miscredenti. L’ateismo è scomparso, il
marxismo pure, figuriamoci l’anticlericalismo! A gridare “Viva il Papa” non sono più solo quelli di
Piazza San Pietro alla recitazione dell’Angelus, le segreterie dei partiti, tranne qualche rara
eccezione, si sono trasformate in Piazze San Pietro.
Quando sanno che Giovanni Paolo II sta per dire qualcosa pubblicamente, s’inchiodano alla
Radio Vaticana facendo uso dell’auricolare, anche se sono in aula o impegnati in riunioni, per poi
correre ad intasare i telefoni per rilasciare ammirate dichiarazioni di consenso, raccomandandosi al
giornalista amico per un buon rilievo in una buona pagina o in un telegiornale.
Quanta ipocrisia!
Se potessero a posto della cravatta metterebbero il Pallio.
Karol Woityla ha oscurato l’immagine di Giovanni XXIII. Si perché allora Papa Roncalli era
considerato un amico dai comunisti e gli anticomunisti, soprattutto i cattolici praticanti, storcevano
la bocca anche quando recitavano il Padre Nostro.
Perché? Di comunisti, salvo qualche eccezione, oggi non ne trovi uno nemmeno a pagarlo oro,
di anticomunisti ce ne sono ancora molti, anche troppi, convinti o solo per far piacere al capo e sono
d’accordo con questo Papa che ce l’aveva con la falce ed il martello, oltre che per ragioni di fede,
per le persecuzioni della Chiesa, soprattutto quella cattolica. Un tempo, molti secoli fa, fu
inaugurato il nepotismo, politica adottata da alcuni Papi per favorire la propria famiglia. Nacque
così la figura del cardinal-nepote. Pio V per primo, nel 1567 ne vietò la pratica che, tuttavia, i
successori riedificarono sia pure in dimensioni ridotte.
Campione del nepotismo fu Alessandro VI , Papa Borgia. Alcuni coraggiosi cattolici, come il
frate domenicano Girolamo Savonarola, lo condannarono non con mormorii ma a voce alta, nelle
chiese e nelle piazze, pagando con la vita la difesa della fede.
Il nepotismo dunque, ormai da secoli non c’è più.
È stato riesumato dai politici nostrani, quelli cosiddetti di razza, magari un po’ raggrinzita, che
ritengono di avere un nome.
In questa ricorrenza elettorale: mogli, figli, generi, nipoti, probabilmente amanti, mariti delle
amanti; dice: le amanti va bene ma i loro mariti che c’entrano? C’entrano, c’entrano! Intanto per un
controllo sugli spostamenti del coniuge cornuto, poi perché l’onorevole fedifrago risparmia,
capirete bene che con due indennità parlamentari con annessi e connessi, l’onorevole fedifrago non
ha bisogno di metter mano al portafoglio, insomma l’adulterio lo paghiamo noi.
Ebbene! Tutti questi candidati in collegi sicuri. Capito? Collegi sicuri!
Che vuol dire collegio sicuro?
Il collegio elettorale, come noto, è una zona geografica dove il candidato deve ottenere con i
voti il consenso necessario per essere eletto alla Camera o al Senato. I candidati però dovrebbero
essere almeno uno per ogni partito.
Stando così le cose, come si può dare per scontato che un collegio è sicuro?
Ci può essere qualcosa di sicuro in politica?
Conoscono già il risultato? E come è possibile?
Sanno già come voteranno i cittadini elettori? Saranno in loro compagnia nella cabina al
momento di esprimersi con un segno sulla scheda?
È chiaro! Fanno affidamento sulla tradizionale fedeltà.
E se la gente, finalmente, si fosse rotta i ciglioni e desse uno scapaccione a questo vero e proprio
malcostume? Sarebbe ora!
Rampolli di nomi antichi vengono alla ribalta e lo fanno con una disinvoltura da peripatetici.
Anche qualche residuato di guerra, immemore del calendario, vuol riproporsi e, probabilmente,
in qualche comizio parlerà di rinnovamento.
In tutto questo bekl casino i problemi della gente, quelli veri, di tutti i giorni, sembrano non
esistere, relegati agli ultimi posti. Ora stanno tirando un po’ troppo la corda.
Un mio carissimo amico che di politica se ne intende avendola attivamente praticata con buoni
risultati, ha osservato, durante una conversazione, che se l’Italia non facesse parte dell’Unione
Europea, sarebbero maturi i tempi per qualche colpo di mano che mettesse un po’ d’ordine.
Speriamo che l’Unione ci pensi comunque, magari mandandoli dietro la lavagna.
I partiti rischiano di superare per numero le costellazioni, basta dare uno sguardo all’elenco di
quelli esistenti: si moltiplicano in progressione esponenziale. Che bel Paese siamo! Sono state
varate leggi per frenarne la frammentazione e invece crescono in quantità che è una bellezza, quasi
per “fungazione”, ogni giorno uno, qualche volta anche due.
Ora non li chiamiamo più partiti ma “soggetti politici” e ringraziamo Dio che hanno usato la
lingua italiana.
Avete notato che la previdenza, l’assistenza, lo Stato sociale, non si chiamano più come una
volta ma “welfare”?
Si celebra il “crime day” giorno del crimine, “security day” giorno della sicurezza, al quale ha
fatto seguito per completare l’opera la “security night” notte della sicurezza, naturalmente non
poteva mancare il “referendum day” giorno del referendum; sull’”election day” giorno delle
elezioni per celebrare insieme elezioni politiche ed amministrative si è discusso molto tra
maggioranza ed opposizione, “clacson day” giorno della sonata delle trombe d’auto (per protestare).
Chissà se riusciremo ad avere anche un “perambulator day” cioè giorno della carrozzina?
Insomma se non sai una parola d’inglese, anzi d’americano, sei fregato.
Prima almeno c’era l’americano ed il russo. Il mì povero nonno, pescatore solitario con una
piccola barca a remi (gozzo), comunista sfegatato, era stato in Unione Sovietica, con
un’organizzazione proletaria organizzata dal partito. Tornò tutto contento non solo per aver visitato
il Pase dei lavoratori al Governo, ma per aver imparato qualche parola in russo: per esempio
“tovarisc” per dire “compagno”, “spasibo” per dire “grazie”, “Partna” per dire partito, “rinbak” per
dire “pescatore”.
La mattina dopo il ritorno andò al lavoro e si rivolse così ai colleghi: “Dobrie judro tovarisc
rinbak” alzando il braccio con la manoo chiusa a pugno ( il pugno chiuso era il simbolico saluto dei
comunisti di ieri, a quelli d’oggi bisogna stare attenti che per non far ricordare il loro passato
l’aprano troppo). Lo hanno guardato con curiosità lui si è messo a spiegare di cosa si trattava.
Quella mattina i pesci sono stati tranquilli perché il nonno aveva tante cose da raccontare.
Aveva visto Mosca e Leningrado, il Cremino e l’Ermitage. Erano stati acclamati in una
fabbrica. All’università gli studenti li avevano accolti con entusiasmo ed avevano risposto a tutte le
loro domande. Erano figli di contadini e di operai. Aveva anche mangiato il caviale in una cena
offerta dal sindacato unico ed aveva colto l’occasione per chiedere se esistevano pescatori singoli.
Gli avevano risposto di si, però associati in cooperativa, regolarmente stipendiati, con casa,
telefono e televisore, riscaldamento e ferie pagate nei posti di villeggiatura organizzati dal
sindacato. Lo ascoltavano con un’attenzione impressionante , non smettevano mai di fare domande.
Non mancò la descrizione dell’aeroplano con la bandiera rossa e la falce ed il martello effigiati sulla
coda.
