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Il dolo eventuale e l`errore su norma extrapenale nei reati di falso

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Il dolo eventuale e l`errore su norma extrapenale nei reati di falso
ISSN 0019-7084
Nuova Serie - Anno X - N. 1 - 2007
Pubblicazione semestrale
Tariffa R.O.C.: Poste italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Nuova Serie - Anno X - N. 1
Gennaio-Giugno 2007
L’INDICE PENALE
Rivista fondata da
L’INDICE PENALE
PIETRO NUVOLONE
PREZZO A 42,00
Diretta da
ALESSIO LANZI
Estratto
STUDI E RASSEGNE
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IL DOLO EVENTUALE E L’ERRORE SU NORMA EXTRAPENALE
NEI REATI DI FALSO IDEOLOGICO
Sommario: 1. La questione extrapenale. – 2. Il contenuto e l’accertamento del dolo, in particolare nella forma eventuale. – 3. L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, in
particolare nei reati di falso. – 4. Il dolo eventuale nei reati di falso. – 5. L’errore su
norma extrapenale e il falso ideologico.
1. Una questione extrapenale.
Questo scritto trae spunto da un caso giurisprudenziale preso a modello esemplificativo onde sviluppare alcune più generali considerazioni
in ordine a temi di rilevante interesse per il diritto penale(1).
Un notaio venne incaricato, dal creditore procedente in una esecuzione immobiliare, di individuare la provenienza dei diritti di usufrutto
spettanti al debitore esecutato su una serie di immobili. La richiesta,
quindi, era finalizzata ad un procedimento esecutivo per il quale l’art.
567, co. 2, c.p.c. sancisce che il creditore richiedente la vendita deve provvedere ad allegare al ricorso l’estratto del catasto e delle mappe censuarie, il
certificato di destinazione urbanistica, nonché i certificati delle iscrizioni e
trascrizioni relative all’immobile pignorato. In base all’art. 1 della legge 3
agosto 1998, n. 302 (Norme in tema di espropriazione forzata e di atti affidabili ai notai), che ha modificato la predetta disposizione codicistica, tale
documentazione può essere sostituita da un certificato notarile attestante le
risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari.
Il notaio nel suo atto non fece menzione di un usufrutto uxorio, pari a
un mezzo, spettante alla madre del debitore esecutato quale coniuge superstite del dante causa dello stesso debitore; usufrutto conseguito ex lege
poiché la morte del marito era avvenuta nel 1974, ossia prima della riforma
del diritto di famiglia. La denuncia di successione era stata regolarmente
(1) Il caso è tratto da Trib. Cosenza, Sez. pen., n. 625 del 14 ottobre 2004, in Le Corti
calabresi, n. 1/2005, p. 145 ss.
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registrata e il relativo certificato era stato trascritto nei registri immobiliari (2).
Con la sentenza in commento il giudice ha condannato il notaio a
titolo di falsità ideologica in certificati, ha cioè ravvisato la realizzazione
della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 480 c.p. Il ragionamento seguito si può cosı̀ riassumere: 1) il documento in questione è un certificato
redatto dal notaio in qualità di pubblico ufficiale e non una relazione redatta dal notaio quale libero professionista; 2) nei registri immobiliari risultava annotata la denuncia di successione che indicava quali eredi ab
intestato non solo il debitore esecutato, ma anche la madre dello stesso
nonché coniuge superstite del de cuius; 3) ciò aveva determinato l’acquisto del diritto di usufrutto del coniuge superstite per la quota di un
mezzo su tutti i beni costituenti l’asse ereditario; 4) «secondo la giurisprudenza consolidatasi in materia» il coniuge superstite, succeduto ex lege in
una quota di usufrutto ai sensi del vecchio testo dell’art 581 c.c., è legatario e non erede; 5) il coniuge, perciò, non avrebbe avuto alcun bisogno
di formalizzare l’accettazione dell’acquisto, poiché, ai sensi dell’art. 649
c.c., il legato si acquista, al momento dell’apertura della successione,
senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare; 6) poiché
mai era stata formalizzata detta rinuncia, l’affermazione resa in seno all’attestato del notaio non era veritiera, in quanto il debitore esecutato
non era l’unico titolare dei diritti di usufrutto sui cespiti elencati. Il giudice, in sostanza, arriva alla conclusione che la dichiarazione di successione è «il documento che rappresenta [...] la prova della delazione al
legato. Ne consegue, allora, che la sua trascrizione, in assenza di rinuncia, diventa la trascrizione dell’acquisto del legato». Ciò fa sulla
scorta di un ulteriore argomento giuridico, in base al quale la norma
di cui all’art. 2648 c.c. – che impone la trascrizione nei registri immobiliari dell’acquisto del legato avente ad oggetto diritti reali immobiliari,
senza la quale l’atto non produce effetto riguardo ai terzi che in precedenza abbiano trascritto altro atto a proprio favore –, sarebbe limitata
ai soli legati pervenuti per testamento e non, invece, a quelli ex lege come
nel caso di specie, che, proprio perché fondati sulla legge, troverebbero
(2) Attualmente l’art. 5 del Decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, Testo unico
delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale, stabilisce che nel caso di
successione ereditaria comprendente beni immobili o diritti reali immobiliari, l’ufficio
del registro redige il certificato di successione, in conformità alle risultanze della dichiarazione della successione o dell’accertamento d’ufficio, e ne richiede la trascrizione. La
disciplina delle imposte ipotecarie e catastali vigente in precedenza (D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 635) regolava in maniera analoga la trascrizione del certificato di successione,
nel senso che doveva rendersi pubblico col mezzo della trascrizione agli effetti stabiliti
da quel decreto, il certificato di denunziata successione, quando conteneva disposizioni
relative a beni immobili.
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la loro opponibilità ai terzi nella semplice trascrizione della dichiarazione
di successione.
Sintetizzata cosı̀ la questione giuridica extrapenale che, del resto, inevitabilmente incide sulla configurabilità della fattispecie penale in tema di
falso ideologico, occorre evidenziare che la decisione in oggetto ha affrontato il profilo dell’elemento soggettivo del reato, alla luce dell’atteggiamento psicologico del notaio il quale, come riconosce lo stesso giudice,
ha sempre sostenuto di non aver compiuto una immutatio veri, «sulla base
di un argomentato ragionamento di natura tecnica». Il notaio, infatti, ha
sempre affermato di aver correttamente omesso l’indicazione dell’usufrutto
uxorio, in quanto detto diritto non risultava dai registri immobiliari. A ben
vedere, pure il giudice ammette che «nei registri [...] effettivamente non v’è
traccia della esplicita trascrizione dell’acquisto del legato». Il notaio, d’altronde, ha sempre dichiarato di aver avuto piena conoscenza dell’avvenuta
trascrizione del certificato di denunciata successione che, però, a suo avviso, è atto previsto solamente dalla normativa fiscale e che, appunto, ha
funzione puramente fiscale(3). Secondo il professionista, quindi, la trascrizione del certificato di denunciata successione non può supplire la trascrizione dell’accettazione. La prima, infatti, «...ha effetti meramente fiscali,
mentre gli effetti di diritto privato non potranno che discendere dalla trascrizione dell’accettazione. Ne viene che l’acquisto mortis causa è soggetto
(3) È da notare, infatti, che l’art. 5 del testo unico delle disposizioni concernenti le
imposte ipotecaria e catastale (Decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347) al secondo
comma sancisce che «La trascrizione del certificato è richiesta ai soli effetti stabiliti
dal presente testo unico e non costituisce trascrizione degli acquisti a causa di morte degli immobili e dei diritti reali immobiliari compresi nella successione». Disciplina analoga
era prevista anche nel prima vigente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 635, ove l’art. 13 sanciva
che il certificato di denunziata successione, quando conteneva disposizioni relative a beni
immobili, doveva rendersi pubblico col mezzo della trascrizione però ai soli effetti stabiliti dal quel decreto in tema di imposte ipotecarie e catastali. Il successivo art. 14, infatti,
aggiungeva che le note predisposte dall’ufficio del registro in base alla denuncia di successione conservavano comunque il carattere di atto di parte e lo Stato non ne assumeva
alcuna responsabilità. Che la denuncia di successione abbia, di per sé, efficacia a soli fini
fiscali e che non sia idonea a fornire la prova del diritto di proprietà, è affermazione ricorrente concordemente anche in giurisprudenza. Si veda Cass. civ., sez. II, 8 novembre
2002, n. 15716, Del Prete c. Carlot, in Juris data, n. 2.2007. La denuncia di successione e
il pagamento della relativa imposta, inoltre, non importano accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di adempimenti di contenuto prevalentemente fiscale, diretti ad evitare
l’applicazione di sanzioni, che di per sé non denotano in modo univoco la volontà di accettare l’eredità e rientrano tra gli atti di natura conservativa e di amministrazione temporanea che il chiamato a succedere può compiere in base ai poteri conferitigli dall’art.
460 c.c. Si veda Cass. civ., sez. II, 18 maggio 1995, n. 5463, Mastronardi c. Tiberi, in Vita
not., 1996, 263, e in Giust. civ., 1997, I, 215 con nota di A. Balzano, Requisiti e struttura dell’accettazione tacita di eredità; Cass. civ. sez. II, 4 maggio 1999, n. 4414, in Riv.
notariato, 2000, 175; Cass. civ., sez. III, 13 maggio 1999, n. 4756, Carassinu c. Inps, in
Juris data, n. 2.2007.
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ad una duplice forma di pubblicità: una per gli effetti fiscali, un’altra per gli
effetti civili»(4). Non va dimenticato, inoltre, che, sempre secondo la tesi
opposta a quella del giudice, il sistema della pubblicità immobiliare è improntato al principio della certezza nei traffici giuridici che, attraverso l’art.
2657 c.c., consente la trascrizione solamente in forza di sentenza, atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. Non rientrando la denuncia di successione in questo novero, l’unico
modo per ottenere la trascrizione del legato ex lege sarebbe l’accettazione
da parte del coniuge superstite, che è il solo atto che possa essere contenuto in un documento trascrivibile(5).
Alla luce di quanto sinora esposto è chiaro che il giudice ha dato alla
complessa disciplina della trascrizione nei registri immobiliari un’interpretazione diversa da quella adottata dal notaio. Pur non esistendo effettivamente nei registri alcuna esplicita trascrizione dell’acquisto del legato, secondo il giudice questo doveva essere desunto implicitamente dal notaio
sulla scorta della trascrizione del certificato di denunciata successione. Il
giudicante, in sostanza, ha ritenuto che il notaio sia incorso in un «equivoco», per cui «la conclusione alla quale è giunto [...] si profila non corretta». Ha affermato, inoltre, che al fine di escludere un dato di immediata
percezione, ossia la trascrizione della denuncia di successione, il notaio ha
ipotizzato «un articolato castello motivazionale che, a parere del Tribunale,
si qualifica assolutamente improbabile ed artificioso». Infine, ha identificato l’elemento soggettivo del reato nel dolo eventuale, in quanto il professionista si sarebbe «rappresentata la possibilità di una diversa rappresentazione del fatto» e, ciononostante, avrebbe «deciso di propendere per una
alternativa ed ardita ricostruzione della vicenda ereditaria. [...] Egli, in altre
parole, [sempre ad avviso del Tribunale] risulta aver accettato il rischio che
quanto [...] affermato non fosse corrispondente al vero».
(4) Cfr. L. Ferri – P. Zanelli, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja –
Branca, Bologna, 1995, p. 277. Con l’affermazione secondo cui tra gli atti contemplati dall’art. 2648 c.c. non possa essere inclusa la denuncia di successione a fini fiscali, concorda anche la giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ., sez. II, 28 maggio 1984, n. 3263, Giardino
c. Venturi, in Giust. civ. Mass., 1984, fasc. 5.
(5) In tal senso si veda R. Nicolò, La trascrizione, in Appunti dal corso di diritto civile,
a cura di Morchella – Mariconda – Gazzoni, Milano, 1973, p. 15. Nello stesso senso è orientata la dottrina in merito ad un’altra ipotesi di legato ex lege: il diritto di abitazione nella residenza familiare che spetta al coniuge superstite. Sul punto si veda L. Mengoni, Successione
legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1993,
p. 180 ss., secondo cui in questi casi onde ottenere la trascrizione del predetto diritto non è
sufficiente il certificato di denunciata successione né, per altro verso, è necessaria una sentenza di accertamento. Posto che i titoli in forza dei quali si può ottenere la trascrizione sono
tassativamente indicati dall’art. 2657 c.c., il titolo formale in questi casi è costituito dalla dichiarazione di accettazione del legato.
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2. Il contenuto e l’accertamento del dolo, in particolare nella forma eventuale.
In rapporto al problema generale dell’oggetto del dolo, è opportuno
premettere che, secondo una tesi risalente, esso è costituito dall’evento
in senso naturalistico, come modificazione del mondo esterno legata alla
condotta dal nesso di causalità (6); tesi alla quale si obbietta che, cosı̀ ragionando, per i reati di mera condotta, che non necessitano di alcun evento in
senso naturalistico, si dovrebbe inopinatamente prescindere dal dolo, oppure ritenere che la definizione del dolo fornita dall’art. 43 c.p. non si riferisca a quella tipologia di reati.
Un’altra tesi individua l’oggetto del dolo nell’evento in senso giuridico:
ossia l’offesa all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice(7). L’eccezione sollevata avverso questa impostazione risiede nella considerazione
che far coincidere l’oggetto del dolo con la consapevolezza dell’offesa al
bene giuridico comporterebbe un conflitto con l’art. 5 c.p. – che, come
noto, considera irrilevante l’ignoranza (evitabile) della legge penale –, in
quanto la coscienza dell’offesa non potrebbe prescindere dalla conoscenza
della norma incriminatrice. Si aggiunge, poi, che la tesi in parola resterebbe
smentita in tutte quelle fattispecie di mera creazione legislativa in cui il
bene giuridico è inafferrabile o comunque privo di un valore da tutti percepibile(8).
La tesi che oggi sembra trovare i maggiori consensi è quella secondo
cui oggetto del dolo è il fatto tipico (9) o, con altra espressione, l’evento ‘‘significativo’’ (10): ossia l’insieme degli elementi oggettivi positivamente ri-
(6) F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1982, p. 124 ss.;
A. Santoro, Manuale di diritto penale, I, Torino, 1958, p. 328 ss.; F. Grispigni, Diritto
penale italiano, II, Milano, 1950, p. 62.
(7) M. Gallo, voce Dolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 751 ss.; D. Santamaria,
voce Evento, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 125 ss.; G. Neppi Modona, Il reato impossibile, Milano, 1965, p. 372 ss.; S. Prosdocimi, Reato doloso, in Dig. disc. pen., Torino,
1996, vol. XI, p. 239.
(8) F. Mantovani, Diritto penale, Padova, IV ed., 2001, p. 328 ss. In senso contrario a
questa critica si veda S. Prosdocimi, ibidem, secondo cui la rappresentazione dell’offesa all’interesse significativo sotteso, ossia dell’evento in senso normativo, non presuppone affatto
la conoscenza della norma penale, «la quale ultima non crea dal nulla gli interessi da proteggere, che preesistono ad essa sul piano delle realtà etico-sociali e, non di rado, sul piano delle
stesse realtà giuridiche extrapenali».
(9) In questo senso si veda C. Fiore – S. Fiore, Diritto penale, parte generale, I, Torino, 2005, p. 218 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, IV ed., Bologna, 2001, p. 322 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 326 ss.
(10) Questa seconda espressione è utilizzata onde chiarire meglio la distinzione con i
concetti di evento naturalistico, di evento giuridico e anche con la nozione di ‘‘fatto tipico’’.
