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Le anomalie dendritiche tra mente e cervello
LE ANOMALIE DENDRITICHE NEI DISTURBI ASSOCIATI A RITARDO MENTALE. Dal substrato neurologico al profilo cognitivo-comportamentale Di Gianluigi Passaro Indice Introduzione PRIMA PARTE. La patologia dendritica nelle principali condizioni associate a ritardo mentale Capitolo I. I cambiamenti patologici nei dendriti e nelle spine dendritiche Anomalie della distribuzione e della morfologia dei dendriti (1) Diminuzione del numero dei dendriti (2) Anomalie della forma dei dendriti Anomalie strutturali delle spine dendritiche (1) Diminuzione del numero delle spine dendritiche (2) Aumento del numero delle spine dendritiche (3) Diminuzione delle dimensioni delle spine dendritiche (4) Distorsioni della forma delle spine dendritiche (5) La formazione di varicosità dendritiche (6) Le eterotopie dendritiche e neuronali Anomalie ultrastrutturali delle spine dendritiche (1) Le spine dendritiche elettron-dense (2) Alterazioni degli organuli subcellulari (3) Spine dendritiche giganti Capitolo II. I primi studi: la disgenesia delle spine dendritiche ed il ritardo mentale non classificabile Capitolo III. Le anomalie dendritiche nelle sindromi genetiche associate a ritardo mentale Le sindromi genetiche con patologia dendritica dimostrata (1) La sindrome di Down (2) La sindrome di Rett (3) La sindrome della X fragile Le sindromi genetiche con probabile patologia dendritica (1) La sindrome di Williams (2) La sindrome di Rubinstein-Taybi Capitolo IV. Altri disturbi ad eziologia genetica o multifattoriale con probabile patolog ia dendritica L’autismo Il morbo di Alzheimer La fenilchetonuria La sclerosi tuberosa e la neurofibromatosi di tipo I Capitolo V. Le anomalie dendritiche nel ritardo mentale dovuto a condizioni ambientali La malnutrizione calo-proteica e l’ipossia-ischemia perinatale Teratologia neurocomportamentale: la sindrome alcolica fetale e l’abuso di droghe in gravidanza SECONDA PARTE. Anomalie dendritiche e ritardo mentale: un possibile modello teorico Capitolo VI. Relazioni tra la patologia dendritica ed il profilo cognitivo- comportamentale nei disturbi associati a ritardo mentale Anomalie dendritiche e ritardo mentale: quale relazione? Conclusioni. Dal substrato neurologico al profilo cognitivo-comportamentale: la patologia dendritica tra neuroanatomia e psicologia Bibliografia Intoduzione “Il mio cervello è per me la più inspiegabile delle macchine – sempre ronzante, affaccendato, lanciato, ruggente, in picchiata, quindi sepolto nel fango. E perché? Per quale motivo questo fervore?” (Virginia Woolf) La patologia dendritica è oggi considerata tra i più importanti correlati neuroanatomici del ritardo mentale, sia dovuto a condizioni ambientali (come nella sindrome alcolica fetale), sia causato da anomalie genetiche (come nella sindrome di Down). Essa è stata studiata sin dagli inizi degli anni settanta del novecento - i lavori pionieristici che hanno utilizzato l’impregnazione argentica di Golgi compiuti da Huttenlocher (1970, 1974, 1975) e da Purpura (1974, 1975a, 1975b) rappresentano, infatti, le basi per la valutazione del coinvolgimento dei dendriti nel ritardo mentale - quando l’uso delle tecniche di etichettamento dendritico ha mostrato come le anormalità, strutturali ed ultrastrutturali, di questi processi neuronali fossero molto comuni nei disturbi e nelle sindromi associati a ritardo mentale. L’importanza del sistema dendritico e della sua evoluzione, la dendridogenesi, nel corretto sviluppo del cervello umano può essere facilmente compresa: è sufficiente ricordare che essi rivestono un ruolo fondamentale nella formazione delle sinapsi che ha negli ultimi mesi di età gestazionale il suo periodo critico. Inoltre “Il principale evento nella differenziazione dei neuroni corticali è rappresentato dalla elaborazione del sistema dendritico; i dendriti dei neuroni sottendono più del 95% dei siti di trasmissione delle informazioni attraverso il sistema nervoso” (Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 27). La patologia dendritica comporta importanti deficits funzionali a causa dei quali è impedita una corretta fruizione degli inputs sensoriali, essenziali per determinare nuove connessioni sinaptiche e per la futura organizzazione cerebrale. Purpura (1974) ha dimostrato la presenza di anomalie a carico dei dendriti - ridotto numero di spine e netta prevalenza di quelle di tipo sottile - nei soggetti con ritardo mentale grave e non classificabile. Tali aberrazioni costituiscono dei severi ostacoli ai processi di comunicazione e di integrazione funzionale cerebrale, nel senso che i neuroni con queste anormalità non possono trasmettere e ricevere adeguatamente gli impulsi nervosi. Purtroppo, a causa dell’inadeguatezza delle tecniche di indagine anatomo-patologi, ci sono pochi dati relativi ai disordini dell’organizzazione cerebrale. Attualmente, negli studi che hanno utilizzato soggetti con ritardo mentale, le anomalie dendritiche e sinaptiche sono risultate le sole alterazioni del sistema nervoso, e rappresentano il deficit neurologico di base in circa il 20% dei casi con eziol ogia incerta (Ottaviano e Ottaviano, 2000). Per gli scopi di questo lavoro saranno definite come “disturbi associati a ritardo mentale” quelle condizioni caratterizzate da un deficit cognitivo globale non progressivo. Le sindromi genetiche verranno trattate in modo più esteso ed approfondito sia per l’elevata mole di studi che ad esse è stata dedicata, sia perché forniscono il potenziale esplicativo per comprendere l’importanza del ruolo giocato dalle anomalie dendritiche nel ritardo mentale. Saranno descri tti anche i disturbi pervasivi dell’infanzia che, durante la loro evoluzione, manifestano un profilo cognitivo simile al ritardo mentale, ma il cui decorso clinico è progressivamente ingravescente (cfr. Kaufmann, 1996), ed alcuni tra i particolari fattori ambientali e teratogenici che possono determinarlo. Questo lavoro presenta due parti distinte per oggetto di interesse ed obiettivi. La prima parte si propone di illustrare le possibili anomalie anatomiche e funzionali dei dendriti e delle spine dendritiche, sia a livello strutturale sia ultrastrutturale. Essa introdurrà storicamente il dibattito sul ruolo della patologia dendritica nel ritardo mentale: inizialmente centrato sulla disgenesia delle spine dendritiche nel ritardo mentale non classificabile, esso è stato successivamente spostato sulle sindromi genetiche di maggior rilievo, quali le sindromi di Rett e della X fragile, in concomitanza con la scoperta delle loro basi geniche e delle conseguenze dei rispettivi genotipi sul fenotipo neurologico. Si esamineranno le principali condizioni patologiche, genetiche ed ambientali, studiate negli ultimi trenta anni alla luce del ruolo che in esse svolgono le anormalità dendritiche e sinaptiche. Saranno trattate dapprima le sindromi genetiche, all’interno delle quali si distingueranno le sindromi con chiara e dimostrata patologia dendritica (sindromi di Down, di Rett e della X fragile), da quelle con coinvolgimento dendritico solo probabile, giacché privo di evidenze empiriche univoche (sindromi di Williams e di Rubinstein-Taybi) (cfr. Kaufmann e Moser, 2000). Saranno quindi descritti altri disturbi di origine genetica o multifattoriale: l’autismo infantile, in cui la riduzione delle arborizzazioni dendritiche e la ridotta dimensione dei neuroni nella corteccia mesofrontale, nell’ippocampo e nel sistema limbico sembrano essere le uniche alterazioni anatomiche degne di nota; la demenza di Alzheimer e la fenilchetonuria (PKU) che non rientrano a pieno titolo nella definizione diagnostica di ritardo mentale, ma la cui importanza epidemiologica e concettuale ne rende necessaria la trattazione; la sclerosi tuberosa e la neurofibromatosi di tipo I. Infine, sarà presentata una breve disamina sulle più importanti condizioni ambientali legate al ritardo mentale, quali la sindrome alcolica fetale (FAS), l’abuso di droghe durante la gravidanza, l’esposizione del feto a neurotossine, l’ipossia-ischemia perinatale, e la malnutrizione caloproteica sia nelle gestanti sia nel neonato. La seconda parte ha come obiettivo la descrizione di un possibile modello teorico che rappresenti una sinossi, eziologica e concettuale, tra la neuroanatomia ed il fenotipo cognitivocomportamentale caratteristici di ciascun disturbo, tale da poter essere considerata un ponte tra la neuropatologia e la psicologia del ritardo mentale. Prima di giungere a delle conclusioni, tuttavia, si dovrà chiarire se la patologia dei dendriti e delle spine dendritiche sia una concausa o una conseguenza del ritardo mentale; si dovrà dimostrare, i-noltre, che le anomalie dendritiche sono alterazioni sindrome-specifiche e non anormalità neuroanatomiche generali. Per giustificare tale modello sono necessari alcuni assunti di base: (a) il profilo cognitivo di ciascuna condizione deve essere sindrome-specifico, in altre parole, si dovranno osservare, nei disturbi esaminati, dei tratti comportamentali caratteristici e distintivi ai fini diagnostici; (b) tali peculiarità devono trovare un riscontro nella neuropatologia tipica delle diverse sindromi. Si ipotizzerà, concludendo, una relazione diretta e causale tra la specificità della patologia dendritica e la specificità del fenotipo cognitivo-comportamentale per le condizioni associate a ritardo mentale considerate. Il legame tra il genotipo neurologico, ed in ultima analisi la sua espressione fenotipica, ed il profilo cognitivocomportamentale, sia nello sviluppo normale sia in quello patologico, è, infatti, la convinzione che ha ispirato questo lavoro e che può essere felicemente riassunta parafrasando il pensiero di Donald Hebb, il quale affermava che voler risolvere il problema della preminenza di uno dei due poli, genetica e ambiente, nello sviluppo e nella patologia del cervello umano, equivarrebbe a dover stabilire cosa sia più importante, e quanta parte abbia rispettivamente, l’altezza o la base di un triangolo nel calcolo della sua superficie. Capitolo I I cambiamenti patologici dei dendriti e delle spine dendritiche Lo studio delle anomalie dendritiche nei disturbi associati a ritardo mentale - definito, nella decima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), come “una condizione di arresto dello sviluppo o di sviluppo incompleto della mente, caratterizzato soprattutto da compromissione delle capacità che si manifestano nel periodo dello s viluppo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, per esempio le funzioni cognitive, quelle linguistiche, le capacità motorie e sociali” (World Health Organization, 1992) - ha avuto inizio negli anni settanta, nell’ambito del rinnovato interesse per i disturbi associati all’organizzazione cerebrale, un processo evolutivo che ha negli ultimi tre mesi di vita intrauterina il periodo di maggior sviluppo, ma che continua anche dopo la nascita, in modo particolare nei primi due anni. Scheibel e Scheibel, in uno studio del 1977, hanno distinto quattro condizioni neuropatologiche che possono costituire un serio ostacolo allo sviluppo del cervello umano. Esse sono: (a) la perdita delle spine dendritiche (riscontrata in diverse forme di ritardo mentale); (b) la nodulazione, vale a dire la comparsa di noduli all’interno delle cellule corticali mature ed immature; (c) le alterazioni morfologiche delle arborizzazioni dendritiche (comuni nella sindrome di Down); (d) l’incremento del numero delle cellule gliali, o proliferazione gliale, che sottrae lo spazio necessario allo sviluppo neuronale e sinaptico. Simili anomalie dello sviluppo cerebrale possono produrre un’ampia gamma di disturbi, dai deficits semplici dell’apprendimento al ritardo mentale grave. Il presente capitolo tratterà delle anormalità neuropatologiche che coinvolgono direttamente i dendriti e le spine dendritiche (i punti “a” e “c” di Scheibel e Scheibel). Saranno descritte dapprima le anomalie strutturali dei dendriti e successivamente quelle delle spine, distinguendo all’interno di queste ultime le alterazioni strutturali (forma, numero e dimensioni), dalle ultrastrutturali, che riguardano tutti i cambiamenti osservabili all’interno della singola spina, quali l’ipertrofia degli organuli subcellulari o le modificazioni del reticolo endoplasmatico. Anomalie della distribuzione e della morfologia dei dendriti I dendriti sono un’estensione del soma neuronale specializzati nella ricezione degli inputs sinaptici. La complessità delle arborizzazioni dendritiche rende possibile un notevole ampliamento della superficie del neurone (altrimenti limitata al solo corpo cellulare) e del suo potenziale sinaptico (già Ramon y Cajal, nell’ultimo decennio del XIX° secolo, aveva costatato che essa riflette il numero di connessioni ricevute da un neurone), occupando un volume relativamente ridotto. Gli alberi dendritici, infatti, hanno in media una superficie di circa 370000 μm2 ed un volume di soli 300000 μm3. Un soma cellulare, invece, per poter garantire una s uperficie simile, dovrebbe occupare circa 20000000 di μm3. La morfologia delle arborizzazioni dendritiche, inoltre, presenta molti patterns differenti, dovuti soprattutto alla diversa densità dei dendriti su distinte classi di neuroni, ed ai cambiamenti dell’orientamento e della forma delle loro radiazioni (cfr. appendice B) (Fiala e Harris, 1999; McAllister, 2000; Cline, 2001; Jan e Jan, 2001; Whitford et al., 2002). I disordini citoarchitettonici della neocorteccia e le anomalie della forma e del numero dei dendriti sono i principali correlati neuroanatomici del ritardo mentale. Essi comprendono: la diminuzione del numero dei dendriti; la riduzione della loro lunghezza; la distorsione della forma, in genere essa assume un profilo più sottile e tortuoso; le eterotopie dendritiche e neuronali; l’incremento del numero (o densità) delle cellule neuronali e gliali; i disordini della laminazione corticale, come un orientamento anomalo dei neuroni o alterazioni dell’organizzazione colonnare. Le anomalie dendritiche e neuronali sembrano associarsi in modi differenti nel caratterizzare la neuropatologia dei diversi disturbi: nella sindrome di Down, ad esempio, sono frequenti le anomalie della laminazione corticale ed un’accentuata riduzione della lunghezza dei dendriti, non è presente, invece, un aumento della densità cellulare, tratto che diviene preminente in altre patologie quali la fenilchetonuria e le sindromi di Rett e di Rubinstein-Taybi dove, al contrario, non si riscontrano alterazioni dell’organizzazione laminare della corteccia (Kaufmann e Moser, 2000). Di seguito saranno descritte le principali anomalie riguardanti il numero e la forma dei dendriti. Le eterotopie dendritiche e neuronali ed i disturbi della laminazione corticale saranno trattati nel paragrafo dedicato alle anomalie strutturali delle spine. (1) Diminuzione del numero dei dendriti La riduzione della densità delle arborizzazioni dendritiche costituisce una delle più frequenti anomalie dell’organizzazione neuronale riscontrate nei soggetti con ritardo mentale. Essa è considerata la caratteristica neuropatologica fondamentale del ritardo mentale con diagnosi eziologica ed è stata osservata in un gran numero di disturbi genetici. Becker e collaboratori (1986, 1991) hanno rilevato, in bambini affetti da sindrome di Down, una marcata atrofia degli alberi dendritici in contrasto con l’incremento evolutivo nei soggetti con sviluppo tipico. Jay e collaboratori (1991), in un caso di sindrome di Angelman studiato con l’impregnazione argentica di Golgi, hanno dimostrato una marcata riduzione delle arborizzazioni dendritiche nei neuroni piramidali del terzo e del quinto strato corticale. Dati simili sono confrontabili con quelli ottenuti dalle analisi citoarchitettoniche effettuate negli individui autistici (Raymond, Bauman e Kemper, 1996), nelle sindromi di Rett (Armstrong, Dunn e Antalffy, 1998) e di Rubinstein-Taybi (Kaufmann e Moser, 2000), nella schizofrenia (Kalus et al., 2000; Broadbelt, Byne e Jones, 2002), nella sclerosi tuberosa (Ferrer et al., 1984), nella malattia delle urine a sciroppo d’acero (Kamei et al., 1992), nell’ipotiroidismo neonatale (Ipina e Ruiz Marcos, 1986; Ruiz Marcos e Ipina, 1986), nell’ipossia perinatale (Trojan e Pokorny, 1989), nell’esposizione neonatale a sostanze neurotossiche (Gonzales Burgos, Perez Vega e Beas Zarate, 2001), e nel morbo di Alzheimer (Scheibel, 1976). Queste ricerche hanno mostrato una correlazione tra la diminuzione del numero dei dendriti e l’aumento della densità neuronale e microgliale in tutte le condizioni studiate. Kaufmann e Moser (2000) ritengono che ciò sia interpretabile come un meccanismo compensatorio capace di ripristinare parte del potenziale sinaptico cerebrale, drasticamente ridotto in seguito alla diminuzione del numero e della lunghezza dei dendriti. (2) Anomalie della forma dei dendriti Le alterazioni morfologiche dei dendriti consistono soprattutto in una marcata riduzione della loro lunghezza. Essa è riscontrabile in numerose noxae associate a ritardo mentale, sia genetiche sia di origine ambientale, e in alcuni disordini neurodegenerativi a decorso progressivo come il morbo di Parkinson (Patt et al., 1991) e l’encefalite virale da HIV (Masliah et al., 1992, 1997). I disturbi genetici in cui è stata chiaramente dimostrata una marcata diminuzione della lunghezza dei dendriti sono le sindromi di Down e di Rett e la sclerosi tuberosa; non vi sono, invece, evidenze conclusive della presenza di questo tipo di anomalia in altre patologie quali le sindromi di Williams e di RubinsteinTaybi (Kaufmann e Moser, 2000). Takashima e collaboratori (1981), studiando lo sviluppo anormale della corteccia visiva in feti ed in infanti affetti da sindrome di Down, hanno trovato un pattern evolutivo neuronale e dendritico comparabile nei feti sperimentali e di controllo, mentre i neonati e gli infanti Down mostravano dendriti basali più corti, un decremento nel numero delle spine e difetti della laminazione corticale rispetto ai soggetti con sviluppo tipico. Questi dati suggeriscono, in accordo con altre ricerche (Prinz, Prinz e Schulz, 1997; Vukšić et al., 2002), che i cambiamenti patologici degli elementi neuronali e dendritici cominciano a svilupparsi, in questa sindrome cromosomica, dalla prima età postnatale. L’atrofia dendritica osservata nei bambini Down, inoltre, continua ad accentuarsi nell’età adulta, con un’ulteriore diminuzione nella lunghezza dei dendriti e nella densità delle spine (Takashima et al., 1989). In contrasto con gli individui Down, nella sindrome di Rett una riduzione nella densità e nella lunghezza dei dendriti è presente sin dalla nascita. Armstrong e collaboratori (1995, 1998) hanno dimostrato che i dendriti dei neuroni piramidali delle cortecce motoria e frontale e del subiculum, sono significativamente più corti nei cervelli Rett che in quelli Down e nonRett. Risultati simili sono stati ottenuti in altre ricerche (Jellinger e Seitelberger 1986; Jellinger et al., 1988; Belichenko et al., 1994; Bauman, Kemper e Arin, 1995). Nella sclerosi tuberosa è stata notata una riduzione focale della lunghezza dei dendriti associata ad altre anomalie morfologiche, tra cui la biforcazione dei tronchi dendritici e la disgenesia delle spine (Ferrer et al., 1984; Huttenlocher e Heydemann, 1984; Machado Salas, 1984). Tra le forme di ritardo mentale ad eziologia ambientale occupa un posto di rilievo la malnutrizione caloproteica grave. La denutrizione sperimentale in animali, durante i periodi sensibili dello sviluppo, provoca, infatti, ritardo nella crescita cerebrale ed anomalie morfologiche e funzionali nei dendriti e nell’appara to sinaptico (Schönheit e Haensel, 1989; Garcia Ruiz, et al., 1993; Perez Torrero, Torrero e Salas, 2001; Andrade, Lukoyanov e Paula Barbosa, 2002; Granados Rojas et al., 2002). Alterazioni simili sono presenti nell’uomo se esposto a malnutrizione grave nei primi mesi di vita. Eppure, pochi studi hanno descritto la morfologia delle arborizzazioni dendritiche negli infanti sottoposti a tali condizioni (Cordero et al., 1993; Benítez Bribiesca et al., 1999). Benítez Bribiesca e collaboratori (1999), a tal proposito, in una delle ricerche più recenti, hanno dimostrato che i dendriti apicali del quinto strato corticale delle cortecce visiva, motoria e somatosensoriale, sono significativamente più corti negli infanti malnutriti rispetto ai soggetti eutrofici. Ques ta anomalia, assieme alla riduzione del numero delle spine, costituirebbe, secondo gli autori, la causa dei deficits neuropsicologici e del ritardo mentale osservati in questi bambini. Anomalie strutturali delle spine dendritiche Le spine dendritiche costituiscono i siti di terminazione di gran parte degli inputs eccitatori glutammatergici nel sistema nervoso centrale. Esse rappresentano luoghi di ingresso altamente specializzati e, in generale, sono costituite da un sottile peduncolo, che le unisce al tronco dendritico, e da una testa più espansa (Smart e Halpain, 2000; Gazzaley, Kay e Benson, 2002). L’aumento della superficie neuronale, rappresentata dalle spine, oltre che a ricevere afferenze sinaptiche, sembra possa servire a qualche altra funzione: recentemente è stata avanzata l’ipotesi di un suo possibile ruolo neuroprotettivo (Segal, 1995; cfr. Reid, 2002). Ogni spina ha, in superficie, almeno una sinapsi, e costituisce anche un’area di segregazione intracellulare di particolari processi biochimici quali, ad esempio, l’attivazione di alcune proteinchinasi in seguito all’apertura dei canali NMDA per gli ioni Ca++ (Kandel e Schwartz, 1994). Un loro sviluppo normale sembra essere un requisito necessario per la corretta acquisizione delle capacità cognitive: anormalità nella morfologia o nel numero delle spine dendritiche, infatti, sono ritenute strettamente legate al ritardo mentale grave (Purpura, 1974; Ferrer e Gullotta, 1990; Dietzmann e von Bossanyi, 1994; Irwin, Galvez e Greenough, 2000; Kasai, Matsuzaki, Noguchi e Yasumatsu, 2002). I cambiamenti patologici delle spine dendritiche a livello strutturale comprendono una diminuzione, ovvero un forte aumento, del loro numero, cambiamenti nelle dimensioni e nella morfologia, la formazione di varicosità e la comparsa di spine eterotopiche (le spine dendritiche giganti, caratterizzate da un incremento abnorme del volume, saranno descritte nelle alterazioni ultrastrutturali, a causa della concomitante ipertrofia degli organuli subcellulari) (cfr. Fiala, Spacek e Harris, 2002). (1) Diminuzione del numero delle spine dendritiche La diminuzione del numero delle spine dendritiche è stata osservata in molte condizioni patologiche. Essa è di frequente riscontro nei disturbi neurodegenerativi come il morbo di Alzheimer (El Hachimi e Foncin, 1990), nella deafferentazione (Fiala, Spacek e Harris, 2002), nella schizofrenia (Garey et al., 1998), e nelle epilessie (Swann, Al Noori, Jiang e Lee, 2000). Queste noxae neuropsichiatriche comportano anche processi di necrosi neuronale e sinaptica cui è probabilmente riconducibile la perdita delle spine. Si ritiene, infatti, che essa possa essere causata dalla scomparsa degli assoni che su queste fanno sinapsi, probabilmente per la conseguente carenza di fattori neurotrofici. Studi recenti (Woolley et al., 1990) hanno notato, tuttavia, che la perdita di spine può verificarsi anche in assenza di danni alle cellule nervose. Questo tipo di anomalia è presente anche in molti disturbi associati a ritardo mentale ed in particolare nelle infezioni prenatali dovute a fattori teratogenici, come l’esposizione del feto all’etanolo (Ferrer et al., 1986; Ferrer e Galofre, 1987; Lescaudron, Jaffard e Verna, 1989; Tarelo Acuna, Olvera Cortes e Gonzales Burgos, 2000), e nella malnutrizione caloproteica grave (Brock e Prasad, 1992; Benítez Bribiesca et al., 1999). Ferrer e Galofre (1987), studiando le conseguenze del consumo cronico di etanolo in gravidanza, hanno rilevato una significativa riduzione del numero delle spine nei dendriti apicali dei neuroni piramidali del quinto strato corticale in pazienti affetti da sindrome alcolica fetale, rispetto ai soggetti di controllo appaiati per età. La perdita delle spine dendritiche è stata osservata anche in uno studio sulla sindrome di Down (Ferrer e Gullotta, 1990). Gli autori hanno trovato un’importante diminuzione di queste ultime nei dendriti dei neuroni piramidali appartenenti alle regioni ippocampali CA1 e CA2, sia nei segmenti apicali sia in quelli basali, nei pazienti con sindrome di Down non a ssociata al morbo di Alzheimer se paragonati ai controlli sani, e una diminuzione ancora più marcata nei soggetti Down con demenza di Alzheimer. In questi disturbi essa è permanente e non va incontro a processi compensatori. (2) Aumento del numero delle spine dendritiche L’aumento del numero delle spine dendritiche è il risultato più frequente della compromissione dell’eliminazione selettiva dei processi neuronali e delle sinapsi (Fiala, Spacek e Harris, 2002). Circa la metà dei neuroni del cervello umano va incontro a morte durante lo sviluppo del sistema nervoso; ciò accade sia per fattori genetici, sia per fenomeni di competizione neurale finalizzati all’approvvigionamento dei fattori trofici. Difetti del processo di eliminazione selettiva sono ritenuti responsabili del numero abnorme di spine dendritiche presente nella fenilchetonuria e nella sindrome della X fragile, in cui è stata osservata una più alta densità delle spine, nei segmenti distali dei dendriti apicali e basali nelle cortecce temporale e visiva, in confronto ai soggetti di controllo (Irwin et al., 2001). Tuttavia, vi sono molti casi in cui non si conosce il meccanismo responsabile dell’aumento delle spine. Esso potrebbe essere dovuto al danneggiamento dei neuroni che forniscono gli inputs per la soppressione selettiva delle sinapsi, o ad un processo compensatorio da parte dei dendriti superstiti ad una grave deafferentazione. Inoltre, nonostante si sappia che una diminuzione degli inputs assonali comporta perdita di spine dendritiche, non è chiaro se un loro aumento favorisca un incremento delle stesse (Fiala, Spacek e Harris, 2002). Le conoscenze attuali, incomplete e spesso contraddittorie, rendono necessari ulteriori studi affinché si possa comprendere appieno il ruolo giocato dall’aumento delle spine nel ritardo mentale. (3) Diminuzione delle dimensioni delle spine dendritiche La diminuzione delle dimensioni delle spine dendritiche è stata osservata a seguito di processi neurodegenerativi in grado di compromettere l’integrità strutturale e funzionale delle afferenze sinaptiche. Esperimenti di deprivazione visiva dalla nascita hanno confermato, difatti, l’esistenza di alterazioni morfologiche delle spine quando i normali livelli di attività presinaptica sono ridotti (Fiala, Spacek e Harris, 2002). La diminuzione del volume delle spine dendritiche è stata osservata nel corpo striato degli schizofrenici (Roberts et al., 1996; Kung et al., 1998) e, per quanto riguarda i disturbi associati a ritardo mentale, nel cervello dei soggetti con sindrome di Down (Takashima, Becker, Armstrong e Chan, 1981). Takashima e collaboratori (1981), studiando lo sviluppo morfologico dei neuroni della corteccia visiva in bambini con questa sindrome cromosomica, hanno