Era entusiasta! Prima o poi anche in Italia avrebbero fatto la rivoluzione e sarebbero finiti
privilegi e povertà, finalmente tutti uguali sotto la protezione vigile del Partito.
Sempre in riferimento alla politica italiana, avete notato che dinamica di spostamenti fra gli
appartenenti ai vari “soggetti politici”? chi va di qua, chi di la, chi a destra, chi a sinistra, chi a
mezza destra, chi a mezza sinistra, chi a tutta destra, chi a tutta sinistra.
Uno afferma che è di destra e sembra di sinistra, quello di sinistra sembra di destra. Insomma è
un bel casino: tutti sembrano!
Troppi dimenticano di aver ricevuto il voto su questa o quella lista. Ogni tanto si sviluppa una
specie di calcio-mercato, con la differenza che quelli segnano i gol, questi non fanno un cazzo. La
destra e la sinistra non accettano la solitudine, vogliono sempre accoppiarsi con il centro. Non me
ne intendo ma una domanda mi scappa di farla, eh! Amici miei qui non si scappa: se il centro sta al
centro deve essere equidistante… o no? I centri che stanno con una parte che cavolo di centri sono?
Dovrebbero stare al centro punto e basta. Avete mai visto in un bersaglio del tirassegno, un centro
un po’ più di qua o un po’ più di la anziché distante in identica misura, da ogni parte della
circonferenza?
Chissà perché gli spostamenti sono sempre orizzontali e mai verticali? Parliamoci chiaro, la
verticale prevede un “giu” e un “su”. Giu non ci vuole mai stare nessuno, tutti si sentono destinati al
“su” e lo rivendicano a voce alta. La consistenza delle forze politiche non conta, è l’indispensabilità
che vale! In pratica la possibilità di esercitare il ricatto.
Ripeto: è proprio un bel casino! Sono convinto che se fosse varata una legge per moltiplicare i
partiti, data la nostra bizzarria ed il profondo gusto per il contrario, si ridurrebbero subito fino ad
arrivare a due. Di meno no, per l’amor di Dio! Uno solo potrà anche essere più ordinato, però è
troppo pericoloso.
Ecco, questi sono i miei pensieri notturni, frutti della mia veglia involontaria. Però! Non mi pare
che siano del tutto sballati.
MARANO DEI GIUSTI
“Ero stordito, commosso, meravigliato.
Che cosa stava succedendo? Tutte
quelle persone per bene, le autorità, la
musica, il commento su quel mio
modesto
lavoro.
Mi
sembrava
impossibile. È vero: Marano Equo è un
piccolo paese con un cuore immenso! ”.
Tutto avrei potuto immaginare meno che ad una serata a me dedicata nel paese natio di mia
madre, con manifesti, inviti. E la presenza di autorità civili e religiose.
La festa della “Madonna della Quercia” citata anche dall’enciclopedia Universale RizzoliLarousse volume IX (1969), è stata l’occasione per una cerimonia che è poco definire commovente.
SENZA DI LUI NON C’E’ SPERANZA
“…non è che una mattina mi sono svegliato e
ho convenuto con me stesso: “Ora lo sai che
faccio? mi metto ad avere dubbi sulla fede
“Nooh!! Il dubbio è arrivato con un cesto
pieno d’interrogativi e ha cominciato ad
occuparsi di me, ha preso dal paniere un
interrogativo per volta e me lo ha consegnato
a scadenze precise, non ho potuto rifiutarli!
Me li sono tenuti ed ora sono qui in attesa di
qualche chiarimento”.
Vi sono dei momenti di sconforto tremendi! Momenti nei quali ti poni un’infinità d’interrogativi
e non riesci ad avere risposte. La vita è una lotta per tutti, anche per i più sani, anche per i più
fortunati, per noi c’è qualche difficoltà in più. Il futuro nessuno lo può prevedere, l’imponderabile è
dietro l’angolo in ogni momento di giorno e di notte.
Ogni progetto può essere buono ma la sua realizzazione è sempre incerta. Nulla vi è di scontato.
Tutto è sempre probabile. Nessuno può sapere quel che succederà domani.
Ci ha raccontato un amico che la figlia di un nostro benefattore ha perso il marito in circostanze
che è poco definire tragiche: Mario, così si chiamava il defunto, era uscito con la figlia quindicenne
dalla villa in Sardegna per fare una girata sul gommone alla ricerca di un’insenatura, dove la
solitudine è canto di pace. La figlia, attaccatissima al padre, seduta a prua, lo guardava con
ammirazione mentre governava la veloce imbarcazione.
Un bell’uomo prossimo alla cinquantina, pieno d’interessi, amante della musica con una
particolare predilezione per il jazz, poliglotta, intelligentissimo, aveva il culto della famiglia.
Dirigeva una delle gallerie d’arte del suocero e n’aveva fatto, oltre al normale ambiente di
vendita delle opere di qualificatissimi autori, un cenacolo di cultura, riferimento di un mondo
intellettuale particolarmente vivo nella città dell’arena, seguendo così la tradizione della famiglia del
suocero mecenate per discendenza oltre che editore.
Improvvisamente il gommone si è messo a fare le bizze, girava su se stesso e Mario non faceva
nulla per rimetterlo in sesto, se ne stava lì senza mollare la barra del fuoribordo. La figlia credeva
che scherzasse, come qualche volta aveva fatto per divertirla.
Dopo qualche grido di gioia, siccome il gioco stava durando troppo, si è avvicinata al padre per
indurlo a smetterla ma non rispondeva, lo ha scosso ma è scivolato sul fondo dell’imbarcazione. Un
infarto lo aveva stroncato, la quindicenne è riuscita a fermare il motore, è rimasta con il padre morto
per oltre tre ore, fino a quando non sono arrivati i soccorsi ed hanno portato il natante a riva.
Abbiamo scritto alla vedova per dirle parole buone che potessero consolarla. Ci ha risposto. La
lettera è stata letta mentre eravamo a tavola. Veramente commovente. Povera donna! E’ proprio
vero, sul futuro non abbiamo alcun potere. Anche questo fatto mi ha indotto a riflettere. Mi sembra
troppo crudele!
Dove vivo, nel Piccolo Rifugio, non mi manca niente e non mi riferisco solo all’aspetto materiale
ma a quello affettivo di tutti coloro che provvedono alle nostre necessità fisiche e morali, con gli altri
disabili i rapporti sono buoni: ogni tanto una divergenza, qualche litigata ma poi tutto torna a posto
come nelle buone famiglie.
Gli amici che vengono a trovarci, frequentemente, si fanno in quattro per vivere con noi momenti
di distrazione non solo frivola ma anche d’impegno culturale.
Mia madre mi ha insegnato a pregare quando ho cominciato a capire, lei mi ha fatto conoscere
Gesù e Maria, con lei ho recitato il primo rosario ma se n’è andata troppo presto, i rosari sono stati
troppo pochi.
Mio padre era credente non praticante, pregava, però, prima di andare a letto ed appena alzato;
non l’ ho mai sentito bestemmiare.
Qualche volta ho pensato che quando uno è come me, disabile, inchiodato su una carrozzina a
rotelle per tutta la vita, senza la speranza di fare quattro passi con le proprie gambe, dipendente da
tutto e da tutti anche per la più banale necessità, sarebbe meglio se non capisse niente, si, se fosse
totalmente scemo in modo da non rendersi conto della propria condizione. Ci sono pazzi che si
credono personaggi famosi e li vivono, se la pazzia si manifestasse nella convinzione di star bene
probabilmente non sarebbe un male.