In tal senso, si veda A. Pagliaro, Principi di diritto penale, parte generale, IV ed., Milano,
2003, p. 293 ss. Id., Dolo ed errore: problemi in giurisprudenza, in Cass. pen., 2000, p. 2493
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chiesti per la configurazione della singola fattispecie incriminatrice. In
questo modo il dolo deve comprendere tutti i fattori che contribuiscono
a configurare un reato: la condotta, i presupposti, le eventuali qualifiche
soggettive e, quando è previsto, anche l’evento in senso naturalistico e il
relativo nesso causale, sia pur senza necessità della conoscenza dettagliata
dei processi eziologici.
Queste premesse sull’individuazione dei contenuti del dolo, sia pur
molto generiche, sono doverose in quanto per accertare l’esistenza del dolo
stesso è necessario comprendere a pieno quale debba essere l’oggetto dell’indagine.
Per la stessa ragione, è opportuno verificare pure l’ammissibilità del
c.d. dolus in re ipsa, considerato che, soprattutto in passato, la giurisprudenza ha applicato detta formula anche ai reati di falso(11). Il dolo in re
ipsa ricorre quando l’agente viene considerato responsabile, appunto a titolo di dolo, per aver voluto una condotta naturalistica, a prescindere però
dal significato che egli attribuiva al suo comportamento. In questi casi la
struttura della condotta umana appare legata in modo inscindibile a un
certo significato, cosı̀ che quando il comportamento esteriore è voluto, l’azione implicitamente possiede quel dato significato psicologico. Quel che
conta, quindi, è l’aspetto materiale della condotta, al quale si accompagna,
in maniera indissolubile, una sorta di presunzione di dolo.
Ammettendo il dolus in re ipsa, perciò, basterebbe la volontà di un
fatto materiale, senza la necessità che ad essa si accompagni l’accertamento
effettivo di un proponimento diretto ad un contenuto significativo. Questa
forma implicita di dolo, però, è palesemente inadeguata agli assiomi del diritto penale moderno, ove per il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 co. 1 Cost.) l’oggetto del dolo non può essere ridotto al
mero dato naturalistico, bensı̀ deve essere esteso al complesso significato
che l’agente proietta nel mondo esterno attraverso la sua condotta (12).
ss.; F. Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 297 ss.
Con riferimento specifico al dolo eventuale nei reati di pura condotta, parla di evento ‘‘significativo’’ anche S. Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, p. 214.
(11) Per esempio, la Suprema Corte (sez. V, 23 maggio 1979, Cazzoletti, in Riv. pen.,
1980, 51) ha ritenuto che nel delitto di falso in atto pubblico l’elemento soggettivo si esaurisca nella coscienza e volontà della immutatio veri, non essendo necessario né l’animus nocendi né l’animus decipiendi. E poiché la formazione dell’atto falso concreta, sempre secondo la
Corte, insieme l’azione e l’evento, per cui la volontà dell’una implica, di regola, la volontà
dell’altro, il dolo nel falso in atto pubblico sarebbe, salvo prova contraria, in re ipsa. In senso
analogo Cass., sez. VI, 10 ottobre 1984, Sai, in Giur. it., 1986, II, 160; e, per risalire più nel
tempo, Cass., sez. III, n. 122 del 17 gennaio 1952, Pucci e Albano, in Riv. not., 1953, p. 458
ss., con nota critica di G. Santucci, Il dolo nel falso in atto pubblico. Tale impostazione, del
resto, è frutto di antico retaggio anche dottrinale, si veda per esempio G.B. Impallomeni, Il
codice penale illustrato, Torino, 1890, II, p. 20.
(12) L’inammissibilità del dolo in re ipsa è a fortiori connaturata alla teoria secondo cui
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Ossia a quel fatto tipico o, che dir si voglia, a quell’evento ‘‘significativo’’ di
cui s’è detto in precedenza. Il dolo in re ipsa soddisfa soprattutto esigenze
giurisprudenziali e, attraverso il ricorso a schemi presuntivi, si proietta soprattutto verso il superamento delle difficoltà di accertamento dell’elemento soggettivo (13). Ma queste difficoltà, ridotte nei cosiddetti reati soggettivamente pregnanti, non possono essere tranquillamente aggirate attraverso l’uso di forme implicite di dolo, il quale, invece, andrà di volta in
volta provato e accertato(14). Ciò significa che in tema di falso il dolo
non può essere desunto implicitamente dalla immutazione realizzata, ma
deve essere oggetto di specifico accertamento (15).
Assodato che il dolo deve essere puntualmente riscontrato, è ora utile
comprendere in maniera più specifica il contenuto di questo accertamento,
ad essere tipica non può essere una condotta meramente materiale, in quanto tipicità significa
corrispondenza tra il significato della norma e il significato dell’accadere; e, quando l’accadere
è una condotta umana, il suo significato dipende dal contenuto del volere. Allo scopo di superare il concetto naturalistico dell’azione e la visione statica del bene giuridico, in questa teoria l’incriminazione non è vista come il mero divieto di lesione di un bene giuridico, bensı̀
come il divieto di un dato tipo di comportamento. La lesione di un interesse di per sé non
esaurisce la figura dell’illecito penale, nel quale assume rilevanza decisiva la direzione soggettiva della volontà. L’offesa del bene, cosı̀, acquista la funzione di momento parziale all’interno
del più generale disvalore manifestato dalla condotta incriminata. Disvalore che, quindi, non è
espresso solo dall’evento di lesione del bene, oppure dall’azione intesa come comportamento
meramente oggettivo, ma, anche, dall’intenzione illecita volta a contrastare i valori che sono il
fondamento di ogni norma incriminatrice. Proprio nella negazione di questi valori giuridicamente rilevanti è individuata l’essenza dell’illecito penale, e non, invece, nella lesione del bene
come evento obiettivo. La teoria finalistica dell’azione attribuisce alla volontà dell’agente la
funzione di imprimere alla condotta una sua fisionomia socialmente e giuridicamente rilevante, ossia di formare la realtà oggettiva, e non quella di mettere in moto un mero processo causale. L’azione non è considerata, perciò, cieca causalità materiale, ma accadimento coscientemente voluto e finalisticamente predeterminato. Su questi argomenti si veda per tutti C. Fiore, L’azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, passim.
(13) Sulle problematiche dell’accertamento del dolo si veda da ultimo G. Cerquetti,
La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004, p. 314 ss.
(14) Sull’inammissibilità di questa forma di dolo di veda F. Bricola, Dolus in re ipsa.
Osservazioni in tema di oggetto e di accertamento del dolo, Milano, 1960, passim. Nelle trattazioni manualistiche si vedano per tutti C. Fiore – S. Fiore, Dritto penale, cit., p. 226; G.
Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 325; si veda anche il contributo di A. Pagliaro, Dolo ed errore, cit., p. 2495 ss.
(15) Che il dolo nel delitto di falso in atto pubblico non sia in re ipsa sembra ormai
acquisizione anche giurisprudenziale. Secondo la Cassazione (sez. V, 10 dicembre 1999,
Sez. V, n. 1963, Veronese, in Cass. pen., 2001, p. 1480), esso, al contrario, va sempre rigorosamente provato e va escluso tutte le volte in cui la falsità risulti essere oltre o contro l’intenzione dell’agente, come quando risulti essere semplicemente dovuta ad una leggerezza o
ad una negligenza, non essendo previsto nel vigente sistema la figura del falso documentale
colposo. Nello stesso senso si veda Cass., sez. V, 16 dicembre 1986, Bosco, in Cass. pen.,
1988, p. 1018; Id., sez. V, 31 gennaio 1992, Bonanno e altro, in Cass. pen., 1993, p. 1429
e Giust. pen., 1992, II, 545 (s.m.).
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con particolare riferimento al dolo eventuale. Questa figura, radicata nei
principali sistemi penali dell’Europa continentale, come noto, è uno dei
concetti che, anche in Italia, è cresciuto senza un espresso riconoscimento
legislativo e che ha impegnato di più la dottrina penalistica e, come spesso
avviene, ha dato spazio alle più eterogenee soluzioni. Per compiutezza è
opportuno dar conto, sia pur molto succintamente, delle principali teorie
in merito (16).
In prima approssimazione si può dire che il dolo eventuale è quella
particolare situazione psicologica in cui la realizzazione del fatto non è voluta in senso stretto, ma è comunque prevista e in qualche modo accettata
dall’agente. L’evento, quindi, pur essendo previsto come possibile, non è
preso di mira direttamente dall’agente, non è il suo scopo precipuo (17).
A differenza della colpa cosciente, o con previsione, che trova un esplicito
riscontro negli articoli 43 e 61 n. 3 c.p., il dolo eventuale non è ricavabile in
maniera espressa dalla lettera di alcuna norma. L’art. 43 c.p., infatti, definisce doloso, o secondo l’intenzione, solamente quel comportamento in cui
l’evento che ne risulta è stato non solo preveduto, ma anche voluto. La condotta, invece, è colposa quando l’evento, pur essendo stato eventualmente
previsto, non è stato voluto. La previsione dell’evento, perciò, caratterizza
certamente il dolo ed è compatibile anche con la colpa; la volontà dell’evento, invece, secondo la lettera della norma, è situazione tipica del dolo
dalla quale, del resto, lo stesso non può prescindere. La lettera della norma
sembra aver preso posizione a favore della c.d. teoria della volontà a scapito dell’opposta detta della rappresentazione, teorie che animarono il dibattito soprattutto agli inizi del secolo scorso (18). La prima mette in risalto
(16) Per una ricostruzione delle varie teorie sul dolo eventuale e i principali riferimenti
bibliografici anche alla letteratura straniera, si veda M. Gallo, Dolo, cit., p. 791 ss.; S. Prosdocimi, Dolus eventualis (Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali), Milano,
1993, passim; Id., Reato doloso, cit., p. 243 ss.; G. Licci, Dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1990, p. 1498 ss.; G. Forte, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 228 ss.
(17) Gli eventi che sono lo scopo precipuo dell’agente, infatti, siano essi previsti come
certi o come possibili, sono imputati certamente a titolo di dolo; cosı̀ pure sono imputati
quegli eventi che, pur non essendo presi di mira direttamente, sono però considerati certa
conseguenza della condotta. Il problema del dolo eventuale, perciò, si ha solo in riferimento
agli eventi non certi e non presi di mira direttamente. Cfr. M. Gallo, ibidem.
(18) I lavori preparatori del codice penale confermano l’accoglimento della teoria della
volontà. Il Guardasigilli Rocco cosı̀ ebbe modo di esprimersi: «Circa il dolo, tra le due teorie dominanti, della previsione dell’evento (teoria della rappresentazione) e della volontà dell’evento (teoria della volontà), si è scelta quest’ultima, come del resto fa l’art. 45 del Codice
penale del 1889. Dolo si ha, quando l’evento, non solo è stato preveduto, ma è stato voluto.
Non basta che io mi sia rappresentato un danno, come conseguenza della mia azione, per
essere in dolo; ma quell’evento me lo son dovuto proporre, come scopo della mia azione.
Sono in dolo, se la mia volontà tendeva alla scopo di produrre quel danno, ma se non ho
voluto produrre quel danno, benché lo abbia preveduto, ciò non basta per essere in dolo»
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come l’azione non sia altro che il mezzo preordinato ad un fine, perciò reputa lo scopo come elemento ineluttabile del volere; la seconda, invece,
considera come unico oggetto della volontà la mera attività fisica, e perciò
arriva alla conclusione che le conseguenze di questa attività possono essere
solamente oggetto di rappresentazione. Il legislatore storico sembra
dunque aver adottato una nozione ristretta o forte di dolo, riferita solamente a quello intenzionale o diretto, escludendo quello eventuale nel
quale l’elemento volitivo non è perfetto (19), tanto più se si considera che
la colpa viene estesa anche alla previsione dell’evento e si distingue dal dolo
per la mancanza di volontà; si potrebbe perciò sostenere, con notevole nettezza di confini, che tutto ciò che è previsto ma non è propriamente voluto
rientra nella colpa e non nel dolo, neanche eventuale. Volere, in senso strettamente letterale, significa tendere con l’animo al conseguimento di un
fine (20). Nel dolo eventuale l’animus è sostanzialmente altro rispetto a
questo volere. La dottrina e la giurisprudenza, d’altronde, hanno prevalentemente attribuito un senso ‘‘giuridico’’ al concetto, ritenendo che a ciò
non fosse d’ostacolo la formulazione dell’art. 43 c.p., facendovi rientrare
situazioni psicologiche meno pregnanti e intense, quali, appunto, il dolo
eventuale(21).
Gli sforzi di qualificazione del dolo eventuale sono stati molteplici,
anche perché nel nostro ordinamento, com’è noto, la colpa è configurabile
nei soli casi espressamente previsti dalla legge e, quindi, estendere il concetto di dolo significa ampliare la sfera del penalmente rilevante. In altri
cfr. Verbali della Commissione ministeriale, in Codice penale illustrato con i lavori preparatori
a cura di R. Mangini, Roma, 1930, pp. 46-47. In senso analogo si espresse pure il commissario E. Massari, ibidem. Da ultimo sui lavori preparatori del codice Rocco in tema di dolo
si veda G. Cerquetti, La rappresentazione, cit., p. 147 ss.
(19) Sempre il Ministro A. Rocco: «Dice il commissario Marciano che allora vi è un
dolo indiretto, e dice il commissario Ferri che vi è un dolo eventuale. Ma che cosa sono queste distinzioni del dolo? Esse sono finite tutte nel nulla: o l’evento dannoso è voluto, e c’è
dolo, o non è voluto e non c’è dolo». Cfr. Verbali della Commissione ministeriale, cit., p. 47.
(20) Dal lemma ‘‘volere’’ del Grande dizionario della lingua italiana, vol. XXI, di S. Battaglia, Torino, 2002: «Fare oggetto qualcosa della volontà individuale, soggettiva, tendendo
con autonoma e intensa determinazione a fare o ottenere qualcosa».
(21) È conveniente considerare, però, che il ruolo del legislatore non può essere marginale o trascurabile neanche in riferimento a quei concetti, come quello di dolo, che trovano
il loro fondamento in ambiti tipicamente pregiuridici. Le definizioni che il legislatore può
dare di questi concetti conservano pur sempre un rilievo basilare e le operazioni di ‘‘ortopedia’’ ermeneutica possono ammettersi solo limitatamente, anche perché la scelta legislativa
molte volte è ispirata da precisi indirizzi di politica criminale, più o meno rigoristici. Cfr.
S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 239. Perciò, l’aver il nostro legislatore fissato nella definizione del dolo la sua attenzione sı̀ sulla rappresentazione, ma soprattutto sulla volontà, in
quanto la rappresentazione è compatibile anche con la colpa, induce a rifuggire da impostazioni di stampo prettamente giusnaturalistico, a vantaggio di una ricostruzione dei concetti
che, invece, deve essere maggiormente incline a valorizzare il dato normativo.
102
STUDI E RASSEGNE
termini, ammettere il dolo eventuale equivale a dilatare la punibilità, per
esempio dei reati di falso che non sono perseguibili a titolo di colpa, a fatti
che altrimenti ne sarebbero inesorabilmente fuori. Ciò per dire che la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, che tanto ha impegnato la
letteratura penalistica, non ha una ragione di pura speculazione scientifica
fine a sé stessa, bensı̀ ha notevoli risvolti pratici e di politica criminale.
