Il dolo eventuale e l`errore su norma extrapenale nei reati di falso
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Il dolo eventuale e l`errore su norma extrapenale nei reati di falso
ISSN 0019-7084 Nuova Serie - Anno X - N. 1 - 2007 Pubblicazione semestrale Tariffa R.O.C.: Poste italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB Milano Nuova Serie - Anno X - N. 1 Gennaio-Giugno 2007 L’INDICE PENALE Rivista fondata da L’INDICE PENALE PIETRO NUVOLONE PREZZO A 42,00 Diretta da ALESSIO LANZI Estratto STUDI E RASSEGNE 93 IL DOLO EVENTUALE E L’ERRORE SU NORMA EXTRAPENALE NEI REATI DI FALSO IDEOLOGICO Sommario: 1. La questione extrapenale. – 2. Il contenuto e l’accertamento del dolo, in particolare nella forma eventuale. – 3. L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, in particolare nei reati di falso. – 4. Il dolo eventuale nei reati di falso. – 5. L’errore su norma extrapenale e il falso ideologico. 1. Una questione extrapenale. Questo scritto trae spunto da un caso giurisprudenziale preso a modello esemplificativo onde sviluppare alcune più generali considerazioni in ordine a temi di rilevante interesse per il diritto penale(1). Un notaio venne incaricato, dal creditore procedente in una esecuzione immobiliare, di individuare la provenienza dei diritti di usufrutto spettanti al debitore esecutato su una serie di immobili. La richiesta, quindi, era finalizzata ad un procedimento esecutivo per il quale l’art. 567, co. 2, c.p.c. sancisce che il creditore richiedente la vendita deve provvedere ad allegare al ricorso l’estratto del catasto e delle mappe censuarie, il certificato di destinazione urbanistica, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato. In base all’art. 1 della legge 3 agosto 1998, n. 302 (Norme in tema di espropriazione forzata e di atti affidabili ai notai), che ha modificato la predetta disposizione codicistica, tale documentazione può essere sostituita da un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. Il notaio nel suo atto non fece menzione di un usufrutto uxorio, pari a un mezzo, spettante alla madre del debitore esecutato quale coniuge superstite del dante causa dello stesso debitore; usufrutto conseguito ex lege poiché la morte del marito era avvenuta nel 1974, ossia prima della riforma del diritto di famiglia. La denuncia di successione era stata regolarmente (1) Il caso è tratto da Trib. Cosenza, Sez. pen., n. 625 del 14 ottobre 2004, in Le Corti calabresi, n. 1/2005, p. 145 ss. 94 STUDI E RASSEGNE registrata e il relativo certificato era stato trascritto nei registri immobiliari (2). Con la sentenza in commento il giudice ha condannato il notaio a titolo di falsità ideologica in certificati, ha cioè ravvisato la realizzazione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 480 c.p. Il ragionamento seguito si può cosı̀ riassumere: 1) il documento in questione è un certificato redatto dal notaio in qualità di pubblico ufficiale e non una relazione redatta dal notaio quale libero professionista; 2) nei registri immobiliari risultava annotata la denuncia di successione che indicava quali eredi ab intestato non solo il debitore esecutato, ma anche la madre dello stesso nonché coniuge superstite del de cuius; 3) ciò aveva determinato l’acquisto del diritto di usufrutto del coniuge superstite per la quota di un mezzo su tutti i beni costituenti l’asse ereditario; 4) «secondo la giurisprudenza consolidatasi in materia» il coniuge superstite, succeduto ex lege in una quota di usufrutto ai sensi del vecchio testo dell’art 581 c.c., è legatario e non erede; 5) il coniuge, perciò, non avrebbe avuto alcun bisogno di formalizzare l’accettazione dell’acquisto, poiché, ai sensi dell’art. 649 c.c., il legato si acquista, al momento dell’apertura della successione, senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare; 6) poiché mai era stata formalizzata detta rinuncia, l’affermazione resa in seno all’attestato del notaio non era veritiera, in quanto il debitore esecutato non era l’unico titolare dei diritti di usufrutto sui cespiti elencati. Il giudice, in sostanza, arriva alla conclusione che la dichiarazione di successione è «il documento che rappresenta [...] la prova della delazione al legato. Ne consegue, allora, che la sua trascrizione, in assenza di rinuncia, diventa la trascrizione dell’acquisto del legato». Ciò fa sulla scorta di un ulteriore argomento giuridico, in base al quale la norma di cui all’art. 2648 c.c. – che impone la trascrizione nei registri immobiliari dell’acquisto del legato avente ad oggetto diritti reali immobiliari, senza la quale l’atto non produce effetto riguardo ai terzi che in precedenza abbiano trascritto altro atto a proprio favore –, sarebbe limitata ai soli legati pervenuti per testamento e non, invece, a quelli ex lege come nel caso di specie, che, proprio perché fondati sulla legge, troverebbero (2) Attualmente l’art. 5 del Decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, Testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale, stabilisce che nel caso di successione ereditaria comprendente beni immobili o diritti reali immobiliari, l’ufficio del registro redige il certificato di successione, in conformità alle risultanze della dichiarazione della successione o dell’accertamento d’ufficio, e ne richiede la trascrizione. La disciplina delle imposte ipotecarie e catastali vigente in precedenza (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 635) regolava in maniera analoga la trascrizione del certificato di successione, nel senso che doveva rendersi pubblico col mezzo della trascrizione agli effetti stabiliti da quel decreto, il certificato di denunziata successione, quando conteneva disposizioni relative a beni immobili. STUDI E RASSEGNE 95 la loro opponibilità ai terzi nella semplice trascrizione della dichiarazione di successione. Sintetizzata cosı̀ la questione giuridica extrapenale che, del resto, inevitabilmente incide sulla configurabilità della fattispecie penale in tema di falso ideologico, occorre evidenziare che la decisione in oggetto ha affrontato il profilo dell’elemento soggettivo del reato, alla luce dell’atteggiamento psicologico del notaio il quale, come riconosce lo stesso giudice, ha sempre sostenuto di non aver compiuto una immutatio veri, «sulla base di un argomentato ragionamento di natura tecnica». Il notaio, infatti, ha sempre affermato di aver correttamente omesso l’indicazione dell’usufrutto uxorio, in quanto detto diritto non risultava dai registri immobiliari. A ben vedere, pure il giudice ammette che «nei registri [...] effettivamente non v’è traccia della esplicita trascrizione dell’acquisto del legato». Il notaio, d’altronde, ha sempre dichiarato di aver avuto piena conoscenza dell’avvenuta trascrizione del certificato di denunciata successione che, però, a suo avviso, è atto previsto solamente dalla normativa fiscale e che, appunto, ha funzione puramente fiscale(3). Secondo il professionista, quindi, la trascrizione del certificato di denunciata successione non può supplire la trascrizione dell’accettazione. La prima, infatti, «...ha effetti meramente fiscali, mentre gli effetti di diritto privato non potranno che discendere dalla trascrizione dell’accettazione. Ne viene che l’acquisto mortis causa è soggetto (3) È da notare, infatti, che l’art. 5 del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale (Decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347) al secondo comma sancisce che «La trascrizione del certificato è richiesta ai soli effetti stabiliti dal presente testo unico e non costituisce trascrizione degli acquisti a causa di morte degli immobili e dei diritti reali immobiliari compresi nella successione». Disciplina analoga era prevista anche nel prima vigente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 635, ove l’art. 13 sanciva che il certificato di denunziata successione, quando conteneva disposizioni relative a beni immobili, doveva rendersi pubblico col mezzo della trascrizione però ai soli effetti stabiliti dal quel decreto in tema di imposte ipotecarie e catastali. Il successivo art. 14, infatti, aggiungeva che le note predisposte dall’ufficio del registro in base alla denuncia di successione conservavano comunque il carattere di atto di parte e lo Stato non ne assumeva alcuna responsabilità. Che la denuncia di successione abbia, di per sé, efficacia a soli fini fiscali e che non sia idonea a fornire la prova del diritto di proprietà, è affermazione ricorrente concordemente anche in giurisprudenza. Si veda Cass. civ., sez. II, 8 novembre 2002, n. 15716, Del Prete c. Carlot, in Juris data, n. 2.2007. La denuncia di successione e il pagamento della relativa imposta, inoltre, non importano accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di adempimenti di contenuto prevalentemente fiscale, diretti ad evitare l’applicazione di sanzioni, che di per sé non denotano in modo univoco la volontà di accettare l’eredità e rientrano tra gli atti di natura conservativa e di amministrazione temporanea che il chiamato a succedere può compiere in base ai poteri conferitigli dall’art. 460 c.c. Si veda Cass. civ., sez. II, 18 maggio 1995, n. 5463, Mastronardi c. Tiberi, in Vita not., 1996, 263, e in Giust. civ., 1997, I, 215 con nota di A. Balzano, Requisiti e struttura dell’accettazione tacita di eredità; Cass. civ. sez. II, 4 maggio 1999, n. 4414, in Riv. notariato, 2000, 175; Cass. civ., sez. III, 13 maggio 1999, n. 4756, Carassinu c. Inps, in Juris data, n. 2.2007. 96 STUDI E RASSEGNE ad una duplice forma di pubblicità: una per gli effetti fiscali, un’altra per gli effetti civili»(4). Non va dimenticato, inoltre, che, sempre secondo la tesi opposta a quella del giudice, il sistema della pubblicità immobiliare è improntato al principio della certezza nei traffici giuridici che, attraverso l’art. 2657 c.c., consente la trascrizione solamente in forza di sentenza, atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. Non rientrando la denuncia di successione in questo novero, l’unico modo per ottenere la trascrizione del legato ex lege sarebbe l’accettazione da parte del coniuge superstite, che è il solo atto che possa essere contenuto in un documento trascrivibile(5). Alla luce di quanto sinora esposto è chiaro che il giudice ha dato alla complessa disciplina della trascrizione nei registri immobiliari un’interpretazione diversa da quella adottata dal notaio. Pur non esistendo effettivamente nei registri alcuna esplicita trascrizione dell’acquisto del legato, secondo il giudice questo doveva essere desunto implicitamente dal notaio sulla scorta della trascrizione del certificato di denunciata successione. Il giudicante, in sostanza, ha ritenuto che il notaio sia incorso in un «equivoco», per cui «la conclusione alla quale è giunto [...] si profila non corretta». Ha affermato, inoltre, che al fine di escludere un dato di immediata percezione, ossia la trascrizione della denuncia di successione, il notaio ha ipotizzato «un articolato castello motivazionale che, a parere del Tribunale, si qualifica assolutamente improbabile ed artificioso». Infine, ha identificato l’elemento soggettivo del reato nel dolo eventuale, in quanto il professionista si sarebbe «rappresentata la possibilità di una diversa rappresentazione del fatto» e, ciononostante, avrebbe «deciso di propendere per una alternativa ed ardita ricostruzione della vicenda ereditaria. [...] Egli, in altre parole, [sempre ad avviso del Tribunale] risulta aver accettato il rischio che quanto [...] affermato non fosse corrispondente al vero». (4) Cfr. L. Ferri – P. Zanelli, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja – Branca, Bologna, 1995, p. 277. Con l’affermazione secondo cui tra gli atti contemplati dall’art. 2648 c.c. non possa essere inclusa la denuncia di successione a fini fiscali, concorda anche la giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ., sez. II, 28 maggio 1984, n. 3263, Giardino c. Venturi, in Giust. civ. Mass., 1984, fasc. 5. (5) In tal senso si veda R. Nicolò, La trascrizione, in Appunti dal corso di diritto civile, a cura di Morchella – Mariconda – Gazzoni, Milano, 1973, p. 15. Nello stesso senso è orientata la dottrina in merito ad un’altra ipotesi di legato ex lege: il diritto di abitazione nella residenza familiare che spetta al coniuge superstite. Sul punto si veda L. Mengoni, Successione legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1993, p. 180 ss., secondo cui in questi casi onde ottenere la trascrizione del predetto diritto non è sufficiente il certificato di denunciata successione né, per altro verso, è necessaria una sentenza di accertamento. Posto che i titoli in forza dei quali si può ottenere la trascrizione sono tassativamente indicati dall’art. 2657 c.c., il titolo formale in questi casi è costituito dalla dichiarazione di accettazione del legato. STUDI E RASSEGNE 97 2. Il contenuto e l’accertamento del dolo, in particolare nella forma eventuale. In rapporto al problema generale dell’oggetto del dolo, è opportuno premettere che, secondo una tesi risalente, esso è costituito dall’evento in senso naturalistico, come modificazione del mondo esterno legata alla condotta dal nesso di causalità (6); tesi alla quale si obbietta che, cosı̀ ragionando, per i reati di mera condotta, che non necessitano di alcun evento in senso naturalistico, si dovrebbe inopinatamente prescindere dal dolo, oppure ritenere che la definizione del dolo fornita dall’art. 43 c.p. non si riferisca a quella tipologia di reati. Un’altra tesi individua l’oggetto del dolo nell’evento in senso giuridico: ossia l’offesa all’interesse tutelato dalla norma incriminatrice(7). L’eccezione sollevata avverso questa impostazione risiede nella considerazione che far coincidere l’oggetto del dolo con la consapevolezza dell’offesa al bene giuridico comporterebbe un conflitto con l’art. 5 c.p. – che, come noto, considera irrilevante l’ignoranza (evitabile) della legge penale –, in quanto la coscienza dell’offesa non potrebbe prescindere dalla conoscenza della norma incriminatrice. Si aggiunge, poi, che la tesi in parola resterebbe smentita in tutte quelle fattispecie di mera creazione legislativa in cui il bene giuridico è inafferrabile o comunque privo di un valore da tutti percepibile(8). La tesi che oggi sembra trovare i maggiori consensi è quella secondo cui oggetto del dolo è il fatto tipico (9) o, con altra espressione, l’evento ‘‘significativo’’ (10): ossia l’insieme degli elementi oggettivi positivamente ri- (6) F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1982, p. 124 ss.; A. Santoro, Manuale di diritto penale, I, Torino, 1958, p. 328 ss.; F. Grispigni, Diritto penale italiano, II, Milano, 1950, p. 62. (7) M. Gallo, voce Dolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 751 ss.; D. Santamaria, voce Evento, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 125 ss.; G. Neppi Modona, Il reato impossibile, Milano, 1965, p. 372 ss.; S. Prosdocimi, Reato doloso, in Dig. disc. pen., Torino, 1996, vol. XI, p. 239. (8) F. Mantovani, Diritto penale, Padova, IV ed., 2001, p. 328 ss. In senso contrario a questa critica si veda S. Prosdocimi, ibidem, secondo cui la rappresentazione dell’offesa all’interesse significativo sotteso, ossia dell’evento in senso normativo, non presuppone affatto la conoscenza della norma penale, «la quale ultima non crea dal nulla gli interessi da proteggere, che preesistono