dimostrato che essi mostrano dendriti basali più corti e spine meno numerose, e dalle dimensioni inferiori, rispetto ai soggetti di controllo appaiati per età. Ciò suggerisce che anche in questa condizione, come nella deprivazione sensoriale, vi siano dendriti che ricevono sinapsi relativamente silenti. (4) Distorsioni della forma delle spine dendritiche Le distorsioni della forma delle spine dendritiche rappresentano l’anomalia neuroanatomica più comune nel ritardo mentale. Esse caratterizzano soprattutto la sindrome alcolica fetale (Ferrer e Galofre, 1987; Lescaudron, Jaffard e Verna, 1989) e le forme di ritardo mentale causate dalla malnutrizione caloproteica grave (Brock e Prasad, 1992; Benítez Bribiesca et al., 1999). La disgenesia delle spine dendritiche (Purpura, 1974), tuttavia, è stata associata, sin dagli inizi dell’interesse per le anormalità dei dendriti, al ritardo mentale non classificabile (Purpura, 1974; cfr. Kaufmann e Moser, 2000) ed alle principali sindromi genetiche: essa è stata osservata nelle sindromi di Down (Marin Padilla, 1976), della X fragile (Comery et al., 1997; Irwin, Galvez e Greenough, 2000), di Rett (Belichenko et al., 1994), e nella fenilchetonuria (Lacey, 1984). Le spine dendritiche assumono, in genere, un profilo lungo e tortuoso ed una forma molto sottile. Probabilmente anche quest’anomalia è il risultato di un processo compensatorio a seguito della perdita di assoni e, quindi, di sinapsi, in modo da aumentare la superficie cellulare in grado di ricevere i restanti inputs neuronali. (5) La formazione di varicosità dendritiche La formazione di varicosità dendritiche è spesso osservata come risposta a danni cerebrali e neuronali. Essa consiste nel rigonfiamento dei tronchi dendritici ed è responsabile della perdita delle spine che sono assorbite dal processo di dilatazione. La varicosità dendritica focale, con relativa perdita di spine, è stata rilevata nell’ischemia cerebrale (Miyasaka et al., 2000), nell’edema ed in seguito all’uso prolungato di droghe con effetti convulsivanti (Fiala, Spacek e Harris, 2002), nei disordini neurologici causati da un eccessivo rilascio di glutammato (Oliva, Lam e Swann, 2002), durante la degradazione post mortem (Thanos, Rohrbach e Thiel, 1991), nell’aumento della concentrazione intracerebrale di alluminio, riscontrato nell’invecchiamento fisiologico e nei processi neurodegenerativi come il morbo di Alzheimer (Uemura, Lartius e Martens, 1993), nella sindrome di Down (Marin Padilla, 1976), nei disordini dell’organizzazione microtubulare dei dendriti corticali (Bodick et al., 1982; Purpura et al., 1982), nella sclerosi tuberosa (Huttenlocher e Heydemann, 1984) e nell’epilessia (Multani et al., 1994; Swann et al., 2000). Multani e collaboratori (1994) e Swann e collaboratori (2000), ad esempio, studiando i neuroni dei cervelli epilettici, sia nell’uomo sia in modelli animali, hanno dimostrato una marcata diminuzione delle spine nei neuroni piramidali della neocorteccia e dell’ippocampo associata alla formazione di varicosità focale a carico dei dendriti. La formazione di varicosità dendritica e/o assonale, e la conseguente perdita di spine, è una caratteristica molto comune nei disturbi neurodegenerativi a decorso progressivo. Essa è stata osservata nella corea di Huntington (Cicchetti e Parent, 1996), nella demenza di Alzheimer, dove Arendt e collaboratori (1986) hanno trovato rigonfiamenti dendritici molto accentuati nei neuroni reticolari del nucleo basale di Meynert e nel nucleo della banda diagonale, nell’encefalopatia da HIV (Masliah et al., 1992), e nella sindrome di Creutzfeldt-Jacob (o encefalopatia spongiforme subacuta) nella quale si distinguono due tipi di rigonfiamento, i cui meccanismi patogenetici non sono ancora chiari, che possono interessare sia i dendriti sia gli assoni: il rigonfiamento semitranslucente ed il rigonfiamento scuro (Kim e Manuelidis, 1989). Inoltre, uno studio di biopsia cerebrale con l’impregnazione di Golgi in due soggetti affetti da questa malattia, ha rilevato la presenza di inusuali rigonfiamenti sferici dei processi assonali e dendritici (Landis, Williams e Masters, 1981). Le varicosità dendritiche possono contenere delle inclusioni intracellulari anomale come i corpi di Lewy presenti nel morbo di Parkinson. Nei neuroni contenenti melanina della pars compacta della substantia nigra, dove generalmente si trovano i corpi di Lewy, infatti, sono stati riscontrati importanti cambiamenti patologici come la diminuzione della lunghezza dei dendriti, la perdita di spine, e diversi tipi di varicosità (Patt et al., 1991). (6) Le eterotopie dendritiche e neuronali Lo studio delle eterotopie dei neuroni e dei processi neurali, consistenti nella presenza di cellule nervose in luoghi dove normalmente sono assenti, rientra nel più ampio novero delle patologie legate alle alterazioni dell’organizzazione cerebrale e, in particolare, dei disturbi del processo di migrazione (Barth, 1987; Chevassus Au Louis et al., 1998). La migrazione dei neuroni postmitotici, dalle zone periventricolari di origine fino alle diverse regioni corticali, costituisce, infatti, uno degli eventi di maggiore importanza nello sviluppo e nella differenziazione del sistema nervoso. Disordini della migrazione neuronale comportano la presenza di neuroni in posizioni anomale, ad esempio nella sostanza bianca cerebrale (Chevassus Au Louis et al., 1998). Le eterotopie neurali possono essere associate a molti disturbi e sindromi. Ottaviano e Ottaviano (2000) ne elencano le principali: Esposizioni fetali ai tossici: monossido di carbonio, etanolo, mercurio Malattie metaboliche: GM2-Gangliosidosi, sindrome di Hurler, sindrome di Menkes, malattia di Leigh, adrenoleucodistrofia neonatale, aciduria glutarica tipo II, iperglicemia non chetotica Distrofia miotonica Nefrosi familiari con eterotopie Sindromi neurocutanee: nevo sebaceo lineare, lipomatosi encefalocraniocutanee, sclerosi tuberosa, neurofibromatosi, incontinentia pigmenti Sindromi da anomalie congenite multiple: de Lange, digito-oro-facciale, Smith-Lemli-Opitz, Potter, Meckel-Gruber, Coffin-Siris Sindromi cromosomiche: Down (trisomia 21), Edwards (trisomia 18), Patau (trisomia 13), Wolf (delezione 4p). Le malattie il cui studio è stato centrato soprattutto sull’eterotopia dei dendriti e delle spine dendritiche sono la sindrome alcolica fetale (Ferrer e Galofre, 1987; Gleason, 2001), l’epilessia (Isokawa, 2000; Ribak e Khashayar, 2002), la gangliosidosi (Purpura, 1978; Walkley, 1987; Siegel e Walkley, 1994), la demenza di Niemann-Pick (Zervas, Dobrenis e Walkley, 2001), e i disturbi da immagazzinamento metabolico (Walkley, Baker e Rattazzi, 1990; Siegel e Walkley, 1994; Walkley, 1998; Siegel, Huang e Becker, 2002). La presenza di spine in luoghi dove normalmente sono assenti può indicare l’esistenza di uno stato di sviluppo persistente o retroattivo. Essa, infatti, è comune soltanto nei primi stadi dello sviluppo cerebrale (Fiala, Spacek e Harris, 2002). La dendridogenesi eterotopica sembra essere, quindi, una ricapitolazione del normale programma evolutivo. Capire la sua origine e le sue caratteristiche fornirebbe un’importante opportunità per comprendere i meccanismi sia della patologia sia dello sviluppo normale del sistema nervoso centrale (cfr. Siegel, Huang e Becker, 2002). Nelle patologie citate i meccanismi che portano all’eterotopia dei dendriti e delle spine sono imputabili a cause diverse, nonostante ciò, il fine ultimo sembra essere lo stesso: la necessità di una sinaptogenesi compensatoria come risposta alla perdita di inputs assonali (Fiala, Spacek e Harris, 2002). Anomalie ultrastrutturali delle spine dendritiche I dendriti, a differenza degli assoni e dei processi delle cellule gliali, contengono tutti gli organuli subcellulari necessari per la sintesi proteica (ribosomi, reticolo endoplasmatico ed apparato del Golgi). Alcuni di essi sono localizzati proprio in corrispondenza delle spine dendritiche ( Schwartz, 1994). Le spine contengono raramente dei mitocondri, ma in esse sono stati osservati una varietà di altri organuli subcellulari: molte contengono dei poliribosomi, altre delle vescicole endosomiali responsabili dell’endocitosi e del riciclo della membrana plasmatica. Alcune ricerche hanno rilevato la presenza di un corpo endosomiale multivescicolare nelle spine di grandi dimensioni (cfr. Fiala, Spacek e Harris, 2002). Il reticolo endoplasmatico liscio (SER) è spesso presente nelle spine dei neuroni cerebellari di Purkinje, mentre in altre regioni del cervello è molto più raro. Circa il 50% delle spine dei neuroni ippocampali contiene questa struttura che, nella maggioranza delle grandi spine è organizzata in un sistema stratificato denominato “apparato intracellulare della spina” (Harris, 1999). Quest’ultimo, assieme al SER, sembra essere specializzato nel regolare il livello intradendritico di Ca++ durante l’attività sinaptica (Fifkova, Markham e Delay, 1983; Spacek e Harris, 1997). I cambiamenti ultrastrutturali delle spine dendritiche comprendono: la comparsa di spine elettrondense; le alterazioni degli organuli subcellulari e del citoscheletro; le spine dendritiche giganti, o megaspine (cfr. Fiala, Spacek e Harris, 2002). (1) Le spine dendritiche elettrondense I neuroni possono mostrare, oltre ad un rigonfiamento dei tronchi dendritici, una densificazione del citoplasma a seguito della perdita dell’integrità degli organuli subcellulari. Ciò può provocare delle gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico dei dendriti e delle spine dendritiche, e portare alla comparsa delle spine elettrondense. Esse sono così definite poiché, se osservate con un microscopio elettronico, appaiono di colore scuro (Fiala, Spacek e Harris, 2002). Le spine elettrondense sono il prodotto di un processo degenerativo a carico dei dendriti quasi sempre associato a morte cellulare. La loro presenza è comune nelle regioni colpite da necrosi a seguito di ingiurie traumatiche, ad esempio nella deafferentazione neuronale con conseguente atrofia dendritica (Deitch e Rubel, 1989), e nei disturbi neurodegenerativi come il morbo di Alzheimer (Baloyannis, Manolidis e Manolidis, 1992). (2) Alterazioni degli organuli subcellulari La patologia delle spine dendritiche include anche le alterazioni degli organuli subcellulari, sebbene esse siano state studiate meno estesamente delle anomalie morfologiche strutturali. Le alterazioni degli organuli subcellulari possono avere diversa origine: in alcuni casi esse sono causate da danni ai neuroni postsinaptici, in altri da un’abnorme attività eccitatoria di cui il rilascio eccessivo di glutammato è il fattore principale (Oliva, Lam e Swann, 2002). Sebbene tutte le componenti dell’ultrastruttura dendritica, dal citoscheletro ai poliribos omi alle vescicole endosomiali, possano essere coinvolte nella patologia delle spine dendritiche, gli organuli subcellulari che hanno ricevuto maggiore attenzione da parte degli studiosi sono il reticolo endoplasmatico liscio (SER) e l’apparato intracellulare. La principale anormalità del SER consiste in un accentuato rigonfiamento della sua struttura. Questo tipo di dilatazione è stata osservata nei tessuti cerebrali colpiti da edema, ma è presente anche nelle spine dei neuroni di Purkinje in seguito all’abuso cronico di etanolo (Dlugos e Pentney, 2000). Dlugos e Pentney (2000), analizzando al microscopio elettronico preparati cerebellari di ratti sottoposti a consumo cronico di questa sostanza, hanno rilevato la presenza di alterazioni morfologiche del reticolo endoplasmatico liscio nei dendriti e nelle spine dei neuroni di Purkinje. I loro risultati hanno mostrato un significativo rigonfiamento del SER dopo 40 settimane di consumo cronico di etanolo ed una sua progressiva scomparsa dopo la cessazione del trattamento sperimentale. Le anomalie dell’apparato intracellulare includono, invece, oltre ai fenomeni di dilatazione già osservati a carico del SER, un’ipertrofia strutturale, ovvero una marcata atrofia. Esse sono state osservate nei tessuti tumorali e nell’edema cerebrale (Fiala, Spacek e Harris, 2002). (3) Spine dendritiche giganti Molte noxae neurologiche comportano processi neurodegenerativi e necrosi dei neuroni e delle sinapsi con conseguente grave carenza di inputs eccitatori. I neuroni dispongono di una serie di meccanismi compensatori per far fronte a tali patologie. Uno di essi consiste nel bilanciare la perdita di afferenze eccitatorie incrementando il numero di sinapsi glutammatergiche. A volte, però, sono presenti pochi assoni superstiti e questi non possono garantire un aumentato e sufficiente numero di tali connessioni. È in questi casi che si formano le spine dendritiche giganti. Questo tipo di anomalia strutturale, a cui si associa l’ipertrofia degli organuli subcellulari, presente nella malnutrizione, nella deafferentazione, nella sclerosi tuberosa e nella sindrome di Down, costituisce un mezzo per ingrandire la superficie cellulare in grado di ricevere contatti sinaptici, e rappresenta, quindi, un tentativo di ripristinare il livello normale di afferenze eccitatorie (Fiala, Spacek e Harris, 2002). Capitolo II I primi studi: la disgenesia delle spine dendritiche ed il ritardo mentale non classificabile I primi studi sulle anomalie dendritiche nei disturbi associati a ritardo mentale sono stati compiuti agli inizi degli anni settanta del Novecento, quando, grazie alla riscoperta dell’impregnazione argentica di Golgi, una tecnica colorimetrica con cui è possibile osservare con una buona risoluzione spaziale le cellule nervose ed i loro processi anatomici (cfr. quadro 2.1), ed all’uso del microscopio elettronico, Huttenlocher (1970, 1974, 1975) e Purpura (1974, 1975a, 1975b) hanno ipotizzato che deficits specifici nello sviluppo sinaptico e dendritico della corteccia cerebrale costituissero l e basi anatomiche di molte forme di ritardo mentale. Questi autori hanno rilevato due anomalie principali nella corteccia cerebrale degli individui affetti da disturbi associati a ritardo mentale: una marcata riduzione nel numero e nella lunghezza degli alberi dendritici, ed alterazioni nella morfologia e nella densità delle spine. Quadro 2.1. L’impregnazione argentica Nel 1873 Camillo Golgi pubblica sulla Gazzetta Medica Italiana un breve articolo “Sulla struttura della sostanza grigia del cervello”, in cui descrive come, “studiando le impregnazioni metalliche […] dopo una lunga serie di tentativi”, sia riuscito ad osservare, per la prima volta nella storia, gli elementi costituenti i tessuti nervosi ed i loro processi anatomici. Il metodo scoperto da Gol gi, da lui denominato reazione nera (oggi meglio noto come impregnazione di Golgi o argentica) dal colore con cui apparivano le cellule nervose trattate, ha contribuito in modo sostanziale alla conoscenza dell’organizzazione strutturale dei tessuti nervosi. La reazione nera consiste in una prima fase in cui un blocco di tessuto cerebrale (approssimativamente 10x5 mm) è immerso in una soluzione acquosa al 2% di dicromato di potassio, successivamente si esegue l’impregnazione degli elementi nervosi con nitrato di argento, infine lo si taglia in sezioni di 20-100 micron che saranno deidratate rapidamente con etanolo. Il risultato finale è un preparato in cui è possibile osservare dettagliatamente la complessa morfologia dei neuroni, compresi gli assoni e le arborizzazioni dendritiche. Il grande vantaggio di questa tecnica colorimetrica consiste nel fatto che, per motivi ancora sconosciuti, evidenzia casualmente soltanto un piccolo numero di cellule (in genere tra l’1% ed il 5%), permettendo l’emergere di singol i elementi nervosi dall’insieme del tessuto esaminato (Mazzarello, 1999). Il metodo di Golgi è stato pressoché dimenticato negli anni compresi tra le due guerre mondiali, ed è stato riscoperto soltanto in seguito all’avvento del microscopio elettronico intorno alla metà del ventesimo secolo. Dagli anni settanta ad oggi la reazione nera è stata utilizzata in molte ricerche e sulle sue basi teoriche sono state proposte nuove tecniche di indagine (vedi ad esempio Feldman e Peters, 1979; un confronto tra due di esse, il metodo rapido di Golgi ed il metodo Golgi-Cox, è riportato in Buell, 1982), non solo in combinazione con il microscopio elettronico, ma anche come tecnica autonoma nello studio della patologia neuronale e dendritica e dello sviluppo ed organizzazione del sistema nervoso (Pannese, 1999). Eppure, sebbene la sua applicazione sui tessuti nervosi animali sia molto diffusa nell’ambito delle neuroscienze sperimentali, ci sono pochi studi effettuati su materiale umano (cfr. Jagadha e Becker, 1989, per una rassegna sui dati riguardanti lo sviluppo e la patologia del sistema dendritico nell’uomo). Huttenlocher (1975) ha dimostrato, studiando i cervelli di individui con ritardo mentale grave e non classificabile (cfr. quadro 1.1), la presenza di difetti nel numero, nella lunghezza e nella disposizione spaziale dei dendriti e delle sinapsi in sei degli undici soggetti esaminati. Sebbene l’eziologia del ritardo mentale restasse sconosciuta nella maggioranza dei casi osservati, l’autore ha suggerito l’esistenza di molteplici fattori causali attivi nei periodi sensibili della crescita dendritica e sinaptica (in particolare dall’ultimo trimestre di vita intrauterina ai primi anni postnatali), attribuendo, in tal modo, un ruolo di primaria importanza alle anormalità anatomiche neuroevolutive. Le scoperte di maggior rilievo sono tuttavia legate alle alterazioni morfologiche delle spine dendritiche (Marin Padilla, 1972, 1974, 1975, 1976; Purpura, 1974). Marin Padilla, studiando le anomalie neuroanatomiche nelle cromosomopatie (Marin Padilla, 1972, 1974, 1976), tra cui le sindromi di Patau e di Down, in altre condizioni neuropatologiche associate a ritardo mentale ed in alcune situazioni sperimentali (Marin Padilla, 1975), ha individuato nelle anomalie strutturali delle spine dendritiche la chiave per poter spiegare i diversi gradi di ritardo cognitivo e motorio in esse presenti. Nella sindrome di Down (Marin Padilla, 1976), ad esempio, l’autore rileva, oltre ad una diffusa necrosi neuronale, tre principali alterazioni strutturali delle spine dendritiche nei neuroni piramidali della corteccia visiva: spine insolitamente lunghe, ovvero molto corte, ed una marcata diminuzione del loro numero. Simili anormalità sono considerate dall’autore alla base della disfunzionalità di quei neuroni che contraggono sinapsi assospinose. Le spine dendritiche (elementi postsinaptici), infatti, sono molto sensibili e le loro alterazioni compromettono gravemente la trasmissione degli inputs nervosi. Il contributo di maggior importanza si deve, tuttavia, a Purpura. Egli, in un articolo del 1974, Dendritic spine ‘dysgenesis’ and mental retardation, ha coniato il termine “disgenesia” delle spine dendritiche, identificando un particolare pattern evolutivo tipico del ritardo mentale grave, caratterizzato da spine rade, lunghe e sottili simili a quelle osservate negli stadi immaturi del neurosviluppo. La disgenesia delle spine dendritiche è stata riscontrata anche in ricerche più recenti (von Bossanyi e Becher, 1990; Logdberg e Brun, 1993). Von Bossanyi e Becher (1990), studiando le spine dendritiche dei neuroni piramidali nel quinto strato corticale del lobo frontale in bambini con ritardo mentale grave, hanno riscontrato una significativa riduzione della densità dendritica nei soggetti sperimentali se confrontati con i controlli, e spine sprovviste di testa e più sottili nei primi. Eppure, nonostante questi dati siano stati confermati in diversi studi, il significato della patologia dendritica nel ritardo mentale grave e non classificabile resta ancora poco chiaro. I cambiamenti nelle arborizzazioni dendritiche, e nelle spine in particolare, infatti, non sono necessariamente presenti in tutti i casi (Huttenlocher, 1974, 1991; Williams et al., 1980). Huttenlocher (1991) ha osservato che gli alberi dendritici degli individui con ritardo mentale dal moderato al profondo sono comparabili con quelli dei soggetti di controllo appaiati per età. A conclusioni simili sono giunti Williams e collaboratori (1980) compiendo un esame neuropatologico completo sul materiale autoptico di quattro individui affetti da autismo (cfr. pp. 92-93 di questo lavoro). I dati ottenuti dagli studi pionieristici di Huttenlocher, Purpura e Marin Padilla sulle alterazioni strutturali delle spine dendritiche nel ritardo mentale non clas sificabile, quindi, pur avendo il merito di aver dimostrato la possibile presenza della patologia dendritica nei disturbi ad esso associati, non forniscono evidenze conclusive a proposito del loro reale significato: hanno un ruolo causale nel determinare le diverse forme ed i differenti gradi del ritardo mentale, o rappresentano un semplice effetto delle noxae neurologiche? Lo studio delle anomalie dendritiche nel ritardo mentale può godere, attualmente, di due importanti conquiste scientifiche in grado di fornire un migliore potenziale esplicativo capace di far fronte a tali domande: (a) l’avvento di nuove tecniche di analisi ultrastrutturale dei processi nervosi (microscopio elettronico e programmi computerizzati di grafica tridimensionale); (b) la scoperta dei meccanismi eziopatogenetici di molti disturbi associati a ritardo mentale. Purpura e collaboratori (1982), usando l’impregnazione di Golgi ed il microscopio elettronico, hanno descritto le alterazioni dell’organizzazione microtubulare dei dendriti corticali in soggetti con gravi deficits neurocomportamentali ed eziologia sconosciuta. Gli autori hanno osservato che le varicosità dendritiche riscontrate in questi soggetti, sia nei neuroni piramidali sia in quelli non piramidali, sono associate alla disgenesia delle spine dendritiche ed alla alterazione dell’organizzazione dei microtubuli. Questi dati hanno trovato conferma in un lavoro di Bodick e collaboratori (1982). Gli autori, studiando dei soggetti con gravi deficits neurocomportamentali per mezzo di tecniche di computergrafica tridimensionale, hanno dimostrato che i cambiamenti nell’organizzazione dei microtubuli sono alla base delle anomalie dendritiche, e che questi danno origine a dei legami aberranti tra gli elementi del citoscheletro. Per quanto riguarda i progressi compiuti nel definire l’eziologia delle principali condizioni associate a ritardo mentale, oltre alle importantissime scoperte compiute prima degli anni settanta, vale a dire precedenti all’interesse per il ruolo delle anomalie dendritiche nel ritardo mentale, basti citare lo studio di Lejeune, Gautier e Turpin (1959) in cui la trisomia del cromosoma 21 è indicata quale causa della sindrome di Down, o quello di Lubs (1969) che identifica la sindrome della X fragile come risultato dell’abnorme presenza del trinucleotide CGG nel DNA del cromosoma X, è di grande importanza la recente identificazione del gene MECP2, anch’esso associato al cromosoma X, responsabile di gran parte dei casi di sindrome di Rett (Amir et al., 1999) che ha reso possibile una diagnosi più accurata di questa patologia (cfr. capitolo successivo). Quadro 2.2. I modelli animali nello studio della patologia dendritica associata a ritardo mentale L’impiego di modelli animali nello studio delle anomalie dendritiche assoc iate a ritardo mentale ha consentito una valutazione migliore dei patterns neuroevolutivi sia nello sviluppo tipico (Boothe et al., 1979), sia in molte condizioni patologiche (Lacey, 1984, 1986; Holtzman et al., 1996; Comery et al., 1997). Esso ha permesso, inoltre, di riprodurre sperimentalmente diversi fattori ambientali in grado di provocare, nelle cavie di laboratorio, caratteristiche neuropsicologiche e comportamentali simili a quelle osservate nella patologia umana. Ciò è di grande importanza per lo studio di quelle forme di ritardo mentale la cui popolazione clinica è limitata. I modelli animali sono stati utilizzati nello studio delle principali sindromi genetiche associate a ritardo mentale. Holtzman e collaboratori (1996) studiando la patogenesi delle anormalità cerebrali presenti nella sindrome di Down, ne hanno analizzato un nuovo modello genico utilizzando cavie di laboratorio: la trisomia parziale del cromosoma 16. La porzione distale di questo cromosoma ha, infatti, una composizione genica omologa a quella del cromosoma 21 (Oster Granite et al., 1986; Haydar et al., 1996), la cui trisomia causa la sindrome di Down (cfr. Kola e Pritchard, 1999, per una rassegna sui modelli animali impiegati nello studio di questa patologia). Comery e collaboratori (1997) hanno descritto la morfologia delle spine dendritiche nella corteccia cerebrale di topi transgenici portatori della “mutazione completa” del gene Fmr1, responsabile della sindrome della X fragile (cfr. capitolo III). Gli autori hanno dimostrato che le spine dei dendriti apicali in neuroni piramidali del quinto strato corticale nella corteccia visiva di queste cavie, sono più lunghe e sottili di quelle dei soggetti di controllo e mostrano una forma tortuosa ed irregolare. Questi dati sono paragonabili a quanto rilevato nei pazienti umani (Rudelli et al., 1985; Hinton et al., 1991). Lacey (1984, 1986) ha utilizzato dei ratti per studiare le anomalie dendritiche nella fenilchetonuria (PKU). Questo autore ha osservato un sensibile incremento delle spine dendritiche nell’ippocampo di ratti iperfenilalaninemici (Lacey, 1984), ed una loro diminuzione nella corteccia di cuccioli le cui madri avevano subito, durante la gestazione, iniezioni di fenilacetato (PKU materna) (Lacey, 1986). I modelli sperimentali che utilizzano animali hanno avuto un ruolo importante anche nello studio delle forme di ritardo mentale dovute a fattori ambientali. Essi sono stati impiegati nelle ricerche sulla malnutrizione caloproteica grave (Clos et al., 1977; Diaz Cintra et al., 1990, 1994; Andrade et al., 1995, 2002), nell’ipotiroidismo (Ipina e Ruiz Marcos, 1986; Ruiz Marcos e Ipina, 1986), nella sindrome alcolica fetale e nel consumo cronico di alcool (Cadete Leite et al., 1989, 1990; Tarelo Acuna et al., 2000; Yanni e Lindsley, 2000), nelle condizioni perinatali anossico-ischemiche (Miyasaka et al., 2000; Piccini et al., 2001), nella deprivazione sensoriale (Valverde, 2002), e nell’esposizione a fattori teratogenici prenatali come la cocaina (Xavier et al., 1995), il glutammato m onosodico (Gonzales Burgos et al., 2001), l’alluminio (Forbes et al., 2002; Sreekumaran et al., 2003), e l’irradiazione con raggi X (Ferrer et al., 1991). I modelli animali hanno costituito un importante mezzo di ricerca anche negli studi sulla plasticità dendritica (Lendvai et al., 2000), sull’influenza dell’arricchimento ambientale nello sviluppo cognitivo e cerebrale, e sul ruolo dei potenziali rimedi postnatali nelle condizioni neuropatologiche (Greenough et al., 1985, 1987; Diaz Cintra et al., 1994; Rema ed Ebner 1999). È stato dimostrato che la stimolazione ambientale provoca l’incremento della lunghezza e della complessità delle arborizzazioni dendritiche in diverse regioni corticali. Greenough e collaboratori (1985), ad esempio, hanno dimostrato che ratti posti in gabbie ricche di stimoli sensoriali presentano, nella corteccia visiva, uno sviluppo maggiore di sinapsi per neurone, ed una frequenza più elevata di spine con poliribosomi rispetto agli animali di