Questi sforzi si sono avuti sia nell’ambito della teoria della rappresentazione(22), sia in quello della teoria della volontà (23). Quest’ultima, per
quanto qui interessa proiettata nel nostro ordinamento a rendere compatibile il dolo eventuale con la formulazione dell’art. 43 c.p., nel momento in
cui tenta di far rientrare nel concetto di volontà anche questa forma di
(preteso) dolo, sembra compiere uno sforzo di eccessiva astrazione, dal
momento che cerca di comprendere nell’ambito del volere momenti prettamente intellettivi. Quando si passa dal nucleo forte del dolo intenzionale/
diretto alla zona evanescente di quello eventuale, l’impressione che si trae è
che il momento stricto sensu volitivo, che il nostro codice sembra pretendere, sopravviva solo fittiziamente, come artificioso simulacro concettuale
in grado di garantire la punizione per quelle conseguenze della condotta
che, benché non volute, sono attribuite all’agente con un sorta di (proibito)
ragionamento ‘‘analogico’’: in qualche modo si equipara il non intimamente
voluto al voluto.
(22) A base di questa dottrina è l’affermazione secondo cui il contenuto del dolo è propriamente un atteggiamento intellettivo avente ad oggetto tanto la condotta materiale quanto
il disvalore giuridico della stessa. Il dolo eventuale, perciò, dipenderebbe dal grado di possibilità/probabilità con cui l’agente si è rappresentato il verificarsi dell’evento. Tanto maggiore è questo grado, tanto più intenso sarebbe il dolo eventuale e, viceversa, tanta maggiore
distanza vi sarebbe dalla colpa cosciente. A questa teoria, però, s’è obiettato che la distinzione tra dolo e colpa è rintracciata su un piano meramente quantitativo, mentre è incontestabile che le due forme d’imputazione soggettiva hanno ontologica differenza qualitativa, non
essendo riconducibili, sia sul piano psicologico sia su quello normativo, ad un concetto unitario. Cfr. M. Gallo, Dolo, cit., p. 791.
(23) All’interno della teoria della volontà si delineano due articolazioni: una, di natura
schiettamente psicologica, intende la volontà in senso causale; l’altra, quella finalistica, concepisce la volontà in senso normativo sociale. La prima fa coincidere il dolo eventuale nell’atteggiamento soggettivo di chi, rappresentandosi le conseguenze ulteriori della propria
condotta, continua ad agire a costo di provocarle, cosı̀ accettandone il rischio e trasferendo
nell’ambito della volontà ciò che prima era semplice rappresentazione. La principale censura
mossa a questa impostazione è che non riesce a dettare dei parametri certi per appurare
quando l’agente abbia effettivamente accettato il rischio. La seconda teoria individua il dolo
nella volontà finalistica, secondo due profili. «Il primo aspetto è l’autolimitazione del processo finalistico che si riflette nella struttura del dolo in quanto da questo verrebbero ed esulare
le conseguenze che l’agente ha cercato di evitare. Il secondo aspetto che prende le mosse dal
concetto di finalità potenziale, configura l’elemento diacritico del dolo nel protendersi della
volontà verso il futuro». Cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, G. Licci, Dolo
eventuale, cit., p. 1503.
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Chi accetta la teoria della rappresentazione, astrattamente più compatibile con il concetto di dolo eventuale e concretamente meno conciliabile
con la lettera del codice penale, per distinguere il dolo eventuale dalla
colpa cosciente spesso ricorre alla c.d. formula di Frank, che si risolve in
un ragionamento ipotetico. L’interprete deve valutare cosa avrebbe fatto
l’agente se avesse previsto l’evento come certa conseguenza della sua condotta. Se si giunge alla conclusione che avrebbe agito ugualmente, si ha
dolo eventuale, in caso contrario si ha colpa cosciente (24). Ma è proprio
lo schema ipotetico di per sé che ha costituito la materia della principale
critica a questa dottrina. Oltre alla constatazione che, sotto il profilo dell’accertamento dell’elemento soggettivo, è molto problematica la prova
di un accadimento ipotetico, l’obiezione fondamentale risiede nella osservazione che non conta ciò che l’agente avrebbe fatto in relazione a circostanze solamente congetturate, ma ciò che ha fatto nell’ambito di quella situazione che concretamente si è posta ai sui occhi al momento della risoluzione(25).
Altra teoria, che ha trovato notevole favore in dottrina e giurisprudenza, individua nel dolo un contenuto eclettico, che si sostanzia, da un
lato, in un momento propriamente volitivo in relazione alla condotta materiale, e, dall’altro, in un atteggiamento intellettivo/rappresentativo riferito a
tutti gli elementi della fattispecie poiché, soprattutto quando si tratta di un
avvenimento futuro rispetto alla condotta, si ritiene più corretto parlare di
«previsione»(26). Ma la previsione, ad avviso di questa autorevole dottrina,
può avere diversa natura a seconda che sia concreta o astratta ovvero positiva o negativa, cosı̀ determinando la distinzione concettuale tra dolo
eventuale e colpa cosciente e, quindi, più in generale, tra dolo e colpa.
Si ha previsione astratta/negativa e, di conseguenza, colpa cosciente,
quando alla previsione, appunto astratta, della possibilità di verificazione
dell’evento, si accompagna la consapevolezza che lo stesso evento non si
verificherà in concreto. «Il giudizio dubitativo: ‘‘un reato può verificarsi’’,
(24) Questa formula, elaborata appunto da R. Frank, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reich, Tübingen, 1931, p. 190 ss., uno dei principale fautori della teoria della rappresentazione, trova meno ostacoli in quegli ordinamenti, come quello tedesco, che non offrono una
specifica definizione normativa del dolo bensı̀ solo quelle concernenti l’errore. In Italia, invece, ove questa definizione esiste e, come già detto, si concentra sul momento volitivo, l’uso di
questa formula è più problematico. La nostra dottrina, del resto, non ha mancato di adottare
questo schema, pur con distanza rispetto alla teoria della rappresentazione. Cfr. G. Contento, Corso di diritto penale, Bari, 1996, p. 378; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., p.
279 ss.; si veda pure L. Eusebi, Il dolo nel diritto penale, in Studium iuris, 2000, fasc. 10, p.
1076 ss., secondo cui detta formula è in grado di escludere senza incertezze il dolo in molti
casi che, altrimenti, dovrebbero essere risolti con la più assoluta discrezionalità.
(25) In questo senso si veda M. Gallo, Dolo, cit., p. 792.
(26) Idem, p. 793.
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si conclude cosı̀ nel giudizio che asserisce: ‘‘un reato non si verificherà’’. La
cosiddetta colpa cosciente si rivela, dunque, caratterizzata dalla previsione
negativa che non si realizzerà un fatto di reato» (27). Sempre secondo
questa impostazione, viceversa, il dolo eventuale si realizza quando alla previsione astratta consegue una previsione concreta positiva, del genere: il
reato si potrà verificare. In quest’ultimo caso la posizione di dubbio, proprio perché non viene rimossa con una previsione negativa, non integra
un’ipotesi di ignoranza o di errore e, dunque, stando a questa teoria, radica
fatalmente il dolo (28). La volontà nel dolo eventuale è perciò costruita sulla
considerazione che l’agente, non avendo escluso la possibilità dell’evento
lesivo, lo accetta manifestando per questa via un atteggiamento interiore
di adesione al suo avverarsi(29), ossia, accetta il rischio del suo verificarsi (30).
Anche questa teoria è stata sottoposta a rilievi critici i quali si fondano
soprattutto sul fatto che la rappresentazione alla base della colpa cosciente,
a ben vedere, sarebbe una non-rappresentazione, contravvenendo cosı̀ al
disposto degli artt. 43 e 61 n. 3 c.p., che, per i reati colposi, parlando di
colui che agisce nonostante la previsione, sembrano fare riferimento ad
una previsione temporalmente collocata al momento della condotta stessa
e non, invece, in una eventuale e poco rilevante fase precedente. In so-
(27) Idem, p. 792.
(28) Nel senso contrario, ossia dell’erronea identificazione tra dubbio e dolo eventuale,
si veda S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 245, secondo cui «la incertezza del reo [...] in
quanto atteggiamento di carattere meramente rappresentativo non esclude il dolo, ma risulta
insufficiente a radicare il dolo medesimo, sino a quando il dubbio non si innesti in una prospettiva di natura volontaristica».
(29) Questa teoria è uno degli sforzi più avanzati volti a conciliare la figura del dolo
eventuale con la lettera dell’art. 43 c.p., trovando una differenza tra due modelli di rappresentazione, l’uno, però, quello della colpa con previsione, che è incompatibile con l’elemento
volitivo, l’altro, invece, proprio del dolo eventuale, che ammette anche la volontà. Si cerca
perciò in tutti i modi di attribuire al dolo eventuale una componente volontaristica.
(30) Lo stesso M. Gallo, Il dolo – oggetto e accertamento, in Studi urbinati, 1951, p.
220, infatti, si esprime nel senso che qualora l’agente si rappresenti la possibilità positiva dell’evento e, ciononostante, si determini verso la commissione dell’azione, allora significa che
egli accetta il rischio implicito del verificarsi dell’evento. Questa dell’accettazione del rischio
è una teoria molto diffusa, sia in dottrina sia in giurisprudenza. Si veda F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 324; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 329; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 332; D. Pulitanò, in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi, Stella, Zuccalà, 4ª ed., Padova, 2003, p. 178 ss. In giurisprudenza si
veda, tra le tante, Cass., sez. V, 17 ottobre 1986, in Cass. pen., 1988, 441; Id., sez. I, 3 giugno
1993, Piga, in Cass. pen., 1994, 2992; Id., sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024, Boni, in Juris
data, n. 2.2007; Id., sez. I, 30 ottobre 1997, n. 10431, Angelici, in Juris data, n. 2.2007; Id.,
sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, Conti, in Giust. pen., 1999, II, 13; Id., sez. VI, 15 aprile
1998, n. 6880, Pilato, in Juris data, n. 2.2007; Id., sez. I, 25 giugno 1999, n. 10795, Gusinu e
altro, in Ced Cassazione, 1999; Id., sez. I, 19 giugno 2002, Persechino ed altro, in Giur. it.,
2004, p. 842 ss., con nota di S. Ferrari, In tema di dolo eventuale e di recklessnes.
STUDI E RASSEGNE
105
stanza, la colpa con previsione sarebbe, invece, senza previsione, in quanto
l’agente nel momento in cui pone in essere la sua condotta è sicuro che l’evento non si verificherà (31).
La teoria dell’accettazione del rischio, del resto, è stata oggetto anche
di alcuni interventi tesi a superare le relative obiezioni. In questa sede si
può fare riferimento a quella tesi secondo cui, partendo dalla constatazione
che, tutto sommato, anche nella colpa cosciente esiste una forma di accettazione del rischio, a distinguersi è la fisionomia di questa accettazione (32).
Per aversi dolo eventuale l’accettazione deve essere il frutto «di una ponderata valutazione degli interessi in gioco, quale ‘‘prezzo’’ del raggiungimento di uno specifico risultato, intenzionalmente perseguito, cui l’agente
ha consapevolmente, deliberatamente ritenuto valesse la pena di sacrificare
altro bene, associando mentalmente, secondo un criterio di carattere ‘‘economicistico’’, l’eventuale sacrificio al risultato desiderato»(33). Qualora, invece, l’accettazione del rischio sia il risultato di un contegno irriflessivo, superficiale, avventato, trascurato, indolente, allora si configura la colpa cosciente (34).
Al termine di questa ricostruzione, certamente limitata, che, considerata la sede, non ha potuto dar conto di altre teorie e aspetti della complessa individuazione del concetto di dolo eventuale(35), è opportuno ri-
(31) Per questi rilievi, insieme ad altre obiezioni, si veda S. Prosdocimi, Reato doloso,
cit. p. 240; B. Battaglini, Considerazioni sul dolo eventuale, in Cass. pen., 1986, p. 470; G.
Forte, Ai confini, cit. p. 252 ss., secondo cui attraverso la teoria criticata si vuole assimilare
alla volizione un coefficiente psicologico tutt’affatto diverso. Accettare il rischio della verificazione dell’evento, si sostiene, è atteggiamento completamente differente dal volere l’evento
oggetto del rischio. Accettare il rischio significa rischiare, ossia un atto soggettivo che rientra
nell’imprudenza e nella temerarietà, non nel dolo. Sul punto si veda pure A. De Marsico,
Coscienza e volontà nella nozione di dolo, Napoli, 1930, p. 152.
(32) Si veda S. Prosdocimi, Dolus, cit., p. 45; Id., Reato doloso, cit., p. 244.
(33) Cfr. S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., ivi.
(34) Anche questa teoria è stata censurata poiché si ritiene comporti lo spostamento
dell’oggetto del dolo e della colpa, dall’evento ad uno stato soggettivo, ossia l’accettazione
del rischio. Cfr. G. Forte, Ai confini, cit. p. 255 ss.
(35) Non può farsi a meno, del resto, di operare almeno un richiamo ad altre teorie che
hanno fornito stimolanti e importanti costruzioni e spunti ermeneutici, quali, ad esempio, la
tesi secondo la quale sia la condotta dolosa sia quella colposa sono caratterizzate da contrarietà a diligenza, cosı̀ evidenziando le commistioni esistenti tra le due forme d’imputazione
soggettiva. Cfr. nella dottrina italiana G. Marinucci, Non c’è dolo senza colpa - Morte della
«imputazione oggettiva dell’evento» e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1991, p. 26 e altra bibliografia ivi indicata. È d’uopo poi richiamare la teoria secondo
cui il dolo eventuale non risiede nella pura e semplice accettazione del rischio, bensı̀ nell’accettazione del rischio c.d. inadeguato, ossia di quello che è ritenuto incompatibile con la misura del rischio ammessa dall’ordinamento. Su questi temi, nella letteratura italiana, si veda
V. Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 5 ss., con ulteriori riferimenti
bibliografici; per la dottrina tedesca, per tutti, W. Frisch, Vorsatz und Risiko. Grundfragen
des Tatbestandsmäßigen Verhaltens und des Vorsatzes, Köln, 1983, p. 341 ss.
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cordare che non è mancato neanche chi ha disconosciuto in radice la configurabilità del dolo eventuale, ritenendolo un ‘‘doppione mascherato’’
della colpa cosciente (36). La tesi tende a dimostrare che la forma di dolo
consistente nell’accettazione del rischio ha tutti i caratteri di quella colposa,
in quanto il dolo eventuale, stante la non volontà dell’evento, mal cela una
realtà avente un carattere meramente normativo e non, invece, concretamente psicologico. Da ciò discende che lo sforzo ermeneutico, volto a
far rientrare a tutti i costi l’accettazione del rischio nel concetto di volontà
di cui all’art. 43 c.p., può incorrere in una preclusa interpretazione analogica, in quanto crea una figura in realtà non descritta dal legislatore, bensı̀
frutto di una mera equiparazione tra contegni soggettivi. La tesi, quindi,
trova fondamento nella lettera della norma codicistica, nel principio costituzionale di riserva di legge e anche in non trascurabili esigenze di politica
criminale che tendono a restringere l’ampia possibilità del ricorso al dolo
eventuale, alcune volte utilizzato per dilatare l’area del penalmente rilevante a condotte che, a bene vedere, conservano una rimproverabilità solo
a titolo di colpa.
Alla luce di tutte queste considerazioni, una prima, parziale, conclusione sembra raggiunta: nell’individuazione del dolo eventuale non può
trascurarsi l’elemento volitivo, al quale deve riconoscersi una dignità paragonabile a quella della rappresentazione.
3. L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, in particolare nei reati di
falso.