Ogni tanto chiedo a Gesù: “Perché proprio a me? Non solo ma perché sono rimasto
completamente solo, senza un parente, senza un barlume di familiare cui fare riferimento qualche
volta, senza vivere l’attesa di una visita cara? Non bastava la disabilità?”
Dovevo proprio essere privato dei genitori così presto? Almeno avessi avuto un fratello, una
sorella, probabilmente mi avrebbero dimenticato come succede a molti, ma avrei saputo che c’erano,
avrei potuto telefonare loro, forse avrei avuto dei nipoti, invece niente!
Mi sono incazzato! Non sono riuscito, sia pur per breve tempo, a farmene una ragione. Sono
entrato in crisi anche sulla fede e questo ha aggravato la situazione.
Ho pensato anche alla moglie di Mario ed alla figlia quindicenne.
Ma c’era proprio bisogno che tutto precipitasse a quella maniera sconvolgendo la vita di
un’intera famiglia?
Normalmente sono allegro, amo la vita, il titolo stesso di questo libro lo testimonia con la sua
ironia. La mia è stata una crisi seria, di quelle che lasciano il segno.
Ho chiesto spiegazioni al confessore, gli ho detto chiaro e tondo: “Che cavolo ho fatto di male al
Padreterno per essere trattato a questa maniera, lei mi sa dare una spiegazione?”. La risposta non me
l’ ha data ma ha cercato di confortarmi ricordandomi quanto ha sofferto Gesù con la flagellazione ed
il supplizio della croce.
E’ vero! Un amico che viene spesso a trovarci mi ha parlato di un suo approfondimento sulla
pena di croce per il quale sta facendo ricerche. Una cosa terribile difficilmente immaginabile, nel
comminare quella pena l’uomo esprime il massimo della propria malvagità, tira fuori tutto ciò che di
perverso si può annidare nel suo animo, è difficile, in questi casi, immaginare la sofferenza, credo
che vada oltre la punta più alta del dolore reso ancor più atroce dal marchio d’infamia che quel
supplizio rappresentava anche per i parenti del condannato.
Però, scusate eh! Gesù ha, liberamente, scelto di morire in croce per noi, per redimerci dai nostri
peccati, per amore dell’umanità. Lui ha voluto immolarsi con la pena più crudele e più infame. Se
proprio voleva morire per poi risorgere poteva anche scegliere una fine diversa nessuno glielo
avrebbe potuto impedire.
Io l’invalidità me la sono trovata addosso senza preavviso, ha aperto la porta senza bussare o
suonare il campanello, è entrata irrompendo con gli occhi di fuori e si è impossessata di me come se
ne avesse avuto diritto.
Non mi sono lontanamente sognato di sceglierla, fra l’altro, non sono stato messo nella
condizione di farlo e siccome non ho alcuna vocazione per il martirio, non vi sono dubbi che la mia
scelta sarebbe stata per la normalità con tanto di gambe funzionanti, parole ben pronunciate anche se
con qualche inflessione dialettale, un lavoro, un reddito, una moglie, dei figli.
Ho incominciato ad interrogarmi sulla fede. Mi sono posto tutta una serie di domande anche sulla
vita eterna.
Mi sono chiesto se è vero che finita questa ce n’è un’altra ed in quella potremo rifarci di tutto
quello che abbiamo sofferto in questa.
Perché, parliamoci chiaro, se così non dovesse essere sarebbe una bella fregatura! Insomma tutto
questo va accettato a scatola chiusa perché nessuno è mai tornato a dire come stanno le cose
dall’altra parte.
Speriamo bene?
L’unico a tornare è stato nostro Signore ma Lui non aveva bisogno di sapere come si sta, da lì era
venuto per un breve periodo di vita nel mondo degli uomini. E non è che quando, dopo la
resurrezione si è ripresentato ai discepoli rinchiusi in una casa, pieni di paura, in compagnia della
Madonna, si è messo a descrivere l’aldilà, ha parlato di ben altre cose.
Il dubbio nella fede è atroce anche perché non viaggia da solo, almeno per quanto mi riguarda, si
fa accompagnare dal senso del peccato, fa lavorare la colpa, insomma ti macera dentro. E’ peccato
avere di questi dubbi? Non lo so anche perché prima non mi era mai successo.
Anche qui non è che una mattina mi sono alzato e ho detto a me stesso: “ Ora lo sai che faccio?
Mi metto a dubitare sulla fede”. Noh! Il dubbio è arrivato con un cesto pieno d’interrogativi ed ha
incominciato ad occuparsi di me, ha preso dal paniere un interrogativo per volta e me lo ha
consegnato a scadenze precise, non ho potuto neanche rifiutarli!
Me li sono tenuti ed ora sono qui in attesa di qualche chiarimento. Se per uno si affacciava la
possibilità di una risposta subito se ne faceva sotto un altro.
Un sacerdote mi ha detto che non è peccato, mi ha ricordato che quando Tommaso non ha
creduto, Gesù non se l’è presa, gli ha fatto toccare con mano la ferita nel costato dopo la
resurrezione e quando l’apostolo, sorpreso, si è pentito è crollato in ginocchio per chiedere perdono
della propria incredulità, Gesù lo ha dolcemente rimproverato poiché per credere aveva avuto
bisogno della prova. E Tommaso è Santo!
Questo mi ha un po’ consolato: speriamo che sia così anche per l’aldilà.
Vi dico francamente che quando ho avuto i dubbi e mi sono allontanato dalla fede non sono stato
bene, anche perché non serviva proprio a niente, non è che avevo una fede di ricambio, persa quella
non ce n’erano altre.
Sono andato a rileggermi alcuni brani di “Essere cristiani” del teologo svizzero Hans Küng,
nella speranza di un po’ di consolazione e di un aiuto a trovare la via per uscire dall’imbuto.
Avevo letto quel testo, interessantissimo, con l’aiuto di un sacerdote e di un giovane teologo
laico. Già la prima pagina si apre con un titolo “Per chi è scritto questo libro” ed inizia così:
“Questo libro è scritto per i tanti che con motivazioni diverse si vogliono sincerante e onestamente
informare sui contenuti autentici del cristianesimo, su ciò che propriamente significa essere
cristiani.
E’ anche scritto
per chi non crede e tuttavia ricerca seriamente
per chi ha creduto e oggi, senza fede, è insoddisfatto,
per chi crede, ma si sente incerto nella sua fede,
per chi oscilla tra fede e incredulità,
per chi dubita delle sue convinzioni, ma anche dei suoi dubbi.
E’ quindi un libro per cristiani e atei, gnostici e agnostici, pietisti e positivisti, cattolici tiepidi e
ferventi, protestanti e ortodossi”.
Una frase ha particolarmente richiamato la mia attenzione: “La fede cristiana è affidarsi e un
abbandonarsi assolutamente fiducioso dell’uomo intero con tutte le forze del suo spirito, al
messaggio cristiano e a colui che con esso viene annunciato: un atto del conoscere e
contemporaneamente del volere e del sentire, una fiducia che implica una propensione ad
ammettere l’esistenza di certe verità”.
Nell’imbuto sono rimasto ancora perché da tempo “mi ero abbandonato al messaggio cristiano”
ma ora ho l’impressione che sia stato il messaggio cristiano ad abbandonare me.
Eh cavolo! Ho accettato tutto con rassegnazione e gioia, aiutato appunto, dalla fede e ora anche
lei si mette a fare la furba? Anche lei vuole lasciarmi solo a vedermela con i miei problemi
esistenziali? E che modi sono!
A proposito di Santi, prendiamola un po’ più alla leggera con un racconto, come dire? Piuttosto
ameno. Di quelli che assegnano alla distrazione un preciso ruolo terapeutico.