controllo allevati in un ambiente standard. Per quanto riguarda gli effetti di potenziali rimedi postnatali in cavie sperimentali con noxae neurologiche, i dati a disposizione sono contrastanti. Rema ed Ebner (1999), studiando gli effetti dell’arricchimento ambientale sui danni all’eccitabilità e plasticità corticali causati dall’esposizione prenatale all’alcool, hanno dimostrato che un ambiente stimolante favorisce il recupero di queste funzioni cerebrali (cfr. Berman, Hannigan, Sperry e Zajac, 1996). Al contrario, Diaz Cintra e collaboratori (1994) hanno rilevato che le anomalie dendritiche, osservate nei neuroni piramidali della regione CA3 dell’ippocampo a seguito di malnutrizione prenatale nei ratti, non sono reversibili a seguito di riabilitazione nutrizionale postnatale. Questi studi dimostrano che in alcune patologie le alterazioni strutturali e funzionali dei dendriti e dei neuroni sono permanenti, o comportano effetti a lungo termine, mentre in altre possono essere compensate da stimoli specifici apportati nei primi periodi di vita postnatale. Capitolo III Le anomalie dendritiche nelle sindromi genetiche associate a ritardo mentale Le sindromi genetiche con patologia dendritica dimostrata La maggior parte degli studi sulle anomalie degli alberi dendritici e delle spine dendritiche nei soggetti con disturbi genetici e con sindromi cromosomiche associati a ritardo mentale, è stata focalizzata principalmente sui neuroni piramidali, che costituiscono gran parte delle cellule nervose della neocorteccia umana (Crosby et al., 1962; fig. 1.1). I disturbi genetici studiati più estesamente, alla luce della patologia dendritica, sono le sindromi di Down, di Rett, e della X fragile. (1) La sindrome di Down Nel 1866 John Langdon Down, medico ispettore presso l’Earlswood Asylum for Idiots, nel Surrey in Inghilterra, pubblica, sui “London Hospital Reports”, Observations on an ethnic classification of idiots (osservazioni su una classificazione etnica degli idioti) in cui riporta una descrizione dettagliata della malattia che successivamente assumerà il suo nome: la sindrome di Down (oggi anche conosciuta come trisomia 21). L’autore cerca di costruire un sistema nosologico-descrittivo che permetta di fare diagnosi nei primi tempi di vita del bambino, e di approntare i dovuti programmi riabilitativi “prima che sia troppo tardi”. Down propone una classificazione secondo raggruppamenti etnici, basata sulle osservazioni dirette e sull’immenso dibattito scientifico sorto attorno alle idee evoluzioniste di Darwin (purtroppo il dottor Down, come l’intera comunità s cientifica dell’epoca, ignorava gli studi sull’ereditarietà che, proprio in quegli anni, stava compiendo Gregorio Mendel): egli individua il tipo caucasico, quello etiopico, quello malese, e quello della grande famiglia mongola, all’interno della quale, sotto il nome “mongolismo”, è descritta la trisomia 21. L’autore ritiene che il mongolismo sia congenito e che, per la maggior parte dei casi, sia dovuto alla tubercolosi dei genitori. Langdon Down lega il suo nome alla sindrome in virtù della fortuna linguistica di cui ha goduto il termine mongolismo nell’immaginario collettivo. In effetti è singolare che il suo lavoro scientifico, nonostante sia stato foriero di pregiudizi e discriminazione razziali e teoricamente inesatto, sia sopravvissuto nella dicitura “sindrome di Down” a dispetto di termini quali “trisomia 21”, scientificamente più appropriato e giustificabile, o “sindrome di Séguin”, storicamente più adatto (fu Edouard Séguin, infatti, nel 1846, a fornire una prima approssimativa descrizione di questa patologia nel suo studio Le Traitement Moral, l’Hygiène et l’Éducation des Idiots). La sindrome di Down è la più frequente causa genetica del ritardo mentale (Moser, 1995). Essa è responsabile del 25% dei ritardi mentali gravi (Collins e Brinkwort, 1980), con un’incidenza, negli Stati Uniti, di circa 1 su 1000 nati vivi (l’incidenza, tuttavia, aumenta con l’avanzare dell’età materna), ed una prevalenza, nella popolazione del Regno Unito, di 4.63 su 10000 individui (Lott, 1986). Sebbene la sua eziologia sia riconducibile, in genere, alla trisomia libera del cromosoma 21 (la regione critica, 21q22.1q22.3, sembra essere costituita da circa 30-40 geni; Korenberg, Pulst e Gerwehr, 1992), nella maggioranza dei casi originata da nondisgiunzione materna alla prima divisione meiotica o, più raramente, alla duplicazione della banda distale del suo braccio lungo dovuta a traslocazione (circa il 5%), vi è un’esigua percentuale di pazienti che presentano una trisomia 21 in mosaico (circa il 3%) (Ottaviano e Ottaviano, 2000). Le principali caratteristiche cliniche, presenti fin dalla nascita, comprendono: ipotonia, riflesso di Moro incompleto o assente, facies rotondeggiante, naso piccolo, rime palpebrali corte ed inclinate verso l’alto, pliche epicantali, labbra sottili, ipoplasia mandibolare, brachicefalia con occipite piatto che appare in continuità con la nuca, padiglione auricolare corto con lobulo piccolo e scarso sviluppo dell’elice superiore, collo corto con cute lassa e abbondante, clinodattilia del mignolo, anomalie dei dermatoglifi, possibile basso peso alla nascita (SGA), e malformazioni cardiache (in circa il 45% dei casi) (Mastroiacovo et al., 1990). Il cervello dei pazienti Down mostra una considerevole riduzione ponderale negli emisferi, nel troncoencefalo e nel cervelletto, presenta una caratteristica forma rotondeggiante, dimensioni notevolmente inferiori alla norma, un appiattimento della regione occipitale, ed un ritardo nel processo di mielinizzazione delle fibre corticali evidente soprattutto nelle cortecce associative. L’aspetto delle circonvoluzioni cerebrali è in genere normale fatta eccezione per la presenza di un arresto evolutivo nei giri delle cortecce prefrontale e temporale superiore (Wisniewski et al., 1986; Wisniewski, 1990; Wisniewski e Kida, 1994). Wisniewski (1990) ha esaminato 780 circonferenze occipitofrontali (OFC) di bambini con trisomia 21, dalla nascita al quinto anno di età, e 101 pazienti Down confrontati con 80 individui di controllo (1986), col fine di raccogliere dati inerenti al peso, alla forma, alla mielinizzazione e all’organizzazione corticale del loro cervello. Il 20% dei bambini Down ha presentato una OFC al di sotto dei valori di controllo. Il cervello di questi bambini ha una forma simile a quella riscontrata nei bambini sani ma, dopo il terzo-quinto mese di età, comincia a mostrare un diametro antero-posteriore sensibilmente inferiore ai controlli. Nel 33% dei pazienti Down l’autore ha riscontrato un giro temporale superiore notevolmente ridotto. L’esame microscopico ha evidenziato un ritardo nel processo di mielinizzazione nel 22.5% degli individui trisomici. Le analisi morfometriche hanno rilevato un numero ridotto di neuroni e di sinapsi (dal 20 al 50% in meno rispetto ai controlli), specialmente negli strati corticali II e IV. Queste anormalità neuroanatomiche, non sempre ben visibili alla nascita, diventano evidenti nel corso della prima infanzia. D’altra parte, i cambiamenti neuropatologici non sembrano interessare tutte le regioni corticali. Wisniewski e collaboratori (1986), infatti, esaminando lo sviluppo dell’ispessimento degli strati corticali in tre distinte aree di Brodmann (17, 10 e 28) in cervelli Down e di controllo hanno dimostrato che, per quanto riguarda il pattern evolutivo delle aree 10 e 17, non ci sono differenze significative tra i due gruppi alle diverse età considerate. L’area 28 presenta, invece, una diminuzione dell’ispessimento corticale notevole nei pazienti trisomici tra gli 11 ed i 14 anni, e meno importante al di sotto di questa età. Nella sindrome di Down sono state riscontrate, inoltre, alcune disfunzioni biochimiche quali l’ipocalcemia, anomalie nel metabolismo del triptofano, il decremento di una proteina denominata “drebrin”, situata nelle spine dendritiche e responsabile della plasticità s inaptica nelle cortecce frontale e temporale (Weitzdoerfer et al., 2001; Shim e Lubec, 2002), possibile ipotiroidismo (Ottaviano e Ottaviano, 2000), un rischio maggiore, rispetto ai soggetti normali, di leucemia (Epstein, 1986; Korenberg et al., 1994), ed un’elevata commorbidità con il morbo di Alzheimer negli individui adulti (Ball et al., 1986; Coyle et al., 1986; Takashima et al., 1989; Korenberg et al., 1994; De La Monte, 1999). La caratteristica clinica più eclatante è, però, il ritardo mentale: esso può variare da un livello moderato (QI tra 35 e 55) ad un livello gravissimo (QI inferiore a 25) (cfr. appendice A); i pazienti con mosaicismo hanno un QI più elevato e migliori abilità scolastiche. Gli individui con sindrome di Down mostrano, inoltre, deficits nella processazione visiva e nelle capacità attentive, difficoltà nelle competenze verbali, in particolare nel linguaggio espressivo, nella grammatica e nella pronuncia, buone competenze sociali, con comportamenti passivi ma pronti all’interazione ed alla comunicazione affettiva, anche se alcuni possono avere problemi emozionali e mostrare crisi di rabbia ed iperattività. L’aspettativa di vita degli individui affetti da trisomia 21 è sensibilmente aumentata negli ultimi decenni, ciò è dovuto soprattutto alla possibilità di migliori cure mediche (principalmente per le cardiopatie): circa il 20% dei pazienti muore prima del decimo anno di età (in genere a causa di malformazioni cardiache), il 50% giunge fino alla soglia dei 60 anni, ed appena il 10% vive più di 70 anni (Ottaviano e Ottaviano, 2000). “Nel bambino con sindrome di Down sono state descritte importanti anomalie dello sviluppo dendritico e assonale. Occorre sottolineare che alterazioni significative di altre anomalie dello sviluppo cerebrale non sono state descritte in questi soggetti e pertanto le cospicue anomalie dendritiche e assonali debbono essere considerate come la caratteristica neuropatologica fondamentale e la causa principale del relativo ritardo mentale” (Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 33). Le anomalie dendritiche nella sindrome di Down hanno cominciato ad essere oggetto di interesse per gli scienziati a partire dall’inizio degli anni settanta. Da questo periodo vi sono state molte ricerche che hanno indagato l’organizzazione neuronale e dendritica di questa patologia osservandone lo sviluppo cerebrale in diverse regioni corticali. Lo studio pionieristico di Marin Padilla (1972) sulle anomalie strutturali della corteccia cerebrale nelle aberrazioni cromosomiche umane, tra i primi ad analizzare la patologia delle spine dendritiche nei disturbi associati a ritardo mentale, comprendeva un bambino di 18 mesi affetto da sindrome di Down. L’autore ha dimostrato che le spine dendritiche osservate in questa patologia hanno densità e dimensioni ridotte e presentano, nei neuroni della corteccia motoria, dei corti peduncoli assenti nello sviluppo normale. Queste anomalie contrastano con quelle osservate nella sindrome di Patau (causata dalla trisomia del cromosoma 13) (Marin Padilla, 1972, 1974), che presentano le caratteristiche tipiche della “disgenesia delle spine” descritta da Purpura (1974) nel ritardo mentale non classificabile, ossia una diminuzione della densità ed un profilo lungo e tortuoso. Marin Padilla, in uno studio di followup del 1976, completò le sue osservazioni sulla patologia dendritica dei pazienti con trisomia 21: essa sembrava non avere le caratteristiche di specificità osservate nel lavoro precedente. Oltre ad una peculiare forma di vacuolizzazione dendritica ed a processi di necrosi neuronale, l’autore, infatti, rileva, nelle cellule piramidali della corteccia motrice, tre tipi di anomalie: spine insolitamente lunghe (già riscontrate nella sindrome di Patau e nel ritardo mentale non classificabile) ovvero molto corte, ed una marcata riduzione del loro numero. Marin Padilla ha ipotizzato che queste anomalie cerebrali possano essere responsabili della incoordinazione motoria e del ritardo mentale propri della sindrome di Down, ma fa osservare che il raggiungimento di evidenze conclusive necessita di ulteriori ricerche capaci di descrivere in dettaglio l’organizzazione strutturale della corteccia cerebrale umana sia nello sviluppo tipico sia in quello patologico. Una delle prime ricerche i cui dati sembrano suffragare quest’ipotesi fu effettuata da Suetsugu e Mehraein (1980), i quali, utilizzando la tecnica dell’impregnazione argentica, hanno rilevato il numero di spine sui dendriti apicali nei neuroni piramidali dell’ippocampo e del giro del cingolo in sette pazienti Down senza s egni di demenza senile. Gli autori hanno dimostrato che, in questa cromosomopatia, il numero delle spine nei segmenti distali e mediali dei dendriti apicali è significativamente inferiore rispetto ai soggetti di controllo. Essi considerano tale anomalia come una caratteristica peculiare della trisomia 21, poiché, in base alle loro osservazioni, non compare in altre condizioni associate a ritardo mentale e nei pazienti con ritardo mentale non classificabile. Questi dati sono stati confermati da Ferrer e Gull otta (1990). Gli autori hanno esaminato la densità delle spine dendritiche nei neuroni ippocampali di quattro pazienti Down (due senza segni di demenza senile, e due con associato morbo di Alzheimer), riscontrando una significativa riduzione delle spine nei segmenti apicali e basali delle arborizzazioni dendritiche nei campi CA1 e CA2-3 dell’ippocampo nei pazienti Down senza Alzheimer rispetto ai soggetti di controllo, ed un decremento più marcato nei pazienti Down con Alzheimer rispetto sia ai controlli, sia ai pazienti Down senza demenza senile. Per quanto riguarda le anormalità dell’organizzazione cerebrale, Golden e Hyman (1994), esaminando i patterns evolutivi di migrazione e di maturazione neuronale nella corteccia temporale superiore di pazienti con s indrome di Down, hanno rilevato un ritardo ed un’alterazione dello sviluppo e dell’organizzazione laminare che ha origine, secondo gli autori, durante il processo di differenziazione intralaminare, intorno al settimo mese di età gestazionale. Le anomalie delle spine dendritiche nella trisomia 21 sembrano essere una caratteristica neuropatologica tipica soltanto degli infanti e degli individui adulti. In questa sindrome genetica, infatti, fino ai quattro mesi di età, i neuroni mostrano alberi dendritici relativamente complessi ed espansi, ma, durante il primo anno di vita postnatale, si verifica un arresto dello sviluppo dendritico e la comparsa di una successiva atrofia neuronale (Becker et al., 1991). Takashima e collaboratori (1981), studiando lo sviluppo morfologico dei neuroni della corteccia visiva (il loro numero, le arborizzazioni dendritiche e la densità delle spine) in quattordici feti ed infanti con trisomia 21, hanno osservato che i primi mostrano uno sviluppo morfologico ed un numero di spine equi parabili a quelli riscontrati nei feti sani, mentre i neonati e gli infanti Down hanno dendriti basali più corti, un’accentuata diminuzione nella densità delle spine e presentano anormalità nella laminazione corticale rispetto ai controlli appaiati per età. Conclusioni simili sono riportate in altre ricerche più recenti (Becker et al., 1986; Schulz e Scholz, 1992; Vukšić et al., 2002). Becker e collaboratori (1986), studiando l’organizzazione degli alberi dendritici in otto bambini Down ed in dieci soggetti di controllo con un’età compresa tra i quattro mesi ed i sette anni, hanno dimostrato che in questa cromosomopatia è presente un’atrofia degli alberi dendritici durante la prima infanzia. La densità e la lunghezza dei dendriti, sia nei segmenti apicali sia in quelli basali, infatti, è simile nei controlli e negli infanti trisomici con meno di sei mesi di vita, tuttavia, dopo questa età, i bambini Down presentano una forte atrofia degli alberi dendritici che contrasta con l’incremento evolutivo dei bambini normali. Schulz e Scholz (1992), osservando i neuroni piramidali degli strati laminari III e V della corteccia parietale trattata col metodo Golgi-Cox in due bambini Down (un infante di venti mesi ed un bambino di sei anni), hanno rilevato un pattern evolutivo normale nella prima infanzia (cfr. Prinz et al., 1997), e la presenza di cambiamenti neurodegenerativi all’età di sei anni. Vukšić e collaboratori (2002) sono giunti a conclusioni simili studiando lo sviluppo perinatale dei neuroni piramidali del terzo strato della corteccia prefrontale. Gli autori hanno analizzato lo sviluppo dendritico in un infante nato prematuro, in uno di 2.5 mesi affetto da trisomia 21, ed in due soggetti di controllo appaiati per età durante il periodo di massima crescita e differenziazione dei dendriti. L’analisi qualitativa dei cervelli dei soggetti sperimentali ha rivelato un sensibile incremento nel numero, nella lunghezza e nello spessore dei segmenti dendritici tra il periodo fetale ed i primi mesi di vita postnatale, l’assenza di spine sui dendriti basali nell’ultimo periodo di vita fetale, ed un notevole incremento della densità delle spine dendritiche nei primi tempi di vita postnatale. Tali cambiamenti erano presenti sia nei soggetti di controllo sia nei pazienti Down. Vukšić e colleghi, non avendo riscontrato differenze significative nel processo di differenziazione dendritica tra i pazienti trisomici ed i soggetti di controllo, hanno concluso che i neonati Down presentano, alla nascita, un’organizzazione morfologica del terzo strato piramidale del tutto normale, ed hanno ipotizzato che i cambiamenti neuronali patologici si sviluppino in questa sindrome dopo 2.5 mesi di vita postnatale. L’atrofia dendritica osservata nell’infanzia continua nell’età adulta con una diminuzione marcata nella lunghezza e nella densità dei dendriti, e nel numero delle spine. Inoltre, le persone Down con più di trenta anni mostrano, occasionalmente, processi neurodegenerativi a carico dei neuroni piramidali e delle cellule stellate, in modo particolare nella corteccia temporale, che possono essere collegate all’insorgenza del morbo di Alzheimer (Takashima et al., 1989, 1994; Becker et al., 1991). Il ritardo mentale e la demenza caratteristici della trisomia 21 hanno un’origine complessa. Le ricerche che hanno utilizzato il metodo di Golgi hanno dimostrato che, nello sviluppo tipico, le spine dei dendriti basali aumentano costantemente dalla nascita fino al quindicesimo anno di età per poi diminuire dopo i venti anni. Questo pattern evolutivo è gravemente alterato nella sindrome di Down, infatti, ad un moderato incremento delle spine nei primi mesi di vita fa seguito, rapidamente, una loro notevole riduzione osservabile tanto nei bambini quanto negli adulti. D’altra parte, gli studi immunoistochimici sulle proteine, e sui geni allocati sul cromosoma 21, rivelano che nei neuroni dei pazienti Down è presente una complessa glicoproteina, la sostanza amiloide, uno dei segni patognomonici del morbo di Alzheimer (Takashima et al., 1994) (cfr. capitolo suc cessivo). (2) La sindrome di Rett Nel 1966 Andreas Rett, un medico viennese, pubblica la prima descrizione di una sindrome atrofica cerebrale di origine genetica, riscontrata solo nel sesso femminile, caratterizzata da scarso accrescimento generale, segni similautistici, movimenti stereotipati delle mani, andatura atassica ed inespressività facciale. A seguito di questo lavoro altri scienziati riportano casi simili in Giappone ed in Svezia (Ishikawa et al., 1978; Hagberg, 1980). Nel 1983 Hagberg e collaboratori, dopo aver consultato lo stesso Rett, presentano una descrizione dettagliata della sindrome frutto dell’analisi di 35 casi provenienti da tre paesi differenti (Svezia, Francia e Portogallo). Da allora questa patologia è stata riscontrata in diverse parti del mondo con un’incidenza stimata tra 1:12000 ed 1:15000 nate vive (Kerr e Stephenson, 1986; Witt Engerstrom e Gillberg, 1987). Nel 1990 l’International Rett Syndrome Association ha registrato 1420 casi nel mondo. “La caratteristica fondamentale del Disturbo di Rett è lo sviluppo di deficit specifici multipli successivo ad un periodo di sviluppo normale dopo la nascita. I soggetti hanno un periodo prenatale e perinatale apparentemente normale, con sviluppo psicomotorio normale nei primi 5 mesi di vi ta. Anche la circonferenza del cranio alla nascita è nei limiti della norma. Tra i 5 ed i 48 mesi di età la crescita del cranio rallenta. Vi è una perdita di capacità manuali finalistiche già acquisite in precedenza tra i 5 ed i 30 mesi di età, con successivo sviluppo di caratteristici movimenti stereotipati delle mani che somigliano al torcersi o al lavarsi le mani. L’interesse per l’ambiente sociale diminuisce nei primi anni dopo l’esordio del disturbo, sebbene l’interazione sociale possa spesso svilupparsi in seguito lungo il decorso. Insorgono problemi nella coordinazione dell’andatura o dei movimenti del tronco. Vi è anche una grave compromissione dello sviluppo della ricezione e dell’espressione del linguaggio [cfr. Kerr et al., 2001], con grave ritardo psicomotorio […] La modalità di regressione dello sviluppo è altamente specifica. Il Disturbo di Rett ha il proprio esordio prima dei 4 anni, di solito nel primo o nel secondo anno di vita. Permane per tutta la vita e la perdita delle capacità di prestazione è generalmente persistente e progressiva. Nella maggior parte dei casi, la remissione è piuttosto limitata, sebbene vi possano essere alcuni recuperi di sviluppo molto modesti e si possa osservare un interesse nell’interazione sociale quando il soggetto raggiunge la tarda fanciullezza o l’adolescenza. Le difficoltà di comunicazione e di comportamento di solito rimangono relativamente costanti per tutta la vita” (DSM-IV-TR, 2000, p. 92 tr. it.; cfr. quadro 3.1). Ottaviano ed Ottaviano (2000) indicano, a completamento dei criteri diagnostici del DSM, una serie di indici di supporto derivanti dai resoconti genitoriali e dalla letteratura scientifica: disfunzioni respiratorie in veglia; apnee ed iperventilazioni; espulsione forzata ovvero deglutizione di a ria o saliva; bruxismo; convulsioni ed anomalie EEG; scoliosi (comune dopo i cinque anni di vita); anomalie ECG ed instabilità vasomotoria; risate non provocate; grida inconsolabili; ridotte o alterate risposte al dolore; pointing (indicare con gli occhi) che molti genitori interpretano come un mezzo per esprimere necessità o desideri. La sindrome di Rett è causata, in una grande porzione di casi, dalla mutazione dominante di un gene (MECP2) legato all’eterocromosoma X, letale nel sesso maschile, che specifica per la proteina MeCP2 (X-linked methyl-CpG-binding protein 2) (Amir et al., 1999), ed è tipicamente associata al ritardo mentale grave o gravissimo (Perry et al., 1991). Gli studi neuropatologici compiuti negli anni ottanta, sull’onda dell’interesse suscitato nella comunità scientifica internazionale dal lavoro di Hagberg e collaboratori del 1983, hanno evidenziato, in questa patologia, una serie di anomalie apparentemente aspecifiche, ossia presenti anche in altre noxae del sistema nervoso centrale (Jellinger e Seitelberger, 1986; Jellinger et al., 1988; Casanova et al., 1989). Jellinger e collaboratori (1988), in uno studio autoptico su pazienti Rett decedute tra i 4 ed i 17 anni, hanno dimostrato: (a) una diffusa atrofia/microcefalia corticale, con una diminuzione del peso tanto maggiore quanto più protratta è stata la malattia; (b) una gliosi moderata ed un incremento della lipofuscinosi neuronale, senza segni di disturbi da immagazzinamento metabolico; (c) una depigmentazione della pars compacta della substantia nigra (cfr. Kitt e Wilcox, 1995); (d) una leggera diminuzione della secrezione ipofisaria di prolattina e dell’ormone della crescita; (e) la presenza di varicosità assonale nel nucleo caudato e nella corteccia frontale; (f) un incremento delle betaendorfine nel talamo e nel cervelletto; (g) un’assonopatia distale. Non sono stati riscontrati cambiamenti patologici nel locus coeruleus, nel nucleo basale di Meynert e nei nuclei dorsali del rafe (Jellinger e Seitelberger, 1986). Casanova e collaboratori (1989), utilizzando la risonanza mgnetica per immagini (MRI), hanno rilevato, in otto pazienti affette da sindrome di Rett ed in altrettanti soggetti di controllo appaiati per età, delle differenze significative per quanto riguarda il volume e la forma degli emisferi cerebrali e dei nuclei caudati (cfr. Armstrong et al., 1999; Dunn, 2001. Quest’ultimo ha riscontrato una riduzione importante non solo nella testa del nucleo caudato, ma anche nel talamo). A partire dagli anni novanta sono stati compiuti diversi studi sulle anomalie neuronali, sinaptiche e dendritiche nella sindrome di Rett (cfr. Dunn, 2001, review article). Cornford e collaboratori (1994), analizzando i cambiamenti neuronali nel cervello di una paziente affetta da questa sindrome genetica, a tre anni di età, grazie ad un prelievo bioptico nel lobo frontale, ed alla sua morte, dodici anni più tardi, hanno osservato un troncamento ed un ispessimento dei dendriti, ed una degenerazione dei neuroni piramidali simile a quella osservabile nel cervello delle persone anziane. Belichenko e collaboratori (1994) hanno dimostrato, per mezzo di una ricostruzione computerizzata tridimensionale di materiale autoptico da tre pazienti Rett e da sei casi di controllo, che diverse cellule piramidali, dalle cortecce motoria, mediotemporale e prefrontale, presentano un numero ridotto di dendriti e di spine. In uno studio successivo, Belichenko e collaboratori (1997) giungono a conclusioni simili comparando aree neocorticali di quattro pazienti Rett, di età compresa tra i 16 ed i 24 anni, con quelle di una paziente affetta da una forma di epilessia farmacoresistente, una paziente autistica, e due soggetti sani. Oltre alla diminuzione della lunghezza e del numero dei dendriti e delle spine, la sindrome di Rett è caratterizzata da una riduzione delle dimensioni delle cellule nervose e da un incremento della densità neuronale (Bauman et al., 1995). Partendo da queste ricerche Armstrong e collaboratori (1995; cfr. Armstrong, 1992) hanno esaminato, col metodo rapido di Golgi, sei diverse regioni corticali in tre pazienti con sindrome di Rett di età compresa tra i 2.9 ed i 35 anni, al fine di dimostrarne la specificità delle anomalie dendritiche e neuronali. La ricerca indica che, nel campione oggetto di studio, non è presente una degenerazione progressiva delle cellule piramidali correlata all’età, bensì che i dendriti basali del terzo e del quinto strato nelle cortecce motoria e frontale, i dendriti apicali del quinto strato nella corteccia motoria ed i dendriti basali del quarto strato nel subiculum sono significativamente più corti nei cervelli Rett che in quelli non Rett. La corteccia occipitale appare relativamente preservata (Reiss et al., 1993; Armstrong et al., 1995). In uno studio successivo (Armstrong et al., 1998) gli autori mettono a confronto la riduzione delle arborizzazioni dendritiche nelle cortecce frontale, motoria e limbica nelle sindromi di Rett e di Down. Armstrong e collaboratori rilevano che i dendriti basali degli strati III e V della corteccia fronta le, del quarto strato del subiculum e del quinto della corteccia motoria, ed i dendriti apicali del terzo strato della corteccia frontale sono maggiormente ridotti nella sindrome di Rett