ad essa sul piano delle realtà etico-sociali e, non di rado, sul piano delle stesse realtà giuridiche extrapenali». (9) In questo senso si veda C. Fiore – S. Fiore, Diritto penale, parte generale, I, Torino, 2005, p. 218 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte generale, IV ed., Bologna, 2001, p. 322 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 326 ss. (10) Questa seconda espressione è utilizzata onde chiarire meglio la distinzione con i concetti di evento naturalistico, di evento giuridico e anche con la nozione di ‘‘fatto tipico’’. In tal senso, si veda A. Pagliaro, Principi di diritto penale, parte generale, IV ed., Milano, 2003, p. 293 ss. Id., Dolo ed errore: problemi in giurisprudenza, in Cass. pen., 2000, p. 2493 98 STUDI E RASSEGNE chiesti per la configurazione della singola fattispecie incriminatrice. In questo modo il dolo deve comprendere tutti i fattori che contribuiscono a configurare un reato: la condotta, i presupposti, le eventuali qualifiche soggettive e, quando è previsto, anche l’evento in senso naturalistico e il relativo nesso causale, sia pur senza necessità della conoscenza dettagliata dei processi eziologici. Queste premesse sull’individuazione dei contenuti del dolo, sia pur molto generiche, sono doverose in quanto per accertare l’esistenza del dolo stesso è necessario comprendere a pieno quale debba essere l’oggetto dell’indagine. Per la stessa ragione, è opportuno verificare pure l’ammissibilità del c.d. dolus in re ipsa, considerato che, soprattutto in passato, la giurisprudenza ha applicato detta formula anche ai reati di falso(11). Il dolo in re ipsa ricorre quando l’agente viene considerato responsabile, appunto a titolo di dolo, per aver voluto una condotta naturalistica, a prescindere però dal significato che egli attribuiva al suo comportamento. In questi casi la struttura della condotta umana appare legata in modo inscindibile a un certo significato, cosı̀ che quando il comportamento esteriore è voluto, l’azione implicitamente possiede quel dato significato psicologico. Quel che conta, quindi, è l’aspetto materiale della condotta, al quale si accompagna, in maniera indissolubile, una sorta di presunzione di dolo. Ammettendo il dolus in re ipsa, perciò, basterebbe la volontà di un fatto materiale, senza la necessità che ad essa si accompagni l’accertamento effettivo di un proponimento diretto ad un contenuto significativo. Questa forma implicita di dolo, però, è palesemente inadeguata agli assiomi del diritto penale moderno, ove per il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 co. 1 Cost.) l’oggetto del dolo non può essere ridotto al mero dato naturalistico, bensı̀ deve essere esteso al complesso significato che l’agente proietta nel mondo esterno attraverso la sua condotta (12). ss.; F. Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 297 ss. Con riferimento specifico al dolo eventuale nei reati di pura condotta, parla di evento ‘‘significativo’’ anche S. Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, p. 214. (11) Per esempio, la Suprema Corte (sez. V, 23 maggio 1979, Cazzoletti, in Riv. pen., 1980, 51) ha ritenuto che nel delitto di falso in atto pubblico l’elemento soggettivo si esaurisca nella coscienza e volontà della immutatio veri, non essendo necessario né l’animus nocendi né l’animus decipiendi. E poiché la formazione dell’atto falso concreta, sempre secondo la Corte, insieme l’azione e l’evento, per cui la volontà dell’una implica, di regola, la volontà dell’altro, il dolo nel falso in atto pubblico sarebbe, salvo prova contraria, in re ipsa. In senso analogo Cass., sez. VI, 10 ottobre 1984, Sai, in Giur. it., 1986, II, 160; e, per risalire più nel tempo, Cass., sez. III, n. 122 del 17 gennaio 1952, Pucci e Albano, in Riv. not., 1953, p. 458 ss., con nota critica di G. Santucci, Il dolo nel falso in atto pubblico. Tale impostazione, del resto, è frutto di antico retaggio anche dottrinale, si veda per esempio G.B. Impallomeni, Il codice penale illustrato, Torino, 1890, II, p. 20. (12) L’inammissibilità del dolo in re ipsa è a fortiori connaturata alla teoria secondo cui STUDI E RASSEGNE 99 Ossia a quel fatto tipico o, che dir si voglia, a quell’evento ‘‘significativo’’ di cui s’è detto in precedenza. Il dolo in re ipsa soddisfa soprattutto esigenze giurisprudenziali e, attraverso il ricorso a schemi presuntivi, si proietta soprattutto verso il superamento delle difficoltà di accertamento dell’elemento soggettivo (13). Ma queste difficoltà, ridotte nei cosiddetti reati soggettivamente pregnanti, non possono essere tranquillamente aggirate attraverso l’uso di forme implicite di dolo, il quale, invece, andrà di volta in volta provato e accertato(14). Ciò significa che in tema di falso il dolo non può essere desunto implicitamente dalla immutazione realizzata, ma deve essere oggetto di specifico accertamento (15). Assodato che il dolo deve essere puntualmente riscontrato, è ora utile comprendere in maniera più specifica il contenuto di questo accertamento, ad essere tipica non può essere una condotta meramente materiale, in quanto tipicità significa corrispondenza tra il significato della norma e il significato dell’accadere; e, quando l’accadere è una condotta umana, il suo significato dipende dal contenuto del volere. Allo scopo di superare il concetto naturalistico dell’azione e la visione statica del bene giuridico, in questa teoria l’incriminazione non è vista come il mero divieto di lesione di un bene giuridico, bensı̀ come il divieto di un dato tipo di comportamento. La lesione di un interesse di per sé non esaurisce la figura dell’illecito penale, nel quale assume rilevanza decisiva la direzione soggettiva della volontà. L’offesa del bene, cosı̀, acquista la funzione di momento parziale all’interno del più generale disvalore manifestato dalla condotta incriminata. Disvalore che, quindi, non è espresso solo dall’evento di lesione del bene, oppure dall’azione intesa come comportamento meramente oggettivo, ma, anche, dall’intenzione illecita volta a contrastare i valori che sono il fondamento di ogni norma incriminatrice. Proprio nella negazione di questi valori giuridicamente rilevanti è individuata l’essenza dell’illecito penale, e non, invece, nella lesione del bene come evento obiettivo. La teoria finalistica dell’azione attribuisce alla volontà dell’agente la funzione di imprimere alla condotta una sua fisionomia socialmente e giuridicamente rilevante, ossia di formare la realtà oggettiva, e non quella di mettere in moto un mero processo causale. L’azione non è considerata, perciò, cieca causalità materiale, ma accadimento coscientemente voluto e finalisticamente predeterminato. Su questi argomenti si veda per tutti C. Fiore, L’azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, passim. (13) Sulle problematiche dell’accertamento del dolo si veda da ultimo G. Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004, p. 314 ss. (14) Sull’inammissibilità di questa forma di dolo di veda F. Bricola, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e di accertamento del dolo, Milano, 1960, passim. Nelle trattazioni manualistiche si vedano per tutti C. Fiore – S. Fiore, Dritto penale, cit., p. 226; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 325; si veda anche il contributo di A. Pagliaro, Dolo ed errore, cit., p. 2495 ss. (15) Che il dolo nel delitto di falso in atto pubblico non sia in re ipsa sembra ormai acquisizione anche giurisprudenziale. Secondo la Cassazione (sez. V, 10 dicembre 1999, Sez. V, n. 1963, Veronese, in Cass. pen., 2001, p. 1480), esso, al contrario, va sempre rigorosamente provato e va escluso tutte le volte in cui la falsità risulti essere oltre o contro l’intenzione dell’agente, come quando risulti essere semplicemente dovuta ad una leggerezza o ad una negligenza, non essendo previsto nel vigente sistema la figura del falso documentale colposo. Nello stesso senso si veda Cass., sez. V, 16 dicembre 1986, Bosco, in Cass. pen., 1988, p. 1018; Id., sez. V, 31 gennaio 1992, Bonanno e altro, in Cass. pen., 1993, p. 1429 e Giust. pen., 1992, II, 545 (s.m.). 100 STUDI E RASSEGNE con particolare riferimento al dolo eventuale. Questa figura, radicata nei principali sistemi penali dell’Europa continentale, come noto, è uno dei concetti che, anche in Italia, è cresciuto senza un espresso riconoscimento legislativo e che ha impegnato di più la dottrina penalistica e, come spesso avviene, ha dato spazio alle più eterogenee soluzioni. Per compiutezza è opportuno dar conto, sia pur molto succintamente, delle principali teorie in merito (16). In prima approssimazione si può dire che il dolo eventuale è quella particolare situazione psicologica in cui la realizzazione del fatto non è voluta in senso stretto, ma è comunque prevista e in qualche modo accettata dall’agente. L’evento, quindi, pur essendo previsto come possibile, non è preso di mira direttamente dall’agente, non è il suo scopo precipuo (17). A differenza della colpa cosciente, o con previsione, che trova un esplicito riscontro negli articoli 43 e 61 n. 3 c.p., il dolo eventuale non è ricavabile in maniera espressa dalla lettera di alcuna norma. L’art. 43 c.p., infatti, definisce doloso, o secondo l’intenzione, solamente quel comportamento in cui l’evento che ne risulta è stato non solo preveduto, ma anche voluto. La condotta, invece, è colposa quando l’evento, pur essendo stato eventualmente previsto, non è stato voluto. La previsione dell’evento, perciò, caratterizza certamente il dolo ed è compatibile anche con la colpa; la volontà dell’evento, invece, secondo la lettera della norma, è situazione tipica del dolo dalla quale, del resto, lo stesso non può prescindere. La lettera della norma sembra aver preso posizione a favore della c.d. teoria della volontà a scapito dell’opposta detta della rappresentazione, teorie che animarono il dibattito soprattutto agli inizi del secolo scorso (18). La prima mette in risalto (16) Per una ricostruzione delle varie teorie sul dolo eventuale e i principali riferimenti bibliografici anche alla letteratura straniera, si veda M. Gallo, Dolo, cit., p. 791 ss.; S. Prosdocimi, Dolus eventualis (Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali), Milano, 1993, passim; Id., Reato doloso, cit., p. 243 ss.; G. Licci, Dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 1498 ss.; G. Forte, Ai confini fra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 228 ss. (17) Gli eventi che sono lo scopo precipuo dell’agente, infatti, siano essi previsti come certi o come possibili, sono imputati certamente a titolo di dolo; cosı̀ pure sono imputati quegli eventi che, pur non essendo presi di mira direttamente, sono però considerati certa conseguenza della condotta. Il problema del dolo eventuale, perciò, si ha solo in riferimento agli eventi non certi e non presi di mira direttamente. Cfr. M. Gallo, ibidem. (18) I lavori preparatori del codice penale confermano l’accoglimento della teoria della volontà. Il Guardasigilli Rocco cosı̀ ebbe modo di esprimersi: «Circa il dolo, tra le due teorie dominanti, della previsione dell’evento (teoria della rappresentazione) e della volontà dell’evento (teoria della volontà), si è scelta quest’ultima, come del resto fa l’art. 45 del Codice penale del 1889. Dolo si ha, quando l’evento, non solo è stato preveduto, ma è stato voluto. Non basta che io mi sia rappresentato un danno, come conseguenza della mia azione, per essere in dolo; ma quell’evento me lo son dovuto proporre, come scopo della mia azione. Sono in dolo, se la mia volontà tendeva alla scopo di produrre quel danno, ma se non ho voluto produrre quel danno, benché lo abbia preveduto, ciò non basta per essere in dolo» STUDI E RASSEGNE 101 come l’azione non sia altro che il mezzo preordinato ad un fine, perciò reputa lo scopo come elemento ineluttabile del volere; la seconda, invece, considera come unico oggetto della volontà la mera attività fisica, e perciò arriva alla conclusione che le conseguenze di questa attività possono essere solamente oggetto di rappresentazione. Il legislatore storico sembra dunque aver adottato una nozione ristretta o forte di dolo, riferita solamente a quello intenzionale o diretto, escludendo quello eventuale nel quale l’elemento volitivo non è perfetto (19), tanto più se si considera che la colpa viene estesa anche alla previsione dell’evento e si distingue dal dolo per la mancanza di volontà; si potrebbe perciò sostenere, con notevole nettezza di confini, che tutto ciò che è previsto ma non è propriamente voluto rientra nella colpa e non nel dolo, neanche eventuale. Volere, in senso strettamente letterale, significa tendere con l’animo al conseguimento di un fine (20). Nel dolo eventuale l’animus è sostanzialmente altro rispetto a questo volere. La dottrina e la giurisprudenza, d’altronde, hanno prevalentemente attribuito un senso ‘‘giuridico’’ al concetto, ritenendo che a ciò non fosse d’ostacolo la formulazione dell’art. 43 c.p., facendovi rientrare situazioni psicologiche meno pregnanti e intense, quali, appunto, il dolo eventuale(21). Gli sforzi di qualificazione del dolo eventuale sono stati molteplici, anche perché nel nostro ordinamento, com’è noto, la colpa è configurabile nei soli casi espressamente previsti dalla legge e, quindi, estendere il concetto di dolo significa ampliare la sfera del penalmente rilevante. In altri cfr. Verbali della Commissione ministeriale, in Codice penale illustrato con i lavori preparatori a cura di R. Mangini, Roma, 1930, pp. 46-47. In senso analogo si espresse pure il commissario E. Massari, ibidem. Da ultimo sui lavori preparatori del codice Rocco in tema di dolo si veda G. Cerquetti, La rappresentazione, cit., p. 147 ss. (19) Sempre il Ministro A. Rocco: «Dice il commissario Marciano che allora vi è un dolo indiretto, e dice il commissario Ferri che vi è un dolo eventuale. Ma che cosa sono queste distinzioni del dolo? Esse sono finite tutte nel nulla: o l’evento dannoso è voluto, e c’è dolo, o non è voluto e non c’è dolo». Cfr. Verbali della Commissione ministeriale, cit., p. 47. (20) Dal lemma ‘‘volere’’ del Grande dizionario della lingua italiana, vol. XXI, di S. Battaglia, Torino, 2002: «Fare oggetto qualcosa della volontà individuale, soggettiva, tendendo con autonoma e intensa determinazione a fare o ottenere qualcosa». (21) È conveniente considerare, però, che il ruolo del legislatore non può essere marginale o trascurabile neanche in riferimento a quei concetti, come quello di dolo, che trovano il loro fondamento in ambiti tipicamente pregiuridici. Le definizioni che il legislatore può dare di questi concetti conservano pur sempre un rilievo basilare e le operazioni di ‘‘ortopedia’’ ermeneutica possono ammettersi solo limitatamente, anche perché la scelta legislativa molte volte è ispirata da precisi indirizzi di politica criminale, più o meno rigoristici. Cfr. S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 239. Perciò, l’aver il nostro legislatore fissato nella definizione del dolo la sua attenzione sı̀ sulla rappresentazione, ma soprattutto sulla volontà, in quanto la rappresentazione è compatibile anche con la colpa, induce a rifuggire da impostazioni di stampo prettamente giusnaturalistico, a vantaggio di una ricostruzione dei concetti che, invece, deve essere maggiormente incline a valorizzare il dato normativo. 