Un certo Jacopo da Voragine ha scritto un libro su Santa Teodora Alessandrina la quale sarebbe
andata oltre il dubbio superandolo con un certo pragmatismi, adattando alle proprie, troppo
femminili esigenze una teologia fatta su misura ad opera di un’amica incantatrice.
Bella donna, vissuta ad Alessandria d’Egitto al tempo di Zenone (Zeno) imperatore, Teodora era
assai pia: tutta chiesa e piazza. Quando andava a messa la presenza maschile dei fedeli superava,
sensibilmente, la media, diciamo così normale. I sacerdoti non sapevano spiegarsi il fenomeno, non
riuscivano a capire a che cosa era dovuta tanta affluenza che, normalmente, si verificava, anche se
non in quelle dimensioni, solo in occasione delle feste patronali.
Quel che più sorprendeva il Priore era la presenza di uomini notoriamente atei, gente di cultura
che se ne fregava di Gesù e della Chiesa, Tutti lì, sulle panche, ordinati a seguire i sacri riti come se
fossero non solo credenti ma bigotti.
Quando passeggiava sulla piazza in compagnia del marito o di qualche damigella gli sguardi
maschili non conoscevano età.
Espansiva e generosa, con un marito timoroso di Dio e molto ricco, conduceva una vita riservata
dedicando ai salotti delle nobildonne il tempo strettamente necessario a mantenere corretti rapporti.
Insomma a Teodora non mancava nulla. Un suo innamorato, più bello e più ricco del marito, non
le dava pace con messaggi e doni. Mai un messaggio arrivava da solo, sempre accompagnato da
qualche dono.
La povera Teodora si consumava in segni di croce. Tutti parlavano della purezza di quella santa
donna e della felice sorte del fortunato marito. La tentazione era forte, Teodora era una donna intera,
non le mancava nulla, aveva tutto! Tanto tutto che faceva una gran fatica a mantenersi pura.
Il demonio lavorava a cottimo su di lei fino a quando una dama, pia quanto lei, come lei fedele al
marito, assolutamente credibile per la serietà certificata del comportamento, le assicurò che Dio non
vede i peccati che si consumano al buio.
Ascoltate come lo scrittore Luigi Malerba descrive il fatto in “Le Maschere” (A. Mondadori –
Milano 1995) dando la parola a Baldassarre, giovane diacono francescano , segretario del Cardinale
Cosimo Rolando Della Torre in lotta con il Cardinale Valerio Ottoboni per la carica di abbreviatore e
la poltrona di camerlengo. Baldassarre scopre il libro di Jacopo da Voragine nella biblioteca del
convento francescano di Via della Scrofa in Roma e lo legge tutto d’un fiato.
Così il giovane diacono si rivolge a Teodora : “Come sai ho per la tua persona, Santa Teodora,
un sentimento che cresce nel mio animo di notte in notte. Spero tanto che tu sia esistita veramente in
Alessandria, anche se poi, dopo averti fatta santa ti hanno perfidamente cancellato dal calendario
liturgico.
Eri bella e gentile, dice Jacopo da Voragine e io ti vedo e ti immagino con i capelli al vento e la
veste leggera, come è giusto per chi vive in Alessandria africana o nei cieli assolati del paradiso.
E come vorrei che fosse veritiera la voce della incantatrice che ti ha tratta in inganno dicendo:
ciò che si fa di giorno Dio sa e vede, ma quello che si commette dal vespro innanzi da che il sole è
tramontato Dio nol vede.
Sarebbe una grande gentilezza di nostro Signore Iddio lasciarci la notte libera per i nostri
peccati, perché l’uomo è debole e il peccato è uno sfogo necessario ai suoi sensi e alle sue passioni.
E così Teodora tu hai commesso adulterio di notte pensando che Dio non ti vedesse come aveva
fatto credere quella donna.
Ma senza quel peccato, dice ancora Jacopo da Voragine, e la lunga espiazione forse non saresti
diventata santa. Dunque ben venga quel peccato di adulterio…il Diavolo avendo invidia alla santità
di Teodora, decise di produrre questo adulterio.
Ma così santa non dovevi essere se appena hai la convinzione che Dio non ti vede, decidi di
tradire quell’onesto marito.
Io non voglio farti il processo, Teodora, ma la mia impressione è che eri santa di giorno e
puttana di notte…”.
In ogni modo incavolandomi con Gesù o con i Santi quale beneficio ne avrei tratto? Nessuno!
Non è che le cose sarebbero migliorate. In un certo qual modo, allontanandomi dalla fede, mi
privavo della speranza.
Comunque non ho abbandonato l’Eucarestia, ma questo ha peggiorato la situazione perché sono
stato ipocrita, l’ho fatto preoccupato di che cosa avrebbero pensato i miei compagni non vedendomi
prendere, come tutte le domeniche, la Particola. E questo è grave, non vi pare? Non tanto per la fede
quanto per il mio comportamento pusillanime.
Mi sono veramente vergognato, mi sono sentito, in un certo qual modo, un vigliacco, uno che
non ha il coraggio delle proprie azioni, che si comporta in una certa maniera solo per salvare le
apparenze.
Dico francamente di aver confidato al sacerdote questo stato d’animo denunciando anche l’atto
ipocrita che avevo compiuto. Però pensandoci bene, se avevo veramente perso la fede che cavolo ci
andavo a fare dal sacerdote?
Il confessore ha avuto parole buone, a parte il suo carattere di vero pastore, si rendeva conto del
mio travaglio testimoniato dal fatto stesso che sentivo il desiderio di andarmi a confessare.
Appunto! E’ vero! Ma probabilmente per me era più uno sfogo che una vera e propria
confessione, una conversazione per parlare dei miei problemi esistenziali, perché no? Psichici, ecco,
una specie di seduta di psicoanalisi o di psicoterapia, sostituendo il lettino o la poltrona con la
carrozzina in prossimità del sacerdote guardandolo in faccia, il confessionale costituisce, per noi, una
barriera architettonica. Ma se così stavano le cose perché al termine della seduta recitavo l’atto di
dolore? Credo che anche questa sia stata una bella ipocrisia. Va beh! Ora non mi voglio troppo
flagellare come avrei fatto a rifiutare l’atto di contrizione voluto dalle norme? Tutto sommato si
tratta di un rito.
Il sacerdote non si è dimostrato preoccupato, ha sempre sorriso, mi ha detto che anche i santi
qualche volta, hanno avuto dei dubbi, eccome! Che per il fatto stesso che ci stavo male voleva dire
che sentivo la mancanza della fede.
Mi ha ricordato che Gesù ha chiesto al Padre di allontanare da Lui il calice amaro della morte in
croce e, da crocifisso, ha gridato: “Perché mi hai abbandonato?” ma ha aggiunto subito: “Sia fatta
non solo la mia ma la tua volontà”.
Mi ha invitato a pregare, anche se non me la sentivo, anzi più avevo dubbi e più avrei dovuto
pregare, per combattere e vincere chi, invisibile, tentava di allontanarmi da Cristo.
Ho fatto tesoro del consiglio del confessore, sia pure con una certa difficoltà, stentavo ad iniziare
e, ad un certo punto, era come se qualcuno mi spingesse indietro per farmi smettere, come se una
voce mi dicesse: “Ma non perdere tempo, chi te lo fa fare, tanto non cambia niente. Risparmiati i
pater, ave e gloria, impiega meglio il tuo tempo. Reciti l’atto di dolore? Perché di dolori non ne hai
già avuti abbastanza?