A questo punto è d’uopo vagliare in che modo si atteggia il dolo nei
reati di mera condotta, come appunto quelli di falso ideologico, e, poi,
più in particolare, comprendere il possibile ruolo del dolo eventuale in
questo contesto (37). Nei reati di mera condotta, com’è noto, è indifferente l’eventuale risultato dell’agire o dell’omettere. Da questa considerazione, d’altronde, non discende che sia privo di senso verificare se la
condotta abbia perseguito un evento, intendendo però questo non in
(36) Cfr. G. Forte, Ai confini, cit. p. 267 ss. Sulla medesima tematica si veda pure,
dello stesso Autore, Problematiche attuali del dolo eventuale: tra forme intermedie di colpevolezza ed istanze definitorie, in Offensività e colpevolezza: verso un codice penale modello per
l’Europa, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, p. 221 ss.
(37) Sul dolo eventuale e la colpa cosciente nell’ambito delle diverse tipologie dei c.d.
reati di pura condotta, si veda S. Canestrari, Dolo eventuale, cit., p. 210 ss.; in tema si veda
anche S. Prosdocimi, Dolus, cit. p. 57 ss. Ritengono, invece, che il dolo eventuale sia configurabile solo per i c.d. reati di evento, fra gli altri, G. Musotto, Il problema del dolo specifico, in Studi in onore di Francesco Antolisei, Milano, 1965, vol. II, p. 366; E. Morselli, Il
reato di false comunicazioni sociali, Napoli, 1974, p. 108.
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senso meramente naturalistico, bensı̀ come quell’evento ‘‘significativo’’
di cui s’è già detto. Né, del resto, in questi reati è possibile limitare l’accertamento dell’elemento soggettivo alla coscienza e volontà di cui all’art. 42 co. 1 c.p. (38); parametri, questi, che nulla indicano a proposito
di dolo o colpa. La coscienza e volontà della mera condotta risulta compatibile tanto con una precisa intenzione di realizzare ciò che è vietato
dall’ordinamento, tanto con la mera negligenza, quanto, infine, pure
con un agire incolpevole. Anche nei reati di mera condotta, perciò,
non si può prescindere dal precipuo accertamento dell’elemento psicologico, il cui contenuto, tuttavia, dovrà incentrarsi interamente sul modo in
cui s’è agito e non s’è agito. Se per l’ordinamento è irrilevante il risultato
naturalistico della condotta, significa che il disvalore risiede e si esaurisce
nella mera condotta in quanto essa sia idonea a offendere il bene giuridico tutelato. Se cosı̀ è, allora, nei reati di mera condotta si avrà dolo solo
quando si agisca per realizzare tale offesa. L’agente, in sostanza, deve
aver percepito l’offesa come connessa intimamente alla tenuta della mera
condotta (39). L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, dunque, sarà
sempre l’evento ‘‘significativo’’ o, con altra espressione, il fatto tipico in
quanto lesivo di beni giuridici. Questa impostazione, del resto, è coerente con la teoria secondo cui l’offesa è elemento della tipicità, ma
non nel senso che il fatto formalmente conforme al tipo sia a priori anche
offensivo (40), bensı̀ nel senso che il fatto inoffensivo non è tipico, o lo è
solo apparentemente secondo una considerazione meramente formalistica (41).
Queste considerazioni valgono anche per i reati di falso in atto pubblico(42) riguardo ai quali s’è molto dibattuto proprio in riferimento all’oggetto del dolo (43). Secondo l’orientamento più risalente, di matrice schiet-
(38) Sull’argomento, nella manualistica, si vedano G. Fiandaca – E. Musco, Diritto
penale, cit., p. 189 ss. e p. 313 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 315 ss.
(39) Per questa impostazione si veda L. Eusebi, Il dolo, cit. p. 1074. Sulla stessa problematica si veda pure Giov. De Francesco, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1988, p. 158 ss.
(40) Condividere quest’ultimo assunto significherebbe escludere la possibilità che nella
descrizione astratta di una fattispecie possano rientrare anche condotte in realtà innocue, oppure significherebbe negare la rilevanza del principio di offensività quale premessa di fondo
dell’ordinamento penale.
(41) Si veda in tal senso C. Fiore, Il principio di offensività, in Indice pen., 1994, p. 283
ss. Sia consentito il rinvio anche a M. Caterini, Reato impossibile e offensività, Napoli,
2004, passim e più in particolare p. 368 ss.
(42) Per una esposizione agile dei reati di falso cfr. A. Nappi, Falsità in atti, in Enc.
giur. Treccani, vol. XIV, Roma, 1989. Sulle origini di questi reati e una panoramica dell’esperienza di common law, si veda E. Grande, Falsità in atti, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino,
1991, pp. 54 ss., 65 ss.
(43) È noto, infatti, che per il falso in scrittura privata è richiesto il dolo specifico, men-
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tamente giurisprudenziale(44), che potrebbe definirsi formalistico, il dolo
nella falsità si esaurisce nella coscienza e volontà dell’immutatio veri (45).
In qualche pronuncia, a questa affermazione se ne accompagna un’altra
– volta soprattutto a cercare di rimuovere l’impressione che il dolo, cosı̀
concepito, coincida con il minimo comun denominatore di ogni reato, di
cui all’art. 42 c.p. –, secondo cui il dolo deve comprendere la consapevolezza dell’offesa, che, nei reati di falso, è riferita alla lesione della verità
della prova (46). In questi casi, però, a ben vedere l’affermazione può risultare una sorta di petizione di principio quando, poi, la suddetta consapevolezza viene desunta secondo criteri simili a quelli del dolo in re ipsa (47).
La letteratura penalistica, invece, è fermamente convinta che l’oggetto
del dolo nei reati di falso non può ridursi all’immutatio veri, poiché ciò significherebbe che il fatto tipico del falso è costituito dalla semplice divergenza naturalistica tra reale e apparente. I reati di falso ideologico rispondono all’esigenza di non ingannare altri attestando cose contrarie alla
realtà, ciò nell’interesse della veridicità (48). L’offesa a questo interesse,
anche sotto forma di messa in pericolo, costituisce l’evento giuridico dei
reati di falso ideologico, che, come già detto in precedenza, integra il fatto
tipico e, di conseguenza, deve essere oggetto anche del dolo. Il falso è con-
tre nel falso in atto pubblico è sufficiente il dolo generico. Sull’oggetto giuridico dei reati di
falso si veda A. Nappi, Falso e legge penale, Milano, 1999, p. 9 ss.
(44) L’impostazione giurisprudenziale sembra più orientata allo scopo pratico di risolvere apoditticamente i problemi volti all’accertamento del dolo, negando la necessità di dimostrare in concreto tutti gli elementi del dolo e ricavando gli stessi solo presuntivamente
dalla condotta naturalistica. Ciò comporta un «vero e proprio anacronismo: è sostanzialmente un ritorno alle concezioni delle epoche primitive, nelle quali la repressione penale si basava esclusivamente sulla materialità del fatto». Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale,
parte speciale, Milano, 1997, II, 73.
(45) Cfr. Cass., sez. V, 23 maggio 1979, Fazzoletti, in Riv. pen., 1980, 51 ss.; Cass., sez.
V, 14 aprile 1980, Mazzolini, in Giust. pen., 1981, II, 132 ss.; Cass., sez. V, 30 gennaio 1981,
Sartoni, in Cass. pen. 1982, p. 1164 ss.; Cass., sez. VI, 10 ottobre 1984, Sai, in Giur. it., 1986,
II, 160 ss.; Cass., sez. V, 28 novembre 1991, Galluzzo, in Riv. pen., 1992, 580 ss.; Cass., sez.
VI, 22 maggio 1998, n. 1051, Tritta, in Cass. pen., 2000, p. 887 ss.; Cass., sez. V, 13 gennaio
1999, n. 3004, Thaler e altro, in Giust. pen., 2000, II, 18 ss., e in Cass. pen., 2000, p. 880 ss,
con nota di G.P. Sartirana, Falso nel registro del professore di scuola media: una svolta in
chiave restrittiva nella nozione di atto pubblico da parte della Cassazione? Per la giurisprudenza di merito si veda App. Palermo, 3 dicembre 1992, Turco, in Giur. merito, 1994, p. 513 ss.;
Trib. Avezzano, 25 febbraio 2003, Di Domenico e altro, in Giur. merito, 2003, p. 1236 ss.
Anche la richiamata sentenza del Tribunale di Cosenza, dalla quale s’è tratto il caso esemplificativo in questione, nella sostanza aderisce a questa impostazione.
(46) Si veda Cass., sez. V, 29 maggio 1980, Baldi, in Cass. pen., 1981, p. 1541 ss., con
nota critica di T. Padovani, La coscienza dell’offesa nel dolo del falso: un requisito ad pompam?
(47) Si veda F. Bricola, Dolus, cit., p. 141 ss.; T. Padovani, La coscienza, cit., p.
1542 ss.
(48) Cfr. F. Bricola, Dolus, cit., p. 143.
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cetto normativo e non prettamente naturalistico, difatti non è penalmente
rilevante qualsiasi modificazione della realtà documentale, ma, per ammissione della stessa giurisprudenza, solo quella che abbia un significato giuridico e una concreta potenzialità ingannatoria (49). Questo orientamento,
per cosı̀ dire, ‘realistico’, ha radici lontane (50) e pretende, oltre la coscienza
e volontà della condotta (art. 42 c.p.), la volontà dell’evento concepito
come l’offesa al bene giuridico. L’agente si deve rendere conto e deve volere che la sua condotta offenda la c.d. fede pubblica (51), deve avere l’intenzione di cagionare l’evento, ossia la sintesi di tutti gli estremi della fattispecie, quindi non un fatto prettamente naturalistico, bensı̀ eminentemente
giuridico. L’agente, in sostanza, deve avere la volontà di realizzare la fattispecie in quanto offesa a beni giuridici(52). In sintesi si potrebbe dire: vo-
(49) Il riferimento è alle ipotesi di falso innocuo o irrilevante e a quelle di falso grossolano che, per la stessa giurisprudenza, non hanno oggettiva rilevanza penale. Sulla prima
ipotesi si veda Cass., sez. V, 20 novembre 1996, n. 421, Scaricabarozzi e altro, in Dir. pen. e
processo, 1997, 594, con nota di S. Monteverde; Cass., sez. V, 8 febbraio 2001, n. 13623,
Stipa, in Cass. pen., 2001, p. 3054, con nota di P. Dell’Anno, In tema di falso ideologico
‘‘inutile’’; Cass., sez. VI, 10 gennaio 2002, n. 6885, Alasia, in Cass. pen., 2003, 2315; nella
giurisprudenza di merito, Trib. Lecce, 30 novembre 1993, Calabro e altro, in Foro it.,
1995, II, 653; Trib. Genova, 20 marzo 2001, Blasi e altro, in Giur. it., 2001, 2145. Sul tema
del falso grossolano, invece, si veda Cass., sez. V, 13 maggio 1987, Dell’Acqua, in Cass. pen.,
1988, 2073; Cass., sez. V, 3 luglio 1989, Montalti, in Riv. pen., 1990, 733; Cass., sez. V, 5
luglio 1990, Casarola, in Giust. pen., 1991, II, 468; Cass., sez. V, 1º febbraio 1993, Zippo,
in Riv. pen., 1994, 183; nella giurisprudenza di merito, Pret. Ravenna, 10 novembre 1987,
Ndiaye Cheick, in Riv. pen., 1988, 58; Trib. Lecce, 30 novembre 1993, Calabro e altro, in
Foro it., 1995, II, 653; Uff. ind. prel. Milano, 15 novembre 2000, in Foro ambrosiano,
2001, 13. In argomento, si veda S. Preziosi, Falso innocuo e falso consentito: spunti problematici sul bene giuridico, in Aa.Vv., Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova, 2001,
p. 145 ss.; e S. Fiore, Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di
falso, Napoli, 2000, p. 102 ss., che dalle ipotesi di falso ‘irrilevante’ trae spunto per una rivisitazione dell’intera sistematica della categoria dei reati di falso. Sull’evoluzione giurisprudenziale sia consentito il rinvio a M. Caterini, Il reato impossibile, cit., p. 205 ss.
(50) Si veda, ad esempio, P. Mirto, I delitti di falsità in atti, Palermo, 1932, p. 410,
secondo cui «l’elemento della coscienza in tema di falso in atto pubblico esige che ricorra
la rappresentazione dell’evento, e l’elemento della volontà dell’evento importa che ci sia nell’agente l’intenzione di produrre un evento che è l’evento del reato. Ora l’evento nel delitto
di falso in atto pubblico consiste nella produzione di un inganno ai consociati sulla verità,
genuinità sincerità di un atto pubblico in confronto alla ragione causativa determinante la
necessità dell’atto come esplicazione dell’attività funzionale del pubblico ufficiale». Si veda
pure V. Manzini, Trattato di diritto penale, 1950, vol. VI, p. 736, il quale a proposito dei
delitti di falso ritiene che «per il dolo è necessaria la volontà cosciente e libera dell’azione,
e l’intenzione di cagionare l’evento, cioè il creare un documento falso o di alterare un documento vero, per rendere possibile un inganno circa l’autore o il tenore del documento».
(51) Sulla ricostruzione storica e l’evoluzione del concetto di fede pubblica negli orientamenti dottrinali, e sull’individuazione dell’oggetto sostanziale della tutela nei reati di falso,
in una prospettiva che tiene nel dovuto conto il principio di offensività, si veda S. Fiore,
Radio della tutela, cit., p. 41 ss., p. 91 ss.
(52) In questi termini R. Pannain, Appunti in tema di dolo e di oggettività giuridica
110
STUDI E RASSEGNE
lere la condotta non vuol dire necessariamente volere anche l’evento ‘‘significativo’’, ossia volere l’inganno e il pericolo per il normale svolgimento del
traffico giuridico (53).
Solo per questa via, volendo dare al discorso un respiro più ampio, si
può affermare che la pena risponda ai principi costituzionali in materia. È
noto, infatti, che l’art. 27, co. 1, Cost. esalta l’aspetto personalistico della
nella falsità in atti, in Studi in onore di Francesco Antolisei, II, Milano, 1965, p. 413 ss., secondo cui, del resto, non è necessaria la coscienza dell’illiceità penale, essendo sufficiente la
volontà di offendere il valore insito nella norma incriminatrice, cioè di integrare la fattispecie
nella sua espressione giuridica. Giungono a conclusioni simili, magari con sfumature diverse,
nel senso di ritenere l’offesa al bene giuridico indispensabile contenuto dei reati di falso, F.
Antolisei, Sull’essenza dei delitti contro la fede pubblica, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 6525
ss.; Gius. Sabatini, Orientamenti circa il dolo nei delitti di falsità in atti, in Giust. pen., 1952,
II, 300 ss.; F. Cordero, Appunti sui concetti di danno e di dolo in tema di falso in atto pubblico, in Giur. it., 1953, II, c. 17 ss.; L. Conti, Dolo e «immutatio veri» nel falso in atto pubblico, in Giur. it., 1955, II, c. 305 ss.; U. Dinacci, Realismo e concretezza in una recente pronuncia della cassazione sull’essenza del falso documentale, in Giust. pen., 1984, II, 132 ss.; T.
Galiani, Brevi considerazioni in tema di bene giuridico e di dolo nei delitti di falso, in Giut.
pen., 1985, II, 321 ss.; A. Cristiani, Fede pubblica (delitti contro), in Dig. disc. pen., vol. V.,
Torino, 1991, p. 194 ss. In ogni caso si veda A. De Marsico, voce Falsità in atti, in Enc. dir.,
vol. XVI, Milano, 1967, p. 596 ss., secondo cui il dolo nei reati di falso deve estendere la sua
portata anche all’offesa dell’interesse tutelato, come consapevolezza del pericolo che lo stesso
corre. L’elemento soggettivo sarebbe dato perciò dalla coscienza della condotta e da quella
del pericolo, ma non necessariamente anche dalla diretta volontà di creare il pericolo. Voce
isolata è quella di G. Catelani, I delitti di falso, Milano, 1978, p. 161 ss, che aderisce alla
prevalente impostazione giurisprudenziale nel ritenere che il dolo nei reati di falso si incentri
solo sull’immutatio veri.