102 STUDI E RASSEGNE termini, ammettere il dolo eventuale equivale a dilatare la punibilità, per esempio dei reati di falso che non sono perseguibili a titolo di colpa, a fatti che altrimenti ne sarebbero inesorabilmente fuori. Ciò per dire che la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, che tanto ha impegnato la letteratura penalistica, non ha una ragione di pura speculazione scientifica fine a sé stessa, bensı̀ ha notevoli risvolti pratici e di politica criminale. Questi sforzi si sono avuti sia nell’ambito della teoria della rappresentazione(22), sia in quello della teoria della volontà (23). Quest’ultima, per quanto qui interessa proiettata nel nostro ordinamento a rendere compatibile il dolo eventuale con la formulazione dell’art. 43 c.p., nel momento in cui tenta di far rientrare nel concetto di volontà anche questa forma di (preteso) dolo, sembra compiere uno sforzo di eccessiva astrazione, dal momento che cerca di comprendere nell’ambito del volere momenti prettamente intellettivi. Quando si passa dal nucleo forte del dolo intenzionale/ diretto alla zona evanescente di quello eventuale, l’impressione che si trae è che il momento stricto sensu volitivo, che il nostro codice sembra pretendere, sopravviva solo fittiziamente, come artificioso simulacro concettuale in grado di garantire la punizione per quelle conseguenze della condotta che, benché non volute, sono attribuite all’agente con un sorta di (proibito) ragionamento ‘‘analogico’’: in qualche modo si equipara il non intimamente voluto al voluto. (22) A base di questa dottrina è l’affermazione secondo cui il contenuto del dolo è propriamente un atteggiamento intellettivo avente ad oggetto tanto la condotta materiale quanto il disvalore giuridico della stessa. Il dolo eventuale, perciò, dipenderebbe dal grado di possibilità/probabilità con cui l’agente si è rappresentato il verificarsi dell’evento. Tanto maggiore è questo grado, tanto più intenso sarebbe il dolo eventuale e, viceversa, tanta maggiore distanza vi sarebbe dalla colpa cosciente. A questa teoria, però, s’è obiettato che la distinzione tra dolo e colpa è rintracciata su un piano meramente quantitativo, mentre è incontestabile che le due forme d’imputazione soggettiva hanno ontologica differenza qualitativa, non essendo riconducibili, sia sul piano psicologico sia su quello normativo, ad un concetto unitario. Cfr. M. Gallo, Dolo, cit., p. 791. (23) All’interno della teoria della volontà si delineano due articolazioni: una, di natura schiettamente psicologica, intende la volontà in senso causale; l’altra, quella finalistica, concepisce la volontà in senso normativo sociale. La prima fa coincidere il dolo eventuale nell’atteggiamento soggettivo di chi, rappresentandosi le conseguenze ulteriori della propria condotta, continua ad agire a costo di provocarle, cosı̀ accettandone il rischio e trasferendo nell’ambito della volontà ciò che prima era semplice rappresentazione. La principale censura mossa a questa impostazione è che non riesce a dettare dei parametri certi per appurare quando l’agente abbia effettivamente accettato il rischio. La seconda teoria individua il dolo nella volontà finalistica, secondo due profili. «Il primo aspetto è l’autolimitazione del processo finalistico che si riflette nella struttura del dolo in quanto da questo verrebbero ed esulare le conseguenze che l’agente ha cercato di evitare. Il secondo aspetto che prende le mosse dal concetto di finalità potenziale, configura l’elemento diacritico del dolo nel protendersi della volontà verso il futuro». Cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, G. Licci, Dolo eventuale, cit., p. 1503. STUDI E RASSEGNE 103 Chi accetta la teoria della rappresentazione, astrattamente più compatibile con il concetto di dolo eventuale e concretamente meno conciliabile con la lettera del codice penale, per distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente spesso ricorre alla c.d. formula di Frank, che si risolve in un ragionamento ipotetico. L’interprete deve valutare cosa avrebbe fatto l’agente se avesse previsto l’evento come certa conseguenza della sua condotta. Se si giunge alla conclusione che avrebbe agito ugualmente, si ha dolo eventuale, in caso contrario si ha colpa cosciente (24). Ma è proprio lo schema ipotetico di per sé che ha costituito la materia della principale critica a questa dottrina. Oltre alla constatazione che, sotto il profilo dell’accertamento dell’elemento soggettivo, è molto problematica la prova di un accadimento ipotetico, l’obiezione fondamentale risiede nella osservazione che non conta ciò che l’agente avrebbe fatto in relazione a circostanze solamente congetturate, ma ciò che ha fatto nell’ambito di quella situazione che concretamente si è posta ai sui occhi al momento della risoluzione(25). Altra teoria, che ha trovato notevole favore in dottrina e giurisprudenza, individua nel dolo un contenuto eclettico, che si sostanzia, da un lato, in un momento propriamente volitivo in relazione alla condotta materiale, e, dall’altro, in un atteggiamento intellettivo/rappresentativo riferito a tutti gli elementi della fattispecie poiché, soprattutto quando si tratta di un avvenimento futuro rispetto alla condotta, si ritiene più corretto parlare di «previsione»(26). Ma la previsione, ad avviso di questa autorevole dottrina, può avere diversa natura a seconda che sia concreta o astratta ovvero positiva o negativa, cosı̀ determinando la distinzione concettuale tra dolo eventuale e colpa cosciente e, quindi, più in generale, tra dolo e colpa. Si ha previsione astratta/negativa e, di conseguenza, colpa cosciente, quando alla previsione, appunto astratta, della possibilità di verificazione dell’evento, si accompagna la consapevolezza che lo stesso evento non si verificherà in concreto. «Il giudizio dubitativo: ‘‘un reato può verificarsi’’, (24) Questa formula, elaborata appunto da R. Frank, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reich, Tübingen, 1931, p. 190 ss., uno dei principale fautori della teoria della rappresentazione, trova meno ostacoli in quegli ordinamenti, come quello tedesco, che non offrono una specifica definizione normativa del dolo bensı̀ solo quelle concernenti l’errore. In Italia, invece, ove questa definizione esiste e, come già detto, si concentra sul momento volitivo, l’uso di questa formula è più problematico. La nostra dottrina, del resto, non ha mancato di adottare questo schema, pur con distanza rispetto alla teoria della rappresentazione. Cfr. G. Contento, Corso di diritto penale, Bari, 1996, p. 378; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., p. 279 ss.; si veda pure L. Eusebi, Il dolo nel diritto penale, in Studium iuris, 2000, fasc. 10, p. 1076 ss., secondo cui detta formula è in grado di escludere senza incertezze il dolo in molti casi che, altrimenti, dovrebbero essere risolti con la più assoluta discrezionalità. (25) In questo senso si veda M. Gallo, Dolo, cit., p. 792. (26) Idem, p. 793. 104 STUDI E RASSEGNE si conclude cosı̀ nel giudizio che asserisce: ‘‘un reato non si verificherà’’. La cosiddetta colpa cosciente si rivela, dunque, caratterizzata dalla previsione negativa che non si realizzerà un fatto di reato» (27). Sempre secondo questa impostazione, viceversa, il dolo eventuale si realizza quando alla previsione astratta consegue una previsione concreta positiva, del genere: il reato si potrà verificare. In quest’ultimo caso la posizione di dubbio, proprio perché non viene rimossa con una previsione negativa, non integra un’ipotesi di ignoranza o di errore e, dunque, stando a questa teoria, radica fatalmente il dolo (28). La volontà nel dolo eventuale è perciò costruita sulla considerazione che l’agente, non avendo escluso la possibilità dell’evento lesivo, lo accetta manifestando per questa via un atteggiamento interiore di adesione al suo avverarsi(29), ossia, accetta il rischio del suo verificarsi (30). Anche questa teoria è stata sottoposta a rilievi critici i quali si fondano soprattutto sul fatto che la rappresentazione alla base della colpa cosciente, a ben vedere, sarebbe una non-rappresentazione, contravvenendo cosı̀ al disposto degli artt. 43 e 61 n. 3 c.p., che, per i reati colposi, parlando di colui che agisce nonostante la previsione, sembrano fare riferimento ad una previsione temporalmente collocata al momento della condotta stessa e non, invece, in una eventuale e poco rilevante fase precedente. In so- (27) Idem, p. 792. (28) Nel senso contrario, ossia dell’erronea identificazione tra dubbio e dolo eventuale, si veda S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 245, secondo cui «la incertezza del reo [...] in quanto atteggiamento di carattere meramente rappresentativo non esclude il dolo, ma risulta insufficiente a radicare il dolo medesimo, sino a quando il dubbio non si innesti in una prospettiva di natura volontaristica». (29) Questa teoria è uno degli sforzi più avanzati volti a conciliare la figura del dolo eventuale con la lettera dell’art. 43 c.p., trovando una differenza tra due modelli di rappresentazione, l’uno, però, quello della colpa con previsione, che è incompatibile con l’elemento volitivo, l’altro, invece, proprio del dolo eventuale, che ammette anche la volontà. Si cerca perciò in tutti i modi di attribuire al dolo eventuale una componente volontaristica. (30) Lo stesso M. Gallo, Il dolo – oggetto e accertamento, in Studi urbinati, 1951, p. 220, infatti, si esprime nel senso che qualora l’agente si rappresenti la possibilità positiva dell’evento e, ciononostante, si determini verso la commissione dell’azione, allora significa che egli accetta il rischio implicito del verificarsi dell’evento. Questa dell’accettazione del rischio è una teoria molto diffusa, sia in dottrina sia in giurisprudenza. Si veda F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 324; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 329; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 332; D. Pulitanò, in Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi, Stella, Zuccalà, 4ª ed., Padova, 2003, p. 178 ss. In giurisprudenza si veda, tra le tante, Cass., sez. V, 17 ottobre 1986, in Cass. pen., 1988, 441; Id., sez. I, 3 giugno 1993, Piga, in Cass. pen., 1994, 2992; Id., sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024, Boni, in Juris data, n. 2.2007; Id., sez. I, 30 ottobre 1997, n. 10431, Angelici, in Juris data, n. 2.2007; Id., sez. II, 12 febbraio 1998, n. 3783, Conti, in Giust. pen., 1999, II, 13; Id., sez. VI, 15 aprile 1998, n. 6880, Pilato, in Juris data, n. 2.2007; Id., sez. I, 25 giugno 1999, n. 10795, Gusinu e altro, in Ced Cassazione, 1999; Id., sez. I, 19 giugno 2002, Persechino ed altro, in Giur. it., 2004, p. 842 ss., con nota di S. Ferrari, In tema di dolo eventuale e di recklessnes. STUDI E RASSEGNE 105 stanza, la colpa con previsione sarebbe, invece, senza previsione, in quanto l’agente nel momento in cui pone in essere la sua condotta è sicuro che l’evento non si verificherà (31). La teoria dell’accettazione del rischio, del resto, è stata oggetto anche di alcuni interventi tesi a superare le relative obiezioni. In questa sede si può fare riferimento a quella tesi secondo cui, partendo dalla constatazione che, tutto sommato, anche nella colpa cosciente esiste una forma di accettazione del rischio, a distinguersi è la fisionomia di questa accettazione (32). Per aversi dolo eventuale l’accettazione deve essere il frutto «di una ponderata valutazione degli interessi in gioco, quale ‘‘prezzo’’ del raggiungimento di uno specifico risultato, intenzionalmente perseguito, cui l’agente ha consapevolmente, deliberatamente ritenuto valesse la pena di sacrificare altro bene, associando mentalmente, secondo un criterio di carattere ‘‘economicistico’’, l’eventuale sacrificio al risultato desiderato»(33). Qualora, invece, l’accettazione del rischio sia il risultato di un contegno irriflessivo, superficiale, avventato, trascurato, indolente, allora si configura la colpa cosciente (34). Al termine di questa ricostruzione, certamente limitata, che, considerata la sede, non ha potuto dar conto di altre teorie e aspetti della complessa individuazione del concetto di dolo eventuale(35), è opportuno ri- (31) Per questi rilievi, insieme ad altre obiezioni, si veda S. Prosdocimi, Reato doloso, cit. p. 240; B. Battaglini, Considerazioni sul dolo eventuale, in Cass. pen., 1986, p. 470; G. Forte, Ai confini, cit. p. 252 ss., secondo cui attraverso la teoria criticata si vuole assimilare alla volizione un coefficiente psicologico tutt’affatto diverso. Accettare il rischio della verificazione dell’evento, si sostiene, è atteggiamento completamente differente dal volere l’evento oggetto del rischio. Accettare il rischio significa rischiare, ossia un atto soggettivo che rientra nell’imprudenza e nella temerarietà, non nel dolo. Sul punto si veda pure A. De Marsico, Coscienza e volontà nella nozione di dolo, Napoli, 1930, p. 152. (32) Si veda S. Prosdocimi, Dolus, cit., p. 45; Id., Reato doloso, cit., p. 244. (33) Cfr. S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., ivi. (34) Anche questa teoria è stata censurata poiché si ritiene comporti lo spostamento dell’oggetto del dolo e della colpa, dall’evento ad uno stato soggettivo, ossia l’accettazione del rischio. Cfr. G. Forte, Ai confini, cit. p. 255 ss. (35) Non può farsi a meno, del resto, di operare almeno un richiamo ad altre teorie che hanno fornito stimolanti e importanti costruzioni e spunti ermeneutici, quali, ad esempio, la tesi secondo la quale sia la condotta dolosa sia quella colposa sono caratterizzate da contrarietà a diligenza, cosı̀ evidenziando le commistioni esistenti tra le due forme d’imputazione soggettiva. Cfr. nella dottrina italiana G. Marinucci, Non c’è dolo senza colpa - Morte della «imputazione oggettiva dell’evento» e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 26 e altra bibliografia ivi indicata. È d’uopo poi richiamare la teoria secondo cui il dolo eventuale non risiede nella pura e semplice accettazione del rischio, bensı̀ nell’accettazione del rischio c.d. inadeguato, ossia di quello che è ritenuto incompatibile con la misura del rischio ammessa dall’ordinamento. Su questi temi, nella letteratura italiana, si veda V. Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 5 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici; per la dottrina tedesca, per tutti, W. Frisch, Vorsatz und Risiko. Grundfragen des Tatbestandsmäßigen Verhaltens und des Vorsatzes, Köln, 1983, p. 341 ss. 106 STUDI E RASSEGNE cordare che non è mancato neanche chi ha disconosciuto in radice la configurabilità del dolo eventuale, ritenendolo un ‘‘doppione mascherato’’ della colpa cosciente (36). La tesi tende a dimostrare che la forma di dolo consistente nell’accettazione del rischio ha tutti i caratteri di quella colposa, in quanto il dolo eventuale, stante la non volontà dell’evento, mal cela una realtà avente un carattere meramente normativo e non, invece, concretamente psicologico. Da ciò discende che lo sforzo ermeneutico, volto a far rientrare a tutti i costi l’accettazione del rischio nel concetto di volontà di cui all’art. 43 c.p., può incorrere in una preclusa interpretazione analogica, in quanto crea una figura in realtà non descritta dal legislatore, bensı̀ frutto di una mera equiparazione tra contegni soggettivi. La tesi, quindi, trova fondamento nella lettera della norma codicistica, nel principio costituzionale di riserva di legge e anche in non trascurabili esigenze di politica criminale che tendono a restringere l’ampia possibilità del ricorso al dolo eventuale, alcune volte utilizzato per dilatare l’area del penalmente rilevante a condotte che, a bene vedere, conservano una rimproverabilità solo a titolo di colpa. Alla luce di tutte queste considerazioni, una prima, parziale, conclusione sembra raggiunta: nell’individuazione del dolo eventuale non può trascurarsi l’elemento volitivo, al quale deve riconoscersi una dignità paragonabile a quella della rappresentazione. 