che nella trisomia 21. A conferma di ciò Kaufmann e collaboratori (1995; 1997) hanno dimostrato che nella sindrome di Rett vi è la diminuzione di due proteine, MAP-5 e MAP-2 (microtubule-associated protein), che favoriscono l’iniziale sviluppo dei dendriti e che, nella malattia di Down, presentano un relativo e generalizzato incremento. Questi lavori testimoniano la gravità delle alterazioni dendritiche presenti nella sindrome di Rett e suggeriscono l’esistenza di un deficit o di un arresto dello sviluppo neurale nella fase critica dell’elaborazione sinaptica e della differenziazione dendritica. Un’ipotesi simile è stata avanzata da Johnston e collaboratori (2001). Gli autori, considerando che il rallentamento della crescita della circonferenza cranica e dello sviluppo psicomotorio, tipici della sindrome di Rett, coincidono con il periodo critico di proliferazione sinaptica, sostengono che la patologia dendritica e la riduzione numerica delle sinapsi siano causate dall’inibizione di questa fase proliferativa, riconducibile alla mutazione del gene MECP2 (cfr. Amir et al., 1999). “All’inizio dello sviluppo si ha un’iperproduzione sinaptica […] Con il procedere dello sviluppo, le sinapsi in eccesso si perdono, grazie ad un processo di selezione che permette la conservazione delle sole sinapsi atte a costituire l’emergere di un sistema ordinato su un insieme di connessioni multiple molto meno organizzate. In altre parole, in presenza delle stimolazioni sensoriali si verifica nella corteccia un processo di selezione che porta al mantenimento delle sinapsi stimolate e alla perdita di quelle che non lo sono” (Giovannelli, 1997, pp. 52-53) Il periodo di iperproduzione sinaptica ha un picco intorno ai 7-18 mesi di età postnatale, quando il processo di eliminazione selettiva attraversa un periodo di relativa stasi. Gli autori ipotizzano che nella sindrome di Rett, la mutazione del gene MECP2 inibisca la proliferazione delle sinaps i e/o ne stimoli l’eliminazione. Studi recenti hanno contribuito a fornire ulteriori evidenze empiriche sulla malattia di Rett, rilevando deficits multipli in diversi sistemi neurotrasmettitoriali, in modo particolare l’acetilcolina, le amine biogene ed il GABA, nel tronco dell’encefalo e nel mesencefalo (Amitia, 2001; Dunn, 2001; Matsuishi et al., 2001). L’interpretazione di questi risultati è, nonostante ciò, problematica; le ricerche, infatti, non sono facilmente comparabili, poiché includono ragazze e donne in stadi diversi della malattia, ed utilizzano varie tecniche di indagine e campioni di tessuto cerebrale differenti (Armstrong, 2001). (3) La sindrome della X fragile La sindrome della X fragile, o di Martin-Bell dal nome degli autori che per primi la descrissero nel 1943 (cfr. quadro 3.2), è la forma più comune di ritardo mentale dopo la trisomia 21 (Moser, 1995), con un’incidenza nei soggetti di sesso maschile di 1 su 2000 nati vivi, pari ad una prevalenza nella popolazione clinica maschile con ritardo mentale del 5-7% (Blomquist et al., 1982), e nei soggetti di sesso femminile di 1 su 4000 nate vive (Brown, 1996). Il quadro clinico di questa condizione comprende, oltre al ritardo mentale variabile dal moderato al grave, un fenotipo somatico ed uno comportamentale: “Sul piano delle alterazioni fisiche alcune, come il viso allungato, le orecchie grandi e la macrorchidia si mettono più facilmente in rilievo dopo la pubertà. Anche in precedenza, tuttavia, vi sono alcune alterazioni somatiche che possono essere suggestive: la iperestensibilità delle articolazioni delle dita delle mani, la cute soffice ed elastica, il petto scavato, le scapole alate, la iperlordosi lombare, l’addome prominente, il piede piatto e la frequente presenza di macrocefalia. Dal punto di vista del comportamento si nota una spiccata tendenza all’evitamento oculare e tattile, un linguaggio a evoluzione ritardata con difficoltà semantiche e pragmatiche e con tendenza alla perseverazione (parlare in continuazione) e ai commenti irrilevanti. V’è spesso un alto livello di ansia che aumenta con i cambiamenti improvvisi di situazione (comparsa di persone inaspettate), in contesti conflittuali o chiassosi e in presenza di rumori forti e luci violente” (Zappella, 2001, p. 37). La sindrome della X fragile è causata dalla mutazione del gene Fmr1 (fragile mental retardation 1) (Verkerk et al., 1991; Verheij et al., 1993), allocato sul braccio lungo del cromosoma X, in posizione Xq27.3 (Harrison et al., 1983). Il nome “X fragile” deriva, appunto, dal fatto che l’alterazione di questo gene provoca delle modificazioni nella struttura del cromosoma X che, al microscopio, presenta una strozzatura in un punto preciso (quello in cui è situato il gene, e che è definito “sito fragile della X”) (Lubs, 1969). Tale alterazione porta, nella maggior parte dei casi, alla carenza o all’assenza della proteina FMRP. La funzione di questa proteina non è ancora nota con certezza, tuttavia, essa sembra essere implicata nello sviluppo dei processi neuronali responsabili dell’apprendimento e della memorizzazione (Schapiro et al., 1995; Fisch et al., 1999; Menon et al., 2000). Nella maggior parte dei pazienti l’alterazione responsabile della sindrome consiste nell’espansione del trinucleotide CGG: mentre nella popolazione sana esso è ripetuto dalle 6 alle 50 volte, negli individui affetti è presente in oltre 250 copie. Questa espansione è indicata come “mutazione completa”, ed è alla base del mancato funzionamento del gene Fmr1 e della conseguente assenza della proteina da esso codificata. Alcune persone possiedono un numero di ripetizioni intermedio (da 60 a 200), e non manifestano la sindrome di Martin-Bell. Questa alterazione è definita “premutazione” e gli individui che la possiedono sono dei portatori sani poiché, nonostante essa sia subclinica o comporti dei sintomi simili, ma meno intensi, a quelli della X fragile (Riddle et al., 1998), le ripetizioni possono aumentare nelle generazioni successive e dare origine alla mutazione completa e, quindi, alla malattia (Kaufmann et al., 1999; Bardoni et al., 2001). La neuropatologia della sindrome della X fragile non presenta anomalie macrostrutturali evidenti, ciò nondimeno, essa è caratterizzata da uno specifico fenotipo neuronale e sinaptodendritico (Rudelli et al., 1985). Studi autoptici compiuti su sei pazienti con sindrome della X fragile non hanno mostrato grosse anormalità cerebrali: la forma ed il peso del cervello appaiono s imili a quelli riscontrati in soggetti sani, con l’eccezione di una moderata atrofia corticale in un paziente, e dell’incremento del volume dei ventricoli laterali in quattro di essi (Rudelli et al., 1985; Hinton et al., 1991; Wisniewski et al., 1991; Irwin et al., 2001). Reiss e collaboratori, in una serie di ricerche di risonanza magnetica per immagini (MRI) (Reiss et al., 1991a, b; 1995), hanno confermato la presenza della dilatazione dei ventricoli laterali, ma hanno anche rilevato lievi anormalità neuroanatomiche: il verme posteriore del cervelletto appare di volume ridotto sia nei pazienti maschi sia nelle femmine (Reiss et al., 1991a, b), mentre il nucleo caudato è di dimensioni leggermente superiori rispetto ai soggetti di controllo (Reiss et al., 1995). Gli autori hanno ipotizzano, inoltre, che il volume delle suddette strutture cerebrali sia correlato con l’entità dell’espressione del gene Fmr1, ed in ultima analisi con la mancanza della proteina FMRP (Reiss et al., 1995; cfr. Gao, 2002). Il fenotipo neuronale della sindrome della X fragile è apparso evidente sin dal primo studio autoptico compiuto da Rudelli e collaboratori nel 1985. Gli autori hanno esaminato un paziente morto all’età di 62 anni, con un ritardo mentale moderato, rilevando anomalie delle spine dendritiche simili a quelle osservate in alcune trisomie cromosomiche, ad esempio nella sindrome di Patau, e nel ritardo mentale non classificabile (forma allungata e sottile, profilo tortuoso e testa prominente; cfr. Marin Padilla 1972, 1974, 1976), associate con un apparato sinaptico immaturo. Questi dati sono stati confermati in due studi più recenti (Hinton et al., 1991; Irwin et al., 2001). Hinton e collaboratori (1991) hanno esteso l’analisi della morfologia delle spine dendritiche neocorticali compiuta da Rudelli e colleghi ad altri due pazienti. Gli autori (tra loro vi è lo stesso Rudelli), quindi, hanno esaminato la neocorteccia di tre individui maschi affetti da X fragile, con ritardo mentale moderato, rilevando lo stesso pattern immaturo evidenziato nella ricerca precedente; essi, inoltre, hanno analizzato la densità cellulare negli strati corticali II e IV della corteccia temporale e del giro del cingolo, non riscontrando differenze significative rispetto ai soggetti di controllo. Hinton e colleghi hanno concluso che le anomalie delle spine dendritiche e la relativa preservazione della densità neuronale, sono caratteristiche patognomoniche della sindrome della X fragile. Irwin e collaboratori (2001; cfr. Irwin et al., 2000, 2002), utilizzando la tecnica colorimetrica di Golgi-Kopsch, hanno studiato le spine dendritiche dei neuroni piramidali del quinto strato nelle cortecce visiva e temporale in pazienti con X fragile ed in soggetti di controllo. I pazienti con X fragile mostrano, rispetto ai controlli, un numero maggiore di spine lunghe e con morfologia immatura in ambedue le regioni corticali esaminate; inoltre, essi presentano una più alta densità di spine sui segmenti dendritici basali ed apicali sia nella corteccia visiva sia in quella temporale. Gli autori suggeriscono che queste anomalie possano essere causate da una disfunzione dei processi di maturazione e di eliminazione selettiva delle spine dendritiche, e persisterebbero nell’età adulta (cfr. Huber et al., 2002). A conclusioni simili sono giunte ricerche che hanno utilizzato modelli animali della sindrome della X fragile (Comery et al., 1997; Braun e Segal, 2000; Nimchinsky et al., 2001; Huber et al., 2002; Galvez et al., 2003). Comery e collaboratori (1997) hanno descritto, usando l’impregnazione argentica di Golgi, le spine dendritiche corticali di topi transgenici con Fmr1 e mancata espressione della proteina FMRP. Gli autori hanno rilevato che, in accordo con i dati raccolti nell’uomo, le spine dei dendriti apicali, presenti sulle cellule piramidali dello strato V della corteccia visiva, appaiono, nelle cavie sperimentali, più numerose, lunghe, sottili e tortuose rispetto ai controlli. Una tale morfologia cerebrale, notano gli autori, è comparabile a ciò che si osserva nei primi stadi della sinaptogenesi, o in seguito a deprivazione sensoriale, e suggerisce che l’espressione della proteina FMRP è necessaria per un corretto sviluppo cerebrale (cfr. Barnea Goraly et al., 2003) e, in particolare, per il processo di stabilizzazione-eliminazione delle sinapsi nelle cortecce sensoriali (Weiler et al., 1997, 1999, e Greenough et al., 2001, hanno messo in relazione l’espressione della proteina FMRP con la sintesi proteica dipendente dall’attività sinaptica e neurotrasmettitoriale, mentre Feng et al., 1997, suggeriscono un suo possibile ruolo nello sviluppo della struttura e delle funzioni dei dendriti). O’Donnell e Warren (2002), d’altra parte, sollevano alcuni rilievi critici a proposito dei risultati ottenuti da Comery e colleghi. Gli autori, infatti, considerando che in questa ricerca sono utilizzati topi Fmr1 omozigoti per un gene che causa degenerazione retinica, ritengono che buona parte delle cavie sperimentali potesse essere cieca, ciò, poiché i tessuti autoptici esaminati appartengono alla corteccia visiva, potrebbe essere alla base delle alterazioni fenotipiche delle spine dendritiche, indipendentemente dall’assenza della proteina FMRP. Braun e Segal (2000), utilizzando tessuti ippocampali posti in coltura, esaminano le differenze nella morfologia sinaptica tra topi con deficienza di FMRP ed animali di controllo. Gli autori osservano che i neuroni ippocampali delle cavie sperimentali, cresciuti in coltura per tre settimane, contraggono poche connessioni funzionali, producendo una diminuzione dell’attività sinaptica eccitatoria e, quindi, un notevole rallentamento evolutivo. Nimchinsky e collaboratori (2001), partendo dai dati acquisiti in queste ricerche ed indicando come periodo critico per i cambiamenti neuropatologici le prime s ettimane di vita postnatale, hanno analizzato la neocorteccia di topi Fmr1, e di animali di controllo, ad 1, 2 e 4 settimane di vita, al fine di descriverne i patterns evolutivi. Gli autori, esaminando oltre 16000 spine dendritiche, rilevano che, negli animali sani, tra la prima e la quarta settimana di vita, la densità delle spine aumenta di 2.5 volte, mentre la loro lunghezza media diminuisce del 17%. I topi Fmr1 mostrano, nelle prime fasi della sinaptogenesi corticale, spine dendritiche più lunghe rispetto ai controlli. Queste differenze, d’altra parte, non sono costanti: alla prima settimana la lunghezza delle spine dendritiche è del 28% più grande nei topi Fmr1 che negli animali sani, a due settimane la differenza è del 10%, ed a 4 soltanto del 3%. Allo stesso modo, le misure relative alla densità passano dal 33% in più alla prima settimana a differenze non significative al termine del periodo di osservazione. Questi risultati, suggeriscono Nimchinsky e colleghi, mostrando la natura transitoria delle anomalie dendritiche nelle cavie sperimentali esaminate, suffragano l’ipotesi che assegna alla proteina FMRP un ruolo fondamentale nella crescita delle spine dendritiche, ma sottolineano anche l’importanza del processo di coordinazione con lo sviluppo dei circuiti cerebrali dipendente dall’esperienza. Galvez, Gopal e Greenough (2003) hanno esteso le analisi morfologiche ai dendriti delle cellule stellate spinose, appartenenti allo strato IV della corteccia somatosensitiva, di due diverse razze di topi con assenza di FMRP, riscontrando una morfologia propria delle prime fasi dello sviluppo dendritico postnatale, e anomalie simili a quelle descritte nella letteratura scientifica degli ultimi quindici anni. Gli studi sulle anomalie dendritiche e sinaptiche nella s indrome della X fragile hanno delineato un fenotipo neuropatologico ben definito e specifico (spine più numerose, lunghe, sottili, e dal profilo tortuoso), che trova riscontri comuni sia nella patologia umana sia nei modelli animali, e che potrebbe contribuire a spiegarne i deficits cognitivi e comportamentali. Infatti, mentre l’aspetto immaturo delle spine dendritiche è comune ad altre patologie associate a ritardo mentale (ad esempio trisomia 21 e sindrome di Rett), l’incremento della loro densità sembra essere un tratto peculiare di questa malattia (Irwin et al., 2000). Le sindromi genetiche con probabile patologia dendritica Altre due malattie genetiche, le sindromi di Williams e di Rubinstein-Taybi, associate a ritardo mentale dal moderato al grave e caratterizzate da diffuse anomalie cerebrali e citoarchitettoniche, suggeriscono un coinvolgimento della patologia dendritica nella determinazione del loro fenotipo cognitivo-comportamentale. Le ricerche finora condotte (in numero notevolmente inferiore rispetto alle sindromi di Down, Rett e X fragile), tuttavia, non forniscono evidenze empiriche conclusive per quanto riguarda il tipo e la specificità della patologia dendritica (riduzione della lunghezza dei dendriti e presenza di disgenesia delle spine). (1) La sindrome di Williams La sindrome di Williams (cfr. quadro 3.3), descritta per la prima volta da Williams, Barratt Boyes e Lowe nel 1961, è una malattia genetica causata dalla microdelezione di un frammento del braccio lungo del cromosoma 7, precisamente della regione 7q11.23 (cfr. Ewart et al., 1993). La sua incidenza è stata stimata tra 1 su 20000 e 1 su 50000 nati vivi (Harris, 1995; Karmiloff Smith et al., 1995). Gli individui con questa patologia esibiscono delle caratteristiche fisiche peculiari tra cui anomalie facciali (faccia “ad elfo”, caratterizzata da fessure palpebrali strette, epicanto, radice del naso infossata, narici anteverse), ipercalcemia ed anormalità renali e cardiache congenite (tra queste assume una considerevole importanza diagnostica la stenosi sopravalvolare dell’aorta). I segni fisici sono accompagnati, in genere, da ritardo intellettivo di grado variabile dal moderato al grave, da uno specifico profilo di personalità (sono descritti come amichevoli, affascinanti ed aperti allo scambio sociale, ma anche iperattivi, ansiosi ed ostinati), da ridotte capacità visuospaziali e di integrazione visuomotoria, e da abilità linguistiche pseudomature (Bellugi, Adolphs, Cassady e Chiles, 1999; Bellugi, Lichtenberger, Mills, Galaburda e Korenberg, 1999). I bambini con sindrome di Williams, infatti, presentano deficits linguistici che, nel corso degli anni, sono ampiamente recuperati. Queste capacità verbali, d’altra parte, sono soltanto formali, giacché i contenuti dei loro discorsi appaiono poveri e ripetitivi (riescono difficilmente a sostenere una conversazione, pongono domande stereotipate, sono spesso ecolalici). Attualmente, nella zona deleta, sono stati identificati 16 geni, i più importanti sono ELN, responsabile della sintesi della proteina elastina che dà elasticità a molti tessuti e organi quali le arterie, la pelle e l’intestino, implicato nei dismorfismi e nelle anomalie vascolari (Wang e Jernigan, 1994), LIMK-1 (LIM-kinase 1) coinvolto nelle anomalie dell’orientamento spaziale (Frangiskakis, Ewart e Morris, 1996; Osborne e Pober, 2001), STX1A, gene che sintetizza la proteina sintassina, necessaria per il rilascio delle vescicole sinaptiche (Osborne, Soder e Shi, 1997; Bellugi, Lichtenberger, Mills, Galaburda e Korenberg, 1999), e CYLN2 (cytoplasmic linker 2), la proteina sintetizzata da questo gene è ritenuta importante per mediare le interazioni tra specifici organuli di membrana ed i microtubuli (Hoogenraad et al., 1998). I dati sulla neuropatologia della sindrome di Williams dimostrano la presenza di numerose e diffuse anormalità cerebrali. Jernigan e collaboratori (1993), confrontando la macrostruttura cerebrale di pazienti con sindrome di Williams, di pazienti Down, e di soggetti di controllo, hanno rilevato che, mentre la gravità dell’ipoplasia cerebrale è simile nei due gruppi clinici (nel primo essa è presente soprattutto nelle regioni posteriori e risparmia la corteccia frontale), le dimensioni del cervelletto sono pressoché normali nei soggetti con malattia di Williams, es si presentano un incremento nel volume dei lobuli neocerebellari ed una riduzione in quelli paleocerebellari, e drammaticamente ridotte nella trisomia 21. Inoltre, le strutture limbiche del lobo temporale (uncus, amigdala, ippocampo e giro paraippocampale) appaiono, nella sindrome di Williams, relativamente preservate (cfr. Bellugi, Adolphs, Cassady e Chiles, 1999; Braden e Obrzut, 2002). Altre ricerche hanno dimostrato la presenza di una diminuzione nelle dimensioni (lunghezza e perimetro) del corpo calloso (Wang et al., 1992a), e della fossa posteriore associata ad un rischio più alto, rispetto agli individui sani, di sviluppare la malformazione di Chiari I (Pober e Filiano, 1995), ed una maggiore commorbidità con il morbo di Alzheimer (presenza di placche amiloidi e di tangles neurofibrillari) (Golden et al., 1995). Per quanto concerne le alterazioni citoarchitettoniche, Galaburda e colleghi (1994) hanno riscontrato, in una ricerca autoptica su un singolo paziente con sindrome di Williams, una riduzione nell’organizzazione colonnare in tutta la corteccia, un orientamento anomalo dei neuroni ed un incremento generalizzato nella densità cellulare, presenti soprattutto nelle regioni occipitali. In un lavoro più recente, infine, Meng e collaboratori (2002) hanno dimostrato che i topi LIMK-1 (un modello animale della malattia di Williams) mostrano anomalie nella morfologia delle spine dendritiche e nella trasmissione sinaptica, suggerendo un possibile ruolo di questa chinasi nello sviluppo dendritico e nella normale funzionalità cerebrale. Karmiloff Smith (1998) riassume così i dati sulle anormalità cerebrali osservate nella sindrome di Williams: Il cervello ha un volume pari all’80% delle dimensioni normali. La materia grigia cerebrale è notevolmente ridotta. Sono presenti anormalità nella laminazione, nell’orientamento e nelle dimensioni dei neuroni. Le regioni cerebrali anteriori sono relativamente ridotte rispetto ai soggetti di controllo sani, e maggiori se confrontate con pazienti Down. La regione dorsale degli emisferi cerebrali mostra malformazioni corticali. Le strutture limbiche del lobo temporale sono relativamente più piccole, ma proporzionalmente simili, a quelle dei soggetti sani. La corteccia frontale e le regioni posteriori mostrano una relazione quasi normale per quanto riguarda il volume, sebbene ambedue abbiano dimensioni inferiori a quelle rilevate nei soggetti normali di controllo. In conclusione, i dati neuropatologici attualmente disponibili sulla sindrome di Williams dimostrano la presenza di una selettiva ipoplasia corticale associata con anormalità citoarchitettoniche già riscontrate nelle condizioni con ritardo mentale non classificabile e nella sindrome di Down (alterazioni dell’organizzazione laminare e dell’orientamento neuronale), nell’autismo e nella sindrome di Rett (incremento della densità cellulare) (cfr. Kaufmann e Moser, 2000), e di un probabile coinvolgimento delle spine dendritiche (Meng et al., 2002). Quadro 3.3. La sindrome di Williams Incidenza: 1 ogni 20000/50000 nati vivi. Eziologia: microdelezione della regione cromosomica 7q11.23. Caratteristiche cliniche: Facies “ad elfo”, sopracciglia rade, radice del naso infossata, pliche epicantali, labbra prominenti, bassa statura, ipercalcemia, dissociazione tra profilo cognitivo e linguistico-sociale (questi pazienti presentano, generalmente, un ritardo mentale moderato, QI complessivo tra 55 e 60, ed uno stile comunicativo loquace definito “cocktail party speech”), iride stellata, cardiopatia, iperattività, specifica area di debolezza nelle competenze visuospaziali e di integrazione visuomotoria. (2) la sindrome di Rubinstein-Taybi La sindrome di Rubinstein-Taybi (cfr. quadro 3.4) è una malattia genetica con trasmissione autosomica dominante ed è associata, nella maggior parte dei casi, ad una delezione interstiziale del braccio corto del cromosoma 16 (la microdelezione interessa la banda 16p13.3) (Breuning et al., 1993; Hennekam et al., 1993; Masuno et al., 1994). In questa porzione cromosomica è allocato il gene CBP (CREB binding protein) che codifica per la proteina CREB, la cui riduzione è indicata come responsabile del fenotipo della sindrome di Rubinstein-Taybi; essa partecipa a diverse funzioni cellulari quali la regolazione dell’espressione genica, la riparazione del DNA, la crescita e la differenziazione delle cellule (Petrij et al., 1995; Murata et al., 2001). La prima descrizione di questa patologia (Rubinstein e Taybi, 1963) ha delineato il fenotipo clinico degli individui affetti; essi presentano varie dismorfie facciali (impianto anomalo delle orecchie, labbro superiore stretto, naso adunco, rime palpebrali antimongoliche, anomalie oculari e del cavo orale), alluci e pollici tozzi, difetti cardiaci (cfr. Stevens e Bhakta, 1995), e ritardo mentale grave. Studi successivi hanno documentato un’elevata commorbidità con noxae psichiatriche come il disturbo ossessivo/compulsivo (Levitas e Reid, 1998), deficits nelle abilità linguistiche espressive e problemi comportamentali (Stevens, et al., 1990). Dal 1963 sono stati descritti nella letteratura medica circa 730 casi di sindrome di Rubinstein-Taybi (Cantani e Gagliesi, 1998), l’incidenza esatta della malattia è tuttavia sconosciuta: una stima approssimativa la considera compresa tra 1 su 300000 e 1 su 720000 nati vivi (National Organization for Rare Disorders, 2002). Le poche ricerche che hanno avuto come oggetto di studio la neuropatologia di questa sindrome genetica hanno rilevato diverse anormalità del sistema nervoso centrale, come l’agenesia del corpo calloso (Guion Almeida e Richieri Costa, 1992), la malformazione di Dandy-Walker con conseguente deficit di sviluppo del verme cerebellare e del tetto del quarto ventricolo (Bonioli, Bellini e Di Stefano, 1989; Mazzone et al., 1989), lesioni corticali bilateralmente alla scissura di Rolando con marcata riduzione della sostanza bianca (Sener, 1995), moderata perdita ponderale del cervello associata alla diminuzione delle dimensioni dei neuroni e ad un considerevole aumento della densità cellulare (Pogacar et al., 1973). Queste ultime anomalie sono simili a quelle già descritte nei pazienti con sindrome di Rett (Kaufmann et al., 1998) e suggeriscono, anche per la malattia di RubinsteinTaybi, un possibile coinvolgimento della patologia dendritica, in modo particolare una riduzione nella densità delle arborizzazioni e la presenza di disgenesia delle spine (Kaufmann e Moser, 2000). Capitolo IV Altri disturbi ad eziologia genetica o multifattoriale con probabile patologia dendritica L’autismo L’autismo è un disturbo neurologico la cui diagnosi è basata sulla valutazione comportamentale condotta nella prima infanzia (l’esordio della malattia avviene nei primi tre anni di vita). La prima descrizione estesa di questa patologia risale al 1943 ed è dovuta al medico austriaco Leo Kanner, allora direttore del reparto di psichiatria infantile all’ospedale John Hopkins di Baltimora, che, in uno studio su 11 bambini (9 maschi e 2 femmine), coniò la denominazione di “autismo infantile precoce”, mutuando il termine “autismo” da uno studio di Eugene Bleuler (1913) sull’isolamento psichico degli schizofrenici adulti, volendo sottolineare con esso il senso di isolamento evidente in tutti i soggetti esaminati, riconducibile, secondo l’autore, all’assenza della consapevolezza del sé nel rapporto con gli altri, la cui origine era dovuta ad “un’incapacità innata che rende loro impossibile stabilire un contatto affettivo normale, fondato su possibilità biologiche”. In seguito, soprattutto in ambito psicoanalitico, il pensiero di Kanner fu in parte travisato, e l’autismo infantile precoce fu posto in relazione al comportamento dei genitori che il medico austriaco aveva descritto come “intellettuali, freddi, rigidi” (cfr. Bettelheim, 1967). A tal proposito egli, in una conferenza tenuta il 17 luglio 1969 di fronte all’assemblea dell’Associazione Americana dei Genitori di Bambini Autistici, afferma: “Dobbiamo verificare diverse teorie riguardanti le possibili cause, e a questo punto dichiaro che vi assolvo in quanto genitori. Molte volte sono stato citato in maniera distorta. Dalla mia primissima pubblicazione fino alla più recente, ho sempre usato il termine ‘innato’, che non può dare adito a equivoci; ma siccome ho indicato alcune caratteristiche della personalità dei genitori, sono stato interpretato in modo scorretto, come se avessi detto: ‘Tutto ciò avviene per colpa dei genitori!’