(53) L’univoco orientamento dottrinale ha pure trovato riscontro in giurisprudenza, almeno come formale affermazione di principio. Per risalire più indietro nel tempo si possono
richiamare alcune sentenze di legittimità pronunciate poco dopo l’entrata in vigore del codice Rocco, che più o meno esplicitamente riconoscevano rilevanza alla previsione del danno
e della possibilità di danno agli interessi tutelati dalla veridicità e integrità del documento.
Cfr. Cass., 20 febbraio 1933, in Giust. pen., 1933, II, 517; Id., 26 gennaio 1934, ivi, II,
992, n. 12; Id., 1º novembre 1937, ivi, 1938, II, 1374, n. 999. Più recentemente, invece, è
possibile richiamare Cass., 24 marzo 1982, Stornelli, in Foro it., Rep. 1983, voce Falsità in
atti, n. 99; Id., 17 ottobre 1985, Argentino, ivi, Rep. 1986, voce cit., n. 10. Le decisione
che più sembra avere preso le mosse dalle critiche dottrinali alla concezione del dolo come
mera coscienza e volontà dell’immutatio veri, è Cass., sez. V, 3 luglio 1984, Morellato, in
Giust. pen., 1984, II, 548 (con le note adesive di U. Dinacci, Realismo e concretezza, cit.,
e di T. Galiani, Brevi considerazioni, cit.), secondo cui il falso documentale, se inteso nel
suo contenuto reale, non consiste nella mera immutatio veri, richiedendosi – sulla base del
principio costituzionale di tipicità delle condotte – «l’offesa d’una data situazione probatoria
di un soggetto giuridico». Sembrano aderire all’impostazione in oggetto anche Cass., 10 novembre 1994, Marrari, in Foro it., Rep. 1994, voce Falsità in atti, n. 10; e Trib. Lecce, 15
novembre 1989, ivi, 1990, II, 234. Per alcune decisioni, non in tema di falso, che comunque
riconoscono l’offesa al bene giuridico come componente intellettiva ineliminabile dell’oggetto del dolo, si veda Cass., 28 ottobre 1978, in Cass. pen. Mass., 1979, 320; App. Catania, 24
aprile 1981, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 788, con nota di E. Musco, Coscienza dell’illecito, colpevolezza ed irretroattività.
STUDI E RASSEGNE
111
responsabilità penale, che, quindi, non può prescindere dalla consapevolezza di offendere il bene giuridico. In caso contrario, la personalità della
responsabilità penale resterebbe una mera petizione di principio, capace
di essere nei fatti superata da un freddo concetto dell’elemento soggettivo
prettamente logico-formale, frutto di un autoritarismo ormai inconciliabile
con i nostri principi costituzionali (54). È ovvio, poi, che in tale contesto assume rilevanza fondamentale la funzione che la Costituzione attribuisce
alla pena. Senza coscienza del disvalore della condotta, avrebbe poco senso
parlare di risocializzazione. I princı̀pi dello stato di diritto (artt. 2, 3 co. 1,
19 e 21 Cost.) volti a garantire la dignità e l’autonomia dell’uomo, e quelli
dello stato sociale (artt. 3 co. 2, 4 e 34 Cost), improntati allo sviluppo della
personalità in prospettiva solidaristica, impongono ex art. 27 co. 3 Cost. la
rieducazione, intesa come recupero sociale, ossia un processo volto alla integrazione e all’orientamento del reo verso un’esistenza rispettosa di quella
altrui. Se da un lato è la risocializzazione il risultato cui la pena deve costituzionalmente tendere, dall’altro la non-desocializzazione è l’aspirazione
minima ed imprescindibile alla quale la sanzione penale non può assolutamente abdicare (55). Posto ciò, è chiaro che la mancata comprensione dell’offesa renderebbe la pena uno strumento inutilmente afflittivo applicato
nei confronti di un soggetto che non necessiterebbe di integrazione sociale
e che verrebbe esposto ad una sicura desocializzazione. Da qui la funzione
garantistica svolta dalla colpevolezza come limite all’intervento punitivo
dello Stato e la necessità che le sanzioni vengano avvertite come ‘‘giuste’’
onde evitare effetti desocializzanti (56).
4. Il dolo eventuale nei reati di falso.
A questo punto è necessario tirare le fila del discorso e verificare la
compatibilità del dolo eventuale con i reati di falso, tenendo presente
che, da un lato, l’accertamento dell’elemento psicologico non può prescindere da un contegno volitivo (57) che abbia dignità paragonabile a quella
della rappresentazione e, dall’altro, che oggetto di questo riscontro deve es-
(54) In questo senso si veda U. Dinacci, Realismo e concretezza, cit., 559 ss.
(55) Sul punto si veda l’illuminante teoria della pena di S. Moccia, Il diritto penale tra
essere e valore, Napoli, 1992, p. 109 ss., passim, che, attraverso un’elaborazione eclettica costruita su basi eminentemente normative, individua la funzione della sanzione penale, appunto, nell’integrazione sociale del reo.
(56) Ivi, p. 88 ss.
(57) In questi termini, oltre le indicazioni bibliografiche citate in precedenza, si veda
anche F. Bricola, Dolus, cit., p. 27 ss. e in particolare nota 45, il quale afferma, appunto,
che sono destinati a fallire tutti quei tentativi di ridurre il dolo a puro fenomeno intellettivo.
112
STUDI E RASSEGNE
sere non solo la mera condotta dell’immutatio veri, ma anche il fatto tipico
comprensivo dell’offesa al bene giuridico (58).
Il dolo eventuale, s’è già detto, presuppone per un verso che l’evento
non sia voluto come scopo precipuo della condotta, dall’altro che lo stesso
evento si sia però rappresentato come possibile all’agente, il quale, utilizzando l’espressione che oggi riscuote più successo, ne abbia accettato il rischio. Attribuendo all’evento il senso di risultato ‘‘significativo’’, ossia, in
altri termini, di fatto tipico, e aderendo alla già richiamata teoria secondo
cui l’offesa è elemento della tipicità, si può giungere ad un’altra, parziale,
conclusione: nei reati di mera condotta e segnatamente nei reati di falso
ideologico, la possibilità di verificazione dell’evento deve essere riferita
non tanto alla condotta materiale dell’immutatio veri, bensı̀ all’offesa al
bene giuridico.
Cosı̀ ricostruiti struttura e oggetto del dolo eventuale nei reati di falso
ideologico, si può aggiungere che, nei casi più ricorrenti di dolo eventuale,
all’evento preso di mira direttamente e oggetto del dolo intenzionale, se ne
aggiunge un altro, la cui realizzazione è solo possibile, che rappresenta il
contenuto del dolo eventuale. Nei reati di falso, invece, in genere è preclusa
la realizzazione di una pluralità di eventi penalmente significativi, poiché il
documento o è falso o è vero, tertium non datur. Tra vero e falso si potrà
solamente annidare una posizione di dubbio, ma intimamente soggettiva,
nel senso che l’agente non è in grado di stabilire se quanto afferma nel documento è vero o falso, a prescindere però dal fatto oggettivo che comunque esiste e che è solo oscuro all’agente. Ed è proprio in questa posizione di dubbio che si può rinvenire il dolo eventuale nei reati di falso. Si
faccia il caso dell’autentica notarile la cui efficacia probatoria concerne non
soltanto la comparizione personale del sottoscrittore e l’apposizione della
firma in presenza del pubblico ufficiale, ma anche la identificazione della
parte nei modi prescritti dalla legge. Se il notaio è certo che colui che compare innanzi a lui è persona diversa da quella che risulta dall’autentica, è
ovvio che vi sarà dolo diretto. Potrebbe però avvenire che il pubblico ufficiale non sia certo dell’identità personale della parte, per esempio perché
non ha compiuto l’identificazione nei modi imposti dalla legge, ma confidi
nel fatto che le generalità declinate dal comparente siano quelle vere. Bene,
(58) Per una ricostruzione dell’oggetto del dolo volta a recuperare lo ‘‘sfondo di valori’’
sottostante ai reati di falso, ossia ad evitare una eccessiva formalizzazione degli stessi e quindi
un soverchio e incostituzionale impoverimento dell’elemento psicologico, si veda A. Sereni,
Il dolo nelle falsità documentali, in Aa.Vv. Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova,
2001, p. 323 ss., secondo cui «...se si intendesse il dolo di falso come semplice coscienza e
volontà di ledere la fede pubblica, verrebbe meno un reale collegamento fra dolo ed evento,
come effetto dell’irrilevanza del reale obiettivo verso cui tende la volizione dell’agente [...]
Nelle falsità in atti, dunque, il dolo non può non proiettarsi verso il ‘complesso’ degli interessi coinvolti nella situazione concreta del reato».
STUDI E RASSEGNE
113
accedendo a quelle teorie di cui s’è riferito, nelle quali si svaluta il momento
volitivo del dolo eventuale a favore della mera rappresentazione, si può sostenere che il notaio in questi casi abbia agito con questa forma di dolo.
Benché il pubblico ufficiale non avesse alcuna volontà di perpetrare un
falso, anzi contasse sulla verità della dichiarazione e comunque non fosse
consapevole della falsità, si potrebbe ritenere che, malgrado la previsione
dell’evento come possibile, abbia accettato il rischio del suo verificarsi (59).
Altro caso potrebbe essere quello di chi compie una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà indicando, per esempio al fine di ottenere delle agevolazioni, un reddito che ricorda essere quello proprio anche non avendolo
verificato, quindi col dubbio che la somma possa non corrispondere a
quella vera. In questi casi si potrebbe provare ad applicare la già ricordata
c.d. formula di Frank. Se il giudice arriva alla conclusione che l’agente,
qualora fosse stato certo della falsità dell’identità personale o del reddito
dichiarato, avrebbe agito ugualmente, allora vi sarebbe dolo eventuale, in
caso contrario ricorrerebbe solo la colpa cosciente. Le critiche mosse a
(59) Per un caso simile si rinviene un risalente precedente, Trib. Roma, 12 ottobre
1966, in Arch. pen., 1968, II, p. 64 ss. «La responsabilità del Notaio deve essere invece dichiarata nelle ipotesi in cui, pur avendo seri sospetti sull’identità della parte, ometta di accertarne la vera identità: in tale caso il professionista deve esser ritenuto responsabile secondo la teoria del dolo eventuale, poiché ha appunto accettato l’eventualità di attestare cosa
non vera, violando al tempo stesso uno specifico obbligo professionale». Si veda pure Cass.,
sez. III, 6 aprile 1957, in Riv. dir. proc., 1957, p. 169 ss., ove si afferma la responsabilità del
notaio pur non qualificando l’elemento soggettivo come dolo eventuale. Sono orientati per la
sussistenza del dolo eventuale, pur se con affermazioni incidentali, F. Cordero, Appunti,
cit., c. 21; G. Palermo, Falsa attestazione di identità personale. Note a margine degli articoli
49 e 51 della legge notarile, in Riv. not., 1976, fasc. 2, pt. 1, p. 496 ss.; S. Tondo, Accertamento della identità delle parti nell’atto notarile, in Riv. not., 1978, fasc. 1-2, pt. 1, p. 57; R.
Rampioni, Falsità in atti ed attestazione notarile di certezza dell’identità personale dei comparenti, in Cass. pen.., 1981, p. 1789. In senso critico si veda F. Carnelutti, Falso del notaro
per errata attestazione di certezza dell’identità del dichiarante, in Riv. dir. proc., 1959, pp. 169
ss.; F. Antonioni, Identificazione delle parti e falso ideologico in atto notarile, in Arch. pen.,
1962, I, p. 3 ss. Secondo F. Ramacci, Attività notarile e falsità ideologiche, in Riv. not., 1983,
fasc. 3, pt. 1, p. 425 ss., invece, in questi casi il dolo eventuale è difficilmente configurabile
poiché, non potendo il notaio rifiutarsi di compiere l’atto se non in casi estremi, nel dubbio
deve riconoscersi larga operatività all’errore scusabile, che andrà invece escluso solo quando
il notaio abbia avuto fondati motivi di sospetto tali da legittimare l’astensione dal compimento dell’atto. In argomento si veda pure G. Santucci, Il dolo nel falso in atto pubbico, in Riv.
not., 1953, p. 458 ss.; R. La Porta, Art. 49 della legge notarile e falso ideologico, in Giust.
pen., 1958, II, 626 ss.; G. Gianfelice, Il falso ideologico in relazione all’atto notarile, in Riv.
not., 1959, p. 473 ss.; M. Strina, Falso ideologico e dichiarazione di certezza del notaio circa
l’identità personale delle parti, in Riv. not., 1959, p. 749 ss.; G. Bettiol, Ancora in tema di
falsità ideologica, in Arch. pen., 1961, I, p. 245 ss.; G. Vecchio, Ancora sui contenuti dell’accertamento dell’identità personale delle parti compiuto dal notaio, in Vita not., 1993, fasc. 1,
pt. 1, p. 151 ss.; V. Pacileo, Falso ideologico del notaio per attestazione di certezza di identità
personale basata su documento di identità: un mito punitivo da sfatare (del tutto?), in Cass.
pen., 2001, 5, p. 1638 ss.
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STUDI E RASSEGNE
questo schema ipotetico, d’altronde, diventano meglio comprensibili se applicate a casi concreti. Da un lato, infatti, sotto il profilo probatorio ci si
può domandare come potrebbe il giudice accertare che l’agente avrebbe
tenuto ugualmente la condotta. Il tutto si ridurrebbe ad un’indagine che
forse darebbe meno garanzie della stessa presunzione. Ma, a monte, è lo
stesso ragionamento ipotetico di per sé considerato che solleva ancora maggiori perplessità. Il giudice, invero, dovrebbe pervenire ad un giudizio di
condanna sulla base di ciò che l’agente avrebbe fatto in relazione a circostanze solamente congetturate, e non sulla scorta di ciò che effettivamente
è rilevante, ossia la concreta condotta tenuta dall’agente in relazione alla
situazione che realmente si è posta ai suoi occhi all’atto della decisione.
Onde configurare il dolo eventuale nei casi prima descritti, quindi,
sembra più corretto avvalersi della teoria dell’accettazione del rischio, in
quella versione secondo cui, posto che anche nella colpa cosciente esiste
una forma di accettazione del rischio, nel dolo eventuale questa accettazione ha una diversa fisionomia, più pregnante, diretta ad accostarsi il
più possibile alla volizione. L’accettazione, nel dolo eventuale, deve essere
il frutto di un’attenta valutazione degli interessi, il costo dell’ottenimento di
un certo risultato intenzionalmente perseguito. L’accettazione propria della
colpa cosciente, invece, è il frutto di un atteggiamento negligente, superficiale, avventato (60). Alla luce di quest’impostazione, i casi di falso in questione non è detto che debbano essere risolti inevitabilmente a favore dell’esistenza del dolo eventuale, poiché se il documento, pur se oggettivamente falso, è stato formato con negligenza o imperizia o leggerezza,
difficilmente allora si potrà giungere alla condanna. Anzi, la tendenza interpretativa dovrebbe essere restrittiva per il dolo eventuale, cercando di limitarlo ai casi più gravi in cui l’accettazione è tale da implicare ineluttabilmente la volizione; ciò al fine di uniformarsi il più possibile alla lettera
del codice e alla volontà del legislatore e, cosı̀, evitare pericolose e non consentite interpretazioni di fatto analogiche.