3. L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, in particolare nei reati di falso. A questo punto è d’uopo vagliare in che modo si atteggia il dolo nei reati di mera condotta, come appunto quelli di falso ideologico, e, poi, più in particolare, comprendere il possibile ruolo del dolo eventuale in questo contesto (37). Nei reati di mera condotta, com’è noto, è indifferente l’eventuale risultato dell’agire o dell’omettere. Da questa considerazione, d’altronde, non discende che sia privo di senso verificare se la condotta abbia perseguito un evento, intendendo però questo non in (36) Cfr. G. Forte, Ai confini, cit. p. 267 ss. Sulla medesima tematica si veda pure, dello stesso Autore, Problematiche attuali del dolo eventuale: tra forme intermedie di colpevolezza ed istanze definitorie, in Offensività e colpevolezza: verso un codice penale modello per l’Europa, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, p. 221 ss. (37) Sul dolo eventuale e la colpa cosciente nell’ambito delle diverse tipologie dei c.d. reati di pura condotta, si veda S. Canestrari, Dolo eventuale, cit., p. 210 ss.; in tema si veda anche S. Prosdocimi, Dolus, cit. p. 57 ss. Ritengono, invece, che il dolo eventuale sia configurabile solo per i c.d. reati di evento, fra gli altri, G. Musotto, Il problema del dolo specifico, in Studi in onore di Francesco Antolisei, Milano, 1965, vol. II, p. 366; E. Morselli, Il reato di false comunicazioni sociali, Napoli, 1974, p. 108. STUDI E RASSEGNE 107 senso meramente naturalistico, bensı̀ come quell’evento ‘‘significativo’’ di cui s’è già detto. Né, del resto, in questi reati è possibile limitare l’accertamento dell’elemento soggettivo alla coscienza e volontà di cui all’art. 42 co. 1 c.p. (38); parametri, questi, che nulla indicano a proposito di dolo o colpa. La coscienza e volontà della mera condotta risulta compatibile tanto con una precisa intenzione di realizzare ciò che è vietato dall’ordinamento, tanto con la mera negligenza, quanto, infine, pure con un agire incolpevole. Anche nei reati di mera condotta, perciò, non si può prescindere dal precipuo accertamento dell’elemento psicologico, il cui contenuto, tuttavia, dovrà incentrarsi interamente sul modo in cui s’è agito e non s’è agito. Se per l’ordinamento è irrilevante il risultato naturalistico della condotta, significa che il disvalore risiede e si esaurisce nella mera condotta in quanto essa sia idonea a offendere il bene giuridico tutelato. Se cosı̀ è, allora, nei reati di mera condotta si avrà dolo solo quando si agisca per realizzare tale offesa. L’agente, in sostanza, deve aver percepito l’offesa come connessa intimamente alla tenuta della mera condotta (39). L’oggetto del dolo nei reati di mera condotta, dunque, sarà sempre l’evento ‘‘significativo’’ o, con altra espressione, il fatto tipico in quanto lesivo di beni giuridici. Questa impostazione, del resto, è coerente con la teoria secondo cui l’offesa è elemento della tipicità, ma non nel senso che il fatto formalmente conforme al tipo sia a priori anche offensivo (40), bensı̀ nel senso che il fatto inoffensivo non è tipico, o lo è solo apparentemente secondo una considerazione meramente formalistica (41). Queste considerazioni valgono anche per i reati di falso in atto pubblico(42) riguardo ai quali s’è molto dibattuto proprio in riferimento all’oggetto del dolo (43). Secondo l’orientamento più risalente, di matrice schiet- (38) Sull’argomento, nella manualistica, si vedano G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 189 ss. e p. 313 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 315 ss. (39) Per questa impostazione si veda L. Eusebi, Il dolo, cit. p. 1074. Sulla stessa problematica si veda pure Giov. De Francesco, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 158 ss. (40) Condividere quest’ultimo assunto significherebbe escludere la possibilità che nella descrizione astratta di una fattispecie possano rientrare anche condotte in realtà innocue, oppure significherebbe negare la rilevanza del principio di offensività quale premessa di fondo dell’ordinamento penale. (41) Si veda in tal senso C. Fiore, Il principio di offensività, in Indice pen., 1994, p. 283 ss. Sia consentito il rinvio anche a M. Caterini, Reato impossibile e offensività, Napoli, 2004, passim e più in particolare p. 368 ss. (42) Per una esposizione agile dei reati di falso cfr. A. Nappi, Falsità in atti, in Enc. giur. Treccani, vol. XIV, Roma, 1989. Sulle origini di questi reati e una panoramica dell’esperienza di common law, si veda E. Grande, Falsità in atti, in Dig. disc. pen., vol. V, Torino, 1991, pp. 54 ss., 65 ss. (43) È noto, infatti, che per il falso in scrittura privata è richiesto il dolo specifico, men- 108 STUDI E RASSEGNE tamente giurisprudenziale(44), che potrebbe definirsi formalistico, il dolo nella falsità si esaurisce nella coscienza e volontà dell’immutatio veri (45). In qualche pronuncia, a questa affermazione se ne accompagna un’altra – volta soprattutto a cercare di rimuovere l’impressione che il dolo, cosı̀ concepito, coincida con il minimo comun denominatore di ogni reato, di cui all’art. 42 c.p. –, secondo cui il dolo deve comprendere la consapevolezza dell’offesa, che, nei reati di falso, è riferita alla lesione della verità della prova (46). In questi casi, però, a ben vedere l’affermazione può risultare una sorta di petizione di principio quando, poi, la suddetta consapevolezza viene desunta secondo criteri simili a quelli del dolo in re ipsa (47). La letteratura penalistica, invece, è fermamente convinta che l’oggetto del dolo nei reati di falso non può ridursi all’immutatio veri, poiché ciò significherebbe che il fatto tipico del falso è costituito dalla semplice divergenza naturalistica tra reale e apparente. I reati di falso ideologico rispondono all’esigenza di non ingannare altri attestando cose contrarie alla realtà, ciò nell’interesse della veridicità (48). L’offesa a questo interesse, anche sotto forma di messa in pericolo, costituisce l’evento giuridico dei reati di falso ideologico, che, come già detto in precedenza, integra il fatto tipico e, di conseguenza, deve essere oggetto anche del dolo. Il falso è con- tre nel falso in atto pubblico è sufficiente il dolo generico. Sull’oggetto giuridico dei reati di falso si veda A. Nappi, Falso e legge penale, Milano, 1999, p. 9 ss. (44) L’impostazione giurisprudenziale sembra più orientata allo scopo pratico di risolvere apoditticamente i problemi volti all’accertamento del dolo, negando la necessità di dimostrare in concreto tutti gli elementi del dolo e ricavando gli stessi solo presuntivamente dalla condotta naturalistica. Ciò comporta un «vero e proprio anacronismo: è sostanzialmente un ritorno alle concezioni delle epoche primitive, nelle quali la repressione penale si basava esclusivamente sulla materialità del fatto». Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, Milano, 1997, II, 73. (45) Cfr. Cass., sez. V, 23 maggio 1979, Fazzoletti, in Riv. pen., 1980, 51 ss.; Cass., sez. V, 14 aprile 1980, Mazzolini, in Giust. pen., 1981, II, 132 ss.; Cass., sez. V, 30 gennaio 1981, Sartoni, in Cass. pen. 1982, p. 1164 ss.; Cass., sez. VI, 10 ottobre 1984, Sai, in Giur. it., 1986, II, 160 ss.; Cass., sez. V, 28 novembre 1991, Galluzzo, in Riv. pen., 1992, 580 ss.; Cass., sez. VI, 22 maggio 1998, n. 1051, Tritta, in Cass. pen., 2000, p. 887 ss.; Cass., sez. V, 13 gennaio 1999, n. 3004, Thaler e altro, in Giust. pen., 2000, II, 18 ss., e in Cass. pen., 2000, p. 880 ss, con nota di G.P. Sartirana, Falso nel registro del professore di scuola media: una svolta in chiave restrittiva nella nozione di atto pubblico da parte della Cassazione? Per la giurisprudenza di merito si veda App. Palermo, 3 dicembre 1992, Turco, in Giur. merito, 1994, p. 513 ss.; Trib. Avezzano, 25 febbraio 2003, Di Domenico e altro, in Giur. merito, 2003, p. 1236 ss. Anche la richiamata sentenza del Tribunale di Cosenza, dalla quale s’è tratto il caso esemplificativo in questione, nella sostanza aderisce a questa impostazione. (46) Si veda Cass., sez. V, 29 maggio 1980, Baldi, in Cass. pen., 1981, p. 1541 ss., con nota critica di T. Padovani, La coscienza dell’offesa nel dolo del falso: un requisito ad pompam? (47) Si veda F. Bricola, Dolus, cit., p. 141 ss.; T. Padovani, La coscienza, cit., p. 1542 ss. (48) Cfr. F. Bricola, Dolus, cit., p. 143. STUDI E RASSEGNE 109 cetto normativo e non prettamente naturalistico, difatti non è penalmente rilevante qualsiasi modificazione della realtà documentale, ma, per ammissione della stessa giurisprudenza, solo quella che abbia un significato giuridico e una concreta potenzialità ingannatoria (49). Questo orientamento, per cosı̀ dire, ‘realistico’, ha radici lontane (50) e pretende, oltre la coscienza e volontà della condotta (art. 42 c.p.), la volontà dell’evento concepito come l’offesa al bene giuridico. L’agente si deve rendere conto e deve volere che la sua condotta offenda la c.d. fede pubblica (51), deve avere l’intenzione di cagionare l’evento, ossia la sintesi di tutti gli estremi della fattispecie, quindi non un fatto prettamente naturalistico, bensı̀ eminentemente giuridico. L’agente, in sostanza, deve avere la volontà di realizzare la fattispecie in quanto offesa a beni giuridici(52). In sintesi si potrebbe dire: vo- (49) Il riferimento è alle ipotesi di falso innocuo o irrilevante e a quelle di falso grossolano che, per la stessa giurisprudenza, non hanno oggettiva rilevanza penale. Sulla prima ipotesi si veda Cass., sez. V, 20 novembre 1996, n. 421, Scaricabarozzi e altro, in Dir. pen. e processo, 1997, 594, con nota di S. Monteverde; Cass., sez. V, 8 febbraio 2001, n. 13623, Stipa, in Cass. pen., 2001, p. 3054, con nota di P. Dell’Anno, In tema di falso ideologico ‘‘inutile’’; Cass., sez. VI, 10 gennaio 2002, n. 6885, Alasia, in Cass. pen., 2003, 2315; nella giurisprudenza di merito, Trib. Lecce, 30 novembre 1993, Calabro e altro, in Foro it., 1995, II, 653; Trib. Genova, 20 marzo 2001, Blasi e altro, in Giur. it., 2001, 2145. Sul tema del falso grossolano, invece, si veda Cass., sez. V, 13 maggio 1987, Dell’Acqua, in Cass. pen., 1988, 2073; Cass., sez. V, 3 luglio 1989, Montalti, in Riv. pen., 1990, 733; Cass., sez. V, 5 luglio 1990, Casarola, in Giust. pen., 1991, II, 468; Cass., sez. V, 1º febbraio 1993, Zippo, in Riv. pen., 1994, 183; nella giurisprudenza di merito, Pret. Ravenna, 10 novembre 1987, Ndiaye Cheick, in Riv. pen., 1988, 58; Trib. Lecce, 30 novembre 1993, Calabro e altro, in Foro it., 1995, II, 653; Uff. ind. prel. Milano, 15 novembre 2000, in Foro ambrosiano, 2001, 13. In argomento, si veda S. Preziosi, Falso innocuo e falso consentito: spunti problematici sul bene giuridico, in Aa.Vv., Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova, 2001, p. 145 ss.; e S. Fiore, Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di falso, Napoli, 2000, p. 102 ss., che dalle ipotesi di falso ‘irrilevante’ trae spunto per una rivisitazione dell’intera sistematica della categoria dei reati di falso. Sull’evoluzione giurisprudenziale sia consentito il rinvio a M. Caterini, Il reato impossibile, cit., p. 205 ss. (50) Si veda, ad esempio, P. Mirto, I delitti di falsità in atti, Palermo, 1932, p. 410, secondo cui «l’elemento della coscienza in tema di falso in atto pubblico esige che ricorra la rappresentazione dell’evento, e l’elemento della volontà dell’evento importa che ci sia nell’agente l’intenzione di produrre un evento che è l’evento del reato. Ora l’evento nel delitto di falso in atto pubblico consiste nella produzione di un inganno ai consociati sulla verità, genuinità sincerità di un atto pubblico in confronto alla ragione causativa determinante la necessità dell’atto come esplicazione dell’attività funzionale del pubblico ufficiale». Si veda pure V. Manzini, Trattato di diritto penale, 1950, vol. VI, p. 736, il quale a proposito dei delitti di falso ritiene che «per il dolo è necessaria la volontà cosciente e libera dell’azione, e l’intenzione di cagionare l’evento, cioè il creare un documento falso o di alterare un documento vero, per rendere possibile un inganno circa l’autore o il tenore del documento». (51) Sulla ricostruzione storica e l’evoluzione del concetto di fede pubblica negli orientamenti dottrinali, e sull’individuazione dell’oggetto sostanziale della tutela nei reati di falso, in una prospettiva che tiene nel dovuto conto il principio di offensività, si veda S. Fiore, Radio della tutela, cit., p. 41 ss., p. 91 ss. (52) In questi termini R. Pannain, Appunti in tema di dolo e di oggettività giuridica 110 STUDI E RASSEGNE lere la condotta non vuol dire necessariamente volere anche l’evento ‘‘significativo’’, ossia volere l’inganno e il pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico (53). Solo per questa via, volendo dare al discorso un respiro più ampio, si può affermare che la pena risponda ai principi costituzionali in materia. È noto, infatti, che l’art. 27, co. 1, Cost. esalta l’aspetto personalistico della nella falsità in atti, in Studi in onore di Francesco Antolisei, II, Milano, 1965, p. 413 ss., secondo cui, del resto, non è necessaria la coscienza dell’illiceità penale, essendo sufficiente la volontà di offendere il valore insito nella norma incriminatrice, cioè di integrare la fattispecie nella sua espressione giuridica. Giungono a conclusioni simili, magari con sfumature diverse, nel senso di ritenere l’offesa al bene giuridico indispensabile contenuto dei reati di falso, F. Antolisei, Sull’essenza dei delitti contro la fede pubblica, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 6525 ss.; Gius. Sabatini, Orientamenti circa il dolo nei delitti di falsità in atti, in Giust. pen., 1952, II, 300 ss.; F. Cordero, Appunti sui concetti di danno e di dolo in tema di falso in atto pubblico, in Giur. it., 1953, II, c. 17 ss.; L. Conti, Dolo e «immutatio veri» nel falso in atto pubblico, in Giur. it., 1955, II, c. 305 ss.; U. Dinacci, Realismo e concretezza in una recente pronuncia della cassazione sull’essenza del falso documentale, in Giust. pen., 1984, II, 132 ss.; T. Galiani, Brevi considerazioni in tema di bene giuridico e di dolo nei delitti di falso, in Giut. pen., 1985, II, 321 ss.; A. Cristiani, Fede pubblica (delitti contro), in Dig. disc. pen., vol. V., Torino, 1991, p. 194 ss. In ogni caso si veda A. De Marsico, voce Falsità in atti, in Enc. dir., vol. XVI, Milano, 1967, p. 596 ss., secondo cui il dolo nei reati di falso deve estendere la sua portata anche all’offesa dell’interesse tutelato, come consapevolezza del pericolo che lo stesso corre. L’elemento soggettivo sarebbe dato perciò dalla coscienza della condotta e da quella del pericolo, ma non necessariamente anche dalla diretta volontà di creare il pericolo. Voce isolata è quella di G. Catelani, I delitti di falso, Milano, 1978, p. 161 ss, che aderisce alla prevalente impostazione giurisprudenziale