. Quelli di voi che sono venuti da me col loro bambino sanno che non ho mai detto niente di simile. Anzi, ho cercato di dissipare l’angoscia dei genitori che queste teorie avevano reso ansiosi” (citato in Brauner e Brauner, 2002, pp. 224-225). Da Kanner in poi la ricerca medico-psicologica sull’autismo ha vissuto molte rivoluzioni alternate a periodi di relativa stasi, portando come modello di riferimento ora l’una ora l’altra delle innumerevoli teorie, sia psicologiche e relazionali sia neurobiologiche, approntate per spiegarne la natura. “Nell’oggi [essa] appare legata in parte a fattori organici, o in forma di sindromi neurologiche specifiche o in forma di disgenesie cerebrali di varia origine, e in parte a disturbi neurobiologici di altra natura, assimilabili a malattie a carattere neurotrasmissivo a esordio precoce del tipo delle sindromi bipolari” (Zappella 2001, pp. 20-21). L’eziologia multifattoriale dell’autismo (cfr. Gillberg, 1990) trova un chiaro riscontro nell’alta commorbidità con patologie quali le sindromi della X fragile (Hagerman, 1989), di Rett (Coleman e Gillberg, 1985), di Williams (Reiss et al., 1985), di Down (Ritvo et al., 1990), la fenilchetonuria (Friedman, 1969; Baieli et al., 2003), la sclerosi tuberosa (Hunt e Dennis, 1987), e la neurofibromatosi di tipo I (Gillberg e Forsell, 1984; Gaffney et al., 1988) (cfr. Gillberg e Coleman, 1992, per una disamina dettagliata delle cromosomopatie e dei disordini metabol ici ed infettivi associati con l’autismo). Le caratteristiche fondamentali del disturbo autistico possono essere riassunte dai tre criteri seguenti (cfr. quadro 4.1): 1. Una grave alterazione della reciprocità sociale: il bambino sembra privo di interessi verso l’ambiente circostante, inoltre diversi comportamenti sociali sono assenti o carenti, tra essi il sorriso sociale, l’angoscia per l’estraneo, l’attenzione condivisa e la teoria della mente (cfr. capitolo VI), l’imitazione e l’attaccamento. 2. Un’anomalia grave della comunicazione verbale che va da un ritardo o totale mancanza del linguaggio parlato ad un linguaggio in gran parte incomprensibile e stereotipato (ad esempio le ecolalie semplici e complesse, e l’inversione pronominale: il bambino parla di sé usando il “tu” e dell’interlocutore utilizzando l’“io”). 3. Un repertorio comportamentale, compresi interessi ed attività, ristretto e ripetitivo (ad esempio movimenti stereotipati, ripetersi di routines, interesse per singole caratteristiche degli oggetti). La maggioranza dei pazienti autistici, o affetti da condizioni similautistiche, presenta ritardo mentale moderato (Clark e Rutter, 1979; Rutter, 1983), e soltanto una minoranza, circa il 10%, ha capacità cognitive nella norma o poco superiori (Gillberg e Coleman, 1992). Maurizio De Negri (1996), considerando l’eterogeneità delle casistiche sull’autismo infantile presenti nella letteratura scientifica internazionale, sia per quanto riguarda l’eziologia sia per gli aspetti comportamentali e cognitivi, ne ha proposto una distinzione in sottogruppi basata sul differente substrato biologico (cfr. De Negri, Zanotto e Baglietto, 1994). L’autore individua tre gruppi di soggetti: 1. Evolutivo: autismo acquisito in pazienti affetti da una malattia neurologica evolutiva (ad esempio la sindrome di Rett, o i disordini metabolici come la fenilchetonuria). 2. Difettivo: autismo in pazienti in cui sia evidente una condizione di difetto organico cerebrale, o comunque di ritardo mentale grave (ad esempio nelle sindromi cromosomiche). 3. Primario: autismo in pazienti senza segni di compromissione biologica evidenti, con sviluppo psicomotorio e cognitivo nella norma rispetto ai soggetti sani appaiati per età, ovvero con ritardo mentale lieve. I gruppi evolutivo e difettivo corrispondono alle condizioni indicate, nella letteratura scientifica, come “low functioning”, mentre il gruppo primario è assimilabile alle condizioni dette “high functioning”, simili all’autismo descritto da Kanner. Gli studi epidemiologici condotti alla fine degli anni sessanta hanno calcolato una prevalenza dell’autismo tra 4.3 e 4.5 casi ogni 10000 individui (Lotter, 1966; Brask, 1970). Lavori successivi hanno modificato queste stime, riscontrando valori compresi tra 10.1 e 13.8 casi su 10000 soggetti (Bryson et al., 1988; Tanoue et al., 1988; Sugiyama e Abe, 1989; Gillberg et al., 1991a); la sex ratio è stata stimata tra 3:1 e 4:1 (rapporto maschi-femmine) (cfr. Rutter, 1985). Le indagini neuropatologiche hanno evidenziato diverse anomalie cerebrali, in modo particolare a livello del cervelletto e del sistema limbico. Nel primo è stata rilevata una marcata ipoplasia dei lobuli VI e VII (Courchesne et al., 1988; Reiss et al., 1988; Murakami et al., 1989), con perdita del 6090% dei neuroni di Purkinje (Bauman e Kemper, 1985; Courchesne, 1991), nel sistema limbico sono state riscontrate anomalie dell’amigdala, dei corpi mammillari e dell’ippocampo (Bauman e Kemper, 1985; Raymond, Bauman e Kemper, 1996). Gillberg e Coleman (1992) propongono una rassegna di ricerche di imaging cerebrale, condotte su pazienti con segni autistici, dal 1979 al 1990 (le tecniche utilizzate sono la pneumoencefalografia, la tomografia computerizzata, la risonanza magnetica, la tomografia ad emissione di positroni, e la tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo), nel tentativo di verificare l’esistenza di un pattern neuropatologico univoco e comune a forme di autismo con eziologia differente. Gli autori concludono che, sebbene non sia possibile identificare né un unico tipo di lesione o danno neurologico né una singola regione coinvolta, esistono dei sottogruppi clinici tra i pazienti autistici. Sembra possibile, infatti, che ci sia un sottogruppo con ipertrofia ventricolare, uno con atrofia cerebellare (forse dovuta a problemi perinatali, a sindromi cromosomiche o ad una lunga medicalizzazione), ed infine un sottogruppo con lesioni temporali nell’emisfero sinistro (probabilmente di origine traumatica o virale). Le ricerche compiute negli anni novanta hanno confermato ed esteso le conoscenze sulla neuropatologia del disturbo autistico (cfr. Lord et al., 2000, per una rassegna degli studi più recenti). Tra i contributi di maggior interesse si possono citare i lavori di Abell et al. (1999), Aylward et al. (1999), Haznedar et al. (1997), e Kemper e Bauman (1998). Abell e collaboratori (1999), hanno esaminato, in pazienti autistici ed in soggetti di controllo, le differenze nella sostanza grigia dell’amigdala e di altre regioni cerebrali ad essa associate (solco paracingolato, giro inferofrontale, mediotemporale ed inferotemporale). Gli autori hanno rilevato che, nei cervelli dei soggetti autistici, vi è una diminuzione della sostanza grigia nel solco paracingolato destro e nel giro inferofrontale di sinistra, ed un incremento, rispetto ai soggetti sani, nel complesso amigdaloideo (particolarmente nella corteccia periamigdaloidea), nel giro mediotemporale ed inferotemporale, come anche in diverse regioni cerebellari. Aylward e collaboratori (1999) hanno dimostrato che il volume dell’amigdala e dell’ippocampo è ridotto nel cervello dei soggetti con autismo, mentre Haznedar e colleghi (1997) hanno riscontrato una diminuzione del volume e dell’attività PET nel giro cingolato anteriore. Infine, Kemper e Bauman (1998), confrontando cervelli normali e cervelli di pazienti autistici, hanno dimostrato che i neuroni dell’ippocampo, dei nuclei mediali dell’amigdala, dei corpi mammillari, dei nuclei del setto e della porzione anteriore del giro del cingolo, sono più numerosi ed hanno dimensioni inferiori in questi ultimi. Per quanto concerne la patologia dendritica, già agli inizi degli anni ottanta Williams e collaboratori avevano individuato l’esistenza di anomalie diffuse a carico dei dendriti e delle spine dendritiche negli individui con caratteristiche appartenenti allo spettro autistico. Questi autori (Williams, Hauser, Purpura, DeLong e Swisher, 1980) hanno compiuto un accurato studio neuropatologico della corteccia cerebrale in quattro pazienti con segni autistici (in realtà non è chiaro se tutti i soggetti esaminati soddisfino gli attuali criteri diagnostici per l’autismo; cfr. quadro 4.1). Williams e colleghi, utilizzando l’impregnazione argentica di Golgi ed il microscopio elettronico, hanno esaminato il neocortex, l’ippocampo, il giro paraippocampale, il talamo, l’ipotalamo, il corpo striato ed il tetto del mesencefalo. Due pazienti (un maschio ed una femmina) hanno mostrano molti dei classici segni autistici in combinazione ad abilità motorie normali: in questi due cervelli, d’altra parte, non sono state trovate alterazioni degne di nota. Un terzo caso era un ragazzo con ritardo mentale grave, non deambulante dall’età di due anni, e con episodi di gran male con esordio al quinto anno. Un altro paziente era un bambino affetto da fenilchetonuria. Negli ultimi due casi sono state riscontrate lievi anomalie nei dendriti e nelle spine dei neuroni piramidali presenti nel quinto strato corticale del giro mesofrontale. In ambedue questi cervelli, sebbene i neuroni piramidali del quinto strato corticale avessero un orientamento normale e possedessero una ricca arborizzazione dendritica, è stata osservata una riduzione del calibro e della densità delle spine (è da notare che questa ultima caratteristica contrasta con quanto osservato nei pazienti fenilchetonurici senza comportamenti autistici che, al pari dei soggetti affetti dalla sindrome della X fragile, presentano un incremento generalizzato del numero delle spine dendritiche). Negli ultimi anni sono stati condotti alcuni studi che hanno dimostrato l’esistenza di una minore complessità delle arborizzazioni dendritiche nei cervelli degli individui affetti da autismo, in modo particolare nelle regioni CA1 e CA4 dell’ippocampo (Raymond, Bauman e Kemper, 1996; Kemper e Bauman, 1998). Recentemente Akshoomoff, Pierce e Courchesne hanno formulato un’interessante ipotesi eziopatogenetica dell’autismo, riconducendone le alterazioni neuroanatomiche ad una disregolazione evolutiva della crescita cerebrale, la cui causa sembra dovuta ad un deficit genetico responsabile dell’alterazione del livello di alcuni fattori trofici neuronali (Akshoomoff, Pierce, Courchesne, 2002). Questi hanno la funzione di incrementare le dimensioni e la densità delle arborizzazioni dendritiche e dei neuroni. Una quantità abnorme di tali neurotrofine (che Nelson et al., 2001, hanno identificato nei polipeptidi VIP, BDNF, NT-4, e CGRP, rispettivamente vasoactive intestinal polipeptide, brain-derived neurotrophic factor, neurotrophin-4, calcitonin gene-related protein) causa, come è logico attendersi, una crescita aumentata degli elementi neurali nel cervello, tuttavia, e paradossalmente, porta alla perdita di cellule di Purkinje nel cervelletto (cfr. Morrison e Mason, 1998). In accordo con l’ipotesi di un’anormalità progressiva nella crescita cerebrale, quindi, è possibile comprendere le alterazioni neuroanatomiche presenti nell’autismo: una crescita eccessiva e prematura di alcune strutture (ad esempio del volume cerebrale, dell’ispessimento corticale, del numero di neuroni e cellule gliali), ed una marcata riduzione di altre regioni cerebrali (ad esempio del sistema limbico e delle regioni cerebellari). Questi dati sono suffragati da quanto affermato da Ottaviano e Ottaviano (2000), i quali sostengono che: “Gli studi neuropatologici convenzionali non hanno messo in evidenza anomalie degne di nota. Con la metodologia del Golgi sono state, invece, individuate sia una ridotta dimensione dei neuroni corticali, specialmente dell’ippocampo e in altre aree del sistema limbico, sia una riduzione delle arborizzazioni dendritiche. Questi reperti” concludono i due autori “suggeriscono che nei bambini autistici esistono anormalità nello sviluppo dell’organizzazione cerebrale” (pp. 33-34). Il morbo di Alzheimer Il morbo di Alzheimer, descritto per la prima volta dal neurologo tedesco Alois Alzheimer nel 1907, è una malattia degenerativa delle cellule cerebrali che causa demenza (“deterioramento cognitivo cronico-progressivo”, secondo la definizione di Spinnler e Della Sala, 1988) (cfr. quadro 4.2). Esso rappresenta circa il 70% di tutti i casi di demenza (Goldman e Côté, 1994), ed è considerato il prototipo delle “demenze corticali” (queste sono caratterizzate da un dato di natura neuropatologica, consistente in un maggior, anche se non esclusivo, addensamento delle lesioni degenerative neuronali nella neocorteccia, e da un dato di natura neuropsicologica, evidente nella tipologia dei deficits cognitivi, ad esempio disfasie e disprassie, il cui substrato anatomico è riferibile, prevalentemente, a strutture neopalliali) (Spinnler, 1996). L’esordio del morbo di Alzheimer è, in genere, insidioso, i sintomi iniziali, cioè, sono difficili da riconoscere. Le prime manifestazioni cliniche comprendono: perdita della memoria (gravemente danneggiata la memoria a breve termine, meno, almeno in un primo tempo, quella a lungo termine), episodi confusionali transitori, irritabilità, sonnolenza, alterazioni della personalità e dell’orientamento spazio-temporale. Con il progredire della malattia si evidenziano mutacismo, afasia, anomie di varia natura, agnosia visiva per gli oggetti e prosopoagnosia, sintomi di tipo motorio come rigidità muscolare, perdita della deambulazione, tremori, aprassia costruttiva, ideativa e ideomotoria, ed incontinenza. Infine, i pazienti, ormai confinati su una sedia a rotelle o a letto, perdono il controllo di tutte le funzioni organiche. La morte sopraggiunge, generalmente preceduta da una cachessia rapidamente ingravescente, a causa di infezioni, tra cui prevalgono quelle a carico dei polmoni e dei bronchi, che possono intervenire anche dopo 8-10 anni dall’esordio clinico. Quadro 4.2. Criteri diagnostici per il morbo di Alzheimer (DSM-IV-TR) A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) Deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite). 2) Una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) Afasia (alterazione del linguaggio) b) Aprassia (compromissione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l’integrità della funzione motoria) c) Agnosia (incapacità di riconoscere o identificare oggetti nonostante l’integrità della funzione sensoriale) d) Disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre) B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. C. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive. D. I deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 non sono dovuti ad alcuno dei seguenti fattori: 1) Altre condizioni del sistema nervoso centrale che causano deficit progressivi della memoria e delle facoltà cognitive (per es., malattia cerebro-vascolare, malattia di Parkinson, malattia di Huntington, ematoma sottodurale, idrocefalo normoteso, tumore cerebrale) 2) Affezioni sistemiche che sono riconosciute come causa di demenza (per es., ipotiroidismo, deficienza di vitamina B12 o acido folico, deficienza di niacina, ipercalcemia, neurosifilide, infezione HIV) 3) Affezioni indotte da sostanze E. I deficit non si presentano esclusivamente durante il decorso di un delirium F. Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo dell’Asse I (per esempio, Disturbo Depressivo Maggiore, Schizofrenia). Codici basati sul tipo di insorgenza e di caratteristica dominante: Con Insorgenza Precoce: se l’insorgenza è all’età di 65 anni o prima. F00.01 Con Deliri: se i deliri sono la caratteristica dominante. F00.03 Con Umore Depresso: se l’umore depresso (inclusi i quadri che soddisfino pienamente i criteri sintomatologici per un Episodio Depressivo Maggiore) è la caratteristica dominante. F00.00 Non complicato: se nessuno dei sottotipi sopra riportati predomina nel quadro clinico attuale. Con Insorgenza Tardiva: se l’insorgenza è dopo i 65 anni di età. F00.11 Con Deliri: se i deliri sono la caratteristica dominante. F00.13 Con Umore Depresso: se l’umore depresso (inclusi i quadri che soddisfino pienamente i criteri sintomatologici per un Episodio Depressivo Maggiore) è la caratteristica dominante. Una diagnosi separata di Disturbo dell’Umore Dovuto a una Condizione Medica Generale non viene data. F00.10 Non Complicato: se nessuno dei sottotipi sopra riportati predomina nel quadro clinico attuale. Specificare se: Con Alterazioni Comportamentali. Nota per la codificazione Codifica anche G30.0 Malattia di Alzheimer con Insorgenza Precoce (331.0) sull’Asse III. Il lungo ed inesorabile decorso della demenza di Alzheimer, per la quale non esiste ancora una terapia risolutiva, è giustificabile, nonostante la “malignità” dei sintomi, dal fatto che le strutture corticali maggiormente danneggiate, cioè le aree associative, non sono essenziali per la mera sopravvivenza vegetativa. Esse, infatti, presiedono alle funzioni cognitive ed affettive superiori quali la programmazione motoria, i processi attentivi, e ad alcuni aspetti del comportamento emozionale e del linguaggio. Uno dei segni patologici maggiormente rilevanti di questa malattia è costituito dalla presenza di placche senili (identificate da Redlich, 1898, e da Fischer, 1907) e dei tangles, o viluppi neurofibrillari (descritti per la prima volta dallo stesso Alzheimer nel 1907). Le placche senili, dette anche placche argirofile, sono lesioni degenerative extraneuronali caratterizzate dall’accumulo patologico del peptide beta-amiloide (in modo particolare di un suo frammento, ritenuto tra i principali fattori degenerativi, l’apolipoproteina E), e da un ammasso irregolare di assoni colinergici e di processi gliali. Esse sono particolarmente numerose nella sostanza grigia neocorticale e nell’ippocampo, ma possono essere presenti anche in strutture quali i nuclei della base, il cervelletto ed il talamo. I tangles, invece, sono fasci di filamenti anormali (ognuno dei quali è formato da due sottili fibrille disposte ad elica del diametro medio di 50 nm) presenti, al contrario delle placche, all’interno dei neuroni. Essi sono costituiti dalla proteina tau iperfosforilata, componente normale del citoscheletro neuronale, e si formano in neuroni di grandi dimensioni come quelli di alcuni nuclei del tronco encefalico, tra cui il locus coeruleus e i nuclei del rafe, e nelle cellule piramidali dell’ippocampo e della neocorteccia (Goldman e Côté, 1994). Le alterazioni citoscheletriche rappresentano il correlato anatomico di maggior rilievo, soprattutto per quanto concerne le lesioni intraneuronali (ad esempio i tangles neurofibrillari), e relegano, quindi, i fenomeni istopatologici extracellulari, come le placche senili, in un ruolo di importanza secondaria (Terry, 1978; McKee, Kowall e Kosik, 1989). L’epidemiologia della demenza di Alzheimer, essendo quest’ultima strettamente correlata all’età, vede una proiezione demografica maggiore nei paesi occidentali ad alta industrializzazione, dove l’aspettativa media di vita supera i 70 anni, rispetto alle nazioni più povere del Terzo Mondo. In Italia, la prevalenza del morbo di Alzheimer è stimata tra il 6-10% oltre i 65 anni, ed il 20% circa oltre gli 80 anni, per un totale di più di 500000 persone affette (Pistoi, 1999). Per quanto riguarda le conoscenze sui meccanismi all’origine della degenerazione neuronale nel processo demenziale alzheimeriano, la letteratura scientifica si presenta ricca di modelli ed ipotesi, nessuno dei quali, comunque, appare esaustivo. Ciò è ben espresso da Hans Spinnler il quale afferma che la malattia di Alzheimer “non dispone attualmente di buoni modelli né neurologici, né neuropsicologici, così come non dispone, almeno nei termini di un esaustivo consenso, di un’etiologia, di una patogenesi e di un insieme patognomonico di sintomi e segni” (Spinnler, 1996, p. 963). L’eziogenesi della malattia di Alzheimer sembra essere, in ogni modo, di natura genetica (benché esistano forme ad esordio tardivo e casi sporadici - la malattia colpisce un solo membro della famiglia - in cui non è evidenziabile una chiara linea ereditaria. Come suggeriscono Goldman e Côté, 1994, d’altra parte, l’insorgenza in età avanzata di questo tipo di demenza ha fatto sì che il fattore familiare sia stato sottostimato: “Sarebbero stati con ogni probabilità molti gli individui che nel passato si sarebbero ammalati del morbo di Alzheimer se avessero potuto vivere abbastanza a lungo”). Nelle forme familiari, in cui più persone sono colpite nella stessa famiglia e distinte in Forma Tardiva Familiare, o AD2, con insorgenza oltre i 65 anni, e Forme Familiari Precoci, AD1, AD3, AD4, con insorgenza prima dei 65 anni, sono stati identificati alcuni geni che, se mutati, possono causare la malattia. Essi sono: (a) il gene della proteina amiloide (APP), localizzato sul cromosoma 21 e responsabile della forma ad esordio precoce AD1 (un dato molto interessante è che quasi tutti i pazienti Down con più di 35 anni manifestano i sintomi del morbo di Alzheimer; cfr. Ball, Schapiro e Rapoport, 1986; De La Monte; 1999); (b) il gene della presenilina 1 (PS1), localizzato sul cromosoma 14, mutato nella forma AD3. Le proteine codificate da questo gene, di cui sono state evidenziate oltre 125 diverse mutazioni capaci di originare la malattia, hanno la funzione di tagliare la proteina amiloide; un’alterazione del loro corretto funzionamento potrebbe giustificare, quindi, l’elevata concentrazione di quest’ultima nelle placche senili che si accumulano all’esterno delle cellule cerebrali nei pazienti Alzheimer; (c) il gene della presenilina 2 (PS2), localizzato sul cromosoma 1, alterato nella forma AD4 (fino ad oggi sono state identificate 6 diverse mutazioni in pazienti appartenenti a famiglie americane, tutte originarie dell’Europa dell’est, ed in due famiglie italiane) (Pistoi, 1999). La neuropatologia del morbo di Alzheimer è stata oggetto di innumerevoli studi, centrati non solo sui correlati neurobiologici come le placche argirofile ed i tangles, ma anche, e soprattutto, sul progressivo depauperamento dendritico e sinaptico. Come fa notare Hans Spinnler (1996): “Le lesioni degenerative nell’AD (Alzheimer’s Disease) non sono diffusamente disseminate nell’encefalo. Le aree più colpite (dunque più precocemente e, a fine carriera, più intensamente) sono quelle neocorticali associative, nonché quelle cingolari e archipal liali amigdaloidee e ippocampali. Nel loro ambito, risultano più fittamente colpiti quei grossi neuroni (fino a riduzioni che sfiorano il dimezzamento) che assolvono principalmente alle funzioni di connessione intracorticale. Sono gli stessi neuroni che, in un momento più precoce del processo dementigeno, vanno incontro ad una progressiva riduzione delle arborizzazioni dendritiche […] e delle loro spine, ovvero del loro potenziale sinaptico. Il miglior correlato della gravità della demenza risulta essere di gran lunga il grado di impoverimento sinaptico nelle aree associative, il quale, a sua volta, è strettamente correlato al numero dei tangles” (Spinnler, 1996, p. 918). Le ricerche sulle anomalie delle arborizzazioni e delle spine dendritiche nella demenza di Alzheimer hanno inizio tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta (con qualche anno di ritardo, quindi, rispetto agli studi condotti sulle sindromi cromosomiche e sulle condizioni associate a ritardo mentale non classificabile; cfr. capp. II e III), per merito di Scheibel (1976; 1979; 1983), Scheibel e Tomiyasu (1978), Buell e Coleman (1979), e Buell (1982). Scheibel (1976) è il primo autore a riportare la natura dei cambiamenti dendritici nella demenza senile e presenile (tale distinzione, usata dall’autore nel lavoro originale, è comparabile con quella data precedentemente di “Alzheimer ad esordio tardivo” ed “Alzheimer ad esordio precoce”). Egli ha rilevato un progressivo impoverimento degli alberi dendritici che, assieme all’insufficienza di alcuni sistemi neurotrasmettitoriali (acetilcolina, noradrenalina e L-DOPA in particolare; cfr. Bowen et al., 1988), ed alla presenza dei tangles e delle placche senili (cfr. Terry, 1978), sarebbe responsabile, riducendo il potenziale sinaptico, del danneggiamento della comunicazione interneuronale. Queste conclusioni sono state confermate in studi successivi dello stesso Scheibel (Scheibel e Tomiyasu, 1978; Scheibel, 1979; 1983), e conservano, ad oggi, tutta la loro forza esplicativa, da un punto di vista neurologico, sui deficits cognitivi e sulla neuropsicologia del paziente Alzheimer. Buell e Coleman (1979), usando la tecnica colorimetrica di Golgi (cfr. Buell, 1982, per un raffronto tra i risultati ottenuti con il metodo Golgi Cox ed il metodo rapido di Golgi nella demenza senile), hanno confrontato l’evoluzione della morfologia dendritica in soggetti anziani con e senza malattia di Alzheimer, ed in individui adulti sani. Gli autori hanno appurato che i dendriti, appartenenti al secondo strato piramidale del giro paraippocampale, in soggetti anziani senza segni di demenza (età media del campione di 79.6 anni), hanno dimensioni superiori a quelle riscontrate nei soggetti adulti di controllo (età media di 51.2 anni), soprattutto per quanto riguarda i loro segmenti terminali. Questo risultato ha permesso agli autori di ipotizzare l’esistenza di una plasticità morfologica delle cellule cerebrali, finalizzata ad ottenere una maggiore superficie sinaptica, come compensazione dell’impoverimento fisiol ogico del numero dei dendriti (l’importanza di un simile processo è suffragata dai risultati di Grill e Riddle, 2002, che hanno riscontrato un legame causale tra i cambiamenti dendritici dovuti all’invecchiamento, e l’indebolimento delle funzioni cognitive). Nei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer (età media del campione 76.0 anni), tale processo sembra essere assente. Buell e Coleman, infatti, hanno dimostrato che le arborizzazioni dendritiche di questi soggetti sono di dimensioni inferiori a quelle degli individui adulti sani, ed hanno segmenti terminali più corti e meno numerosi. Studi successivi hanno dimostrato che un simile meccanismo compensatorio è presente, se pur parzialmente, anche nel processo dementigeno alzheimeriano (Arendt, Zvegintseva e Leontovich, 1986; Coleman e Flood, 1986; Scheff et al., 1990; Scheff e Price, 1993). Arendt, Zvegintseva e Leontovich (1986), ad esempio, hanno esaminato, utilizzando l’impregnazione argentica di Golgi, i cambiamenti dendritici nel nucleo basale di Meynert e nel nucleo della banda diagonale in cinque individui affetti dal morbo di Alzheimer ed in altrettanti soggetti sani di controllo. Gli autori, osservando le due principali classi di cellule presenti nelle aree considerate, i neuroni reticolari e i neuroni giganti multipolari, hanno rilevato due tipi di cambiamenti dendritici: i cambiamenti degenerativi ed i cambiamenti rigenerativi. I primi, presenti in misura maggiore nei neuroni reticolari, consistono in rigonfiamenti irregolari e nella frammentazione degli alberi dendritici. I cambiamenti rigenerativi, invece, sono limitati ai soli neuroni reticolari e si caratterizzano per la presenza di filopodia perisomatica, per l’incremento delle dimensioni del soma cellulare, e per l’aumento dell’estensione spaziale delle arborizzazioni dendritiche. Le ricerche sulle anormalità dendritiche nella demenza di Alzheimer, oltre ad aver evidenziato i processi compensatori di incremento sinaptico appena descritti, hanno dimostrato che: (a) lo sfoltimento dendritico progressivo colpisce soprattutto le cellule piramidali della regione ippocampale (Scheibel, 1979; Ball, 1987; El Hachimi e Foncin, 1990; Ferrer e Gullotta, 1990; Braak e Braak, 1997); (b) vi è una perdita notevole di spine dendritiche nelle cellule granulari del giro dentato (Scheibel, 