Si ringrazialo pure il tuo Signore, guarda come ti ha ridotto.Paragonati con gli altri della tua
etiche possono correre, godersi la vita, salire e scendere da dove vogliono, andare al cinema, in
discoteca, al mare in montagna con la ragazza, in macchina a godere l’ebbrezza della velocità, a
fermarti vicino al mare che ti piace tanto in una zona dove non c’è nessuno e ti rendi conto che la
compagnia di una bella figliola rende più bello tutto, non solo il mare.
Invece di recitare le preghiere, di tritarti l’anima con il dubbio, sii concreto, guardati una
cassetta, di quelle a luci rosse.”
Probabilmente la voce interna che mi dava questi consigli aveva dimenticato che non stavo in
una casa mia, con una televisione mia, a vedermi tutto quel che avrei voluto vedere. Lì, giustamente,
potevo vedermi solo “La Piovra” e qualche altro video non troppo osè.
Quando tentavo di pregare provavo una sensazione strana, iniziavo con la ferma volontà di
andare avanti, con il passare del tempo mi accorgevo di pronunciare meccanicamente le parole,
come se non avessero significato, come se fossero rivolte a nessuno, uscivano dalla bocca
meccanicamente, come il fumo da una ciminiera.
Ricominciavo e mi succedeva la medesima cosa, per esempio ad un certo punto del Padre nostro,
pensavo a tutt’altro, però continuavo ad andare, regolarmente avanti, arrivato in fondo mi accorgevo
di non aver pregato, di aver solo pronunciato delle parole.
Allora ho provato a cambiare strategia, mi sono rivolto a Lui e gli ho detto “Almeno la grazia di
farmi pregare me la puoi fare. Eh, se mi neghi anche questo favore la rottura è inevitabile!”.
Ci mettevo la buona volontà, cercavo di concentrarmi, cercavo di immaginare le figure di Gesù e
della Madonna per avere un punto di riferimento, poi, improvvisamente, lo sganciamento e non me
n’accorgevo, andavo vanti, ripeto, come una raganella, ma non aveva senso fino a quando me ne
rendevo conto e ricominciavo.
Proprio una fatica di Sisifo figlio di Eolo dio dei venti, Re di Corinto, ma almeno Sisifo poteva
camminare e doveva anche avere dei buoni muscoli se è vero che, dalla mattina alla sera, era
costretto a spingere un gran masso lungo il pendio di un monte e quando aveva raggiunto la cima la
pietra ruzzolava nuovamente a valle e lui doveva ricominciare a portarla in vetta.
E poi! Se ci pensiamo bene, se l’era voluta perché a Giove capo degli dèi lo aveva fatto incazzare
alla brutta, glien’aveva combinate di tutti i colori mettendo in dubbio anche la sua potestà divina ma
io? A chi avevo fatto del male?
Un paio di volte ho dovuto smettere, me ne sono tornato, un po’ amareggiato, fra i miei amici e
compagni i quali mi vedevano piuttosto turbato e mi guardavano con una certa apprensione, mi
chiedevano se stavo poco bene ed io rispondevo con il solito “Non è niente passerà”. Certamente nn
potevano immaginare quale fosse il mio male e si fermavano lì.
Ho insistito, come faceva la mia povera mamma anche quando il cancro se la stava portando via
lentamente, anche a lei mi sono rivolto, l’ho sentita vicina come se un soffio mi avvolgesse. Sono
certo che mi ha aiutato.
Ora pregavo Gesù di restituirmi la fede, come se fosse stato Lui a privarmene, non chiedevo il
miracolo di togliermi dalla carrozzina ma quello di ridarmi la fede.
Alcuni amici mi hanno portato la rivista OGGI. Mi ha colpito il titolo di un servizio firmato da
Luciano Regolo: “Adesso anche i ciechi possono vedere i misteri della sindone – i non vedenti,
grazie ad una fedele riproduzione tridimensionale proveranno la stessa emozione di uno sguardo
alla reliquia - «L’impronta di due monete, le polemiche sul carbonio 14 e le misteriose scritte sul
drappo: ecco a che punto è la ricerca» dice il professor Nello Balossino”.
Ho appreso così che anche i ciechi possono vedere la sindone in mostra a Torino perché ne
hanno realizzato una copia fedelissima, con la precisione del computer, a rilievo, tridimensionale
tanto che, come dichiara il professor Balossino Docente del Dipartimento d’Informatica
dell’Università di Torino: “Verrà collocata nel percorso di visita, nel settore riservato ai non
vedenti. Per la prima volta potranno provare le stesse emozioni che avverte chiunque si trovi al
cospetto del telo sindonico. Al tatto, infatti, sentiranno persino le toppe e le bruciature presenti sul
lino. E’ infatti una riproduzione tridimensionale che non toglie e non aggiunge niente alle
informazioni che si ricavano dalla reliquia”.
La riproduzione d’alcune foto fanno immaginare come deve essere dal vero, praticamente il
corpo della sindone sporge come se fosse una scultura.
Certo che quella della sindone è un’immagine sconvolgente, si può pensare come si vuole, ma si
tratta di una reliquia, quanto meno, piena di misteri.
Il discorso sarebbe troppo lungo, gli scienziati anche dopo le ultime analisi, stanno discutendo.
Gli accertamenti con la più sofisticata tecnologia procedono, gli studiosi sono di diversa estrazione
religiosa e non sono pochi gli atei.
Scrive Regolo: “Eppure anche se risalisse solo al 1260, resterebbe irrisolto l’enigma di cui si
venne a conoscenza già nel 1898, quando l’avvocato Secondo Pia fotografò per la prima volta il telo
sindonico: l’immagine impressa sul tessuto si comporta come se fosse essa stessa una lastra
fotografica, ossia, una sorta di «negativo soprannaturale». Ma è impensabile che un uomo abbia
potuto applicare le tecniche della fotografia cinque o sei secoli prima che venisse inventata”.
Il professor Balossino sostiene che “La vera sfida scientifica resta tutt’ora da accertare come la
strana immagine dell’uomo sindonico si sia formata. Il professor Delfino Pesce docente di
Antropologia all’Università di Bari sostiene che la sindone sia un falso realizzato nel medioevo: un
«rilievo riscaldato» incandescente, sarebbe stato posto su un telo di lino, in modo da lasciare
l’impronta del corpo. Per rendere poi tutto più veritiero si sarebbe versato sopra sangue umano “a
chiazze”.
Il punto è, però, che sotto queste macchie non è visibile alcuna impronta, come invece dovrebbe
accadere se l’immagine fosse stata ottenuta con questo procedimento. E poi a parte i segni dei vari
incendi subiti dalla sindone, sul drappo non ci sono quelle tracce di bruciatura, tipiche in caso di
contatto tra un tessuto e un metallo rovente”.
Non conoscevo l’origine della parola “sindone”, l’ho chiesto al solito amico che mi aiuta in
questo lavoro ed ho appreso che il termine proviene dal greco sindos, sindonos che in lettere della
lingua originale si scrive σινδώς , σινδονός (la responsabilità del greco è del mio amico quindi se c’è
qualcosa di sbagliato io non c’entro niente. Per me l’alfabeto greco è come l’ostrogoto:
completamente sconosciuto).
Dunque la sindone, presso gli antichi ebrei, era il telo di lino usato per avvolgervi i cadaveri.
Anche il corpo di Gesù, dopo la morte per crocifissione, nel sepolcro nuovo di Giuseppe d’Arimatea,
fu avvolto nella sindone, secondo i Vangeli di Matteo, Marco, Luca.
Allora torniamo ai non vedenti per i quali è stata realizzata una sindone, fedelissima, in tre
dimensioni.