nel ritenere che il dolo nei reati di falso si incentri solo sull’immutatio veri. (53) L’univoco orientamento dottrinale ha pure trovato riscontro in giurisprudenza, almeno come formale affermazione di principio. Per risalire più indietro nel tempo si possono richiamare alcune sentenze di legittimità pronunciate poco dopo l’entrata in vigore del codice Rocco, che più o meno esplicitamente riconoscevano rilevanza alla previsione del danno e della possibilità di danno agli interessi tutelati dalla veridicità e integrità del documento. Cfr. Cass., 20 febbraio 1933, in Giust. pen., 1933, II, 517; Id., 26 gennaio 1934, ivi, II, 992, n. 12; Id., 1º novembre 1937, ivi, 1938, II, 1374, n. 999. Più recentemente, invece, è possibile richiamare Cass., 24 marzo 1982, Stornelli, in Foro it., Rep. 1983, voce Falsità in atti, n. 99; Id., 17 ottobre 1985, Argentino, ivi, Rep. 1986, voce cit., n. 10. Le decisione che più sembra avere preso le mosse dalle critiche dottrinali alla concezione del dolo come mera coscienza e volontà dell’immutatio veri, è Cass., sez. V, 3 luglio 1984, Morellato, in Giust. pen., 1984, II, 548 (con le note adesive di U. Dinacci, Realismo e concretezza, cit., e di T. Galiani, Brevi considerazioni, cit.), secondo cui il falso documentale, se inteso nel suo contenuto reale, non consiste nella mera immutatio veri, richiedendosi – sulla base del principio costituzionale di tipicità delle condotte – «l’offesa d’una data situazione probatoria di un soggetto giuridico». Sembrano aderire all’impostazione in oggetto anche Cass., 10 novembre 1994, Marrari, in Foro it., Rep. 1994, voce Falsità in atti, n. 10; e Trib. Lecce, 15 novembre 1989, ivi, 1990, II, 234. Per alcune decisioni, non in tema di falso, che comunque riconoscono l’offesa al bene giuridico come componente intellettiva ineliminabile dell’oggetto del dolo, si veda Cass., 28 ottobre 1978, in Cass. pen. Mass., 1979, 320; App. Catania, 24 aprile 1981, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 788, con nota di E. Musco, Coscienza dell’illecito, colpevolezza ed irretroattività. STUDI E RASSEGNE 111 responsabilità penale, che, quindi, non può prescindere dalla consapevolezza di offendere il bene giuridico. In caso contrario, la personalità della responsabilità penale resterebbe una mera petizione di principio, capace di essere nei fatti superata da un freddo concetto dell’elemento soggettivo prettamente logico-formale, frutto di un autoritarismo ormai inconciliabile con i nostri principi costituzionali (54). È ovvio, poi, che in tale contesto assume rilevanza fondamentale la funzione che la Costituzione attribuisce alla pena. Senza coscienza del disvalore della condotta, avrebbe poco senso parlare di risocializzazione. I princı̀pi dello stato di diritto (artt. 2, 3 co. 1, 19 e 21 Cost.) volti a garantire la dignità e l’autonomia dell’uomo, e quelli dello stato sociale (artt. 3 co. 2, 4 e 34 Cost), improntati allo sviluppo della personalità in prospettiva solidaristica, impongono ex art. 27 co. 3 Cost. la rieducazione, intesa come recupero sociale, ossia un processo volto alla integrazione e all’orientamento del reo verso un’esistenza rispettosa di quella altrui. Se da un lato è la risocializzazione il risultato cui la pena deve costituzionalmente tendere, dall’altro la non-desocializzazione è l’aspirazione minima ed imprescindibile alla quale la sanzione penale non può assolutamente abdicare (55). Posto ciò, è chiaro che la mancata comprensione dell’offesa renderebbe la pena uno strumento inutilmente afflittivo applicato nei confronti di un soggetto che non necessiterebbe di integrazione sociale e che verrebbe esposto ad una sicura desocializzazione. Da qui la funzione garantistica svolta dalla colpevolezza come limite all’intervento punitivo dello Stato e la necessità che le sanzioni vengano avvertite come ‘‘giuste’’ onde evitare effetti desocializzanti (56). 4. Il dolo eventuale nei reati di falso. A questo punto è necessario tirare le fila del discorso e verificare la compatibilità del dolo eventuale con i reati di falso, tenendo presente che, da un lato, l’accertamento dell’elemento psicologico non può prescindere da un contegno volitivo (57) che abbia dignità paragonabile a quella della rappresentazione e, dall’altro, che oggetto di questo riscontro deve es- (54) In questo senso si veda U. Dinacci, Realismo e concretezza, cit., 559 ss. (55) Sul punto si veda l’illuminante teoria della pena di S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992, p. 109 ss., passim, che, attraverso un’elaborazione eclettica costruita su basi eminentemente normative, individua la funzione della sanzione penale, appunto, nell’integrazione sociale del reo. (56) Ivi, p. 88 ss. (57) In questi termini, oltre le indicazioni bibliografiche citate in precedenza, si veda anche F. Bricola, Dolus, cit., p. 27 ss. e in particolare nota 45, il quale afferma, appunto, che sono destinati a fallire tutti quei tentativi di ridurre il dolo a puro fenomeno intellettivo. 112 STUDI E RASSEGNE sere non solo la mera condotta dell’immutatio veri, ma anche il fatto tipico comprensivo dell’offesa al bene giuridico (58). Il dolo eventuale, s’è già detto, presuppone per un verso che l’evento non sia voluto come scopo precipuo della condotta, dall’altro che lo stesso evento si sia però rappresentato come possibile all’agente, il quale, utilizzando l’espressione che oggi riscuote più successo, ne abbia accettato il rischio. Attribuendo all’evento il senso di risultato ‘‘significativo’’, ossia, in altri termini, di fatto tipico, e aderendo alla già richiamata teoria secondo cui l’offesa è elemento della tipicità, si può giungere ad un’altra, parziale, conclusione: nei reati di mera condotta e segnatamente nei reati di falso ideologico, la possibilità di verificazione dell’evento deve essere riferita non tanto alla condotta materiale dell’immutatio veri, bensı̀ all’offesa al bene giuridico. Cosı̀ ricostruiti struttura e oggetto del dolo eventuale nei reati di falso ideologico, si può aggiungere che, nei casi più ricorrenti di dolo eventuale, all’evento preso di mira direttamente e oggetto del dolo intenzionale, se ne aggiunge un altro, la cui realizzazione è solo possibile, che rappresenta il contenuto del dolo eventuale. Nei reati di falso, invece, in genere è preclusa la realizzazione di una pluralità di eventi penalmente significativi, poiché il documento o è falso o è vero, tertium non datur. Tra vero e falso si potrà solamente annidare una posizione di dubbio, ma intimamente soggettiva, nel senso che l’agente non è in grado di stabilire se quanto afferma nel documento è vero o falso, a prescindere però dal fatto oggettivo che comunque esiste e che è solo oscuro all’agente. Ed è proprio in questa posizione di dubbio che si può rinvenire il dolo eventuale nei reati di falso. Si faccia il caso dell’autentica notarile la cui efficacia probatoria concerne non soltanto la comparizione personale del sottoscrittore e l’apposizione della firma in presenza del pubblico ufficiale, ma anche la identificazione della parte nei modi prescritti dalla legge. Se il notaio è certo che colui che compare innanzi a lui è persona diversa da quella che risulta dall’autentica, è ovvio che vi sarà dolo diretto. Potrebbe però avvenire che il pubblico ufficiale non sia certo dell’identità personale della parte, per esempio perché non ha compiuto l’identificazione nei modi imposti dalla legge, ma confidi nel fatto che le generalità declinate dal comparente siano quelle vere. Bene, (58) Per una ricostruzione dell’oggetto del dolo volta a recuperare lo ‘‘sfondo di valori’’ sottostante ai reati di falso, ossia ad evitare una eccessiva formalizzazione degli stessi e quindi un soverchio e incostituzionale impoverimento dell’elemento psicologico, si veda A. Sereni, Il dolo nelle falsità documentali, in Aa.Vv. Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova, 2001, p. 323 ss., secondo cui «...se si intendesse il dolo di falso come semplice coscienza e volontà di ledere la fede pubblica, verrebbe meno un reale collegamento fra dolo ed evento, come effetto dell’irrilevanza del reale obiettivo verso cui tende la volizione dell’agente [...] Nelle falsità in atti, dunque, il dolo non può non proiettarsi verso il ‘complesso’ degli interessi coinvolti nella situazione concreta del reato». STUDI E RASSEGNE 113 accedendo a quelle teorie di cui s’è riferito, nelle quali si svaluta il momento volitivo del dolo eventuale a favore della mera rappresentazione, si può sostenere che il notaio in questi casi abbia agito con questa forma di dolo. Benché il pubblico ufficiale non avesse alcuna volontà di perpetrare un falso, anzi contasse sulla verità della dichiarazione e comunque non fosse consapevole della falsità, si potrebbe ritenere che, malgrado la previsione dell’evento come possibile, abbia accettato il rischio del suo verificarsi (59). Altro caso potrebbe essere quello di chi compie una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà indicando, per esempio al fine di ottenere delle agevolazioni, un reddito che ricorda essere quello proprio anche non avendolo verificato, quindi col dubbio che la somma possa non corrispondere a quella vera. In questi casi si potrebbe provare ad applicare la già ricordata c.d. formula di Frank. Se il giudice arriva alla conclusione che l’agente, qualora fosse stato certo della falsità dell’identità personale o del reddito dichiarato, avrebbe agito ugualmente, allora vi sarebbe dolo eventuale, in caso contrario ricorrerebbe solo la colpa cosciente. Le critiche mosse a (59) Per un caso simile si rinviene un risalente precedente, Trib. Roma, 12 ottobre 1966, in Arch. pen., 1968, II, p. 64 ss. «La responsabilità del Notaio deve essere invece dichiarata nelle ipotesi in cui, pur avendo seri sospetti sull’identità della parte, ometta di accertarne la vera identità: in tale caso il professionista deve esser ritenuto responsabile secondo la teoria del dolo eventuale, poiché ha appunto accettato l’eventualità di attestare cosa non vera, violando al tempo stesso uno specifico obbligo professionale». Si veda pure Cass., sez. III, 6 aprile 1957, in Riv. dir. proc., 1957, p. 169 ss., ove si afferma la responsabilità del notaio pur non qualificando l’elemento soggettivo come dolo eventuale. Sono orientati per la sussistenza del dolo eventuale, pur se con affermazioni incidentali, F. Cordero, Appunti, cit., c. 21; G. Palermo, Falsa attestazione di identità personale. Note a margine degli articoli 49 e 51 della legge notarile, in Riv. not., 1976, fasc. 2, pt. 1, p. 496 ss.; S. Tondo, Accertamento della identità delle parti nell’atto notarile, in Riv. not., 1978, fasc. 1-2, pt. 1, p. 57; R. Rampioni, Falsità in atti ed attestazione notarile di certezza dell’identità personale dei comparenti, in Cass. pen.., 1981, p. 1789. In senso critico si veda F. Carnelutti, Falso del notaro per errata attestazione di certezza dell’identità del dichiarante, in Riv. dir. proc., 1959, pp. 169 ss.; F. Antonioni, Identificazione delle parti e falso ideologico in atto notarile, in Arch. pen., 1962, I, p. 3 ss. Secondo F. Ramacci, Attività notarile e falsità ideologiche, in Riv. not., 1983, fasc. 3, pt. 1, p. 425 ss., invece, in questi casi il dolo eventuale è difficilmente configurabile poiché, non potendo il notaio rifiutarsi di compiere l’atto se non in casi estremi, nel dubbio deve riconoscersi larga operatività all’errore scusabile, che andrà invece escluso solo quando il notaio abbia avuto fondati motivi di sospetto tali da legittimare l’astensione dal compimento dell’atto. In argomento si veda pure G. Santucci, Il dolo nel falso in atto pubbico, in Riv. not., 1953, p. 458 ss.; R. La Porta, Art. 49 della legge notarile e falso ideologico, in Giust. pen., 1958, II, 626 ss.; G. Gianfelice, Il falso ideologico in relazione all’atto notarile, in Riv. not., 1959, p. 473 ss.; M. Strina, Falso ideologico e dichiarazione di certezza del notaio circa l’identità personale delle parti, in Riv. not., 1959, p. 749 ss.; G. Bettiol, Ancora in tema di falsità ideologica, in Arch. pen., 1961, I, p. 245 ss.; G. Vecchio, Ancora sui contenuti dell’accertamento dell’identità personale delle parti compiuto dal notaio, in Vita not., 1993, fasc. 1, pt. 1, p. 151 ss.; V. Pacileo, Falso ideologico del notaio per attestazione di certezza di identità personale basata su documento di identità: un mito punitivo da sfatare (del tutto?), in Cass. pen., 2001, 5, p. 1638 ss. 114 STUDI E RASSEGNE questo schema ipotetico, d’altronde, diventano meglio comprensibili se applicate a casi concreti. Da un lato, infatti, sotto il profilo probatorio ci si può domandare come potrebbe il giudice accertare che l’agente avrebbe tenuto ugualmente la condotta. Il tutto si ridurrebbe ad un’indagine che forse darebbe meno garanzie della stessa presunzione. Ma, a monte, è lo stesso ragionamento ipotetico di per sé considerato che solleva ancora maggiori perplessità. Il giudice, invero, dovrebbe pervenire ad un giudizio di condanna sulla base di ciò che l’agente avrebbe fatto in relazione a circostanze solamente congetturate, e non sulla scorta di ciò che effettivamente è rilevante, ossia la concreta condotta tenuta dall’agente in relazione alla situazione che realmente si è posta ai suoi occhi all’atto della decisione. Onde configurare il dolo eventuale nei casi prima descritti, quindi, sembra più corretto avvalersi della teoria dell’accettazione del rischio, in quella versione secondo cui, posto che anche nella colpa cosciente esiste una forma di accettazione del rischio, nel dolo eventuale questa accettazione ha una diversa fisionomia, più pregnante, diretta ad accostarsi il più possibile alla volizione. L’accettazione, nel dolo eventuale, deve essere il frutto di un’attenta valutazione degli interessi, il costo dell’ottenimento di un certo risultato intenzionalmente perseguito. L’accettazione propria della colpa cosciente, invece, è il frutto di un atteggiamento negligente, superficiale, avventato (60). Alla luce di quest’impostazione, i casi di falso in questione non è detto che debbano essere risolti inevitabilmente a favore dell’esistenza del dolo eventuale, poiché se il documento, pur se oggettivamente falso, è stato formato con negligenza o imperizia o leggerezza, difficilmente allora si potrà giungere alla condanna. Anzi, la tendenza interpretativa dovrebbe essere restrittiva per il dolo eventuale, cercando di limitarlo ai casi più gravi in cui l’accettazione è tale da implicare ineluttabilmente la volizione; ciò al fine di uniformarsi il più possibile alla lettera del codice e alla volontà del legislatore e, cosı̀, evitare pericolose e non consentite interpretazioni di fatto analogiche. Ritenere in astratto compatibile, sia pur con le precisazioni prima viste, il dolo eventuale con i reati di falso ideologico, non significa però che l’affermazione valga per ogni tipo di (paventato) falso in concreto. E veniamo al caso esemplificativo riassunto nel primo paragrafo. Il Tribunale ha ritenuto il notaio responsabile a titolo di dolo eventuale per accettazione del rischio. In primo luogo una osservazione viene subito in rilievo. Il giudice ha ritenuto che il notaio sia incorso in un «equivoco», per cui «la conclusione alla quale è giunto [...] si profila non corretta», riferendosi con ciò all’interpretazione della questione extrapenale. Bene, è palese che i concetti di equivoco e di conclusione non corretta