Ritenere in astratto compatibile, sia pur con le precisazioni prima viste,
il dolo eventuale con i reati di falso ideologico, non significa però che l’affermazione valga per ogni tipo di (paventato) falso in concreto. E veniamo
al caso esemplificativo riassunto nel primo paragrafo. Il Tribunale ha ritenuto il notaio responsabile a titolo di dolo eventuale per accettazione del
rischio. In primo luogo una osservazione viene subito in rilievo. Il giudice
ha ritenuto che il notaio sia incorso in un «equivoco», per cui «la conclusione alla quale è giunto [...] si profila non corretta», riferendosi con ciò
all’interpretazione della questione extrapenale. Bene, è palese che i concetti
di equivoco e di conclusione non corretta rappresentano una situazione
(60) Cfr. S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 244.
STUDI E RASSEGNE
115
psicologica di errore, magari dipendente pure da negligenza o imperizia,
ma che per definizione esclude il dolo anche nella forma eventuale. Tralasciando questo aspetto, sul quale si ritornerà in seguito, il giudice ha
omesso di verificare se la paventata accettazione del rischio fosse il prezzo
del raggiungimento di uno specifico risultato intenzionalmente perseguito
e non, invece, il frutto di una condotta meramente negligente. Cosı̀ facendo
ha accorpato nel dolo eventuale anche condotte caratterizzate dalla semplice colpa con previsione e, quindi, ha fondato la categoria del dolo eventuale sul solo elemento rappresentativo a scapito della componente volitiva
indispensabile secondo l’art. 43 c.p.
Rimanendo al caso esemplificativo, inoltre, la compatibilità astratta
tra dolo eventuale e falso ideologico sembra mancare. Il dubbio che caratterizza, come s’è visto, questa forma di elemento soggettivo, non può
che essere riferito ad un fatto oggettivamente considerato. Negli esempi
poc’anzi enucleati, infatti, l’incertezza era riferita all’identità personale o
al reddito, ossia a dati che hanno una consistenza obiettiva e che, perciò,
sono suscettibili di essere veri o falsi. Il notaio era solamente incerto sull’identità del comparente, identità che, del resto, è una realtà suscettibile di accertamento oggettivo (61). In questi termini, ossia in ipotesi
di contrapponibilità tra vero e falso, il falso è compatibile con l’accettazione del rischio. Il dolo eventuale, infatti, presuppone ontologicamente
un concetto di possibilità/probabilità (62), che si può applicare all’antitesi vero/falso. Questo schema, però, è difficilmente adattabile all’altra
antitesi corretto/errato. Quest’ultima, invero, non presuppone dati oggettivi concretamente verificabili e riconoscibili da tutti, bensı̀ un ragionamento, spesso interpretativo, che può appunto essere secondo alcuni
corretto e secondo altri no. Oggetto delle due dicotomie, quindi, sono
da un lato una realtà oggettiva, dall’altro un’entità psicologica, perciò
eminentemente soggettiva. A questo punto è chiaro che potrà esistere
la probabilità dell’oggettivamente falso; molto più problematica, invece,
sarebbe la possibilità del soggettivamente errato, soprattutto se suscettibile di acquisire rilevanza penale attraverso il diverso giudizio di un
altro individuo.
Queste considerazioni richiamano la contrapposizione tra la dichiara-
(61) Sulla necessità che nei reati di falso ideologico l’accertamento cada su dati oggettivi si veda F. Carnelutti, Falso del notaro, cit., p. 170; G. Palermo, Falsa attestazione,
cit., p. 496; F. Antonioni, Identificazione, cit., p. 8 ss.
(62) Concetto che ovviamente non vale a distinguere, in base alla maggiore o minore
possibilità/probabilità, il dolo eventuale dalla colpa cosciente, distinzione che rimarrebbe
su un piano meramente quantitativo, mentre è chiaro che le due forme d’imputazione soggettiva si distinguono qualitativamente non essendo riducibili ad un concetto unitario; cfr.
M. Gallo, Dolo, cit., p. 791.
116
STUDI E RASSEGNE
zione di scienza e l’espressione di un giudizio, o meglio tra giudizi di fatto e
giudizi di valore. Questa distinzione vale ad escludere la configurabilità dei
reati di falso ideologico quando oggetto della dichiarazioni sia un giudizio
di valore. Anche la giurisprudenza è prevalentemente orientata in questo
senso (63). Le ragioni di questa impostazione risiedono su considerazioni
di ordine filosofico, in quanto le dichiarazioni di scienza hanno ad oggetto
dati di fatto obiettivamente accertabili e quindi sono suscettibili di essere
vere o false; le dichiarazioni di giudizio, invece, si riferiscono a dati privi
di univoco significato, sono il frutto di una valutazione per definizione soggettiva e, quindi, inidonea ad essere verificata con lo schema del vero/falso,
ma, semmai, con l’altro modello corretto/errato (64). Ne discende l’impossibilità di ‘‘verificare’’ il giudizio, ossia di controllare se le affermazioni contenute nell’atto siano il frutto delle convinzioni del redattore, oppure siano
il risultato di un atteggiamento malizioso(65).
In realtà, non esiste asserzione, anche la più ovvia e la più banale che
sia, nella quale non sia implicito un giudizio. Nondimeno, resta valida, al-
(63) Si ritiene che i delitti di falsità ideologica debbano avere ad oggetto la falsa attestazione di fatti e non anche di semplici giudizi o dichiarazioni di volontà. Cfr. Cass., sez. V,
15 giugno 1982, Marasca; Id., sez. V, 27 gennaio 1983, Giannelli; Id., sez. V, 9 luglio 1987,
Maggisano; Id., sez. II, 18 aprile 1989, Potestio. «Integrano gli estremi della falsità ideologica
soltanto le false (o le omesse) attestazioni del pubblico ufficiale che abbiano ad oggetto fatti
da lui compiuti o caduti sotto la sua diretta e personale percezione. Restano, pertanto, al di
fuori della fattispecie criminosa di cui all’art. 479 c.p. tutte le manifestazioni di giudizio, a
condizione, però, che esse non richiamino espressamente o non postulino, implicitamente
ma in modo univoco, attività che si assume essere state realizzate dal pubblico ufficiale
che procede alla formazione dell’atto pubblico». Cfr. Cass., sez. VI, 18 marzo 1992, Francia
e altro, in Giust. pen., 1993, II, 44 ss. Sulla distinzione si veda pure Cass., sez. I, 18 gennaio
1995, n. 2207, in Juris data, 2.2007, secondo cui «i certificati sono atti che, pur provenendo
da pubblici funzionari e pur essendo anch’essi destinati alla prova, o hanno natura di documenti ‘‘secondari’’ o ‘‘derivati’’, perché contengono dichiarazioni di scienza (cioè l’attestazione di fatti e dati che sono noti al pubblico ufficiale perché provengono da altri documenti
ufficiali o dalle sue conoscenze anche tecniche), ovvero implicano giudizi e valutazioni
che, come tali, non possono essere oggetto di documentazione fidefacente».
(64) Il concetto di falso, in realtà, essendo definibile solo per negazione rispetto al vero,
presuppone la risoluzione di una delle questioni storiche della filosofia, ossia quella della definizione di ciò che può considerarsi ‘‘verità’’. Sul piano giuridico, del resto, almeno in prima
analisi può essere superata la problematica dell’individuazione di un criterio di verità implicante una scelta teorica sul problema della conoscenza. La verità può essere definita perciò, a
prescindere dal modo in cui i fatti vengono conosciuti, come la corrispondenza di un enunciato costatativo o descrittivo ad un fatto. Gli elementi da porre a raffronto sono quindi, da
un lato, il fatto, e, dall’altro, la rappresentazione che se ne dà mediante l’enunciato descrittivo. In tema si veda A. Nappi, Autore mediato e falsità in atto pubblico, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1982, p. 337 ss.
(65) Su questi temi si veda F. Ramacci, La falsità ideologica nel sistema del falso documentale, Napoli, 1965, p. 44 ss. che, del resto, ad alcuni giudizi riconosce la capacità di essere controllati nella stessa misura delle dichiarazioni di scienza.
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meno nei termini che qui interessano, la tesi secondo cui solo gli enunciati
constatativi o descrittivi possono presentarsi come veri o falsi (66). Esiste
poi altro orientamento che tende a conferire rilevanza al falso ideologico
anche quando abbia ad oggetto delle valutazioni, però, da svolgere secondo
parametri «normativamente determinati o tecnicamente indiscussi» (67).
Secondo questa tesi, quando la valutazione è rigidamente vincolata da inconfutabili criteri normativi, allora anche gli enunciati valutativi possono
assolvere una funzione informativa e, perciò, possono essere veri o falsi.
D’altronde, è ovvio che il modello vero/falso, pur volendo accogliere
questa tesi, potrà applicarsi solamente quando i parametri normativi siano
incontrovertibili. Se questi, viceversa, sono dotati di una pur minima duttilità, allora lo schema da adottare non potrà che essere quello del corretto/
errato (68).
Questi concetti valgono in primo luogo per la configurabilità oggettiva del falso ideologico, ma hanno un’immediata ricaduta anche sull’elemento soggettivo e, per quello che più qui interessa, sul dolo eventuale.
Ritornando al caso di specie, è evidente che il notaio e il giudice hanno
dato una diversa interpretazione della questione extrapenale. È poi al-
(66) Sulla compatibilità del modello vero/falso con gli enunciati constatativi e con quelli valutativi, si veda G. Tarello, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974, p. 207 ss.; J.R. Searle, Atti linguistici: saggio di filosofia del linguaggio,
Torino, 1976, p. 340 ss.; E. Riondato, Ricerche di filosofia morale, II, Padova, 1978, p.
271 ss.
(67) Cfr. Cass., sez. V, 9 febbraio 1999, n. 3552, rel. Nappi, Andronico e altro, in Riv.
pen., 1999, 464 ss., oppure in Cass. pen., 2000, p. 377 ss., con nota critica di M. Angelini,
Sulla falsità ideologica nei pareri rilasciati dalla commissione medica dell’Inail, ivi, p. 2266 ss.
Nello stesso senso si veda A. Nappi, Falso, cit., p. 9 ss.
(68) È interessante riportare un passo della sentenza citata nella nota precedente:
«Un’ulteriore possibile complicazione del problema deriva, d’altro canto, dal fatto che gli
enunciati valutativi vengono sovente posti a conclusione di argomentazioni intese a esibirne
una ragionevole giustificazione. Un argomento è costituito, infatti, da un gruppo di proposizioni di cui una sia supposta conseguire dalle altre: le prime due proposizioni sono dette
premesse, la terza conclusione. Un argomento non può essere vero o falso, ma solo valido
o invalido, migliore o peggiore. Vere o false possono essere, invece, tutte le proposizioni
che lo compongono. Mentre, però, la falsità o la verità delle premesse e la validità o l’invalidità dell’argomento sono rispettivamente indipendenti (si possono avere argomenti validi
con premesse false e argomenti invalidi con premesse vere), l’eventuale falsità della conclusione dipende o dalla falsità di una delle premesse o dall’invalidità dell’argomento. Ciò significa che, riducendosi la falsità della conclusione o alla falsità di una delle premesse o alla invalidità dell’argomento, quando ci troviamo in presenza di un gruppo di proposizioni delle
quali una sia in funzione di conclusione, noi diciamo che vi è un falso se la falsità delle conclusioni dipende dalla falsità delle premesse, mentre diciamo che vi è un errore se la falsità
delle conclusioni dipende dalla invalidità dell’argomento. In questi stessi limiti può, quindi,
dirsi falso anche l’enunciato valutativo che sia posto a conclusione di un argomento: esso è
un enunciato falso, se sono false le premesse dalle quali è desunto; è una valutazione errata se
la sua inattendibilità dipende solo dall’invalidità dell’argomento».
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trettanto evidente che, pur volendo accedere alla tesi secondo cui anche
gli enunciati valutativi possono essere veri o falsi, nel caso concreto non
esistevano i parametri normativi incontrovertibili presupposto necessario
per trasformare, se cosı̀ si può dire, un giudizio di valore in una dichiarazione di conoscenza. La fluidità della complessa normativa che regola
la trascrizione del legato e della denuncia di successione, e il dato oggettivo, accertato dallo stesso giudice, secondo cui nei registri effettivamente non v’era traccia della trascrizione dell’acquisto del legato, fanno
chiaramente ritenere che l’addebito mosso nei confronti del notaio è
stato quello di non aver desunto implicitamente dai registri immobiliari
un dato oggettivamente non presente, contravvenendo cosı̀ non a parametri incontrovertibili, bensı̀ ad una ricostruzione ermeneutica postuma
della normativa compiuta dal giudice penale, che rimane pur sempre
frutto di valutazioni eminentemente soggettive che, alla fine, si pongono
nei confronti dell’affermazione del notaio secondo il modello del corretto/errato e non del vero/falso.
Posto ciò, se da un lato può dirsi che in questi casi la fattispecie non è
integrata dal punto di vista oggettivo, si può aggiungere che non sarebbe
neanche possibile il dolo eventuale che, come s’è detto, presuppone il concetto di possibilità/probabilità della verificazione dell’evento, concetto che
non può non avere a riferimento sempre dati oggettivi, verificabili, e non
interpretazioni corrette o errate, anche perché, rimanendo al caso di specie,
l’art. 480 c.p. incrimina l’attestare falsamente ‘‘fatti’’, non valutazioni. La
dicotomia, oggettiva, vero/falso non contempla altre situazioni intermedie:
come s’è già detto tertium non datur. La dicotomia, soggettiva, corretto/errato, invece, per definizione può dar vita ad un’infinita serie di soluzioni
che possono essere giuste o sbagliate. Perciò, ammettere che il modello
corretto/errato sia compatibile con il concetto di probabilità che caratterizza il dolo eventuale, significherebbe introdurre la nuova categoria della
‘‘probabilità’’ della ‘‘possibilità’’, con un’inverosimile dilatazione a dismisura del penalmente rilevante. In questi casi l’evento non sarebbe rappresentato da un dato obiettivamente accertabile, bensı̀ dalla diversa interpretazione della vicenda data dal giudice e dal discostarsi della condotta dell’agente da quella particolare sfera del ‘‘doveroso’’ individuata sempre dal
giudice.
Arrivati a questo punto è evidente l’erosione del principio dell’effettiva
indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente a favore della ricostruzione in chiave normativa anche del dolo, con un metodo mutuato dalla
colpa. Posto pure che l’interpretazione data dal Tribunale alla questione
extrapenale sia quella ‘‘corretta’’, si tende a porre a confronto il modello
astratto di comportamento reputato doveroso, con quello concreto tenuto
dall’agente, e dalla relativa discrasia si desume il dolo, addirittura nella problematica forma eventuale. Per questa via si giunge ad una presunzione di
dolo, ossia ad una forma surrettizia del deprecato dolus in re ipsa inaccet-
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tabile nel nostro ordinamento, come s’è detto in precedenza (69). Si confonde il dolo, che necessita di una puntuale e concreta analisi dell’effettivo
stato psicologico dell’agente, con la colpa, che invece ha natura tipicamente
normativa e che può essere dedotta dalla mera inosservanza di regole
astratte. Il rimprovero che muove il giudice, alla fine, consiste nella constatazione che il notaio ha errato nell’interpretazione dell’articolata disciplina
della trascrizione nei registri immobiliari. E ascrivendo ciò a titolo di dolo
eventuale conferma il convincimento che l’addebito sia proprio l’errore interpretativo e non altro. Nel ragionamento del giudice, infatti, sostenere
che il notaio «risulta aver accettato il rischio che quanto avesse affermato
non fosse corrispondente al vero» – non potendosi riferire il rischio di
specie, come già detto, ad un dato oggettivamente accertabile come vero
o falso, bensı̀ ad una condivisibile o meno interpretazione –, equivale a dire
che il pubblico ufficiale ha errato nell’intendere la norma extrapenale. Il
dubbio che caratterizza il dolo eventuale, perciò, nel caso di specie è un
dubbio ermeneutico. Si assiste al salto (il)logico dall’evento oggettivamente
considerato, all’innovativa categoria dell’evento ‘‘interpretativo’’.