Ho pensato alla mia crisi sulla fede, agli interrogativi sulla mia condizione, ma se io vado a
Torino vedo l’immagine nella sindone e se ho fede, non m’interessa l’autenticità o meno, la sento
perché una cosa è certa: Gesù fu avvolto in un panno di lino prima della resurrezione, ad avvolgerlo,
dopo averlo cosparso di mirra e aloè, fu Giuseppe di Arimatea con l’aiuto di Nicodemo.
Il cieco potrà sentirla anche più di me, se ne potrà fare anche un’immagine migliore della mia,
ma non la vede.
Io vedo i colori dei fiori, del mare, del cielo, delle stelle, delle cose belle e di quelle brutte, il
cieco può soltanto immaginarle.
Io vedo i films, gli spettacoli televisivi, il cieco che fa, li immagina? Mi pare che ci sia una certa
differenza!
Il non vedente può camminare ma come? Ha bisogno di chi lo accompagna, di un bastone
abbastanza sottile da vibrare, verniciato di bianco e lungo per chiedere spazio alla gente per strada e
sentire gli ostacoli, o di un cane pastore tedesco per essere accompagnato, io con la mia carrozzina
elettrica posso andare dove voglio, barriere architettoniche permettendo, perché vedo la strada, le
curve, le buche insomma tutto quel che vede chi cammina con le proprie gambe.
Se una ragazza è bella, ha delle belle gambe, la vedo, se è racchia con le gambe storte pure, il
collega disabile non vedente o le immagina tutte belle o tutte brutte, credo che sia più probabile che
le immagini tutte belle, conviene noh! Anche perché, non vorrei essere indiscreto, ma certi rapporti,
tutto sommato, non si differenziano tra belle e brutte, anzi! Qualche volta dalle brutte si hanno
esaltanti sorprese. Importante è che non puzzi loro il fiato!
Forse se la percentuale di non vedenti fosse più alta ci sarebbero meno zitelle, mi auguro, però
che la percentuale si abbassi e, magari, la cecità scompaia.
Per le ragazze la chirurgia estetica ha fatto passi da gigante, le brutte non dovrebbero più esistere.
Gli interventi dovrebbero essere meno costosi o, perché no? a carico della mutua. Eh! Non può
essere considerato solo un fatto estetico. Qui c’è di mezzo il futuro di un mucchio di ragazze! Una
ragazza ricca ma brutta può diventar bella e bona. Una ragazza povera e brutta si deve tenere miseria
e bruttezza. Vi pare giusto? Non sarebbe il caso che intervenisse il Servizio Sanitario Nazionale? E’
un problema di giustizia… o no!
Non mi giudicate male, sono partito dalla crisi sulla fede e sono approdato alle zitelle, alle belle e
brutte, alla chirurgia estetica.
D’altra parte sono fatto così: una volta giù, una su, come le montagne russe. Questo è il mio
carattere: quando sto male sto male sul serio, quando sto bene esplodo in manifestazioni di gioia. Mi
auguro, solo, che siano più frequenti le seconde che le prime.
Però, a parte gli scherzi, la crisi che ho attraversato è stata tremenda ed è durata a lungo. Mi ha
perseguitato anche di notte, rendendo problematico quel poco di sonno che mi è concesso.
Sulla parete dove poggia la spalliera del mio letto ho l’effigie di mio padre e mia madre, ogni
tanto, quando nella camera non c’era nessuno, andavo a parlare con loro, chiedevo loro aiuto come
se fossero vivi.
Sentivo che l’allontanamento dalla fede era doloroso, poi guardavo loro due, nelle foto e
domandavo a Lui lassù: “Ma insomma c’era proprio bisogna di portarmeli via così presto? Se
fossero stati vivi sarei stato con loro come è avvenuto prima che morisse mamma. Invece no, via!
Tutti via! Io qui solo a pensarli nell’inutile speranza di vederli”.
Prima della crisi quando pregavo pensavo a loro, anche per loro pregavo, ora ci pensavo sì ma
era diverso, mi rivolgevo loro come se non fossero morti ma non li sentivo vicini come durante le
preghiere.
E poi i dubbi sull’aldilà mi laceravano l’animo: se la vita eterna non ci fosse stata avrei perso
anche la speranza di poterli rincontrare dopo la fine dell’esistenza terrena, e questo sarebbe stato
terribile! Vivevo di questa speranza!
Tutto quello in cui avevo creduto fino ad allora poteva non essere vero. Quando immaginavo di
parlare con mia madre e mio padre giocavo solo di fantasia perché non c’erano più, insomma
parlavo con nessuno, mi nutrivo d’illusioni.
Questo ho confidato ad un amico il quale dice di avere la grazia della fede. Si è intrattenuto sui
miei dubbi che spesso sono stati anche suoi. Lui è convinto dell’aldilà e cerca di darne una
spiegazione, a parer mio, piuttosto fragile.
Secondo lui Dio non può limitare la vita delle Sue creature alla breve permanenza sulla terra
perché l’uomo è un monumento alla grandezza della creazione che non può finire con la morte.
L’anima non ha niente a che vedere con il calendario terreno.
Dopo aver premesso che la fede non ha bisogno di prove e che proprio la ricerca affannosa delle
prove finisce per minare alle fondamenta la fede, ha parlato di alcuni studi in corso d’opera di
scienziati di fama mondiale sulla morte clinicamente accertata ma non definitiva (pre-morte).
Sembra che qualcuno, durante il coma, sia morto per qualche attimo e, ritornato in vita, abbia
raccontato di essersi trovato all’interno di un grande cilindro buio con lo sbocco verso una grande
luce, fonte di indescrivibile beatitudine tanto che quando viene richiamato in vita oppone resistenza
perché vuol rimanere nella nuova fantastica dimensione.
Gli scienziati stanno studiando il fenomeno anche perché, da un accertamento effettuato su
soggetti dichiarati clinicamente morti e tornati in vita con la rianimazione, si è constatato che i
racconti, quasi tutti collimano.
Hanno in comune, per esempio, la descrizione del grande cilindro, della luce, del senso di
beatitudine e non è possibile che abbiano convenuto la narrazione perché non si conoscono, non si
sono mai conosciuti, vivono in zone anche distantissime l’una dall’altra in continenti diversi, di
lingue diverse di culture diverse.
Particolarmente interessanti gli studi della scienziata medico Elizabeth Kubler-Ross
dell’Università di Chicago, titolare di cattedra di tanatologia (studio della morte) e del prof.
Raymond A. Moody jr. laureato in filosofia all’Università della Virginia successivamente laureatosi
in medicina, titolare di cattedra di filosofia della medicina dell’Università del North Carolina.
La professoressa Ross presentando il libro di Moody dal titolo “La vita oltre la vita” edito in
Italia da A. Mondatori nel 1977 si è così pronunciata: “Ho potuto leggere prima della pubblicazione
la vita oltre la vita di Raymond Moody, e sono lieta che questo giovane studioso abbia il coraggio di
riunire i frutti delle sue ricerche e di renderli noti al pubblico. Poiché ormai da vent’anni mi occupo
di pazienti affetti da malattie incurabili ho provato un interesse sempre più acuto per il fenomeno
della morte. Sappiamo molto su come si giunge alla morte, ma sono numerosi i problemi insoluti che
riguardano il momento del decesso e l’esperienza conosciuta da pazienti dichiarati clinicamente
morti. Una ricerca come quella presentata in questo libro dal dotto Moody chiarirà molte cose e
confermerà quel che ci hanno insegnato da duemila anni: esiste una vita oltre la morte”.