1983; De Ruiter e Uylings, 1987; Catala et al., 1988; Baloyannis, Manolidis e Manolidis, 1992; Einstein, Buranosky e Crain, 1994); (c) la diminuzione delle spine dendritiche non è una caratteristica specifica del morbo di Alzheimer, ma è rilevabile anche nella demenza di Pick (Ferrer, 1999), e nelle patologie a carico dei neuroni motori (demenza del lobo frontale) (Ferrer et al., 1991). Da una rassegna della letteratura scientifica internazionale si può ben capire come la neuropatologia e la neurobiologia della demenza di Alzheimer siano strettamente interdipendenti. La concentrazione della proteina beta-amiloide, assieme al numero dei tangles, difatti, sembra essere direttamente correlata al grado di impoverimento dendritico e sinaptico tipico della malattia (cfr. la citazione di Spinnler, 1996, riportata in precedenza). A tal proposito, molti ricercatori hanno mostrato come un numero elevato di viluppi neurofibrillari, e quindi un’alta concentrazione della proteina tau, assieme all’accumulo dell’apolipoproteina E, possa esercitare una potente azione neurodegenerativa e neurotossica (Arrigada et al., 1992; Einstein, Buranosky e Crain, 1994; Davis et al., 1995; Arendt et al., 1998; Knowles et al., 1999; Le et al., 2001; Adlar e Vickers, 2002). I processi degenerativi a carico dei neuroni, d’altra parte, possono interessare anche regioni cerebrali relativamente preservate dai tangles e dalle placche senili. Ohm e collaboratori (2002), utilizzando una tecnica morfometrica tridimensionale su tessuti cerebrali di 32 pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, hanno analizzato le alterazioni nella lunghezza, nella forma e nel numero dei dendriti di una popolazione neuronale ippocampale libera da tangles. Queste anomalie ricorrono, principalmente, negli alberi dendritici apicali, target delle afferenze sinaptiche della corteccia entorinale. Gli autori hanno dimostrato che le misure relative alla lunghezza e alla complessità delle arborizzazioni ed al numero dei segmenti dendritici apicali sono, in media, ridotte del 40-70% negli ultimi stadi della malattia. In contrasto con questi dati, i dendriti basali, che non ricevono inputs dalla regione entorinale, non mostrano alterazioni degne di nota. I neuroni entorinali che proiettano all’ippocampo sono, dunque, i primi ad essere interessati dai cambiamenti degenerativi della demenza di Alzheimer, e ciò provoca la sostanziale deafferentazione di quest’ultimo. Questa ricerca, mostrando la compromissione sinaptica della regione ippocampale, rende conto sia delle alterazioni di questa struttura sottocorticale riportate da diversi autori (vedi sopra), sia dei risultati di Flood e collaboratori, i quali hanno dimostrato che, nella malattia di Alzheimer, i campi CA2 e CA3 sono sostanzialmente risparmiati dai processi neurodegenerativi (Flood, Guarnaccia e Coleman, 1987). Altri importanti settori della ricerca scientifica sul morbo di Alzheimer, meritevoli di attenzione e sforzi nei prossimi anni, sono rappresentati dallo studio dei modelli animali (cfr. quadro 2.2 per una loro rassegna nella patologia dendritica associata a ritardo mentale), dall’approfondimento dei legami con la trisomia 21, e dalla costruzione di validi modelli eziopatogenetici. Le ricerche di neuropatologia comparata hanno goduto, negli ultimi anni, di un notevole sviluppo. Basti pensare che, appena nel 1987, Coleman e Flood, compiendo una ricerca sui cambiamenti neuronali e dendritici che si verificano nei cervelli dei roditori, dell’uomo e dei primati non umani, a seguito dell’invecchiamento fisiologico e nella demenza senile, concludevano che la perdita di neuroni e le anomalie dendritiche caratteristiche dell’invecchiamento e della malattia di Alzheimer colpiscono, nei roditori e nei primati, regioni cerebrali specifiche ma non identiche, e che la qualità delle alterazioni risulta non comparabile. Tali differenze potrebbero essere ricondotte, affermavano gli autori, all’inesistenza, nelle specie da loro considerate, di una definizione univoca di invecchiamento sia fisiologico, sia patologico (cfr. Brizzee, 1987). È su questa strada, auspicavano Coleman e Flood a conclusione del loro lavoro, che la ricerca sui modelli animali dovrà muovers i nell’imminente futuro. Attualmente la letteratura scientifica appare molto ricca sull’argomento. Soltanto nell’ultimo anno si possono menzionare, senza la pretesa di essere esaustivi, numerosi studi sullo sviluppo di modelli animali per la terapia dell’Alzheimer (Shoij, 2003), sulle caratteristiche neuropatologiche (Dodart et al., 2003), neurobiologiche, placche argirofile e tangles, (Phinney et al., 2003; Wadghiri et al., 2003), nonché ricerche sulle anormalità della plasticità sinaptica in animali sperimentali (Rowan et al., 2003) e sulla biologia dell’invecchiamento fisiologico nei primati non umani (Finch, 2003; Morrison, 2003). Le differenze nella patologia dendritica tra la demenza di Alzheimer e la sindrome di Down (il raffronto neuropatologico tra le due malattie risulta di grande utilità se si considera che, come detto precedentemente, esse possono avere, è il caso della forma di Alzheimer ad esordio precoce detta AD1, un’origine genetica comune: il pool genico del cromosoma 21; cfr. cap. III) sono state oggetto di diversi studi, i quali hanno riscontrato un maggiore incremento dell’impoverimento dei dendriti e delle spine nei pazienti Down con associato morbo di Alzheimer, sia rispetto ai soggetti sani di controllo, sia rispetto ai pazienti trisomici senza caratteristiche dementigene (Takashima et al., 1989; Ferrer e Gullotta, 1990). Inoltre, in ambedue queste patologie, è stata rilevata la diminuzione della proteina drebrin, situata nelle spine dendritiche e responsabile, assieme ai filamenti di actina, della plasticità sinaptica (Shim e Lubec, 2002). Concludendo, per quanto concerne l’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer, Terry e Katzman hanno proposto, in un recente lavoro (Terry e Katzman, 2001), un modello eziologico in grado di spiegare l’insorgenza precoce di questo tipo di demenza. Gli autori, costatando che nel corso dell’invecchiamento fisiologico la densità sinaptica neocorticale decresce progressivamente, a partire dai venti anni di età, senza tuttavia raggiungere i valori patologici osservabili nel morbo di Alzheimer, ipotizzano che una deficienza sinaptica alla nascita o nel primo periodo postnatale (come nella sindrome di Down), o subentrante nella prima infanzia a causa di un’educazione povera di stimoli ed inadeguata, possa portare precocemente (circa a 60 anni) al raggiungimento di livelli simili a quelli riscontrabili in questa patologia (Terry e Katzman fissano tale soglia al 60% del potenziale sinaptico normale). Nell’invecchiamento fisiologico, senza tener conto della presenza di placche senili e tangles neurofibrillari, tali valori sarebbero raggiunti, secondo gli autori, ad un’età di circa 130 anni! La fenilchetonuria La fenilchetonuria (o PKU; cfr. quadro 4.3), identificata per la prima volta da Ivar Asbjörn Fölling nel 1934, è una malattia metabolica ereditaria, appartenente alle iperfenilalaninemie ed a trasmissione autosomica recessiva, causata dalla mutazione del gene PAH (human phenylalanine hydroxylase), con locus cromosomico 12q24.1, che provoca un’attività ridotta, o del tutto assente, dell’enzima epatico fenilalanina idrossilasi, il quale ha la funzione di convertire l’aminoacido essenziale fenilalanina, in un altro aminoacido, la tirosina (Jervis, 1953; Lidksy et al., 1984; cfr. Erlandsen e Stevens, 1999). Ciò provoca l’aumento della concentrazione ematica ed urinaria della fenilalanina e dei suoi derivati, tra cui il fenilpiruvato, il fenilacetato ed il fenillattato (gli individui eterozigoti, portatori sani della malattia, presentano concentrazioni plasmatiche di fenilalanina leggermente superiori a quelle riscontrabili nei soggetti sani). Attraverso meccanismi non ancora del tutto chiariti, livelli eccessivi di questo aminoacido hanno un effetto tossico sulle cellule del sistema nervoso centrale con conseguente ritardo mentale, che può variare dal moderato al grave (Burgard, 2000), e, in alcuni casi, possono essere associati ad autismo (Friedman, 1969; Baieli et al., 2003). Alla nascita le concentrazioni plasmatiche di fenilalanina sono solitamente normali, ma aumentano rapidamente con l’inizio dell’alimentazione proteica (tutte le proteine, infatti, contengono questo aminoacido), ed in genere appaiono anormali dal quarto giorno di vita. Attualmente è possibile trattare efficacemente questa malattia, la cui incidenza è stimata in 1 su 15000 nati vivi (Ottaviano e Ottaviano, 2000), con una dieta povera di fenilalanina, ciò ne rende necessaria la diagnosi precoce (entro i primi trenta giorni di vita). Il regime dietetico, difatti, deve essere adottato al più presto per evitare gravi alterazioni delle funzioni cerebrali (cfr. Levy, 1999). Esso, comunque, non è del tutto privo di rischi. L’eliminazione della fenilalanina dalla dieta, infatti, può comportare gravi complicanze quali ipoglicemia, anemia, edema e, in alcuni casi, persino la morte del paziente. La maggior parte dei bambini fenilchetonurici non trattati necessi ta di assistenza continua a causa del grave ritardo mentale associato ad ipereccitabilità (possibile commorbidità con ADHD), e a crisi convulsive. Il quadro clinico della fenilchetonuria è completato da anomalie elettroencefalografiche, ipopigmentazione ed eczema cutaneo, e da un odore caratteristico della pelle, dei capelli e delle urine (“odore di topo”) dovuto all’accumulo di fenilacetato. La prole di donne affette da PKU, nonostante non sia omozigote per la mutazione che provoca la malattia, bensì eterozigote, presenta insufficienza mentale ed altre anomalie congenite quali cardiopatie, ritardo ponderale e microcefalia. Questa sindrome, distinta dalla fenilchetonuria classica i cui eterozigoti, come detto precedentemente, sono subclinici, è denominata fenilchetonuria materna poiché le sue manifestazioni cliniche sono riconducibili alle elevate concentrazioni materne di fenilalanina cui il feto è esposto durante la vita intrauterina (cfr. Lenke e Levy, 1980). La neuropatologia della fenilchetonuria, riconducibile ad alterazioni dello sviluppo del sistema nervoso centrale nella prima età postnatale, è caratterizzata da un ritardo dello sviluppo di diversi processi e strutture cerebrali, riguardante soprattutto la mielinizzazione della sostanza bianca sottocorticale e spinale, e la crescita degli assoni, dei dendriti e, quindi, delle sinapsi nel neocortex (Bauman e Kemper, 1982; Huttenlocher, 2000). In un’esigua minoranza di casi, inoltre, è ravvisabile una degenerazione progressiva della sostanza bianca (leucodistrofia cerebrale) (Huttenlocher, 2000). Per quanto concerne la qualità della patologia dendritica nei pazienti non sottoposti a trattamento dietetico, studi indipendenti hanno rilevato la presenza di importanti anomalie sia dei dendriti, sia delle spine dendritiche (Cordero et al., 1983; Lacey, 1984, 1985, 1986, 1987). Cordero e collaboratori, analizzando la maturazione delle cellule piramidali neocorticali in ratti con PKU, hanno riscontrato che le alterazioni più evidenti consistono in una marcata diminuzione del numero e della complessità degli alberi dendritici basali, ed in cambiamenti dell’organizzazione della corteccia cerebrale. Lacey (1984), analizzando le anomalie dendritiche ippocampali in ratti sperimentali con PKU (ottenuti con iniezioni di fenilacetato), ha rilevato, contrariamente a quanto riportato negli studi condotti col metodo di Golgi nelle principali sindromi associate a ritardo mentale, un incremento della densità delle spine appartenenti alle cellule piramidali del campo CA1, dovuto, probabilmente, ad un’attuale iperplasia cerebrale, oppure ad una riduzione del processo evolutivo di sfoltimento delle spine dendritiche. In una ricerca successiva (Lacey, 1985), l’autore ha dimostrato che, interrompendo le iniezioni di fenilacetato, il numero di spine ippocampali nei ratti sperimentali si normalizza progressivamente. L’aumento delle spine apicali del campo CA1, infatti, era presente nei ratti sottoposti alle iniezioni dal secondo al ventunesimo giorno di vita ed osservati, autopticamente, tra il ventesimo ed il trentesimo giorno, mentre i ratti sperimentali osservati tra il sessantesimo ed il novantesimo giorno non mostravano differenze significative rispetto agli animali di controllo cui era stata somministrata una soluzione salina. Ques ti risultati, secondo Lacey, dimostrerebbero che le alterazioni dendritiche osservate derivano, anziché da un’iperplasia cerebrale, da un deficit reversibile del processo evolutivo di sfoltimento dendritico. Utilizzando lo stesso modello sperimentale, vale a dire il trattamento con fenilacetato, su ratti femmine durante la gravidanza, lo stesso autore (1986) ha riscontrato che esse concepivano cuccioli con gravi alterazioni strutturali dei dendriti appartenenti alle cellule piramidali corticali. Questi neuroni mostravano, nel quinto strato corticale, arborizzazioni dendritiche apicali con spine più rade, lunghe e sottili rispetto agli animali di controllo. Le cellule piramidali di altri strati, al contrario, erano qualitativamente e quantitativamente normali. Ciò è pertinente con quanto osservato nei bambini nati da madri iperfenilalaninemiche (fenilchetonuria materna) e non sottoposti a trattamento dietetico (Lacey e Terplan, 1987). Takashima, Chan e Becker (1991), studiando la neuropatologia cerebrale di un bambino di due anni e mezzo di età, hanno individuato una variante della fenilchetonuria la cui eziogenesi è riconducibile ad un deficit dell’enzima diidropteridina reduttasi (cfr. quadro 4.3). Questa condizione è caratterizzata oltre che da diffusa demielinizzazione della sostanza bianca cerebrale, da un’estesa vacuolizzazione spongiforme del tronco encefalico, e da anomalie dei dendriti e delle spine dendritiche (riduzione della lunghezza, della complessità e della densità nei dendriti; diminuzione della densità e distorsioni della forma nelle spine), anormalità comuni anche nella fenilchetonuria materna non trattata, da necrosi neuronale, calcificazioni endocraniche, anomala proliferazione vascolare nel neocortex, nella sostanza bianca, nei nuclei della base e nel talamo, deficits dei sistemi neurotrasmettitoriali dopaminergico e serotoninergico, e da un alterato orientamento dei neuroni. Quadro 4.3. La fenilchetonuria (PKU) Incidenza: 1 su 15000 nati vivi. Caratteristiche cliniche: a) Il bambino è normale alla nascita, ma, se non trattato precocemente, gravemente defedato ad un anno b) I segni clinici di maggior importanza diagnostica sono: agitazione, ipertono, iperreflessia, ipercinesia, tremori, convulsioni, anormalità EEG, eczema topico, microcefal ia e, in circa metà dei pazienti, carnagione chiara c) La malattia è associata a ritardo mentale di grado variabile; solo occasionalmente i bambini affetti hanno un’intelligenza normale. Eziologia ed ereditarietà: La malattia è causata dal malfunzionamento dell’enzima epatico fenilalanina idrossilasi, che ha la funzione di trasformare l’aminoacido fenilalanina in tirosina. Ciò, comportando l’accumulo della fenilalanina nel sangue, ha un effetto tossico per le cellule nervose (chetosi). L’ereditarietà è autosomica recessiva (di solito si possono identificare gli eterozigoti). La diagnosi si basa sulle caratteristiche degli aminoacidi urinari e sierici. Terapia: E’ possibile trattare efficacemente la fenilchetonuria, entro i primi tre mesi di vita, con una dieta povera di fenilalanina. Sono state individuate due varianti della malattia: la prima, insensibile al trattamento dietetico, si manifesta con gravi convulsioni nella prima infanzia, ed è caratterizzata da deficits dell’enzima tetraidrobiopterina reduttasi; la seconda provoca disgenesia corticale, ed è causata dalla carenza di diidropteridina reduttasi. Queste due rare malattie hanno entrambe un alto rischio di mortalità. (Adattata da Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 488) La sclerosi tuberosa e la neurofibromatosi di tipo I La sclerosi tuberosa e la neurofibromatosi di tipo I sono i disturbi neurocutanei maggiormente diffusi, ambedue sono malattie genetiche a carattere autosomico dominante con un alto tasso di nuove mutazioni (cfr. Kandt, 2003). La sclerosi tuberosa (o malattia di Bourneville, dal nome dello studioso che, nel 1880, la descrisse per la prima volta) è caratterizzata dall’elevata frequenza di crisi epilettiche (sindrome degli spasmi in flessione, o di West), da adenomi sebacei, iperattività, deficits attentivi, disturbi del sonno, frequente commorbidità con l’autismo (Hunt e Dennis, 1987), anomalie di diversi organi tra cui i reni, il cervello, la cute, il cuore, il fegato, la retina ed i polmoni, da ritardo mentale moderato (presente in oltre il 50% dei casi) e da disturbi dell’apprendimento (Harrison et al., 1999) (cfr. quadro 4.4). La sintomatologia clinica di questa patologia, d’altra parte, è molto variabile: in alcuni pazienti, infatti, essa è talmente lieve da non creare particolari disturbi durante tutto il ciclo di vita. La sclerosi tuberosa, la cui prevalenza nella popolazione è pari a circa 1 su 6800 individui (Migone, 2003), si manifesta a causa della mutazione del gene TSC1 (tuberous sclerosis complex gene 1) allocato sul cromosoma 9, all’altezza della banda 9q34, o del gene TSC2 sul cromosoma 16 (in 16p13.3), che codificano, rispettivamente, le proteine amartina e tuberina le quali svolgono un’importante funzione oncosoppressiva (Narayanan, 2003). La maggioranza dei pazienti, in ogni modo, è, come già detto, frutto di una nuova mutazione. Si ritiene, infatti, che oltre la metà dei malati sia portatrice di una mutazione insorta nella gonade di un genitore sano durante la formazione dei gameti (mutazione germinale), o durante le fasi più precoci dello sviluppo embrionale (mutazione somatica). Quadro 4.4. Criteri diagnostici per la sclerosi tuberosa La diagnosi richiede la presenza di almeno due dei segni clinici definiti maggiori: A. Segni clinici maggiori 1) Angiofibromi facciali o placca fibrosa sulla fronte 2) Fibroma ungueale o periungueale non traumatico 3) Chiazze shagreen (area cutanea granulosa e giallastra) 4) Amartomi retinici multipli nodulari 5) Tubero corticale 6) Nodulo subependimale 7) Astrocitoma subependimale a cellule giganti 8) Rabdomioma cardiaco (singolo o multiplo) 9) Linfangioleiomiomatosi polmonare 10) Angiomiolipoma renale 11) Macchie cutanee ipopigmentate B. Elementi che richiedono un approfondimento diagnostico 1) Fossette multiple dello smalto dei denti decidui e/o permanenti 2) Polipi rettali amartomatosi 3) Cisti ossee 4) Strie radiali di migrazione della sostanza bianca cerebrale 5) Fibromi gengivali e del palato 6) Amartoma non renale 7) Chiazza acromica della retina 8) Numerose chiazzette cutanee ipopigmentate (“coriandoli”) 9) Cisti renali multiple 10) Un parente di primo grado con sclerosi tuberosa accertata (Gomez, 1999) Le principali alterazioni del sistema nervoso centrale, presenti nella malattia di Bourneville, consistono in tre tipi di lesioni nodulari: (a) tuberi corticali, che sono dei noduli composti in gran parte da cellule giganti e da astrociti; (b) noduli eterotopici sottocorticali; (c) astrocitomi subependimali a cellule giganti, generalmente situati sulle pareti ventricolari e nei forami di Monro (Mizuguchi e Takashima, 2001; cfr. Huttenlocher e Wollmann, 1991). Oltre a queste anomalie cerebrali, la sclerosi tuberosa mostra disordini dell’organizzazione neuronale e patterns di sviluppo dei dendriti e delle spine dendritiche in parte alterati (Ferrer et al., 1984; Machado Salas, 1984; Huttenlocher e Hydemann, 1984). Ferrer e collaboratori (1984) e Machado Salas (1984) hanno dimostrato che i tuberi corticali sono costituiti da cellule piramidali orientate in modo anomalo, strutturalmente semplificate e con arborizzazioni e spine dendritiche aberranti. Nella prima ricerca citata gli autori, analizzando con il metodo di Golgi la struttura fine dei tuberi corticali presenti nella sclerosi tuberosa, hanno riscontrato l’assenza della normale organizzazione laminare e colonnare della corteccia, ed un orientamento anomalo dei neuroni. Le cellule piramidali, inoltre, mostravano una rotazione ed un orientamento dei dendriti apicali in direzioni aberranti. Dati simili sono stati ottenuti da Machado Salas (1984) che, usando l’impregnazione argentica su materiale bioptico, ha analizzato i cambiamenti morfologici presenti nella corteccia cerebrale di un paziente con sclerosi tuberosa familiare e ritardo mentale di 12 anni di età. L’autore ha rilevato la presenza di cellule giganti con dendriti molto corti e con poche spine, di formazioni neurogliali che stabiliscono contatti anatomici specializzati con dendriti apicali aberranti, dimensioni anomale degli alberi dendritici all’altezza delle biforcazioni, e diverse tipologie di patterns evolutivi anormali della morfologia delle spine, tra cui le spine giganti. Infine, Huttenlocher e Heydemann (1991), estendendo l’analisi citoarchitettonica alle regioni neocorticali situate tra i tuberi, hanno dimostrato che, sebbene queste presentino un’organizzazione ed una morfologia delle arborizzazioni dendritiche normali, mostrano una riduzione della lunghezza dei dendriti nei neuroni piramidali. Ciò, sottolineano gli autori, è paragonabile a quanto osservato in molte condizioni associate a ritardo. La neurofibromatosi di tipo I (o malattia di von Recklinghausen) è una delle patologie genetiche più comuni, con una prevalenza nella popolazione generale di circa 1 su 3500 individui (Riccardi e Eichner, 1986; Stephens, 2003). Essa è causata da una mutazione autosomica dominante con penetranza pressoché completa entro i primi cinque anni di età (Huson et al., 1989); il tasso di nuove mutazioni, tuttavia, è, similmente a quanto avviene nella sclerosi tuberosa, molto elevato (circa la metà dei casi è portatrice di una mutazione sporadica). Il gene responsabile della malattia, detto NF1 (neurofibromatosis gene 1), è allocato sul braccio lungo del cromosoma 17 (in posizione 17q11.2), e codifica per una proteina citoplasmatica, la neurofibromina, che svolge un importante ruolo nel controllare la proliferazione e la differenziazione cellulare del sistema nervoso e nell’impedire l’insorgenza di tumori del tessuto osseo (Cawthon et al., 1990; von Deimling, Krone e Menon, 1995; Stephens, 2003). Nella neurofibromatosi di tipo I insorgono mutazioni di questo gene che ne diminuiscono o ne annullano del tutto la funzione. Questa malattia, quindi, è caratterizzata da alterazioni dello sviluppo del sistema nervoso centrale e periferico, dei muscoli, della cute e delle ossa. Le lesioni multiple iperpigmentate della cute (macchie café au lait), presenti soprattutto sul tronco e sugli arti, ed i neurofibromi cutanei e sottocutanei sono le caratteristiche peculiari di questa patologia, a cui sovente si associano neoplasie cerebrali, la più frequente delle quali è il glioma del nervo ottico, noduli scuri dell’iride (detti noduli di Lisch), lesioni osteoarticolari, scoliosi, pseudoartrosi degli arti, macrocefalia e bassa statura (von Deimling, Krone e Menon, 1995). Sono anche presenti disturbi dell’apprendimento, deficits attentivi e di coordinazione visuospaziale, difficoltà comportamentali e, nel 10-20% dei casi, ritardo mentale moderato (Eliason, 1988; Gillberg e Coleman, 1992; Ozonoff, 1999). Il quadro dei segni e dei sintomi è molto variabile, proprio come nella malattia di Bourneville, tanto che alcuni pazienti mostrano soltanto piccoli noduli cutanei e qualche macchia iperpigmentata. La neurofibromatosi di Recklinghausen mostra anormalità citoarchitettoniche focali che suggeriscono un possibile coinvolgimento della patologia dendritica (cfr. Kaufmann e Moser, 2000). Nonostante quest’ultima non sia stata oggetto di analisi dirette, diverse ricerche, esaminando la struttura fine clinicopatologica ed immunoistochimica delle diverse tipologie di neurofibroma presenti negli individui affetti, hanno rilevato che le cellule interessate mostrano una densità abnorme ed una morfologia anomala dei dendriti: in genere essi sono più lungi e sottili rispetto ai soggetti di controllo, ed hanno spine con una forma peculiare caratterizzata da tronco sottile e testa espansa detta “forma a girino” (Phat et al., 1980; Hayashi et al., 1990; Fetsch, Michal e Miettinen, 2000; Michal et al., 2001; Simpson e Seymour, 2001). Capitolo V Le anomalie dendritiche nel ritardo mentale dovuto a condizioni ambientali La patologia dendritica, oltre ad essere un correlato neuroanatomico di grande rilievo per quanto riguarda le sindromi ed i disturbi genetici, riveste un ruolo importante nello studio delle alterazioni neurologiche e dei deficits neuropsicologici riscontrabili nelle forme di ritardo mentale dovute a condizioni ambientali. In questo capitolo saranno descritte le principali patologie associate ad anomalie dei dendriti e delle spine dendritiche la cui eziogenesi è da rintracciare in fattori materni (ad esempio la malnutrizione e l’abuso di alcool in gravidanza), o in accidenti verificatisi nei periodi critici dello sviluppo cerebrale (è il caso dell’ipossia-ischemia e della malnutrizione neonatale). La malnutrizione caloproteica e l’ipossia-ischemia perinatale La malnutrizione caloproteica può avere gravi conseguenze sia sul cervello di individui adulti sia durante i periodi critici, fetali e neonatali, dello sviluppo del sistema nervoso centrale. Durante lo sviluppo fetale, e nei primi periodi di vita postnatale, essa può causare morte neuronale e, nei casi più gravi, provocare l’arresto della crescita cerebrale, idrocefalo e ritardo mentale. Nell’adulto, invece, una malnutrizione prolungata può dare origine a processi necrotici neuronali ed eventualmente a demenza. La nutrizione è, probabilmente, il fattore ambientale più importante sia per il feto sia per il neonato e svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo della funzionalità cerebrale (cfr. De Long, 1993). La malnutrizione proteica prenatale (malnutrizione materna) e postnatale, può provocare gravi, e differenti, danni neurologici e cognitivi, la cui severità è, in larga parte, determinata dalla durata e dal periodo gestazionale, o neonatale, in cui essa si verifica. “Con l’aumentare dell’età gestazionale”, infatti, “i centri più rostrali diventano più sensibili alle noxae rispetto alle aree più caudali, in conformità al principio della neurobiologia che le zone più sensibili alle noxae sono quelle in più avanzato grado di sviluppo. In maniera schematica possiamo dire che le noxae che agiscono in età pretermine interessano prevalentemente le strutture sottocorticali, mentre quelle che agiscono nell’età a termine interessano soprattutto la corteccia cerebrale” (Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 71). Le alterazioni neuroanatomiche ed i deficits funzionali sono, in genere, permanenti, sebbene sia possibile ottenere dei lievi miglioramenti per mezzo della stimolazione ambientale e di appositi programmi nutrizionali. I soggetti malnutriti alla nascita, o nati da madri denutrite durante la gestazione e l’allattamento, presentano disturbi dell’apprendimento, ritardo mentale e deficits