Tutto ciò si inserisce in quella preoccupante tendenza a detrimento
della sfera della colpa a vantaggio di quella del dolo(70). Nel caso di specie
il giudice in buona sostanza rimprovera al notaio di non aver tenuto un
comportamento sufficientemente diligente – quindi situazione che rientra
pacificamente nella colpa – e ciononostante qualifica il contegno interiore
come dolo eventuale. Questo tipo di imputazione soggettiva, come visto in
precedenza, necessita perlomeno della consapevolezza effettiva di realizzare l’evento ‘‘significativo’’, e in più della volizione del nocumento al bene
giuridico che la norma incriminatrice tutela. L’accertamento del dolo,
perciò, va pur sempre condotto sulla ‘‘realtà psicologica’’, e non può essere
ridotto a valutazioni meramente normative. La ‘‘deriva’’ normativa del dolo
dipende anche dall’accentramento che in molte ricostruzioni del dolo eventuale si compie sull’elemento rappresentativo a scapito di quello volitivo.
Da un lato il prevalere del dato normativo su quello psicologico, dall’altro
l’incentrare l’analisi prevalentemente sulla rappresentazione, tenendo in
non cale l’effettiva volontà dell’agente, costituiscono un inquietante connubio in grado di trasformare in doloso un atteggiamento meramente colposo. Questo scivolamento del dolo verso la colpa mostra la sua massima
(69) In questi termini lo stesso concetto di rischio, e la relativa accettazione, possono
nascondere forme di colpa. Il rischiare, infatti, potrebbe essere il sintomo più di condotte
imprudenti o temerarie e non della volizione dell’evento. Cfr. G. Forte, Ai confini, cit.
p. 252 ss.
(70) Sulla contaminazione, nella prassi applicativa, del dolo con la colpa nei reati di falso, anche in relazione all’individuazione del bene giuridico, si veda A. Sereni, Il dolo, cit., p.
318 ss.
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gravità proprio nei casi come quello dei reati di falso, ove qualificare un
contegno doloso anziché colposo significa attribuire rilevanza penale ad
una condotta che altrimenti non la possiederebbe, con un’allarmante
espansione dell’intervento penale secondo malintese esigenze di politica
criminale. L’argine a questa situazione può essere recuperato solo attraverso una netta distinzione ‘‘genetica’’ tra dolo e colpa. La colpa è contrassegnata da un giudizio normativo che il giudice deve compiere sul livello
minimo di ‘‘diligenza’’ che l’agente deve tenere. Il dolo, anche quello eventuale, si sostanzia invece in uno stato psicologico effettivo ed empirico, costituito dalla rappresentazione e soprattutto dalla volizione del fatto tipico,
elemento qualificante e differenziante dalla colpa. Le generalizzazioni che
pur vengono utilizzate nel dolo, dunque, non appartengono alla struttura
dello stesso, ma sono solamente il frutto delle esigenze relative al suo accertamento (71).
5. L’errore su norma extrapenale e il falso ideologico.
Rimanendo al caso esemplificativo in questione, a questo punto è lampante che il ragionamento posto dal giudice a fondamento della sentenza
non può che ridursi ed essere inquadrato più correttamente nel fenomeno
dell’errore su norma extrapenale. Naturalmente non è còmpito di questo
lavoro vagliare se effettivamente vi sia stato questo errore da parte del notaio; nell’economia delle nostre argomentazioni è invece necessario dare
per presupposto detto errore. Interessa, però, verificarne l’incidenza sull’elemento psicologico del reato. È noto, infatti, che l’esistenza di un errore
sul fatto determina l’assenza di colpevolezza, che, perciò, viene meno ogni
qual volta la condotta sia stata animata da una errata percezione dell’empirica realtà esterna o anche della realtà normativa extrapenale. In particolare
nel falso ideologico, qualora oggettivamente lo stesso esista, il necessario
elemento soggettivo verrà a mancare se l’agente non si sia rappresentato
il fatto di compiere detto falso.
Per questa via emerge in tutti i suoi contrasti la questione interpretativa relativa all’ultimo comma dell’art. 47 c.p., il quale estende l’esclusione
della punibilità anche all’errore su una legge diversa da quella penale, a
condizione però che questo abbia cagionato un errore sul fatto costituente
reato (72). È questa l’ipotesi in cui la legge penale, per delineare la fatti-
(71) Su questi temi, nel senso qui affermato, si veda L. Eusebi, In tema di accertamento
del dolo: confusione tra dolo e colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 1060, passim.
(72) In questa sede è necessario circoscrivere il discorso alla questione dell’errore su
norma extrapenale, e non è possibile estenderlo alle pur motivate osservazioni secondo
cui il dolo non sussiste neanche qualora l’agente davvero erri sulla norma penale, in quanto
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121
specie, si avvale di una qualificazione giuridica, ossia degli elementi normativi. Questi, contrapposti a quelli descrittivi che traggono il loro valore
dalla realtà empirica, per individuare la condotta si avvalgono di significati
contenuti in altre norme. In sostanza, per comprendere il senso dell’elemento normativo, è indispensabile cogliere il significato di un’altra norma
diversa da quella penale (73).
È noto poi che è estremamente riduttiva, se non di fatto abrogativa,
l’interpretazione giurisprudenziale data all’ultimo comma dell’art. 47
c.p., in quanto errore su legge diversa da quella penale, idoneo ad escludere la punibilità, è inteso solo quello che interessa una norma destinata in
origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamata né esplicitamente né implicitamente dalla norma penale. Non è
perciò scusabile, sempre secondo la giurisprudenza, l’errore che incide
su precetti e termini di altre branche del diritto, introdotti a integrazione
della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del comando penale (74). Questo orientamento – probabilmente determinato
dalle preoccupazioni delle possibili conseguenze della trasformazioni di
tutti gli errori su norma extrapenale in causa di esclusione della punibilità
– discerne due categorie tra le norme richiamate dalla legge penale. Una
composta da leggi che conservano la loro autonomia di norme extrapenali;
l’altra formata da leggi originariamente extrapenali, ma che si fondono
nella norma penale formando un tutt’uno con essa. Solo nella prima ipotesi, però, si potrebbe applicare l’art. 47, co. 3, c.p. e ritenere cosı̀ l’errore
fonte di non punibilità. Nella seconda, viceversa, l’errore sarebbe equiparato a quello sulla norma penale e quindi avrebbe il solo ridotto rilievo riconosciuto a seguito dell’intervento della Corte costituzionale sull’art. 5
c.p. (75).
comunque in questi casi non si intende arrecare alcuna offesa antigiuridica. In tema si veda
L. Eusebi, Il dolo, cit. p. 1079 ss.
(73) Per la distinzione tra normazione descrittiva e sintetica attraverso l’uso, rispettivamente, degli elementi descrittivi e di quelli normativi, nella manualistica si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 71 ss.
(74) Cfr. Cass., sez. II, 22 ottobre 1993, Lunari, in Cass. pen., 1996, 1419; Cass., sez.
III, 19 aprile 1994, Del Monte, in Mass. pen. cass., 1994, fasc. 8, 130; Cass., sez. VI, 3 giugno
1994, Filippelli, in Cass. pen. 1996, p. 3320; Cass., sez. VI, 3 ottobre 1996, n. 10020, Provisani e altro, in Giust. pen., 1997, II, 601; Cass., sez. VI, 6 dicembre 1996, n. 1632, in Juris
data, n. 2.2007; Cass., sez. V, 11 gennaio 2000, n. 2174, in Juris data, n. 2.2007.
(75) Altro discorso deve farsi in relazione alla disposizione di cui all’art. 15 del D.Lgs.
n. 74/2000 (e, prima ancora, all’art. 8 della L. n. 516/1982), in tema di errore di diritto sulle
leggi tributarie. La norma oggi vigente, infatti, salvi i casi in cui la punibilità sia esclusa a
mente dell’art. 47, co. 3, c.p., espressamente sancisce che non danno luogo a fatti punibili
le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro
portata e sul loro ambito di applicazione. Del resto, se queste obiettive situazioni di incertezza si riferiscono a quelle stesse condizioni c.d. oggettive a fondamento del dictum della
122
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La letteratura penalistica è invece di tutt’altro avviso, ritenendo che il
predetto distinguo tra norme extrapenali sia completamente arbitrario (76).
È questo uno dei casi in cui le discrasie tra dottrina e giurisprudenza hanno
raggiunto le forme più integrali. Infatti, se da un lato le tesi scientifiche non
sono concordi nell’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p., dall’altro su un punto convergono: è priva di qualsiasi fondamento la distinzione tra gli effetti dell’errore su norma extrapenale a seconda della natura
integrativa o meno della stessa.
Come s’è anticipato, del resto, in dottrina esistono posizioni eterogenee (77). Autorevole tesi reputa, a monte, logicamente insostenibile la
stessa distinzione tra norme che integrano e norme che non integrano la
legge penale. Delle due, l’una: o nessuna delle norme richiamate fa corpo
con quella penale, o, all’opposto, tutte le norme alle quali le norme incriminatrici rinviano devono formare con esse un tutt’uno. Nella stessa casistica ricavabile dalla giurisprudenza non si rinviene alcun significativo elemento che possa giustificare la distinzione concettuale tra le due ipotesi (78). In definitiva secondo questa teoria la norma extrapenale, se da
nota sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, allora la lettera della predetta norma si
conforma integralmente alla disciplina generale del codice con la riproposizione, in chiave
legislativa, del principio sancito dalla citata sentenza in tema di ignoranza inevitabile. Posto
ciò, anche il tema dell’errore su norma extrapenale non riceve una diversa disciplina in quanto sarà sempre possibile alla giurisprudenza la rigida applicazione dell’ultimo comma dell’art.
47 c.p. secondo la teoria dell’integrazione. Per un’analisi di questi temi si veda A. Manna,
Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv. trim. dir. pen. ec.,
2000, p. 140 ss.; I. Caraccioli, La violazione tributaria derivante da palese infondatezza dell’interpretazioni, in Il fisco, n. 5, 2000, p. 1418; F. Carrarini, Le disposizioni comuni ai reati
tributari, in Commento al nuovo sistema penale tributario, allegato a Il fisco, n. 14, 2000; G.
Izzo, L’errore sul precetto nella riforma dei reati tributari, in Il fisco. n. 14, 2000, p. 4541 ss.;
M. Vecchio, Erronea interpretazione della norma tributaria e responsabilità penale, in Il fisco
n. 18, 2000, p. 6204 ss.; B. Cartoni, L’errore interpretativo nel nuovo diritto penale tributario, in Il fisco, n. 19, p. 6465 ss.; G. Graziano, L’ignoranza e l’errore nel diritto penale
tributario: l’«impatto» della riforma ex D.Lgs. n. 74/2000 sulla «vexata quaestio», in Rass.
trib., n. 3, 2002, p. 936 ss.
(76) È opportuno precisare che per norma extrapenale si intendono anche quegli elementi normativi qualificati da una norma penale. In tal senso si veda M. Gallo, Dolo, cit.,
p. 764. Nelle trattazioni manualistiche C. Fiore – S. Fiore, Dritto penale, cit., p. 284; G.
Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 345.
(77) Tra queste bisogna ricordare anche quella secondo cui l’errore extrapenale alla fine cade sempre sul fatto. Si veda A. Cristiani, Profilo dell’errore su legge extrapenale, Pisa,
1955, p. 60 ss.; A. Pecoraro Albani, Il reato di costruzione edilizia senza licenza, in particolare dell’errore su legge extrapenale, in Riv. giur. ed., 1959, II, 68 ss.
(78) Cfr. M. Gallo, Il dolo, oggetto e accertamento, in Studi Urbinati, 1951-52, p. 189
ss; Id., Dolo, cit., p. 760 ss.; G. Delitala, Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I,
Milano, 1958, p. 571 ss.; G. Santucci, Errore (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, Milano,
1959, p. 296 ss.; G. Marinucci, Consuetudine (dir. pen.), in Enc. dir., vol. IX, Milano,
1961, p. 503 ss.; D. Pulitanò, Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XX, Milano,
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123
un lato conserva pur sempre una propria autonomia nel settore del diritto
di provenienza, dall’altro, qualificando la fattispecie penale col suo significato normativo, diviene di questa pur sempre un elemento determinante.
La norma extrapenale, quindi, integra sempre quella penale in quanto la
descrizione della fattispecie è il frutto della fusione delle due norme. Tale
rapporto di incorporazione, perciò, secondo la tesi in argomento, alla fine
trasforma sempre l’errore su norma extrapenale in errore sul precetto penale. La notevole portata dell’art. 47, co. 3, allora è quella di «una vera e
propria deroga all’art. 5 c.p.» (79), nel senso che l’errore su un elemento
normativo esclude la punibilità dell’agente, pur cadendo sul precetto penale (80).
Tali conclusioni sono state sottoposte a critica da chi ritiene che nei
rapporti tra norme penali ed extrapenali non ricorra necessariamente il fenomeno dell’incorporazione (81). Vi possono essere dei casi in cui la legge
diversa da quella penale non sia affatto richiamata da quella incriminatrice.
Da questa constatazione discende la necessità di rimeditare il ruolo dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. Posto che il dolo, per come già detto, presuppone la conoscenza di tutti gli elementi essenziali del ‘‘fatto tipico’’, ne consegue che richiede anche la cognizione di quelle ‘‘qualifiche’’ normative che
fanno parte dello stesso fatto, necessarie per la riconducibilità della condotta al modello legale. Il dolo sarà escluso, perciò, quando l’agente è in
errore sulle disposizioni extrapenali attributive di dette qualifiche in guisa
che non si rappresenti le caratteristiche giuridiche del fatto. Stando cosı̀ le
cose, la tesi in argomento ritiene che l’art. 47, co. 3, c.p. non costituisca
affatto una deroga al principio espresso dall’art. 5 c.p. (82), bensı̀ un logico
corollario dell’elemento soggettivo doloso da accostare alla previsione dell’art. 47, co. 1, in tema di errore di fatto (83). La ratio delle due norme, previste rispettivamente nel 1º e nel 3º comma dell’art. 47 c.p., è perciò la me-
1970, p. 40 ss.; C.F. Grosso, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, p. 177 ss.; A. Pagliaro, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza?, in Aa.Vv., Le discrasie tra la dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, p. 124 ss.
(79) Cosı̀ M. Gallo, Dolo, cit., p. 762; in tal senso si veda pure F. Bricola, Dolus,
cit., p. 106. n. 115; C.F. Grosso, Errore (Diritto penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XIII,
Roma, 1988, p. 5 ss.
(80) Le ragioni di questa deroga sono individuate dai sostenitori di questa tesi nella natura marginale e nel minor valore sintomatico e sociale di tali tipi di errore. In tal senso, per
tutti, G. Delitala, Adempimento, cit. p. 571.
(81) È questa la tesi ad esempio di G. Grasso, Considerazioni in tema di errore su legge
extrapenale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, p. 144 ss. Nelle trattazioni manualistiche in tal
senso si veda per tutti G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 341 ss.
(82) In questo senso si veda pure F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 385 ss.; G.
Flora, Errore, in Dig. disc. pen., vol. IV, Torino, 1990, p. 260 ss.