rappresentano una situazione (60) Cfr. S. Prosdocimi, Reato doloso, cit., p. 244. STUDI E RASSEGNE 115 psicologica di errore, magari dipendente pure da negligenza o imperizia, ma che per definizione esclude il dolo anche nella forma eventuale. Tralasciando questo aspetto, sul quale si ritornerà in seguito, il giudice ha omesso di verificare se la paventata accettazione del rischio fosse il prezzo del raggiungimento di uno specifico risultato intenzionalmente perseguito e non, invece, il frutto di una condotta meramente negligente. Cosı̀ facendo ha accorpato nel dolo eventuale anche condotte caratterizzate dalla semplice colpa con previsione e, quindi, ha fondato la categoria del dolo eventuale sul solo elemento rappresentativo a scapito della componente volitiva indispensabile secondo l’art. 43 c.p. Rimanendo al caso esemplificativo, inoltre, la compatibilità astratta tra dolo eventuale e falso ideologico sembra mancare. Il dubbio che caratterizza, come s’è visto, questa forma di elemento soggettivo, non può che essere riferito ad un fatto oggettivamente considerato. Negli esempi poc’anzi enucleati, infatti, l’incertezza era riferita all’identità personale o al reddito, ossia a dati che hanno una consistenza obiettiva e che, perciò, sono suscettibili di essere veri o falsi. Il notaio era solamente incerto sull’identità del comparente, identità che, del resto, è una realtà suscettibile di accertamento oggettivo (61). In questi termini, ossia in ipotesi di contrapponibilità tra vero e falso, il falso è compatibile con l’accettazione del rischio. Il dolo eventuale, infatti, presuppone ontologicamente un concetto di possibilità/probabilità (62), che si può applicare all’antitesi vero/falso. Questo schema, però, è difficilmente adattabile all’altra antitesi corretto/errato. Quest’ultima, invero, non presuppone dati oggettivi concretamente verificabili e riconoscibili da tutti, bensı̀ un ragionamento, spesso interpretativo, che può appunto essere secondo alcuni corretto e secondo altri no. Oggetto delle due dicotomie, quindi, sono da un lato una realtà oggettiva, dall’altro un’entità psicologica, perciò eminentemente soggettiva. A questo punto è chiaro che potrà esistere la probabilità dell’oggettivamente falso; molto più problematica, invece, sarebbe la possibilità del soggettivamente errato, soprattutto se suscettibile di acquisire rilevanza penale attraverso il diverso giudizio di un altro individuo. Queste considerazioni richiamano la contrapposizione tra la dichiara- (61) Sulla necessità che nei reati di falso ideologico l’accertamento cada su dati oggettivi si veda F. Carnelutti, Falso del notaro, cit., p. 170; G. Palermo, Falsa attestazione, cit., p. 496; F. Antonioni, Identificazione, cit., p. 8 ss. (62) Concetto che ovviamente non vale a distinguere, in base alla maggiore o minore possibilità/probabilità, il dolo eventuale dalla colpa cosciente, distinzione che rimarrebbe su un piano meramente quantitativo, mentre è chiaro che le due forme d’imputazione soggettiva si distinguono qualitativamente non essendo riducibili ad un concetto unitario; cfr. M. Gallo, Dolo, cit., p. 791. 116 STUDI E RASSEGNE zione di scienza e l’espressione di un giudizio, o meglio tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Questa distinzione vale ad escludere la configurabilità dei reati di falso ideologico quando oggetto della dichiarazioni sia un giudizio di valore. Anche la giurisprudenza è prevalentemente orientata in questo senso (63). Le ragioni di questa impostazione risiedono su considerazioni di ordine filosofico, in quanto le dichiarazioni di scienza hanno ad oggetto dati di fatto obiettivamente accertabili e quindi sono suscettibili di essere vere o false; le dichiarazioni di giudizio, invece, si riferiscono a dati privi di univoco significato, sono il frutto di una valutazione per definizione soggettiva e, quindi, inidonea ad essere verificata con lo schema del vero/falso, ma, semmai, con l’altro modello corretto/errato (64). Ne discende l’impossibilità di ‘‘verificare’’ il giudizio, ossia di controllare se le affermazioni contenute nell’atto siano il frutto delle convinzioni del redattore, oppure siano il risultato di un atteggiamento malizioso(65). In realtà, non esiste asserzione, anche la più ovvia e la più banale che sia, nella quale non sia implicito un giudizio. Nondimeno, resta valida, al- (63) Si ritiene che i delitti di falsità ideologica debbano avere ad oggetto la falsa attestazione di fatti e non anche di semplici giudizi o dichiarazioni di volontà. Cfr. Cass., sez. V, 15 giugno 1982, Marasca; Id., sez. V, 27 gennaio 1983, Giannelli; Id., sez. V, 9 luglio 1987, Maggisano; Id., sez. II, 18 aprile 1989, Potestio. «Integrano gli estremi della falsità ideologica soltanto le false (o le omesse) attestazioni del pubblico ufficiale che abbiano ad oggetto fatti da lui compiuti o caduti sotto la sua diretta e personale percezione. Restano, pertanto, al di fuori della fattispecie criminosa di cui all’art. 479 c.p. tutte le manifestazioni di giudizio, a condizione, però, che esse non richiamino espressamente o non postulino, implicitamente ma in modo univoco, attività che si assume essere state realizzate dal pubblico ufficiale che procede alla formazione dell’atto pubblico». Cfr. Cass., sez. VI, 18 marzo 1992, Francia e altro, in Giust. pen., 1993, II, 44 ss. Sulla distinzione si veda pure Cass., sez. I, 18 gennaio 1995, n. 2207, in Juris data, 2.2007, secondo cui «i certificati sono atti che, pur provenendo da pubblici funzionari e pur essendo anch’essi destinati alla prova, o hanno natura di documenti ‘‘secondari’’ o ‘‘derivati’’, perché contengono dichiarazioni di scienza (cioè l’attestazione di fatti e dati che sono noti al pubblico ufficiale perché provengono da altri documenti ufficiali o dalle sue conoscenze anche tecniche), ovvero implicano giudizi e valutazioni che, come tali, non possono essere oggetto di documentazione fidefacente». (64) Il concetto di falso, in realtà, essendo definibile solo per negazione rispetto al vero, presuppone la risoluzione di una delle questioni storiche della filosofia, ossia quella della definizione di ciò che può considerarsi ‘‘verità’’. Sul piano giuridico, del resto, almeno in prima analisi può essere superata la problematica dell’individuazione di un criterio di verità implicante una scelta teorica sul problema della conoscenza. La verità può essere definita perciò, a prescindere dal modo in cui i fatti vengono conosciuti, come la corrispondenza di un enunciato costatativo o descrittivo ad un fatto. Gli elementi da porre a raffronto sono quindi, da un lato, il fatto, e, dall’altro, la rappresentazione che se ne dà mediante l’enunciato descrittivo. In tema si veda A. Nappi, Autore mediato e falsità in atto pubblico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, p. 337 ss. (65) Su questi temi si veda F. Ramacci, La falsità ideologica nel sistema del falso documentale, Napoli, 1965, p. 44 ss. che, del resto, ad alcuni giudizi riconosce la capacità di essere controllati nella stessa misura delle dichiarazioni di scienza. STUDI E RASSEGNE 117 meno nei termini che qui interessano, la tesi secondo cui solo gli enunciati constatativi o descrittivi possono presentarsi come veri o falsi (66). Esiste poi altro orientamento che tende a conferire rilevanza al falso ideologico anche quando abbia ad oggetto delle valutazioni, però, da svolgere secondo parametri «normativamente determinati o tecnicamente indiscussi» (67). Secondo questa tesi, quando la valutazione è rigidamente vincolata da inconfutabili criteri normativi, allora anche gli enunciati valutativi possono assolvere una funzione informativa e, perciò, possono essere veri o falsi. D’altronde, è ovvio che il modello vero/falso, pur volendo accogliere questa tesi, potrà applicarsi solamente quando i parametri normativi siano incontrovertibili. Se questi, viceversa, sono dotati di una pur minima duttilità, allora lo schema da adottare non potrà che essere quello del corretto/ errato (68). Questi concetti valgono in primo luogo per la configurabilità oggettiva del falso ideologico, ma hanno un’immediata ricaduta anche sull’elemento soggettivo e, per quello che più qui interessa, sul dolo eventuale. Ritornando al caso di specie, è evidente che il notaio e il giudice hanno dato una diversa interpretazione della questione extrapenale. È poi al- (66) Sulla compatibilità del modello vero/falso con gli enunciati constatativi e con quelli valutativi, si veda G. Tarello, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974, p. 207 ss.; J.R. Searle, Atti linguistici: saggio di filosofia del linguaggio, Torino, 1976, p. 340 ss.; E. Riondato, Ricerche di filosofia morale, II, Padova, 1978, p. 271 ss. (67) Cfr. Cass., sez. V, 9 febbraio 1999, n. 3552, rel. Nappi, Andronico e altro, in Riv. pen., 1999, 464 ss., oppure in Cass. pen., 2000, p. 377 ss., con nota critica di M. Angelini, Sulla falsità ideologica nei pareri rilasciati dalla commissione medica dell’Inail, ivi, p. 2266 ss. Nello stesso senso si veda A. Nappi, Falso, cit., p. 9 ss. (68) È interessante riportare un passo della sentenza citata nella nota precedente: «Un’ulteriore possibile complicazione del problema deriva, d’altro canto, dal fatto che gli enunciati valutativi vengono sovente posti a conclusione di argomentazioni intese a esibirne una ragionevole giustificazione. Un argomento è costituito, infatti, da un gruppo di proposizioni di cui una sia supposta conseguire dalle altre: le prime due proposizioni sono dette premesse, la terza conclusione. Un argomento non può essere vero o falso, ma solo valido o invalido, migliore o peggiore. Vere o false possono essere, invece, tutte le proposizioni che lo compongono. Mentre, però, la falsità o la verità delle premesse e la validità o l’invalidità dell’argomento sono rispettivamente indipendenti (si possono avere argomenti validi con premesse false e argomenti invalidi con premesse vere), l’eventuale falsità della conclusione dipende o dalla falsità di una delle premesse o dall’invalidità dell’argomento. Ciò significa che, riducendosi la falsità della conclusione o alla falsità di una delle premesse o alla invalidità dell’argomento, quando ci troviamo in presenza di un gruppo di proposizioni delle quali una sia in funzione di conclusione, noi diciamo che vi è un falso se la falsità delle conclusioni dipende dalla falsità delle premesse, mentre diciamo che vi è un errore se la falsità delle conclusioni dipende dalla invalidità dell’argomento. In questi stessi limiti può, quindi, dirsi falso anche l’enunciato valutativo che sia posto a conclusione di un argomento: esso è un enunciato falso, se sono false le premesse dalle quali è desunto; è una valutazione errata se la sua inattendibilità dipende solo dall’invalidità dell’argomento». 118 STUDI E RASSEGNE trettanto evidente che, pur volendo accedere alla tesi secondo cui anche gli enunciati valutativi possono essere veri o falsi, nel caso concreto non esistevano i parametri normativi incontrovertibili presupposto necessario per trasformare, se cosı̀ si può dire, un giudizio di valore in una dichiarazione di conoscenza. La fluidità della complessa normativa che regola la trascrizione del legato e della denuncia di successione, e il dato oggettivo, accertato dallo stesso giudice, secondo cui nei registri effettivamente non v’era traccia della trascrizione dell’acquisto del legato, fanno chiaramente ritenere che l’addebito mosso nei confronti del notaio è stato quello di non aver desunto implicitamente dai registri immobiliari un dato oggettivamente non presente, contravvenendo cosı̀ non a parametri incontrovertibili, bensı̀ ad una ricostruzione ermeneutica postuma della normativa compiuta dal giudice penale, che rimane pur sempre frutto di valutazioni eminentemente soggettive che, alla fine, si pongono nei confronti dell’affermazione del notaio secondo il modello del corretto/errato e non del vero/falso. Posto ciò, se da un lato può dirsi che in questi casi la fattispecie non è integrata dal punto di vista oggettivo, si può aggiungere che non sarebbe neanche possibile il dolo eventuale che, come s’è detto, presuppone il concetto di possibilità/probabilità della verificazione dell’evento, concetto che non può non avere a riferimento sempre dati oggettivi, verificabili, e non interpretazioni corrette o errate, anche perché, rimanendo al caso di specie, l’art. 480 c.p. incrimina l’attestare falsamente ‘‘fatti’’, non valutazioni. La dicotomia, oggettiva, vero/falso non contempla altre situazioni intermedie: come s’è già detto tertium non datur. La dicotomia, soggettiva, corretto/errato, invece, per definizione può dar vita ad un’infinita serie di soluzioni che possono essere giuste o sbagliate. Perciò, ammettere che il modello corretto/errato sia compatibile con il concetto di probabilità che caratterizza il dolo eventuale, significherebbe introdurre la nuova categoria della ‘‘probabilità’’ della ‘‘possibilità’’, con un’inverosimile dilatazione a dismisura del penalmente rilevante. In questi casi l’evento non sarebbe rappresentato da un dato obiettivamente accertabile, bensı̀ dalla diversa interpretazione della vicenda data dal giudice e dal discostarsi della condotta dell’agente da quella particolare sfera del ‘‘doveroso’’ individuata sempre dal giudice. Arrivati a questo punto è evidente l’erosione del principio dell’effettiva indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente a favore della ricostruzione in chiave normativa anche del dolo, con un metodo mutuato dalla colpa. Posto pure che l’interpretazione data dal Tribunale alla questione extrapenale sia quella ‘‘corretta’’, si tende a porre a confronto il modello astratto di comportamento reputato doveroso, con quello concreto tenuto dall’agente, e dalla relativa discrasia si desume il dolo, addirittura nella problematica forma eventuale. Per questa via si giunge ad una presunzione di dolo, ossia ad una forma surrettizia del deprecato dolus in re ipsa inaccet- STUDI E RASSEGNE 119 tabile nel nostro ordinamento, come s’è detto in precedenza (69). Si confonde il dolo, che necessita di una puntuale e concreta analisi dell’effettivo stato psicologico dell’agente, con la colpa, che invece ha natura tipicamente normativa e che può essere dedotta dalla mera inosservanza di regole astratte. Il rimprovero che muove il giudice, alla fine, consiste nella constatazione che il notaio ha errato nell’interpretazione dell’articolata disciplina della trascrizione nei registri immobiliari. E ascrivendo ciò a titolo di dolo eventuale conferma il convincimento che l’addebito sia proprio l’errore interpretativo e non altro. Nel ragionamento del giudice, infatti, sostenere che il notaio «risulta aver accettato il rischio che quanto avesse affermato non fosse corrispondente al vero» – non potendosi riferire il rischio di specie, come già detto, ad un dato oggettivamente accertabile come vero o falso, bensı̀ ad una condivisibile o meno interpretazione –, equivale a dire che il pubblico ufficiale ha errato nell’intendere la norma extrapenale. Il dubbio che caratterizza il dolo eventuale, perciò, nel caso di specie è un dubbio ermeneutico. Si assiste al salto (il)logico dall’evento oggettivamente considerato, all’innovativa categoria dell’evento ‘‘interpretativo’’. Tutto ciò si inserisce in quella preoccupante tendenza a detrimento della sfera della colpa a vantaggio di quella del dolo(70). Nel