Proprio il dotto Moody scrive, nella introduzione del suo secondo saggio dal titolo italiano “La
vita oltre la vita” sempre edito da Mondatori nel 1978 (la distinzione fra i due saggi è evidente nei
titoli originari in inglese: “Life after life” – “Vita dopo la vita” il primo, “Reflections on Life after
Life” – “Riflessioni su Vita oltre la Vita” il secondo): “Comincerò questo nuovo volume riportando
l’esempio teoricamente completo di un’esperienza di pre-morte che avevo delineato nel mio testo
precedente. Contiene tutti gli elementi comuni all’esperienza-tipo: «Un uomo sta morendo e, nel
momento in cui ha raggiunto l’acme della sofferenza fisica, sente dalle parole del dottore di essere
clinicamente morto. Avverte allora un rumore sgradevole, come un tintinnio o un ronzio, e
contemporaneamente sente di muoversi con estrema rapidità lungo una galleria buia. Giunto al
termine avverte improvvisamente di essere uscito dal proprio corpo ma di trovarsi ancora
nell’ambiente in cui si trovava prima e vede in lontananza il suo stesso corpo, come se egli fosse
soltanto uno spettatore. Da quella posizione privilegiata osserva il tentativo di rianimazione e prova
un senso di sconvolgimento emotivo. Dopo breve tempo, si riprende e si abitua alla sua strana
condizione. Avverte di avere ancora un «corpo», ma di una natura assai diversa e dotato di poteri
assai diversi da quelli del corpo fisico cha ha lasciato dietro di sé. Cominciano allora ad accadere
altre cose. Altri individui gli si fanno vicini per aiutarlo. Scopre gli spiriti di parenti e amici già
morti e gli appare uno spirito di amore come egli non ha conosciuto mai: un essere di luce. Questo
gli rivolge, senza parole, una domanda che lo esorta a valutare la propria vita, e lo aiuta
mostrandogli, come in un playback, gli avvenimenti più importanti della propria esistenza. A un
tratto si trova vicino a una barriera, o a un confine, che sembra rappresentare la divisione tra la
vita terrena e l’altra vita. E tuttavia sente di dover tornare sulla terra, sente che non è ancora giunto
per lui il momento della morte. Tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita e non
vuole tornare in questa. E’ sopraffatto da intensi sentimenti di gioia, amore e pace. Tuttavia si
riunisce in qualche modo al suo corpo fisico e torna alla vita. Più tardi tenta di riferire agli altri la
sua esperienza, ma gli riesce difficile farlo. Non trova parole umane capaci di descrivere quegli
episodi non terreni. Scopre inoltre che gli altri non lo prendono sul serio e rinuncia a parlare. Ma
l’esperienza conosciuta segna la sua esistenza, in particolare le sue opinioni sulla morte e il suo
rapporto con la vita» (la traduzione è di Anna Luisa Zazo)”.
Informa il prof. Moody nel suo primo saggio: “Attualmente so di 150 casi di pre-morte, e le
esperienze da me esaminate possono venir raggruppate in tre categorie : 1) Le esperienze di
persone tornate alla vita dopo essere state credute, ritenute o dichiarate clinicamente morte dai loro
medici. 2) Le esperienze di persone che, durante incidenti, o ferite o malattie gravi, sono andate
vicino alla morte fisica. 3) Le esperienze di persone che, al momento della morte, hanno parlato ad
altre persone presenti. Queste in seguito sono venute a riferirmene. Le esperienze del terzo tipo, pur
accordandosi con le altre sono state quasi tutte escluse, preferendo resoconti diretti dei
protagonisti”.
Ho ascoltato con attenzione il caro amico il quale non risparmiava energie per tirarmi fuori dalle
secche della crisi mistica, ne ho apprezzato lo sforzo ma il risultato, per quanto mi riguarda, non è
stato un granchè. Rimanevo nel tunnel senza vedere la luce!
E qui ritorno a Hans Küng nel capitolo «La realtà ultima»: “Già il parlare di «dopo» la morte è
inesatto, perché l’eternità, mentre esclude rapporti di anteriorità e posteriorità, presuppone una
nuova vita che, trascendendo le dimensioni dello spazio e del tempo, si svolge nella sfera invisibile,
incorruttibile, incomprensibile di Dio.
Non semplicemente un «continuare» (a vivere, fare, andare) senza fine. Ma qualcosa di
definitivamente «nuovo»: nuova creazione, nuova nascita, uomo nuovo e mondo nuovo. Qualcosa
che interrompe una volta per tutte il ritorno di un eternamente uguale «muori e divieni». Essere
definitivamente presso Dio e avere così la vita definitiva, è questo che si intende”.
Ecco! E allora? Questo che vuol dire? Si ricomincia tutto da capo? Forse no, se ho capito bene
“Essere definitivamente presso Dio ed avere la vita definitiva” più che convincermi mi affascina.
Vuol dire che questa non è la vera vita e, per quanto mi riguarda, va benissimo! E’ un passaggio
obbligato, però, e non si può evitare, è un passaporto senza il quale non varchi la frontiera. Rimane
l’interrogativo su coloro che ci hanno preceduto, un fatto, per così dire, affettivo, ma vi può essere
qualcosa di più grande dell’affetto di Dio?
“La morte non viene revocata, ma vinta in modo definitivo…Gesù non è semplicemente ritornato
alla vita biologico-terrena, per poi morire di nuovo come quelle persone risvegliate dalla morte.
No, secondo la concezione neotestamentaria egli ha la morte, quest’ultimo confine,
definitivamente dietro di sé. Ha varcato la soglia di una vita tutta diversa, incorruttibile, eterna,
«celeste»: la soglia della vita di Dio, per la quale nel nuovo testamento si fa ricorso come abbiamo
visto, a formule e immagini quanto mai varie…La morte è dell’uomo, la risurrezione può essere solo
di Dio: Dio come realtà ultima che tutto abbracciando non si lascia abbracciare, che accoglie
l’uomo in sé, lo chiama, lo ospita, cioè lo assume e lo salva definitivamente.
Nella morte, o meglio: dalla morte come evento fondato nell’azione e la fedeltà di Dio. Il nuovo
atto creativo, latente, inimmaginabile, di colui che chiama all’esistenza ciò che non è rappresentato
– lungi dall’essere un «intervento» soprannaturalistico contro le leggi della natura – un autentico
dono e un vero miracolo…Chi comincia il suo Credo con la fede in un «Dio creatore onnipotente»
può tranquillamente concluderlo con la fede nella «vita eterna».
Essendo l’alfa, Dio è anche l’omega. Il Creatore onnipotente che dal non essere chiama
all’essere, è anche in grado di chiamare dalla morte alla vita”.
Mi chiedo: “Perché sono andato a rileggere queste pagine in un momento tanto amaro della mia
esistenza? Come mi è venuto in mente? E come è successo che sfogliando per caso «Essere
cristiani» sono andato a finire proprio su questi brani tanto significativi da rappresentare per me
quasi un abbozzo di soddisfacente risposta alle domande che sono alla base della mia crisi?”
Quando ho raccontato tutto questo al mio solito amico ha osservato che non è per caso, bisogna
credere che al di sopra di noi qualcuno è sempre pronto ad aiutarci ed è Dio che, anche con il dubbio,
sperimenta la fede delle proprie creature e coglie a pieno il loro dolore quando ritengono di averla
perduta.