attentivi. Le analisi quantitative hanno mostrato alterazioni nelle relazioni tra i neuroni e le cellule gliali, scarsa complessità dei circuiti neuronali, necrosi cellulare, un ritardo generale della mielinizzazione, e anomalie dell’organizzazione dendritica sia nel cervello sia nel cervelletto (Krigman e Hogan, 1976; Clos et al., 1977; Villescas, Van Marthens e Hammer Jr., 1981; Diaz Cintra et al., 1990; Morgane et al., 1993). La perdita dei dendriti e delle spine dendritiche, e le loro alterazioni morfologiche, sono state osservate nei neuroni piramidali di diverse aree del neocortex (Cordero, Diaz e Araya, 1976; Leuba e Rabinowicz, 1979; Diaz Cintra et al., 1990; Benítez Bribiesca et al., 1999; Cordero et al., 1986, 1993, 2003). Leuba e Rabinowicz (1979), tra i primi ricercatori ad interessarsi alle anomalie dendritiche nella malnutrizione e nella denutrizione, hanno esaminato le differenze e gli effetti a lungo termine di queste due condizioni in ratti sottoposti a denutrizione postnatale (dal secondo al ventunesimo giorno di vita), ed in ratti nati da madri malnutrite nei periodi della gestazione e dell’allattamento. Gli autori, effettuando un’analisi quantitativa degli alberi dendritici apicali delle cellule piramidali appartenenti al terzo ed al quinto strato della corteccia visiva, nei primi 180 giorni dalla nascita, gli ultimi 5 mesi dei quali sono stati dedicati ad una riabilitazione nutrizionale, hanno dimostrato che l’incremento e la maturazione dei dendriti e delle spine sono maggiormente ridotti nel campione dei ratti malnutriti in età postnatale che in quelli nati da madri denutrite. Inoltre, i primi presentano, a 180 giorni di vita (quindi dopo il programma di riabilitazione nutrizionale), danni neurologici permanenti, mentre nei ratti sottoposti a malnutrizione materna non si riscontrano più alterazioni statisticamente significative. Questi risultati concordano con quanto osservato pochi anni prima da Cordero, Diaz e Araya (1976), i quali, usando le tecniche colorimetriche di Golgi-Cox e di Nissl, hanno studiato la maturazione delle cellule piramidali appartenenti al quinto strato della corteccia visiva in ratti malnutriti, dimostrando che questi presentano una riduzione permanente del numero e dell’estensione dei dendriti basali associata all’incremento, nello stesso strato corticale, probabilmente come processo compensatorio, della densità neuronale (cfr. Salas, Diaz e Nieto, 1974; Cordero et al., 1985). La diminuzione della densità e dell’estensione delle arborizzazioni dendritiche basali, nelle cellule piramidali del quinto strato neocorticale, è stata dimostrata in ricerche successive condotte dallo stesso Cordero in ratti malnutriti in età gestazionale, ovvero sottoposti a denutrizione nei primi mesi di vita (Cordero et al., 1986), ed in bambini denutriti durante l’età neonatale (Cordero et al., 1993). Gli autori, costatando che le alterazioni dendritiche di maggior entità interessavano i ratti denutriti nel tempo compreso tra la fine della vita fetale ed i primi tre mesi postnatali, hanno identificato tale periodo come uno stadio critico per lo sviluppo e la differenziazione dei dendriti basali e delle stesse cellule piramidali (Cordero et al., 1986). Recentemente Cordero, Valenzuela, Rodriguez e Aboitiz (2003), partendo da questi dati, hanno analizzato la morfologia dei dendriti apicali e l’orientamento dei neuroni piramidali appartenenti agli strati corticali più profondi in due gruppi di ratti denutriti, l’uno, fino al decimo, e l’altro fino al ventunesimo giorno postnatale, ed in un gruppo di animali di controllo. I risultati di maggior interesse consistono nell’aumento del numero di neuroni piramidali orientati in modo atipico e con dendriti apicali molto corti, e nella presenza di cellule piramidali normali, ma con dendriti apicali abnormemente lunghi, nei due gruppi sperimentali. Benítez Bribiesca e collaboratori (1999), infine, hanno analizzato, utilizzando il metodo rapido di Golgi, la densità e la morfologia delle spine dendritiche di neuroni corticali delle aree somatosensoriale, motoria ed occipitale, in 13 infanti deceduti a causa della grave denutrizione ed in 7 bambini eutrofici morti per cause diverse. Gli autori hanno rilevato la presenza di dendriti apicali significativamente più corti negli infanti malnutriti rispetto ai soggetti di controllo (581.54 ± 54.32 μm nei primi, valori relativi alla media più o meno una deviazione standard, vs 846.3 μm nei controlli), ed un numero di spine per dendrite ridotto (185.3 ± 36.1 vs 374.3 ± 41.6). La morfologia delle spine dendritiche, ancora, presenta vistosi cambiamenti soprattutto nelle porzioni distali dei dendriti: spine dal corpo allungato (cfr. Schönheit e Haensel, 1984, 1989), dal profilo estremamente irregolare, ovvero fuse tra loro. Gli autori hanno descritto queste anormalità con il termine di “spine dendritiche displasiche”, distanziandosi dal concetto di “spine disgenesiche” suggerito da Purpura nel ritardo mentale non classificabil e e nelle sindromi cromosomiche (Purpura, 1974; cfr. capitolo II, pagina 40), volendo sottolineare l’inadeguatezza della terminologia utilizzata da quest’ultimo in patologie di origine ambientale, quali la malnutrizione, in cui non è ravvisabile uno sconvolgimento del programma genetico. Benítez Bribiesca e colleghi, concludendo, affermano che queste anomalie neuroanatomiche possono essere direttamente correlate ai deficits neuropsicologici dei bambini osservati. La malnutrizione caloproteica comporta, altresì, anomalie dendritiche e sinaptiche nelle cellule piramidali appartenenti alla regione CA3 dell’ippocampo (Garcia Ruiz et al., 1993; Diaz Cintra et al., 1994; Andrade et al., 1996; Granados Rojas et al., 2002). Diaz Cintra, Garcia Ruiz, Corkidi e Cintra (1994), analizzando, col metodo rapido di Golgi, gli effetti della deprivazione proteica prenatale e della riabilitazione nutrizionale dopo la nascita su neuroni piramidali del campo CA3 in ratti di quattro diverse età (15, 30, 90 e 220 giorni di vita), confrontati con altrettanti gruppi di controllo appaiati per la stessa caratteristica, hanno dimostrato che i danni neurologici permangono nel tempo. Gli autori hanno rilevato una diminuzione marcata delle dimensioni del soma cellulare nei gruppi di 90 e 220 giorni, e della lunghezza dei dendriti apicali a 15 giorni, una riduzione dell’estensione delle arborizzazioni dendritiche apicali (negli animali di 15 giorni) e basali (a 15, 90 e 220 giorni) e della densità delle spine (nei gruppi di 30, 90 e 220 giorni) (cfr. Garcia Ruiz, Diaz Cintra, Cintra e Corkidi, 1993). Inoltre, era presente, in contrasto con i dati della letteratura scientifica precedente, un aumento della complessità dei dendriti apicali nei ratti di 90 e 220 giorni. Andrade e collaboratori (1996) giungono a risultati simili studiando quantitativamente, con l’impregnazione argentica, la morfologia degli alberi dendritici ippocampali in cinque ratti di otto mesi di età, sottoposti a malnutrizione proteica negli ultimi sei mesi, ed in cinque anima li di controllo. Gli autori hanno riscontrato, negli animali malnutriti, una diminuzione della densità dei dendriti apicali appartenenti alla regione CA3 dell’ippocampo e degli alberi dendritici nelle cellule granulari del giro dentato, con un notevole incremento, in questi ultimi, del numero di spine e segmenti dendritici terminali dalla forma allungata (cfr. Frotscher, Drakew e Heimrich, 2000). Granados Rojas e collaboratori (2002), infine, hanno dimostrato che la malnutrizione proteica prenatale, provocando una diminuzione durevole e significativa del volume e della densità delle fibre muscoidi, che connettono i granuli del giro dentato con i neuroni piramidali del campo CA3, ha effetti deleteri sulla funzionalità sinaptica eccitatoria delle strutture ippocampali. A seguito di un programma nutrizionale riabilitativo, tuttavia, i compartimenti pre e postsinaptici delle connessioni fibre muscoidicampo CA3 vanno incontro a modificazioni strutturali che compensano la perdita neuronale indotta dalla malnutrizione (Andrade, Madeira e Paula Barbosa, 1995). La malnutrizione caloproteica può causare, oltre a ciò, una diminuzione delle cellule granulari cerebellari, con conseguente perdita delle spine dei neuroni di Purkinje e formazione compensatoria di spine dendritiche giganti (Clos et al., 1977; Chen e Hillman, 1980; Hillman e Chen, 1981;), dell’ippocampo (Andrade et al., 2002) e del giro dentato (Cintra et al., 1990; Diaz Cintra et al., 1991), ipoplasia degli alberi dendritici e del soma nei neuroni del nucleo del facciale (Perez Torrero, Torrero e Salas, 2001) e del claustrum (Escobar e Salas, 1995). Per quanto riguarda la malnutrizione caloproteica prolungata in età adulta, essa può determinare, oltre all’aumento del numero dei dendriti e delle spine dendritiche riscontrato nell’ippocampo (Andrade et al., 1996), nel subiculum e nella corteccia entorinale (Brock e Prasad, 1992; Andrade et al., 1998), nelle cortecce frontale e parietale, nel corpo striato e nel setto (Brock e Prasad, 1992), necrosi neuronale e perdita di sinapsi (Andrade et al., 1995; Lukoyanov e Andrade, 2000). L’ipossiaischemia è una delle principali cause di neuropatologia perinatale che può determinare deficits neuroevolutivi e ritardo mentale (Volpe, 1994). Essa può essere dovuta a cause diverse come l’asfissia intrauterina (insufficienza placentare ed anomalie del cordone ombelicale), malformazioni congenite, travaglio lungo, traumi meccanici, e comporta la diminuzione dell’ossigeno (ipossia) e della perfusione ematica cerebrale (ischemia), con conseguente carenza, più o meno marcata, dell’apporto energetico, in particolar modo di glucosio e di ATP (adenosintrifosfato) (Folbergrova, Li, Uchino, Smith e Siesjo, 1997). L’ipossiaischemia comporta principalmente due tipi di alterazioni strutturali dei neuroni: la necrosi cellulare, e le anomalie della forma e del numero dei dendriti e delle spine dendritiche. La morte neuronale è caratterizzata da una fase acuta e da una ritardata. In fase acuta essa è secondaria alla perdita dei meccanismi omeostatici che regolano le concentrazioni ioniche intracellulari, con conseguente aumento di Ca++ all’interno della cellula, fenomeno che determina una continua depolarizzazione, ed un aumento della pressione osmotica intracellulare, che porta alla lisi del neurone (Lipton, 1999; Mahura, 2003). Questa prima fase è seguita da un periodo di necrosi neuronale ritardata che diffonde verso le aree circostanti l’originario focus ischemico. Ventitrenta minuti di ipossia portano alla formazione di varicosità dendritiche (Park, Bateman e Goldberg, 1996; Naoyuki Miyasaka et al., 2000). Questi patterns di alterazioni dendritiche sono bloccati dagli antagonisti del glutammato e riprodotti dall’esposizione, per cinque minuti, ad agonisti dello stesso neurotrasmettitore (Park, Bateman e Goldberg, 1996; Hasbani et al., 2001), suggerendo che il danno dendritico possa essere causato dall’eccitotossicità. Un’anossia acuta, inoltre, induce una marcata diminuzione della proteina MAP-2 (micro-tubule-associated protein 2) (analisi quantitative, su cavie sperimentali, hanno dimostrato che essa è pari al 30% in meno dopo 10 minuti, e al 70% in meno dopo mezz’ora di anossia), ed alterazioni morfologiche dei neuroni appartenenti alle regioni ippocampali CA1, CA3 e giro dentato (Kwei, Jiang e Haddad, 1993; cfr. Kitagawa et al., 1989; Malinak e Silverstein, 1996). Nel caso di ischemia globale, o deplezione energetica severa, è stato dimostrato che il processo di morte cellulare e le anormalità dendritiche sono confinati in aree cerebrali particolarmente vulnerabili quali il neocortex, l’ippocampo, il corpo striato, il talamo, l’amigdala ed il cervelletto. In queste aree il danno è limitato a specifici sottogruppi di neuroni: cellule piramidali degli strati profondi della corteccia sensomotoria (Akulinin, Stepanov, Semchenko e Belichenko, 1997) e dell’ippocampo (Pokorny, Trojan e Fischer, 1982), neuroni di Purkinje nel cervelletto (Rees et al., 1999), e cellule a canestro e spinose nel nucleo caudato (Norton e Culver, 1977) (cfr. Siesjo, 1981). Gli effetti dell’asfissia totale sullo sviluppo dendritico dei neuroni piramidali corticali consistono in una riduzione marcata della lunghezza e della complessità dei dendriti (Yoshioka et al., 1986). La regione cerebrale maggiormente sensibile, per quanto concerne l’organizzazione dendritica, agli insulti ipossicoischemici è, tuttavia, l’ippocampo (Pokorny, Trojan e Fischer, 1982; Pokorny e Trojan, 1983, 1986; Mudrick e Baimbridge, 1989; Trojan e Pokorny, 1989). Pokorny, Trojan e Fischer (1982) hanno comparato la struttura dei neuroni piramidali della regione CA1 in ratti esposti ripetutamente ad ipossia, dalla nascita ai 17 giorni di vita, ed in animali di controllo. Gli autori, utilizzando l’impregnazione di Golgi-Cox, hanno dimostrato che gli animali sperimentali, al diciottesimo giorno, presentano una diminuzione numerica dei dendriti basali e dei dendriti apicali. Le spine dendritiche sono corte e spesse (negli animali di controllo, al contrario, appaiono lunghe e sottili) e, al pari degli alberi dendritici, meno numerose nei dendriti basali ed apicali, ad eccezione, per questi ultimi, della regione terminale che mostra una densità pari a quella riscontrata nei controlli (cfr. Pokorny e Trojan, 1983; Trojan e Pokorny, 1986). In risposta a queste alterazioni, il numero degli interneuroni dell’ippocampo aumenta al fine di compensare la perdita parziale del potenziale sinaptico (Trojan e Pokorny, 1989). Mudrick e Baimbridge (1989), infine, hanno costatato che i danni iniziali osservati nel campo CA1, a seguito di ischemia cerebrale, sono progressivamente ingravescenti e possono avere importanti implicazioni funzionali. In alcuni casi, quando l’insulto ipossicoischemico si verifica durante i primi stadi dello sviluppo cerebrale, la perdita delle spine dendritiche può essere compensata entro poche settimane (Briones, Therrien e Metzger, 2000; Piccini e Malinov, 2001). Al contrario, quando la lesione ischemica colpisce un cervello maturo, essa può avere carattere permanente (De Ruiter e Uylings, 1987). Teratologia neurocomportamentale: la sindrome alcolica fetale e l’abuso di droghe in gravidanza La teratologia neurocomportamentale studia le cause dello svilupparsi delle disfunzioni comportamentali e cognitive, sia di origine genetica sia di natura ambientale pre e postnatale, e delle loro conseguenze. “In verità, campo preminente di ricerca è attualmente quello inerente lo studio degli effetti dell’esposizione pre e perinatale a xenobiotici che causano danni del sistema nervoso centrale e disturbi comportamentali non associati, in genere, ad alcuna apparente anomalia morfologica” (Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 80). Proprio questi ultimi autori illustrano, rifacendosi ad un lavoro di Vorhees del 1990 “I principi della teratologia comportamentale e le loro implicazioni cliniche”, alcuni principi fondamentali che regolano questa disciplina (Ottaviano e Ottaviano, 2000): 1. Principio della determinazione genetica: questo principio stabilisce che i fattori genetici hanno un’influenza sostanziale sulla risposta dell’embrione a qualsiasi forma di insulto. 2. Principio del periodo critico: il tipo e l’entità dell’effetto teratogeno comportamentale dipendono dallo stadio di sviluppo dell’organismo. 3. Principio del meccanismo specifico: i teratogeni comportamentali agiscono sul sistema nervoso in sviluppo attraverso meccanismi specifici, nel senso che vi sono alterazioni neurochimiche ed ultrastrutturali del sistema nervoso centrale che mediano le anormalità del comportamento postnatale prodotte dall’esposizione fetale a sostanze dannose. 4. Principio della risposta teratogena comportamentale: la teratogenesi comportamentale si manifesta attraverso l’alterazione della capacità cognitiva, affettiva, sociale, riproduttiva e sensomotoria, o si esprime con il ritardo nell’elicitare risposte comportamentali a stimoli esterni. 5. Principio dell’accesso al bersaglio: il tipo e la gravità dell’effetto teratogeno comportamentale dipendono dalla specificità dell’agente che raggiunge il sistema nervoso in sviluppo. Questo principio riconosce che influenze di tipo farmacologico hanno effetti sull’assorbimento, la distribuzione, il legame alle proteine, la concentrazione tessutale, il metabolismo, l’escrezione e le caratteristiche recettoriali di ogni agente chimico. 6. Principio della relazione doserisposta: il tipo e la severità dell’effetto teratogeno comportamentale dipendono dalla dose della sostanza che raggiunge il sistema nervoso in sviluppo. 7. Principio della determinazione ambientale: il tipo e l’entità dell’effetto teratogeno comportamentale dipendono dalle influenze ambientali sull’organismo, compresi fattori pre e postnatali. 8. Principio dei tipi teratogeni comportamentali: solo sostanze che producono malformazioni del sistema nervoso centrale, o che sono psicoattive, possono determinare effetti teratogeni comportamentali. 9. Principio delle relazioni tra risposte diverse: se la sostanza è capace di produrre effetti comportamentali negativi, i danni teratogeni comportamentali sono dimostrabili a dosi più basse di quelle che causano malformazioni. 10. Principio della massima suscettibilità: il periodo di maggior suscettibilità agli effetti teratogeni comportamentali è isomorfo con lo sviluppo del sistema nervoso centrale. In altre parole, esso corrisponde al periodo in cui il cervello è maggiormente vulnerabile al danno strutturale, vale a dire durante la neurogenesi. Tra i fattori teratogenici più studiati, e di maggior rilievo epidemiologico, è da annoverare il consumo cronico di alcool (etanolo) in gravidanza che può determinare una patologia neurocomportamentale nota col nome di sindrome alcolica fetale (o FAS, acronimo di Fetal Alcohol Syndrome). Questa malattia è stata individuata tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo, sebbene l’importanza dell’astinenza in gravidanza fosse nota sin dall’antichità, da Lemonie e collaboratori in Francia e da Jones e collaboratori negli Stati Uniti (Lemonie et al., 1968; Jones et al., 1973). Essa consiste in un insieme di segni e sintomi presenti in bambini esposti all’alcool nel periodo prenatale. L’alcool, infatti, è in grado di attraversare la placenta molto rapidamente, di modo che la sua concentrazione nel sangue materno ed in quello fetale raggiunge rapidamente livelli simili. Oltre a ciò è importante tener presente che né il nascituro né la stessa placenta possiedono gli enzimi in grado di metabolizzare questa sostanza che, successivamente, passa nelle urine del feto e quindi nel liquido amniotico dove non può dissolversi rapidamente, e da dove è riassorbita nel sangue fetale determinando una nuova intossicazione. Gli effetti dell’esposizione prenatale all’alcool sullo sviluppo cerebrale fetale possono consistere, tra gli altri, in una maturazione neuronale ritardata (Hammer e Scheibel, 1981), nella diminuzione ponderale del cervello (Diaz e Samson, 1980), in anormalità della migrazione neuronale e gliale, nella dilatazione dei ventricoli cerebrali, e nell’agenesia del corpo calloso e della commessura anteriore (Jones e Smith, 1973; Clarren et al., 1978; Peiffer et al., 1979; Qiang, Wang e Elberger, 2002). L’alcool può esercitare i suoi effetti dannosi sull’embriogenesi e sullo sviluppo del feto attraverso meccanismi differenti. Tra questi i principali sono: (a) la produzione di radicali liberi dell’ossigeno, fenomeno che favorisce l’aumento patologico dell’apoptosi (un processo di morte cellulare selettiva, normale durante l’embriogenesi); (b) l’influenza sui fattori trofici cellulari: l’alcool esercita un effetto diretto su di essi inibendo o stimolando, indirettamente, la proliferazione delle cellule (Luo e Miller, 1998). A tal proposito, gran parte degli studi più recenti ha dimostrato come esso sia responsabile della diminuzione del numero dei neuroni (Miller e Potempa, 1990; Thomas, Goodlett e West, 1998; Maier, Miller, Blackwell e West, 1999; Beman e Hannigan, 2000) e della microglia (Wierzba Bobrowicz et al., 2003); (c) la formazione di acetaldeide (il primo metabolita dell’etanolo), sostanza che inibisce la crescita delle cellule astrogliali (Serreau et a l., 2002). Il ritardo mentale è una caratteristica pressoché sempre presente. Esso è, in genere, moderato (con un QI medio di circa 68 – gli studi sul quoziente intellettivo condotti in Europa e negli Stati Uniti hanno ottenuto risultati simili) (Streissguth et al., 1980; Streissguth, 1983). La maggior parte dei neonati e dei bambini affetti manifesta, inoltre, disturbi dell’attenzione con iperattività (ADHD), irritabilità, clonie, difficoltà di suzione, competenze sociali diminuite, deficits dell’apprendi mento e della memoria (Chaudhuri, 2000; Vallée e Cuvellier, 2001). L’incidenza della sindrome alcolica fetale è di circa 1.9 bambini su mille nati vivi. L’esposizione prenatale all’alcool, ancora, può dar origine ad una condizione descritta come FAE (Effetti Fetali da Alcool) i cui deficits cognitivi e neuropsicologici sono meno severi di quelli riscontrati nella FAS, e che può interessare 1 neonato ogni 300 nati vivi (Ottaviano e Ottaviano, 2000). L’epidemiologia della sindrome alcolica fetale, d’altra parte, essendo strettamente correlata all’abuso materno di alcool, varia, anche in modo considerevole, in relazione al contesto psico-socio-culturale (cfr. Jones et al., 1974; Leiber, 1977; Sokol, Miller e Reed, 1980; Serreau et al., 2002). Per quanto riguarda le anomalie del sistema dendritico osservate nella FAS, esse, benché coinvolgano anche gli alberi dendritici, la cui densità è, a volte, notevolmente ridotta sia nel neocortex (Druse et al., 1986) sia nel paleocervello (Burrows, Shetty e Phillips, 1995; Clamp e Lindsley, 1998; Yanni e Lindsley, 2000), interessano soprattutto il numero e la morfologia delle spine. I bambini affetti da FAS, difatti, mostrano neuroni piramidali corticali con una diminuita densità di spine caratterizzate, generalmente, da una forma allungata (Ferrer e Galofre, 1987). Questi dati trovano conferma negli studi che hanno utilizzato modelli animali della sindrome alcolica fetale, ottenuti per mezzo della somministrazione di etanolo nel periodo gestazionale (cfr. Abel e Dintcheff, 1978; Dexter et al., 1980; Ellis e Pick, 1980; Jacobson et al., 1980; Sulik, Johnston e Webb, 1981; Fisher et al., 1982, per un paragone tra alcune delle specie considerate). Tali ricerche hanno dimostrato l’esistenza di una marcata perdita, nelle regioni corticali, di spine e di sinapsi (Sherwin et al., 1979; Stoltenburg Didinger e Spohr, 1983; Schapiro, Rosman e Kemper, 1984; Fabregues et al., 1985; Lopez Tejero, Ferrer, Llobera e Herrera, 1986; Galofre, Ferrer, Fabregues e Lopez Tejero, 1987; Kuge et al., 1993) - sebbene in una di esse sia stato rilevato, al contrario, un loro incremento (Miller e Potempa, 1990; cfr. Cadete Leite et al., 1988, 1989, sull’aumento, nel giro dentato, della densità dei dendriti appartenenti alle cellule granulari come processo compensatorio alla perdita parziale degli stessi granuli e, quindi, per ripristinare l’organizzazione sinaptica dell’ippocampo) - e spine dendritiche lunghe e dal profilo tortuoso (Stoltenburg Didinger e Spohr, 1983; Galofre, Ferrer, Fabregues e Lopez Tejero, 1987; Mohamed, Nathaniel, Nathaniel e Snell, 1987). Alterazioni simili sono state osservate nelle cellule piramidali della regione CA1 dell’ippocampo (Tarelo Acuna, Olvera Cortes e Gonzales Burgos, 2000) e nei neuroni cerebellari di Purkinje (Mohamed, Nathaniel, Nathaniel e Snell, 1987). I dati neuropatologici ottenuti negli animali, però, a causa delle differenze nella gestazione e nello sviluppo fetale, non sono sempre paragonabili a quanto riscontrato nell’uomo. I topi, ad esempio, che rappresentano la specie animale maggiormente utilizzata come modello sperimentale della FAS, sono caratterizzati da un periodo gestazionale molto breve e da uno sviluppo cerebrale maggiormente protratto, rispetto all’uomo, nell’età postnatale. Infatti, mentre in quest’ultimo la migrazione neuronale e la proliferazione gliale sono concentrate, assieme all’incremento della massa cerebrale, nel secondo e nel terzo trimestre di vita intrauterina, nel topo ciò avviene nei primi giorni dell’età neonatale. Tavola 5.3. Anormalità neuropatologiche e neurofisiologiche osservate nei modelli animali della FAS Alterazione della proliferazione e della migrazione neuronale Incremento dell’apoptosi Anomalie dello sviluppo dendritico Transitoria astrogliosi corticale Diminuzione della densità sinaptica Anomalie della microvascolarizzazione cerebrale Oloprosencefalia Diminuzione delle cellule piramidali ippocampali Ipomielinizzazione Alterata responsività cerebrovascolare Inibizione centrale dei movimenti respiratori fetali (Tradotta da Gleason, 2001, p. e233) Il consumo cronico di alcool può determinare, anche in età adulta, in un regime nutrizionale adeguato, la comparsa di anomalie dei dendriti e delle spine dendritiche. I dati neuropatologici di maggior riscontro consistono, sebbene in alcune ricerche non siano state trovate alterazioni significative (Lescaudron e Verna, 1985; Cadete Leite, Tavares, Uylings e Paula Barbosa, 1988; Cadete Leite, Alves e Paula Barbosa, 1990), nella perdita di spine dendritiche e di sinapsi nelle cellule piramidali della neocorteccia (Walker, Hunter e Abraham, 1981; Ferrer, Fabregues, Rairiz e Galofre, 1986) e dell’ippocampo (Phillips e Cragg, 1983; Lescaudron, Jaffard e Verna, 1989), e nei neuroni cerebellari di Purkinje (Tavares, Paula Barbosa e Gray, 1983a, 1983b; Pentney e Quigley, 1987; Dlugos e Pentney, 1997), in spine dalla forma allungata ed estesa (Tavares, Paula Barbosa e Gray, 1983a, 1983b; Wenisch, Fortmann, Steinmetz, Leiser e Bitsch, 1996; Wenisch et al., 1998), ovvero spine molto corte (Lescaudron, Jaffard e Verna, 1989), e nella dilatazione del loro reticolo endoplasmatico (Dlugos e Pentney, 2000). La densità e le alterazioni dendritiche e sinaptiche possono, a volte, essere ripristinate, almeno parzialmente, come è stato dimostrato negli studi con modelli animali, in seguito alla cessazione della somministrazione di etanolo (Popova, 1983; Lescaudron, Jaffard e Verna, 1989; Dlugos e Pentney, 1997), dall’esposizione a dosi ingenti di tiamina (Wenisch, Fortmann, Steinmetz, Leiser e Bitsch, 1996; Wenisch, Steinmetz, Fortmann, Leiser e Bitsch, 1996), e dall’arricchimento ambientale (Berman, Hannigan, Sperry e Zajac, 1996; Rema e Ebner, 1999). Similmente all’etanolo, l’esposizione ripetuta ad altre esotossine (ad esempio il piombo ed il mercurio) e a droghe (come la cocaina), in periodi critici dello sviluppo cerebrale fetale e neonatale, può determinare sequele teratocomportamentali, ritardo mentale di grado variabile e, per quanto concerne la neuropatologia, alterazioni neuronali e sinaptiche ed anomalie dei dendriti e delle spine dendritiche. L’esposizione, in periodi sensibili dello sviluppo ontogenetico fetale, al mercurio, ingerito durante la gravidanza dalla madre, in genere attraverso cibi contaminati, causa, nei neonati e nei lattanti, diversi deficits cognitivi e comportamentali tra cui disfagia, ipertonia, ritardo nello sviluppo