caso di specie il giudice in buona sostanza rimprovera al notaio di non aver tenuto un comportamento sufficientemente diligente – quindi situazione che rientra pacificamente nella colpa – e ciononostante qualifica il contegno interiore come dolo eventuale. Questo tipo di imputazione soggettiva, come visto in precedenza, necessita perlomeno della consapevolezza effettiva di realizzare l’evento ‘‘significativo’’, e in più della volizione del nocumento al bene giuridico che la norma incriminatrice tutela. L’accertamento del dolo, perciò, va pur sempre condotto sulla ‘‘realtà psicologica’’, e non può essere ridotto a valutazioni meramente normative. La ‘‘deriva’’ normativa del dolo dipende anche dall’accentramento che in molte ricostruzioni del dolo eventuale si compie sull’elemento rappresentativo a scapito di quello volitivo. Da un lato il prevalere del dato normativo su quello psicologico, dall’altro l’incentrare l’analisi prevalentemente sulla rappresentazione, tenendo in non cale l’effettiva volontà dell’agente, costituiscono un inquietante connubio in grado di trasformare in doloso un atteggiamento meramente colposo. Questo scivolamento del dolo verso la colpa mostra la sua massima (69) In questi termini lo stesso concetto di rischio, e la relativa accettazione, possono nascondere forme di colpa. Il rischiare, infatti, potrebbe essere il sintomo più di condotte imprudenti o temerarie e non della volizione dell’evento. Cfr. G. Forte, Ai confini, cit. p. 252 ss. (70) Sulla contaminazione, nella prassi applicativa, del dolo con la colpa nei reati di falso, anche in relazione all’individuazione del bene giuridico, si veda A. Sereni, Il dolo, cit., p. 318 ss. 120 STUDI E RASSEGNE gravità proprio nei casi come quello dei reati di falso, ove qualificare un contegno doloso anziché colposo significa attribuire rilevanza penale ad una condotta che altrimenti non la possiederebbe, con un’allarmante espansione dell’intervento penale secondo malintese esigenze di politica criminale. L’argine a questa situazione può essere recuperato solo attraverso una netta distinzione ‘‘genetica’’ tra dolo e colpa. La colpa è contrassegnata da un giudizio normativo che il giudice deve compiere sul livello minimo di ‘‘diligenza’’ che l’agente deve tenere. Il dolo, anche quello eventuale, si sostanzia invece in uno stato psicologico effettivo ed empirico, costituito dalla rappresentazione e soprattutto dalla volizione del fatto tipico, elemento qualificante e differenziante dalla colpa. Le generalizzazioni che pur vengono utilizzate nel dolo, dunque, non appartengono alla struttura dello stesso, ma sono solamente il frutto delle esigenze relative al suo accertamento (71). 5. L’errore su norma extrapenale e il falso ideologico. Rimanendo al caso esemplificativo in questione, a questo punto è lampante che il ragionamento posto dal giudice a fondamento della sentenza non può che ridursi ed essere inquadrato più correttamente nel fenomeno dell’errore su norma extrapenale. Naturalmente non è còmpito di questo lavoro vagliare se effettivamente vi sia stato questo errore da parte del notaio; nell’economia delle nostre argomentazioni è invece necessario dare per presupposto detto errore. Interessa, però, verificarne l’incidenza sull’elemento psicologico del reato. È noto, infatti, che l’esistenza di un errore sul fatto determina l’assenza di colpevolezza, che, perciò, viene meno ogni qual volta la condotta sia stata animata da una errata percezione dell’empirica realtà esterna o anche della realtà normativa extrapenale. In particolare nel falso ideologico, qualora oggettivamente lo stesso esista, il necessario elemento soggettivo verrà a mancare se l’agente non si sia rappresentato il fatto di compiere detto falso. Per questa via emerge in tutti i suoi contrasti la questione interpretativa relativa all’ultimo comma dell’art. 47 c.p., il quale estende l’esclusione della punibilità anche all’errore su una legge diversa da quella penale, a condizione però che questo abbia cagionato un errore sul fatto costituente reato (72). È questa l’ipotesi in cui la legge penale, per delineare la fatti- (71) Su questi temi, nel senso qui affermato, si veda L. Eusebi, In tema di accertamento del dolo: confusione tra dolo e colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 1060, passim. (72) In questa sede è necessario circoscrivere il discorso alla questione dell’errore su norma extrapenale, e non è possibile estenderlo alle pur motivate osservazioni secondo cui il dolo non sussiste neanche qualora l’agente davvero erri sulla norma penale, in quanto STUDI E RASSEGNE 121 specie, si avvale di una qualificazione giuridica, ossia degli elementi normativi. Questi, contrapposti a quelli descrittivi che traggono il loro valore dalla realtà empirica, per individuare la condotta si avvalgono di significati contenuti in altre norme. In sostanza, per comprendere il senso dell’elemento normativo, è indispensabile cogliere il significato di un’altra norma diversa da quella penale (73). È noto poi che è estremamente riduttiva, se non di fatto abrogativa, l’interpretazione giurisprudenziale data all’ultimo comma dell’art. 47 c.p., in quanto errore su legge diversa da quella penale, idoneo ad escludere la punibilità, è inteso solo quello che interessa una norma destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamata né esplicitamente né implicitamente dalla norma penale. Non è perciò scusabile, sempre secondo la giurisprudenza, l’errore che incide su precetti e termini di altre branche del diritto, introdotti a integrazione della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del comando penale (74). Questo orientamento – probabilmente determinato dalle preoccupazioni delle possibili conseguenze della trasformazioni di tutti gli errori su norma extrapenale in causa di esclusione della punibilità – discerne due categorie tra le norme richiamate dalla legge penale. Una composta da leggi che conservano la loro autonomia di norme extrapenali; l’altra formata da leggi originariamente extrapenali, ma che si fondono nella norma penale formando un tutt’uno con essa. Solo nella prima ipotesi, però, si potrebbe applicare l’art. 47, co. 3, c.p. e ritenere cosı̀ l’errore fonte di non punibilità. Nella seconda, viceversa, l’errore sarebbe equiparato a quello sulla norma penale e quindi avrebbe il solo ridotto rilievo riconosciuto a seguito dell’intervento della Corte costituzionale sull’art. 5 c.p. (75). comunque in questi casi non si intende arrecare alcuna offesa antigiuridica. In tema si veda L. Eusebi, Il dolo, cit. p. 1079 ss. (73) Per la distinzione tra normazione descrittiva e sintetica attraverso l’uso, rispettivamente, degli elementi descrittivi e di quelli normativi, nella manualistica si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 71 ss. (74) Cfr. Cass., sez. II, 22 ottobre 1993, Lunari, in Cass. pen., 1996, 1419; Cass., sez. III, 19 aprile 1994, Del Monte, in Mass. pen. cass., 1994, fasc. 8, 130; Cass., sez. VI, 3 giugno 1994, Filippelli, in Cass. pen. 1996, p. 3320; Cass., sez. VI, 3 ottobre 1996, n. 10020, Provisani e altro, in Giust. pen., 1997, II, 601; Cass., sez. VI, 6 dicembre 1996, n. 1632, in Juris data, n. 2.2007; Cass., sez. V, 11 gennaio 2000, n. 2174, in Juris data, n. 2.2007. (75) Altro discorso deve farsi in relazione alla disposizione di cui all’art. 15 del D.Lgs. n. 74/2000 (e, prima ancora, all’art. 8 della L. n. 516/1982), in tema di errore di diritto sulle leggi tributarie. La norma oggi vigente, infatti, salvi i casi in cui la punibilità sia esclusa a mente dell’art. 47, co. 3, c.p., espressamente sancisce che non danno luogo a fatti punibili le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione. Del resto, se queste obiettive situazioni di incertezza si riferiscono a quelle stesse condizioni c.d. oggettive a fondamento del dictum della 122 STUDI E RASSEGNE La letteratura penalistica è invece di tutt’altro avviso, ritenendo che il predetto distinguo tra norme extrapenali sia completamente arbitrario (76). È questo uno dei casi in cui le discrasie tra dottrina e giurisprudenza hanno raggiunto le forme più integrali. Infatti, se da un lato le tesi scientifiche non sono concordi nell’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p., dall’altro su un punto convergono: è priva di qualsiasi fondamento la distinzione tra gli effetti dell’errore su norma extrapenale a seconda della natura integrativa o meno della stessa. Come s’è anticipato, del resto, in dottrina esistono posizioni eterogenee (77). Autorevole tesi reputa, a monte, logicamente insostenibile la stessa distinzione tra norme che integrano e norme che non integrano la legge penale. Delle due, l’una: o nessuna delle norme richiamate fa corpo con quella penale, o, all’opposto, tutte le norme alle quali le norme incriminatrici rinviano devono formare con esse un tutt’uno. Nella stessa casistica ricavabile dalla giurisprudenza non si rinviene alcun significativo elemento che possa giustificare la distinzione concettuale tra le due ipotesi (78). In definitiva secondo questa teoria la norma extrapenale, se da nota sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, allora la lettera della predetta norma si conforma integralmente alla disciplina generale del codice con la riproposizione, in chiave legislativa, del principio sancito dalla citata sentenza in tema di ignoranza inevitabile. Posto ciò, anche il tema dell’errore su norma extrapenale non riceve una diversa disciplina in quanto sarà sempre possibile alla giurisprudenza la rigida applicazione dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. secondo la teoria dell’integrazione. Per un’analisi di questi temi si veda A. Manna, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 140 ss.; I. Caraccioli, La violazione tributaria derivante da palese infondatezza dell’interpretazioni, in Il fisco, n. 5, 2000, p. 1418; F. Carrarini, Le disposizioni comuni ai reati tributari, in Commento al nuovo sistema penale tributario, allegato a Il fisco, n. 14, 2000; G. Izzo, L’errore sul precetto nella riforma dei reati tributari, in Il fisco. n. 14, 2000, p. 4541 ss.; M. Vecchio, Erronea interpretazione della norma tributaria e responsabilità penale, in Il fisco n. 18, 2000, p. 6204 ss.; B. Cartoni, L’errore interpretativo nel nuovo diritto penale tributario, in Il fisco, n. 19, p. 6465 ss.; G. Graziano, L’ignoranza e l’errore nel diritto penale tributario: l’«impatto» della riforma ex D.Lgs. n. 74/2000 sulla «vexata quaestio», in Rass. trib., n. 3, 2002, p. 936 ss. (76) È opportuno precisare che per norma extrapenale si intendono anche quegli elementi normativi qualificati da una norma penale. In tal senso si veda M. Gallo, Dolo, cit., p. 764. Nelle trattazioni manualistiche C. Fiore – S. Fiore, Dritto penale, cit., p. 284; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 345. (77) Tra queste bisogna ricordare anche quella secondo cui l’errore extrapenale alla fine cade sempre sul fatto. Si veda A. Cristiani, Profilo dell’errore su legge extrapenale, Pisa, 1955, p. 60 ss.; A. Pecoraro Albani, Il reato di costruzione edilizia senza licenza, in particolare dell’errore su legge extrapenale, in Riv. giur. ed., 1959, II, 68 ss. (78) Cfr. M. Gallo, Il dolo, oggetto e accertamento, in Studi Urbinati, 1951-52, p. 189 ss; Id., Dolo, cit., p. 760 ss.; G. Delitala, Adempimento di un dovere, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 571 ss.; G. Santucci, Errore (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1959, p. 296 ss.; G. Marinucci, Consuetudine (dir. pen.), in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 503 ss.; D. Pulitanò, Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XX, Milano, STUDI E RASSEGNE 123 un lato conserva pur sempre una propria autonomia nel settore del diritto di provenienza, dall’altro, qualificando la fattispecie penale col suo significato normativo, diviene di questa pur sempre un elemento determinante. La norma extrapenale, quindi, integra sempre quella penale in quanto la descrizione della fattispecie è il frutto della fusione delle due norme. Tale rapporto di incorporazione, perciò, secondo la tesi in argomento, alla fine trasforma sempre l’errore su norma extrapenale in errore sul precetto penale. La notevole portata dell’art. 47, co. 3, allora è quella di «una vera e propria deroga all’art. 5 c.p.» (79), nel senso che l’errore su un elemento normativo esclude la punibilità dell’agente, pur cadendo sul precetto penale (80). Tali conclusioni sono state sottoposte a critica da chi ritiene che nei rapporti tra norme penali ed extrapenali non ricorra necessariamente il fenomeno dell’incorporazione (81). Vi possono essere dei casi in cui la legge diversa da quella penale non sia affatto richiamata da quella incriminatrice. Da questa constatazione discende la necessità di rimeditare il ruolo dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p. Posto che il dolo, per come già detto, presuppone la conoscenza di tutti gli elementi essenziali del ‘‘fatto tipico’’, ne consegue che richiede anche la cognizione di quelle ‘‘qualifiche’’ normative che fanno parte dello stesso fatto, necessarie per la riconducibilità della condotta al modello legale. Il dolo sarà escluso, perciò, quando l’agente è in errore sulle disposizioni extrapenali attributive di dette qualifiche in guisa che non si rappresenti le caratteristiche giuridiche del fatto. Stando cosı̀ le cose, la tesi in argomento ritiene che l’art. 47, co. 3, c.p. non costituisca affatto una deroga al principio espresso dall’art. 5 c.p. (82), bensı̀ un logico corollario dell’elemento soggettivo doloso da accostare alla previsione dell’art. 47, co. 1, in tema di errore di fatto (83). La ratio delle due norme, previste rispettivamente nel 1º e nel 3º comma dell’art. 47 c.p., è perciò la me- 1970, p. 40 ss.; C.F. Grosso, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, p. 177 ss.; A. Pagliaro, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza?, in Aa.Vv., Le discrasie tra la dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, p. 124 ss. (79) Cosı̀ M. Gallo, Dolo, cit., p. 762; in tal senso si veda pure F. Bricola, Dolus, cit., p. 106. n. 115; C.F. Grosso, Errore (Diritto penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1988, p. 5 ss. (80) Le ragioni di questa deroga sono individuate dai sostenitori di questa tesi nella natura marginale e nel minor valore sintomatico e sociale di tali tipi di errore. In tal senso, per tutti, G. Delitala, Adempimento, cit. p. 571. (81) È questa la tesi ad esempio di G. Grasso, Considerazioni in tema di errore su legge extrapenale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, p. 144 ss. Nelle trattazioni manualistiche in tal senso si veda per tutti G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, cit., p. 341 ss. (82) In questo senso si veda pure F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 385 ss.; G. Flora, Errore, in Dig. disc. pen., vol. IV, Torino, 1990, p. 260 ss. (83) La norma contenuta nel terzo comma dell’art. 47 c.p. è considerata una specificazione del concetto di dolo puntualmente formalizzata dal legislatore del codice Rocco, ma 124 STUDI E RASSEGNE desima: in entrambe nella rappresentazione dell’agente manca una componente essenziale della situazione realizzata. L’unica differenza risiede nella fonte dell’errore. La previsione di cui al primo comma trova la sua origine in un errore di fatto relativo