E’ venuto poi con un libro di Giuseppe Prezzolino “Dio è un rischio” (Rusconi – Milano 1979)
scritto all’età di ottantasei anni e sette mesi. “E’ un libro senza Dio che trova il posto a Dio per
chiunque abbia un Dio che debba trovar un posto”. Conclude l’ultimo capitolo così: “Giocare al
gioco di Dio non è prendersi gioco di Dio. E’ riconoscerlo nella sua natura misteriosa di possibilità
interiore e quindi di esperienza personale. Come tutte le esperienze, anche quella di dio è un fatto
stupido, ossia irrazionale e quindi stupendo, cioè che desta stupore”. E’ scritto in una nota sul
risvolto: “Per Prezzolini l’unica verità ineccepibile è che non esiste alcuna certezza.
La ragione? Solo un fiammifero nelle tenebre.
La scienza? Riesce appena a spiegare il comportamento della natura, ma è del tutto incapace di
individuarne le cause.
La vita? Una cosa senza senso, se non la si considera nell’ottica della morte.
E’ la morte il solo fine della vita, la morte è l’unica autenticità del nostro mondo…Ma egli ha
trovato uno spiraglio in questo vuoto: la fede.
La fede che è data dalla Grazia ossia dal caso, poiché non la si ottiene volendola.
La fede è convinzione assolutamente irrazionale, ma è pur sempre un potente stimolo vitale
anche se non si ha alcuna certezza sull’esistenza di Dio, anche se, per l’appunto, Dio è un rischio”.
Lo scrittore è morto a Lugano all’età di cento anni e sei mesi il 15 luglio 1982, era nato a Perugia
da genitori senesi il 27 gennaio 1882.
Ho voluto provare, me ne sono andato solo, solo, in chiesa facendo in modo che nessuno se
n’accorgesse, approfittando dell’arrivo di alcuni visitatori che s’intrattenevano con i miei compagni
e con il personale; un bel gruppo di ragazzi proveniente da Sora, cittadina ai confini con l’Abruzzo,
che si sarebbe intrattenuto fino all’ora della nostra cena che è esattamente, alle diciannove; c’era
anche un giovane con la chitarra. Erano circa le diciassette.
Al Piccolo Rifugio abbiamo una cappella, diciamo così, privata ma anche l’ingresso diretto in
una stupenda chiesa del dodicesimo secolo con qualche resto d’affresco ed uno stemma sopra
l’ingresso nella sacrestia.
Un lato della nostra struttura si appoggia ad una parete della chiesa con una porta secondaria che,
nel Medioevo, permetteva ai fedeli di sfollare con una certa celerità, oggi immette direttamente
nell’ampio locale nel quale consumiamo i pasti.
La porta, normalmente, non è chiusa a chiave, basta girare una maniglia e si apre permettendo di
entrare attraverso uno scivolo in legno che, senza incidere sulla vecchia costruzione, abbatte la
barriera architettonica di un alto gradino.
Ho manovrato la carrozzina elettrica e sono andato verso l’altare, mi sono avvicinato al
Crocifisso e l’ ho guardato nel volto, con una certa aria di sfida. Volevo parlargli da solo a solo, tra
uomini, con lealtà. Sentivo di avere diritto a qualche spiegazione, non era possibile che io dovessi
subire, passivamente, una situazione da me non voluta, quanto meno volevo sapere perché dovevo
pagare un prezzo così alto, chi lo aveva deciso e con quale motivazione. Avrei fatto in modo di non
farmi distrarre dal Suo stato, in quella croce, con quelle ferite, con tutto quel sangue.
Le mie domande, mormorate perché nessuno di là potesse sentirmi, cadevano nel vuoto: silenzio
totale interrotto dal lontano suono della chitarra che accompagnava l’approssimato coro dei miei
compagni e mi aiutava ad alzare il tono della voce. Ricordavo quella frase di Küng: “Chi comincia il
suo credo con la fede in un Dio creatore onnipotente”. Stavo tentando.
Non riuscivo a cavare un ragno dal buco, improvvisamente, ho cominciato a piangere lacrime di
rabbia, non m’importava niente di nessuno, anche se fosse entrato qualcuno avrei continuato.
Finalmente davo libero sfogo alle mie “lamentazioni” intercalate da singhiozzi, i “perché?”
facevano da intercapedine tra un singhiozzo e l’altro.
La porta principale, quella grande dalla quale entrano i fedeli per le funzioni religiose, era
chiusa; anche l’ingrasso al Piccolo Rifugio era chiuso, non a chiave ma chiuso. Ho continuato a
piangere senza falsi pudori pronunciando parole anche dure al confine tra l’imprecazione e la
bestemmia.
I miei occhi erano diventati sorgenti dalle quali sgorgavano fiumi di lacrime, ora non guardavo
più il Crocifisso mi ero preso la testa tra le mani e l’avevo appoggiata sulle ginocchia. Non so quanto
tempo sono stato così. Probabilmente mi sono assopito.
Quando ho alzato il volto ho continuato a guardare il Crocifisso lo vedevo, in modo sfocato,
attraverso il velo del pianto.
Pian piano l’immagine si è fatta più chiara, i contorni si sono ben delineati, mi sembrava più
bello, in movimento come se liberasse le braccia dai chiodi e si piegasse verso di me sorridendo per
abbracciarmi con quella corona di spine ed il sangue vivo che sgorgava dalle ferite provocate dal
doloroso diadema.
Ero imbambolato, perplesso, incredulo, evidentemente stavo sognando. Non sapevo che fare. Mi
sono accorto di sorridere, ho allungato le braccia verso di Lui. Il Suo volto non aveva più
l’espressione di dolore, era radioso! Mi sorrideva, forse era un’allucinazione, fatto sta che mi sono
ritrovato a pregare quasi come se non dipendesse da me, se qualcuno, da dentro, mi dettasse le parole
e me le facesse sentire nel loro profondo significato.
Avvertivo un certo benessere diverso da quello fisico, non so spiegarmi, era come se mi trovassi
a mezz’aria, leggero, in levitazione, come le figure nei quadri di Mark Chagall.
Ora pregavo convulsamente, come se avessi il terrore di smettere, quasi che interrompere la
preghiera provocasse la fine dell’incantesimo. Ero pieno di beatitudine. Nel silenzio, tra quelle mura
antiche, sono rimasto solo con la mia anima ed ho avvertito la sua eternità. La carezza della speranza
mi ha avvolto nella serenità. Avevo fatto tardi, fra poco sarebbe stata l’ora di cena, se avessi potuto
ne avrei fatto a meno, sarei rimasto lì anche per tutta la notte.
Ho dovuto lasciare la chiesa, ho raggiunto i miei compagni i quali stavano salutando gli amici di
Sora. Mi guardavano in modo strano. Probabilmente avevo ancora gli occhi rossi. Ho cominciato a
colloquiare con loro, erano giorni che non lo facevo, che cercavo, per quanto possibile, di evitarli.
Anche a tavola, durante la cena, cercavo di scherzare, nei giorni passati ero stato piuttosto torvo,
scorbutico, se qualcuno si rivolgeva a me non rispondevo, non appena finito di mangiare me
n’andavo o a sentire un po’ di musica con la cuffia, o a scrivere qualcosa con il computer.
La sera cercavo di tardare ad andare a letto ma non avevo il diritto di fare il comodo mio, non ce
la faccio da solo a coricarmi, devo essere aiutato da uno dei nostri assistenti, quindi potevo solo
chiedere di andare a letto per ultimo e, appena sdraiato entravo in conflitto con il sonno, potevo
contare tutte le pecore di questo mondo ma il sonno non arrivava questo gran figlio di buona donna!
Ora mi cullavo in qualche pensiero, mi rivolgevo a Lui con fiducia, pregavo per mia madre e mio
padre, davo loro la buona notte e mi addormentavo serenamente.
Tutto era finito, finalmente godevo nuovamente della grazia della fede, sono certo che i miei
genitori mi hanno dato una mano da lassù.
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