cognitivo e motorio, disturbi dell’apprendimento e, nei casi più gravi, microcefalia e microencefalia (con riduzione ponderale dell’encefalo fino al 50%) (Newland, Yezhou, Logdberg e Berlin, 1994; Ottaviano e Ottaviano, 2000; cfr. Lewis et al., 1992, sugli effetti dannosi dell’esposizione fetale simultanea a diversi metalli pesanti: cadmio, cromo, cobalto, piombo, mercurio, nickel e argento). Gli studi sulle anormalità neurologiche conseguenti all’avvelenamento da mercurio, hanno dimostrato che, nel ratto, sono presenti alterazioni morfologiche delle spine dendritiche (forma allungata e profilo tortuoso) ed una riduzione rilevante della loro densità (O’Kusky, 1985; Stoltenburg Didinger e Markwort, 1990). Oltre al mercurio, le ricerche sulla teratologia neurocomportamentale si estendono ad altri metalli, in particolare al piombo. L’esposizione prenatale a questa sostanza può determinare, nel nascituro, disturbi dell’attenzione con iperattività, scarso rendimento scolastico, deficits della coordinazione motoria fine e basso quoziente di sviluppo (Newland, Yezhou, Logdberg e Berlin, 1994). Il piombo, inoltre, così come l’etanolo, può inibire o eccitare la proliferazione cellulare (Finkelstein, Markowitz e Rosen, 1998). Ciò spiega perché in alcuni studi sia stata osservata una diminuzione della densità dei dendriti e delle spine dendritiche (Király e Jones, 1982), oltre che delle cellule granulari cerebellari (Lorton e Anders on, 1986), mentre in altri sia stato riportato un loro incremento (Patrick e Anderson, 1995, 2000). Gli effetti teratogeni della cocaina e di sostanze derivate dalla morfina, come l’eroina ed il metadone, sullo sviluppo fetale sono, a causa della crescente diffusione di queste droghe, tra i principali oggetti di studio della teratologia neurocomportamentale. Wilson e collaboratori (1979), confrontando la crescita e lo sviluppo cognitivocom-portamentale di bambini nati da madri eroinomani durante la gravidanza e di bambini di controllo, hanno dimostrato che i primi presentano più frequentemente basso peso alla nascita, deficits dello sviluppo cognitivo, impulsività, iperattività, bassa autostima e scarsa socialità. Oltre a ciò, i nati da donne eroinomani, o che hanno assunto metadone durante il periodo della maternità, presentano alla nascita, come avviene nella sindrome alcolica fetale (Hannigan e Armant, 2000), segni di astinenza acuta quali tremori, irritabilità, disturbi del sonno e pianto intenso (Moretti e Montali, 1982; Chiriboga, 2003). La cocaina, un alcaloide della coca sudamericana, è una droga con un notevole effetto stimolante. Essa esercita un’azione costrittrice sulle arterie uterine che causa ipossiemia fetale; inoltre, bloccando le monoaminoossidasi, potenzia l’azione delle catecolamine (cfr. Levitt, 1998; Stanwood, Washington, Shumsky e Levitt, 2001). I neonati e i bambini di madri cocainomani durante la gravidanza mostrano, in genere, durante la vita intrauterina, ipertensione, tachicardia, i pertermia, anomalie ellettrocardiografiche ed un rischio elevato di nascita prematura ed aborto, mentre, in età postnatale, alterazioni elettroencefalografiche e del ciclo sonno/veglia, iperattività, tremori, disturbi del linguaggio e, in un numero ristretto di casi, crisi convulsive (Rotta e Cunha, 2000; Bandstra et al., 2004). Essi possono presentare diversi danni cerebrali e neurologici tra cui microencefalia, probabilmente dovuta all’alterazione della moltiplicazione neuronale, anomalie a carico del prosencefalo, quali l’agenesia del corpo calloso e del setto pellucido e la displasia del setto ottico, disturbi della migrazione, come la schizencefalia e le eterotopie neuronali, anormalità della differenziazione dei neuroni corticali ed agenesie del tubo neurale (mielomeningocele ed encefalocele), infarti cerebrali ed emorragie intracraniche (Ottaviano e Ottaviano, 2000). La patologia dendritica conseguente all’esposizione, durante la vita intrauterina, alla cocaina consiste, essenzialmente, nella perdita parziale dei dendriti e delle spine dendritiche sia nelle aree corticali sia in quelle sottocorticali. Xavier e collaboratori (1995), ad esempio, hanno rilevato, nella corteccia prefrontale di ratti esposti alla cocaina nella vita fetale, una diminuzione si gnificativa del numero dei neuroni e dei dendriti (Xavier, Tavares, Machado, Silva Araujo e Silva, 1995). Risultati simili sono stati ottenuti nei conigli dove è presente, nelle cellule piramidali appartenenti agli strati corticali III e V del giro del cingolo, l’incremento della lunghezza dei dendriti e la diminuzione della complessità delle loro arborizzazioni (Stanwood, Washington, Shumsky e Levitt, 2001). L’assunzione cronica di droghe stimolanti, come la cocaina e le amfetamine, può, anche in età adulta, determinare anomalie a carico del sistema dendritico. Ciò è stato dimostrato con l’utilizzo di modelli animali che hanno evidenziato, nei ratti, ipertrofia dendritica ed aumento della densità delle spine nei neuroni del nucleo accumbens e nelle cellule piramidali della corteccia prefrontale (Robinson e Kolb, 1999a). La morfina, d’altra parte, che in dosi terapeutiche ha un effetto analgesico di tipo ipnotico, provoca, nelle stesse regioni cerebrali di questi animali, atrofia dendritica e diminuzione del numero delle spine (Robinson e Kolb, 1999b). Capitolo VI Relazioni tra la patologia dendritica ed il profilo cognitivo-comportamentale nei disturbi associati a ritardo mentale “La mia nozione di personalità è davvero semplice: il tuo Sé, l’essenza di quello che tu sei, rispecchia il pattern di interconnettività tra neuroni nel tuo cervello […] il Sé è sinaptico […] Molti sicuramente ribatteranno che, in natura, il Sé è psicologico, sociale, morale, estetico o spirituale piuttosto che neurale. La mia teoria sinaptica del Sé non si propone, però, come un’alternativa a queste posizioni. È piuttosto un tentativo di descrivere il modo in cui il Sé psicologico, sociale, estetico o spirituale si realizza […] Che il Sé sia sinaptico può essere una maledizione: non ci vuole molto perché vada in pezzi” (Joseph LeDoux, Il Sé Sinaptico, 2002) Le parole di Joseph LeDoux ben rilevano l’importanza evolutiva e clinica del sistema sinaptico e della sinaptogenesi. Il numero elevato di connessioni sinaptiche presenti nel cervello umano (circa 1015) è una delle caratteristiche distintive della nostra specie, ed è alla base delle complesse capacità cognitive di cui disponiamo. Già Purpura, tra i pionieri dello studio della patologia dendritica nel ritardo mentale, aveva dimostrato, nel 1977, che le aberrazioni del sistema sinaptico, tra cui l’impoverimento del suo potenziale, dovuto essenzialmente alla riduzione della complessità degli alberi dendritici ed alla perdita di spine, sono alla base dei deficits neuropsicologici ris contrati nella patologia dello sviluppo corticale. Lo sviluppo e la differenziazione delle arborizzazioni dendritiche, d’altra parte, dipendono dall’attività sinaptica che, a sua volta, subisce la loro influenza. Nel sistema nervoso in via di sviluppo è fondamentale ricevere inputs e costruire nuove connessioni (secondo l’ottica istruzionista l’attività sinaptica determina la connettività conducendo ad un accrescimento della complessità sinaptica - sviluppo di un maggior numero di assoni e di dendriti - piuttosto che, come sostiene il darwinismo neurale, ad un semplice consolidamento di uno schema innato, ottenuto con l’eliminazione selettiva - sprounting - delle sinapsi in eccesso). Inoltre, “lo sviluppo delle spine dendritiche esercita molto probabilmente un’azione fondamentale nei processi di comunicazione e integrazione funzionale cerebrale, nel senso che i neuroni senza un adeguato patrimonio dendritico e relative spine non sono in grado di ricevere e trasmettere adeguatamente gli impulsi” (Ottaviano e Ottaviano, 2002, p. 28). L’interdipendenza tra l’organizzazione del sistema dendritico e la funzionalità sinaptica è dimostrata anche dalla presenza di meccanismi compensatori (in particolare cambiamenti morfologici dei dendriti e delle spine; cfr. capitolo I) a seguito della diminuita densità assonica, e della conseguente carenza di afferenze nervose. L’enfasi posta sul sistema dendritico e, quindi, sull’interconnettività neuronale, è giustificata, in conclusione, dalla convinzione che essi possano ben rappresentare la corrispondenza tra l’organizzazione funzionale della mente, normale e patologica, e quella neurologica del cervello. La prima parte di questo lavoro ha illustrato le caratteristiche delle anomalie dendritiche nei principali disturbi associati a ritardo mentale, siano questi di origine genetica o dovuti a condizioni ambientali, il presente capitolo ha, invece, l’obiettivo di fornire una visione critica ed esplicativa della patologia dendritica e sinaptica e delle sue conseguenze sul fenotipo comportamentale nel ritardo mentale, suggerendo l’esistenza della correlazione, e di un possibile legame causale, tra il genotipo neurologico, il fenotipo dendritico, ed il profilo cognitivo propri dei diversi disturbi (tuttavia, si tratterà soltanto delle sindromi genetiche e dell’autismo che restano le patologie studiate più estesamente, le cui caratteristiche cognitive e comportamentali, oltre all’insieme di segni e sintomi, si presentano distintive ai fini diagnostici e, quindi, specifiche di ciascuna patologia). La definizione di fenotipo cognitivo-comportamentale cui mi riferisco deriva dalle ricerche di Elizabeth Dykens, condotte al Child Study Center della Yale University, nell’ambito di ciò che è stata definita “new genetics”, cioè nuova genetica, volendo sottolineare con tale termine i recenti e rivoluzionari progressi ottenuti in questo campo della scienza (basti pensare al Progetto Genoma). Esso, secondo la scienziata statunitense, consiste nella maggiore probabilità che persone affette da una specifica sindrome genetica presentino una peculiare sequela evolutiva e comportamentale rispetto ad individui sani o affetti da disturbi differenti (Dykens, 1995). Prima di giungere a delle conclusioni sull’importanza della patologia dendritica nel determinare il fenotipo cognitivo-comportamentale dei disturbi associati a ritardo mentale, è necessario risolvere alcune questioni intorno alla sua natura ed alle sue funzioni: essa è una caratteristica costante e sindrome-specifica del ritardo mentale? È causa o conseguenza di quest’ultimo? Inoltre, rappresenta il segno di una disfunzione cognitiva globale, o svolge un ruolo nei deficits cognitivi selettivi osservati in molti disturbi e sindromi? Il prossimo paragrafo cercherà di far luce su tali quesiti. Anomalie dendritiche e ritardo mentale: quale relazione? I dati presenti in letteratura, ed illustrati nella prima parte di questo lavoro, suggeriscono che, almeno nelle sindromi e nei disturbi genetici, vi sia un chiaro coinvolgimento del sistema dendritico nella neuropatologia del ritardo mentale. La riduzione, ovvero l’aumento, della complessità e della lunghezza ed i cambiamenti morfologici delle arborizzazioni e delle spine dendritiche, infatti, sono caratteristiche costanti nell’insufficienza mentale con eziologia genetica (particolarmente nelle sindromi di Down, di Rett e della X fragile; cfr. capitoli III e IV), mentre per quanto riguarda le patologie dovute a condizioni ambientali si hanno informazioni più limitate (cfr. capitolo V). Se la presenza della patologia dendritica nelle sindromi e nei disturbi associati a ritardo mentale è un dato ampiamente confermato, la specificità delle anomalie dei dendriti e delle spine dendritiche è un costrutto di non chiara soluzione. Alcuni aspetti della patologia delle spine (particolarmente la diminuzione della densità e l’allungamento strutturale), ad esempio, sono di comune riscontro in un ampio numero di noxae, tra cui l’abuso cronico di alcool, l’encefalopatia spongiforme, la deafferentazione, l’agenesia neuronale, e la malnutrizione caloproteica grave (cfr. Fiala, Spacek e Harris, 2002). Tuttavia se, anziché considerare singolarmente le varie alterazioni del sistema dendritico, si tenesse conto del modo in cui esse si combinano nel caratterizzare la neuropatologia di disturbi differenti, sarebbe possibile descrivere, in modo abbastanza puntuale, patterns peculiari per ciascuna condizione. Per capire la funzione della patologia dendritica, tuttavia, non è sufficiente dimostrarne la frequenza elevata e la specificità, è altresì importante verificarne la covariazione con l’entità dei deficits cognitivi specifici e dell’insufficienza mentale globale. A tal proposito, Kaufmann e Moser (2000) fanno notare che, se le anomalie dendritiche fossero correlate ai deficits cognitivo-comportamentali osservati nei disturbi associati a ritardo mentale, gravi anormalità strutturali e funzionali dovrebbero riflettere una disfunzione corticale generalizzata, mentre un danno cognitivo moderato dovrebbe essere associato con anomalie dendritiche lievi, e suggeriscono alcuni studi che hanno parzialmente dato risposta a questo quesito (Yan et al., 1989; Armstrong et al., 1998; Hinton et al., 1991). Armstrong e collaboratori (1998) hanno confrontato le aree corticali con riduzione dendritica grave nella sindrome di Rett, in cui il ritardo mentale può essere gravissimo, con un campione paragonabile di pazienti affetti da trisomia 21, il cui deficit cognitivo è, generalmente, meno severo. Tutte le regioni corticali analizzate (corteccia premotoria, motoria e visiva) hanno mostrato una diminuzione della lunghezza dei dendriti maggiore nella malattia di Rett, e con danni più marcati nelle regioni frontali. Yan e collaboratori (1989), invece, hanno dimostrato l’esistenza di una relazione direttamente proporzionale tra la diminuzione delle arborizzazioni dendritiche e l’entità del deficit cognitivo negli adulti affetti da cretinismo. Questi dati suggeriscono un rapporto diretto, quantomeno una correlazione, tra la severità della patologia dendritica ed il grado del ritardo mentale. Purtroppo, non ci sono attualmente ricerche sulle anomalie dendritiche in individui con disturbi lievi dell’apprendimento. La loro utilità è spiegata dal fatto che questi soggetti presentano ritardo mentale lieve o moderato e, quindi, se fosse dimostrata la presenza di una patologia dendritica non grave, sarebbe possibile confermare ulteriormente l’ipotesi che vede la severità delle anomalie del sistema dendritico rispecchiare l’entità del deficit cognitivo. A sostegno di questa tesi, nonostante ciò, vi sono i risultati ottenuti in tre casi di X fragile, con QI compreso tra 40 e 60, in cui sono state rilevate lievi anomalie delle spine dendritiche senza cambiamenti citoarchitettonici di rilievo (Rudelli et al., 1985; Hinton et al., 1991; cfr. capitolo III). La correlazione tra ritardo mentale ed anomalie dendritiche, comunque, non è sufficiente per ipotizzare un legame di causa-effetto. In realtà non è chiaro se la patologia del sistema dendritico sia il meccanismo patogenetico primario del deficit cognitivo in tutti i disturbi. In altri termini, non è sempre possibile stabilire se essa sia causa o conseguenza del ritardo mentale. In alcune malattie (tra cui la sindrome della X fragile), dove non sono state riscontrate necrosi neuronale e degenerazione dei terminali assonici, essa sembra rappresentare un deficit evolutivo intrinseco ai dendriti ed alle spine (Huttenlocher 1970; Kaufmann e Moser, 2000), in altri disturbi, invece, i dati sembrano sostenere un'ipotesi alternativa. Secondo questa teoria la patologia dendritica sarebbe un meccanismo patogenetico secondario dovuto alla perdita degli assoni afferenti (ad esempio nel morbo di Alzheimer), o all’alterazione di meccanismi fisiologici quali la neurogenesi e l’eliminazione selettiva delle sinapsi (ad esempio nella sindrome di Rett). Come nella deafferentazione, i dendriti e le spine che hanno perso le sinapsi assoniche si ritrarrebbero e la loro densità, conseguentemente, diminuirebbe. La perdita delle afferenze sinaptiche può, altresì, dare origine a meccanismi compensatori normali (sebbene di entità esagerata), che hanno esito nelle alterazioni dell’organizzazione e della morfologia delle strutture dendritiche. In alcuni casi, queste possono costruire sinapsi con elementi non assonici come le cellule gliali, in altri casi la diminuita densità assonica e neurale potrebbe provocare l'allungamento delle spine e dei dendriti nello sforzo di raggiungere gli assoni superstiti più lontani, oppure potrebbe causare l’incremento della complessità degli alberi dendritici e del volume delle spine al fine di aumentare la superficie disponibile a ricevere gli inputs altrimenti carenti. Se, come sostengono Kaufmann e Moser (2000), le anomalie dendritiche sono i fattori neuropatologici principali in molti disturbi genetici associati a ritardo mentale, è necessario chiarire se esse rappresentino il segno di una disfunzione cognitiva globale, o svolgano un ruolo nei deficits cognitivi selettivi osservati in molti disturbi e sindromi. Ricerche di neuroimmagine, con lo scopo di indagare la macroanatomia patologica, hanno dimostrato che in alcune malattie vi è un chiaro riscontro tra le regioni cerebrali danneggiate, l’entità del danno, e i disturbi delle facoltà percettive e cognitive cui queste aree sono devolute. Ciò, in linea generale, è in accordo con l’ipotesi che le anomalie dei sistemi dendritico e sinaptico siano direttamente connesse a specifiche capacità cognitive, da cui si può dedurre che anomalie dendritiche sindrome-specifiche correlino con disfunzioni cognitive appartenenti a noxae neuropatologiche differenti. Così nella trisomia 21 la riduzione dei lobi frontali e temporali è associata a deficits linguistici selettivi (Kemper, 1988; Jernigan et al., 1993), mentre alterazioni neurologiche delle aree corticali parieto-occipitali sono responsabili dei disturbi visuospaziali nella sindrome di Williams (Jernigan et al., 1993). Risultati simili sono stati ottenuti in studi quantitativi con il metodo di Golgi sulla citoarchitettonica cerebrale e sull’organizzazione del sistema dendritico in pazienti con sindrome di Down (Kemper, 1988), di Rett (Armstrong et al., 1995; Bauman et al., 1995) - in cui Armstrong e collaboratori hanno dimostrato, in accordo con il fenotipo cognitivo-comportamentale di questa patologia, caratterizzato da ridotte capacità motorie e buone competenze visuospaziali, che le regioni corticali responsabili della preparazione dei movimenti (area 6 di Brodmann: corteccia premotoria frontale) e della loro esecuzione (area 4 di Brodmann: corteccia motoria frontale) sono seriamente danneggiate, mentre la corteccia visiva primaria è relativamente preservata - ed in un soggetto con sindrome di Williams (Galaburda et al., 1994). In questa ultima ricerca gli autori hanno esplicitamente ipotizzato un legame causale tra i patterns neuropatologici strutturali (alterazioni dell’organizzazione colonnare e diminuzione della regione occipitale), ed i gravi deficits visuospaziali osservati. Nonostante questi dati supportino l’idea che vede le anomalie neurali e dendritiche responsabili di specifiche disfunzioni corticali, non è possibile giungere a conclusioni univoche. Le ricerche presenti in letteratura, infatti, sono ancora troppo poche e, inoltre, in alcuni studi sono stati descritti patterns neuropatologici in contrasto con le abilità cognitive presenti nei soggetti esaminati. Armstrong e collaboratori (1998), ad esempio, analizzando col metodo di Golgi le arborizzazioni dendritiche appartenenti ai neuroni piramidali delle regioni premotoria , motoria frontale, temporale, e del sistema limbico in pazienti Rett, hanno dimostrato che, al pari della corteccia visiva primaria (cfr. Reiss et al., 1993; Armstrong et al., 1995), anche quella temporale superiore, un’area addetta all’elaborazione linguistica, è relativamente conservata, mentre le ragazze affette da questo disturbo genetico presentano un ritardo e una regressione delle capacità linguistiche molto severi. Sono necessarie, quindi, ulteriori ricerche per comprendere pienamente il ruolo svolto dalla patologia dendritica (e sinaptica) nel determinare le peculiarità del profilo cognitivocomportamentale proprie dei diversi disturbi genetici, ovvero di origine ambientale, associati a ritardo mentale. Conclusioni. Dal substrato neurologico al profilo cognitivo-comportamentale: la patologia dendritica tra neuroanatomia e psicologia La copresenza e la correlazione delle anomalie dendritiche e dei deficits cognitivo-comportamentali nei disturbi associati a ritardo mentale potrebbero essere giustificate, in realtà, dall’esistenza di un ipotetico legame di causa-effetto; le alterazioni dell’organizzazione dendritica, in altre parole, potrebbero determinare il fenotipo cognitivo-comportamentale di queste patologie. Una simile ipotesi rispecchia quanto anticipato nell’introduzione, ossia la convinzione dell’esistenza di un legame tra il genotipo neurologico, la sua espressione fenotipica, ed il profilo cognitivocomportamentale, sia nello sviluppo normale sia in quello patologico. “Alcune prove delle connessioni tra strutture cerebrali e sviluppo emozionale vengono dalla patologia. Così nell’autismo sono state riscontrate alterazioni a carico dell’area limbica, ipotalamo, talamo, gangli della base e cervelletto (Bauman, 1985; Courchesne, 1987). Esperimenti eseguiti sulle scimmie dimostrano che lesioni dell’amigdala provocate subito dopo la nascita producono sintomi di autismo qualche mese più tardi (Merjanan, 1986). Nelle scimmie adulte lesioni della corteccia mesofrontale determinano disturbi delle risposte emozionali e isolamento sociale comparabili a quelle riscontrate nell’autismo (Myers, 1969) […] Infine, difetti nel cromosoma X (X fragile) sono stati identificati come fattori presenti sia nell’autismo che nella sindrome di Rett: sembra oggi possibile ammettere che un gruppo di geni nel cromosoma X sia particolarmente importante nello sviluppo della neocorteccia attraverso i meccanismi stimolatori della comunicazione affettiva e dei rapporti sociali che sono particolarmente intensi nella prima infanzia” (Ottaviano e Ottaviano, 2000, p. 232). Le anomalie cerebrali presenti nell’autismo e nella sindrome della X fragile, d’altra parte, consistono principalmente, come illustrato nei capitoli III e IV, in alterazioni dell’organizzazione neuronale e dendritica proprio in queste regioni (diminuzione del numero e della complessità dei dendriti nell’autismo, aumento e distorsioni della forma delle spine nella X fragile). Tali cambiamenti neuropatologici potrebbero essere responsabili del differente fenotipo cognitivo-comportamentale di questi disturbi. Come già suggerito nel capitolo III, facendo riferimento ad uno studio di Irwin, Galvez e Greenough del 2000, “gli studi sulle anomalie dendritiche e sinaptiche nella sindrome della X fragile hanno delineato un fenotipo neuropatologico ben definito e specifico (spine più numerose, lunghe, sottili, e dal profilo tortuoso), che trova riscontri comuni sia nella patologia umana sia nei modelli animali, e che potrebbe contribuire a spiegarne i deficits cognitivi e comportamentali. Infatti, mentre l’aspetto immaturo delle spine dendritiche è comune ad altre patologie associate a ritardo mentale (ad esempio trisomia 21 e sindrome di Rett), l’incremento della loro densità sembra essere un tratto peculiare di questa malattia” (p. 74 di questo lavoro). Per quanto concerne l’autismo, la riduzione delle arborizzazioni dendritiche e la ridotta dimensione dei neuroni corticali, presenti soprattutto nell’ippocampo e nel sistema limbico (Raymond, Bauman e Kemper, 1996; Kemper e Bauman, 1998), e nella corteccia mesofrontale (Williams et al., 1980), potrebbero essere correlate ai deficits specifici di questa condizione, ad esempio alla mancanza di una teoria della mente matura. Possedere una ‘teoria della mente’ vuol dire essere capaci di attribuire stati interni (ad esempio motivazioni, intenzioni, desideri e credenze) a sé e agli altri al fine di interpretarne le azioni e, quindi, prevederne gli effetti sul comportamento. Nell’autismo, al contrario di altri quadri clinici come il ritardo specifico del linguaggio e la sindrome di Down, questa capacità sembra essere mancante o gravemente carente (Baron Cohen, 2003; Camaioni, 2003; Mundy, Sigman e Kasari, 2003). Come descrive Luigia Camaioni “Nelle persone con autismo manca o è fortemente carente la capacità di ‘mentalizzare’, cioè la tendenza naturale (e compulsiva negli esseri umani) a connettere il comportamento agli stati mentali così da formarsi un’interpretazione coerente di quel che accade. Questi soggetti sono dei comportamentisti naturali ma non diventano mai degli psicologi; essi prendono il comportamento per quello che è e la loro comprensione delle relazioni sociali e del linguaggio rimane letterale. Quelle intenzioni che cambiano il significato del comportamento, come l’inganno, l’ironia, il sarcasmo o l’adulazione, presentano problemi di interpretazione insormontabili. Il mondo sociale rimane in gran parte imprevedibile per queste persone e probabilmente assume una connotazione minacciosa o incute paura” (Camaioni, 2003, p. 223). L’interesse e l’importanza di questo costrutto nella sintomatologia autistica sono giustificati dall’ipotesi che esso possa costituirne il nucleo patogenetico e spiegare “più e meglio di qualsiasi altra teoria proposta la famosa triade di Wing, ovvero i disturbi nelle relazioni sociali, nella comunicazione e nel gioco di finzione [cfr. il criterio B del DSM-IV-TR, p. 87 di questo lavoro], che tutti i bambini con autismo presentano” (Camaioni, 2003, p. 226). Sebbene in letteratura non siano presenti studi specifici sulla patologia dendritica e la teoria della mente, il legame tra le anormalità neuronali e l’incapacità degli individui autistici di mentalizzare e leggere gli stati interni è stato ipotizzato ed analizzato in diverse ricerche condotte negli ul timi anni (Sabbagh e Taylor, 2000; Siegal e Varley, 2002; Hill e Frith, 2003; Mundy, 2003), in modo particolare per quanto riguarda le regioni corticali mesofrontali, la parte anteriore del giro del cingolo (Mundy, 2003), e l’amigdala (Siegal e Warley, 2002), ossia le stesse aree interessate dalle anomalie dendritiche (Williams, Hauser, Purpura, DeLong e Swisher, 1980; Bauman e Kemper, 1985; Raymond, Bauman e Kemper, 1996). Una completa comprensione del ruolo svolto dalla patologia dendritica nei deficits c ognitivi e comportamentali dei disturbi associati a ritardo mentale, soprattutto per ciò che riguarda il suo possibile carattere deterministico, necessita, ad oggi, di ulteriori ricerche ed approfondimenti. Il suo studio potrà apportare nei prossimi anni un notevole contributo alla ricerca sullo sviluppo normale e patologico del sistema nervoso centrale e consentirà, indubbiamente, assieme ai progressi nella neurobiologia e nella genetica, di accrescere le conoscenze sui deficits cognitivi caratteristici de lle diverse forme di ritardo mentale, e di approntare metodi educativi e tecniche terapeutiche più efficaci. Bibliografia ABEL, E.L. & DINTCHEFF, B.A. (1978). Effects of prenatal alcohol exposure on growth and development in rats. Journal of Pharmacology and Experimental Therapy, 207, pp. 916-921. 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