alla percezione sensoriale della realtà esterna; quella di cui al terzo comma, invece, ha la sua genesi in un error iuris, ove però è sempre la realtà, sia pur nella sua componente normativa, ad essere mal percepita per un errore di valutazione giuridica. In sostanza, non sono dissimili i contegni psicologici di chi agisce animato da una errata percezione della realtà esterna e di chi agisce spinto da un errata comprensione di una norma extrapenale qualificatrice di un elemento del fatto tipico. In entrambi i casi l’agente non è cosciente di perpetrare oggettivamente un fatto tipico. Anche a causa dell’errore sulla legge extrapenale si erra sul significato di ciò che si compie; proprio per questo l’errore esclude il dolo giacché non si vuole l’evento ‘‘significativo’’ del reato. A differenza dell’errore su norma penale, ove l’agente è pienamente consapevole del significato della sua condotta e ritiene però che non rilevi penalmente, in quello su legge diversa dalla penale il soggetto erra proprio sul contenuto della propria azione (84). Alla fine di questo excursus la conclusione può essere cosı̀ condensata: ogni errore sulla comprensione del significato della condotta deve sottostare alla disciplina dell’art. 47 c.p. Proviamo ora comunque ad applicare le varie teorie al caso esemplificativo. Seguendo l’orientamento giurisprudenziale si dovrebbe preliminarmente capire se tutta la complessa disciplina della trascrizione nei registri che sarebbe discesa ugualmente dalla coerente applicazione dei principi in tema di elemento soggettivo doloso. Sotto la vigenza del codice Zanardelli, infatti, pur in assenza di una previsione analoga a quella dell’art. 47 del codice Rocco, bensı̀ della sola norma che riproduceva il contenuto dell’art. 5 del codice vigente, la dottrina unanimemente riconosceva rilevanza all’errore sul fatto storico determinato da una inesatta conoscenza o falsa rappresentazione di una norma extrapenale. Cfr., per tutti, E. Florian, Trattato di diritto penale. Dei reati e delle pene in genere, Milano, 1928, vol. I, p. 198. (84) Vi possono essere dei casi ove però l’errore sulla legge extrapenale non impedisce la comprensione del significato della condotta, in quanto alla regola giuridica si aggiunge una regola sociale di contenuto analogo che consente di individuare la stessa classe di fatti. «In questi casi, il dolo si accontenterà della parallela conoscenza della valutazione sociale. Allora, un eventuale errore non escluderà il dolo, ma potrà essere valutato, solo se inevitabile, come ignoranza della legge penale (art. 5 c.p.). La distinzione, dunque, non va posta tra norme extrapenali che ‘‘non si incorporano’’ e norme extrapenali che ‘‘si incorporano’’, bensı̀ tra errore che preclude al soggetto la comprensione del (significato del) fatto (questo errore, secondo la terminologia dell’art. 47 u.c., ‘‘ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato’’) ed errore che non preclude al soggetto tale comprensione. Un esempio di questo secondo tipo di errore può essere offerto a proposito del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.): l’errore sull’obbligo di assistenza potrà escludere questo reato solo nel caso, ben difficile da verificarsi, che si tratti di errore inevitabile». Cfr. A. Pagliaro, Dolo ed errore, cit., p. 2500. STUDI E RASSEGNE 125 immobiliari integri o meno l’art. 480 c.p. La lettera della norma incriminatrice, a ben vedere, non contiene richiami espliciti alla legge extrapenale. Ciononostante implicitamente sarebbe sempre possibile riscontrare un collegamento con essa. Ciò però equivale ad avallare l’interpretatio abrogans operata in giurisprudenza(85). Infatti, se alla fine è sempre possibile trovare un collegamento tra la norma penale e quella extrapenale e quindi ipotizzare un rapporto di incorporazione, tutti gli errori sulla seconda si trasformeranno in errori sul precetto penale e quindi, di fatto, non sussisterà mai un errore su legge diversa da quella penale che escluda la punibilità. Pur volendo applicare la tesi giurisprudenziale, perciò, onde tentare di evitare la più che fondata obiezione dell’interpretatio abrogans, si dovrebbe individuare un concreto parametro discretivo tra integrazione e non integrazione. Si dovrebbe cioè contenere il fenomeno dell’incorporazione solamente a quei casi in cui la norma extrapenale risulti direttamente richiamata da quella penale, mentre in tutti gli altri casi si applicherebbe l’art. 47, co. 3, c.p. Il concetto di incorporazione dovrebbe essere inteso restrittivamente e circoscritto a quelle ipotesi, per cosı̀ dire, di ‘‘integrazione esplicita’’. Solo per questa via si potrebbe arrivare ad attribuire un senso all’ultimo comma dell’art. 47 c.p. Posto ciò, ritornando al caso esemplificativo, non rinvenendosi nell’art. 480 c.p. un richiamo espresso alla norma extrapenale, l’errore su questa dovrebbe escludere la punibilità. Adottando invece la tesi scientifica secondo cui l’errore su norma extrapenale si trasforma sempre in errore sul precetto penale in ragione di una insita incorporazione tra le due norme, all’art. 47 co. 3 c.p. si riconosce la natura di vera e propria deroga all’art. 5 c.p., e, quindi, l’errore su un elemento normativo esclude indefettibilmente la punibilità. Pure cosı̀ allora si perviene ad escludere la punibilità del notaio che per lo stesso giudice ha errato nell’interpretazione della norma extrapenale. Le conclusioni non cambiano accedendo all’altro orientamento dottrinale. Secondo quest’impostazione, pur non costituendo l’art. 47 co. 3 c.p. alcuna deroga al principio dell’art. 5 c.p., l’elemento soggettivo doloso presuppone anche la cognizione di quelle ‘‘qualifiche’’ normative che fanno parte del fatto tipico. Mancando questa cognizione, nel contegno psicologico dell’agente fa difetto una componente essenziale della situazione realizzata ed egli perciò non è cosciente di compiere un fatto tipico, non vuole l’evento ‘‘significativo’’ del reato. Al fine di saggiare il pregio di questa tesi, si faccia l’ipotesi che il notaio abbia errato sul fatto materiale e che perciò per distrazione non si sia accorto della trascrizione del certificato di denunciata successione. Detta circostanza rientrerebbe nella previsione del primo (85) In tema si veda pure A. Lanzi, L’errore su legge extrapenale. La giurisprudenza degli ultimi anni e la non applicazione dell’art. 47 ult. comma c.p., in Indice pen., 1976, p. 299 ss. 126 STUDI E RASSEGNE comma dell’art. 47 c.p. e varrebbe certamente ad escludere la punibilità (86). Si ritorni ora al caso di specie in cui il notaio, pur essendo a conoscenza della trascrizione del certificato, ha ritenuto che dare conto del legato uxorio nell’attestato avrebbe costituito una violazione dei suoi obblighi, in base ad una valutazione di ordine strettamente giuridico che, del resto, trovava una serie di riscontri normativi, giurisprudenziali e scientifici. Orbene, i due contegni psicologici, l’uno di errore di fatto l’altro di errore su legge extrapenale, hanno lo stesso peso e pertanto non meritano un diverso trattamento (87). In entrambi i casi si deve escludere la punibilità, adottando rispettivamente le previsioni di cui al primo e al terzo comma dell’art. 47 c.p. Negare questa soluzione significherebbe attribuire all’errore su norma extrapenale lo stesso valore dell’ignorantia legis di cui all’art. 5 c.p., come a dire che il caso di specie potrebbe essere paragonato al disvalore proprio, ad esempio, della condotta di un notaio che in un atto pubblico consapevolmente attesti falsamente fatti, ignorando che detta condotta abbia rilevanza penale. È ovvio invece che le due ipotesi possiedono un peso eminentemente diverso e perciò non possono essere regolate nello stesso modo. In tema indicazioni imprescindibili sono dettate dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 che, onde evitare un contrasto col principio di colpevolezza, ha recuperato un equilibrio tra le opposte esigenze, da un lato, di salvaguardare detto principio e, dall’altro, di garantire l’efficacia della legge penale (88). Ai fini della colpevolezza, perciò, non è richiesta una compiuta conoscenza della norma penale. La errata supposizione di agire in assenza di una norma che incrimini la condotta non (86) La circostanza, del resto, è presa in considerazione nella sentenza in commento al fine di escluderla in quanto lo stesso notaio ha sempre dichiarato di aver avuto perfetta contezza della trascrizione del certificato di denunciata successione e di non averlo scientemente riportato nel suo attestato in base a un ragionamento interpretativo. (87) La medesima efficacia scusante del primo e del terzo comma dell’art. 47 c.p. è infatti fondata proprio sulla identità degli effetti psicologici ultimi. Se in conseguenza dell’errore su norma extrapenale l’agente si è rappresentato un fatto materiale diverso da quello tipico, allora il dolo è escluso, Se, viceversa, nonostante l’errore sulla legge diversa da quella penale, l’agente conserva intatta la consapevolezza del disvalore del fatto, allora l’elemento soggettivo doloso comunque sussisterà. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 387 ss. Al fine di determinare se l’agente si sia effettivamente rappresentato un fatto materiale diverso da quello vietato, è poi importante verificare se l’elemento normativo oggetto dell’errore su norma extrapenale appartenga o meno al fatto. Cosı̀ G. Flora, Errore, cit., p. 263. (88) La pronuncia della Corte costituzionale n. 364 del 24 marzo 1988, è pubblicata in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 686, con commento di D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza; nonché in Foro it., 1988, I, 1385 ss., con nota di G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘‘prima lettura’’ della sentenza n. 364/88; e in Legisl. pen., 1988, 449 ss., con nota di T. Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p. STUDI E RASSEGNE 127 esclude il dolo, a meno che l’ignoranza sia dipesa da un errore inevitabile e perciò scusabile (89). La portata di questo principio, che ha costituito un vero e proprio spartiacque, è del resto limitata all’ignoranza e all’errore su norme penali, ossia all’art. 5 c.p., proprio perché una delle esigenze tenute presenti è stata quella di salvaguardare l’efficacia appunto della legge criminale. Discorso diverso deve farsi ove l’errore cada su una norma extrapenale, ipotesi in cui le stesse considerazioni volte a garantire una maggiore partecipazione psicologica alla realizzazione del fatto pena il contrasto con il principio costituzionale della responsabilità personale colpevole, non trovano il contrario interesse della necessità di garantire un adeguato grado di efficacia, appunto, della legge penale(90). In sostanza, un conto è l’interesse dell’ordinamento ad assicurare la forza delle leggi incriminatrici che dovrebbero porsi a tutela dei beni più rilevanti, altra e meno pregnante cosa è l’interesse dello Stato a garantire l’efficienza delle norme extrapenali (91). Quest’ultimo pur esistente e importante interesse, però, non ha sicuramente la dignità sufficiente a giustificare il superamento, o lo ‘‘strappo’’, del principio costituzionale della responsabilità penale pienamente personale e colpevole. Posto ciò, si può concludere che anche e soprattutto alla luce dei principi costituzionali, la supposizione erronea di non realizzare il (89) Sul valore della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, si veda S. Moccia, Il diritto penale, cit., p. 141 ss., secondo cui il Giudice delle leggi ha inteso l’elemento soggettivo soprattutto in funzione tipicizzante. In questa prospettiva, perciò, ai fini della colpevolezza, la necessaria presenza del dolo, o della colpa, è un presupposto necessario ma non sufficiente. Se si vuole il riconoscimento pieno del principio di colpevolezza, a questo presupposto si deve accompagnare la valorizzazione della coscienza dell’illiceità, negata dall’art. 5 c.p. nella versione precedente all’intervento della Corte costituzionale. Il riconoscimento di una fattispecie soggettiva accanto ad una oggettiva, poi, secondo questa autorevole teoria comporta che l’errore di diritto scusabile fa venir meno la coscienza dell’illiceità e, perciò, rileva in termini di colpevolezza e non di fatto tipico, nel senso che chi versa in error iuris agisce con dolo ma senza colpevolezza. Responsabilità penale colpevole, o meglio responsabilità per fatto proprio, includendo in essa i requisiti soggettivi del fatto tipico, significa perciò ‘‘appartenenza’’ di un fatto ad un soggetto, sia in senso materiale sia in senso psicologico. Conferma dell’assunto è ricavata poi argomentando in termini di teoria della pena, nel senso che solo un fatto che sia ‘‘proprio’’ dell’agente, sia materialmente che psicologicamente, può costituire il legittimo fondamento di un’azione di integrazione sociale o, quantomeno, di non desocializzazione del reo. (90) La giustificazione, politica, del principio contenuto nell’art. 5 c.p. è infatti proprio quella di assicurare alla legge penale, e solo a questa, una efficacia il più possibile incondizionata. Cfr. C.F. Grosso, Errore (Diritto penale), cit. p. 8. Per un’ampia panoramica sulle questioni interpretative afferenti al principio di cui all’art. 5 c.p., si veda F.C. Palazzo, Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, p. 122 ss. (91) Nel bilanciamento tracciato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 364/ 1988, i doveri che il Giudice delle leggi ha tutelato, infatti, sono precipuamente quelli d’informazione o d’attenzione sulle norme penali al fine di scongiurare un atteggiamento d’indifferenza nei confronti della doverosa informazione, appunto, sull’esistenza e sulla portata delle norme incriminatrici. 128 STUDI E RASSEGNE fatto, qualora sia il frutto di un qualsiasi errore su norma extrapenale, esclude inevitabilmente il dolo, in quanto l’agente non è stato cosciente di cagionare l’evento ‘‘significativo’’ del reato. È ovvio poi che a fortiori non può sussistere alcun fatto doloso qualora detto errore su norma extrapenale sia scusabile perché provocato da elementi positivi che hanno convinto l’agente della liceità o addirittura doverosità extrapenale del suo operato. Detti elementi, riprendendo il caso esemplificativo, ben potrebbero essere desunti dal fatto, accertato dallo stesso giudice, che nei registri immobiliari effettivamente non v’era esplicita traccia della trascrizione dell’acquisto del legato, nonché dalla considerazione, unanime in giurisprudenza e in dottrina, che la denuncia di successione è atto avente funzione meramente fiscale, e che la stessa mera denuncia non rientra nel novero degli atti per i quali l’art. 2657 c.c. prevede la possibilità di trascrizione. Posto che responsabilità penale colpevole, o per meglio dire responsabilità personale per fatto proprio, è sinonimo di ‘‘appartenenza’’ materiale e psicologica di un fatto ad un soggetto, la condanna nel caso di specie è un esempio eclatante delle incoerenze che ancora esistono nella pratica giurisprudenziale rispetto alla funzione costituzionalmente orientata dalla pena, volta all’integrazione sociale o, quantomeno, alla non desocializzazione (92). Per chi non s’è reso conto di realizzare il fatto tipico, invero, non è ipotizzabile alcuna integrazione sociale e la condanna ha sicuri effetti desociallizzanti. Mario Caterini (92) S. Moccia, Il diritto, cit., p. 109 ss., passim.