(83) La norma contenuta nel terzo comma dell’art. 47 c.p. è considerata una specificazione del concetto di dolo puntualmente formalizzata dal legislatore del codice Rocco, ma
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desima: in entrambe nella rappresentazione dell’agente manca una componente essenziale della situazione realizzata. L’unica differenza risiede nella
fonte dell’errore. La previsione di cui al primo comma trova la sua origine
in un errore di fatto relativo alla percezione sensoriale della realtà esterna;
quella di cui al terzo comma, invece, ha la sua genesi in un error iuris, ove
però è sempre la realtà, sia pur nella sua componente normativa, ad essere
mal percepita per un errore di valutazione giuridica. In sostanza, non sono
dissimili i contegni psicologici di chi agisce animato da una errata percezione della realtà esterna e di chi agisce spinto da un errata comprensione
di una norma extrapenale qualificatrice di un elemento del fatto tipico. In
entrambi i casi l’agente non è cosciente di perpetrare oggettivamente un
fatto tipico. Anche a causa dell’errore sulla legge extrapenale si erra sul significato di ciò che si compie; proprio per questo l’errore esclude il dolo
giacché non si vuole l’evento ‘‘significativo’’ del reato. A differenza dell’errore su norma penale, ove l’agente è pienamente consapevole del significato della sua condotta e ritiene però che non rilevi penalmente, in quello
su legge diversa dalla penale il soggetto erra proprio sul contenuto della
propria azione (84).
Alla fine di questo excursus la conclusione può essere cosı̀ condensata:
ogni errore sulla comprensione del significato della condotta deve sottostare alla disciplina dell’art. 47 c.p.
Proviamo ora comunque ad applicare le varie teorie al caso esemplificativo. Seguendo l’orientamento giurisprudenziale si dovrebbe preliminarmente capire se tutta la complessa disciplina della trascrizione nei registri
che sarebbe discesa ugualmente dalla coerente applicazione dei principi in tema di elemento
soggettivo doloso. Sotto la vigenza del codice Zanardelli, infatti, pur in assenza di una previsione analoga a quella dell’art. 47 del codice Rocco, bensı̀ della sola norma che riproduceva
il contenuto dell’art. 5 del codice vigente, la dottrina unanimemente riconosceva rilevanza
all’errore sul fatto storico determinato da una inesatta conoscenza o falsa rappresentazione
di una norma extrapenale. Cfr., per tutti, E. Florian, Trattato di diritto penale. Dei reati e
delle pene in genere, Milano, 1928, vol. I, p. 198.
(84) Vi possono essere dei casi ove però l’errore sulla legge extrapenale non impedisce
la comprensione del significato della condotta, in quanto alla regola giuridica si aggiunge una
regola sociale di contenuto analogo che consente di individuare la stessa classe di fatti. «In
questi casi, il dolo si accontenterà della parallela conoscenza della valutazione sociale. Allora,
un eventuale errore non escluderà il dolo, ma potrà essere valutato, solo se inevitabile, come
ignoranza della legge penale (art. 5 c.p.). La distinzione, dunque, non va posta tra norme
extrapenali che ‘‘non si incorporano’’ e norme extrapenali che ‘‘si incorporano’’, bensı̀ tra
errore che preclude al soggetto la comprensione del (significato del) fatto (questo errore, secondo la terminologia dell’art. 47 u.c., ‘‘ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato’’) ed errore che non preclude al soggetto tale comprensione. Un esempio di questo secondo tipo di errore può essere offerto a proposito del delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare (art. 570 c.p.): l’errore sull’obbligo di assistenza potrà escludere questo
reato solo nel caso, ben difficile da verificarsi, che si tratti di errore inevitabile». Cfr. A. Pagliaro, Dolo ed errore, cit., p. 2500.
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immobiliari integri o meno l’art. 480 c.p. La lettera della norma incriminatrice, a ben vedere, non contiene richiami espliciti alla legge extrapenale.
Ciononostante implicitamente sarebbe sempre possibile riscontrare un collegamento con essa. Ciò però equivale ad avallare l’interpretatio abrogans
operata in giurisprudenza(85). Infatti, se alla fine è sempre possibile trovare
un collegamento tra la norma penale e quella extrapenale e quindi ipotizzare un rapporto di incorporazione, tutti gli errori sulla seconda si trasformeranno in errori sul precetto penale e quindi, di fatto, non sussisterà mai
un errore su legge diversa da quella penale che escluda la punibilità. Pur
volendo applicare la tesi giurisprudenziale, perciò, onde tentare di evitare
la più che fondata obiezione dell’interpretatio abrogans, si dovrebbe individuare un concreto parametro discretivo tra integrazione e non integrazione. Si dovrebbe cioè contenere il fenomeno dell’incorporazione solamente a quei casi in cui la norma extrapenale risulti direttamente richiamata da quella penale, mentre in tutti gli altri casi si applicherebbe l’art.
47, co. 3, c.p. Il concetto di incorporazione dovrebbe essere inteso restrittivamente e circoscritto a quelle ipotesi, per cosı̀ dire, di ‘‘integrazione
esplicita’’. Solo per questa via si potrebbe arrivare ad attribuire un senso
all’ultimo comma dell’art. 47 c.p. Posto ciò, ritornando al caso esemplificativo, non rinvenendosi nell’art. 480 c.p. un richiamo espresso alla norma
extrapenale, l’errore su questa dovrebbe escludere la punibilità.
Adottando invece la tesi scientifica secondo cui l’errore su norma extrapenale si trasforma sempre in errore sul precetto penale in ragione di
una insita incorporazione tra le due norme, all’art. 47 co. 3 c.p. si riconosce
la natura di vera e propria deroga all’art. 5 c.p., e, quindi, l’errore su un
elemento normativo esclude indefettibilmente la punibilità. Pure cosı̀ allora
si perviene ad escludere la punibilità del notaio che per lo stesso giudice ha
errato nell’interpretazione della norma extrapenale.
Le conclusioni non cambiano accedendo all’altro orientamento dottrinale. Secondo quest’impostazione, pur non costituendo l’art. 47 co. 3 c.p.
alcuna deroga al principio dell’art. 5 c.p., l’elemento soggettivo doloso presuppone anche la cognizione di quelle ‘‘qualifiche’’ normative che fanno
parte del fatto tipico. Mancando questa cognizione, nel contegno psicologico dell’agente fa difetto una componente essenziale della situazione realizzata ed egli perciò non è cosciente di compiere un fatto tipico, non vuole
l’evento ‘‘significativo’’ del reato. Al fine di saggiare il pregio di questa tesi,
si faccia l’ipotesi che il notaio abbia errato sul fatto materiale e che perciò
per distrazione non si sia accorto della trascrizione del certificato di denunciata successione. Detta circostanza rientrerebbe nella previsione del primo
(85) In tema si veda pure A. Lanzi, L’errore su legge extrapenale. La giurisprudenza degli ultimi anni e la non applicazione dell’art. 47 ult. comma c.p., in Indice pen., 1976, p. 299 ss.
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comma dell’art. 47 c.p. e varrebbe certamente ad escludere la punibilità (86). Si ritorni ora al caso di specie in cui il notaio, pur essendo a conoscenza della trascrizione del certificato, ha ritenuto che dare conto del legato uxorio nell’attestato avrebbe costituito una violazione dei suoi obblighi, in base ad una valutazione di ordine strettamente giuridico che,
del resto, trovava una serie di riscontri normativi, giurisprudenziali e scientifici. Orbene, i due contegni psicologici, l’uno di errore di fatto l’altro di
errore su legge extrapenale, hanno lo stesso peso e pertanto non meritano
un diverso trattamento (87). In entrambi i casi si deve escludere la punibilità, adottando rispettivamente le previsioni di cui al primo e al terzo
comma dell’art. 47 c.p. Negare questa soluzione significherebbe attribuire
all’errore su norma extrapenale lo stesso valore dell’ignorantia legis di cui
all’art. 5 c.p., come a dire che il caso di specie potrebbe essere paragonato
al disvalore proprio, ad esempio, della condotta di un notaio che in un atto
pubblico consapevolmente attesti falsamente fatti, ignorando che detta
condotta abbia rilevanza penale. È ovvio invece che le due ipotesi possiedono un peso eminentemente diverso e perciò non possono essere regolate
nello stesso modo.
In tema indicazioni imprescindibili sono dettate dalla nota sentenza
della Corte costituzionale n. 364/1988 che, onde evitare un contrasto col
principio di colpevolezza, ha recuperato un equilibrio tra le opposte esigenze, da un lato, di salvaguardare detto principio e, dall’altro, di garantire
l’efficacia della legge penale (88). Ai fini della colpevolezza, perciò, non è
richiesta una compiuta conoscenza della norma penale. La errata supposizione di agire in assenza di una norma che incrimini la condotta non
(86) La circostanza, del resto, è presa in considerazione nella sentenza in commento al
fine di escluderla in quanto lo stesso notaio ha sempre dichiarato di aver avuto perfetta contezza della trascrizione del certificato di denunciata successione e di non averlo scientemente
riportato nel suo attestato in base a un ragionamento interpretativo.
(87) La medesima efficacia scusante del primo e del terzo comma dell’art. 47 c.p. è infatti fondata proprio sulla identità degli effetti psicologici ultimi. Se in conseguenza dell’errore su norma extrapenale l’agente si è rappresentato un fatto materiale diverso da quello
tipico, allora il dolo è escluso, Se, viceversa, nonostante l’errore sulla legge diversa da quella
penale, l’agente conserva intatta la consapevolezza del disvalore del fatto, allora l’elemento
soggettivo doloso comunque sussisterà. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 387 ss.
Al fine di determinare se l’agente si sia effettivamente rappresentato un fatto materiale diverso da quello vietato, è poi importante verificare se l’elemento normativo oggetto dell’errore
su norma extrapenale appartenga o meno al fatto. Cosı̀ G. Flora, Errore, cit., p. 263.
(88) La pronuncia della Corte costituzionale n. 364 del 24 marzo 1988, è pubblicata in
Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 686, con commento di D. Pulitanò, Una sentenza storica che
restaura il principio di colpevolezza; nonché in Foro it., 1988, I, 1385 ss., con nota di G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘‘prima lettura’’ della
sentenza n. 364/88; e in Legisl. pen., 1988, 449 ss., con nota di T. Padovani, L’ignoranza
inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p.
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esclude il dolo, a meno che l’ignoranza sia dipesa da un errore inevitabile e
perciò scusabile (89). La portata di questo principio, che ha costituito un
vero e proprio spartiacque, è del resto limitata all’ignoranza e all’errore
su norme penali, ossia all’art. 5 c.p., proprio perché una delle esigenze tenute presenti è stata quella di salvaguardare l’efficacia appunto della legge
criminale. Discorso diverso deve farsi ove l’errore cada su una norma extrapenale, ipotesi in cui le stesse considerazioni volte a garantire una maggiore
partecipazione psicologica alla realizzazione del fatto pena il contrasto con
il principio costituzionale della responsabilità personale colpevole, non trovano il contrario interesse della necessità di garantire un adeguato grado di
efficacia, appunto, della legge penale(90). In sostanza, un conto è l’interesse
dell’ordinamento ad assicurare la forza delle leggi incriminatrici che dovrebbero porsi a tutela dei beni più rilevanti, altra e meno pregnante cosa
è l’interesse dello Stato a garantire l’efficienza delle norme extrapenali (91).
Quest’ultimo pur esistente e importante interesse, però, non ha sicuramente la dignità sufficiente a giustificare il superamento, o lo ‘‘strappo’’,
del principio costituzionale della responsabilità penale pienamente personale e colpevole. Posto ciò, si può concludere che anche e soprattutto alla
luce dei principi costituzionali, la supposizione erronea di non realizzare il
(89) Sul valore della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, si veda S. Moccia, Il diritto penale, cit., p. 141 ss., secondo cui il Giudice delle leggi ha inteso l’elemento
soggettivo soprattutto in funzione tipicizzante. In questa prospettiva, perciò, ai fini della colpevolezza, la necessaria presenza del dolo, o della colpa, è un presupposto necessario ma non
sufficiente. Se si vuole il riconoscimento pieno del principio di colpevolezza, a questo presupposto si deve accompagnare la valorizzazione della coscienza dell’illiceità, negata dall’art.
5 c.p. nella versione precedente all’intervento della Corte costituzionale. Il riconoscimento di
una fattispecie soggettiva accanto ad una oggettiva, poi, secondo questa autorevole teoria
comporta che l’errore di diritto scusabile fa venir meno la coscienza dell’illiceità e, perciò,
rileva in termini di colpevolezza e non di fatto tipico, nel senso che chi versa in error iuris
agisce con dolo ma senza colpevolezza. Responsabilità penale colpevole, o meglio responsabilità per fatto proprio, includendo in essa i requisiti soggettivi del fatto tipico, significa perciò ‘‘appartenenza’’ di un fatto ad un soggetto, sia in senso materiale sia in senso psicologico.
Conferma dell’assunto è ricavata poi argomentando in termini di teoria della pena, nel senso
che solo un fatto che sia ‘‘proprio’’ dell’agente, sia materialmente che psicologicamente, può
costituire il legittimo fondamento di un’azione di integrazione sociale o, quantomeno, di non
desocializzazione del reo.
(90) La giustificazione, politica, del principio contenuto nell’art. 5 c.p. è infatti proprio
quella di assicurare alla legge penale, e solo a questa, una efficacia il più possibile incondizionata. Cfr. C.F. Grosso, Errore (Diritto penale), cit. p. 8. Per un’ampia panoramica sulle
questioni interpretative afferenti al principio di cui all’art. 5 c.p., si veda F.C. Palazzo,
Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, p. 122 ss.
(91) Nel bilanciamento tracciato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 364/
1988, i doveri che il Giudice delle leggi ha tutelato, infatti, sono precipuamente quelli d’informazione o d’attenzione sulle norme penali al fine di scongiurare un atteggiamento d’indifferenza nei confronti della doverosa informazione, appunto, sull’esistenza e sulla portata
delle norme incriminatrici.
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fatto, qualora sia il frutto di un qualsiasi errore su norma extrapenale,
esclude inevitabilmente il dolo, in quanto l’agente non è stato cosciente
di cagionare l’evento ‘‘significativo’’ del reato. È ovvio poi che a fortiori
non può sussistere alcun fatto doloso qualora detto errore su norma extrapenale sia scusabile perché provocato da elementi positivi che hanno convinto l’agente della liceità o addirittura doverosità extrapenale del suo operato. Detti elementi, riprendendo il caso esemplificativo, ben potrebbero
essere desunti dal fatto, accertato dallo stesso giudice, che nei registri immobiliari effettivamente non v’era esplicita traccia della trascrizione dell’acquisto del legato, nonché dalla considerazione, unanime in giurisprudenza
e in dottrina, che la denuncia di successione è atto avente funzione meramente fiscale, e che la stessa mera denuncia non rientra nel novero degli
atti per i quali l’art. 2657 c.c. prevede la possibilità di trascrizione.
Posto che responsabilità penale colpevole, o per meglio dire responsabilità personale per fatto proprio, è sinonimo di ‘‘appartenenza’’ materiale e
psicologica di un fatto ad un soggetto, la condanna nel caso di specie è un
esempio eclatante delle incoerenze che ancora esistono nella pratica giurisprudenziale rispetto alla funzione costituzionalmente orientata dalla pena,
volta all’integrazione sociale o, quantomeno, alla non desocializzazione (92).
Per chi non s’è reso conto di realizzare il fatto tipico, invero, non è ipotizzabile alcuna integrazione sociale e la condanna ha sicuri effetti desociallizzanti.
Mario Caterini
(92) S. Moccia, Il diritto, cit., p. 109 ss., passim.
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